Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

 

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

LA MAFIOSITA’

SECONDA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE


 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ascesa di Matteo Messina Denaro.

L’Arresto di Matteo Messina Denaro.

La Morte di Matteo Messina Denaro.


 

SECONDA PARTE


 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lotta alla mafia: lotta comunista.

L’inganno.

Le Commissioni antimafia e gli Antimafiosi.

I gialli di Mafia: Gelsomina Verde.

I gialli di Mafia: Matteo Toffanin.

I gialli di Mafia: Attilio Manca.

Gli Affari delle Mafie.

La Mafia Siciliana.

La Mafia Pugliese.

La Mafia Calabrese.

La Mafia Campana.

La Mafia Romana.

La Mafia Sarda.

La Mafia Abruzzese.

La Mafia Emilana-Romagnola.

La Mafia Veneta.

La Mafia Lombarda.

La Mafia Piemontese.

La Mafia Trentina.

La Mafia Cinese.

La Mafia Indiana.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

La Mafia Canadese.


 

TERZA PARTE


 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Stragi di mafia del 1993.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: l’Arresto di Riina.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio. La Trattativa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio. La Trattativa-bis: “’Ndrangheta stragista”. 

Gli Infiltrati.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Delitto di Piersanti Mattarella.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Delitto di Pio La Torre.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Strage di Alcamo.


 

QUARTA PARTE


 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Concorso esterno: reato politico fuori legge.

La Gogna Territoriale.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ipocrisia e la Speculazione.

Il Caporalato dei Giudici Onorari.

Il Caporalato dei fonici, stenotipisti e trascrittori.

Il Caporalato della Vigilanza privata e Servizi fiduciari - addetti alle portinerie.

Il Caporalato dei Fotovoltaici.

Il Caporalato dei Cantieri Navali.

Il Caporalato in Agricoltura.

Il Caporalato nella filiera della carne.

Il Caporalato della Cultura.

Il Caporalato delle consegne.

Il Caporalato degli assistenti di terra negli aeroporti.

Il Caporalato dei buonisti.


 

QUINTA PARTE


 

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Usura.

Dov’è il trucco.

I Gestori della crisi d’impresa.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Pentiti. I Collaboratori di Giustizia.

Il Business delle Misure di Prevenzione.

I Comuni sciolti ed i Commissari antimafia.

Le Associazioni.

Il Business del Proibizionismo.

I Burocrati.

I lobbisti.

Le fondazioni bancarie.

I Sindacati.

La Lobby Nera.

I Tassisti.

I Balneari.

I Farmacisti.

Gli Avvocati.

I Notai.


 

SESTA PARTE


 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La P2: Loggia Propaganda 2.

La Loggia Ungheria.

Le Logge Occulte.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Ladri di Case.


 

LA MAFIOSITA’

SECONDA PARTE


 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Salve. E’ da anni che studio ed approfondisco il tema del fenomeno mafioso, senza essere gossipparo o partigiano.

Dagli atti e dalle fonti ufficiali ho scoperto che “La Mafia”, in Italia artatamente costruito come segno distintivo degli italiani meridionali in Italia e come etichetta denigratoria degli italiani all’estero, è uno strumento di potere politico-economico usato da qualcuno a danno di altri, col mezzo dei media finanziato dai poteri forti (mafiosi).

In Italia nulla è come appare. Ho scritto 450 saggi di inchiesta. Per quanto riguarda “La Mafia”

ho scritto:

Mafiopoli in varie parti;

La Mafia in Italia;

Contro tutte le Mafie in varie parti;

La Mafia dell’Antimafia in varie parti;

Mafia, la colpa degli innocenti;

Usuropoli e Fallimentopoli in varie parti;

Massoneriopoli in varie parti;

Castopoli;

Caporalato ed Ipocrisia;

Questi libri hanno gli aggiornamenti annuali.

Quello di quest’anno, ultimo della collana, le consiglio di leggerlo, ordinandolo in E-book su Google libri (parzialmente gratuito) e cartaceco su Lulu.com. Come tutti gli altri testi.

Lo può fare da lunedì ed è il più aggiornato.

Esso si chiama: Anno 2023 la Mafiosità, diviso in 6 parti.

I libri di Antonio Giangrande li può trovare sui siti indicati o cercando il nome Antonio Giangrande e il nome del titolo.

Antonio Giangrande: Io non capisco chi critica o ignora la condivisione di una mia opera nel diario della mia pagina e nel gruppo di cui sono fondatore ed amministratore.

Quando si parla di mafia ognuno pensa che basti proferire il nome e di colpo saperne tutto di essa.

La mafia è una coltura che rigoglisce in una apposita cultura. Io studio la cultura per conoscere meglio la coltura. Quell’aspetto della cultura che nessuno fa conoscere.

Mi presento. Dr Antonio Giangrande. Scrittore (scrivo saggi letti in tutto il mondo e studiati come testi in tesi universitarie). Sociologo storico (studio i comportamenti umani correlati tra loro rispetto a tempo, spazio e tema), Giurista (competenza legislativa e verifica anche sull’operato dei magistrati). Blogger e Youtuber (uso di tutti i sistemi contemporanei tecnologici per divulgare le mie opere e promuovere i territori. Chi fa parte della mia cerchia di amici o iscritti ai miei canali youtube lo fa per essere aggiornato). Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS (inserito nel sistema dell’antimafia per conoscere e per sapere. Ma sono quel tipo di antimafia che sta dalla parte del torto, perchè i posti della parte della ragione son tutti occupati). Assolutamente Libero (non foraggiato o promosso da alcuno).

Se si pensa che nei miei post io promuova me stesso e non si capisce il senso dell’oggetto in promozione, vuol dire che, in mala fede o per ignoranza, si guarda il dito e non si attenziona la luna.

Non ho bisogno di promuovermi attraverso i miei post. Basta digitare il mio nome sui motori di ricerca e compariranno 200.000 siti web che parlano di me. Ogni giorno 10.000 lettori aprono un mio libro e leggono gratuitamente su “Google Libri” centinaia di migliaia di pagine. Altrettanti sono gli utenti che vedono i miei video ogni giorno.

Dopo Twitter e Linkedin, Facebook è il più fallimentare dei miei canali di divulgazione. Lì la gente parla, ma non ascolta, né impara. I miei amici sono pochi e selezionati e dopo un anno sono cancellati. Li seguo e mi seguono. Imparano da me ed io imparo da loro. I veri amici, dopo essere stati cancellati, richiedono l’amicizia con ostinazione. I veri amici sostengono e perdonano…

Sono presuntuoso ed arrogante? No! Sono diverso? Sì e ne sono orgoglioso.

Per il fatto di essere conosciuto ed apprezzato, pur non potendo risolvere alcun problema, sono destinatario di tantissime storie e preghiere d’aiuto e richieste di consigli. Queste storie mi rendono conoscitore e sapiente. Queste storie mi fanno conoscere tutte le mafie. Se un’opera da me prodotta, è da me promossa per essere conosciuta, è per far capire che tutte le storie sono collegate tra loro: tutto è frutto del sistema marcio.

Ma c’è sempre chi è, per egocentrismo o per ignoranza, refrattario alla verità. Come si dice, non c’è più sordo di chi non vuol sentire.

Chi chiede la mia amicizia è perché ha letto quello che io ho scritto per esempio sulla sua regione o città, oppure sulla sua professione o stato sociale, o addirittura ha letto il suo nome perché io disinteressatamente mi sono interessato alla sua storia e ho raccontato quello che, fino ad allora, non si era detto.

Quello della biografia fatta da Giangrande è cosa che ambiscono in tanti, troppi…fino a creare astio quando l’ambizione non si realizza.

Comunque, per chi non mi conosce: piacere, sono Antonio Giangrande.

Se qualcuno si è accorto di aver sbagliato persona può togliermi l’amicizia da subito, senza aspettare la naturale scadenza dell’anno.

Antonio Giangrande: Tommaso Buscetta: “Cosa Nostra ha costituzione piramidale. La famiglia mafiosa prendeva il nome dal paese di origine. Tre famiglie contigue formavano il mandamento. I mandamenti formavano la Commissione provinciale o Cupola, i cui rappresentanti formavano la Commissione interprovinciale o Cupola. Di fatto i mafiosi non votavano la DC in quanto tale, ma votavano e facevano votare ogni partito che non fosse il Partito Comunista”. Per questo i comunisti, astiosi e vendicativi, ritengono mafiosi tutti coloro che non sono comunisti o che non votano i comunisti. Tenuto conto che al Sud i moderati hanno maggiore presa, in tutte le loro declinazioni, anche sinistri, ecco la gogna territoriale o familiare o come scrive Paolo Guzzanti: Il teorema della mafiosità ambientale.

L’accanimento prende forma in varie forme:

Il caso del delitto fantastico di “concorso esterno”.

Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.

La Mafia delle interdittive prefettizie che alterano la concorrenza.

Lo scioglimento dei Consigli Comunali eletti democraticamente.

Roberto Saviano, l'ossessione della destra mafiosa: l'ultima sparata. Libero Quotidiano il 02 ottobre 2023

Ormai un appuntamento quasi quotidiano, quello col sermone di Roberto Saviano. L'ultimo capitolo ha trovato diritto di cittadinanza sulle pagine de La Stampa, un dialogo-fiume con il direttore della testata, Massimo Giannini. E dopo le parole di mister Gomorra all'indomani della morte di Matteo Messina Denaro, parole con le quali di fatto ed in estrema sintesi ha bollato gli italiani come popolo mafioso, ecco che Saviano tradisce nuovamente la sua ossessione per la destra mafiosa.

La morte del boss. Con la morte di Matteo Messina Denaro seppelliamo anche la peggiore antimafia. Ha ragione il presidente Grasso quando commenta che la morte del boss di Castelvetrano chiude un’era, ma non chiude la lotta a “cosa nostra”. Alberto Cisterna su L'Unità il 26 Settembre 2023

E ora? La morte di Messina Denaro chiude per sempre le porte di guerra del tempio di Giano spalancate da “cosa nostra” con le stragi del 1992 e 1993 e si porta – dovrebbe portarsi – con sé negli abissi anche un pezzo sostanzioso della peggiore antimafia. Quella retorica, chiacchierona, complottista, con le mani in pasta in rivoli di denaro pubblico sperperati, in buona parte, in celebrazioni, musei, pubblicazioni, festival, osservatori, commissioni e centri studi di varia natura.

Messina Denaro, quanto meno sotto il profilo della legittimazione storica, politica e anche morale si trascina nella tomba una postura, un linguaggio e, in fin dei conti, un’ideologia che grandi danni ha cagionato alla lotta alla mafia quanto meno negli ultimi 15 anni. Se e vero, come è vero, che al di là di ipotesi, dietrologie, azzardi vari, nessuno è da tempo in grado di dire con una certa serietà dove siano le mafie – quelle importanti – di cosa si stiano occupando, dove davvero siano custoditi (se esistono) i miliardi di euro delle sue spettacolari ricchezze.

Calata si spera la cortina fumogena che, per troppo tempo, ha inquinato la comprensione dei fenomeni, messe da parte ipotesi di complotti e di inconfessabili trattative, lasciati i morti a seppellire i morti, si può guardare un po’ più fiduciosi a un cambio di passo, a un reset delle analisi finora andate in voga e a un approccio finalmente serio, documentato, attendibile sull’evoluzione della criminalità mafiosa in Italia. Per molto tempo ha avuto ragione chi, in assoluta solitudine (a esempio Aldo Varano. Quell’inutile Commissione antimafia che serve solo per “sistemare” qualche parlamentare, su Il Dubbio del 31.5.2023) ha puntato il dito contro la sostanziale inutilità della Commissione parlamentare antimafia che, per legislature e legislature, si è spesso limitata a operare da cassa di risonanza mediatica e carrieristica di alcune indagini e di alcuni pubblici ministeri, rinunciando al ruolo che le compete di commissione d’inchiesta, proiettata non verso la rimasticatura di informative di polizia, ma a orientare il Parlamento nella sua insostituibile attività di propulsore dell’attività di prevenzione e repressione dei fenomeni mafiosi.

Se, del caso, anche ascoltando le proposizioni di quanti, in contrapposizione alla main stream mediatica, ritengono che ci siano responsabilità enormi della lotta alla mafia in questo paese da imputare, in parte ragguardevole, a chi volgendo lo sguardo perennemente al passato ha trascurato di comprendere quale fosse l’evoluzione futura dei potentati mafiosi. Ecco la morte di Messina Denaro – come un tragico Commentatore che trascina con sé nelle fiamme il don Giovanni di Mozart – potrebbe consentire il lento, ma indispensabile affrancarsi della vera antimafia da un fardello tanto pesante quanto inutile perché inadeguato, stantio, ammuffito da celebrazioni, decorazioni, pubblicazioni in gran parte autocelebrative. Ha ragione il presidente Grasso quando commenta che la morte del boss di Castelvetrano chiude un’era, ma non chiude la lotta a “cosa nostra”.

Il punto è, però, da dove partire. Ossia come riannodare le fila di strategie investigative troppe volte finite – almeno dal 2008 all’epoca della rilevante collaborazione di Gaspare Spatuzza – nelle mani di pentiti di terza e quarta fila, di opachi rigattieri di informazioni orecchiate, di fumisterie complottistiche. Il tutto aggravato dal grido d’allarme lanciato dal procuratore nazionale Melillo a proposito dell’inefficacia degli strumenti d’intercettazione, dell’inadeguatezza delle tecnologie a disposizione delle forze di polizia rispetto ai mezzi di comunicazione dei clan, della perdita di un prezioso canale di acquisizione delle prove.

Con una stagione delle collaborazioni di giustizia quasi alla bancarotta (quanto meno per le più rilevanti e strategiche penetrazioni investigative) e con le intercettazioni al capolinea dell’obsolescenza tecnica, nessuno dice quali debbano essere le nuove modalità d’approccio, quali i protocolli da reinventare, quanto spazio possa avere, a esempio, lo strumento degli agenti sotto copertura che pochissimi uffici giudiziari utilizzano e che pur ha dato (si veda la recente indagine della procura di Trento sul riciclaggio dei narcodollari) risultati di assoluto rilievo.

Insomma, il male incurabile che ha stroncato anzitempo la vita dell’appena sessantenne Messina Denaro, potrebbe rivelarsi un bene di inestimabile valore per quanti ritengono che le mafie e le loro propaggini istituzionali, politiche e soprattutto economiche si siano troppo avvantaggiate delle “prediche inutili” degli officianti di una certa antimafia e che sia giunto il momento di volgere lo sguardo a un ignoto presente e a un futuro gravido di troppa materia oscura e poche stelle. Alberto Cisterna 26 Settembre 2023

Cosa Nostra, storia nostra: una lunga epopea italiana. L'Indipendente il 24 luglio 2023.

Cosa Nostra muta fisionomia, ridefinisce le sue strutture, si evolve (e involve) ciclicamente fin da quando – più di 75 anni fa – venne ufficialmente battezzata come associazione di criminalità organizzata e dotata di una Commissione, detta “Cupola”, per gestire i rapporti interni e dividere gli affari tra le cosche.

Oggi la mafia palermitana, che ha fortemente risentito dell'ondata di arresti che ha coinvolto i suoi capi storici e di coloro che ne hanno raccolto lo scranno del comando in tempi più recenti, ha dovuto ripensare alle modalità di autogoverno, provvedendo a redistribuire il pot...

"Cosa nostra" dalle origini ad oggi: storia della mafia e dei suoi protagonisti. Storia della mafia e delle vicende di "cosa nostra", dalle origini a oggi. Spiegazione e protagonisti del fenomeno mafioso. Michele Tommasi su studenti.it 

Frase celebre

“Quando la pianta è ancora piccola è più facile raddrizzarla. Più cresce storta, più sarà difficile farlo dopo. Anche da piccoli si può combattere contro il mostro. Abituarsi alle prepotenze, scambiarle per leggi giuste, è già un modo di perdere la guerra. Difendere le proprie figurine è già un modo per vincerla.” Luigi Garlando

1 Cos’è la mafia?

Falcone e la lotta alla mafia“. La mafia è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”: sono parole celebri di Giovanni Falcone, il magistrato che più di tutti in Italia ha contribuito alla lotta alla mafia - fino a diventarne un simbolo - prima di venire barbaramente ucciso in un brutale attentato nel maggio del 1992, che così rispondeva ad un giornalista che gli domandava se fosse possibile per lo Stato italiano sconfiggere definitivamente la potente organizzazione criminale nata in Sicilia e nota con il nome di “Cosa nostra”. 

La mafia, un fenomeno storico. Falcone, palermitano d’origine, riteneva che il fenomeno mafioso non fosse qualcosa di “naturale” ma fosse un fenomeno storico, derivato da precise cause e con precise conseguenze: tuttavia per lungo tempo la storia e l’esistenza stessa di Cosa nostra sono state ridimensionate se non addirittura negate, tanto che solo in tempi relativamente recenti, tra gli anni ‘80 e ‘90, lo Stato e l’opinione pubblica hanno preso piena consapevolezza del fenomeno mafioso adottando adeguate strategie di contrasto.   

Storia di Cosa nostra: parte integrante della storia italiana. Oggi si può affermare che, per le sue implicazioni, la storia di Cosa nostra sia parte integrante della storia italiana contemporanea, per il modo in cui la sua evoluzione ha seguito quella più generale del paese, e che dalla storia della mafia siciliana emerga con chiarezza anche la sua più particolare caratteristica, il suo legame costitutivo con parte del potere e della politica, che rappresentano tuttora il lato più controverso e oscuro della sua attività criminale e uno dei principali motivi del suo sviluppo e della sua affermazione nel corso del tempo.

2. Le origini di “Cosa Nostra”: dall’Ottocento al fascismo

I gabellotti. Le origini di Cosa nostra affondano nelle realtà agricole siciliane dell’800: già prima dell’Unità d’Italia i grandi feudatari siciliani affidavano la totalità o una parte dei propri terreni ai “gabellotti”, che gestivano i fondi agricoli e li amministravano esercitando la propria autorità, anche con la violenza e l’intimidazione, sui contadini.

Le campagne siciliane nell’OttocentoQuesta particolare classe sociale era l’unica a girare a cavallo armata nelle campagne siciliane, e alcuni di questi, crescendo di importanza, erano giunti ad organizzarsi ed affiliarsi per controllare quanto più possibile i terreni e le attività sul territorio per il proprio profitto attraverso l’adozione di metodi illegali e violenti. 

La mafia e l’Unità d’Italia. Dopo l’Unità d’Italia la situazione nelle campagne siciliane era rimasta la stessa: i grandi latifondi avevano resistito al cambiamento così come i soggetti che li controllavano, mentre il neonato Stato Italiano fatica ad estendere la sua autorità su un territorio periferico come quello siciliano.

Il termine "mafia" in un'inchiesta parlamentare del 1876. In questo contesto il termine “mafia” appare in un’inchiesta parlamentare del 1876 dei deputati Sonnino e Franchetti sulle condizioni politiche e sociali dell’isola, che descrive i metodi brutali con cui i gruppi mafiosi mantengono il territorio sotto controllo esercitando il proprio potere e i propri interessi fuori dalla legge dello Stato. 

Il rapporto Sangiorgi. Nel 1900 il questore di Palermo Ermanno Sangiorgi compila una serie di rapporti in cui fa un resoconto completo e dettagliato delle attività della mafia di allora: ne delinea la sua divisione in cosche - ovvero in gruppi di famiglie legate gerarchicamente ad un capo - le attività illecite e i metodi violenti - in particolare le estorsioni e i ricatti - e i rapporti che le cosche intrattengono con alcune famiglie della nobiltà siciliana, che si servono della mafia per tenere a freno le rivendicazioni sociali e salariali dei braccianti. Tuttavia il processo che seguirà alle denunce di Sangiorgi si concluderà con un nulla di fatto e nessuna condanna di rilievo.

Il fascismo e la mafia. Nonostante quindi il fenomeno sia già conosciuto per il momento lo Stato italiano fatica a contrastarlo: con l’avvento del fascismo le cose sembrano cambiare quando Mussolini, nel 1924, invia il prefetto Cesare Mori - soprannominato “il prefetto di ferro” - in Sicilia con lo speciale incarico di sradicare definitivamente Cosa nostra dal territorio dell’isola: i ruvidi metodi di Mori, non molto amati dalla popolazione siciliana, ottengono inizialmente dei risultati; con il tempo però l’attività di contrasto si indebolisce mentre lo stesso regime fascista viene sempre più spesso infiltrato da personalità contigue o affiliate al sistema mafioso.

3 La Mafia dal dopoguerra agli anni ‘80: la crescita e la trasformazione di “Cosa Nostra” 

La mafia nel dopoguerra. Nel 1943 le truppe angloamericane sbarcano in Sicilia e il fascismo crolla: Cosa nostra sfrutta abilmente l’occasione e il caos dell’invasione per riacquisire il suo potere, riuscendo a far nominare molti suoi uomini all’interno delle nuove amministrazioni comunali che si insediano al posto di quelle fasciste. 

La Sicilia vive un momento turbolento. Nell’immediato dopoguerra la Sicilia vive un momento turbolento e la questione agraria sulla proprietà dei terreni crea forti tensioni sociali: è forse per questo che esponenti mafiosi il 1° maggio 1947 sparano su una folla di contadini, provocando 11 morti in quella che diventerà nota come la Strage di Portella della Ginestra. 

La speculazione edilizia. Con l’inizio degli anni ‘50 e del boom economico, anche a causa della riforma agraria, l’attività mafiosa inizia a spostarsi dalle campagne verso le città. I grandi appalti pubblici per la costruzione di edifici e infrastrutture rappresentano un'ottima occasione di business per Cosa Nostra, che può contare su nuovi rapporti con la politica locale e nazionale. 

Il "sacco di Palermo". La città di Palermo diverrà il simbolo della speculazione edilizia condotta dalla mafia, in Sicilia e non solo: tra gli anni ‘50 e ‘60 infatti intere zone storiche del capoluogo siciliano verranno demolite per lasciare il posto a una cementificazione selvaggia, speculazione che diventerà nota con l’espressione “Sacco di Palermo”. 

Il traffico di stupefacenti. In questo periodo le attività mafiose iniziano a superare la tradizionale dimensione regionale siciliana e si proiettano verso il resto del territorio nazionale e l’estero: oltre che all’edilizia Cosa nostra si interessa sempre più al traffico internazionale degli stupefacenti, un gigantesco affare che frutta quantità enormi di denaro oltre che legami con la criminalità organizzata di mezzo mondo, i cui proventi illeciti vengono riciclati attraverso rapporti con importanti settori dell’economia e della finanza. 

Quota maggioritaria nel narcotraffico mondiale. Con il tempo Cosa Nostra otterrà una quota maggioritaria nel narcotraffico mondiale, che diventerà la principale attività mafiosa tra gli anni ‘70 e ‘80, cambiando definitivamente il profilo dell’organizzazione. 

La prima guerra di Mafia. Se Cosa nostra si dimostra capace di cambiare pelle e adeguarsi ai tempi, a non cambiare sono i metodi violenti e spietati con cui l’organizzazione fa valere il suo primato criminale: l’intimidazione e l’omicidio valgono sia per i nemici esterni che ne intralciano l’attività sia all’interno dell’organizzazione, dove non mancano contrasti tra le diverse famiglie che si contendono il suo comando. All’inizio degli anni ‘60 inizia una prima guerra tra clan rivali, che suscita clamore per la brutalità, il numero di vittime e le ritorsioni che si lascia alle spalle.

Il contrasto dello StatoIn questa fase la reazione dello Stato rispetto a questi sviluppi dell’attività mafiosa non è sempre adeguata: nel 1963 si insedia la prima Commissione Parlamentare Antimafia, con il compito di raccogliere dati e notizie e suggerire strategie di contrasto al fenomeno mafioso, ma la cui attività, almeno inizialmente, sarà piuttosto ridotta.

Importanti processi negli anni '60. Alla fine degli anni ‘60 si svolgono alcuni importanti processi che vedono alla sbarra importanti capi di Cosa Nostra, ma che si concluderanno con condanne molto lievi o con complete assoluzioni; in questo periodo a livello pubblico, per sottovalutazione del fenomeno, omertà o connivenza, è la stessa esistenza della Mafia ad essere ancora messa in discussione o addirittura negata.

4 Gli anni ‘80 e ‘90: la guerra con lo Stato e la strategia stragista 

La seconda guerra di Mafia. All’inizio degli anni ‘80, mentre Cosa nostra sta diventando un’autentica multinazionale del crimine, si scatena una seconda lotta intestina al suo interno: il clan emergente è quello dei Corleonesi, che al termine di una sanguinosa guerra riesce ad ottenere il controllo dell’organizzazione criminale.

La strategia militare dei Corleonesi. La strategia militare dei Corleonesi è chiara, e mira all’eliminazione fisica dei propri nemici, oltre che interni, esterni: è così che tra il 1979 e il 1982 Cosa Nostra commette una serie di omicidi eccellenti, come quelli del deputato Pio La Torre, del presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa; personalità che in diversi modi si erano impegnate nel contrasto all’attività mafiosa.

La reazione dello Stato: introduzione del reato di associazione mafiosa. Questi ultimi efferati delitti scuotono profondamente l’opinione pubblica e lo Stato, che decide di iniziare a reagire contrastando più duramente la mafia: nel 1982 il Parlamento approva l’introduzione nel codice penale dell’articolo 416 bis, che introduce il reato di associazione mafiosa e consente la confisca dei patrimoni mafiosi; 

e la nascita del primo "pool antimafia"nel 1983 nasce inoltre il primo “pool antimafia”, che riunisce i magistrati palermitani che si occupano di indagini su Cosa Nostra favorendone il lavoro e la condivisione di informazioni. E’ così che un gruppo di giudici, tra cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, iniziano a collaborare attivamente con l’obiettivo comune di sconfiggere l’organizzazione criminale. 

I pentiti di mafia. In questo periodo un ulteriore contributo nella lotta alla Mafia viene dai pentiti, perlopiù provenienti dalla file delle famiglie mafiose sconfitte dai Corleonesi, che decidono di iniziare a collaborare con le istituzioni e raccontare i segreti di Cosa Nostra in cambio di protezione o di condanne più lievi.

Il pentito Tommaso BuscettaIl più conosciuto tra questi è Tommaso Buscetta, che dopo l’arresto nel 1983 deciderà di iniziare a collaborare con i giudici palermitani: le sue testimonianze saranno fondamentali per far luce su molti aspetti dell’organizzazione mafiosa e per l’individuazione di molti responsabili di delitti di mafia, sul cui sfondo rimangono gli oscuri rapporti con la politica e le istituzioni.

Il Maxiprocesso di Palermo. Il lavoro dei magistrati palermitani, grazie anche alle confessioni dei pentiti come Buscetta, porterà all’istituzione del “maxiprocesso” di Palermo: nel 1986 saranno oltre 470 i mafiosi alla sbarra accusati dei numerosi crimini di Cosa Nostra. Un enorme processo, molto seguito dalla stampa e dall’opinione pubblica, che si concluderà definitivamente solo diversi anni dopo con una serie di durissime condanne, tra cui 19 ergastoli, inflitte a molti dei maggiori esponenti dell’organizzazione mafiosa. Nonostante questo indubbio risultato tuttavia il “maxiprocesso” non riuscirà a far pienamente luce sui rapporti tra Cosa Nostra e la politica.

Le stragi del 1992-1993. Ancora lontana dall’essere sconfitta Cosa Nostra reagirà alle condanne inaugurando una nuova stagione stragista: a pagare con la vita saranno anzitutto i giudici Falcone e Borsellino, uccisi in due attentati, insieme agli uomini che componevano le loro scorte, tra il maggio e il luglio del 1992, a cui seguiranno diversi altri attentati, fino alla metà del 1993, indirizzati a intimidire le istituzioni e l’opinione pubblica. 

Gli attentati sono oggetto di cronaca di indagini giudiziarie. Attentati che sono ancora oggi oggetto della cronaca, oltre che di indagini giudiziarie, anche per una presunta - e se confermata inquietante -  trattativa segreta tra Cosa Nostra e lo Stato che si sarebbe svolta contestualmente alle stragi con l’obiettivo di porre fine al contrasto tra i due soggetti. 

Cosa Nostra oggi. Nonostante l’arresto di due storici boss legati al clan dei Corleonesi, Totò Riina e Bernardo Provenzano, e l’abbandono della strategia stragista adottata all’inizio degli anni ‘90, Cosa Nostra è a tutt’oggi un’organizzazione criminale viva e attiva in Italia e all’estero, che continua a intessere rapporti con la politica e l’economia e a condizionare la società siciliana e quella italiana. Come evidenziato recentemente dalle Commissioni Antimafia, Cosa Nostra ha preferito negli ultimi anni una “strategia della sommersione”, preferendo agire sottotraccia per realizzare le sue attività criminali senza suscitare allarme e clamore.

5 Donne di mafia

Le donne: protagoniste degli affari mafiosi. Convenzionalmente si pensa alla mafia come a un'organizzazione criminale maschile dalla quale le donne sono escluse; in realtà il modello siciliano rispecchia la società patriarcale del territorio, mentre le organizzazioni di stampo mafioso si sono sempre avvalse della collaborazione di donne e alcune di loro arrivano a ricoprire ruoli di potere: in alcuni processi per mafia di inizio ‘900 alcuni imputati erano donne come autrici di reati in prima persona.

Il ruolo criminale della donna nella mafia. Generalmente le donne di mafia sono riconducibili a due ruoli rigidamente definiti: possono essere le religiosissime compagne di un uomo di rispetto, altrettanto osservante, e interpreti dirette del codice mafioso, oppure possono essere delle madrine, cioè responsabili di organizzazione e azioni criminose, se non addirittura supplenti al potere del boss, quando questo è stato arrestato o è latitante.

6 Storia della mafia: domande frequenti

Concetti chiave

Cos’è la mafia?

“Cosa Nostra” è un’organizzazione criminale nata in Sicilia nel XIX secolo, la cui presenza ha condizionato e condiziona tuttora la società, la politica e l’economia italiana.

Per lungo tempo la pericolosità, insieme alla sua storia, è stata sottovalutata o addirittura negata, e solo a partire dagli anni ‘80 del Novecento l’opinione pubblica e le istituzioni hanno messo in atto adeguate strategie di contrasto.

Le origini di “Cosa Nostra”: dall’Ottocento al fascismo

Cosa nostra nasce nel contesto della realtà agricola siciliana nel XIX secolo, strutturandosi come un’organizzazione per il controllo del territorio con metodi illegali.

Il fenomeno è noto alle istituzioni fin dal periodo dell’Unità d’Italia, ma il neonato Stato italiano non riesce a impedirne la sua radicazione.

Il fascismo proverà a contrastare l’organizzazione con l’invio in Sicilia del prefetto Mori nel 1924, ma i risultati della sua azione saranno solamente parziali.

La Mafia dal dopoguerra agli anni ‘80: la crescita e la trasformazione di “Cosa Nostra”

Nel secondo dopoguerra Cosa nostra riesce a recuperare la sua egemonia sul territorio, sfruttando la situazione politica e sociale siciliana.

Con gli anni ‘50 e l’inizio del boom economico l’organizzazione inizia a mutare la sua fisionomia, spostando la sua attività criminale dalle campagne alle città - in particolare con la speculazione edilizia - e assumendo un carattere nazionale.

L’altro grande business criminale sarà il traffico internazionale degli stupefacenti, di cui Cosa nostra otterrà una quota maggioritaria tra gli anni ‘70 e ‘80. Il traffico di droga frutterà all’organizzazione enormi profitti.

Il contrasto dello Stato italiano tra gli anni ‘60 e ‘70 non sarà tuttavia efficace, anche per la sottovalutazione pubblica del fenomeno, l’omertà e le connivenze con la politica e le istituzioni di cui l’organizzazione si serve.

Gli anni ‘80 e ‘90: la guerra con lo Stato e la strategia stragista

All’inizio degli anni ‘80 si scatena una sanguinosa lotta interna a Cosa nostra, che porta la fazione dei Corleonesi al comando dell’organizzazione.

Nello stesso periodo Cosa nostra commette alcuni clamorosi omicidi di uomini delle istituzioni e dello Stato impegnati nel suo contrasto, che causano clamore nell’opinione pubblica e provocano la reazione dello Stato.

Nel 1982 viene introdotto il reato di associazione di stampo mafioso, e viene costituito il primo pool antimafia, che riunisce i giudici siciliani che si occupano di mafia.

Il lavoro di giudici come Falcone e Borsellino, insieme alle confessioni dei pentiti, porterà al “maxiprocesso” di Palermo, che nel 1986 porterà a dure condanne contro numerosi boss mafiosi.

Cosa nostra reagirà con una strategia stragista, uccidendo i due giudici nel 1992 e realizzando una serie di attentati che sono ancora oggi oggetto di indagini giudiziarie.

Negli ultimi anni Cosa nostra, ben lontana dall’essere sconfitta, ha scelto una “strategia della sommersione”, evitando azioni clamorose per non suscitare allarme e poter continuare a realizzare la sua attività criminale.

Lo Stato, la mafia e il bene comune, da Sciascia a via D’Amelio. Come spesso accade quando si disquisisce di mafia e chiunque abbia un ruolo nella vita pubblica viene colto dall’irrefrenabile desiderio di appuntarsi sul petto una medaglia al valore che possa fruttare in termini di consenso e/o di visibilità. SERGIO LORUSSO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 luglio 2023.  

Può apparire strano, eversivo e provocatorio che il Ministro della giustizia, nell’imminenza dell’anniversario della strage di via Amelio che costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta, affermi che il concorso esterno in associazione mafiosa «non esiste come reato», lo definisca un ossimoro, «perché o si è dentro o si sta fuori e concorrere dal latino vuole dire stare dentro», «se sei concorrente non sei esterno e se sei esterno non sei concorrente», lo ritenga una «formula abbastanza evanescente», preannunciandone la rivisitazione con l’introduzione di una norma ad hoc che superi le incertezze applicative manifestatesi nel corso degli anni.

In realtà il tutto nasce dalla storia controversa di questa fattispecie, ben nota agli addetti ai lavori ma non anche ai comuni cittadini che possono essere tratti in inganno dalle parole del guardasigilli e, soprattutto, dal loro utilizzo strumentale.

Come spesso accade quando si disquisisce di mafia e chiunque abbia un ruolo nella vita pubblica viene colto dall’irrefrenabile desiderio di appuntarsi sul petto una medaglia al valore che possa fruttare in termini di consenso e/o di visibilità.

In breve, il concorso esterno non è nei codici ma è il prodotto di un’elaborazione giurisprudenziale, cristallizzata in una sentenza della Corte di cassazione del 1994 che «fonde» due norme per dare copertura a un’area grigia di illecito altrimenti non coperta dalla nostra legislazione. È questo il punto.

Perché la vera questione è che una previsione del genere risulta paradigmatica di quel rimescolamento dei rapporti leggi e giudici che costituisce un tratto identitario della giustizia penale della post-modernità: come afferma un autorevole giurista, che ha dedicato tantissimi studi alla materia dei reati associativi, la partecipazione criminosa costituisce uno strumento formidabile «di dilatazione della discrezionalità giudiziale», che consente di assegnare in maniera inappropriata a quest’ultima le scelte in materia di incriminazione riservate dall’ordinamento al legislatore (Gaetano Insolera, 1995). Con buona pace dei principi (cardine) di determinatezza e di tassatività e, dunque, del principio di legalità.

È in questo quadro che vanno calate le dichiarazioni di Carlo Nordio, con un atteggiamento laico e scevro da pregiudizi e condizionamenti, considerando peraltro che il ministro è – e continua ad essere – più un giurista che un politico, dunque poco attento ai contesti e ai momenti in cui esprime le proprie opinioni, consolidate e reperibili nei suoi scritti, talvolta risalenti. A differenza di Giorgia Meloni, politica pura, che non a caso si è premurata di intervenire precisando tempestivamente che è preferibile concentrarsi su altre priorità e «contrattaccando» con l’annuncio di un prossimo decreto-legge che dovrebbe contenere l’interpretazione autentica del concetto di «reato di criminalità organizzata» al fine di scongiurare i possibili effetti negativi derivanti da una recente (ma non recentissima) sentenza della Cassazione (34895/2022).

Il tutto a riprova dell’immutato interesse del governo per la tematica del contrasto alla criminalità organizzata.

Le esternazioni del guardasigilli, tuttavia, hanno scatenato una serie (prevedibile) di reazioni più o meno misurate e appropriate. Sarebbe troppo chiedere, almeno per temi come questi, un’unità di intenti che superi polemiche pretestuose che indeboliscono il fronte del contrasto alla mafia?

La lotta alla criminalità organizzata, per essere vincente, deve essere svolta in maniera unitaria. Le divisioni – reali o apparenti che siano – sono un sintomo di debolezza, dal quale le organizzazioni criminali non possono che trarre vantaggio, magari insinuandosi abilmente in esse.

Lo Stato, insomma, deve apparire compatto perché unico è l’obiettivo, nel nome del bene comune. Di tutto si può discutere, di quali siano gli strumenti migliori per combattere il fenomeno mafioso (e le associazioni dedite all’illecito in genere), ma a guidare il dibattito non possono essere gli intendimenti personali. Resta sempre valido l’insegnamento di Leonardo Sciascia, intellettuale in controtendenza che metteva in guardia dai «professionisti dell’antimafia» (1987) proprio mentre tutti discettavano del pericolo mafioso. Scrittore eretico – e per questo scomodo – che per primo aveva descritto la mafia in un romanzo (Il giorno della civetta, 1961) quando ancora l’esistenza della mafia veniva negata a livello istituzionale. E che, tuttavia, non poté fare a meno di evidenziare i pericoli di una lotta alla mafia trasformata in occasione per fare carriera o, peggio, per rendere inoffensivi gli avversari politici.

Trentasei anni dopo ben poco è cambiato.

Antonio Giangrande: SALVINI-SAVIANO ED I SOLITI MALAVITOSI.

Saviano a Salvini: “Ministro della malavita”. La propaganda fa proseliti e voti. Sei ricco? Sei mafioso! Il condizionamento psicologico mediatico-culturale lava il cervello e diventa ideologico, erigendo il sistema di potere comunista. Cosa scriverebbero gli scrittori comunisti senza la loro Mafia e cosa direbbero in giro per le scuole a far proselitismo comunista? Quale film girerebbero i registi comunisti antimafiosi? Come potrebbero essere santificati gli eroi intellettuali antimafiosi? Quali argomenti affronterebbero i talk show comunisti e di cosa parlerebbero i giornalisti comunisti nei TG? Cosa scriverebbero e vomiterebbero i giornalisti comunisti contro gli avversari senza la loro Mafia? Cosa comizierebbero i politici comunisti senza la loro Mafia? Quali processi si istruirebbero dai magistrati eroi antimafiosi senza la loro mafia? Cosa farebbero i comunisti senza la loro Mafia ed i beni della loro Mafia? Di cosa camperebbero le associazioni antimafiose comuniste? Cosa esproprierebbero i comunisti senza l'alibi della mafiosità? La Mafia è la fortuna degli antimafiosi. Se non c'è la si inventa e si infanga un territorio. Mafia ed Antimafia sono la iattura del Sud Italia dove l’ideologia del povero contro il ricco attecchisce di più. Sciagura antimafiosa che comincia ad espandersi al Nord Italia per colpa della crisi economica creata da antimafia e burocrazia. Più povertà per tutti, dicono i comunisti.

Antonio Giangrande: Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo. La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

Antonio Giangrande: “Un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.” Antonio Giangrande dal libro “L’Italia allo specchio. Il DNA degli italiani”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".

Forze speciali e commando: la storia segreta dello sbarco in Sicilia. Lo sbarco di Sicilia, avvenuto ottant'anni fa, fu preceduto da una serie di operazioni di forze speciali decisive per il successo alleato. Andrea Muratore il 20 Luglio 2023 su Il Giornale.

Il 10 luglio 1943 le truppe angloamericane sbarcarono in Sicilia, dando vita al primo attacco alla "fortezza Europa" costruita dalle potenze dell'Asse e mettendo in campo una potenza di fuoco notevole contro le truppe di Germania e Italia, accelerando le dinamiche che in due settimane avrebbero portato alla caduta del regime fascista a Roma e all'inizio della durissima campagna d'Italia.

Per la Sicilia fu battaglia vera: 8mila caduti per le potenze dell'Asse e 5mila alleati in sei settimane di scontri. Le truppe italiane e i rinforzi tedeschi, ben armati di carri armati Tiger e guidati dalla divisione corazzata di paracadutisti "Hermann Goring", la migliore unità schierata in Italia assieme ai famigerati "Diavoli verdi" che bene avrebbero performato a Cassino, combatterono con indubbia tenacia. Sul fronte alleato, dopo quello che fu il più ampio e complesso sbarco anfibio mai realizzato prima del D-Day del giugno 1944, un fattore decisivo della vittoria ottenuta in poche settimane dai soldati dei generali Harold Alexander e George Patton fu la silenziosa, ma decisiva, preparazione dell'invasione grazie alle operazioni delle forze speciali.

Nella notte precedente gli sbarchi, infatti, paracadutisti e ranger delle forze angloamericane furono inviati in Sicilia a conquistare snodi strategici, a fungere da avanguardie per gli sbarchi e a consolidare i gangli vitali delle teste di ponte che gli Alleati intendevano costituire nella parte meridionale della Sicilia. Decisivi furono in quest'ottica i reparti dell''82ª Divisione aviotrasportata statunitense, al comando del maggior generale Matthew Ridgway, e della 1ª Divisione aviotrasportata britannica, al comando del maggior generale George F. Hopkinson. L'operato delle truppe non andò nella direzione prevista, ma ebbe il decisivo effetto di distogliere riserve dalle forze italo-tedesche in aree come Siracusa.

Nella notte tra il 9 e il 10 luglio, portate da alianti, le truppe delle due divisioni iniziarono di fatto l'Operazione Husky, l'invasione della Sicilia, prima dell'arrivo al largo delle coste dell'isola italiana della flotta partita dal Nord Africa. Esploratori americani della 21ª Compagnia Paracadutisti Indipendente del 504º reggimento di fanteria paracadutista, insieme al 456º battaglione di artiglieria campale paracadutista, tutte parti dell''82ª Divisione aviotrasportata, furono inviati a seminare scompiglio alle spalle della zona di sbarco americana presso Gela.

La forza britannica avrebbe dovuto invece conquistare il Ponte Grande sul fiume Anapo, per bloccare l'afflusso di riserve tedesche dall'entroterra verso la zona di sbarco di Cassibile. A sostenere l'operazione sarebbe dovuta intervenire la 1ª Brigata aviotrasportata britannica, che si trovò per effetto dei venti che sferzavano la costa e dispersero la forza americana a essere l'unità maggiormente concentrata alle spalle del nemico, ma anche quella più investita dai contrattacchi nemici che si concentrarono sul Ponte Grande. Avrebbe tenuto il ponte tutto il giorno: alcuni suoi elementi si arresero di fronte alle truppe italiane alle 15.30, ma furono riscattati un'ora dopo dagli Scots Fusiliers che lo riconquistarono di slancio, consolidando la testa di ponte.

Al contempo, andava in scena a Capo Murro di Porco una delle operazioni destinate a diventare più celebri nella storia delle forze speciali nella seconda guerra mondiale: l'assalto dello Special Air Service Service britannico alla batteria costiera "Lambda Doria" che dominava la parte sud-orientale della Sicilia, nella penisola della Maddalena facente parte del comune di Siracusa. Nel sito dedicato alla storia dell'Operazione Ladbroke, la serie di sbarchi che precedettero Husky, è narrato il ruolo dei commando di Sua Maestà nell'operazione, affidata allo Special Raiding Squadron del Sas, guidato dal Maggiore Paddy Mayne, definito dai suoi compagni d'arme come una "valorosa canaglia".

Dopo lo sbarco, tra il 13 e il 16 luglio il ponte Primasole sul fiume Simeto fu attaccato nuovamente da elementi della 1ª Divisione paracadutisti britannica decollati dal Nord Africa nell'Operazione Fustian. L'obiettivo era colpire alle spalle le truppe dell'Asse e accelerare la marcia su Catania. Giocando di sponda con la 50ª Divisione di fanteria britannica, promosse un successo simile a quello del Ponte Grande: cattura dell'infrastruttura, ritirata sotto i colpi dell'offensiva nemica, propiziata soprattutto da truppe tedesche dotate di mitragliatrici pesanti, ricongiungimento con la forza da sbarco giunta, in questo caso, da Lentini.

313 militari morirono nell'Operazione Landbroke e 141 nell'Operazione Fustian: perdite pesanti concentrate principalmente tra i britannici, che non si risparmiarono nella battaglia. Il coordinamento tra commando e forze da sbarco ebbe successo a prezzo di un tributo di sangue notevole e nella caduta di insostituibili professionisti capaci di attività dall'alto valore strategico. I comandi alleati avrebbero replicato in grande, in Normandia, queste importanti manovre. Ma non da meno fu la capacità delle truppe dell'Asse di opporre una degna resistenza: tra il 9 e il 10 luglio, ad esempio, il 1º Battaglione del 75º Reggimento fanteria italiano (parte della Divisione "Napoli") ingaggiò una forza americana atterrata e fece prigionieri 160 paracadutisti che volevano impadronirsi della strada tra Palazzolo Acreide e Siracusa. Il 385º Battaglione costiero italiano si distinse al Ponte Grande, che di fatto contribuì a riconquistare e tenne prima del contrattacco britannico. Per sei, lunghe settimane la battaglia avrebbe fatto emergere altre unità che tennero in condizioni di netta inferiorità di uomini e mezzi. Ma la crepa nella "fortezza Europa" era aperta, inesorabilmente. E abbandonati da Roma e da un regime in dissoluzione, i militari italiani si trovarono a considerare vano il loro sacrificio. Al contrario di quello, oneroso ma strategicamente decisivo, dei militari alleati con cui si erano battuti con valore.

 La mafia e lo sbarco in Sicilia: "L'accordo con gli americani? Un mito". Storia di Gianluca Lo Nostro su Il Giornale il 10 luglio 2023.  

Il 10 luglio 1943 le divisioni anglo-americane sbarcarono in Sicilia. Dopo aver occupato Lampedusa, Pantelleria e Lampione un mese prima, le truppe alleate misero piede per la prima volta in Italia. Questa operazione, nome in codice Husky, fu concepita da Franklin Delano Roosevelt e Winston Churchill alla presenza dei loro consiglieri militari più fidati durante la conferenza di Casablanca: aprendo un secondo fronte in Europa, sostenevano i due leader, si sarebbe potuta alleggerire la pressione sull’Urss impegnata a Est contro i nazisti.

L’occupazione dell’Isola, completata il 17 agosto dello stesso anno con la liberazione di Messina e il ripiegamento dei reparti italo-tedeschi in Calabria, ebbe successo e fu favorita dal rapido sgretolamento del potere fascista, già indebolito dai grandi scioperi operai del marzo ’43 a Torino e nelle altre città del nord e dall’arresto di Benito Mussolini, diretta conseguenza della sfiducia votatagli dal Gran consiglio il 25 luglio.

Dopo la Seconda guerra mondiale, tuttavia, tra le varie concause che avrebbero determinato il collasso delle istituzioni e il trionfo delle potenze alleate in Sicilia è emerso il ruolo della criminalità organizzata. La mafia, uscita depotenziata ma tutt’altro che azzerata dall’operato del “prefetto di ferro” Cesare Mori, approfittò della caduta del regime e comprese fin da subito che l’amministrazione alleata avrebbe rappresentato un’opportunità irripetibile per riacquisire il controllo del territorio.

Il mito del grande complotto

Il professore Salvatore Lupo, docente di storia contemporanea all’Università di Palermo e uno dei massimi esperti di mafia, è l’autore de Il mito del grande complotto (Donzelli), un breve saggio che analizza come nel tempo sia riuscita a ergersi un’autentica contronarrazione – diventata la versione ufficiale – che si fonda sulla presunta esistenza di una serie di accordi preventivi sull’organizzazione della campagna militare tra la mafia e gli Stati Uniti.

“Cosa fece la mafia? Niente. Se parliamo della guerra propriamente detta, non diede nessun contributo”, evidenzia Lupo. “Bisogna distinguere i fatti del ’43 da quello che accadde a New York un anno prima, cioè la collaborazione tra la Naval intelligence, i servizi segreti della marina statunitense e quella che allora si chiamava Unione siciliana, oggi più propriamente nota come mafia, nella persona del grande boss Lucky Luciano”.

Lucky Luciano e Cosa nostra statunitense

Salvatore Lucania, all’anagrafe Charlie Luciano, era nato nel 1897 in provincia di Palermo, ma era cresciuto a New York in una famiglia di immigrati. Entrato in contatto con le principali bande criminali dell’epoca, diventò uno dei gangster di punta degli anni Trenta e riformò Cosa nostra statunitense, dotandola di una struttura (Commissione) che ripartiva il potere nelle diverse famiglie affiliate. Arrestato nel 1936, venne condannato a un massimo di cinquant’anni di reclusione per sfruttamento della prostituzione.

“Luciano era in prigione allora e i servizi segreti della marina si fecero prendere dal panico di fronte ai grandi successi ottenuti dai sommergibili tedeschi nella guerra sottomarina dei primissimi mesi dell’ingresso degli Usa nel conflitto”, spiega il professor Lupo. “Gli americani – prosegue – pensarono di avere un grande problema di sicurezza, perché tra i pescatori potevano annidarsi spie che avrebbero agevolato le operazioni tedesche e possibili sabotaggi nel grande porto di New York. E ricorsero a un’operazione tradizionale del management delle imprese americane cercando un accordo per mantenere l’ordine con i vertici della grande criminalità che controllavano l’International Longshoreman’s Association (Ila), il sindacato dei portuali”.

Cosa c’entra l'intesa sul porto di New York (operazione Underworld) con lo sbarco alleato in Sicilia? “Quando venne sottoscritto, l’operazione Husky non era nemmeno nella mente di Dio!”, commenta il Professore.

Com'è nato il mito del grande complotto

Il “mito” però si è consolidato comunque e Lupo, profondo conoscitore degli archivi storici disponibili Oltreoceano, rintraccia anche il momento in cui è nato. “Il grande complotto si è creato nel tempo successivo, che è il tempo della Guerra fredda. Se guardiamo le politiche seguite dal governo militare alleato tra il ’43 e il ’44, è certo che in una serie di circostanze gli alleati, convinti che questi mafiosi fossero antifascisti in quanto perseguitati dai fascisti, si mostrarono tolleranti verso le loro abilità appoggiandosi a istituzioni tradizionali come chiesa e aristocrazia”.

L’idea del grande complotto venne presentata nel 1958 dal giornalista siciliano Michele Pantalone sulle colonne dello storico quotidiano palermitano L’Ora, ma venne approfondita soltanto nel 1962 con la pubblicazione del libro Mafia e politica. Secondo Pantaleone, l’accordo di New York avrebbe anticipato un altro patto riguardante una “cogestione delle operazioni militari”. Cogestione che però non ci fu mai stata. “Luciano era in galera durante lo sbarco. Nell’atto di scarcerazione c’era scritto che venisse espulso verso l’Italia: non è che lui lo gradisse, non aveva nessuna voglia di spostarsi, per lui l’Italia era un Paese straniero, era andato via a 9 anni e si era sempre dichiarato americano”, osserva Lupo.

Dunque a scatenare le ipotesi di complotto fu un affare politico tutto interno all’America, e cioè la decisione del governatore Thomas Dewey (lo stesso che catturò per primo il boss in qualità di procuratore speciale) di graziare Luciano, costretto a trasferirsi a Napoli nel 1946. Lo scandalo intorno all’operato di Dewey fu amplificato dalla campagna elettorale presidenziale del 1948: per i democratici la scarcerazione di Luciano fu un assist che consentì al partito di gettare discredito contro lo sfidante repubblicano di Harry Truman. Il mafioso italo-americano venne inoltre sospettato dagli agenti del Narcotic Bureau di essere il regista del commercio internazionale di droga dall’Italia verso gli Stati Uniti, un'accusa che però non ha mai trovato riscontro.

La complicità della politica italiana

La tesi di Pantaleone, che nel complotto include anche il famigerato capomafia di Villalba Calogero Vizzini, approdò addirittura in parlamento nel 1976. Il senatore democristiano Luigi Carraro firmò una relazione finale della Commissione antimafia che nei contenuti accoglieva e rilanciava le conclusioni del “grande complotto”, elevandolo al rango di verità storica. “Diversi documenti di ufficiali dell’amministrazione alleata mostrano come questa si rendesse conto del problema mafioso rischiando di avallarne un revival, ma quando si sciolse l’Allied Military Government fu l’autorità italiana a gestire la vicenda successiva”, prosegue il professore.

Vizzini e tutti gli altri vicini al Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (Mis), filoamericano, abbandonarono le spinte indipendentiste per legarsi a un’altra forza filo-occidentale: la Democrazia cristiana. “I separatisti – aggiunge – saltarono sul cavallo vincente in questa dialettica di autonomia regionale e di vittoria della Dc su altri gruppi che potevano contestargli la leadership, come i socialcomunisti. Ora, che la Dc fosse un partito filo-occidentale non c’è dubbio, ma che gli americani avessero tutte le colpe della corruzione e dell’indulgenza verso il crimine organizzato in quella prima stagione mi pare un po’ eccessivo. La politica italiana sia nella componente più anti-americana, ma anche quella filo-occidentale, trovò comodo trovare uno straniero a cui dare la colpa”.

Lupo però ci tiene a fare chiarezza: i complotti, grandi o piccoli, sono sempre esistiti e su essi la storiografia si è concentrata verificando il materiale rivelato dalle fonti. Sostenere che tra mafia e Stati Uniti ci sia stata una collusione e una connivenza eclatante in virtù di alcune oscure interlocuzioni significa assecondare un’atavica propaganda mafiosa. "Il mito è trasversale, alle forze politiche italiane e alla magistratura sembra innocuo tanto è vero che lo ripetono come niente fosse non avendo idea di quello di cui parlano. C’è un’idea in molti di noi di guardare alla storia d’Italia sotto la categoria del complotto. Il movimento antimafia resta affezionato a questa mitologia senza pensare che invece questa è la mitologia più filomafiosa che possa esistere, perché presuppone che la mafia abbia vinto la Seconda guerra mondiale e gli dobbiamo la libertà che abbiamo ottenuto con la vittoria sul nazifascismo”, sottolinea il Professore. “Il libro – conclude – vuole ristabilire una verità storica rispetto a un dibattito pubblico debordante e intossicante

Il grande complotto. Com’è nato il mito della mafia che aiutò gli americani a sbarcare in Sicilia nel 1943. Salvatore Lupo su L'Inkiesta il 6 Luglio 2023

In un libro edito da Donzelli, Salvatore Lupo ricostruisce la genesi della storia (falsa, ma spacciata come vera per anni) di come Lucky Luciano avrebbe aiutato l'intelligence statunitense a coinvolgere i boss locali nella programmazione dell’operazione Husky

L’idea del Grande complotto tra mafia e americani venne presentata da Michele Pantaleone, non so se per la prima volta, in un articolo pubblicato su «L’Ora», nel 1958, nell’ambito della grande inchiesta sulla mafia che in quell’anno riempì le pagine del quotidiano di sinistra palermitano . Ma la versione più matura e influente fu quella fornita dal medesimo autore nel volume Mafia e politica, pubblicato nel 1962. Spiego chi fosse Pantaleone. Rampollo di una famiglia eminente di Villalba (paese in provincia di Caltanissetta), esponente di un socialismo locale contrapposto alla fazione cattolico-separatista guidata dal capo-mafia don Calò/Calogero Vizzini, era divenuto un personaggio di rilievo nella sinistra siciliana già dal 16 settembre 1944.

Quel giorno, nella piazza appunto del suo paese, era rimasto coraggiosamente accanto al leader comunista isolano Girolamo Li Causi, attaccato e ferito (con altre 13 persone), a suon di revolverate e bombe a mano, dai seguaci di don Calò. Torneremo a suo tempo su quest’episodio, che è cruciale nella nostra storia. Diciamo ora che Pantaleone fece poi la sua strada quale deputato all’Assemblea regionale siciliana per il Blocco del popolo, e giornalista d’opposizione. Strinse un rapporto con un grande del meridionalismo, Carlo Levi, e fu magari per questo che il suo libro venne pubblicato da Einaudi, con la prefazione proprio di Levi.

Ecco, in sintesi, il contenuto delle pagine in cui Mafia e politica affronta la questione che maggiormente ci interessa. L’idea-base: la trama newyorkese del ’42 tra i servizi di sicurezza statunitensi e Lucky Luciano sarebbe stata finalizzata a coinvolgere la mafia siciliana nella programmazione dell’operazione Husky, e addirittura si sarebbe risolta in una cogestione delle operazioni militari nell’isola.

Lo stesso Luciano viene dunque indicato come un personaggio-chiave, e insieme a lui il colonnello Charles Poletti, futuro governatore statunitense della Sicilia, che a dire del nostro autore sarebbe giunto «a Palermo clandestinamente» nel 1942 per mettersi d’accordo coi mafiosi locali, mentre sul territorio isolano si verificavano «gravi e frequenti atti di sabotaggio», e si moltiplicavano gli «sbarchi clandestini di siculo-americani».Un terzo personaggio-chiave: Calogero Vizzini, che già conosciamo quale capo-mafia di Villalba, qui indicato come il «capo riconosciuto di tutta la mafia siciliana», dunque come il principale contraente isolano del patto.

Il momento clou. Nei giorni immediatamente successivi allo sbarco, aerei americani avrebbero lanciato su Villalba certi foulard ricamati con una «L» come Luciano, e carri armati recanti un analogo vessillo avrebbero trionfalmente preso a bordo don Calò. A seguire, il capo-mafia avrebbe comunicato con lettera cifrata i piani di battaglia al suo collega Giuseppe Genco Russo di Mussomeli: «che gli amici preparassero focolai di lotta e gli eventuali rifugi per le truppe». Insomma, i mafiosi avrebbero direttamente partecipato alle operazioni militari alleate, e dal canto loro i militari italiani avrebbero abbandonato le loro posizioni, sempre grazie all’intervento pressante di «autorevoli amici», di modo che «le truppe di occupazione avanzarono nel centro dell’isola con un notevole margine di sicurezza».

Conseguenze immediate: il Governo militare alleato (in sigla: AMGOT, o semplicemente AMG), chiamato a reggere la Sicilia, avrebbe nominato sindaci «persone notoriamente mafiose o legate alla mafia» sempre seguendo l’indicazione dell’onnipresente don Calò.

(…) Da parte mia, debbo rilevare come la successiva ridislocazione della storia stessa, dalla sfera di una combattiva saggistica d’opposizione a quella propria di un testo istituzionale (la Relazione della Commissione antimafia), accentui il problema della sua inverosimiglianza, e anche aggravi l’altro suo difetto evidente: la mancanza di una documentazione. Infatti, lo stile apodittico delle affermazioni sia di Pantaleone che di Carraro riposa più che altro su una sequenza di incontrollabili «si dice»; l’uno e l’altro citano in sostanza una sola fonte, un breve brano del senatore statunitense Estes Kefauver (1951) (il quale in verità – anticipo quanto avrò modo di dimostrare a suo tempo – non avalla per niente la teoria del Grande complotto). 

Da “Il mito del grande complotto”, di Salvatore Lupo, Donzelli, 112 pagine, 15,20 euro

La storia deformata dello sbarco in Sicilia: il mito del patto tra mafia e Alleati. Le fonti storiografiche e documentali hanno smentito che Cosa nostra abbia aiutato le forze angloamericane ad approdare sull’isola nel ’43. Un luogo comune, basato soprattutto sulla falsa credenza che Lucky Luciano fosse stato coinvolto. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 marzo 2023

«Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità». La frase che viene attribuita erroneamente al nazista Joseph Goebbels è una buona sintesi per comprendere come mai, nonostante validi storici come Salvatore Lupo l’abbiano sconfessato, ancora oggi venga riproposto il fatto che la mafia avrebbe aiutato gli Alleati durante lo sbarco in Sicilia. E come il vecchio gioco del telefono, la stessa storia, tramandata con il tempo, prende piede con altri dettagli che poi approdano in prima serata come è accaduto al programma “Atlantide” de La7 condotto da Purgatori. Un luogo comune, soprattutto oggi, funzionale per rievocare una sorta di trattativa Stato-mafia ante litteram. In particolar modo si parla dell’intervento del gangster italo-americano Lucky Luciano nello sbarco in Sicilia del 1943. Ci sarebbe stato, in altre parole, un complotto tra mafiosi e servizi segreti statunitensi volto a promuovere l’occupazione dell’isola.

Stando a questa tesi, tramandata fino ai giorni nostri, gli apparati di sicurezza della Marina Usa avrebbero contattato Lucky Luciano che, grazie alle sue relazioni in Sicilia, guadagnò le cosche alla causa americana. In particolare, il punto di riferimento siciliano sarebbe stato il boss don Calò, ovvero Calogero Vizzini.

Quest’ultimo avrebbe coordinato le operazioni militari di concerto con gli Alleati e su indicazione di “amici” d’oltreoceano. In segno di riconoscimento, aerei e carri armati americani sarebbero ricorsi a foulard gialli recanti una “L” nera (da Luciano). Richiesto di salire su un veicolo corazzato, egli avrebbe dunque guidato le truppe nell’avanzata per tornare in paese sei giorni dopo. Nel frattempo avrebbe mobilitato, con un messaggio cifrato, le cosche della Sicilia interna a supporto dell’offensiva. In sostanza, l’operazione Husky condotta dagli angloamericani tra il luglio e l’agosto del 1943 e che ebbe come obbiettivo l’attacco e la conquista dell’isola più importante dello scacchiere del Mediterraneo, la Sicilia, viene riscritta e dipinta come una operazione guidata dai mafiosi. Proprio così. Secondo questa narrazione, sarebbero stati loro i veri liberatori dal nazifascismo.

Ed ecco che si tramanda un intreccio di fatti, circostanze e coincidenze che vedrebbero coinvolti non solo i gangster come Lucky Luciano e boss della mafia siciliana come don Calò, ma anche le solite “entità”. In realtà, da quando esiste l’uomo organizzato, ci ritroviamo a scontrarci con la solita dietrologia funzionale, questa volta al discredito. Non è un caso che questa storia, la quale vede il contributo della mafia alla liberazione della Sicilia in un’organica alleanza con gli americani, sia stata un luogo comune agitato dalle forze fasciste dell’epoca con l’intenzione di denigrare la funzione liberatrice degli Alleati. E, in seguito, ripreso da alcune compagini di sinistra per alimentare la propaganda antiamericana.

Per scalfire determinate tesi, basterebbe riportare la vicenda alla realtà nuda e cruda. A fornirci le coordinate sono due storici indiscutibili, come Salvatore Lupo e John Dickie. Quest’ ultimo, inglese, conosciuto al grande pubblico italiano per i suoi pregevoli libri sulla criminalità organizzata e il Mezzogiorno, documenta che Lucky Luciano nell’estate del 1943 si trovava ancora in carcere negli Stati Uniti a scontare una lunga pena per sfruttamento della prostituzione. Lucky Luciano verrà rilasciato solo nel 1946 e successivamente rispedito in Italia. Un dettaglio che di fatto fa crollare ogni possibile teoria sul coinvolgimento del boss italo-americano nella campagna di appoggio mafioso allo sbarco alleato in Sicilia.

Come afferma Salvatore Lupo, invece, è documentato che la marina militare americano abbia affidato a Luciano la difesa dei docks newyorkesi da sabotatori tedeschi, i quali peraltro non sarebbero mai esistiti essendo stato lo stesso boss a simulare gli attentati per ottenere la scarcerazione. Su questo aspetto, lo storico Dickie è ancora più netto: l'inganno della sua collaborazione per liberare il porto di New York - da lui controllato con i suoi sindacati - dal pericolo dei sabotatori tedeschi in realtà era un tentativo di difendersi dalle accuse di controllo del racket sulle banchine. Sono, in sostanza, millanterie messe in giro dagli stessi boss per alimentare il mito della mafia.

A smentire questa storia, è stato anche Nick Gentile, mafioso di Siculiana (piccolo comune di Agrigento) con importanti trascorsi negli Stati Uniti. Costui era giunto in America nel 1903, a 18 anni, ma il suo percorso fu segnato da continui ritorni in Sicilia fino al ’37, anno del rimpatrio definitivo. Stabilitosi a Palermo, dove gestiva un negozio di tessuti, vi rimase fino al 1943, allorché i bombardamenti lo costrinsero a trasferirsi nel paese della moglie, Raffadali nei pressi di Agrigento. Qui prese a collaborare con il locale comando americano, all’inizio come interprete e poi da posizioni di maggiore responsabilità, prima di tornare a Palermo per prestare lì i suoi servigi.

Fu intervistato dal giornalista de L’Ora Felice Chilanti. Quest’ultimo chiese al mafioso se Luciano, Vizzini e altri boss avessero svolto funzioni di agenti segreti, di informatori, o funzioni patriottiche per incarico dei servizi speciali della Marina americana. «No – rispose Nick Gentile -, questa è una favola inventata di sana pianta e che ha avuto fortuna per diverse ragioni. I comandi alleati disponevano di ben altri servizi di informazione, e la favola di questi gangster e capimafia diventati improvvisamente combattenti al servizio della Marina americana o della democrazia venne convalidata, tacitamente anche da chi svolse effettivamente quelle attività, ma preferì attribuirne il merito a “mafiosi” ed ex-gangster. E naturalmente certi capimafia si presero ben volentieri quei meriti, pensando di ricavarci qualcosa di buono. Posso senz’altro affermare che la storiella del carro armato americano che giunge a Villalba con un drappo inviato da Lucky Luciano al capomafia Calogero Vizzini è una fantasiosa invenzione».

Assodato che la mafia non ha avuto alcun contribuito per lo sbarco, sicuramente – in seguito alla liberazione – ha avuto modo di infiltrarsi nella pubblica amministrazione. Una volta concluse le operazioni militari, gli angloamericani insediarono in Sicilia un governo provvisorio, che prese il nome di AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory). Questo governo avrebbe avuto i compiti basilari di mantenere la sicurezza nelle retrovie e di ripristinare e garantire condizioni di vita accettabili ai cittadini siciliani. In quel contesto, il capitano W. E. Scotten, ex viceconsole statunitense in Sicilia, ebbe a denunciare che effettivamente furono commessi degli errori. Gli stessi ufficiali sono stati fuorviati e accecati da interpreti e consiglieri o corrotti o influenzati al punto da correre il rischio di far ricoprire ai mafiosi dei ruoli istituzionali. Quest’ultimi, approfittando dell’infiltrazione, si dimostreranno elementi di spicco per la nascita e lo sviluppo del Movimento per l’Indipendenza Siciliana, fondato da Andrea Finocchiaro Aprile.

Quindi, come ogni teoria del complotto, ci sono fatti totalmente falsi mischiati con fatti veri. Falso che la mafia ricoprì un ruolo da protagonista per gli sbarchi, vero che dopo la liberazione approfittò per infiltrarsi nella pubblica amministrazione. Di fatto, attraverso questi retropensieri, sono riusciti a infangare lo sbarco in Sicilia che aveva rappresentato la prima profonda ferita inferta alla “fortezza Europa” nazifascista. Un po’ come il teorema trattativa Stato-mafia: i corleonesi sono stati sconfitti, ma si getta un’ombra.

La lotta alla mafia che era prima di tutto rivolta contro i riti borghesi dell’oppressa Sicilia. Il vecchio che piscia a mare, quel clic che riaccende la scintilla dell’anarchico Peppino Impastato. Nicola Biondo su Il Riformista l’8 Gennaio 2023

Un vecchio che piscia in mare, una scritta sbiadita e sullo sfondo una nave militare americana. Questo è ciò che vedete. Tutto in bianco e nero, non potrebbe essere altrimenti. E non tanto perché è il 1978 quando questa foto viene scattata ma perché l’immagine esce fuori da un archivio e gli archivi sono per definizione senza colori, anche quando sono digitalizzati sembrano portare la polvere addosso. Facile dirsi che arriva da un mondo che non esiste più, in un tempo maledetto e immobile. Al contrario tutto quello che agita il dibattito politico in fondo viene da lì: il comunismo e il suo anti (ovvero la guerra fredda), il paese vecchio e il paese vassallo, la guerra americana per non dire che era anche italiana, esattamente come oggi.

Siamo nel mar Tirreno, la costa è quella tra Cinisi e Terrasini in provincia di Palermo e la foto è una testimonianza del tutto inedita dell’opera di controinformazione del gruppo di Peppino Impastato, l’attivista siciliano ucciso il 9 maggio 1978. Il contesto e l’immagine provengono dallo sterminato archivio fotografico di Paolo Chirco, una di quelle api operaie che dava forma e sostanza all’esperimento libertario, e comunista certo, anche comunista ma non solo, che fu Radio Aut. Quarantaquattro anni dopo esser stata scattata e archiviata, quarantaquattro anni dopo la morte straziante e depistata-e poi cosparsa dalla melassa delle rievocazioni-di colui che fu prima di ogni cosa un irregolare alla periferia dell’Impero Occidentale, una prima linea dove si combatteva non tanto la mafia ma le buone tradizioni borghesi (che erano anche mafiose) di una morale che a Cinisi, e non solo a Cinisi ma in tutte le enclave di provincia, era in pieno stile iraniano: niente baci in pubblico, lo struscio nel paese rigorosamente separato tra marciapiedi per maschi e marciapiedi per femmine, con la variante siciliana che prevedeva la fuitina e magari pure un colpo di lupara. Quarantaquattro anni dopo dentro la foto di Chirco sembra che siano rimaste blindate non solo quelle immagini, evocative quanto si vuole, ma l’anima e la propaganda di un intero Paese: questo.

Ancora qualcuno parla di comunismo per ammantare di una qualche nobiltà l’ultimo satrapo di Mosca ( dove l’indice di felicità è pari a quello di uno slum di Nairobi se non si è figli o parenti di un oligarca) e in testa alle agende di tutti i governi ci sono le pensioni mentre da decenni intere generazioni fuggono per lidi meno ipocriti e limacciosi. E dove ancora c’è un antiamericanismo straccione e nessuna idea di futuro: un tutto declinato al passato. Come se la guerra fredda, e le sue miserabili e luttuose appendici, non fosse mai finita. L’immagine di Chirco racconta di quel presente, a Cinisi e in mille altri paesi di quel vasto Sud che non ha coordinate geografiche ma miti fondativi e che si poteva trovare dalle valli del Trentino alla Sicilia, con le città come macchie di modernità. Di quel presente della fine dei 70 che per quanto riguarda la Sicilia è diventato patrimonio nazionale solo dopo la mattanza del ’92 e che ha avuto bisogno di un film –I Cento passi, struggente e per certi versi fuori sincrono con la vulgata della morte per mano mafiosa, solo mafiosa- per borghesizzare uno come Impastato che borghese non lo era e chissà se lo sarebbe mai diventato, difficile pare. Irregolare, si diceva, perché comunista ma non stalinista, irregolare perché non affiliato al Pci del compromesso storico e perché schifava la lotta armata e gli assalti al cielo bolognesi e padovani, troppo fighetti, troppo “arancioni”. Irregolare perché non c’era altro modo in quel tempo e quello spazio, a quelle latitudini.

Un giorno avvertito dai compagni del gruppo “musica e cultura” si incuriosisce di una nave da guerra americana alla fonda di fronte Cinisi. Chirco, giovanissimo ma già devoto alla fotografia, finisce quasi in acqua per scattare decine di foto, alcune delle quali hanno un ché di sinistro: elicotteri che trasportano casse coperte dalla nave (dal nome evocativo “Santa Barbara”, cosa volete che potesse trasportare?) fino alla pista dell’aeroporto di Punta Raisi, feudo del boss Tano Badalamenti e dalla quale partivano aerei inzeppati di olio d’oliva ed eroina. Qui le casse venivano caricate su camion, alcuni dei quali non militari, e da qui finite chissà dove. La foto del vecchio che piscia in mare dove staziona una nave da guerra e un muretto con la scritta “Il comunismo non passerà” sono parte di un fondo di immagini recuperate nell’ambito di una indagine della disciolta Commissione Antimafia su uno dei più misteriosi cold case siciliani, l’eccidio di Alcamo Marina: due carabinieri uccisi in una caserma e cinque ragazzi innocenti finiti all’ergastolo dopo immonde torture. Fu uno degli ultimi bagliori della controinformazione targata Impastato e Radio Aut: l’attivista di Cinisi cercava il fuori scena di quell’eccidio e conservava nella casa materna una voluminosa cartelletta dedicata al mistero di Alcamo Marina. Tutto finì inghiottito da un atto illegale: un “sequestro informale”- così senza vergogna recita il verbale degli inquirenti- ha risucchiato quell’ultimo file di indagine di Impastato e nessuno sa che fine abbia fatto.

Di sicuro c’è poco ma quel poco spinge la logica a ridestarsi dall’angusto isolamento a cui certe sentenze l’hanno costretta: la cartelletta di Impastato, quella sull’omicidio di due carabinieri (ancora oggi senza colpevoli e senza movente) è finita in qualche armadio della Legione dei Carabinieri di Palermo (dove la Commissione Antimafia non è riuscita ad entrare, nouvelle vague del segreto di Stato, annus domini 2022), in quelle stesse stanze dove la sentenza sull’omicidio dell’attivista fu veloce e brutale, mentre le viscere del morto erano ancora calde e sparse nella campagna intorno Cinisi: “era un terrorista, si è suicidato utilizzando esplosivo”. E rimane un fatto che in un brandello di terra siciliana, tra Cinisi e Trapani in dieci anni muoiono gli ultimi protagonisti della controinformazione, Mauro Rostagno e Giuseppe Impastato i cui rispettivi ultimi passi sono stati compiuti su piste d’atterraggio, ad osservare mezzi militari e misteriose casse di armi. Come è un fatto che per entrambi i delitti si mosse un dispositivo ben oliato con l’obiettivo di depistare e obliterare tutto.

Ma di questo ci sarà tempo per raccontare. In attesa di un romanzo che riesca a deragliare dal piattume giudiziario e che ridia colore a quegli anni della ferocia- una sorta di Sicilian Tabloid, ecco cosa servirebbe- rimangono i fantasmi in bianco e nero imprigionati nelle foto di Paolo Chirco, foto colpevolmente mai richieste dagli inquirenti che di recente hanno chiuso un’inchiesta sui depistaggi di Cinisi. Alcuni fanno quasi tenerezza, altri costringono a guardarci dentro per come siamo invecchiati male. Perché siamo un po’ tutti rimasti lì dentro, tra il mare, una pisciata di un vecchio e uno slogan. Con sullo sfondo la guerra, la solita guerra. Nicola Biondo

Il corteo a Milano e gli irriducibili del giustizialismo. Manifestazione dell’antimafia per la verità, ma i processi hanno già detto tutto…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Marzo 2023

Vogliamo la verità sui delitti di mafia. Il grido sale dal corteo che attraversa il centro di Milano per poi concentrarsi in piazza Duomo, dove la voce dei parenti delle vittime di Cosa Nostra cede la voce, e il palco, ai politici di sinistra invitati da Libera, il cartello di associazioni fondato da don Ciotti. Erano tredici anni che non veniva celebrata questa giornata rievocativa. E sono datate a dieci e anche venti anni fa le grandi inchieste sulla criminalità organizzata al Nord condotte dall’ex responsabile della Dda milanese Ilda Boccassini. Inchieste come “Infinito” o “I fiori di San Vito” con le loro alterne risultanze processuali e la costante, purtroppo inutile, denuncia degli avvocati del fatto che nei processi su reati di mafia regolarmente saltano le regole dello Stato di diritto, quelle che in genere governano i dibattimenti “normali”. Più che politica del doppio binario, veri binari morti, per le garanzie degli imputati. Ma siamo a Milano, e si sa quale sia stato, fino a poco tempo fa, il rito ambrosiano, non solo nelle indagini su Tangentopoli.

L’anno 2023 segna per il capoluogo lombardo l’anniversario di una data tragica, quella della bomba di via Palestro, il 27 luglio del 1993. Non è chiaro se l’associazione Libera e il suo promotore don Ciotti abbiano scelto questa ricorrenza piuttosto che il 1992 con le uccisioni di Falcone e Borsellino, per scendere in piazza. Ma la connotazione tutta politica, con la presenza, non solo quella doverosa del sindaco Beppe Sala, ma in particolare anche quella di Elly Schlein, presente a Milano due volte di fila in pochi giorni, e gli interventi contro il governo, lasciano intravedere qualcosa di diverso. Lo ha ben intuito Silvio Berlusconi che, con la sua proverbiale marcia in più, si è affrettato a prendere posizione, con un’uscita sincera, ma anche opportuna, e forse preoccupata per una certa piega che stano prendendo certe indagini che corrono da Firenze a Reggio Calabria. Così, con le parole che sono patrimonio di tutti, il “pensiero commosso” per le vittime e i loro familiari e “l’omaggio a due figure emblematiche” come Falcone e Borsellino, compare anche il riconoscimento alle forze dell’ordine e alla magistratura “che ogni giorno rischiano la vita per la legalità e la sicurezza di tutti”.

È vero che nel commemorare le due più famose vittime delle bombe mafiose l’ex presidente del Consiglio ha tenuto a distinguere il loro “profondo rispetto delle garanzie e dello stato di diritto”, ma il riconoscimento alla magistratura come corpo in sé, rimane. E va a cadere, non casualmente, sulla manifestazione indetta da Libera, “cartello di associazioni contro le mafie” nato su iniziativa di don Ciotti nel 1994. Non nel 1992 con le sue stragi di Capaci e via D’Amelio, e non nel 1993 con le bombe di Milano Firenze e Roma, ma a pochi mesi dall’insediamento del primo governo Berlusconi. Nasce e diventa da subito un potente partito politico. Il successore naturale della “Rete” di Leoluca Orlando, padre Pintacuda e Nando Dalla Chiesa, con il sostegno forte di un pm di Mani Pulite come Gherardo Colombo. Nemici di Leonardo Sciascia e delle garanzie, cui preferivano il loro credo: “Il sospetto è l’anticamera della verità”.

Il gruppo di Libera si è impadronito del prezioso timbro di ceralacca dell’antimafia nella sua veste più ideologica e furibonda, “contro la mafia e la corruzione”, anticipando di molti anni le degenerazioni giuridiche del Movimento cinque stelle e della legge “spazzacorrotti” voluta dal ministro Bonafede. A questa base teorica di chi guarda la realtà in chiave moralistica per dividere il mondo in buoni e cattivi e poi processando questi ultimi in tribunali speciali, Libera ha accompagnato anche un aspetto economico. Favorendo la dissennata politica delle confische fondate sul sospetto più che sulle responsabilità penali, ha cominciato da subito a rivendicare per sé la primogenitura e il “bollino blu” per le assegnazioni ai propri aderenti degli immobili confiscati. Nel nome dell’antimafia, naturalmente, non dell’interesse commerciale. Abbiamo già raccontato quell’esempio di Buccinasco e del sindaco lapidato perché si era permesso di offrire gli spazi confiscati a diverse associazioni e non a una sola. Mancava poco che qualcuno desse del mafioso a quel sindaco, perché aveva preferito un atteggiamento pluralistico nei confronti di tanti piuttosto che far aprire la pizzeria “antimafia”.

E la storia pare ripetersi, dopo gli attacchi di Nando Dalla Chiesa e Giancarlo Caselli al libro L’Inganno di Alessandro Barbano, che ha stracciato il velo dell’omertà di chi viola costantemente le regole nel nome di un bene superiore e della lotta a una mafia che viene dipinta sempre come eterna e invincibile. E intanto tutti i magistrati “in lotta” (obbrobrio in uno Stato di diritto) contro il crimine organizzato, dal procuratore calabrese Nicola Gratteri alla responsabile della Dda milanese Alessandra Dolci, si affannano a spiegare che non importa se la mafia non spara più, ma che si è trasformata in comitati d’affari. “Operatore economico e agenzia di servizi”, la definisce la dottoressa Dolci. Senza mai spiegare, né lei né i suoi colleghi, perché ancora esista nel codice penale quell’articolo 416 bis che pone l’assoggettamento e il con-trollo del territorio come requisiti fondamentali perché un certo comportamento possa rivelare l’esistenza di un’associazione criminale di tipo mafioso. Ma il retroscena delle manifestazioni “antimafia” sono le inchieste giudiziarie sul passato, sugli anni Novanta.

Che cosa significa, al di là dei sentimenti dei parenti delle vittime, cui va sempre rispetto, quel grido “vogliamo la verità”? Se intendiamo parlare di verità storica, ma anche di verità processuale, dobbiamo dire che sulla mafia di Cosa Nostra, ma anche sulla ‘ndrangheta e sulla camorra, si sa ormai tutto. Giovanni Falcone non credeva nel “terzo livello”, e ha avuto ragione. I processi, da quello contro Giulio Andreotti in avanti, hanno dimostrato i limiti politici e culturali proprio di movimenti come la Rete e Libera. E la natura vera di inchieste come quella che ha portato al processo “’ndrangheta stragista” di Reggio Calabria e le forsennate ( e già fallite nelle tre versioni precedenti) indagini fiorentine su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti di stragi. In questo modo non si cercano né verità né giustizia, ma capri espiatori al fine di prolungare all’infinito il ruolo dell’ ”antimafia”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il processo allo “zio Giulio” e all’intera Prima Repubblica. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 03 marzo 2023

Il 3 marzo di trent’anni fa l’uomo politico italiano più famoso è stato iscritto nel registro degli indagati per associazione a delinquere semplice e mafiosa. Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio e ventuno volte ministro, è finito alla sbarra per collusione con i boss.

Un detenuto disse al suo compagno di cella: «La vedi quella gobba? Guardala bene perché è piena di omicidi». La televisione era accesa, sullo schermo apparve l’uomo politico più famoso d’Italia che per sette volte era stato capo del governo e per ventuno ministro della Repubblica. Poi un altro raccontò: «Noi lo sapevamo chi era davvero, girava la voce che era punciutu».

Punciutu, punto sul polpastrello del dito indice della mano destra con un ago, o con la spina di arancio amaro o forse con una spilla d’oro come usavano i boss più megalomani delle province interne, comunque passato anche lui dal rito d’iniziazione con l’immagine della Madonna dell’Annunziata che prende fuoco e il sangue che sgorga mentre stregato recita la magica formula (“Come carta ti brucio, come santa ti adoro, che un giorno possa bruciare la mia carne se mai tradirò la Cosa nostra”) per diventare mafioso.

L’ENTITÀ

Giulio Andreotti mafioso. Palermo, fine inverno del 1993. Appena una decina di anni prima, e dopo un vorticoso incrocio di silenzi e di sguardi con il giudice Giovanni Falcone, il pentito Tommaso Buscetta si era limitato ad alludere a un’impalpabile “Entità” che suggeriva e proteggeva, che metteva sempre le cose a posto in Sicilia e a Roma. Ma con le stragi di Capaci e di via D’Amelio, le bombe, era cambiato tutto. E quella figura avvolta perennemente nel mistero aveva preso quasi un nome.

Per alcuni ero “lo zio”, per altri “lo zio Giulio”. Era sempre lui. Così il 4 marzo del 1993, un giovedì, in una stanza al secondo piano dell’imponente palazzo di giustizia di Palermo ci fu il primo atto di quello che sarebbe stato definito Il processo del secolo.

L’iscrizione di Giulio Andreotti nel registro degli indagati “per i reati di cui agli articoli 110 e 416 c.p. e agli articoli 110 e 416 bis c.p.”, concorso esterno in associazione semplice e concorso esterno in associazione mafiosa. Ventitré giorni dopo, il 27 marzo alle undici del mattino in punto, da Palermo fu inoltrata all’ufficio di presidenza del Senato una richiesta di autorizzazione a procedere di 246 pagine firmata dal procuratore capo della repubblica Gian Carlo Caselli e dai sostituti Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato.

Il 13 maggio la speciale giunta di palazzo Madama concesse l’autorizzazione «escludendo la sussistenza di fumus persecutionis oggettivo e soggettivo nei confronti di Giulio Andreotti», il 21 maggio la procura di Palermo modificò con un tratto di penna il capo d’imputazione: non più concorso in associazione mafiosa ma associazione mafiosa pura.

L’ITALIA DIVISA IN TRE

A quel punto l’Italia si è divisa in due e pure in tre. Quasi mafioso, mafioso, mafiosissimo. Quasi innocente, innocente, innocentissimo. Finalmente trascinato davanti a un tribunale per le sue gravi colpe, vittima di una grande macchinazione nazionale e internazionale, invischiato fino al collo nelle brutalità della mafia siciliana, corrotto e corruttore, incastrato da diaboliche forze e probabilmente anche da una fazione del governo americano che non vedeva l’ora di levarselo di torno dopo la caduta del Muro di Berlino. Particolarmente sagace, la battuta sempre pungente, una straordinaria capacità di sintetizzare pensieri complessi in una sola frase, quando le carte dei suoi insidiosi rapporti con la mafia vengono scoperte lui muove lentamente la testa incassata fra le spalle ingobbite, piega le labbra sottili e sibila: «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito di tutto».

Cos’è l’atto d’accusa dei magistrati di Palermo? Un processo a un potere incrollabile? Un processo alla Storia? Un processo all’uomo - nato a Roma il 14 gennaio del 1919, democristiano, giornalista, scrittore, a ventotto anni già sottosegretario nel governo di Alcide De Gasperi, delfino di Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare - o al sistema?

I SUOI PECCATI

Ciò che è sempre stato oscuro, viene spiegato in realtà con una semplicità che sconvolge. Giulio Andreotti, uno che dalla fine della Seconda Guerra mondiale si è seduto al tavolo con i padroni del mondo, con capi di stato come Eisenhover e De Gaulle, Mitterand e Reagan, Thatcher e Gorbaciov, contemporanemente ha intrattenuto rapporti criminali con don Stefano Bontate e don Gaetano Badalamenti e persino con Totò Riina, ha “aggiustato” procedimenti in Cassazione, ha ordinato omicidi o comunque non ha fatto nulla per evitarli, ha garantito e si è garantito l’appoggio di Salvo Lima, il console in Sicilia che con Cosa Nostra era in un solo abbraccio.

I suoi misfatti e i suoi peccati, giuridicamente parlando: «Avere messo a disposizione dell’associazione per delinquere denominata Cosa Nostra, per la tutela degli interessi e per il raggiungimento degli scopi criminali della stessa, l’influenza e il potere derivanti dalla sua posizione di esponente di vertice di una corrente politica, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività; partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento e all’espansione dell’associazione medesima». Giulio Andreotti mafioso.

Più che un’inchiesta, se pur clamorosa, simboleggia l’abbattimento di una struttura statuale messa in piedi dal 1945. Giulio Andreotti incarna la Democrazia Cristiana che ha governato per quasi quarant’anni l’Italia (da non confondere con ciò che sarebbe accaduto qualche tempo dopo con le indagini sui legami fra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi, forse riciclatore di denaro sporco, forse a conoscenza di segreti sulle stragi siciliane del 1992 ma sicuramente non “uomo stato” come Andreotti), è l’occulto della Prima Repubblica.

LE TRAME E I SEGRETI

Le trame del Sifar - il servizio segreto militare all’epoca dei dossier del generale Giovanni De Lorenzo - il crack Montedison con protagonista l’imprenditore Nino Rovelli, il complotto contro il direttore della Banca d’Italia Mario Sarcinelli e il presidente Paolo Baffi, il patto con il banchiere della mafia Michele Sindona e l’altro con il banchiere di Dio Roberto Calvi, la loggia P2 di Licio Gelli, le scorrerie del comandante generale della guardia di finanza Raffaele Giudice in combutta con i petrolieri, lo spericolato intreccio con i “palazzinari" romani Caltagirone (famosa la frase pronunciata dal capostipite dei Caltagirone, Gaetano, al ministro Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti: «A Fra’ che te serve?»), l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, le ombre sul delitto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Sfiorato dai più grandi scandali ma mai affondato, nemmeno graffiato.

Eugenio Scalfari, in un celebre editoriale su Repubblica lo battezza Belzebù, descrivendolo «come l’incrocio accuratamente dosato d’un mandarino cinese e d’un cardinale settecentesco». E poi la mafia siciliana. Alla fine sono i padrini a farlo sprofondare e ad imprigionarlo in un processo infinito che si celebra nel bunker di Palermo, proprio nell’aula dove qualche anno prima erano rinchiusi i capi della Cosa Nostra.

IL DELITTO LIMA

Le indagini su Andreotti prendono avvio il 12 marzo del 1992. È il giorno dell’assassinio di Salvo Lima, il capo della corrente andreottiana siciliana che, come aveva ricordato il prefetto generale Dalla Chiesa al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini nella primavera del 1982 prima del suo sbarco a Palermo, «era la famiglia politica più inquinata del luogo».

Lima, europarlamentare e già sottosegretario alle Finanze, è un capobastone della Democrazia cristiana, è legato ai potentissimi Nino e Ignazio Salvo, proprietari terrieri, interessi nel turismo e nella commercializzazione del vino e soprattutto esattori.

Nel resto d’Italia l’aggio concesso per le somme riscosse è poco superiore al 3 per cento, in Sicilia sfiora il 10 per cento. I Salvo sono mafiosi, uomini d’onore della famiglia trapanese di Salemi. Loro e Salvo Lima sono i re dell’isola fino a quando i Corleonesi di Totò Riina non conquistano Cosa Nostra, vincono ma si ritrovano comunque all’ergastolo.

Quello di Lima è il primo delitto eccellente del 1992. I sicari lo rincorrono sui vialetti di Mondello, il mare di Palermo. E lo uccidono sparandogli alle spalle, come si fa con i traditori. Il movente: «Non avere garantito il buon esito del maxi processo». Il 30 gennaio precedente la Cassazione, contro ogni previsione, ha condannato tutti i grandi boss siciliani. È la prima volta, una sentenza storica.

Ed è la prima volta che a presiedere la prima sezione della suprema corte non c’è Corrado Carnevale, il giudice conosciuto come “l’ammazzasentenze”, sbalzato da quella poltrona da una rotazione di magistrati voluta da Giovanni Falcone e dal ministro della Giustizia Claudio Martelli. Meno di due mesi dopo il verdetto della mafia, l’esecuzione di Mondello.

LA CORSA AL QUIRINALE

È un omicidio che destabilizza l’Italia. Punisce Salvo Lima ma ferma anche la corsa al Quirinale di Giulio Andreotti. Le elezioni del nuovo capo dello stato sono previste in primavera, lui è uno dei candidati favoriti. «Da questo momento può succedere di tutto», dice Giovanni Falcone la sera stessa del delitto. Succede che Andreotti è definitivamente fuori gioco, non diventerà mai Presidente della Repubblica.

Le indagini intorno all’omicidio Lima scavano sui summit fra “zio Giulio” e il capomafia palermitano Stefano Bontate dopo la morte del presidente della regione Piersanti Mattarella, sul condizionamento di alcuni processi ai boss, sulla sua vicinanza con il capo della loggia P2, sul suo coinvolgimento nell’uccisione del direttore della rivista OP Mino Pecorelli legata alla “carte segrete” di Aldo Moro, sui suoi viaggi non registrati fra Palermo e la Sicilia per incontrare personaggi gravitanti nell’ambiente criminale.

È il procedimento penale numero 1491/93. Migliaia di fogli raccolti in 9 volumi e 26 capitoli, i testimoni citati dall’accusa 400, i pentiti all’inizio sono 27 e alla fine 41.

L’ENIGMATICO PENTITO

Ci sono quelli cosiddetti di serie A come Tommaso Buscetta e Francesco Marino Mannoia o Angelo Siino e Francesco Di Carlo, c’è qualche pugliese e qualche calabrese, c’è il messinese Orlando Galati Mamertino (quello della gobba piena di omicidi), c’è Leonardo Messina da Caltanissetta (quell’altro che aveva sentito dire che era “punciutu”), un paio sono della banda della Magliana. Poi ne salta fuori uno che fa saltare il banco. È Balduccio Di Maggio, ex autista di Totò Riina, il mafioso che porta - e ancora oggi, dopo trent’anni, non sappiamo come - i carabinieri del Ros al capo dei capi latitante da un quarto di secolo.

Ufficialmente Di Maggio viene catturato in Piemonte l’8 gennaio (ma il gelataio indovino Salvatore Baiardo, che ha annunciato la cattura di Matteo Messina Denaro, dirà che sapeva del suo pentimento già dal dicembre 1992), poi rivela una ventina di ammazzatine ai sostituti procuratori palermitani Giuseppe Pignatone e Franco Lo Voi, poi ancora si presenta da Gian Carlo Caselli con una fantastica favola. Quella del bacio.

Ricorda che un giorno, tra le 14 e le 16 del 21 settembre 1987, accompagnò Totò Riina nella lussuosa casa palermitana di Ignazio Salvo “alla Statua”, in fondo a viale Libertà, dove trovò ad attenderlo Salvo Lima, lo stesso Ignazio Salvo e l’ospite d’onore: Giulio Andreotti. Testuale Di Maggio: «Il Riina salutò con un bacio tutte e tre le persone».

Il bacio, per le immaginabili suggestioni suscitate nell’opinione pubblica, fuori dall’aula di giustizia è diventato il cuore del processo Andreotti. Mai dimostrato né dimostrabile (Salvo Lima era stato ucciso a marzo del 1992, Ignazio Salvo appena sei mesi dopo), negato naturalmente da Andreotti, ha rappresentato una sorta di cavallo di troia nella corposa documentazione accusatoria sullo “zio Giulio”.

Con il senno del poi potremmo dire - anche se qualcuno aveva subito intuito il pericolo di una testimonianza così iperbolica e maliziosa - che l’enigmatico Balduccio Di Maggio dell’arresto di Riina aveva ancora una volta fatto il suo mestiere coplentando l’opera con Andreotti. Verità e menzogne, abilmente mischiate.

Di quel bacio, alla fine, c’è rimasto solo il geniale pensiero dell’attore palermitano Ciccio Ingrassia: «Io non so se Andreotti e Riina si siano mai incontrati, ma se si sono incontrati di sicuro si sono baciati».

MAI VISTI DA VICINO

Il processo si apre la mattina del 26 settembre nella grande aula accanto all’Ucciardone. I giudici sono quelli della quinta sezione penale del Tribunale di Palermo, presidente Francesco Ingargiola, a latere Salvatore Barresi e Vincenzina Massa.

Per la pubblica accusa Guido Lo Forte, Gioacchino Natoli e Roberto Scarpinato. Il collegio difensivo è composto da Franco Coppi, Gioacchino Sbacchi e da una giovanissima Giulia Bongiorno. Poi si aggiungerà anche l’avvocato Odaordo Ascari. L’aula è stracolma, centinaia i giornalisti provenienti da tutto il mondo, accreditata anche una troupe giapponese.

Alla vigilia del dibattimento sugli scaffali delle librerie è in bella mostra un volume: «Cosa Loro, mai visti da vicino». Giulio Andreotti ricostruisce per la Rizzoli i suoi ultimi tre anni e mezzo di vita, dal giorno in cui il Senato ha concesso l’autorizzazione a procedere contro di lui.

Scrive: «In queste pagine non si troveranno invettive o generiche lamentele, ma solo descrizioni puntuali di un impianto accusatorio che io ritengo infondato e perverso». E ancora: «Era stato presentato all’inizio del preannuncio di schiaccianti dimostrazioni di mie responsabilità mafiose; ora ripiega sulla singolare tesi di un reato collettivo, compiuto dalla Democrazia Cristiana siciliana o da una parte di essa; attraverso uno scambio di favori fra politica e mafia del quale non si è avuta la possibilità di dimostrare contro di me il benché minimo esempio di concretizzazione».

Dopo duecentocinquanta udienze il dibattimento di primo grado viene formalmente chiuso il 19 gennaio. Comincia la requisitoria dei pubblici ministeri, ventitré sedute: quindici gli anni chiesti per Andreotti.

La difesa, dopo ventiquattro sedute, vuole l’imputato pienamente assolto. Fra i testi a discolpa l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Xavier Perez De Cuellar, gli ex ambasciatori Usa a Roma Maxwell Rabb e Peter Secchia, l’ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, l’ex capo dei servizi segreti Riccardo Malpica, tre ex capi della polizia. E, colpo di scena, anche il boss Gaetano Badalamenti. Perché don Tano, sul delitto Pecorelli e su quello Dalla Chiesa, ha smentito Buscetta.

L’INCUBO BUSCETTA

Il primo pentito di mafia dell’era moderna è un incubo per Andreotti. Ha credibilità, carisma, ha la certificazione doc del giudice Falcone. Racconterà a proposito del suo vecchio amico Badalamenti: «Mi disse che un giorno si era incontrato con il presidente a Roma e che si era personalmente congratulato con lui, dicendogli che "di uomini come lui (Badalamenti, ndr) ce ne voleva uno per ogni strada di ogni città italiana”..».

Dopo undici giorni di camera di consiglio, il 23 ottobre 1999 il tribunale di Palermo assolve Giulio Andreotti “perché il fatto non sussiste”. Mancanza di prove sufficienti, incongruenze, dichiarazioni confuse e contraddittorie. Il contesto che dipingono i giudici intorno all’imputato eccellente però è maleodorante. Lui, che non aveva mai mostrato un gesto di gioia o un moto d’ira, per la prima volta ha un brivido, quasi trema e dice: «La partita è chiusa».

Nel frattempo Giulio Andreotti viene assolto a Perugia anche per l’omicidio di Mino Pecorelli, poi sarà condannato a 24 anni in appello e definitivamente assolto in Cassazione. Nel frattempo il presidente della Suprema Corte Corrado Carnevale viene assolto a Palermo dall’accusa di avere “aggiustato” il maxi processo, condannato a 6 anni in secondo grado e poi anche lui assolto dalla Cassazione. Si arriva così all’appello per Giulio Andreotti. E il 2 maggio del 2003 la sentenza rimescola le carte. In parziale riforma del primo verdetto i giudici affermano che, fino alla primavera del 1980, Giulio Andreotti era colluso con Cosa Nostra.

E che, solo dopo l’uccisione del presidente della regione Piersanti Mattarella, si è allontanato dall’organizzazione criminale. Condannato e prescritto per l’associazione a delinquere semplice fino al 1980, assolto sia pur in forma dubitativa per il dopo. Due epoche di mafia, due sentenze. Confermate dalla Cassazione il 28 dicembre del 2004.

IL DIVO

Ma il processo contro l’uomo politico italiano più famoso dalla fine della Seconda Guerra mondiale in realtà non è mai finito. Continua ancora oggi, a trent’anni dall’inizio dell’indagine. Intrecciandosi con tutti gli altri “processi politici” celebrati a Palermo negli anni successivi, incrocio rovente della giustizia italiana, campo di battaglia, arena. Il dibattito è sempre aperto soprattutto su un punto: bisognava processarlo e condannarlo politicamente e non trascinarlo in un’aula di tribunale. Sullo “zio Giulio” viene girato nel 2008 anche un film capolavoro, Il Divo, regista il premio Oscar Paolo Sorrentino. E poi una montagna di libri. Ne cito solo alcuni.

Quello dell’avvocato Giulia Bongiorno (Nient’altro che la verità, Rizzoli 2005), quello del sociologo Pino Arlacchi (Il processo, Giulio Andreotti sotto accusa a Palermo, Rizzoli 1995), quello di Alexander Stille (Andreotti, Mondadori 1995), quello di Gian Carlo Caselli e di Guido Lo Forte (La verità sul processo Andreotti, Laterza 2018) e ancora tanti altri.

Sempre nel 1995 la Pironti Editore pubblica un tomo di 973 pagine che riporta integralmente la memoria dei procuratori di Palermo, il titolo fa discutere: La vera storia d’Italia. L’anno dopo, un pamphlet firmato dallo storico Salvatore Lupo (Andreotti, la mafia, la storia d’Italia, Donzelli) dà più ampio respiro alla vicenda: «La vera storia d’Italia passa anche per l’aula del processo Andreotti, ma – per disgrazia o per fortuna – non si ferma lì».

Giulio Andreotti muore a Roma il 6 maggio del 2013 all’età di novantaquattro anni.

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

La biografia. Sciascia, dal Pci ai radicali: in direzione ostinata e contraria. Biagio Castaldo su Il Riformista il Novembre 2019

È l’epitaffio di Villiers che Leonardo Sciascia scelse per essere ricordato, un inno che restituisce il suo ultimo paradosso: sfidare la scommessa di Pascal sull’esistenza di Dio. Il ritorno alle terre di zolfare dell’agrigentino che gli ha dato i natali nel 1921, dalla quale eredita l’umorismo pirandelliano e il materiale narrativo dei suoi primi libri, Le parrocchie di Regalpetra (1956) e Gli zii di Sicilia (1958), che destano immediatamente l’attenzione della critica letteraria più engagé. La Sicilia,  le indagini sulla mafia e quel relativismo  della conoscenza, per cui la realtà è più ingarbugliata di come appare – Gadda pubblica negli stessi anni Il Pasticciaccio – inaugurarono la stagione del giallo. Il giorno della civetta (1961), scritto in seguito all’assassinio del sindacalista Miraglia nel 1947,  e A ciascuno il suo (1966), che scavalcano la definizione confinante di giallo e nobilitano a livello sociale un genere letterario da sempre bistrattato. Intanto si trasferisce a Palermo, comincia  a collaborare con il Corriere della sera e a dedicarsi al romanzo, Il contesto, pubblicato poi nel 1971: una critica nelle vesti di divertissement al sistema giudiziario di una terra immaginaria, nella quale è facilmente riconoscibile l’Italia degli anni 70.  Il contesto gli vale la candidatura al premio Campiello, che Sciascia decide sapientemente di ritirare in seguito alle forti polemiche suscitate dal dibattito politico-intellettuale. Nel ’74 Todo modo è l’occasione di polemizzare con le alte gerarchie ecclesiastiche,  attraverso un poliziesco di «cattolici che fanno politica», cardinali e uomini politici impegnati tra riti spirituali e delitti.  Nel 1975 scrive La scomparsa di Majorana (avvenuta nel 1938), un’indagine rielaborata in forma di prosa sulla scomparsa del fisico Ettore Majorana, e nello stesso anno viene eletto segretario regionale del Pci alle elezioni comunali di Palermo. Incarico che abbandonerà due anni più tardi, quando assumerà posizioni

molto critiche nei confronti della direzione  del partito, alla quale aveva manifestato tutta la sua contrarietà a proposito del compromesso storico.

Il caso Moro porta Sciascia sulle tracce delle lettere di prigionia dell’onorevole durante i 55 giorni di sequestro, delineando un urgente ritratto di «opera di verità», pubblicata nel ’78 con il titolo di L’affaire Moro. Sebbene il caso avesse tratti al limite del romanzesco, ricordando certe pagine di Pasolini, Sciascia investe qui la letteratura di un ulteriore ruolo: svelare il senso della tragedia dietro la solitudine di un uomo, prima ancora che di un politico incatenato. Il 1979 consacra l’entrata di Sciascia tra i Radicali, candidandosi sia al Parlamento europeo che alla Camera, vincendo entrambe le elezioni, ma preferendo dapprima la sede di Strasburgo e dopo appena due mesi accettando l’incarico a Montecitorio, dove rimarrà fino al 1983. Come membro della Commissione parlamentare d’inchiesta, Sciascia si occupa della strage di via Fani, dell’assassinio di Moro, del problema terrorismo in Italia, a proposito del quale mantiene posizioni antigiustizialiste. Si schiera dapprima contro la legislazione d’emergenza, che in quegli anni inasprì la pena per molti reati, poi nel 1982 quando il Partito Radicale denuncia le torture inflitte dalla polizia ai brigatisti, Sciascia prende una posizione inamovibile. Intanto continua a muoversi tra l’attività parlamentare,  quella di curatore di mostre e quella giornalistica con il lucido sguardo che caratterizzò sempre la sua attività e polemizzando nel ’87 sulle colonne del Corriere con quelli che definì gli «eroi della sesta», i magistrati palermitani del pool antimafia, tra i quali capitò anche Borsellino, accusandoli di carrierismo. Due anni dopo, a causa di un male incurabile, il 20 novembre 1989 muore da laico. E noi, su questo pianeta, lo ricordiamo ancora. Biagio Castaldo

Quel giurista del Pd allevato dall'anti-Falcone. Il maestro Pizzorusso sull'Unità criticò il magistrato poi ucciso a Capaci. Felice Manti il 21 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Il corpo di Giovanni Falcone è saltato in aria a Capaci, il giudice Giovanni Falcone è stato ammazzato un po' alla volta. Dagli articoli di Repubblica («È un guitto, un ansioso esibizionista dominato da quell'impulso irrefrenabile a sciorinare sentenze sui giornali o in tv») e Unità, dai processi mediatici orchestrati dai suoi nemici come Leoluca Orlando, dall'Anm e da un Csm politicizzato e ostaggio dei veti del Pci che decise di negargli l'ennesima sacrosanta poltrona di Procuratore nazionale antimafia, la struttura di supervisione gerarchica sulle procure che lui aveva inventato, dopo avergli negato il vertice dell'ufficio istruzione di Palermo nel 1988 e il Csm, ufficialmente perché il giudice era «amico» di due personaggi che le toghe rosse non hanno mai digerito, Giulio Andreotti e Claudio Martelli.

In realtà Falcone accusava una certa Antimafia «più parlata che agita», pensava che i veri mafiosi fossero nella Rete di Orlando, come rivela il cablogramma dell'intelligence Usa riportato nel libro La Seconda Repubblica. Origini e aporie dell'Italia bipolare (Rubbettino) di Francesco Bonini, Lorenzo Ornaghi e Andrea Spiri, aveva capito che senza la separazione delle carriere la riforma della giustizia del 1989 avrebbe lasciato praterie ai pm. E andava zittito.

«Chi come me richiede che pm e giudici siano due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera - disse a Mario Pirani nel 1991 il giudice - viene bollato come nemico dell'indipendenza del magistrato e nostalgico della discrezionalità dell'azione penale». E soprattutto «Falcone è troppo legato al ministro per poter svolgere con la dovuta indipendenza un ruolo come quello». Eccola, una delle pallottole di carta sparata sull'Unità da Alessandro Pizzorusso, al Csm su indicazione del Pci e mentore del membro laico indicato dal Pd Roberto Romboli, la cui eleggibilità a Palazzo de' Marescialli è appesa a un filo. E ancora: «Non si sa bene se è Falcone che offre la penna a Martelli o Martelli che offre la sua copertura politica», scriveva Pizzorusso il 12 marzo 1992, un pugno di giorni prima di Capaci. «Ero negli Usa con Liliana Ferraro, sua collaboratrice. Falcone ci telefonò e ci lesse l'articolo al telefono, era molto ferito e molto arrabbiato, soprattutto per le minacce espresse contro chi l'avesse votato in plenum», ricordò a Ermes Antonucci sul Foglio qualche tempo fa l'amico Giuseppe Di Federico, allora consulente di Martelli. Pizzorusso nel pezzo avvisava i togati che se avessero votato per lui in plenum avrebbero perso molti voti tra i colleghi che da lì a breve avrebbero dovuto eleggere i nuovi vertici dell'Anm. «Gente che occupa i quattro quinti del suo tempo a discutere in corridoio; se lavorassero, sarebbe meglio», si sfogò una volta Falcone come scrive nel libro I disarmati Luca Rossi.

A distanza di molti anni c'è chi gli ha chiesto scusa come Michele Santoro: «Pensavo si fosse fatto strumentalizzare. Ho sbagliato», disse qualche mese fa. Meglio tardi che mai. A leggere invece oggi questa frase vengono i brividi: «Se Falcone non farà carriera, non sarà solo colpa del fato o di subdole iniziative dei suoi avversari», fu l'epitaffio prematuro di Pizzorusso. E il Pd che rivendica le spoglie mortali di Falcone ha deciso di nominarne il suo discepolo preferito. Una mossa che sembra l'ennesimo chiodo sulla sua bara.

Mi faccio i fatti miei? Non è democratico. La comunicazione verbale spesso tradisce i nostri vizi come ad esempio quello di dimenticare la collettività. Michele Mirabella su La Gazzetta del mezzogiorno il 12 Febbraio 2023.

«Io mi faccio i fatti miei» è locuzione tipicamente italiana non traducibile facilmente in altre lingue per quel «mi faccio» dialettale e popolaresco. Ma l’italianità si spinge anche oltre il mero dato linguistico. Il modo di dire esprime un’antica e stagionata propensione attivata da una vita pericolosa e da una convivenza sociale difficile sottoposta alle angherie ottuse di certi poteri e sistemi politici estranei alla democrazia. I confini ristretti del familismo hanno sempre autorizzato difese naturali messe in campo con il circoscrivere all’ambito strettamente domestico la percezione del sociale. Il motto araldico corredato da nomignoli e appellativi come «padrino» e «fratello» o «compare» e «tengo famiglia». Longanesi arrivò a proporre di ricamare l’avvertimento sulla bandiera italiana.

Indicativo quel «farsi i fatti» con l’allitterazione che sembra chiudere ulteriormente l’orizzonte di rapporti. Esistono varianti dei «fatti» prelevate dal fruttivendolo come i «cavoli» o dislocate in zone innominabili del corpo che asseverano il concetto con vigore e non serve fare esempi. «Farmi i fatti miei» o i sinonimi figurati, sta ad indicare non occuparsi delle faccende altrui, ignorarle, volerle ignorare e, per ciò stesso, con più vigore e determinazione impegnarsi per le proprie.

Chi non può «farsi» i fatti propri, ma, per compito e funzione, devono «farsi» i «cavoli» altrui sono la Polizia, i Carabinieri o chiunque altri, magistratura in primis, debba ingegnarsi a conoscere gli altri e la loro vita, anche minuscola e quotidiana, se sono indagati o sospetti di reati. Nell’interesse della collettività. E se no, che ci stanno a fare? Da sempre, all’uopo, ci si è serviti di tutti i mezzi a disposizione: dalla vox populi alle esplicite delazioni, dalle spie professionali alle osservazioni camuffate. Il progredire della tecnologia ha comportato l’inerziale progresso dei mezzi atti alla spiata. Come dice la scuola sociologica, «non si può non comunicare» e se non si può non comunicare, non si può evitare che la comunicazione si offra sempre più efficacemente, quanto più sofisticata è, agli interlocutori non previsti o desiderati.

Più la comunicazione sarà necessaria alle dinamiche sociali, crimine compreso, più sarà fondamentale utilizzarla. Non se ne esce. Il villaggio globale ha le sue capère (nel magnifico dialetto napoletano, son queste le parrucchiere ambulanti che aggiornavano di pettegolezzi i vicoli), o suoi pettegoli, le sue spie, il suo vicinato occhiuto e curioso. E, dunque, ognuno pensi per sé. Si tratta di legittima difesa: chi di telefono ferisce, di telefono perisce. E, se un tale usa il telefono per delinquere, pratica la comunicazione per supportare il crimine, fa benissimo la polizia, fanno benissimo i magistrati inquirenti ad ascoltare le conversazioni e a spiare la sua comunicazione per impedirglielo. E faranno bene, anche se servirà a trascinare il reprobo ciarliero in tribunale, ad acquisire le prove per metterlo in gattabuia proteggendo tutti i cittadini e i «fatti loro». O, meglio «facevano», dovremo dire, se dovesse mai essere approvata da Parlamento qualche sciagurata legge sulle intercettazioni che spunti le armi degli inquirenti, opacizzi i controlli, mette la mordacchia alle indagini, aiuti le latitanze. La verità che tutti sanno è che qualcuno i fatti suoi se li fa molto meglio e di più e anche con arroganza e infischiandosi di tutti gli altri che non hanno lo stesso loro potere e, quindi, continuerebbero a farlo cercando di trasformare i “fattacci” propri in leggi dello stato. Perché questo tizio globale che è annidato nei meandri, vicoli e piazze del sistema politico può accadere che sia, anche, il titolare di tanti di quei fatti pubblici trasformati in fatti privati suoi, che è in grado di farsi i fattacci suoi impedendo agli altri cittadini di farsi i propri.

Ed ecco il ribellismo generico e violento delle «frange», cosiddette, dei torbidi pensatori delegate alle piazzate con il compito di farsi i «fatti nostri» minacciando la vita quotidiana, reclamando, insieme alle mafie, la cancellazione dei «fatti loro».

Quindi cade proprio il riprovevole postulato tutto italiano che consiste in quella rassegnazione a guardare solo il proprio misero «particolare» alla faccia dell’interesse collettivo. Ben ci sta. Se ci fossimo fatti meno i fatti nostri non saremmo a questo punto. Non ci resta che sperare in un rinsavimento collettivo, visto che anche nel fronte dell’opposizione in troppi si sono «fatti i fatti loro». Come si dice a Bari. La fanfaluca che vuole che si intenda difendere i cittadini da improvvide irruzioni nel proprio privato tran tran quotidiano si confuta semplicemente con saggi provvedimenti che impediscano il tracimare all’esterno dei risultati delle ricerche e delle indagini. Sempre che lasciar filtrare alcune circostanze non rientri nelle tecniche d’indagine. Almeno che non si concluda che gli indagati erano innocenti e sono stati ingiustamente vilipesi. E allora saranno «fatti» del magistrato. Questa è la democrazia.

Quel tic infantile di chi ripete “ma allora stai con la mafia?” Le intercettazioni vanno manipolate con cura. Spesso ci sentiamo giustizieri della notte, finché nel rancore della ronda punitiva ci finisce un parente. Chiara Lalli su Il Dubbio il 25 gennaio 2023.

C’è una legge universale che stabilisce che data la sciocchezza X nel giro di qualche ora seguirà una sciocchezza Y che equivale a una qualche moltiplicazione di X. La lievitazione dipende da vari fattori: l’umore, il numero di obiezioni ricevute, la capacità di argomentare.

Se poi la sciocchezza originaria riguarda una questione che divide bene i buoni dai cattivi, allora l’incastro mortale è perfetto (lo so che ormai anche “non bevo caffè” causa posizionamenti e liste di imperdonabili mostri da far precipitare giù dalle scale, ma la giustizia e le code di paglia funzionano ancora meglio dei bisticci agroalimentari).

Veniamo all’ultimo esempio di moltiplicazione delle X. Pierfrancesco Majorino il 20 gennaio così commenta la relazione del ministro della giustizia Carlo Nordio: “La guerra contro le # intercettazioni condotta dal ministro # Nordio è assolutamente preoccupante”.

Non mi soffermerò sulla scelta lessicale, sugli hashtag né sulla ingenerosa sintesi di quanto avrebbe detto Nordio, ma passerò precipitevolmente alla risposta di Majorino a uno che lo rimprovera di populismo elettorale.

Ma quale populismo. E quali voti. Qua il tema è capire se vogliamo sostenere l’azione della magistratura contro le mafie e la corruzione o meno” (il corsivo è mio).

Ora, di Majorino potremmo indubbiamente disinteressarci, ma quello che scrive è purtroppo così comune che rischiamo di fare come Massimo Troisi con la domanda “sei emigrante?”. Per esasperazione, per noia, per pigrizia. La fallacia di rispondere a dubbi e a critiche di metodo con l’adolescenziale “ah, ma quindi sei a favore della mafia?!” è esasperante forse solo quanto la fallacia di domandare con fare passivo aggressivo “se non hai niente da nascondere di cosa ti preoccupi?”. Insomma, la difesa d’ufficio va dal grande fratello delle intercettazioni al razionale e difendibilissimo “o con me, o contro di me”, quindi per i cattivi. In una discussione con queste premesse non può che andare tutto malissimo (e purtroppo non solo in una discussione).

Le intercettazioni, come ogni strumento, vanno manipolate con molta cura. E le indicazioni per farlo ce le abbiamo anche – cioè non ci servono altre leggi, ci serve ragionare e contenere la bava e la furia moralizzatrice – ma spesso in nome della Giustizia e della Verità ci sentiamo principini machiavellici e giustizieri della notte, finché nel rancore della ronda punitiva ci finisce un parente o un amico.

Tutto quello che inizia con una maiuscola e non è una città o un nome proprio è un po’ preoccupante e la cautela doverosa riguarda la pubblicazione, la correttezza delle trascrizioni, la comprensione, la loro rilevanza penale. Perché è ripugnante e ridicolo dover aspettare di finirci in mezzo per rendersi conto che il walk of shame è una primitiva forma di regolamento dei conti, che i verbali sono spesso inesatti e parziali, che si perdono i toni e i significati reali sacrificati in nome di un letteralismo incolpevole ma mortale (questo quando intercettato e trascrittore parlano la stessa lingua, in caso di lingue diverse e di traduzione aggiungiamo questa ulteriore insidia), che possiamo essere persone orribili o avere un senso dell’umorismo nerissimo e non per questo meritare la galera (né la gogna che vi fa sentire bravissimi e buonissimi).

È ripugnante e ridicolo pensare che questo voglia dire essere allegri sostenitori di mafie e corruttori o mafiosi e corruttori. Ed è ripugnante e soprattutto ridicolo questa difesa acritica “dell’azione della magistratura”. Perché dipende, ovviamente. E perché i magistrati, anche in buonafede, sbagliano e si ostinano e perseguono poveri cristi che non c’entrano nulla.

E perché certe regole non ci sono per ostacolare voi buoni, che non avete niente da nascondere e che vivreste in una casa fatta di cristallo perché la vostra anima è pura, ma esistono per ridurre le ingiustizie e gli errori. Che ci saranno sempre ma che non dovrebbero essere giustificati in nome delle vostre buone intenzioni. Perché le buone intenzioni lasciano cadaveri lungo la strada, e su quei cadaveri ci sono i segni di molte coltellate ma non c’è nemmeno la giustificazione di aver vendicato l’assassinio di Daisy Armstrong e non siamo in un romanzo di Agatha Christie.

Ci sono cinque morti l’anno per mafia e trecento per femminicidio. I nuovi nemici dopo Messina Denaro, il risiko delle mafie: droga e riciclaggio in tutta Italia. Paolo Liguori su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Per Matteo Messina Denaro userei la parola arresto, più che la parola cattura, perché era oramai in pianta stabile un paziente di questa clinica – e magari di altre strutture ospedaliere – nelle quali si faceva tenere in vita per un tumore al colon. Un tumore che è andato avanti, che è stato operato, e che probabilmente l’ha portato a pensare di essere alla fine della vita.

Questa verità era stata diffusa da un pentito già a novembre dell’anno scorso quando diceva “vedrete, si consegnerà, sarà una sorpresa”. Noi non sappiamo se si è consegnato, sappiamo che i carabinieri che hanno investigato hanno dei meriti enormi. Lo hanno preso, lo hanno arrestato, lo hanno messo in condizioni ‘sterili’ e stanno continuando le indagini.

Stiamo parlando di una mafia di trent’anni fa, stiamo parlando di una mafia che in altre zone – ad esempio quelle di Corleone con i corleonesi di Totò Riina – era stata già debellata. Ora è toccato anche a Messina Denaro. Però rimangono molti interrogativi perché quando negli Stati Uniti sconfissero la mafia di origine italiana, le forze specializzate nella lotta al crimine organizzato si spostarono sulla droga. E in Italia è successo lo stesso, e cioè la mafia dell’epoca, quella dei corleonesi e di Messina Denaro, è cambiata ma non è che non c’è più la criminalità organizzata. Ce ne è di più, e si è spostata sulla droga.

Basta seguire il denaro, il profumo di quel denaro che viene riciclato nelle grandi città italiane. Non più la Sicilia e Palermo, non soltanto la Calabria con le grandi famiglie che hanno i contatti con il centro e sud America per la droga, ma anche le altre città italiane. Però non c’è stato uno spostamento di energie, di forze, di magistrati verso questo tipo di criminalità. Non c’è stato nemmeno uno spostamento di magistrati e forze dell’ordine verso altri tipi di delitti. Ormai ci sono cinque morti l’anno per mafia e trecento per femminicidio.

La procura di Palermo che ha organizzato l’arresto di Messina Denaro, si è distinta perché stava cercando di dimostrare l’indimostrabile: la trattativa Stato-mafia. Tutte le altre procure hanno puntato sulle leggi di emergenza che giustamente sono nate contro la mafia, ma oggi non vengono levate, attenuate o cambiate, rimangono immobili. Allora noi abbiamo una forza repressiva immobile legata alla letteratura della mafia, alla storia della mafia, e abbiamo una realtà di un Paese che si muove, la realtà della criminalità organizzata che controlla moltissime città italiane e parti del territorio, che non viene contrastata.

Su questo bisognerebbe riflettere: qual è il nemico oggi? Non è più Messina Denaro, ma sono quelle forze economiche che muovono denaro riciclato dai proventi della droga, che controllano intere città e che noi non contrastiamo a sufficienza. Paolo Liguori

Il tesoro del Cavaliere. La lente dell’Antimafia su 70 miliardi di lire. Lirio Abbate su La Repubblica il 16 Marzo 2023

Una nuova consulenza della procura di Firenze che indaga sulle stragi del 1993 ricostruisce i movimenti di capitali ignoti arrivati a Berlusconi per lanciare le sue aziende tra gli anni ’70 e ’80. Le donazioni a Dell’Utri

Un nuovo documento giudiziario riapre lo scenario sull’origine dell’impero di Silvio Berlusconi. Una consulenza tecnica adesso al vaglio dei magistrati antimafia di Firenze che vogliono capire se c’è un nesso tra le somme ancora oscure arrivate nelle casse di Fininvest e i boss di Cosa nostra. Un documento che si inserisce nell’inchiesta sulle stragi del 1993 ancora aperta sui mandanti e che fa emergere "innesti finanziari" ancora opachi "nelle società che hanno dato vita al gruppo Fininvest".

"Repubblica" contro il Cav. L'ira della figlia Marina. La presidente Fininvest: "Calunnie senza fondamento, è uno sciacallaggio politico". Luca Fazzo il 18 Marzo 2023 su Il Giornale.

«Calunnie senza fondamento» utilizzate per «operazioni di puro sciacallaggio politico». Marina Berlusconi non usa giri di parole per replicare all'ultima puntata delle «rivelazioni» sul lato oscuro della storia della Fininvest. Da due giorni, Repubblica è tornata a sollevare il tema dei finanziamenti che negli anni Settanta diedero vita al gruppo del Biscione, e dei rapporti tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Due temi uniti, secondo il racconto del quotidiano, da un fattore comune: i contatti con Cosa Nostra, per i quali Dell'Utri è stato processato e condannato. I soldi versati nel corso degli anni da Berlusconi a Dell'Utri non sarebbero aiuti amicali ma la conseguenza di un ricatto. Soldi in cambio del silenzio. Il materiale utilizzato dal giornale romano è nelle mani della Procura di Firenze, che indaga su Berlusconi e Dell'Utri nella nuova inchiesta sulle stragi di mafia. É una indagine che si trascina da anni, con i pm Luca Tescaroli e Luca Turco che scavano sugli stessi argomenti sui quali altri loro colleghi hanno indagato per anni senza risultati. «Inchieste che alla fine - dice Marina Berlusconi - si sono concluse con l'unico risultato possibile: nei conti Fininvest non sono mai entrati una lira o un euro dall'esterno». Gli atti utilizzati da Repubblica sono una consulenza richiesta dai pm fiorentini e una relazione di servizio del centro locale della Dia, la Direzione investigativa antimafia. Materiale, soprattutto quest'ultima, che i difensori dei due indagati sostengono essere coperto totalmente da segreto istruttorio, non essendo mai stato depositato. Ma le fughe di notizie nelle tante inchieste sul Cavaliere non sono certo iniziate ora. Più interessante è analizzare nei dettagli quanto di realmente nuovo vi sia nei documenti commissionati dalla Procura di Firenze. Nella relazione dei periti contabili si afferma che alla fine degli anni Settanta alcune società della galassia Fininvest avrebbero aumentato il loro capitale con qualche decina di miliardi di lire di cui i periti non hanno identificato l'origine. Si parlerebbe di operazioni «non meglio precisabili sotto il profilo quantitativo e della relativa provenienza», affermazione di una certa vaghezza e che comunque non ipotizza finanziamenti da organizzazioni criminali. Gli stessi consulenti hanno analizzato i flussi economici ultradecennali tra Berlusconi e Dell'Utri, e hanno concluso che non è possibile confutare «le affermazioni di Berlusconi in relazione alle ragioni sottese a tali erogazioni, quali sostanziali atti di amicizia». E allora? Elementi nuovi ci sono invece nella relazione della Dia, che nei mesi scorsi ha messo sotto controllo numerosi telefoni. Da alcune conversazioni tra la moglie di Dell'Utri e quella di Denis Verdini, oltre che da una telefonata tra Dell'Utri e il senatore Alfredo Messina, gli investigatori della Dia prendono spunto per affermazioni pesanti. La vicenda dell'aiuto economico a Dell'Utri, scrivono, è «sicuramente connessa a un riconoscimento anche morale, l'assolvimento di un debito non scritto, la riconoscenza (...) per aver pagato un prezzo connesso alla carcerazione, senza lasciarsi andare a coinvolgimenti di terzi». Affermazioni che in una relazione seria troverebbero spazio solo se sorrette da certezze vengono invece buttate lì come ipotesi, i soldi di Berlusconi sarebbero il corrispettivo «per averlo, probabilmente, coperto». E ancora: i versamenti «fanno ben considerare che alla base vi sia effettivamente una sorta di ricatto non espresso». Ma quale sia l'oggetto del ricatto, neanche la solerte Dia di Firenze arriva a ipotizzarlo.

I primi miliardi di Berlusconi sono finiti nel mirino dell’antimafia. Stefano Baudino su L'Indipendente il 18 Marzo 2023

C’è qualcosa che non torna sull’origine di una grossa quota di denaro giunta a Silvio Berlusconi tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta per il rilancio delle sue aziende. E sono al contempo inafferrabili le ragioni che hanno spinto il Cavaliere a versare, tra il 2012 e il 2021, un totale di 28 milioni di euro nelle casse del suo ex braccio destro Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ancora imputato (ma assolto in Appello) al processo sulla “Trattativa Stato-mafia” e indagato con Berlusconi tra i mandanti delle stragi del 1993. Sono proprio i pm fiorentini titolari dell’inchiesta a volerci vedere chiaro.

I consulenti dei magistrati di Firenze hanno infatti prodotto un documento in cui si accerta come indecifrabile l’origine di 70 miliardi di lire – versati per la maggior parte in contanti – che tra il febbraio 1977 e il dicembre 1980 hanno rimpinguato le casse delle società in mano a Berlusconi. Nella relazione, di oltre 500 pagine, sono stati attenzionati quegli “innesti finanziari” di cui si ignora la paternità, riesaminando le operazioni anomale già registrate in una prima consulenza svolta a Palermo e presentata al Processo a carico di Marcello Dell’Utri.

Un processo di cui è opportuno ricordare l’esito. Riconosciuto come mediatore tra i vertici della mafia palermitana e Silvio Berlusconi, nel 2014 Dell’Utri è infatti stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa a sette anni di carcere (poi scontati). La Cassazione scrisse che “grazie all’opera di intermediazione svolta da Dell’Utri veniva raggiunto un accordo che prevedeva la corresponsione da parte di Silvio Berlusconi di rilevanti somme di denaro in cambio della protezione da lui accordata da Cosa Nostra palermitana. Tale accordo era fonte di reciproco vantaggio per le parti che a esso avevano aderito grazie all’impegno profuso da Dell’Utri: per Silvio Berlusconi esso consisteva nella protezione complessiva sia sul versante personale che su quello economico; per la consorteria mafiosa si traduceva invece nel conseguimento di rilevanti profitti di natura patrimoniale. Tale patto non era stato preceduto da azioni intimidatorie di Cosa Nostra palermitana in danno di Silvio Berlusconi e costituiva piuttosto l’espressione di una certa espressa propensione a monetizzare per quanto possibile il rischio cui era esposto”.

Il patto fu stipulato nel 1974, in occasione di un incontro tenutosi a Milano tra Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, l’allora capo di Cosa Nostra Stefano Bontate (rappresentante della fazione palermitana) e il mafioso Francesco di Carlo. Un accordo rimasto effettivo fino al 1992, sopravvissuto perfino all’esito della Seconda guerra di mafia, quando i corleonesi di Riina sconfissero i palermitani di Bontate: “Berlusconi – ricordano i giudici – aveva infatti costantemente manifestato la sua personale propensione a non ricorrere a forme istituzionali di tutela, ma avvalendosi piuttosto dell’opera di mediazione con Cosa Nostra svolta da Dell’Utri. A sua volta Dell’Utri aveva provveduto con continuità a effettuare per conto di Berlusconi il versamento delle somme concordate a Cosa Nostra e non aveva in alcun modo contestato le nuove richieste avanzate da Totò Riina”. Dell’Utri finirà anche imputato al processo sulla “Trattativa Stato-mafia“: condannato a 12 anni in primo grado per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato, nel 2021 è stato assolto in Appello. Ad aprile si esprimerà la Cassazione.

I magistrati di Firenze pongono poi la loro lente sui continui versamenti di denaro effettuati da Berlusconi a Dell’Utri nel corso dell’ultimo decennio. La consulenza individua una lunga serie di donazioni nel periodo compreso tra il 2012 e il 2021, per 28 milioni di euro. L’8 marzo 2012 Berlusconi versa sui conti intestati a Dell’Utri e alla moglie Miranda Ratti 20,9 milioni di euro per comprare Villa Camarcione (in cui Berlusconi non metterà mai piede), con cui lady Dell’Utri acquisterà una villa a Santo Domingo. il 23 marzo 2015 arriva dal Cavaliere un bonifico di un milione di euro al figlio di Dell’Utri, Marco: il denaro verrà impiegato per pagare gli avvocati del padre e noleggiare uno yacht. Il 2 agosto del 2016 arrivano altri due milioni di euro sul conto della moglie di Dell’Utri, il 27 luglio 2017 altri 500 mila euro; nel febbraio 2018 1,2 milioni, il mese successivo altri 800 mila euro; nel marzo del 2019 500mila euro, nel gennaio 2020 1,2 milioni e nel giugno 2021 altri 180 mila euro. Tra questi flussi di denaro trova posto, dal maggio 2021, anche un vitalizio da 30mila euro al mese che Dell’Utri ha chiesto e ottenuto.

Difficile poter appurare le reali motivazioni sottese ai versamenti. Una nota della Dia, entrata nella relazione, mette nero su bianco che è “sicuramente connessa a un riconoscimento anche morale, l’assolvimento di un debito non scritto, la riconoscenza, per quanto riguarda l’ultimo periodo”, dovuta dal Cavaliere all’ex senatore “per aver pagato un prezzo connesso alla carcerazione, senza lasciarsi andare a coinvolgimenti di terzi“. Dell’Utri, infatti, non chiamò mai in causa Berlusconi davanti ai magistrati nella cornice dei processi a suo carico. Il Cavaliere avrebbe inoltre sostenuto Dell’Utri pagando di tasca sua tutte le spese legali per i suoi processi: “La difesa dell’ex senatore – scrivono gli investigatori nella nota ai magistrati – dev’essere attenta e puntuale in quanto è anche la difesa di Forza Italia e di Silvio Berlusconi e pertanto se ne deve fare carico lui. Neanche concorrere nelle spese, ma proprio accollarsele tutte“.

A questo proposito, la Dia parla espressamente della sussistenza di “una sorta di ricatto non espresso, ma ben conosciuto da tutti, e idoneo al persistere delle dazioni”. Gli investigatori sostengono vi sia nei Dell’Utri “la consapevolezza che tutte le loro richieste, assecondate da Berlusconi, trovano fondamento in una sorta di risarcimento di quanto hanno patito nel tempo per colpa sua, per averlo, probabilmente, coperto”. [di Stefano Baudino]

Quei trentamila euro al mese da Berlusconi a Dell’Utri. La Dia: il prezzo del silenzio. Lirio Abbate su La Repubblica il 17 Marzo 2023

L'ex cavaliere ha pagato al suo braccio destro le spese legali e dal 2021 anche un vitalizio. "Un compenso per la detenzione subita e per averlo coperto"

C'è una storia di "ricatto" e di "silenzio pagato a peso d'oro" attorno al buco nero della vita imprenditoriale di Silvio Berlusconi tra febbraio 1977 e dicembre 1980. Su questi 37 mesi si concentra l'esame dei magistrati di Firenze che stanno analizzando gli "innesti finanziari", senza una paternità, nelle società che hanno dato vita alla Fininvest. In oltre 500 pagine di nuova relazione tecnica vengono riesaminate le operazioni "anomale" già rilevate nella prima consulenza fatta a Palermo e prodotta nel processo a Marcello Dell'Utri, perché ci sono nuovi documenti che la procura di Firenze ha acquisito a gennaio dell'anno scorso.

Cari magistrati, lasciate stare la storiografia. Manca solo Soros, e poi la requisitoria della procura di Reggio Calabria, nel processo d'appello contro il boss Giuseppe Graviano, potrebbe essere ospitata su qualche sito complottista no vax o su quelli un tempo dedicati alle scie chimiche. Marco Gervasoni il 25 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Manca solo Soros, e poi la requisitoria della procura di Reggio Calabria, nel processo d'appello contro il boss Giuseppe Graviano, potrebbe essere ospitata su qualche sito complottista no vax o su quelli un tempo dedicati alle scie chimiche. Secondo il resoconto che ne fornisce Alessia Candito su Repubblica di ieri, la procura avrebbe riscritto la storia italiana dagli anni '70 in poi. Forza Italia sarebbe stata fondata dalla 'ndrangheta, che comunque già tirava le file dei politici della prima Repubblica, Bettino Craxi in primis: senza dimenticare l'immancabile Licio Gelli, i servizi deviati... e meno male che i Savi di Sion avevano judo. Ci sarebbe da chiudere qui, con il sorriso, ricordando come la storia del Craxi mafioso, che sceglie come sue erede Berlusconi, con contorno dell'immancabile stalliere di Arcore, fosse un cavallo di battaglia del giro Santoro-Travaglio che, prima di diventare fan di Putin, ci fecero parecchi soldi nel propinarlo a menti semplici: molte delle quali finirono parlamentari e addirittura ministri con i 5 stelle. Quindi, Forza Italia fondata dalla mafia e dalla 'ndrangheta assieme? E la camorra, era distratta? Ovviamente queste elucubrazioni si sono sempre scontrate con l'assenza di qualsiasi prova, come pare non ve ne siano neanche ora: tutto infatti nasce dalle dichiarazioni di pentiti ma, per fortuna, almeno oggi, non bastano le loro parole per far condannare qualcuno. Però qui vorremmo lanciare un altro monito. Noi, che di mestiere facciamo gli storici e la storia la insegniamo, ve lo chiediamo con reverenza, cari magistrati: non portateci via il lavoro. Non occupatevi di ricostruire la storia, perseguite i reati di individui e di organizzazioni ma non ricavate, dalle vostre indagini, giudizi storici. Anche perché, se dovessimo osservare, da un punto di vista metodologico, la vostra interpretazione storiografica, essa lascerebbe molto a desiderare. Prima di tutto, si fonda su una fonte sola: i pentiti. Che è come se si volesse ricostruire la storia del Terzo Reich solo con le testimonianze dei nazisti. Poi, non esercitate mai la disciplina del contesto, seguite i vostri fili, di intrighi, congiure e complotti, e non vedete il mondo che sta fuori. Nel caso specifico, prendere per buona la versione di un pentito, che accredita Craxi e Berlusconi a complottare con mafiosi durante il rapimento Moro, è risibile. Allora Craxi era a capo di un Psi piccolo e con poco potere, Berlusconi faceva ancora l'immobiliarista, e non è credibile che la Ndrangheta volesse la liberazione di Moro. E questo è solo un esempio. Bastava leggere un manuale di storia dei partiti, per considerarla una panzana colossale. Mettete in galera i colpevoli, se possibile, e liberate gli innocenti: al massimo, alla storia dedicatevi quando sarete in pensione.

Baiardo tira in ballo Berlusconi (Paolo), il ‘portavoce’ dei Graviano: “A colloquio con lui per mezz’ora”. Redazione su Il Riformista il 6 Febbraio 2023

Il presunto ‘profeta’ Salvatore Baiardo, il controverso personaggio già condannato per favoreggiamento della mafia, in particolare dei fratelli Graviano, e sedicente depositario di segreti sul boss Matteo Messina Denaro, la ‘Primula rossa’ di Cosa Nostra di cui annunciò settimane prima la cattura dagli studi tv di “Non è l’Arena” su La7, torna a parlare sul piccolo schermo e tira in ballo la famiglia Berlusconi.

Sempre nel corso della trasmissione condotta da Massimo Giletti Baiardo ha infatti raccontato di un incontro con Paolo Berlusconi, fratello del leader di Forza Italia Silvio, avvenuto a Milano nel 2011. “Siamo stati in ufficio da soli e siamo stati a colloquio con Paolo Berlusconi una buona mezz’ora”, ha raccontato l’ex tuttofare dei Graviano.

Baiardo ha raccontato che quella mattina “Paolo Berlusconi era nella sua sede de Il Giornale. Era andato a pranzare ed io ho detto non disturbatelo. Ho consegnato i documenti e mi hanno detto: ‘il signor Paolo Berlusconi appena finisce la farà chiamare’“. Baiardo ha sostenuto di essere andato da Paolo Berlusconi per chiedere un lavoro.

Parole di Baiardo che erano state anticipate domenica mattina da un articolo a firma Lirio Abbate su Repubblica. Una ricostruzione dei fatti che l’ex gelataio ha riferito anche ai pm della Direzione distrettuale antimafia di Firenze che tutt’oggi indagano sui presunti mandanti esterni delle stragi del 1993, inchiesta che vede tra gli indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.

Nel 2020, scrive ancora il quotidiano, i magistrati fiorentini avevano tentato di sentire Paolo Berlusconi nell’ambito degli accertamenti svolti su quel presunto incontro, ma il fratello dell’ex premier si era avvalso della facoltà di non rispondere in quanto familiare di un indagato.

A verbale invece ci sono le dichiarazioni di due agenti di polizia che erano nel dispositivo di tutela di Paolo Berlusconi a Milano nel 2011. In particolare, riferisce Repubblica, i procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco, sentono il 24 luglio 2020 l’agente Domenico Giancame, il quale avrebbe ricordato che nel 2011 il fratello dell’allora premier avrebbe incontrato Baiardo.

Il poliziotto lo avrebbe riconosciuto attraverso una foto come l’uomo che aveva parlato con Paolo Berlusconi il quale, alla fine della conversazione, che sarebbe avvenuta in via Negri, avrebbe detto all’agente, riferisce il quotidiano: “Tu sei testimone: questa persona — indicando Baiardo — è venuta a dire cose che riguardano mio fratello per screditarlo“.

L’altro poliziotto, Salvatore Tassone, sentito il 29 luglio 2021, avrebbe ricordato di aver visto Baiardo, in via Santa Maria Segreta e in via Negri a Milano, e che avrebbe chiesto di parlare con Paolo Berlusconi, riferisce ancora Repubblica, “per questioni inerenti il fratello Silvio“.

Baiardo: "Sono rimasto a colloquio con Paolo Berlusconi mezz'ora". La Repubblica il 05 Febbraio 2023.

Lo ha dichiarato durante la trasmissione 'Non è l'Arena' su La7

"Siamo stati in ufficio da soli e siamo stati a colloquio con Paolo Berlusconi una buona mezz'ora". Ad affermarlo è stato Salvatore Baiardo, condannato per favoreggiamento dei capimafia Graviano, durante la trasmissione 'Non è l'Arena' su La7, che nella stessa trasmissione aveva annunciato settimane prima la cattura del padrino Matteo Messina Denaro.

Baiardo ha raccontato che quella mattina "Paolo Berluconi era nella sua sede de Il Giornale. Era andato a pranzare ed io ho detto non disturbatelo. Ho consegnato i documenti e mi hanno detto: 'il signor Paolo Berlusconi appena finisce la farà chiamare'".

Baiardo ha sostenuto di essere andato da Paolo Berlusconi per chiedere un lavoro. I partecipanti alla trasmissione, i giornalisti e l'ex Pm Antonio Ingroia, lo hanno incalzato sottolineando, più volte, la versione opposta di Paolo Berlusconi (il quale ha riferito di essersi sentito minacciato da quel colloquio) ed esortandolo a rilevare la verità su questa ed altre cose di cui parla.

Estratto da repubblica.it il 05 Febbraio 2023.

"Siamo stati in ufficio da soli e siamo stati a colloquio con Paolo Berlusconi una buona mezz'ora". Ad affermarlo è stato Salvatore Baiardo, condannato per favoreggiamento dei capimafia Graviano, durante la trasmissione 'Non è l'Arena' su La7, che nella stessa trasmissione aveva annunciato settimane prima la cattura del padrino Matteo Messina Denaro.

Baiardo ha raccontato che quella mattina "Paolo Berluconi era nella sua sede de Il Giornale. Era andato a pranzare ed io ho detto non disturbatelo. Ho consegnato i documenti e mi hanno detto: 'il signor Paolo Berlusconi appena finisce la farà chiamare'". Baiardo ha sostenuto di essere andato da Paolo Berlusconi per chiedere un lavoro. […]

Estratto da ilmattino.it il 05 Febbraio 2023.

Salvatore Baiardo avrebbe avuto un incontro a Milano con Paolo Berlusconi nel 2011. A chiederlo, e a riferirlo anni dopo ai magistrati, sarebbe stato lo stesso gelataio originario di Palermo, ex favoreggiatore dei fratelli Graviano, al centro dell'attenzione negli ultimi tempi anche per aver annunciato, settimane prima, la cattura di Matteo Messina Denaro a Non è l'Arena […].

Era alla ricerca di un lavoro, avrebbe detto ai pm della Dda di Firenze titolari dell'inchiesta sulle stragi mafiose di Firenze, Roma e Milano del 1993, secondo quanto riferisce il quotidiano La Repubblica, spiegando che i magistrati fiorentini due anni fa hanno disposto accertamenti per quell'incontro riferito da Baiardo.

Baiardo-Berlusconi, le verifiche

In particolare la procura del capoluogo toscano avrebbe cercato di sentire Paolo Berlusconi, il quale si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere in quanto familiare di un indagato, ovvero il fratello ex premier: la procura fiorentina, nel 2017, ha riaperto le indagini su Silvio Berlusconi, e su Marcello Dell'Utri, nell'ambito dell'inchiesta sulle autobombe mafiose in continente (già archiviate due volte per entrambi, nel 1998 e nel 2013) in seguito a intercettazioni nel carcere di Ascoli Piceno a Giuseppe Graviano trasmesse dalla procura di Parlermo.

Sono stati invece sentiti a verbale due poliziotti all'epoca in servizio alla questura di Milano, che facevano parte nel dispositivo di tutela di Paolo Berlusconi. Uno, Domenico Giacame, sarebbe stato ascoltato dai procuratori aggiunti di Firenze Luca Tescaroli e Luca Turco il 24 luglio 2020. [...]

Estratto dell'articolo di Lirio Abbate per la Repubblica il 5 febbraio 2023.

Undici anni fa, mentre Silvio Berlusconi guidava il suo quarto governo e il boss Giuseppe Graviano si affacciava nelle aule dei processi per le stragi, e lanciava messaggi ad alcuni politici con i quali avrebbe avuto contatti facendo mezze dichiarazioni davanti ai giudici, c’era un suo favoreggiatore, il gelataio Salvatore Baiardo, che provava a bussare alla porta del premier in carica. Il presidente del Consiglio non avrebbe risposto, ma a dare udienza a Baiardo è stato un altro Berlusconi, Paolo, il fratello minore dell’allora capo del governo.

 È una storia su cui indaga, da due anni, la procura antimafia di Firenze. Perché Baiardo voleva parlare con Silvio Berlusconi? Si può sospettare che l’uomo di fiducia dei Graviano volesse ricattare il premier?

Di questi fatti, Salvatore Baiardo non ha mai fatto cenno pubblicamente durante le sue lunghe interviste, in cui tuttavia non si è privato dell’opportunità di lanciare messaggi, forse per sollecitare il pagamento di vecchie cambiali riposte nel cassetto dei segreti dei mafiosi siciliani, in particolare dei fratelli Graviano.

 Ai pm di questo incontro Baiardo fornisce una spiegazione che contrasta con quello che gli inquirenti hanno trovato indagando su questa storia. Il gelataio afferma che era andato a chiedere un posto di lavoro, ma le cose — ricostruite attraverso testimoni — sarebbero andate diversamente. E non sono bastati i quattro interrogatori cui Baiardo è stato sottoposto dai pm di Firenze, l’ultimo alcuni mesi fa. Su questo punto però tace anche Paolo Berlusconi, il quale — chiamato dai magistrati di Firenze — si è avvalso della facoltà di non rispondere perché familiare di un indagato.

Baiardo, che ha sulle spalle condanne per il favoreggiamento dei boss stragisti e anche per falso e calunnia, vuole riannodare i fili che i mafiosi di Brancaccio avevano intrecciato tra gli anni Ottanta e Novanta fra Palermo e Milano. Affari e scambi di favori. L’uomo sembra essere a conoscenza di fatti importanti, vissuti in prima persona, ma non avvia alcuna seria collaborazione con la giustizia. Appare, invece, come un avvelenatore di pozzi. È una partita che si gioca fra chi sta in carcere al 41 bis e chi sta fuori dal carcere, e il mediatore è sempre lui, Baiardo. Ma per riannodare i fili di questa storia nuova e inedita, che mette davanti Berlusconi e la mafia, è bene andare con ordine.

 I procuratori aggiunti della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, Luca Tescaroli e Luca Turco, sentono a verbale il 24 luglio 2020 un poliziotto, Domenico Giancame, che undici anni fa era in servizio alla Questura di Milano, nel reparto scorte. L’agente faceva parte del dispositivo di tutela assegnato a Paolo Berlusconi, e rispondendo alle domande dei magistrati, ricorda che nel 2011 il fratello del premier incontrò, a Milano, Salvatore Baiardo. Al poliziotto viene mostrata anche una foto del favoreggiatore di Graviano e senza alcun dubbio lo riconosce come l’uomo che aveva parlato con Paolo Berlusconi. Alla fine della conversazione, che avviene in via Negri, il fratello del premier chiama Giancame e gli dice: «Mimmo (Domenico Giancame, ndr ), tu sei testimone: questa persona — indicando Baiardo — è venuta a dire cose che riguardano mio fratello per screditarlo».

(...)

 Sarà una coincidenza, ma nel frattempo nelle aule di giustizia, in quei primi mesi del 2011, Graviano “gioca” a dire e non dire sulla politica. E ai pm che gli chiedono dei suoi contatti con Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi risponde: «Sulla politica mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Dopo alcuni anni, però, la sua strategia cambia. Inizia a fare il nome del Cavaliere, e accusa i politici.

E nello stesso periodo vengono rilanciate in aula le rivelazioni del mafioso Gaspare Spatuzza, in particolare l’incontro del 1994 al bar Doney di Via Veneto, a Roma con Giuseppe Graviano il quale «aveva un atteggiamento gioioso, come chi ha vinto all’enalotto o ha avuto un figlio». Spatuzza ricorda: «Ci siamo seduti e disse che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo e questo grazie alla serietà di quelle persone che avevano portato avanti questa storia, che non erano come quei quattro “crasti” socialisti che avevano preso i voti alla fine degli anni Ottanta e poi ci avevano fatto la guerra. Mi vengono fatti i nomi di due soggetti: di Berlusconi... Graviano mi disse che era quello di Canale 5, aggiungendo che di mezzo c’era un nostro compaesano, Dell’Utri. Grazie alla serietà di queste persone — riporta le parole di Graviano — ci avevano messo praticamente il Paese nelle mani».

 (...)

Le ricostruzioni da Giletti. Le menzogne di Baiardo che tanto piacciono a Travaglio e co. Tiziana Maiolo su Il Riformista l’ 8 Febbraio 2023

Avrebbero dovuto chiudere il 31 dicembre 2022 le indagini su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle stragi del 1993. E sono passati solo trent’anni. Quindi non c’è fretta, per i pubblici ministeri di Firenze. In fondo questi magistrati arrivano solo quarti, dopo un’ inchiesta in cui gli stessi indagati venivano affettuosamente chiamati “alfa” e “beta”, poi una seconda con “Autore 1” e “Autore 2” e un’altra con soggetti di nome “M” e “MM”.

Tutte archiviate a partire dagli anni novanta e fino al 2020 a Palermo, Caltanissetta e Firenze. I pm Luca Turco e Luca Tescaroli, orbati del loro ex capo Giuseppe Creazzo, che ha preferito navigare in altri lidi dopo esser stato denunciato per molestie da una collega, si esercitano sul tema dal 2017 e, invece di chiudere il fascicolo a fine 2022, stanno ancora cincischiando con un signore di nome Salvatore Baiardo. Un personaggetto che non è un collaboratore di giustizia né un semplice testimone e che ha alle spalle una condanna non solo per favoreggiamento nei confronti di due condannati per strage come i fratelli Graviano, ma anche per calunnia e falso. Il che non è secondario, in questa storia, perché il precedente, insieme al suo dire e non dire e ammiccare, sfottendo magistrati e giornalisti di riferimento (che se lo meritano), pongono pesanti dubbi sulla sua attendibilità.

Lui intanto si diverte. È stato interrogato quattro volte dai pm di Firenze. Che cosa abbia detto pare lo sappiano, oltre ai magistrati, alcuni giornalisti di riferimento delle procure, come alcuni del Fatto, di Repubblica e di Domani. Ma ultimamente il personaggetto è diventato la preda preferita di Massimo Giletti, che lo ha eletto a ospite fisso dopo aver portato a casa lo scoop sulla “previsione” dell’arresto di Matteo Messina Denaro. E lo esibisce con orgoglio ogni domenica sera a Non è l’arena. Lo mette addirittura a confronto con l’ex pm del gruppo “Trattativa” Antonio Ingroia, che cerca di interrogarlo in diretta come se avesse di fronte il portatore di tutti i (presunti, molto presunti) segreti sule stragi di mafia che hanno insanguinato l’Italia negli anni novanta. Solo che in tv il personaggetto non vuole vuotare il sacco e raccontare quel che ha riferito ai pm di Firenze in quattro interrogatori.

Così il direttore del Fatto.it Peter Gomez si arrabbia di brutto e l’altro gli rinfaccia di averlo ospitato a pranzo a casa propria fin dal 2012. Sembrano tutti amici, vecchi compagni di scuola che si danno del tu, usano gli stessi codici quasi sfogliando vecchi album di famiglia e a volte anche litigano, come domenica scorsa. Fa impressione riflettere sul fatto che tutto questo circo Barnum fa da contorno al piatto forte che sono indagini non per marachelle, ma per il reato di strage, aggravato da finalità mafiose, su cui la procura di Firenze deve decidere – avrebbe già dovuto decidere – se chiedere il rinvio a giudizio o la quarta archiviazione nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. L’ultima strofa della canzonetta riguarda un tentativo di undici anni fa del personaggetto di contattare colui che allora era il presidente del consiglio. I giornalisti informati dicono che dal vecchio telefonino di Baiardo risulta una telefonata al centralino di Palazzo Chigi. Senza risultato. Mentre pare che miglior fortuna abbia avuto il tentativo di incontro con Paolo Berlusconi, editore del Giornale, che avrebbe ricevuto il questuante proprio nella redazione di via Negri, a Milano. Volevo chiedere un lavoro, dice l’ospite di Giletti in trasmissione, ma non gli crede nessuno.

Vogliono che dica di essere andato a ricattare il premier tramite un messaggio mafioso al fratello. Lasciano intendere che qualcosa di simile il testimone avrebbe fatto mettere a verbale negli interrogatori. Ma ricattare su che cosa? Sulla strage? Se il personaggetto non ha detto nulla di concreto e soprattutto di nuovo rispetto alle tre inchieste già archiviate, il destino della quarta è già segnato. Che importanza ha questo incontro, che Paolo Berlusconi ha escluso sia mai avvenuto, o di cui comunque non ha ricordo? Pare dispongano di memoria ferrea, probabilmente per mestiere, due ex agenti della sua scorta di allora i quali, pur undici anni dopo, hanno testimoniato di ricordare benissimo l’incontro. Leggiamo direttamente dalle veline dei quotidiani di riferimento della procura. Cui in realtà aveva già risposto due anni fa l’avvocato Nicolò Ghedini, dicendo che Paolo Berlusconi escludeva categoricamente di aver mai conosciuto quel signore.

E aveva anche fatto notare qualche particolare incongruente, come per esempio che il 14 febbraio del 2010, la data in cui ci sarebbe stato l’ incontro al Giornale, era domenica, giorno in cui lui non era mai presente in redazione. Incongruenza? Ma basta cambiare la data, un piccolo aggiustamento, ed ecco che il 2010 diventa magicamente 2011. Il personaggetto si era sbagliato. Chissà come mai però i due ex poliziotti della scorta questo particolare non l’hanno notato. Forse perché quell’incontro non era così importante, se non per qualche giornalista “d’inchiesta” e un titolo scandalistico sui “ricatti”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Estratto dell'articolo di Filippo Facci per “Libero quotidiano” l’8 febbraio 2023.

Non meriterebbe neanche un lungo articolo, Salvatore Baiardo, favoreggiatore dei boss stragisti Filippo e Giuseppe Graviano, condannato per falso e calunnia, uno che da una vita chiede soldi in cambio di rivelazioni sempre smentite, uno che da settimane è ospitato come un oracolo da Massimo Giletti su La7 – che spiace dirlo, impiegherà anni a nettarsi le scarpe dall’escremento che ha pestato – e insomma lui, Baiardo, incarcerato dal 1995 al 1999 e giudicato inattendibile da molteplici fonti giudiziarie e giornalistiche: tanto che gli unici che gli hanno dato retta, nonostante l’inaffidabilità gli fosse incisa sulla fronte oltrechè sulle carte, sono stati Report su Raitre all’inizio del 2021 e appunto Giletti da qualche settimana, contribuendo così a riavvelenare e raffrescare pozzi da tempo prosciugati.

A scanso di equivoci: Baiardo ha detto talmente tante sciocchezze che non è riuscito neppure a ottenere lo status di collaboratore di giustizia, e il fango che in questi giorni sta rigettando sui fratelli Berlusconi (tra altri) si è seccato più volte per via giudiziaria, come detto: ma gli insuccessi delle procure ormai vengano riproposti per via mediatica e questa cosa viene chiamata giornalismo. 

 Il primo a smentire e a dichiarare inattendibile Baiardo fu il procuratore Giuseppe Nicolosi (oggi a Prato) che negli anni Novanta fece parte del pool di magistrati fiorentini che indagò sulle stragi mafiose: il 18 gennaio scorso, a Skytg24, ha precisato oltretutto che sulle stragi «abbiamo fatto cinque inchieste, senza ottenere risultati che potessero essere spesi in un processo».

Baiardo, con un memoriale di quattro pagine, cercò di smentire ciò che risulta in giudicato dalle sentenze, ossia che Giuseppe Graviano premette il bottone del telecomando che ammazzò Paolo Borsellino e la scorta in via D’Amelio. Questo tentativo di depistaggio ha cercato di ricordarlo anche il collega Enrico Deaglio, in collegamento con Giletti su La7, ma è stato letteralmente zittito da un intervallo pubblicitario.

Anche l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli in più occasioni ha notato come Baiardo abbia cercato di minimizzare i delitti dei fratelli Graviano.

[…]

Sulla sua inaffidabilità si è espresso anche il colonnello dei Carabinieri Andrea Brancadoro: il 6 marzo 2020, durante il processo «Ndrangheta stragista» [...]

 Durante il processo «Ndrangheta stragista» anche il dirigente di Polizia Francesco Messina parlò dei tentativi di Baiardo di tirare in ballo Berlusconi, ma le sue dichiarazioni non finirono in nessun’inchiesta perché Baiardo non le confermò

[…]

Ma passiamo ai giornalisti. Il primo che amplificò le parole di Baiardo fu Vincenzo Amato, giornalista locale della Stampa che tempo dopo lo liquiderà così: «La mia personale impressione è che lui venda un po’ di fumo per cercare di ritagliarsi un qualche spazio […]».

 Nel 2012 ci caddero anche Peter Gomez e Marco Lillo del Fatto Quotidiano […] Gomez ha capito l’inaffidabilità del personaggio, tanto che domenica sera, sempre sa Giletti, ha inveito e alzato i toni contro Baiardo dandogli dell’avvelenatore di pozzi con un innegabile «atteggiamento mafioso». 

 Il 4 gennaio 2021 ci cadde anche Report di Raitre (volontariamente, a questo punto) che già intervistò Baiardo anche a proposito della fattualmente inesistente agenda rossa del giudice Borsellino, mai ritrovata. Sempre a «Report», Baiardo anticipò cose poi «rivelate» anni dopo a Giletti sui rapporti fra Silvio Berlusconi e la mafia, riparlando della vacanza dei Graviano in Sardegna vicino alla villa di Berlusconi.

Insomma niente di nuovo e tutto di vecchio: più una patente di inaffidabilità che passa da Baiardo direttamente ai giornalisti che fingono di riscoprirlo. «Perché Berlusconi non lo querela, se è inattendibile?» si è chiesta una squalificata collega durante la trasmissione di Giletti, domenica sera; «così capiamo qualcosa di più», ha fatto eco un altro. Così si ricomincerebbe: cause, carte, processi, verbali da pubblicare e ripubblicare per anni.

Estratto dell’articolo di Alessandro Fulloni per il “Corriere della sera” il 9 febbraio 2023.

[…] «Quando i siciliani ti augurano “Cent’anni”... significa ”lunga vita”... E un siciliano non dimentica mai».

queste sono anche le parole con cui Enrico Deaglio — 75 anni, giornalista, un passato di direttore dei quotidiani Lotta Continua e Reporter , del settimanale Diario e oggi scrittore che non riesce a stare lontano dalla cronaca — chiude il suo «Qualcuno visse più a lungo» (da qualche mese in libreria con Feltrinelli ), poderosa ricostruzione (si legge come un romanzo, ma è un’inchiesta zeppa di dettagli) della vita dei boss Giuseppe Graviano, detto «Madre Natura» e di suo fratello Filippo.

L’affresco tratteggia gran parte della Sicilia degli anni Ottanta, quelli della grande mattanza: Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giuliano, Cassarà, Basile, Chinnici, Costa, Terranova.

Quando si arriva a Falcone e Borsellino, Deaglio (che in Sicilia seguiva «storie di piccola mafia nell’Agrigentino, poi ammazzarono il mio amico Mauro Rostagno a Trapani...») ricorda che fu proprio «Madre Natura» a schiacciare il telecomando di via D’Amelio.

[…] I Graviano furono arrestati a Milano il 29 gennaio 1994 —«lo stesso giorno della discesa in campo di Berlusconi» — e il libro racconta pure di come i due fratelli in carcere a Spoleto vengano trattati con ogni riguardo. E pur sottoposti ai rigori del 41 bis, «concepiranno anche i figli».

C’è un capitolo intero, «Il mito», che squaderna le varie ipotesi del «miracoloso» evento: banche del seme, l’aiuto di qualche ginecologo o semplice atto d’amore in carcere — a detta poi dello stesso Giuseppe, laureato in Matematica —, con le due mogli entrate di nascosto nella cesta della biancheria. Le nascite degli eredi del boss arrivano nel disinteresse generale ma è Deaglio a ricostruire, grazie alle carte giudiziarie, il ricevimento a Nizza per il battesimo dei due bimbi, entrambi chiamati con il nome di «Michele». Un evento che pare «una replica della celebre festa da ballo del Gattopardo » al termine della quale una delle due neomamme — la moglie di Giuseppe si chiama Nunzia, oggi vive tra Roma e la Costa Azzurra gestendo il patrimonio della famiglia — «si alzò e disse: “Peccato che qui manchino i migliori”». Appunto in prigione […]

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

'Ad Arcore presidio mafioso'. «Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. Adriano Botta su L’Espresso il 5 settembre 2013

«È stato definitivamente accertato che Dell’Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi, ndr) avevano siglato un patto in base al quale l’imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all’interno della villa dell’imprenditore».

Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo scorso a...

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d’appello per Dell’Utri.

«E’ stato definitivamente accertato che Dell’Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi, ndr) avevano siglato un patto in base al quale l’imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (…)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all’interno della villa dell’imprenditore». 

Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell’Utri è stato condannato il 25 marzo scorso a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.

Parole pesanti verso lo stesso Dell’Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l’ex premier dato che Dell’Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi.

Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell’Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell’Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l’assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi»

«In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell’Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l’associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l’anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell’imprenditore milanese (Silvio Berlusconi, ndr) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell’associazione», è scritto poi nelle motivazioni.

Dell’Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo»

Antonio Giangrande: Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.

Antonio Giangrande: In un mondo dove sono tutti ciottiani per convenienza, pronti a spartirsi il ricavato, mi onoro di essere il solo ad essere sciasciano e come lui processato dai gendarmi dell'antimafiosità.

Antonio Giangrande: Col sigillo antimafia molti, come dice Sciascia, fanno carriere, e molti, come dice il PM Maresca, fanno i soldi.

Antonio Giangrande: Quel mafioso di Pubblico Ufficiale.

La mafia dove non te l'aspetti. Un paradosso tutto italiota.

L'uso della violenza, minaccia o, comunque, persuasione o timore reverenziale per costringere o promettere a dare/non dare una cosa (denaro, altra utilità anche non patrimoniale), o fare/non fare una cosa, comporta una pena maggiore se commessa da un Pubblico Ufficiale, uguale o minore se commessa a suo danno.

Concussione: Il Pubblico Ufficiale è punito con la reclusione da sei a dodici anni.

Estorsione: Chiunque è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000.

Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale: è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni per un atto contrario all'ufficio; La pena è della reclusione fino a tre anni per un atto conforme all'ufficio.

Violenza privata: è punito con la reclusione fino a quattro anni.

Violenza o minaccia per costringere (chiunque) a commettere un reato: è punito con la reclusione fino a cinque anni.

Poi parliamo di Omertà.

Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione. Se il pubblico Ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio omette un atto del suo Ufficio è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.

Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale. L'omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale è punita con la multa da euro 30 a euro 516.

Omessa denuncia da parte di un incaricato di pubblico servizio. L'omessa denuncia da parte di un incaricato di pubblico servizio è punita con la multa fino a euro 103.

Omissione di referto. L'omissione di referto è punito con la multa fino a cinquecentosedici euro.

Poi parliamo di appropriazione di denaro o cosa mobile altrui per sé o per un terzo.

Peculato. Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio da quattro a dieci anni e sei mesi; è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni., quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.

Peculato mediante profitto dell'errore altrui. Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Appropriazione indebita. Chiunque è punito, a querela della persona offesa [120], con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000.

Concussione. Dispositivo dell'art. 317 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione → Capo I - Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione

Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da sei a dodici anni.

Estorsione. Dispositivo dell'art. 629 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo XIII - Dei delitti contro il patrimonio → Capo I - Dei delitti contro il patrimonio mediante violenza alle cose o alle persone

Chiunque, mediante violenza [581] o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000.

Violenza o minaccia a un pubblico ufficiale. Dispositivo dell'art. 336 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione → Capo II - Dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione

Chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell'ufficio o del servizio [328], è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni [339].

La pena è della reclusione fino a tre anni, se il fatto è commesso per costringere alcuna delle persone anzidette a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa [339].

Violenza privata. Dispositivo dell'art. 610 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo XII - Dei delitti contro la persona → Capo III - Dei delitti contro la libertà individuale → Sezione III - Dei delitti contro la libertà morale

Chiunque, con violenza [581] o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni.

La pena è aumentata [64] se concorrono le condizioni prevedute dall'articolo 339.

Il delitto è punibile a querela della persona offesa. Si procede tuttavia d'ufficio se il fatto è commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità, ovvero se ricorre la circostanza di cui al secondo comma.

Violenza o minaccia per costringere a commettere un reato. Dispositivo dell'art. 611 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo XII - Dei delitti contro la persona → Capo III - Dei delitti contro la libertà individuale → Sezione III - Dei delitti contro la libertà morale

Chiunque usa violenza [581] o minaccia per costringere o determinare altri a commettere un fatto costituente reato è punito con la reclusione fino a cinque anni.

Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione. Dispositivo dell'art. 328 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione → Capo I - Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione

Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.

Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.

Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale. Dispositivo dell'art. 361 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo III - Dei delitti contro l'amministrazione della giustizia → Capo I - Dei delitti contro l'attività giudiziaria

Il pubblico ufficiale, il quale omette o ritarda di denunciare all'Autorità giudiziaria, o ad un'altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, un reato di cui ha avuto notizia nell'esercizio o a causa delle sue funzioni, è punito con la multa da euro 30 a euro 516.

La pena è della reclusione fino ad un anno, se il colpevole è un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria [c.p.p. 57], che ha avuto comunque notizia di un reato del quale doveva fare rapporto [c.p.p. 330-332, 347].

Le disposizioni precedenti non si applicano se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa.

Omessa denuncia da parte di un incaricato di pubblico servizio. Dispositivo dell'art. 362 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo III - Dei delitti contro l'amministrazione della giustizia → Capo I - Dei delitti contro l'attività giudiziaria

L'incaricato di un pubblico servizio, che omette o ritarda di denunciare all'Autorità indicata nell'articolo precedente un reato del quale abbia avuto notizia nell'esercizio o a causa del servizio [c.p.p. 330-332, 347], è punito con la multa fino a euro 103.

Tale disposizione non si applica se si tratta di un reato punibile a querela della persona offesa [120] né si applica ai responsabili delle comunità terapeutiche socio-riabilitative per fatti commessi da persone tossicodipendenti affidate per l'esecuzione del programma definito da un servizio pubblico.

Omessa denuncia aggravata. Dispositivo dell'art. 363 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo III - Dei delitti contro l'amministrazione della giustizia → Capo I - Dei delitti contro l'attività giudiziaria

Nei casi preveduti dai due articoli precedenti, se la omessa o ritardata denuncia riguarda un delitto contro la personalità dello Stato, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni; ed è da uno a cinque anni, se il colpevole è un ufficiale o un agente di polizia giudiziaria [384; c.p.p. 57].

Omessa denuncia di reato da parte del cittadino. Dispositivo dell'art. 364 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo III - Dei delitti contro l'amministrazione della giustizia → Capo I - Dei delitti contro l'attività giudiziaria

Il cittadino, che, avendo avuto notizia di un delitto contro la personalità dello Stato, per il quale la legge stabilisce [la pena di morte o] l'ergastolo, non ne fa immediatamente denuncia all'Autorità indicata nell'articolo 361, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 103 a euro 1.032.

Omissione di referto. Dispositivo dell'art. 365 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo III - Dei delitti contro l'amministrazione della giustizia → Capo I - Dei delitti contro l'attività giudiziaria

Chiunque, avendo nell'esercizio di una professione sanitaria prestato la propria assistenza od opera in casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere d'ufficio, omette o ritarda di riferirne all'Autorità indicata nell'articolo 361, è punito con la multa fino a cinquecentosedici euro.

Questa disposizione non si applica quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale [384].

Appropriazione indebita. Dispositivo dell'art. 646 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo XIII - Dei delitti contro il patrimonio → Capo II - Dei delitti contro il patrimonio mediante frode

Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso(4), è punito, a querela della persona offesa [120], con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 1.000 a euro 3.000.

Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario [1783-1797], la pena è aumentata [Si procede d'ufficio, se ricorre la circostanza indicata nel capoverso precedente o taluna delle circostanze indicate nel numero 11 dell'articolo 61.]

Peculato. Dispositivo dell'art. 314 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione → Capo I - Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione

Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi

Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.

Peculato mediante profitto dell'errore altrui. Dispositivo dell'art. 316 Codice Penale

Fonti → Codice Penale → LIBRO SECONDO - Dei delitti in particolare → Titolo II - Dei delitti contro la pubblica amministrazione → Capo I - Dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione

Il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, il quale, nell'esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell'errore altrui, riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

La pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni quando il fatto offende gli interessi finanziari dell'Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000.

Antonio Giangrande: Il dito e la Luna. A proposito di Pino Maniaci di Telejato.

L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Chi parla di Mafia e antimafia dice a sproposito la sua e non so cosa ne capisca del tema. Chi mi conosce sa che sono disponibile a dar lezione! Nel caso di Pino Maniaci ci troviamo a bella a posta a sputtanare qualcuno con notizie segretate con tanto di video e senza sentire la sua versione, così come io ho fatto. Pochi amici su Facebook hanno visto il video, nessuno l’ha condiviso. Gli altri cosiddetti amici l’hanno ignorato. Eppure sono già centinai di visualizzazioni in poche ore. A prescindere dal caso specifico, Pino Maniaci da vero giornalista ha indicato sempre la luna e ora si sta a guardare questo cazzo di dito. Vi siete chiesti perché tutto è successo nel momento in cui è stata attaccata “Libera” ed i magistrati e tutta la carovana antimafia con i suoi carovanieri? In quel momento i paladini mediatici e scribacchini dell’antimafiosità ed i magistrati delatori si son dati da fare a distruggere un mito, prima di una sentenza. I codardi, poi, che prima osannavano Pino, oggi lo rinnegano come Gesù Cristo. Comunque io sto con chi ha le palle, quindi con Pino Maniaci. Mi dispiace del fatto che a Palermo si vede la Mafia anche dove non c’è, giusto per sputtanare un popolo e fottersi i beni delle aziende sane. E di questo tutti tacciono. Se a Palermo si stanno dissequestrando i beni sequestrati dagli “Antimafiosi” è grazie a Pino. Pino colpevole, forse, anche perché in Italia nessuno può dirsi immacolato, ma guardiamo la luna e non sto cazzo di dito.

Antonio Giangrande: SALVINI-SAVIANO ED I SOLITI MALAVITOSI.

Saviano a Salvini: “Ministro della malavita”. La propaganda fa proseliti e voti. Sei ricco? Sei mafioso! Il condizionamento psicologico mediatico-culturale lava il cervello e diventa ideologico, erigendo il sistema di potere comunista. Cosa scriverebbero gli scrittori comunisti senza la loro Mafia e cosa direbbero in giro per le scuole a far proselitismo comunista? Quale film girerebbero i registi comunisti antimafiosi? Come potrebbero essere santificati gli eroi intellettuali antimafiosi? Quali argomenti affronterebbero i talk show comunisti e di cosa parlerebbero i giornalisti comunisti nei TG? Cosa scriverebbero e vomiterebbero i giornalisti comunisti contro gli avversari senza la loro Mafia? Cosa comizierebbero i politici comunisti senza la loro Mafia? Quali processi si istruirebbero dai magistrati eroi antimafiosi senza la loro mafia? Cosa farebbero i comunisti senza la loro Mafia ed i beni della loro Mafia? Di cosa camperebbero le associazioni antimafiose comuniste? Cosa esproprierebbero i comunisti senza l'alibi della mafiosità? La Mafia è la fortuna degli antimafiosi. Se non c'è la si inventa e si infanga un territorio. Mafia ed Antimafia sono la iattura del Sud Italia dove l’ideologia del povero contro il ricco attecchisce di più. Sciagura antimafiosa che comincia ad espandersi al Nord Italia per colpa della crisi economica creata da antimafia e burocrazia. Più povertà per tutti, dicono i comunisti.

Antonio Giangrande: Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo. La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

Antonio Giangrande: “Un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.” Antonio Giangrande dal libro “L’Italia allo specchio. Il DNA degli italiani”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".

Antimafia, il pg Patronaggio: “Borsellino attanagliato da ansia di verità. In Mafia e appalti non ortodossa gestione dei confidenti”. Giuseppe Pipitone su Il Fatto Quotidiano il 29 novembre 2023.

Nelle indagini su Mafia e appalti “si era venuta a creare una contrapposizione tra il metodo di lavoro dei carabinieri e quello della procura di Palermo“. Che tipo di contrapposizione? “I carabinieri ritenevano di avere riversato un’enorme massa di intercettazioni e che lì vi fosse tutto. Poi era compito della procura trarre le conseguenze. In realtà in quella riunione del 14 luglio 1992 appresi che queste intercettazioni avevano grosse difficoltà a essere lette e a essere interpretate”. Parola di Luigi Patronaggio, procuratore generale di Cagliari e giovane pm in servizio a Palermo all’epoca delle stragi. Il magistrato è stato ascoltato oggi dalla commissione Antimafia presiduta da Chiara Colosimo. Ed è tornato indietro nel tempo, a quella riunione in procura il 14 luglio del 1992: il giorno prima era stata richiesta l’archiviazione per alcuni degli indagati di Mafia e appalti, cioè il dossier del Ros sui rapporti tra Cosa nostra, l’imprenditoria e la politica. La vicenda è nota: secondo l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino e avvocato dei figli del giudice, l’archiviazione di quella parte di procedimento è il movente segreto dietro alla strage di via d’Amelio.

L’ultima riunione di Borsellino in procura – “Quella riunione fu convocata in modo un pò strano perché da un lato si diceva nell’ordine del giorno: ‘Saluti in vista delle ferie‘ dall’altro nell’ordine del giorno c’erano argomenti, ognuno dei quali meritava un approfondimento notevole, come mafia-appalti, ricerca dei latitanti, estorsioni”, ha spiegato Patronaggio. Che ha ricordato come Borsellino fosse molto interessato all’indagine: “Quando si diede la parola all’istruttore, il dottor Lo Forte (uno dei titolari dell’indagine che chiese l’archiviazione il 13 luglio del ’92 ndr), per riferire su mafia-appalti Borsellino faceva domande da cui si capiva che voleva sapere qualcosa in più. L’istruttore si soffermò su materie tecniche mentre Borsellino, che sicuramente era stato compulsato dai carabinieri, fece domande da cui si intuiva una aspettativa, voleva sapere qualcosa in più su imprenditori e il ruolo dei politici“, ha continuato il magistrato. Incalzato dalle domande dei parlamentari ha poi aggiunto: “Non ricordo che Borsellino disse di attendere prima di archiviare e non ricordo che disse di rinviare la discussione sull’indagine”. Un dettaglio non secondario, visto che il magistrato sarà ucciso soltanto cinque giorni dopo. “Ero un giovane magistrato e mi trovavo lì da poco. Paolo Borsellino, nei giorni che vanno dalla strage di Capaci a quella di via D’Amelio, era agitatissimo, era in preda a un’ansia di verità che lo attanagliava”, ha proseguito il pg.

“Non era un rapporto ma un’annotazione” – A proposito dell’indagine del Ros Patronaggio ha aggiunto: “Il rapporto Mafia e appalti gettava un nuovo punto di vista investigativo perché riusciva a focalizzare bene il momento di acquisizione del meccanismo degli appalti da parte di Cosa nostra. Però devo pure dire, con la massima onestà intellettuale, che il rapporto nella sua versione del 20 febbraio 1991 non è un rapporto ma è un’annotazione. Non ha una rubricazione. Siamo a metà tra vecchio e nuovo codice: in quell’annotazione non si indicano gli indagati con ipotesi di reato. Aveva degli elenchi e delle schede e una quantità notevole di intercettazioni. Lì era giusta l’osservazione fatta dal dottore Lo Forte sul problema di utilizzabilità di queste intercettazioni”. La gestione di quelle intercettazioni è una delle anomalie dell’indagine che creò una spaccatura tra carabinieri e procura, come è emerso durante i lavori precedenti della commissione e come era stato già chiarito al Parlamento dall’allora procuratore capo di Palermo, Gian Carlo Caselli, nel 1999. “Nelle 900 pagine depositate dal Ros nel febbraio ’91 non si faceva mai riferimento a personaggi importanti come Mannino, Salvo Lima, Rosario Nicolosi, De Michelis”, ha spiegato, nelle scorse settimane, Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo che oggi è senatore del M5s. Una ricostruzione condivisa da Patronaggio: “Il nome di Lima esce in tutta la sua gravità con un’intercettazione del 1990 che però viene riversata nel settembre del 1992″, ha detto il pg. Sul punto la presidente Colosimo ha chiesto la magistrato se per caso la mancanza di quell’intercettazione nel dossier depositato nel febbraio de ’91 non fosse dovuta semplicemente al fatto che le intercettazioni vennero riascoltate dal Ros nel maggio del ’92, come scrive la gip di Caltanissetta Gilda Lo Forti archiviando il procedimento sulla gestione dell’inchiesta su Mafia e appalti nel 2000. Patronaggio, però, ha confermato che le intercettazioni di Lima vengono “a conoscenza del gruppo di lavoro non prima del settembre ’92”.

Anomalie sull’indagine – Dopo pochi mesi a Palermo arriverà Caselli e le indagini su mafia e colletti bianchi subiranno un’accelerazione: “La procura di Caselli cambiò registro – ha ricordato Patronaggio – Ma anche le indagini della vecchia procura non è che fossero ferme e bloccate, ricordo il procedimento su Vito Ciancimino. Certo non giovò ai rapporti tra il Ros e la procura la gestione del collaboratore Giuseppe Li Pera (uno dei personaggi principali dell’inchiesta Mafia e appalti ndr): era stato arrestato dalla procura di Palermo, si rifiutò di rendere dichiarazioni alla stessa procura e a un certo punto diventa confidente del Ros. Questo modo di procedere non è esattamente ortodosso e altrettanto non ortodossa è stata la mossa di far sentire Li Pera da un magistrato della procura di Catania, Felice Lima. Quindi con Palermo Li Pera non parlava, faceva da confidente ai carabinieri e però è stato sentito come testimone a Catania”. Di anomalie Patronaggio ha parlato anche a proposito della collaborazione di Angelo Siino, il cosiddetto ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra, che si pente nel giugno ’97. “Nonostante avesse avuto interlocuzione con l’Arma, Siino collabora attraverso la Guardia di Finanza. Di questo il Ros si dispiacerà molto. Quando si parla di collaboratori di giustizia ci sono delle regole. Quando si parla di rapporti confidenziali noi queste regole non le conosciamo. Dunque non posso riferire dei rapporti tra Li Pera e De Donno e quelli di Siino con esponenti dei carabinieri”, ha continuato Patronaggio. Il magistrato ha poi sottolineato: “Nonostante queste criticità il rapporto del Ros su mafia e appalti non si è esaurito. Già nel febbraio 1992 sulla scorta del dossier del Ros vengono arrestati due personaggi come Rosario Cascio e Vito Buscemi, fratello di Antonino Buscemi, capomafia di Boccadifalco, che un filo lungo porta al controllo della Calcestruzzi collegata al gruppo di Ravenna”. Cioè il gruppo Ferruzzi di Raul Gardini, al centro delle indagini su Tangentopoli, morto suicida nella sua casa di Palazzo Belgioioso a Milano nel luglio del 1993.

“Documento contro Giammanco atto coraggioso” – Patronaggio ha anche ricordato i momenti successivi alla strage di via d’Amelio, quando un documento sottoscritto da alcuni pubblici ministeri costrinse il Csm a intervenire su Pietro Giammanco, allora procuratore capo di Palermo. “Giammanco non era all’altezza di quel periodo drammatico che stavano vivendo la Sicilia e l’Italia. C’erano vecchie incomprensioni tra Giammanco e Falcone e Borsellino – ha aggiunto il pg del capoluogo sardo – Sapevamo che Giammanco faceva fare anticamera a questi due illustri magistrati. La procura era gestita da Giammanco in modo burocratico e verticista”. Dopo la morte di Borsellino, dunque, un pezzo di procura si ribella: “Il documento che sfiduciava Giammanco fu preso su iniziativa di Scarpinato a cui si aggiunsero altri colleghi tranne qualcuno che lo riteneva un documento forse troppo avanzato. Era una mossa molto azzardata perché i tempi erano diversi da quelli di oggi, c’erano diverse sensibilità politiche ed era un documento molto coraggioso“.

“Il covo di Riina? La verità processuale parla di un errore” – Durante l’audizione Patronaggio è tornato anche ai momenti successivi all’arresto di Totò Riina, quando da magistrato di turno interviene per andare subito a perquisire il covo. “Non mi faccio trascinare dalla suggestione, la verità processuale parla di un errore, di un problema di carattere tecnico”, ha detto riferendosi ai procedimenti sul mancato blitz nel residence dove abitava il capo dei capi con la famiglia. “I carabinieri brillantemente hanno arrestato Riina in un residence in via Bernini. Hanno portato Riina in caserma, io ero di turno e sono intervenuto subito insieme al procuratore Caselli che si era insediato in quei giorni: ricordo Riina in piedi sotto la foto di Carlo Alberto dalla Chiesa”, ha continuato il pg di Cagliari. “Esperite le formalità, ci fu un vertice nella caserma dei carabinieri, un summit ai massimi livelli. Il generale Mori su indicazione del capitano De Caprio, propose una modalità operativa che per noi era insolita ma che a quanto pare aveva dato i frutti nella lotta al terrorismo, cioè non fare irruzione nel covo ma fare un servizio di osservazione per vedere quello che succedeva”, ha proseguito Patronaggio. “Parliamo di due ufficiali di grandissima esperienza” ha sottolineato l’ex pm di Palermo, aggiungendo che le loro indicazioni non poterono “che trovare accoglimento ancorché la prassi seguita dalla procura di Palermo in questi casi era fare irruzione ed entrare. Ci veniva proposto un altro modo di operare, legittimo, e c’erano rischi oggettivamente, come la fuga di notizie o che potesse andare male qualcosa. Ma accettammo questa impostazione da parte di due ufficiali di altissima qualità”. Poi, però, quando Caselli chiese informazioni ai carabinieri ed emersero le “criticità” nacque una “contrapposizione tra il Ros e la procura di Palermo nella persona di Caselli che, fino lì, aveva avuto un rapporto ottimo con i carabinieri“, ha continuato sempre l’attuale pg di Cagliari. Fu detto “che non era stato possibile tenere sotto controllo il covo, gli uomini della squadra di De Caprio dovevano essere avvicendati e gli stessi filmati non erano stati portati a termine – ricorda – Si sono fatti processi su questa cosa e gli ufficiali dei carabinieri sono sempre stati assolti con formula piena. Si è parlato di un disguido, di una defaillance operativa: questa è la verità processuale acclarata con sentenze passate in giudicato”.

LA TRATTATIVA AZIENDE-MAFIA – I COLOSSI INDUSTRIALI DEL NORD E COSA NOSTRA

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “la Verità” martedì 28 novembre 2023.

La pista seguita, trent’anni fa, dal pm di Massa Carrara Augusto Lama portava in riserve di caccia suggestive. Un filone aureo che poteva condurre la magistratura a scoprire con molti anni d’anticipo gli affari della mafia con colossi industriali del Nord Italia. Uno in particolare con forti addentellati a sinistra, il Gruppo Ferruzzi, allora guidato da Raul Gardini. Quando Falcone diceva «la mafia è entrata in Borsa» pare proprio si riferisse ai rapporti di tale holding con la Piovra. 

Ma le indagini di Lama a un certo punto vennero fermate e le intercettazioni, da lui disposte, inviate a Palermo. Dove un pm ordinò di distruggerle. Ma, si scopre adesso, che parte di quegli audio si salvarono e potrebbero spalancare nuovi scenari. Oggi nella caserma Salvo D’Acquisto di Roma […] verrà effettuato un accertamento tecnico non ripetibile disposto dalla Procura di Caltanissetta nell’ambito del procedimento sulle stragi palermitane del 1992 e delegato al Reparto investigativo scientifico (Ris) dei Carabinieri.

L’accertamento avrà a oggetto parte delle bobine con le intercettazioni disposte nel 1990 e nel 1991 da Lama in un procedimento poi trasmesso, il 4 aprile 1992, alla Procura della Repubblica di Palermo dove fu assegnato, dal procuratore Pietro Giammanco al pubblico ministero Gioacchino Natoli che provvide subito a farlo archiviare. 

Inoltre, il 25 giugno 1992, quindi dopo l’omicidio di Giovanni Falcone e 24 giorni prima di quello di Paolo Borsellino, dispose «la smagnetizzazione dei nastri relativi alle intercettazioni telefoniche e/o ambientali disposte» e ordinando in un secondo momento, con scritta a mano, anche «la distruzione dei brogliacci».

Ma per un caso fortuito la Procura di Palermo non ha cancellato tutto. L’attuale capo dell’ufficio, Maurizio De Lucia, spiega: «Le bobine? Le abbiamo date a Caltanissetta che ce le ha recentemente chieste, infatti, non tutto quello che deve essere distrutto viene eliminato e questo accade con una certa frequenza… abbiamo fatto un approfondimento e alcune cose le abbiamo trovate». Quindi è una coincidenza? «Sostanzialmente sì». 

[…] Fatto sta che per la Procura nissena che sta indagando sulle vere cause della morte di Borsellino potrebbe essere materiale davvero interessante, sebbene siano state rinvenute solo alcune bobine. L’autorità giudiziaria di Caltanisetta nel 2003 aveva archiviato il procedimento sulle stragi indicando tra le motivazioni, tra l’altro, la mancanza delle intercettazioni di Massa Carrara. Sarebbe interessante sapere se, all’epoca, qualcuno le avesse chieste e soprattutto se a Palermo le avessero cercate.

Sull’importanza del procedimento istruito da Lama e sulla particolarità dell’iniziativa adottata da Natoli, […] ha insistito anche l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino e marito di Lucia, figlia maggiore del giudice ucciso. Trizzino ha infatti fortemente stigmatizzato la condotta di Natoli evidenziando come si tratti di un provvedimento del tutto sui generis, mai ripetuto né prima né dopo, poiché i procedimenti archiviati possono per legge sempre essere riaperti, e perché aveva a oggetto un’indagine, quella di Massa Carrara, di eccezionale importanza visto che documentava […] «presunte infiltrazioni mafiose nelle zone marmifere di Carrara attraverso il controllo della aziende Sam e Imeg».

Un interesse che non riguardava solo il marmo, ma anche i suoi scarti che venivano utilizzati in numerosi e lucrosi altri processi industriali. L’indagine di Lama era nata casualmente durante l’estate del 1990 a margine di una controversia amministrativa sorta tra il Comune di Carrara e le due società Industrie marmi e graniti Spa (Imeg) e Società apuana marmi (Sam) concessionarie di circa il 50% dei cosiddetti agri marmiferi delle Apuane, quando il segretario del Consorzio cave di Carrara Franco Ravani riferì agli inquirenti che «di fatto le due società sarebbero state controllate da personaggi siciliani vicini a un gruppo mafioso».

Le dichiarazioni di Ravani furono confermate dal ragionier Alessandro Palmucci, già funzionario della Montecatini marmi Spa e poi della stessa Imeg, il quale ha ricostruito gli eventi che avevano portato una famiglia di Cosa Nostra palermitana, quella dei fratelli Salvatore, Giuseppe e Antonino Buscemi, a controllare le cave del prezioso marmo di Carrara. 

Palmucci riferì che alcune concessioni erano già state parzialmente vendute nel 1972 a un imprenditore trapanese, una cessione fortemente contestata dai sindacati e con strascichi giudiziari tanto che intervenne lo Stato con l’Iri e con la partecipata Egam. Questa costituì le già citate Imeg e la controllata Sam.

Nel 1982 l’Iri di Romano Prodi liquida l’Egam, con la sua partecipazione nelle ditte successivamente al centro dell’inchiesta, che viene trasferita all’Eni, altra azienda di Stato. Dopo pochi anni, nel 1986, l’Eni di Franco Reviglio decide di dismettere e affida ai «dirigenti di Stato» Vito Gamberale e Vito Piscicelli il compito di «privatizzare», cosa che i due fecero attraverso una massiccia svalutazione delle merci che si trovavano nei magazzini di Imeg e Sam. 

A questo punto la Imeg e la Sam viene ceduto a prezzo di saldo alla Calcestruzzi Ravenna Spa, del Gruppo Ferruzzi, allora diretta dall’ex partigiano rosso Lorenzo Panzavolta, definito da Gardini «uomo d’ordine e di calcestruzzo», che nell’indagine milanese confessò una tangente da 600 milioni pagata al dirigente comunista Primo Greganti.

Dal 1987 al 1990 […] Imeg e Sam hanno quasi come esclusivo cliente della produzione marmifera la piccola società palermitana Generale impianti. Appreso ciò Lama dispose indagini con la Guardia di finanza coinvolgendo anche reparti di Bologna, Ravenna e soprattutto Palermo. Dopo oltre un anno di investigazioni, […] Lama accertò che la ditta di Palermo faceva capo alla famiglia mafiosa dei fratelli Buscemi e in parte anche alla famiglia Bonura, reggenti per conto di Totò Riina di un mandamento palermitano.

Lama interrogò personalmente il pentito Antonino Calderone che confermò la pista riconoscendo in foto i fratelli Buscemi come capimafia. Il pm accertò anche che a gestire le cave a Carrara, Cosa nostra aveva mandato il geometra Girolamo Cimino, cognato di Antonino Buscemi, nominato amministratore unico della Sam, manager che di fatto dirigeva anche la Imeg.

Nonostante questo quadro il pm palermitano Natoli l’1 giugno del 1992 chiese l’archiviazione del fascicolo originato in Toscana, istanza che fu accolta a tempo di record, nonostante il Ros di Mario Mori e Giuseppe De Donno avesse accertato in maniera del tutto indipendente gli «interessi» della Cupola nella cave di marmo di Carrara. […]

Alla fine, ed è proprio l’aspetto più significativo, l’unico magistrato a subire provvedimenti da parte del Csm fu proprio Lama, il quale per avere fatto dichiarazioni sui media sugli interessi mafiosi nelle cave di Carrara fu sottoposto dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli a procedimento disciplinare. 

«Per questo dovetti lasciare il fascicolo e il mio procuratore lo mandò a Palermo dove fece la fine che ha fatto» ci spiega Lama, 71 anni, romano, ma toscano di adozione. […] «Io ingenuamente pensai di rilasciare delle dichiarazioni alla stampa per far parlare, come si dice in gergo, i telefoni, cioè per stimolare le conversazioni di chi era nel perimetro dell’indagine.

Ma per questo l’avvocato del Gruppo Ferruzzi presentò un esposto e per questo Martelli inviò gli ispettori. Io dovetti astenermi per difendermi e il fascicolo mi fu tolto. Il procedimento disciplinare è durato 20 mesi e si è concluso con la mia assoluzione, anche perché le informazioni che avevo dato erano assolutamente generiche». 

Pensa che Martelli sia stato sollecitato in tal senso da Gardini, all’epoca ancora potente imprenditore e finanziatore dei partiti? «Io questa circostanza l’ho appresa dalle recenti dichiarazioni dell’avvocato Trizzino davanti alla Commissione parlamentare antimafia».

Lei indagò su Gardini e su Panzavolta? «Non ebbi il tempo di farlo, quel procedimento mi fu sottratto velocemente, ma le indagini puntavano in quella direzione e naturalmente anche verso i membri di Cosa nostra, soci in affari della Calcestruzzi Ravenna Spa». 

Lei non era iscritto ad alcuna corrente e aveva indagato anche su un traffico d’armi dei palestinesi dell’Olp, non è che aveva troppi nemici a sinistra? «Certo le mie simpatie politiche non andavano in quella direzione ed ero cordialmente ricambiato. Ma in quel momento stavo solo facendo il mio lavoro. Probabilmente ho toccato interessi troppo grandi».

Alla fine ha lasciato la Procura di Massa Carrara…

«Decisi di trasferirmi nell’ufficio di Lucca per allontanarmi da un clima di ostilità e diffidenza che avvertivo da parte dei miei diretti superiori nel distretto. Ho chiuso la carriera facendo per 17 anni il giudice del lavoro». 

Non trova curioso che l’indagine che andava verso il gruppo Ferruzzi si sia conclusa con il suo allontanamento, mentre quelle su Silvio Berlusconi non hanno incontrato soverchi ostacoli?

«Tra i miei colleghi c’era un evidente maggiore interesse investigativo sui presunti rapporti d’affari di Berlusconi con Cosa nostra piuttosto che le relazioni pericolose di altri potentati economici di area politica diversa che potevano rientrare nell’indagine mafia-appalti, di cui la mia era una costola e che in quel momento storico non fu approfondita».

MAFIA. Via D’Amelio, a “Far West” la verità ritrovata sul dossier mafia-appalti. In prima serata su Rai3 il filo che lega Tangentopoli alla strage in cui morì Borsellino. Il suo interessamento al dossier dei Ros e il collegamento con le indagini, neutralizzate, condotte dal giudice di Massa Carrara. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 novembre 2023

L'interessamento di Paolo Borsellino nell'indagine su mafia-appalti, avviata su spinta di Giovanni Falcone e condotta dagli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno; la sua probabile scoperta di alcuni servi infedeli dello Stato all’interno della procura di Palermo definita da lui stesso un “nido di vipere”. L'indagine contestuale svolta dal giudice Augusto Lama di Massa Carrara, affiancato dal suo braccio destro, il maresciallo della Guardia di Finanza Franco Angeloni, che avrebbe dovuto incrociarsi (ma non accadde nel biennio 91-92) con il dossier mafia-appalti avendo punti di contatto in comune. Quali? Personaggi chiave come i mafiosi Antonino Buscemi e Giuseppe Lipari che - ha osservato con indignazione l'avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino, indicando le dichiarazioni passate di diversi pentiti come Angelo Siino e Giovanni Brusca – avrebbero goduto di coperture quando Borsellino era ancora in vita. Il primo sospettato è l'allora procuratore capo Pietro Giammanco ed eventuali suoi sottoposti.

Questo e altro è stato presentato per la prima volta, dopo 31 anni di depistaggi anche mediatici, in prima serata su Rai Tre nel nuovo programma “Far West” condotto da Salvo Sottile. Una ricostruzione che ha messo in fila i fatti nudi e crudi, senza alcuna suggestione, come purtroppo è abituata l'opinione pubblica, ma attraverso testimonianze autorevoli e fonti documentali. Molto interessante e significativa l'autorevole testimonianza del procuratore generale Luigi Patronaggio, che non solo ha ricordato il clima ostile sotto la procura guidata da Giammanco, ma ha anche confermato ciò che disse al Csm una settimana dopo la strage di Via D'Amelio: i rilievi di Borsellino durante la sua ultima riunione del 14 luglio 1992 sulla conduzione del dossier mafia-appalti, facendosi ambasciatore delle lamentele dei Ros. Il pg antimafia Patronaggio ha anche ricordato di essere stato uno dei due pm di turno il giorno della strage. L'avvocato Trizzino, presente in studio con il giornalista di Repubblica Lirio Abbate, ha osservato che Patronaggio e altri magistrati non sono mai stati sentiti dalla procura nissena, nonostante le loro testimonianze significative e utili per le indagini.

Come, d'altronde, non è mai stato sentito il giudice Augusto Lama di Massa Carrara. Per la prima volta, anche lui è stato intervistato in un programma nazionale in prima serata. Eppure è una testimonianza fondamentale per comprendere le cause delle stragi mafiose. Alla domanda, posta dal giornalista di “Far West”, se la morte di Borsellino sia legata al suo interessamento sul rapporto tra mafia e grande imprenditoria, il giudice Lama risponde senza mezzi termini: «Io penso proprio di sì, anche considerando la forza di quello che dovetti subire io, il tentativo di delegittimarmi credo che dimostrasse l'importanza di questo mio filone di indagine». Sì, perché come ha spiegato sempre Lama, durante la sua indagine si crearono problemi e fughe di notizie, tanto da determinare l'intervento dell'allora ministro della Giustizia Claudio Martelli. Finì sul mirino di un'indagine ministeriale, ma anche se non portò a nulla fu costretto ad astenersi dalle indagini. «Il mio procuratore di allora», prosegue sempre Lama, «trasmise il fascicolo alla procura di Palermo, che poi, come ho saputo, ha archiviato insieme alla prima informativa su mafia-appalti degli ex Ros (il dossier parlava anch'esso dei Buscemi e degli interessi con la Ferruzzi Gardini, ndr) che sarebbe dovuto confluire con le mie stesse indagini».

Per capire meglio,cerchiamo di inquadrare il contesto, come documentato dal programma condotto da Sottile. Siamo agli inizi degli anni 90. Mentre era già stato depositato il dossier mafia-appalti, dove, appunto, compariva anche la Calcestruzzi Spa, ovvero il colosso delle opere pubbliche, leader italiano del settore posseduto dall'ancora più potente famiglia Ferruzzi e controllato da Totò Riina, come confermò il pentito Leonardo Messina a Borsellino, arrivò sul tavolo della procura di Palermo il secondo fascicolo, quello appunto di Augusto Lama. Cosa aveva scoperto grazie alla tenacia investigativa del maresciallo Angeloni? Intuì il legame tra la mafia siciliana e il gruppo Ferruzzi-Gardini, all'epoca proprietario di Sam e Imeg, due società che controllavano il 65% delle cave e della lavorazione del marmo di Carrara. All'epoca Gardini ebbe dall'Eni un'offerta di favore. Il primo grande affare si presentò con un contratto per la desolfazione delle centrali Enel, per cui il carbonato di calcio di Carrara era essenziale. Il valore del contratto era di tremila miliardi di lire di allora. Eravamo alla fine degli anni Ottanta. Ma poi, invece, tutto precipitò.

A Carrara, le cose non andavano bene. Antonino Buscemi aveva preso il controllo delle cave e a gestirle aveva mandato il cognato, Girolamo Cimino. Più un altro parente, Rosario Spera. I siciliani cominciarono a porre condizioni vessatorie ai cavatori, che trovarono come unico difensore il loro presidente onorario, il comandante partigiano della zona, Memo Brucellaria. Fu allora che il procuratore Augusto Lama cominciò ad indagare. Attraverso quelle intercettazioni, come documenta il maresciallo Angeloni nel suo libro “Gli anni bui della Repubblica”, era possibile sentire una certa agitazione del management del gruppo Ferruzzi, per avere appreso che vi erano delle indagini di mafia a carico di Antonino Buscemi, socio per l'appunto del gruppo Ferruzzi. Inoltre, sembrerebbe emergere che qualcuno appartenente a un'autorità giudiziaria era giunto da Palermo a dare tale informazione. Interessante la testimonianza del maresciallo riportata durante la trasmissione “Far West”. Angeloni afferma di aver inviato circa 27 bobine di intercettazioni alla procura di Palermo. Come mai non le hanno ritenute di interesse? Non si comprende se sono quelle, come risulta dall'atto di provvedimento della procura di Palermo del 25 giugno 1992, di cui si dispone la smagnetizzazione delle bobine e la distruzione dei brogliacci delle intercettazioni. Fatto sta che da poco sono state ritrovate alcune bobine nei meandri della procura palermitana. Ora toccherà alla procura nissena ricostruire il quadro.

Ma si tratta di un quadro, come ha ben spiegato l'avvocato Trizzino in trasmissione, che in realtà era abbastanza delineato almeno venti anni fa. Si è perso troppo tempo. Per 31 anni siamo stati abituati a sentire narrazioni fantasiose e inconcludenti, ma molto accattivanti. Penso, ad esempio, a Report, che ha trattato l'omicidio di Paolo Borsellino come se fosse una trama della serie anni 90 “X-Files”. Per la prima volta, in prima serata t, hanno raccontato i fatti nudi e crudi sconosciuti all'opinione pubblica. Una rivincita soprattutto per quelle persone perbene come il magistrato Augusto Lama, costretto a occuparsi di civile, oppure come il maresciallo Franco Angeloni che ha servito il Paese senza compromessi, o Mario Mori finito nel tritacarne giudiziario per oltre un ventennio. La procura di Caltanissetta sta indagando, mentre la commissione antimafia presieduta da Chiara Colosimo va avanti con le audizioni. Forse sarebbe necessario che venga audito anche Augusto Lama.

La procura di Caltanissetta indaga sull’interessamento di Borsellino al dossier mafia-appalti come causa della sua eliminazione. Sentiti già dei testi, tra cui l’ex Ros De Donno Dal 2018 “ Il Dubbio” ha condotto una inchiesta giornalistica sulla vicenda. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 luglio 2022

Da qualche settimana la procura di Caltanissetta guidata dal Procuratore capo Salvatore De Luca ha riaperto l’inchiesta sul filone “mafia appalti” come causa scatenante che portò all’accelerazione della strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. A rivelarlo è l’agenzia Adnkronos a firma di Elvira Terranova. Le bocche in procura sono cucite, l'indagine è top secret, ma come apprende l'Adnkronos, il pool stragi da qualche settimana sta scandagliando le vicende legate al procedimento del dossier mafia-appalti redatti dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sotto il coordinamento di Giovanni Falcone.

Tutte le sentenze hanno accertato l'interessamento di Falcone e Borsellino a mafia-appalti

I magistrati che coordinano l'inchiesta, tra cui la pm Claudia Pasciuti, guidati dal Procuratore capo Salvatore De Luca, di recente – come rivela l’Adnkronos - hanno anche fatto i primi interrogatori. Compresi quelli top secret. Tra le persone sentite, spicca in particolare il nome del colonnello Giuseppe De Donno. Cioè, colui che allora giovane capitano, condusse l'inchiesta su mafia-appalti con il suo diretto superiore al Ros, l'allora colonnello Mario Mori. Che l’interessamento dei giudici Falcone e Borsellino riguardante il dossier mafia-appalti sia stata una concausa delle stragi, questo è accertato da tutte le sentenze. Quest’ultime hanno individuato un movente ben preciso. Sono diversi i passaggi cristallizzati nelle motivazioni. C’è quello di Giovanni Brusca che, nelle udienze degli anni passati, disse che, in seno a Cosa nostra, sussisteva la preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore Nazionale Antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente la gestione illecita degli appalti.

Falcone aveva compreso la rilevanza strategica del settore appalti

C’è quello del pentito Angelo Siino, che sosteneva che le cause della sua eliminazione andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”. Difatti – si legge nelle sentenze - in Cosa nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare» (pag. 74, ud. del 17 novembre 1999).Ed è proprio quell’Antonino Buscemi, il colletto bianco mafioso, che era entrato in società con la calcestruzzi della Ferruzzi Gardini a lanciare l’allarme anche per quanto riguarda le esternazioni di Falcone durante un convegno pubblico proprio su criminalità e appalti. Un convegno, marzo 1991, dove evocò chiaramente l’inchiesta mafia-appalti che era ancora in corso. Il dossier fu depositato in procura su volere di Falcone stesso il 20 febbraio 1991. Peraltro, anche Giuseppe Madonia aveva manifestato il convincimento che Falcone aveva compreso i legami tra mafia, politica e settori imprenditoriali. Siino, con riferimento all’eliminazione di Borsellino, ha inoltre aggiunto che Salvatore Montalto, durante la comune detenzione nel carcere di Termini Imerese, facendo riferimento agli appalti, gli aveva detto: «ma a chistu cu cìu purtava a parlare di determinate cose».

Borsellino aveva detto a varie persone che quella degli appalti era una pista da seguire

Borsellino, infatti, nel periodo immediatamente successivo alla strage di Capaci, aveva esternato a diverse persone, oltre all’intervista del giornalista Luca Rossi, che una pista da seguire era quella degli appalti. A distanza di 30 anni, però non si è mai fatto chiarezza su un punto. Diversi pentiti hanno affermato che sia Pino Lipari che Antonino Buscemi avevano un canale aperto con un magistrato della procura di Palermo. Alla sentenza d'appello del 2000 sulla strage di Capaci, tra gli altri, vengono riportate le testimonianze di due pentiti. Una è quella di Siino: «Sul punto, Angelo Siino, il quale, pur non rivestendo il ruolo di uomo d’onore, ha impostato la propria esistenza criminale, all’interno dell’ambiente imprenditoriale-politico-mafioso, ha evidenziato di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto c.d. “mafia-appalti” e in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze».

I Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi

Le motivazioni riportano anche la versione di Brusca: «Quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi-Gardini e l’ing. Bini, Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese (la cava Bigliemi e una Soc. Calcestruzzi) al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che l’ing. Bini rappresentava il gruppo in Sicilia e la Calcestruzzi S.p.A.; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano…… questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome; che Salvatore Riina, in epoca precedente all’interesse per l’impresa Reale, si era lamentato del fatto che i Buscemi non mettevano a disposizione dell’intera organizzazione i loro referenti».

Dal 2018 Il Dubbio si interessa alla vicenda del dossier mafia-appalti

Il Dubbio, fin dal 2018, ha condotto una inchiesta giornalistica sulla questione del dossier mafia-appalti. “Mandanti occulti bis” dei primi anni 2000 a parte, in questi lunghissimi anni non sono mai state riaperte le indagini nonostante siano venuti fuori nuovi elementi come le audizioni al Csm di fine luglio 1992 dove emerge con chiarezza che cinque giorni prima della strage, il giudice Borsellino partecipò a una assemblea straordinaria indetta dall’allora capo procuratore capo Pietro Giammanco. Una assemblea, come dirà il magistrato Vincenza Sabatino, inusuale e mai accaduta prima. Dalle audizioni di alcuni magistrati emerge che Borsellino avrebbe fatto dei rilievi su come i suoi colleghi, titolari dell’indagine, avrebbero condotto il procedimento. Addirittura, come dirà il magistrato Nico Gozzo, si sarebbe respirata aria di tensione.

Gli omicidi di Salvo Lima e del maresciallo Guazzelli per Borsellino sono legati a mafia-appalti

Ed è lo stesso Borsellino, come si evince dalle parole dell’allora pm Vittorio Teresi nel verbale di sommarie informazioni del 7 dicembre 1992, a dire che a suo parere sia l’omicidio su ordine di Totò Riina dell’europarlamentare Salvo Lima che quello del maresciallo Guazzelli sono legati alla questione del dossier mafia-appalti perché si sarebbero rifiutati di intervenire per cauterizzare il procedimento mafia appalti. Da tempo sia Fiammetta Borsellino che il legale della famiglia Fabio Trizzino, chiedono di sviscerare cosa sia accaduto nel biennio del 91-92 all’interno del “nido di vipere”(definizione di Borsellino riferendosi alla procura di Palermo) e soprattutto quando fu depositata la richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti mentre - come ha detto l'avvocato Trizzino al processo depistaggi – «stavano ancora chiudendo la bara di Paolo Borsellino e dei suoi angeli custodi».

Mafia-appalti, quel fascicolo archiviato su Gardini. Mafia- appalti. Inviato ad agosto del ’ 91 dalla procura di Massa Carrara, ma il primo giugno del 1992 fu archiviato e le relative intercettazioni furono smagnetizzate Damiano Aliprandi su Il Dubbio 15 novembre 2019

Dietro le stragi del 1992- 93 ci sarebbe stata la volontà di Cosa nostra di impedire ogni inchiesta sul monopolio degli appalti, ed è quello che era emerso in una vecchia inchiesta della Procura di Caltanissetta che però chiese l’archiviazione in mancanza di elementi idonei a sostenere in giudizio l'accusa a carico dei cosiddetti “mandanti occulti”. L’inchiesta sul famoso dossier mafia- appalti subì la stessa sorte a Palermo a pochi giorni dalla strage di via D’Amelio.

A questo si aggiunge un altro fascicolo, arrivato nell’agosto del 1991 alla Procura di Palermo a firma di Augusto Lama, l’allora sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Massa Carrara, che riguardava presunti rapporti tra la mafia siciliana e il gruppo Ferruzzi, all'epoca proprietario della Sam- Imeg, due società che controllavano il 65% delle cave e della lavorazione del marmo di Carrara. Anche questo fascicolo, però, fu archiviato a Palermo il primo giugno del 1992, subito dopo la strage di Capaci e le relative intercettazioni furono smagnetizzate.

L’ipotesi che dietro le stragi ci sia stata la volontà di fermare le inchieste sui rapporti tra imprenditori e mafia rimane ancora a galla, confermata d'altronde nella sentenza n. 24/ 2006 della Corte di Assise di Appello di Catania e confermata in Cassazione. Parliamo di una sentenza che riguarda esattamente i processi per le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Scrivono i giudici che Falcone e Borsellino erano “pericolosi nemici” di Cosa nostra in funzione della loro «persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa» e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti.

Motivo della “pericolosità” di Borsellino? La notizia che egli potesse prendere il posto di Falcone nel seguire il filone degli appalti. Tale ipotesi è stata anche riportata, come oramai è noto, nella motivazione della sentenza di primo grado del Borsellino quater. A differenza, però, della motivazione della sentenza di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia dove si legge che non vi è la «certezza che Borsellino possa aver avuto il tempo di leggere il rapporto mafiaappalti e di farsi, quindi, un’idea delle questioni connesse».

I fatti però sembrano dire altro. Non solo Borsellino, quando era ancora alla procura di Marsala, chiese subito copia del dossier mafia- appalti redatto dagli ex Ros e depositato nella cassaforte della Procura di Palermo sotto spinta di Giovanni Falcone, ma mosse dei passi concreti per indagare informalmente sulla questione, tanto da incontrarsi in caserma con il generale dei Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno per ordinargli di proseguire le indagini e riferire esclusivamente a lui.

MAFIA – IMPRESE NAZIONALI E LE BOMBE

Il dossier - mafia appalti fu archiviato dopo la strage di via D’Amelio. Dagli atti emerge che la richiesta, scritta nel 13 luglio 1992 dalla Procura palermitana, fu vistata dal Procuratore Capo e inviata al Gip il 22 luglio. L’archiviazione fu disposta il successivo 14 agosto dello stesso anno, con la motivazione «ritenuto che vanno condivise le argomentazioni del Pm e che devono ritenersi integralmente trascritte» .

Nel dossier compaiono diverse aziende che avrebbero avuto legami con la mafia di Totò Riina, comprese quelle nazionali. Tra le quali emerge anche il coinvolgimento della Calcestruzzi Spa di Raul Gardini. Tra l’altro, lo stesso Borsellino, ebbe conferma del coinvolgimento di tale impresa durante l’interrogatorio del primo luglio del 92 reso dal pentito Leonardo Messina. Viene alla mente la frase pronunciata dal suo amico Falcone quando il gruppo Ferruzzi venne quotato a Piazza Affari: «La mafia è entrata in borsa».

Fu il periodo in cui il gruppo Ferruzzi - in pochi anni comprato e trasformato da Raul Gardini in un gruppo prevalentemente industriale -, unito con la Montedison divenne il secondo gruppo industriale privato italiano con ricavi per circa 20.000 miliardi di lire, con 52.000 dipendenti e più di 200 stabilimenti in tutto il mondo.

I rapporti tra Ferruzzi e mafia sono stati ben argomentati nelle 45 pagine della richiesta di archiviazione presentata il 9 giugno 2003 dall'allora procuratore capo di Caltanissetta Francesco Messineo al gip nisseno per uno dei filoni di inchiesta sulle stragi di Capaci e via D'Amelio, nel quale si è affrontato, tra l’altro, anche il suicidio di Gardini.

In questo atto la Procura di Caltanissetta ha affermato che per interpretare gli omicidi dei due giudici risultano importanti le dichiarazioni del pentito Angelo Siino, considerato il ' ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra', che indicavano la Calcestruzzi come la società che si prestava a favorire gli interessi della mafia. La ditta, in particolare, avrebbe partecipato alla maxi speculazione di Pizzo Sella, la magnifica collina che sovrasta il golfo di Palermo, costruendovi 314 ville completamente abusive, simbolo dello strapotere mafioso sulla città.

Sembra che Falcone e Borsellino avessero scoperto l’interesse strategico nutrito da Cosa Nostra per la gestione degli appalti pubblici. Gli appalti pare fossero così importanti per la mafia anche ai magistrati nisseni che, nell’inchiesta chiamata “mandanti occulti”, gettarono un’ombra sul timore che Cosa nostra sembrava avere sulla prosecuzione delle indagini.

D’altronde, ricordiamo, l’ex pm Antonio Di Pietro ricevette l’informativa di essere sotto minaccia mafiosa. Lui che, in piena tangentopoli, avrebbe dovuto sentire Raul Gardini, ma quest’ultimo si suicidò il 23 luglio del 1993. La bomba mafiosa di Milano, esplosa all'indomani dei funerali in via Palestro, ha qualche legame con ciò? Non si sa, ma dagli atti risulta che gli attentatori sbagliarono bersaglio di alcune centinaia di metri. E Palazzo Belgioioso, residenza di Gardini, era poco lontano.

A guidare Gardini in quest'affare tutto ancora da chiarire sarebbe stato un vecchio socio di suo suocero Serafino Ferruzzi, Lorenzo Panzavolta, detto ' Il Panzer', comandante partigiano, dirigente delle cooperative rosse di Ravenna e presidente della Calcestruzzi, il quale gli avrebbe spiegato che per questa società c'era la possibilità di prendersi tutti gli appalti pubblici siciliani, alleandosi, però, con i fratelli Antonino e Salvatore Buscemi, molto legati a Totò Riina, che dal 1982 entrarono direttamente nella proprietà della ditta. In ballo c'erano investimenti miliardari e relazioni fondamentali per il potere mafioso, che andavano quindi difese a tutti i costi.

DA MASSA CARRARA A PALERMO

Ritornando agli inizi anni 90, mentre era già stato depositato il dossier mafia- appalti dove, appunto, compariva la Calcestruzzi Spa, ovvero il colosso delle opere pubbliche, leader italiano del settore posseduto dall'ancora più potente famiglia Ferruzzi ma, secondo anche il pentito Messina, controllato da Totò Riina -, arrivò sul tavolo della procura di Palermo un secondo fascicolo a firma di Augusto Lama, l’allora sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Massa Carrara.

Cosa aveva scoperto? Intuì il legame tra la mafia siciliana ed il gruppo Ferruzzi, all'epoca proprietario della Sam- Imeg, due società che controllavano il 65% delle cave e della lavorazione del marmo di Carrara. All’epoca Gardini ebbe dall'Eni un'offerta di favore. Il primo grande affare si presentò con un contratto per la desolfazione delle centrali Enel, per cui il carbonato di calcio di Carrara era essenziale. Valore del contratto era di tremila miliardi di lire di allora. Eravamo alla fine degli anni Ottanta. Ma poi, invece, tutto precipitò.

A Carrara, le cose non andavano bene. Antonino Buscemi aveva preso il controllo delle cave e a gestirle aveva mandato il cognato, Girolamo Cimino. Più un altro parente, Rosario Spera. I siciliani cominciarono a porre condizioni vessatorie ai cavatori, che trovarono come unico difensore il loro presidente onorario, il comandante partigiano della zona, Memo Brucellaria. Fu allora che il procuratore Augusto Lama cominciò ad indagare.

Per competenza, nell’agosto del 1991, il fascicolo fu trasferito alla Procura di Palermo. ll procedimento iniziato a Massa Carrara, a carico di Antonino Buscemi, fu però archiviato a Palermo il primo giugno del 1992, subito dopo la strage di Capaci e le relative intercettazioni furono smagnetizzate. Sempre nell’inchiesta “mandanti occulti”, il pm nisseno ha sottolineato che la magistratura palermitana, in quel periodo ben preciso «probabilmente per il limitato bagaglio di conoscenze a disposizione, non attribuì soverchia importanza alla connessione Buscemi- Gruppo Ferruzzi».

Mafia-appalti, sparito il pentito che parlò a Borsellino del coinvolgimento di Raul Gardini. In esclusiva I contenuti dei verbali dell’interrogatorio a Leonardo Messina. Anche in un’audizione della commissione antimafia, presieduta da Luciano Violante, alla domanda se nella gestione mafiosa ci fossero ditte nazionali rispose: «La calcestruzzi spa di Riina». DAMIANO ALIPRANDI su Il Dubbio il 25 ottobre 2019

Testimonianze, prove documentali, sentenze definitive e audizioni del Consiglio superiore della magistratura rese dai magistrati della procura di Palermo tra il 28 e il 31 luglio 1992, provano inequivocabilmente che Paolo Borsellino si interessava, anche se non formalmente visto che ancora non aveva ottenuto la delega, dell’indagine contenuta nel dossier mafia- appalti. Tale informativa, ricordiamo, è scaturita da un’inchiesta condotta, tra la fine degli anni 80 e il 1992, dai carabinieri del Ros guidati dall’allora colonnello Mario Mori e dal capitano Giuseppe De Donno.

Dall’indagine emerse per la prima volta l’esistenza di un comitato d’affari, gestito dalla mafia e con profondi legami con esponenti della politica e dell’imprenditoria di rilievo nazionale, per la spartizione degli appalti pubblici in Sicilia. Il 20 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’informativa mafia- appalti relativa alla prima parte delle indagini, su esplicita richiesta di Giovanni Falcone, che all’epoca stava passando dalla procura di Palermo alla Direzione degli affari penali del ministero della Giustizia. Lo stesso Falcone, anche pubblicamente durante il famoso convegno del 15 marzo del 1991 al Castel Utveggio di Palermo, disse che quell’indagine era di vitale importanza che non era confinata solamente a una questione “regionale”.

Paolo Borsellino era convinto che la causa della morte di Falcone, ma anche di altri delitti di mafia come l’omicidio dell’ex democristiano Salvo Lima, fosse riconducibile alla questione degli appalti. Lo disse soprattutto allo scrittore e giornalista Luca Rossi durante un’intervista del 2 luglio del 1992. Il nome di Salvo Lima lo ha evocato recentemente anche l’ex pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro durante la sua testimonianza resa al processo d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. Di Pietro ha spiegato che la conferma del collegamento affari- mafia, l’ha avuta «col riscontro della destinazione della tangente Enimont da Raul Gardini ( capo della Calcestruzzi spa), una provvista da 150 miliardi, una gallina dalle uova d’oro, dovevamo trovare i destinatari: l’ultimo che ebbi modo di riscontrare fu Salvo Lima».

La spiegazione sembra evocare l’intuizione che ebbe Paolo Borsellino molto tempo prima di lui. Ma in realtà è più che una intuizione. Borsellino aveva trovato un pentito che non solo gli aveva confermato la questione dell’importanza degli appalti, ma che anche gli aveva dato un riscontro su quello che effettivamente già risultava ben spiegato nel dossier dei Ros: parliamo del coinvolgimento delle imprese del nord, in particolare della Calcestruzzi Spa di Raul Gardini.

Proprio il giorno prima della sua intervista a Luca Rossi, Borsellino aveva interrogato per la seconda volta consecutiva Leonardo Messina, un pentito ritenuto credibile che, come Tommaso Buscetta, aveva raccontato perfettamente la struttura di Cosa Nostra, escludendo il discorso del “terzo livello”, ma evidenziando come la mafia di Totò Riina riusciva a compenetrare nel tessuto economico e politico attraverso la gestione degli appalti pubblici e privati. Leonardo Messina stesso ne è stato un testimone. Il Dubbio è in grado di rivelare i contenuti dei due verbali di interrogatorio.

Il primo si è svolto il 30 giugno del 1992 con la presenza non solo di Borsellino, ma anche del collega Vittorio Aliquò, oltre che dell’ispettore Enrico Lapi e del dirigente della polizia Antonio Manganelli. Leonardo Messina aveva la veste di indagato per 416 bis dalla procura di Caltanissetta. Lo stesso si è dichia- rato uomo d’onore della famiglia di San Cataldo e ha inteso rendere dichiarazioni sulla struttura di Cosa nostra. Nel primo interrogatorio ha spiegato sostanzialmente come venivano elette le rappresentanze, da quelle locali a quelle regionali, non solo siciliane, fino ad arrivare alle rappresentanze mondiali. Ha approfondito come i corleonesi hanno preso il potere in Cosa nostra.

Interessante la sua spiegazione di come riuscì a finire sotto l’ala del boss Giuseppe Madonia. «A Madonia – ha spiegato il pentito a Borsellino - avevo rilevato di essere stato contattato da elementi del Sisde, i quali mi avevano offerto la somma di 400 milioni perché lo facessi catturare». Madonia, quindi, avendo appreso che Messina non si era fatto indurre a tradirlo, lo prese ancora di più in considerazione. In questo modo ebbe la possibilità di saltare le gerarchie e incontrare personaggi “di calibro” come lo stesso Brusca.

Nell’occasione con Brusca – ha raccontato Messina – «si parlò dell’omicidio del capitano D’Aleo che si vantava di averlo fatto eliminare poiché costui lo aveva schiaffeggiato in occasione di un suo fermo in caserma. Disse che gli avevano tirato una fucilata in faccia!». Il pentito Messina racconta anche di Giovanni Falcone. «Brusca – ha spiegato Messina – pur mostrandosi al corrente dei suoi movimenti, e infatti accennava alle sue frequentazioni presso una pizzeria insieme alla scorta, diceva che in quel momento non era il caso di passare alla sua sentenza di morte».

Leonardo Messina poi affronta nel resto dei suoi due interrogatori– soprattutto nel verbale del primo luglio 1992 - la questione mafia- appalti. A lui stesso Madonia gli ha affidato la questione dell’appalto dei lavori dell’istituto tecnico per geometri di Caltanissetta e lo ha messo in contatto con Angelo Siino, considerato “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina. Il pentito ha spiegato dettagliatamente come funzionava la spartizione degli appalti e ha anche sottolineato come la mafia intimidiva gli imprenditori fino ad ucciderli se non sottostavano alle condizioni dettate. Ha spiegato come i corleonesi curavano che i vari appalti fossero distribuiti equamente fra le ditte interessate, in modo da realizzare congrui guadagni attraverso un sistema predeterminato di tangenti a percentuali sull’importo dei lavori. Percentuali che variavano a seconda del tipo dei lavori da eseguire e secondo se si tratti di appalti pubblici o privati. Fa nomi e cognomi Messina, anche di parlamentari dell’epoca e imprese. Parla anche di Salvo Lima, che aiutò un personaggio di rilievo nel favorire una impresa per introdurla nella miniera Pasquasia. «In tale miniera – ha spiegato Messina – non lavorano solo ditte in mano alla mafia, ma anche singoli dipendenti mafiosi», i quali potevano acquisire con facilità anche del materiale per l’esplosivo.

Leonardo Messina, a quel punto fa una rivelazione scottante. «Totò Riina è il maggiore interessato della Calcestruzzi Spa che agisce in campo nazionale». Messina lo aveva appreso perché si era lamentato che aveva ricevuto pochi soldi per un appalto che valeva miliardi. “L’ambasciatore” di Madonia gli rispose di lasciar perdere, perché c’erano gli interessi di Riina tramite la Calcestruzzi spa di Gardini.

Paolo Borsellino, per la prima volta, trovò un riscontro su quanto aveva già appreso dal dossier mafia- appalti, che aveva ben evidenziato il ruolo dell’azienda del nord. Lo stesso Leonardo Messina, qualche tempo dopo, lo ribadì in un’audizione della commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante. Alla domanda se nella gestione mafiosa degli appalti ci fossero ditte nazionali, Messina rispose con un’affermazione inquietante: «La Calcestruzzi Spa di Riina».

Leonardo Messina è un testimone considerato importante da Borsellino, così come, in seguito, da altri magistrati. Il pentito ha ribadito l’importanza della gestione degli appalti anche nel 2013, sentito al processo di primo grado sulla presunta trattativa Stato- mafia. Messina avrebbe dovuto deporre – assieme ad Angelo Siino ( assente per gravi motivi di salute) – a settembre scorso anche nel processo di Caltanissetta relativo al latitante Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma il pentito Leonardo Messina non è più reperibile da qualche tempo. È come se fosse scomparso nel buio: gli inquirenti stessi si dicono preoccupati.

Stragi di mafia: così Report (e non solo) “suggestiona” pentiti ed ergastolani. “Io parlo di quello che ho sentito in televisione, sia in un programma televisivo su la7 (Atlantide ndr) sia su Rai3”. Dalla pista nera alle donne bionde, ecco il racconto degli ex mafiosi stragisti sentendo la Tv. E qualche procura ci mette il carico da novanta Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 gennaio 2023

Tra cinquant’anni, quando l’antimafia mediatica (e parte di quella giudiziaria) sarà oggetto di studio, sicuramente non potrà passare inosservato come presunte inchieste di Report (canale pubblico) o di Atlantide (canale privato) inconsapevolmente alimentano di nuove suggestioni i pentiti stessi. Perfino uno come Gaspare Spatuzza, che fu parte attiva degli attentati mafiosi come le stragi continentali del maggio-luglio 1993 a Firenze, Milano e Roma, parla di ipotesi apprese in Tv.

Ed è così che si crea un insostenibile circolo vizioso utile per gli ascolti, ma completamente distruttivo per i giovani che si affacciano per la prima volta allo studio del fenomeno mafioso di quegli anni. Ma non aiuta nemmeno una grossa fetta di magistrati antimafia che si diletta nell’infinita ricerca delle “entità”. Pm che creano infiniti teoremi, chiudono e riaprono le stesse identiche inchieste giudiziarie (pensiamo a Berlusconi e Dell’Utri indagati per la quinta volta come mandanti occulti delle stragi), si spendono numerose risorse umane e si alimenta il circuito mediatico – giudiziario che, com’è detto, a sua volta “alimenta” i pentiti stessi.

Molto utile, per comprendere il fenomeno dei pentiti che raccontano ciò che sentono in Tv, è la lettura della relazione finale della scorsa commissione nazionale Antimafia relativa alla attività istruttoria sull’evento stragista di via dei Georgofili a Firenze. Si apprende così che viene sentito l’ergastolano Cosimo Lo Nigro, già condannato per le stragi e ritenuto la persona che si occupava del recupero dell’esplosivo in mare, quello che verrà utilizzato sia per le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, che per quelle “continentali”. Dalle risultanze processuali è emerso, grazie alle consulenze già svolte dai periti, che in ciascuna delle cariche esplosive utilizzate per le stragi i medesimi componenti, miscelati, sono da ricondurre a esplosivi di tipo militare e segnatamente tritolo (o Tnt), T4 (o Rdx), e Pentrite (o Petn). Per la strage di Capaci, furono utilizzati 500 chili di esplosivo. Per via D'Amelio, 100 chili. Per l'attentato di Firenze, la carica era da 250 chili.

Lo Nigro però si dichiara innocente. «Io oggi mi trovo qui – spiega innanzi alla commissione antimafia -, detenuto da 26 anni, con queste accuse tremende, e io per la giustizia italiana sono un definitivo e sono un ergastolano, ma nella mia coscienza e nel mio cuore, io sono un innocente e chiedo a voi, principalmente a voi, che siete quelli che in merito agli ultimi sviluppi, in questi anni su cosa è successo di quello che sta accadendo nel nostro Paese, vi chiedo a voi di approfondire e di investigare». Alla domanda posta dall’ex presidente Nicola Morra su cosa bisognerebbe investigare, ecco cosa risponde: «Io le parlo di quello che ho visto in Tv. Ci siamo? Noi siamo qui oggi per la situazione di Firenze, per la tematica e la disgrazia di Firenze. Mi dica una cosa: in televisione io ho ascoltato personalmente alcuni format mirati di questi eventi che sono successi all’epoca. Sulla situazione di Firenze, come Firenze e come Milano, e in qualche altra strage, si parla di una donna». Ecco, lo dice chiaramente: parla di ciò che ha appreso guardando le inchieste in TV.

Lo Nigro, infatti, evoca il discorso della donna, la famosa bionda che secondo la tesi elaborata principalmente dal magistrato Gianfranco Donadio quando svolse le attività presso la Direzione Nazionale Antimafia (poi fu trasferito dal csm per via delle denunce nei suoi confronti da parte della procura di Catania e di Caltanissetta), sarebbe stata una sorta di 007 che avrebbe partecipato alle stragi. Bionda, corpo da amazzone, descritta da improbabili pentiti (per lo più della ‘ndrangheta) già decostruiti dalla procura nissena e catanese.

L’ex presidente Morra, in commissione, pone nuovamente la domanda a Lo Nigro: «Come mai la colpisce questa questione della donna? Lo chiedo così, per mia curiosità». Ecco cosa risponde: «Lei ha parlato di ipotesi. Io parlo di quello che ho sentito in televisione, sia in un programma televisivo su La7 (Atlantide, ndr) sia su Report su Rai 3, in occasione dei tre anniversari. Le trasmissioni hanno parlato anche di questi fatti che sono accaduti nel 1993 e riportano di una donna, non solo a Firenze!». Più chiaro di così non si può. Non sa nulla, ma racconta ciò che ha appreso dalle “inchieste” mainstream.

Interessante anche la deposizione del pentito Gaspare Spatuzza. Egli ebbe un ruolo primario in tali gravi accadimenti perché legato a Giuseppe Graviano, mafioso ai vertici del mandamento di Brancaccio ed esponente di cosa nostra, a sua volta in stretti rapporti con i vertici di tale organizzazione e in particolare con il latitante Matteo Messina Denaro. Grazie alla sua collaborazione si è potuto rifare da capo il processo sulla strage di Via D’Amelio (Borsellino quater) e condannare anche gli esecutori delle stragi continentali. Lui partecipò alle stragi come quelle di Firenze. Ha sempre raccontato tutti i dettagli dell’operazione stagista, compreso il reperimento dell’esplosivo e della sua collocazione. Però non basta, perché non collima con il teorema delle donne bionde e dell’esplosivo fornito dalle entità.

Spatuzza però è sincero. Esclude che il suo gruppo sia entrato in contatto con soggetti esterni a cosa nostra, ma nel contempo dichiara di poter supporre che ci siano stati contatti. Ma da dove deriva questa sua supposizione? Si richiama a «l’evolversi di tutto quello che visto in questi anni...» e «tutto quello che sia il progetto Farfalla». E dove l’ha visto se non in TV? E si comprende che non conosce la vicenda. Lo chiama “progetto Farfalla”, mentre in realtà si chiama “protocollo farfalla” e non c’entra nulla con il periodo delle stragi visto che fu una operazione dei primi anni 2000 tra l’intelligence e il Dap per cercare una presunta regia mafiosa dietro le proteste contro il 41 bis. Operazione fallimentare, perché non si scoprì alcun grande vecchio dietro. Un po’ come le rivolte carcerarie durante la pandemia. Sempre alla ricerca, fallimentare, delle regie occulte.

Interessante che il magistrato Donadio insista sulla presenza delle donne. Lo fa anche con Spatuzza. «Lei ha mai percepito il problema dell’esistenza di una donna in questo scenario stragista?». Ebbene sì. Chiede al collaboratore della giustizia se ha avuto una “percezione” di qualche donna. Spatuzza risponde di no. Ma il magistrato non si arrende. Insiste. «In tutto lo scenario stragista ha avuto mai un sintomo?». Spatuzza risponde: «Non ho avuto mai né direttamente né indirettamente che ci fosse una donna un po' in secondo o terzo piano in quello che era il gruppo operativo».

Niente da fare. Nessuna percezione, nessun sintomo. Il prossimo passo sarà lo studio delle entità asintomatiche. Già qualcosa si intravvede con la riedizione del nero Stefano Delle Chiaie. Nessuna prova che sia stato a Capaci o a Firenze, per quest’ultimo all’epoca le indagini della Digos accertarono che il giorno dell’attentato era a Bolzano. Però poco importa. Bisogna insistere, evocare nuove suggestioni e perdere altri anni di tempo prezioso. Ora aspettiamoci le supposizioni dei pentiti dopo aver visto l’ennesima trasmissione di Report.

Estratto dell’articolo di Luca Fazzo per “il Giornale” mercoledì 4 ottobre 2023.

[…] a più di trent'anni di distanza, tasselli di verità vanno al loro posto. E dicono che l'uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta non fu affatto il favore di Cosa Nostra a chissà quali poteri occulti dello Stato ma un'operazione militare realizzata con un obiettivo: impedisce le indagini sul dossier Mafia -appalti, insabbiato dai vertici della procura di Palermo.

Il grande capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco, era talmente coinvolto nell'opera di insabbiamento che avrebbe dovuto essere arrestato. Invece alle 16,58 del 16 luglio 1992, in via D'Amelio, l'autobomba di Cosa Nostra massacrò Borsellino e i suoi agenti. E Giammanco rimase al suo posto. Sono parole tremende, quelle pronunciate ieri davanti alla commissione parlamentare Antimafia da Giovanni Trizzino, avvocato palermitano.

A renderle pesanti c'è il fatto che provengono da un uomo che storia e protagonisti li ha studiati a fondo. Trizzino, marito di Lucia Borsellino, è l'avvocato di tutta la famiglia del magistrato ucciso, compresa la figlia Fiammetta, che alla leggenda della trattativa non ha mai creduto, e che ha sempre indicato la radice della morte del padre in quell'inchiesta sugli appalti mafiosi, sulle contaminazioni tra imprenditoria del nord - Ferruzzi in testa - e capitali Cosa Nostra, che andava fermata ad ogni costo.

[…] 

Borsellino si era convinto che c'erano responsabilità precisa dei vertici della procura di Palermo: «Borsellino - dice Trizzino - voleva arrestare o fare arrestare l'allora procuratore Pietro Giammanco» perché «aveva scoperto qualcosa di tremendo». 

Giammanco, lo stesso che quando i carabinieri del Ros indicarono in Borsellino il bersaglio di un progetto di attentato non avvisò nemmeno il collega. Giammanco è morto da cinque anni, portandosi dietro ombre e segreti di quella stagione. Ma le rivelazioni di Trizzino mettono al posto giusto molti passaggi. A partire dal ruolo dei vertici del Ros […] fu a loro che il magistrato si rivolse quando scoprì il ruolo del procuratore di Palermo: «Borsellino ha organizzato un incontro segreto con l'allora colonnello del Ros dei carabinieri Mori e il capitano De Donno, il 25 giugno del 1992 , perché aveva scoperto qual cosa tremendo sul conto del suo capo. Si parla di contrasti e circostanze talmente gravi che lo hanno convinto che quel suo capo era un infedele». 

A decidere la strage fu poi Totò Riina, «se ne assume in proprio la responsabilità di via D'Amelio, si comportò da vero dittatore». Ma il movente va ricercato lì, in quel dossier insabbiato. D'altronde anche Matteo Messina Denaro, prima di morire, lo ha detto ai pm di Palermo: «Ma voi pensate davvero che Falcone è morto perché ci aveva dato quindici ergastoli?».  

Borsellino? Non si fidava dei colleghi. Parli Scapinato. Luca Fazzo su Il Giornale il 4 Ottobre 2023

C’è un ex magistrato che oggi siede in Parlamento e che potrebbe dire cose interessanti su uno dei nodi irrisolti della storia recente del nostro paese: la stagione delle bombe del 1992 , le stragi che - nel pieno dell’inchiesta Mani Pulite eliminarono, insieme alle loro scorte, prima Giovanni Falcone e poi Paolo Borsellino. L’ex magistrato si chiama Roberto Scarpinato, eletto con i 5 Stelle, e membro della Commissione Antimafia.

C’era anche lui l’altro ieri ad ascoltare la deposizione di Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino: ed è stato direttamente chiamato in causa. È Scarpinato, dice Trizzino, ad avergli rivelato che nei terribili giorni seguiti alla morte di Falcone Borsellino chiese e ottenne di incontrare riservatamente il comandante del Ros dei carabinieri, Mario Mori, e il suo ufficiale Giuseppe De Donno. Sono i giorni, racconta Trizzino, in cui Borsellino si convince che il procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, è un «infedele» e che andrebbe arrestato.

Giammanco è l’affossatore del dossier su Mafia e appalti, l’indagine che solo oggi, a distanza di decenni, prende forma come movente della strage di via d’Amelio e probabilmente anche dell’attentato di Capaci. Borsellino la conosceva, ne conosceva il potenziale. E quando decide di muoversi non va certo dal capo «infedele» Giammanco, ma non va neanche da un altro collega affidabile. No, va dai carabinieri.Va dal reparto di punta dell’Arma, quello che verrà attaccato e offeso dalla magistratura: prima (ed è un passaggio mai scavato a fondo) con l’indagine della procura di Brescia sul vicecomandante del Ros Paolo Ganzer, poi con quelle delle procura di Palermo su Mori e De Donno, e su altri ufficiali di pregio come Antonio Subranni e Sergio De Caprio.

Perché il Ros, il reparto da cui era partita l’indagine su Mafia e appalti, finisce nel mirino della magistratura? Che rapporti hanno quelle indagini con un altra morte tragica, il suicidio di Raul Gardini appena quattro giorni prima della strage di via Palestro? Intorno a tante domande, una certezza: Paolo Borsellino si fidava dei carabinieri, al punto di andare a confrontarsi con loro nei giorni più drammatici della sua vita. Gli stessi carabinieri che altri magistrati avrebbero poi incriminato, erano per Borsellino fedeli servitori dello Stato. Delle due l’una: o Paolo Borsellino era così inesperto, così ignaro delle cose, da sbagliare clamorosamente la sua valutazione; oppure la narrazione propinataci in questi anni, di un’Arma inquinata che trama contro le oneste Procure, era finalizzata a coprire tutt’altro.

Cosa ha da dire il senatore Scarpinato?

Luca Fazzo

Testimonianza in Commissione. Incontro segreto tra Borsellino e Mori, Scarpinato sapeva: “Il Pm voleva far arrestare Giammanco”. Nuova sconvolgente testimonianza dell’avvocato della famiglia in commissione parlamentare antimafia: “Organizzò l’incontro con i Ros il 25 giugno 1992 perché aveva scoperto qualcosa di tremendo sul procuratore Giammanco. Circostanze così gravi da convincerlo che il suo capo fosse un infedele”. Paolo Comi su L'Unità il 3 Ottobre 2023 

“Borsellino voleva arrestare l’allora procuratore di Palermo Pietro Giammanco (morto nel 2018, ndr) o fare arrestare Giammanco. Borsellino ha organizzato un incontro segreto con l’allora colonnello del Ros dei carabinieri Mori e il capitano De Donno, il 25 giugno del 1992, perché aveva scoperto qualcosa di tremendo sul conto del suo capo. Si parla contrasti e circostanze talmente gravi che lo hanno convinto che quel suo capo era un infedele”. E’ quanto affermato ieri dall’avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli del magistrato ucciso a Palermo 31 anni fa, davanti alla Commissione parlamentare antimafia.

Una testimonianza sconvolgente che apre scenari inediti su quanto accadde nell’estate del 1992 nella Procura del capoluogo siciliano, da Borsellino definita “un nido di vipere”. Dell’incontro fra Borsellino ed gli ufficiali del Ros, avvenuto presso la Stazione carabinieri di Carini, era a conoscenza Roberto Scarpinato, a quel tempo magistrato della Procura di Palermo. Scarpinato, ora senatore del M5S e ieri presente a Palazzo San Macuto, era stato “destinatario di una confidenza di Borsellino ed è Scarpinato a dircelo”, ha aggiunto Trizzino, marito di Lucia Borsellino, primogenita del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio.

L’incontro sarebbe stato rapido e Borsellino andrò dritto al punto dicendo ai carabinieri che avrebbe voluto approfondire l’inchiesta su appalti e mafia, aggiungendo che dovevano parlare soltanto a lui. Trizzino, sul punto, ha anche citato l’audizione di Maria Falcone, davanti al Csm in cui, nel trigesimo della morte del fratello Giovanni, aveva riferito di tale circostanza. La testimonianza di Trizzino, iniziata la settimana scorsa, ieri ha vissuto momenti di grande tensione. “Ho un conflitto di interessi, ma di tipo emotivo”, ha precisato Trizzino, ricordando ai siciliani che il motivo per cui ci hanno messo 30 anni per fare l’autostrada Palermo-Messina “sta nel rapporto mafia-appalti dove è condensato il sistema di cointeressenza tra aziende della famiglia mafiosa di Passo di Rigano, e le società del gruppo Ferruzzi (all’epoca gestite da Raul Gardini, morto suicida nel 1993 durante l’inchiesta Tangentopoli, ndr)”. Un cointeressenza che sarà replicata nella speculazione di Pizzo Sella, a Palermo.

L’avvocato della famiglia Borsellino ha poi ricordato cosa disse all’epoca il suocero a Maria Falcone, che chiedeva insieme con Alfredo Morvillo i motivi per cui il fratello Giovanni avesse dovuto lasciare Palermo: “State calmi perché sto scoprendo cose tremende”.

Non poteva mancare nell’audizione un passaggio su Totò Riina, il capo dei capi, il quale decise “la strategia di attacco che costituì la super ‘cosa’ che vedeva coinvolti gli uomini che misero a punto le stragi tra cui Matteo Messina Denaro. Riina se ne assunse in proprio la responsabilità di via D’Amelio, si comportò da vero dittatore”.

Un paio di settimane prima di morire, ha proseguito Trizzino, a Casa Professa a Palermo Borsellino lasciò ai posteri il suo testamento spirituale, firmando al tempo stesso la sua condanna a morte, dicendo: “Io sono testimone e so cose che devo riferire all’autorità giudiziaria”. “Molti collaboratori di giustizia ci dicono che lì Borsellino si sovraespose”, ha ricordato Trizzino, lasciandosi quindi andare ad un duro sfogo: “Non viviamo più: in questa situazione è del tutto impossibile l’elaborazione del lutto per noi. I familiari vogliono cercare la verità per una questione di dignità e di impegno. Le nuove generazioni della famiglia anziché cercare di vivere la propria vita, sono costrette a impegnarsi nella ricerca della verità che non è semplice”.

Prima di concludere, Trizzino ha rivolto l’invito alla Commissione di chiedere “all’autorità giudiziaria le annotazioni del diario di Giovanni Falcone che non sono 14 ma 39″. Nelle annotazioni, Falcone “si lamenta del fatto che in riferimento al rapporto mafia-appalti i fedelissimi di Giammanco affermino che quel rapporto era carta straccia”. Si tratta di annotazioni “di cui il popolo italiano non ha avuto mai disponibilità”. Paolo Comi 3 Ottobre 2023

"Borsellino scoprì cose tremende". Il legale di famiglia all'Antimafia: "Il procuratore Giammanco era infedele, voleva arrestarlo". Luca Fazzo il 3 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Altro che la fantomatica trattativa Stato-Mafia. Inesorabilmente, a più di trent'anni di distanza, tasselli di verità vanno al loro posto. E dicono che l'uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta non fu affatto il favore di Cosa Nostra a chissà quali poteri occulti dello Stato ma un'operazione militare realizzata con un obiettivo specifico: impedire le indagini sul dossier Mafia-appalti, insabbiato dai vertici della procura di Palermo. Il grande capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco, era talmente coinvolto nell'opera di insabbiamento che avrebbe dovuto essere arrestato. Invece alle 16,58 del 16 luglio 1992, in via D'Amelio, l'autobomba di Cosa Nostra massacrò Borsellino e i suoi agenti. E Giammanco rimase al suo posto.

Sono parole tremende, quelle pronunciate ieri davanti alla commissione parlamentare Antimafia da Giovanni Trizzino, avvocato palermitano. A renderle pesanti c'è il fatto che provengono da un uomo che storia e protagonisti li ha studiati a fondo. Trizzino, marito di Lucia Borsellino, è l'avvocato di tutta la famiglia del magistrato ucciso, compresa la figlia Fiammetta, che alla leggenda della trattativa non ha mai creduto, e che ha sempre indicato la radice della morte del padre in quell'inchiesta sugli appalti mafiosi, sulle contaminazioni tra imprenditoria del nord - Ferruzzi in testa - e capitali di Cosa Nostra, che andava fermata ad ogni costo. Spiega Trizzino: «A chiedere a Riina di accelerare la morte di Borsellino sono la famiglia di Passo di Rigano che faceva capo ai Buscemi, che nell'archiviazione del dossier mafia-appalti vengono liquidati con tre parole». I Buscemi sapevano che Borsellino sapeva: «Il 25 giugno 1992 a Casa Professa Borsellino rilascia il suo testamento spirituale: firma la sua condanna a morte, dicendo: Io sono testimone e so cose che devo riferire all'autorità giudiziaria».

È in quel contesto, è studiando il dossier, che Borsellino si era convinto che c'erano responsabilità precise dei vertici della procura di Palermo: «Borsellino - dice Trizzino - voleva arrestare o fare arrestare l'allora procuratore Pietro Giammanco» perché «aveva scoperto qualcosa di tremendo». Giammanco, lo stesso che quando i carabinieri del Ros indicarono in Borsellino il bersaglio di un progetto di attentato non avvisò nemmeno il collega.

Giammanco è morto da cinque anni, portandosi dietro ombre e segreti di quella stagione. Ma le rivelazioni di Trizzino mettono al posto giusto molti passaggi. A partire dal ruolo dei vertici del Ros, gli stessi che sono stati portati sotto processo con accuse inverosimili per la presunta trattativa con la mafia, e che sono stati assolti solo dopo anni. Proprio quei vertici, a partire dal comandante Mario Mori, erano il punto di riferimento privilegiato di Borsellino. Al punto che fu a loro che il magistrato si rivolse quando scoprì il ruolo del procuratore di Palermo: «Borsellino ha organizzato un incontro segreto con l'allora colonnello del Ros dei carabinieri Mori e il capitano De Donno, il 25 giugno del 1992, perché aveva scoperto qualcosa tremendo sul conto del suo capo. Si parla di contrasti e circostanze talmente gravi che lo hanno convinto che quel suo capo era un infedele».

A decidere la strage fu poi Totò Riina, «se ne assunse in proprio la responsabilità di via D'Amelio, si comportò da vero dittatore». Ma il movente va ricercato lì, in quel dossier insabbiato. D'altronde anche Matteo Messina Denaro, prima di morire, lo ha detto ai pm di Palermo: «Ma voi pensate davvero che Falcone è morto perché ci aveva dato quindici ergastoli?».

E Borsellino disse: «Ho scoperto cose tremende...» In Antimafia parla Fabio Trizzino, legale dei familiari del magistrato ucciso nel ‘92: «Non si fidava del procuratore». Valentina Stella su Il Dubbio il 2 ottobre 2023

È proseguita ieri, nella sede della commissione parlamentare Antimafia presieduta da Chiara Colosimo, l’audizione dell’avvocato Fabio Trizzino, legale di Lucia, Manfredi e Fiammetta Borsellino.

Il penalista è stato un fiume in piena, nell’intervento con cui ha ricostruito un puzzle complicatissimo, fatto di tradimenti, “corvi”, poteri oscuri: tutti intrecciati attorno al dossier “mafia-appalti” e tutti concausa probabile della morte di Falcone e Borsellino. Quest’ultimo, secondo Trizzino, era convinto che il procuratore di Palermo Pietro Giammanco fosse un «infedele». Borsellino, ha affermato il legale, rivolse a Maria Falcone, che con Alfredo Morvillo chiedeva perché il fratello Giovanni avesse dovuto lasciare Palermo, questa frase: «State calmi perché sto scoprendo cose tremende». Il magistrato ucciso ha via D’Amelio, ha proseguito Trizzino, aveva detto al maresciallo Canale che «voleva arrestare Giammanco» o «far arrestare Giammanco». Dopodiché incontrò segretamente, fuori dalla Procura, a fine giugno 1992 gli ufficiali del Ros Mori e De Donno, estensori del rapporto su “mafia-appalti”, per approfondire i contenuti di quel dossier. E disse loro: «In Procura parlano malissimo di lei, De Donno, ma io ho preso informazioni e ho cambiato idea». Borsellino andò dritto al punto, voleva approfondire le indagini su “mafia-appalti”: «Tutte le novità riferitele solo a me», disse a Mori e De Donno.

A quel punto il magistrato viene a sapere di «circostanze talmente gravi da rafforzarlo nel convincimento che quel capo», cioè Giammanco, «fosse un infedele», e con quest’ultimo «interrompe completamente il flusso delle comunicazioni». Roberto Scarpinato, a quel tempo magistrato della Procura di Palermo, ora deputato del Movimento 5 Stelle, sapeva dell’incontro segreto di Borsellino con gli ufficiali del Ros. Scarpinato era stato «destinatario di una confidenza di Borsellino, ed è Scarpinato a dircelo» in una testimonianza, ha detto Trizzino rivolgendosi poi all’ex pg di Palermo presente alla seduta di ieri.

La presidente Colosimo ha invitato allora l’avvocato a rivolgersi alla commissione e non al singolo parlamentare. «Il 25 giugno», ha proseguito Trizzino, «a Casa Professa Borsellino rilascia il suo testamento spirituale. Firma la propria condanna a morte, dicendo: “Io sono testimone e so cose che devo riferire all’autorità giudiziaria”. Molti collaboratori di giustizia ci dicono che lì Borsellino si sovraespose, e tra i mafiosi Salvatore Montalto riferisce al pentito Angelo Siino: “Cu ciu purtava a Borsellino di parrari di queste cose”». Montalto, ha aggiunto Trizzino, «è legato alla famiglia di Passo di Rigano (a Palermo, ndr) di Salvatore Buscemi». E «a chiedere a Riina di “accelerare” sull’esecuzione di Borsellino è proprio la famiglia di Passo di Rigano, che faceva capo ai Buscemi, i quali nell’archiviazione del dossier “mafia-appalti” vengono liquidati con appena tre parole», ha spiegato.

Trizzino ha proseguito: «I collaboratori ci dissero che Riina si prese la responsabilità dell’accelerazione della morte di Borsellino, contemplando solo l’istanza vendicativa. Riina è in pieno delirio di onnipotenza ma non era riuscito a far togliere gli ergastoli, a migliorare la vita dei carcerati. Ma si mette in mezzo Falcone. E lui ha un problema di leadership interna. Quindi decide di far uccidere Falcone a Palermo per rivendicare la propria posizione di comando. Invece l’omicidio di Borsellino non ha senso, nell’ottica di Cosa nostra. Giovanni Brusca dice: “Mi ero preparato per uccidere Mannino ma la deviazione arriva quando comincia a parlare Lipera e cambiano dunque obiettivo”. Brusca aggiunse che Buscemi godeva dell’appoggio di un certo magistrato all’interno della Procura».

L’avvocato della famiglia Borsellino ha poi fatto un appello: «Invito la commissione a chiedere all’autorità giudiziaria competente le annotazioni del diario di Giovanni Falcone, che non sono 14 ma 39». Nelle annotazioni, ha aggiunto Trizzino, Giovanni Falcone «si lamenta del fatto che, in riferimento al rapporto “mafia-appalti”, i fedelissimi di Giammanco affermino come quel rapporto fosse carta straccia». A scrivere per primo delle annotazioni riguardanti il rapporto dei Ros fu Giuseppe D'Avanzo, giornalista di Repubblica oggi scomparso. E a confermare la loro esistenza «è la Sabatino (Enza, pm a Palermo, ndr) dicendo che ne è protagonista», spiega Trizzino indicando un episodio di «umiliazione» a cui fu sottoposto Giovanni Falcone. Un giorno «Giammanco interrompe una riunione in Procura togliendo a Falcone, di fronte a tutti, il potere di assegnare fascicoli, e il fascicolo sull’omicidio del colonnello Russo e del professore Costa viene assegnato alla pm Sabatino». Giovanni Falcone decide quel giorno di andare via da Palermo: «Non poteva competere con gli appoggi politici di Giammanco, legato a Lima, e questo è un elemento che non è entrato neanche, nel processo di Capaci. Disse ai colleghi: andate via anche voi, altrimenti sarete complici di questo sistema». Si tratta di annotazioni «di cui il popolo italiano non ha avuto mai disponibilità».

E l’avvocato Fabio Trizzino ha concluso: «Non viviamo più, è del tutto impossibile l’elaborazione del lutto. Noi siamo costretti a cercare la verità. È una questione di dignità e di impegno: la nostra vita, le nuove generazioni della famiglia, anziché cercare di vivere la propria vita, sono costrette a impegnarsi nella ricerca della verità, che non è semplice. Ho un conflitto di interessi, ma di tipo emotivo. Ai siciliani dico che il motivo per cui ci hanno messo 30 anni per fare la Palermo-Messina sta nel rapporto “mafia-appalti”», in cui è condensato il sistema di «cointeressenza tra aziende della famiglia mafiosa di Passo di Rigano e le società del gruppo Ferruzzi». «Una cointeressenza che sarà replicata», dice Trizzino, «nella speculazione di Pizzo Sella, a Palermo».

L’audizione dell’avvocato Fabio Trizzino in Antimafia avrà un prosieguo durante il quale i commissari potranno rivolgere le loro domande.

L'audizione choc. Le accuse della famiglia di Borsellino sulla strage di via D’Amelio: “I mandanti cercateli in Procura”. “Ha vissuto l’inferno nel suo ufficio, un palazzo di giustizia, luogo in cui non si trovava più a suo agio, in cui venne umiliato” dice l’avv. Trizzino. Paolo Comi su L'Unità il 28 Settembre 2023

“Dobbiamo cercare di capire perché a un certo punto quell’uomo definì il Tribunale di Palermo un nido di vipere, affermazione che proviene da testi qualificati”. E’ con queste parole che l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino, ha iniziato ieri la sua audizione nell’aula di Palazzo San Macuto davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali. “Borsellino ha vissuto l’inferno nel suo ufficio, un palazzo di giustizia che era diventato un luogo in cui non si trovava più a suo agio, un luogo in cui venne umiliato”, ha precisato Trizzino nella sua lunga deposizione durata circa tre ore.

Per Trizzino, legale dei figli di Paolo Borsellino, la pista investigativa più meritevole di attenzione, in quanto plausibile causa di accelerazione nell’esecuzione della strage di via D’Amelio, ruota intorno al dossier mafia appalti, un’informativa di 900 pagine che fu redatta in seguito ad un’indagine dei carabinieri del Sos comandati dall’allora generale Mario Mori. Il fascicolo venne aperto nel 1989 relativamente alla illecita manipolazione dei pubblici appalti in Sicilia. Depositato in Procura a Palermo a Giovanni Falcone il 20 febbraio del 1991, dopo alcune più brevi informative, il dossier conteneva una serie di intercettazioni telefoniche che partivano dalle dichiarazioni sul tema della illecita gestione dei pubblici appalti dell’ex sindaco di Baucina.

Borsellino ne ebbe conoscenza già nel 1991 quando era procuratore di Marsala e lo fece leggere ai suoi giovani magistrati, utilizzandolo come riferimento per le indagini su alcuni appalti a Pantelleria. Nella sentenza nissena del Borsellino Quater del 20 aprile 2017 si legge che “Borsellino aveva mostrato particolare attenzione alle inchieste riguardanti il coinvolgimento di Cosa Nostra nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale.” A ciò si aggiungono le dichiarazioni del pentito Giuffrè sull’accelerazione dell’uccisione del magistrato da ricondursi “al timore di Cosa Nostra che quest’ultimo potesse divenire il nuovo capo della Direzione nazionale antimafia nonché al timore delle indagini che il magistrato avrebbe potuto compiere in materia di appalti”, con specifico riferimento al rapporto presentato dal Ros.

Un rapporto triangolare formato sulla condivisione di illecite cointeressenze economiche che coinvolgeva mettendo a un medesimo tavolo il mondo imprenditoriale, politico e mafioso. “Quando venne sentita la moglie di Borsellino – ha aggiunto Trizzino – ricordò le parole che le disse il marito: “Non sarà la mafia ad uccidermi ma i miei colleghi che glielo permetteranno”. “Se incrociamo la confidenza Borsellino con la dichiarazione sul “nido di vipere” – ha proseguito Trizzino – dobbiamo andare a cercare nella Procura di Palermo e lì andare a vedere se già nel ‘92 vi fossero elementi che potevano giustificare quella affermazione”.

Il legale dei figli del giudice ha poi parlato di quel “dolore immenso” che hanno sopportato quando hanno scoperto che già nel ‘92 vi fossero a disposizione delle indagini dei verbali di dichiarazioni rese da magistrati di allora, definisce “sinceri e privi di freni inibitori nel racconto delle dinamiche che resero impossibile la vita di Borsellino”. “C’è l’esigenza dei familiari di Borsellino di fornire una ricostruzione basata su dati certi, come quella dovrebbe fare uno storico ma con i canoni epistemologici del processo penale, visto che a livello processuale non è ancora stato possibile raggiungerla”, ha sottolineato Trizzino.

“Noi abbiamo la felicità – ha proseguito – di aver perso tutto, non solo il congiunto ma anche la Verità, ma è giunto il momento che attorno a Paolo Borsellino non ci siano divisioni e quello che più ci ha offeso e devastato è pensare che la sua famiglia nucleare non abbia implorato la verità”. Prima di Trizzino aveva preso la parola Lucia Borsellino, che con la sua audizione ha fin da subito ricordato di essere stata assieme a Fiammetta e Manfredi testimone diretta delle scelte del padre, inclusi i rischi che queste scelte avrebbero comportato. “Rischi che si sono verificati anche post mortem, con tentativi di delegittimazione”, ha detto Lucia, lamentato di essere stata chiamata a parlare coi magistrati solo nel 2015: prima di allora solo la madre era infatti stata sentita.

La figlia del magistrato ha quindi rivendicato il suo ruolo di familiare, che ha vissuto in prima persona l’esperienza di vita del padre e che come tale non è più disposta ad accettare i tentativi di delegittimazione da qualsiasi parte provengano, rivendicando di non aver potuto offrire un contributo alla conoscenza, né come figlia né come cittadina, pur essendo stata testimone diretta della vita di suo padre.

Ascoltando l’audizione di Lucia Borsellino, che ha richiamato spesso la madre Agnese Piraino, non si può fare a meno di rammentare che la moglie del magistrato non risparmiò parole dure nelle sue testimonianze. Dopo la giornata di ieri, l’audizione proseguirà nella prossima settimana. Paolo Comi 28 Settembre 2023 

L’audizione in commissione. Chi fu il mandante dell’omicidio Borsellino, ora qualcuno indagherà sui magistrati di Palermo del 1992? Chi e perché uccise Borsellino? È questo il più grande mistero della storia della Repubblica. Ma la magistratura non ha voglia di svelarlo. Piero Sansonetti su L'Unità il 28 Settembre 2023 

Lucia Borsellino e l’avvocato Fabio Trizzino, che è suo marito e da anni è l’avvocato della famiglia, sono stati ascoltati ieri in commissione Antimafia, in Parlamento. Lucia è la figlia del magistrato trucidato nel luglio del 1992 in un attentato nel quale persero la vita anche 5 agenti della sua scorta. La testimonianza della famiglia Borsellino fa venire i brividi.

Avanza l’ipotesi che esistano pesanti responsabilità nella Procura di Palermo – quella dell’epoca – nell’omicidio di Paolo Borsellino. Fabio Trizzino ha riferito di fatti, circostanze, ricordi, testimonianze. In particolare delle testimonianze offerte dalla moglie del magistrato, la signora Agnese Piraino. La frase più terrificante che la signora riferì, attribuendola al marito, che l’aveva pronunciata pochi giorni prima della sua morte, è questa: “Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia. La mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri”.

Non esistono molte possibilità di interpretazione di queste parole. Sono chiarissime. Borsellino immagina che alcuni magistrati della procura di Palermo avessero deciso di eliminarlo e avessero assegnato alla mafia l’incarico di eseguire la sentenza. Prima di morire, avverte: i mandanti sono in Procura. Dopo l’uccisione di Borsellino iniziarono i misteri. In particolare esponenti della polizia, probabilmente appoggiati da alcuni magistrati, avviarono un depistaggio – attraverso le deposizioni di un falso pentito, Vincenzo Scarantino – che portò le indagini lontane dalla verità e in questo modo ottennero che la verità non fosse mai scoperta.

Il depistaggio Scarantino – nonostante gli avvertimenti inascoltati di Ilda Boccassini – resse per diversi anni, anche perché vari giovani magistrati non si accorsero della messinscena. Così le indagini si bloccarono. O addirittura furono sviate. Tanto da finire per diventare uno dei punti di partenza di un altro clamoroso depistaggio, quello realizzato col processo “Trattativa Stato Mafia”, che indirizzò i sospetti di collusione con la mafia verso i Ros dei carabinieri e il senatore dell’Utri, il ministro Mannino, il senatore Mancino e altri. Poi tutti assolti.

Ad aiutare il depistaggio fu un fatto curioso: la testimonianza della signora Agnese ebbe una discreta diffusione. Diciamo che l’opinione pubblica ne fu informata. Ma dalla dichiarazione furono espunte le parole “i miei colleghi e“. Restò solo la parola “altri”. E questo fece spazio all’ipotesi che Borsellino si riferisse alla politica o ai servizi segreti. Invece lui era stato molto preciso a indicare la Procura di Palermo che aveva definito “un nido di vipere”.

Perché quella testimonianza fu stravolta e da chi? Sicuramente dai giornalisti, ma questo semplicemente ci conferma il livello non eccelso del giornalismo anti-mafia. Ma anche da alcuni magistrati. Ora un po’ c’è da riflettere. Spesso si parla dei “misteri della prima Repubblica”. È vero, ce ne sono molti. Forse però il più grande è questo dell’omicidio Borsellino. Sicuramente è questo il vero mistero che le forze della cosiddetta anti-mafia non hanno mai voluto scoprire. Anche perché scoprirlo avrebbe ribaltato molte idee che si sono radicate nell’opinione pubblica sulla magistratura italiana.

Vogliamo provare ora a indagare? È tardi, ma qualcosa si può ancora scoprire. Molti dei protagonisti della Procura di Palermo 1992 non ci sono più. A partire dal capo: il dottor Giammanco. Che era in pessimi rapporti con Borsellino e Falcone. Ma molti di loro sono ancora vivi, alcuni sono sulla breccia, sono anche abbastanza potenti. Vogliamo cominciare a indagare? Se la commissione anti-mafia, usando tutti i suoi poteri, facesse dei passi in questa direzione, forse, per la prima volta, si potrebbe pensare che la commissione antimafia ha una sua utili. Piero Sansonetti 28 Settembre 2023

Estratto dell’articolo di Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 29 settembre 2023

Per qualche ragione, una frase resa a verbale il 18 agosto 2009 da Agnese Piraino, moglie di Paolo Borsellino, è sempre stata riportata superficialmente così: «Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo». Il pensiero andava alla classe politica o ai servizi segreti o a qualche potere oscuro, ma in realtà la frase testuale che la signora attribuì al marito, pronunciata pochi giorni prima della strage di via D'Amelio, fu questa: «Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia. La mafia non si vendica. 

Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri». La signora Piraino, morta dieci anni fa, ripeté la stessa frase nel gennaio 2010 ai pm di Caltanissetta. Disse: i miei colleghi. Ossia dei magistrati. 

Questa elementare asserzione, sempre tenuta sottotraccia dalla magistratura siciliana e dai cronisti mafiologi che l'hanno servita, si incastra perfettamente nelle verità ormai assodate sulle vere ragioni degli assassinii di Falcone e Borsellino: ossia le loro scoperte su quel dossier “Mafia e appalti” che anticipava l'inchiesta Mani pulite ed esplicitava le dimensioni nazionali di un “tavolino” tra politica e imprenditoria e Cosa nostra. Borsellino, nei pochi giorni di vita che gli rimasero dopo la strage di via Capaci, ne parlò anche con Antonio Di Pietro (25 maggio 1992) dopo che l'aveva già fatto Falcone, e va rilevato che Di Pietro lo fece presente al processo sulla “trattativa Stato-mafia” solo per richiesta della difesa di Mario Mori, anche perché il suo esame era stato ritenuto superfluo dai giudici di primo grado.

L'attenzione di Borsellino per l'informativa “Mafia e appalti” fatta dal Ros di Mario Mori è stata confermata anche da molti suoi colleghi di Palermo: tra questi Vittorio Aliquò, Gioacchino Natoli e Leonardo Guarnotta: «Borsellino - ha detto quest'ultimo, - riteneva che l'uccisione di Falcone fosse dovuta a un intreccio perverso tra Cosa Nostra, mondo imprenditoriale, mondo economico, mondo politico... tutti avevano interesse a che Falcone fosse eliminato». 

Questo si legge (o leggerà) anche nel libro “Ho difeso la Repubblica” scritto da Basilio Milio, avvocato del fondatore dei Ros Mario Mori (nelle librerie nel novembre prossimo) che però, a proposito di magistrati, rivela anche altro: racconta che un personaggio di grande caratura mafiosa, Pino Lipari, un geometra vicino a Riina ea Provenzano e legato ad Angelo Siino, detto “il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra”, disse che l'informativa “Mafia e appalti” gli era stata passata dall'allora procuratore capo Pietro Giammanco.

Angelo Siino precisò che Mario D'Acquisto, onorevole democristiano, era l'alter ego dell'altro onorevole democristiano Salvo Lima, compromesso con Cosa nostra e da essa trucidato nel 1992, e che col procuratore Pietro Giammanco «erano molto amici». Sempre nel libro di Basilio Milio si apprende di un'informativa della Dia (Direzione investigativa antimafia) secondo la quale il procuratore di Palermo era cugino in primo grado di Nicolò Giammanco, capo dell'ufficio tecnico di Bagheria, il quale era a sua volta padre di Vincenzo Giammanco, arrestato e condannato quale socio e prestanome del latitante corleonese: nella società Italcostruzioni di Vincenzo Giammanco, infatti, quest'ultimo aveva il 75 per cento mentre il restante 25 era di Saveria Palazzolo, moglie di Bernardo Provenzano. Il resto è storia, anche se è una storia complicata e mai ufficializzata dal giornalismo italiano, occupato a inseguire la magistratura anche in tutti i depistaggi dalla verità sulle stragi del 1992.

Si torna a Giovanni Falcone, bocciato come capo dell'ufficio istruzioni di Palermo, come membro del Csm e come procuratore capo; il nuovo giudice istruttore, Antonino Meli, lo aveva umiliato con la decisione di affidargli indagini bagatellari o slegate da cose di mafia, mentre il nuovo procuratore capo Pietro Giammanco, apertamente andreottiano, aveva spezzettato tutte le indagini che Falcone aveva fatto con Borsellino. […] l'informativa “Mafia e appalti”, che da principio era stata consegnata dai Ros a Giovanni Falcone e non al procuratore capo Pietro Giammanco, del quale l'allora colonnello Mario Mori non si fidava.

Da qui, per la prima volta, si era sviluppata un'indagine sulle turbative realizzate nelle gare degli appalti pubblici partendo dagli interessi mafiosi.

Emerse il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) le ultime due, imprenditoria e politica, non erano vittime, ma partecipi dell'attività criminosa, concorrendo alla spartizione dei proventi illeciti. Ebbene: Falcone, il 20 febbraio 1991, portò l'informativa a Pietro Giammanco e da allora non se ne seppe più nulla.

Il procuratore Guido Lo Forte, braccio destro di Giammanco, ha confermato nella sede processuale che Giammanco chiude l'informativa in cassaforte. Pochi giorni dopo, il 15 marzo 1991, Falcone ne riparlò durante un convegno al castello Utveggio di Palermo: parlò di intreccio tra mafia e imprenditoria e politica e disse «La mafia è entrata in Borsa». Falcone aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c'era Cosa nostra. 

In seguito, chissà come, l'informativa “Mafia e appalti” lasciò la cassaforte del procuratore Giammanco e prese a circolare fuori dalla procura. Il magistrato Antonio Ingroia parlerà apertamente del legame tra Pietro Giammanco e Salvo Lima: «Paolo mi disse testualmente: “Giammanco è un uomo di Lima”. Affermazione per la quale io rimasi turbato, anche per quello che dell'onorevole Lima si era detto per anni a Palermo». Ingroia non sarà il solo magistrato a soffermarsi sui rapporti politici di Giammanco con Salvo Lima e, per esempio, con l'ex presidente della Regione Mario D'Acquisto. Dirà Alfredo Morvillo, cognato di Falcone: «Era noto a tutti che Giammanco era amico del noto onorevole D'Acquisto, uomo abbastanza al centro dell'attenzione quando si affrontano argomenti come politica e mafia».

Non risulterà superato neanche trent'anni dopo: è la ragione per cui una cannibalesca avversione tra la Procura di Palermo e il Ros dei carabinieri, incompresa dai più, sfocerà in inconsistenti e inutili processi della prima contro il secondo, a dispetto di battaglie contro la mafia vinte forse più dal secondo e un po' meno dai primi. […]

L’accusa di Borsellino tuona in antimafia: “Saranno i miei colleghi a volere la mia morte”. 

Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso nel '92

Le parole choc di Fabio Trizzino, avvocato della famiglia del magistrato ucciso nel luglio del ’92 a via D’Amelio, sentito in commissione Antimafia: «Definì il suo ufficio un “nido di vipere”». Valentina Stella su Il Dubbio il 27 settembre 2023

«Chiediamo che le componenti statuali facciano piena luce su particolari dettagli della vita di mio padre in quei 57 giorni» tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio. Lo ha detto Lucia Borsellino nel corso di un'audizione in Commissione parlamentare Antimafia, presieduta dall’onorevole Chiara Colosimo, la quale proprio in una intervista al Dubbio disse «Ho le stesse domande che si fanno i figli di Borsellino e l’avvocato Trizzino e vorrei provare a trovare risposte, sui verbali del Csm e su quei famosi 57 giorni, perché se qualcuno in quel “nido di vipere” ha tradito si sappia».

«Siamo convinti, - ha proseguito Lucia – dopo aver assistito a piste investigative di questi anni che altre piste non hanno considerato atti, documenti e prove testimoniali che potessero fornire elementi indispensabili a capire il contesto in cui Paolo Borsellino operava negli ultimi giorni della sua vita». Dopo Lucia, è intervenuto suo marito e avvocato dei figli di Paolo Borsellino, Fabio Trizzino: «Denuncio il fatto gravissimo che il procuratore Pietro Giammanco non è mai stato sentito nell'ambito dei procedimenti per strage. E ora non possiamo sapere se lavorasse per qualcuno perché è morto». Trizzino ha ricordato una frase di Paolo Borsellino: «Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia: saranno mafiosi coloro che mi uccideranno ma quelli che hanno voluto la mia morte saranno i miei colleghi e altri», disse il magistrato morto nella strage di via D'Amelio. «Se confrontiamo questa testimonianza di Borsellino, che definisce il suo ufficio un “nido di vipere” bisogna cercare nella procura di Palermo» il luogo «di delegittimazione e di isolamento di Paolo Borsellino».

L’audizione si è concentrata in parte sul famoso dossier mafia appalti: era il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima dell’attentato che gli costò la vita, quando Borsellino in una riunione in Procura chiese di approfondire il dossier. «Nel 1991 Falcone già disse che bisognava affinare le tecniche di indagine perché esisteva una centrale unica degli appalti dove sono tutti coinvolti. Il chiodo fisso di Falcone era mafia appalti e su questa linea si porrà Paolo Borsellino. È un falso storico che Borsellino non conoscesse il dossier Mafia-appalti». Aggiunge Trizzino: dopo tangentopoli e la crisi della partitocrazia «Riina si accorge che il sistema dei partiti sta crollando, allora decide che attraverso i grandi imprenditori deve raggiungere i sistemi di potere politico a Roma, come disse anche Giovanni Brusca. La strage di via D’Amelio non ha senso guardando ai soli interessi di Riina. Non si poteva ammazzare Borsellino sperando che lo Stato non reagisse. Ci deve essere stato qualcosa di talmente importante per cui Riina è andato oltre gli interessi dell’organizzazione».

L’avvocato ha ricordato poi cosa disse Antonio Di Pietro nel processo Borsellino ter: «Io e Paolo parlammo e ci dicemmo: "dobbiamo trovare il sistema per far parlare gli imprenditori”. E non dimentichiamo che anche Di Pietro doveva morire». Trizzino sul circolo mafia, imprenditori, politici ha sostenuto che «tutto è delineato nel rapporto del Ros del 1991» redatto da Giuseppe De Donno e Mario Mori. Poi il j’accuse: «La magistratura in tutti questi anni non ha guardato mai al suo interno, a come ha cannibalizzato i suoi figli migliori. Nel giugno 1992 il Csm decretò che Borsellino non aveva i titoli per divenire Procuratore nazionale e non riaprì i termini per le candidature». «Il 29 giugno Borsellino andò da Giammanco per chiarire una cosa importante che rappresenta l’ostracismo e delegittimazione professionale verso Borsellino: mentre Borsellino era a Giovinazzo arriva un fax dal procuratore di Firenze, dal dottor Vigna, in cui si dice che Gaspare Mutolo ha parlato con lui e aveva deciso di saltare il fosso con l’unica condizione che a parlare con lui fosse Borsellino. Borsellino era credibile, chi lo doveva seguire Giammanco? In realtà il Procuratore vuole impedire che Borsellino gestisca quel collaboratore e l’ostacolo per la titolarità del fascicolo viene individuata pretestuosamente nel fatto che il collaboratore avrebbe parlato del comparto palermitano mentre lui era coordinatore delle dinamiche di Trapani e Agrigento».

Inoltre discussero della informativa omessa di Subranni sull’arrivo del tritolo per uccidere Borsellino. «Grazie alla dottoressa Lorenza Sabatino riusciamo finalmente ad avere il racconto di come Borsellino visse quell’incontro. Così racconta quella giornata: “la mattina non era nella stanza e chiesi dove fosse e il commesso mi disse che era dal Procuratore. Mi chiamò la sera: il tono di voce era molto abbattuto e mi chiese quasi scusa per non avermi chiamata e mi disse che il giorno dopo doveva partire per Roma”. Effettivamente il 30 giugno era a Roma per interrogare Mutolo, nonostante il fascicolo era affidato ad altri tre magistrati. “Poi gli feci una battuta: ho saputo che oggi sei stato in buona compagnia! E lui con lo stesso tono: è stata una cosa brutta e mi è sembrato di essere tornato ai vecchi tempi”».

Trizzino conclude: «Qui c’è un uomo puro che ha condotto una via crucis, fino al sacrificio più grande. È giunto il momento che intorno a lui non ci siano più divisioni». Ci sarà una prossima audizione, forse già la prossima settimana per terminare la discussione di Trizzino. In tutto questo parla ai giornalisti di Radio Campus il fratello di Borsellino, Salvatore: «Io escluso dalla convocazione dell'Antimafia? Non è andata così. Io - ha spiegato - ero stato invitato dalla Colosimo in persona a partecipare a una convocazione alla commissione antimafia, ma ho problemi di salute. Ho detto che non mi potevo spostare e quindi avevo rinunciato. Poi però è arrivata da parte del mio avvocato una sollecitazione ad accettare un'eventuale convocazione e allora l'ho comunicato alla stessa Colosimo che mi ha assicurato che a breve sarò convocato anche io insieme al mio avvocato. Ho letto ieri che ci sono state un po' di maretta perchè è stato detto che non ero stato convocato. Le cose stanno come le sto dicendo».

Via D’Amelio, il dossier voluto da Falcone arriva in Commissione. Ora l’Antimafia inizia a indagare su “Mafia e appalti”. Ma i grillini (e Il Fatto) non ci stanno e protestano. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 settembre 2023

Lucia Borsellino e suo marito, Fabio Trizzino, avvocato dei figli del giudice assassinato in Via D'Amelio, saranno ascoltati mercoledì 27 settembre, dalla Commissione Antimafia Nazionale presieduta da Chiara Colosimo. A contrapporsi a loro è il Movimento Cinque Stelle, il quale sta generando un vero e proprio isterismo tra i parlamentari grillini. Questo atteggiamento è del tutto incomprensibile, considerando che l'obiettivo comune dovrebbe essere la ricerca della verità nei fatti. La teoria secondo cui il dossier mafia appalti potrebbe essere il movente delle stragi di Capaci e Via D'Amelio non è un capriccio dei figli di Borsellino, e in particolare dell'avvocato Trizzino. Si tratta di un movente confermato in tutte le sentenze riguardanti le stragi di Falcone e Borsellino. Movente confermato perfino dalla sentenza definitiva sulla (non) trattativa Stato Mafia, anche se non è di sua competenza. È il tribunale di Caltanissetta il luogo naturale ed è lì che in tutte le sentenze, la strage di Via D’Amelio è legata all’interessamento di Borsellino nei confronti del dossier redatto dagli allora ros Giuseppe De Donno e Mario Mori.

Sorprende l'opposizione così accesa dei parlamentari grillini, considerando che hanno avuto a disposizione per cinque anni la precedente commissione presieduta da Nicola Morra. Quest'ultima ha già esaminato le stesse teorie che ora i grillini vogliono riproporre alla Presidente Chiara Colosimo, come Gladio, P2 e il coinvolgimento delle "donne amazzoni bionde", generando una serie di suggestioni, alcune delle quali persino divertenti. Ad esempio, si può citare l'audizione del pentito Gaspare Spatuzza, che è stato interrogato sulla presunta partecipazione delle misteriose donne bionde alle esecuzioni delle stragi continentali.

L'ex consulente e magistrato Gianfranco Donadio ha chiesto al povero Spatuzza: «Lei ha mai percepito il problema dell’esistenza di una donna in questo scenario stragista?». Ebbene sì. Chiede al collaboratore della giustizia se ha avuto una “percezione” di qualche donna. Spatuzza risponde di no. Ma il magistrato non si arrende. Insiste. «In tutto lo scenario stragista ha avuto mai un sintomo?». Spatuzza risponde: «Non ho avuto mai né direttamente né indirettamente che ci fosse una donna un po' in secondo o terzo piano in quello che era il gruppo operativo». Niente da fare. Nessuna percezione, nessun sintomo. Il prossimo passo sarà lo studio delle entità asintomatiche.

Ora, con la convocazione di Lucia Borsellino e Fabio Trizzino da parte di Chiara Colosimo, si sta scatenando un inspiegabile isterismo. Forse i grillini pretendono che si ritorni ai siparietti imbarazzanti come quelli appena descritti? Forse sì. Si apprende che vogliono, con l’ex magistrato e ora onorevole grilli, Roberto Scarpinato, in prima fila, un approfondimento sulla pista nera. Evidetemente la trattativa Stato mafia, teorema completamente smantellato, non va più di moda. Si riesuma la non dimostrata presenza del nero Stefano Delle Chiaie a Capaci il giorno della strage. Si fa fede a un documento che riporta un de relato (in particolar modo l’ex compagna di Lo Cicero, completamente risultata inattendibile), quindi nullo, come se fosse una prova inconfutabile.

È incredibile che si stia cercando di rispolverare teorie del genere, mentre si cerca di minimizzare l'unica pista supportata da prove documentali solidamente ancorate. È difficile comprendere questa ostilità. Questa audizione rappresenta la prima volta che si ascolterà una voce diversa, che contribuirà a rompere la narrazione univoca. In particolare, l'intervento dell'avvocato Trizzino, fonte di conoscenza significativa, e di Lucia Borsellino, persona di grande spessore umano e intellettuale, sarà estremamente interessante.

La questione del dossier mafia appalti è complessa, e questa audizione rappresenta forse la prima occasione in cui verrà affrontata con dettaglio di fronte alla Commissione Antimafia. La sua complessità potrebbe non piacere a tutti, ma è essenziale esplorarla. Tuttavia, sembra che qualcuno preferisca puntare su teorie cospiratorie per evitare di affrontare la verità in modo obiettivo. Come disse Pier Paolo Pasolini: "Il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità”. È possibile che qualcuno stia cercando di evitare il confronto con la verità, preferendo concentrarsi su teorie senza fondamento. Chi teme l'audizione di Lucia Borsellino e Fabio Trizzino?

La mafia è finita? I numeri di Porro dopo la morte di Messina Denaro. "Mio padre ucciso due giorni dopo". Il sospetto di Rita Dalla Chiesa. Il Tempo il 25 settembre 2023

L'ex magistrato Antonio Ingroia rivela la presenza di qualcuno che negli anni ha protetto la latitanza di Matteo Messina Denaro. Si trattava di qualcuno molto ben informato sui risultati delle inchieste che si stavano portando avanti. Per questo le soffiate non potevano non arrivare direttamente dal circuito di inquirenti e investigatori. Se n'è parlato durante la puntata di "Stasera Italia" in onda il 25 settembre su Rete4. L'ex magistrato ha espresso la sua opinione senza peli sulla lingua, lasciando presagire una grave realtà di compromessi ad altissimi livelli. 

"Spessissimo si è arrivati vicini, si è arrivati a un millimetro dall'arresto di Matteo Messina Denaro. Dopo di che c'era sempre una soffiata dell'ultimo minuto (che non poteva non venire dall'interno del circuito inquirenti, investigatori, non so quali organismi fossero a conoscenza delle operazioni) che lo metteva in fuga. Il motivo è semplice: Messina Denaro è l'ultimo assieme a Giuseppe Graviano a custodire i segreti di quella terribile stagione di cui parliamo. La stagione in cui vennero uccisi magistrati, generali dei carabinieri, ufficiali di polizia giudiziaria, politici e giornalisti".  

Stasera Italia, la mafia è ormai in declino? I numeri di Porro dopo la morte di Messina Denaro. Il Tempo il 25 settembre 2023

Si apre con la notizia della morte di Matteo Messina Denaro, numero uno di Cosa Nostra, la puntata del 25 settembre di Stasera Italia, il talk show di Rete4 che vede Nicola Porro alla conduzione. Il giornalista ha presentato così l’argomento sulla mafia, condendo il discorso con alcuni numeri: “Si può iniziare questa trasmissione sulla morte di Matteo Messina Denaro dicendo la cosa che dice il bravo conduttore, ovvero con la morte del boss dei boss si chiude un’epoca, con la morte di Messina Denaro finisce l’epoca delle stragi, l’epoca dei grandi mafiosi. E’ sicuramente così, quelle immagini che tutti ricordano dell’arresto di Messina Denaro hanno fatto girare le teste e il mondo, perché è e si ritiene una grande vittoria dello Stato e così è stata evidentemente. Dopo 9 mesi muore e qualcuno dice che si è fatto pizzicare perché era malatissimo ed ha preferito morire in carcere che da latitante, tutte illazioni, però ci sono dei numeri, a cui siamo affezionati, che danno il senso su quello che è avvenuto in realtà in questi anni. Gli omicidi per mafia nel 1991 erano 718, nel 2021, un paio d’anni prima della cattura del boss dei boss, erano scesi a 23. Questo forse vi dà la dimensione di che cosa abbia voluto dire la mafia e di cosa ha rappresentato oggi la mafia che uccide. Il 7,3% degli omicidi, quei 23 del totale degli omicidi, prima il 40% degli omicidi in Italia erano per mafia, ora sono scesi. Ciò vuol dire – chiude così la sua analisi Porro - che in Italia non solo si muore di meno per omicidio, ma anche che è ridicolo il numero dei morti per omicidi di mafia”.

La grandezza di Leonardo Sciascia? Trasformare le vittime anonime della giustizia in carne viva e sangue...

"Ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la Giustizia". E' il bellissimo libro curato da Lorenzo Zilletti e Salvatore Scuto. Gaetano Pecorella Il Dubbio il 13 aprile 2023

Questo straordinario libro - Ispezioni della terribilità. Leonardo Sciascia e la giustizia a cura di Lorenzo Zilletti e Salvatore Scuto - è sul pensiero di Leonardo Sciascia, ma va al di là di Leonardo Sciascia: è un libro sul dolore umano che sempre si collega all’amministrazione della giustizia, e, più in generale, all’esercizio del potere. E’ un libro sulla responsabilità di decidere sulla sorte di un uomo; sui collaboratori sempre creduti, perché «il far nome di sodali, di complici è sempre stato dai giudici inteso come un passar dalla loro parte» ; sulla pena di morte e su un “piccolo” giudice che ebbe la forza di opporsi, in epoca fascista, alla sua applicazione, come scrive Insolera, sul rapporto tra Verità e Potere, sul potere giudiziario privo di responsabilità; sulle miserie del sistema giudiziario, e sul “terribile” e pur “necessario” mestiere del giudicare; è, infine, un libro sull’errore giudiziario che si riassume nelle parole di Sciascia: «Per come va l’ingranaggio, potrebbero essere tutti innocenti».

A ben vedere tutto ciò non ha in sé nulla di nuovo, per lo meno a partire da Voltaire e dall’illuminismo, da Beccaria e dai fratelli Verri. Allora qual è, qual è stata, la grandezza di Sciascia che emerge dalle pagine delle “Ispezioni della terribilità”? La risposta che mi sento di dare è che Sciascia ha trasformato le parole dei giuristi in carne e sangue di coloro che sono stati vittime della ferocia dei giudici.

Il volume nasce dal felice incontro tra l’Associazione amici di Leonardo Sciascia e l’Unione delle camere penali, impegnate tra il settembre del 2020 e il giugno 2021 in una serie di Letture ‘sciasciane’. Si parte dall’assunto che il volto feroce della giustizia non appartiene ad epoche remote, ma è realtà presente.

«Terrificante è sempre stata l’amministrazione della giustizia». Il passaggio è tratto da «La strega e il capitano», in cui Sciascia ricostruisce scrupolosamente la condanna al rogo di Caterina Medici (nel 1617 a Milano) fantesca nella casa del senatore Luigi Melzi, considerata responsabile dei suoi strani dolori di stomaco e per questo bruciata. La rievoca Salvatore Scuto ponendo la eterna questione del «rapporto tra il senso assoluto della giustizia e la realizzazione che di essa fanno le leggi».

L’idea base del volume è questa: Sciascia è insieme “testo” e “pretesto”. Testo perché si commentano frasi sulla giustizia penale tolte dai suoi lavori di narrativa, frasi di efficacia straordinaria per la loro forza comunicativa. Pretesto, perché parlare di Sciascia è parlare di giustizia, quella intesa come potere, come macchina violenta che chiunque può stritolare nei suoi ingranaggi, con gli interventi di penalisti, di costituzionalisti, di intellettuali d’altra cultura e infine di avvocati.

Paolo Borgna ragiona su una frase de il “Contesto”, romanzo sull’errore del giudicare, in cui un personaggio dice: “Sì, ero innocente. Ma che vuol dire essere innocente, quando si cade nell’ingranaggio? Nientevuol dire, glielo assicuro”.

Sciascia, per Vincenzo Maiello, ha il merito di introdurre nel lessico civile vocaboli e concetti che identificano un paradigma di giustizia penale conforme allo Stato di diritto, costruito sulla inviolabilità dei diritti umani.

Paolo Ferrua muove dall’affermazione di Sciascia: «Il potere di giudicare i propri simili non può e non deve essere vissuto come potere», per poi ricostruire la lenta, ma costante distruzione del processo accusatorio da parte dei giudici per riacquisire tutto quel potere che era stato sostituito dalla logica della ragione e dalla dialettica.

Emanuele Fragasso ricorda, a conclusione del suo intervento, le parole con cui si chiude “Porte aperte”: «sono parole di incoraggiamento verso l’uomo, a condizione che questi sia risoluto a combattere per la sua libertà e per l’umanità che è presente in ogni uomo».

Ogni intervento meriterebbe di essere ricordato ben più ampiamente di quanto si è fatto sin ora: tuttavia, ognuno di essi è talmente ricco di riflessioni, di citazioni di Sciascia, di osservazioni giuridiche e non giuridiche, che appare un’opera impossibile.

In chiusura vorrei toccare un aspetto di Sciascia che mi ha particolarmente colpito. Gli scritti contenuti in questo libro danno anche un quadro delle contraddizioni, forse irrisolvibili, che animano il mondo della giustizia. Sciascia ha investigato, ma la realtà è talmente complessa che alcune domande sono rimaste senza risposta, perché nel difendere un principio si finisce per oscurarne, o sottovalutarne un altro. Anche in questo sta la grandezza di Sciascia: non ci ha presentato una soluzione di tutti i problemi, un mondo della giustizia perfetto, nel quale si trova sempre una risposta giusta. Sciascia ha lasciato, a chi lo avrebbe letto, una eredità di grandi dubbi, di nodi inestricabili: ne cito un paio.

Il rapporto tra la giustizia e il popolo. Sciascia ha scritto che il popolo deve vigilare su come i giudici amministrano il loro potere; ha individuato però nella ricerca del consenso popolare gli eccessi di non pochi magistrati. Ciò è accaduto in passato, e accade oggi: “mani pulite” ha reso le Procure dei soggetti politici, ha creato un consenso popolare dando ai magistrati un ruolo di “difensori dell’onestà”, a prescindere dalla colpevolezza degli imputati.

Il rapporto tra giustizia e legge scritta. Sciascia censura quei giudici che si fanno essi stessi creatori del diritto piegando le norme ai propri fini. Nello stesso tempo, però, descrive il giudice di Porte aperte come un uomo che ha forzato la legge per non applicarla, visto che in quel caso prevedeva la pena di morte. In quali casi il giudice può piegare la legge alla sua coscienza?

Infine, un’ultima domanda: c’è un mezzo per avere una giustizia meno crudele, o la giustizia per governare non può essere diversa da ciò che è? Sciascia non lo dice, ma con la sua lotta per il diritto ha testimoniato che conta soltanto continuare a credere che sia possibile.

Antonio Giangrande: A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare.

In virtù degli scandali gli Italiani dalla memoria corta periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che, se ottenessero quello che chiedono, nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti.

La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra comunista per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare e queste manifestazioni pseudo antimafia, non è che sono propaganda per non far cessare il sostentamento?

Antonio Giangrande: Lo Stato patrigno che uccide i suoi figli (specie se lavoratori autonomi).

Un imprenditore costretto a pagare 1 milione di euro non dovuto e che non ha. Costretto dalla mafia? No dallo Stato!

Quando si sentono le miriadi storie di ordinaria ingiustizia e si parla di lavoratori autonomi estenuati dal sistema fino a togliersi la vita, a volte vien da pensare che le forze dell’ordine e la magistratura stiano lì a fottere le persone per mantenere uno Stato (e quindi loro stessi) senza alcun rimorso o rispetto per il male ingiusto che spesso arrecano con i loro errori.

Racconto questa storia esemplare che nessun giornalista mai racconterà. Una storia che è l’antitesi delle note distribuite dalle forze dell’ordine e dalla magistratura ai giornali che prontamente tal quali li pubblicano. Note in cui le cosiddette istituzioni si vantano delle loro gesta per essere santificati.

Ad Avetrana, (ma può essere qualsiasi altro paese italiano) è successo che, prima del caso di Sarah Scazzi, si son visti volteggiare sul paese un sacco di elicotteri. Sulla spinta degli ambientalisti di maniera, spesso dipendenti statali, ecco montare il tema dell’inquinamento ambientale e delle discariche abusive. Ogni appezzamento di terreno, a torto o ragione, era ed è sotto la lente del controllo inusuale. Ognuno di noi che sia maleducato e che butti un sacchetto di rifiuti in un terreno altrui, deve sapere che mette nei guai il malcapitato proprietario per smaltimento illecito di rifiuti. Bruci una carta o piccole sterpaglie o accendi un falò in spiaggia: sempre smaltimento illecito di rifiuti.

Avetrana non è la terra dei fuochi, ma la terra di cave tufacee e del relativo materiale di risulta. L’estrazione dei blocchi di tufo comporta che, tolto l’elemento utile squadrato, il materiale originario di scarto rimanga in cava. Certo è che tale materiale non può essere per logica trattato come smaltimento di rifiuto speciale, se è materiale vergine ed indigeno del posto. Ebbene. Il paradosso è che questo stormo di elicotteri volteggiava su una piccola cava dismessa da decenni alla periferia del paese. Cava già utilizzata abusivamente dallo stesso Comune di Avetrana per la discarica di acque reflue piovane. Il proprietario di un lotto confinante, comprendente una misera abitazione ed il suo piccolo opificio di manufatti in cemento decide di comprare una parte della cava dismessa, pari a 5 mila metri quadri, per usarla come luogo di sosta dei mezzi, senza arrecare alcuna modifica. Dopo qualche mese ecco la Guardia di Finanza, con varie pattuglie ed elicotteri, intervenire in forze spropositate sul luogo, intimorendo i proprietari e sequestrando l’area. Risultato: un processo penale e sanzioni amministrative pari ad un milione di euro, che il piccolo artigiano non ha e non avrà nemmeno dopo una vita di estenuante lavoro. In più il ripristino dei luoghi. Punizioni per un fatto che lui non ha commesso e per la dimensione inesistente.

La relazione stilata dalla Guardia di Finanza e prodotta agli atti era: smaltimento illecito di rifiuti speciali per decine di migliaia di metri cubi da parte dell’artigiano, per i quali, oltretutto, non era stata pagata l’eco tassa, ed abuso edilizio. Tempi dell'illecito non veritieri e calcoli falsi ed inverosimili sull'entità del presunto materiale smaltito. Ma tant’è servono soldi allo Stato e tutto va bene.

L’artigiano che ha pagato regolarmente sempre le sue tasse, quindi meritevole di tutela e rispetto, è stato costretto a rivolgersi ad esosi avvocati per difendersi dalle infamanti accuse penali e dalle inconsistenti accuse amministrative. L’avvocato tarantino nella causa penale, non si sa perché, è tentato dal Patteggiamento, ma poi ci ripensa. Con le relazioni prodotte dalla guardia di Finanza comunque c’è lo spettro della condanna.

L’avvocato leccese, non si sa perché, perde la causa amministrativa. Nessuno degli avvocati in atti hanno menzionato il fatto che il materiale contestato è materiale vergine ed indigeno e che, se di smaltimento si tratta, il nuovo proprietario non è responsabile di quanto è avvenuto decenni prima da parte di chi gestiva la cava. Colpe comunque ampiamente prescritte. L’amministrativista, inoltre non avverte il cliente dell'opportunità dell'appello. Questo principe del foro è quello che si è attivato affinchè il presidente del Tar di Lecce emettesse un decreto cautelare dopo sole 24 ore dal deposito, di sabato, da chi non era legittimato ed in favore di un azienda in odor di mafia, per una vicenda che si collega ad un appalto per la raccolta dei rifiuti urbani a Casarano. Il presidente del Tar non è nuovo ad essere soggetto di accuse. Dai giornali si apprende che: "Ilva, il presidente del Tar di Lecce cognato dell'avvocato dell'azienda". I ricorsi del colosso sempre accolti. Esposto di Legambiente al Csm.

Ciononostante sul povero artigiano, protagonista di questa storia, cala Equitalia per riscuotere il milione di euro, che il tapino non ha. In quella famiglia è calato il lutto, consapevoli che dall'inizio della storia uno stormo di avvoltoi è calato su di loro e gli toglieranno il frutto di tutto il lavoro di una vita, che ad oggi non ha più senso di essere vissuta. E meno male che non ci sono avvisaglie di gesti inconsulti autolesionistici.

Chi ringraziare di tutto ciò. Grazie Stato patrigno. Grazie stampa che non raccontate mai la realtà dei fatti, ossia le versioni difensive che sputtanano le note di forze dell’Ordine e della Magistratura, o comunque le storie di ordinaria follia burocratica che si insinua nella vita della gente che lavora per poter da essi estrarre il sangue per mantenere questo Stato Patrigno. Quando parlate dei suicidi degli imprenditori, cari giornalisti, parlate delle storie che li hanno indotti.

Se non fosse per me questa storia non sarebbe mai stata raccontata e la sofferenza dell’artigiano mai esistita. Come volevasi dimostrare, in Italia, pur con la ragione, non si riesce a cavare un ragno dal buco, anzi sì è cornuti e mazziati e ti dicono, in aggiunta, subisci e taci.

Mafia, il primo maxiprocesso fu a Bari nel 1891. Piero Melati su La Repubblica il 30 Aprile 2023.

I disegni che illustravano il processo di Bari su un giornale dell’epoca 

Con 179 imputati, anticipava di un secolo quello di Palermo. "Per conoscere le organizzazioni criminali resta attualissimo" dice lo storico Enzo Ciconte. Che gli dedica un libro

Il giornale si chiamava Don Ficcanaso, un autentico nome-garanzia, se ti dovevi occupare del primo maxiprocesso alla mafia della storia d'Italia. Che, si scopre, non fu affatto quello ben più celebre di Palermo contro Cosa Nostra del 1986. E nemmeno l'altro, più controverso, di Napoli, che vide tra centinaia di imputati anche l'innocente conduttore televisivo Enzo Tortora. Il primato dei "processoni" va invece attribuito a questo, apertosi a Bari il 4 aprile del 1891, seguito anche da un secondo a Taranto nel 1893: 179 alla sbarra, 900 testimoni, 23 avvocati, 14 faldoni di istruttoria, 200 carabinieri e due compagnie di soldati a presidiarlo.

Bari 1891, va in scena il primo maxiprocesso. Contro la criminalità organizzata, con 179 imputati, interrogatori di pochi secondi e “chiasso indemoniato” Raccolte le cronache di un giornale satirico locale. GIUSEPPE SALVAGGIULO su La Stampa il 02 Maggio 2017  

«Sin dalle sei del mattino si notava un gran assembramento di gente innanzi al castello. Le solite femminucce non mancavano; tutte malconce, con i figlioletti in braccio, aspettavano con ansia l’uscita dei detenuti. Si sentivano per ogni dove schiamazzi di donne, che facevano commenti intorno alla malavita». Così, dalle donne che scortano figli e mariti in ceppi dal castello adibito a carcere allo stabilimento requisito e trasformato in tribunale, il 5 aprile 1891 il giornale satirico barese Don Ficcanaso comincia a raccontare il primo maxiprocesso di criminalità organizzata dell’Italia unita: 179 imputati, 23 avvocati, 900 testimoni, 14 faldoni di carte, 200 carabinieri e due compagnie di soldati per l’ordine pubblico. Ogni udienza un fascicolo, «in modo che in ultimo - scrive il direttore Biagio Grimaldi - si fa un solo volume, contenente l’intero e minuto resoconto della causa». Ora un piccolo editore barese, LB Edizioni, l’ha recuperato e ristampato.

Nell’introduzione il direttore del Don Ficcanaso spiega l’origine del processo: la polizia, impotente di fronte «a questa classe di malviventi che ha afflitto continuamente questa povera città come una piaga», ha cambiato strategia dopo aver scoperto che «la malavita ha messo profonde radici: s’è formata una setta che ha un capo, uno statuto, un giuramento di rito e naturalmente un luogo di riunione». Anziché inseguire singoli delitti, prefetto e questore (forestieri) decidono di processare l’associazione criminale tout-court, fino a quel momento negata dai tribunali per «insufficienza di indizi».

La grande retata

Il confidente Sabino Coccolino, «uomo risoluto e di coraggio» convocato dal questore nottetempo per non destare sospetti, conferma l’intuizione. La notte del 23 settembre 1890 scatta la grande retata. In sei mesi viene allestita l’aula bunker «con dei grandi gabbioni» e istruito il processo. Quasi un secolo dopo, un metodo investigativo non dissimile ispirerà il primo, storico maxiprocesso alla mafia.

«Vi passeranno dinanzi - promette Grimaldi con spiccato senso del marketing - scene di sangue, episodi amorosi, vendette personali, fatti brutali raccontati dai diversi testimoni, tutti palpitanti di verità che vi faranno fremere di odio e di amore nel medesimo tempo». Le cronache del giornale - asciutte al limite dello stenografico ma non prive di gusto per i dettagli e per la caratterizzazione dei personaggi, nonché condite di vernacolo - non deludono. «U figghie mì!... U portene attaccate come a nu cane», s’ode urlare mentre i detenuti, tra luccichii di baionette e clangori di catene, si avviano dal carcere. «Chi porta il cappello alla mammamì in atto di noncuranza, chi ride guardando tra la folla per riconoscere gli amici, e tutto ciò tra le grida e i pianti delle donne».

Nell’aula «un pigia-pigia e un chiasso indemoniati» accompagnano la prima udienza. Diversamente dall’odierno rito accusatorio, il processo comincia con gli interrogatori degli imputati, la confessione è prova regina.

«“Il presidente chiama Telegrafo Giuseppe”. “Presente”. “Voi siete imputato di associazione alla malavita: che ne dite?”. “Non è vero”. “Siete imputato anche di oltraggio alla guardia Fanelli”. “Nego tutto”».

Pochi secondi e tocca al prossimo. Come cambiano i tempi: nel processo Mafia Capitale l’interrogatorio dell’imputato Salvatore Buzzi è durato più di trenta ore. Torniamo al 1891: i più negano, qualcuno si discolpa accusando altri. Il primo a confessare, dopo quattro udienze, è tal Iacobbi Andrea. Racconta il rito di affiliazione a «giovanotto» nel carcere di Trani, il linguaggio in codice, le minacce.

Poi tocca a parti lese e testimoni: tre guardie, un confidente, una prostituta sfregiata in viso con un rasoio per aver dissuaso un’amica dal fornire un alibi falso a un malavitoso. Non manca un pentito, un impiegato del Telegrafo. E il questore racconta in tribunale le intimidazioni subite dai poliziotti in prima linea nelle indagini, nonché le collusioni di certe guardie penitenziarie. Quindi vengono depositate otto lettere, sequestrate in carcere o nelle case degli imputati durante le perquisizioni.

Stupri, estorsioni, rapine

Anche i tatuaggi sui corpi degli delinquenti, puntualmente elencati dal cronista - spade, teste di donne, serpi, cuori - sono prove dell’esistenza di una «associazione di malfattori il cui principale fine è il delinquere contro le persone e le proprietà». Stupri, estorsioni, pestaggi, rapine, danneggiamenti di postriboli, furti ai danni di fruttivendoli e tabaccai, minacce a guardie che si mettono di traverso alle scorribande dei malavitosi. In tutto 34 reati-fine contestati.

La nascita del sodalizio criminale è individuata nell’affiliazione di cinque detenuti baresi, avvenuta tra il 1883 e il 1884 per opera di alcuni camorristi napoletani. La malavita mutua dalla camorra, come ricostruito da un minuzioso rapporto del questore, gran parte delle regole: dalla gerarchia alla ripartizione dei proventi, dalle sanzioni disciplinari ai doveri degli associati.

«Il procuratore del Re, cavalier Francesco Fino, incomincia la requisitoria mantenendosi quasi sempre calmo», annota il cronista. Premette che, sconfitto il brigantaggio, è la criminalità organizzata la piaga nazionale da debellare. Ne afferma «come cosa certa» l’esistenza in città. Chiede la condanna di tutti i 179 imputati, massimo della pena 15 anni 6 mesi e 20 giorni per Ginefra Giuseppe.

È l’avvocato Bovio a tenergli testa. Denuncia indebite pressioni mediatiche e definisce il processo «un immenso pallone splendidamente dipinto» ma destinato a precipitare: non si può dare un’associazione criminale con metà degli affiliati minorenni, «un’associazione di lattanti». E poi quali sarebbero i reati di siffatta malavita? Furti di lattughe, pomodori e cocomeri.

L’ultimo capitolo del libro non è dedicato alla sentenza (per quella ci si deve accontentare, in appendice, dell’elenco delle pene) ma alle conclusioni del Don Ficcanaso. Innocentiste, a dispetto dei primi articoli, par di capire per compiacere un’opinione pubblica che udienza dopo udienza ha solidarizzato con i malviventi locali. E che in fondo si riconosce nell’esclamazione di una donna del popolo alla vista degli imputati: «Digghe ìì ca ce stève la fatiche, chidde povre file de mamme non facèvene le magabbùnde», «Io dico che se ci fosse stato lavoro, quei poveri figli non avrebbero fatto i vagabondi».

Proprio lui che finì sui giornali per lo stesso motivo. Che noia...Lirio Abbate, Carminati e le pagelle di presentabilità per frenare Chiocci al Tg1 e Colosimo all’Antimafia. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 19 Maggio 2023 

Triste storiella di ipocrisia italiana. Ieri su Repubblica, Lirio Abbate, ex direttore dell’Espresso, titolava, per la seconda volta in tre giorni “L’ombra di Carminati su nomine e scalata dei suoi commensali” (il titolo precedente recava: “Quei legami pericolosi”). Obiettivo non dichiarato: complicare (?) l’elezione di Chiara Colosimo, deputata di Fratelli d’Italia, a Presidente della Commissione Antimafia, e la nomina di Gianmarco Chiocci, direttore di Adnkronos, al Tg1, per la quale manca ancora una maggioranza granitica in Cda.

Segue citazione di un vecchio incontro tra Chiocci e Carminati, e della presunta amicizia tra Colosimo e Ciavardini, terrorista nero condannato per strage. Roba incompatibile con certi ruoli, suggerisce Abbate. E come dargli torto? Poi però gratti, e sotto il titolo e l’attacco roboante, si svela la solita storia dell’impeccabile che dispensa pagelle antimafia e di presentabilità. Una noia, insomma. Se non fosse che, al solito, c’è da valutare se Abbate abbia titolo adeguato ad alludere certe appartenenze, amicizie, e a decretare altrui presentabilità. E anche qui, pare di no. Con un rammarico in più: proprio lui, finito a suo tempo ingiustamente sui giornali, secondo un metodo sbagliato, dovrebbe capire che questo non va proposto per altri. Invece…

Lirio Abbate finì sui giornali proprio per alcuni suoi legami, fatti di “ottimi rapporti” (parole del Gip) con Antonello Montante, ex Presidente di Sicindustria, ex paladino antimafia condannato due volte per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo a sistemi informatici, in quel che la cronaca ha bollato come “Sistema Montante”. Per noi Montante è innocente (manca la pronuncia definitiva della Cassazione), ma se qui si utilizzasse il metro proposto da Abbate per (mal) giudicare gli altri, egli sarebbe messo maluccio.

Lo ha ricordato Nicola Porro nella sua “Zuppa” sui social, l’altro ieri. Porro ricordava che, avendo Abbate scritto che Chiocci era stato indagato qualche anno fa per aver favorito Massimo Carminati (condannato nel processo “Mondo di Mezzo”) rivelandogli l’esistenza dell’inchiesta, per Chiocci arrivò subito il non luogo a procedere perché il fatto non sussiste (tradotto: ma di cosa parliamo? Di niente), ma che questo Abbate non lo sottolineava, se non menzionandolo solo di striscio, ed evidenziava invece la tesi di un Pm che era stata sonoramente bocciata dal giudice. Alludere, affrescare, utilizzando argomenti di qualche Pm bocciati dai giudici (dunque irrilevanti), che sport è? Giornalismo? Antipatia a mezzo stampa? O ius sputtanandi? Un metodo, questo, visto e rivisto, che se però – questa l’obiezione – Abbate applicasse a sé stesso, non lo risparmierebbe.

Eppure, dicevamo, dovrebbe egli stesso conoscere e rigettare un metodo simile, proprio lui che finì ingiustamente (perché nemmeno indagato) accostato a Montante in un’ordinanza di custodia cautelare in carcere del 2018 a firma del Gip Maria Carmela Giannazzo. In cui si parla dei continui rapporti tra Montante e Abbate. “Emerge la sussistenza di ottimi rapporti tra Montante e il giornalista Lirio Abbate, risalenti già al 2008”, scrive il Gip. Ottimi rapporti con uno condannato due volte per associazione a delinquere? “Wow…. e di che ottimi rapporti parliamo?”, si indignerebbe Abbate, se scrivesse di altri. Quelli di Abbate con Montante li mette nero su bianco appunto il Gip: colazioni a Cefalù, pranzi a Palermo, cene a Roma (a proposito di “commensali”), incontri all’hotel Bernini, gite in barca. A volte anche due appuntamenti al giorno. “Con un bi-condannato per associazione a delinquere? Ma che volgarità…” direbbe di altri Abbate, dimentico che un giudice parli invece di lui.

Tanto che persino Attilio Bolzoni, collega di Abbate, ebbe a dire, a ottobre 2019, in un’audizione alla Commissione parlamentare Antimafia: “Su di lui mi mettete in imbarazzo perché’ lo conosco da sempre… ma glielo dissi: “Secondo me hai avuto promiscuità eccessive con quello là (Montante, ndr)”. Seguì rissa di repliche e controrepliche tra i due (non bastò nemmeno che Bolzoni avesse riconosciuto al collega, in quella stessa audizione, di aver smesso di frequentare Montante, una volta quest’ultimo indagato): “Mai fatto favori a Montante né ricevuti -si piccò Abbate -. Anche Bolzoni lo incontrava ma a differenza sua io mai gli chiesi di acquistare copie di libri o finanziare film”, aggiunse. “Cito solo documenti giudiziari”, fu la replica di Bolzoni: cioè “il rapporto della Squadra mobile di Caltanissetta, in cui i nomi dei due colleghi erano inseriti in una lista di favori di Montante (e dove il sottoscritto non è nemmeno menzionato): nomi, quelli di Abbate e Ceravolo, presenti anche nell’ordinanza di custodia cautelare a firma del Gip Giannazzo del 2 maggio 2018. “Non so cosa vogliano lui e i suoi avvocati, prosegue Bolzoni: è lui a essere citato nel rapporto di 169 pagine di favori, nell’informativa di 61 pagine sui rapporti tra Montante e giornalisti, e nella richiesta di custodia cautelare che parla dei suoi ottimi rapporti con Montante. Io mai”, chiude Bolzoni, che ricorda infine come una sola volta Montante fece il suo nome, e che il sostituto procuratore di Caltanissetta, Massimo Trifirò, lo indagò per diffamazione nei suoi confronti.

Insomma, ad Abbate non è bastato nemmeno aver provato sulla sua pelle l’ingiustizia del metodo che oggi propone per altri. E siamo alle solite: a colpi di citazione di fatti decontestualizzati (e nel caso di Chiocci anche bocciati da un giudice che ha detto: “Lasciatelo stare, parliamo del nulla”) buttati lì per affrescare e alludere, si induce chi legge a pensare a torbide amicizie che colorano carriere altrui. Poi vai a vedere se chi punta il ditino ne abbia titolo, e osservi che chi dà lezioni si ritrova invece un Giudice che peraltro mette nero su bianco i suoi legami con il suo “commensale” Montante, ex paladino antimafia condannato due volte per associazione a delinquere. Per chi scrive Montante è innocente, Abbate non doveva essere tirato in mezzo, e – di più – non c’è niente di male ad avere amici che poi, autonomamente, commettano errori che eventualmente sono solo loro. Ma a usare il metro di Abbate, che qui rigettiamo in toto, i suoi rapporti sono più meno pericolosi di quelli di Chiocci e Colosimo? La solita storia: inflessibili solo con le vite altrui, assai indulgenti con sé stessi. Che noia. Andrea Ruggieri

Il giornalista contro i penalisti: «Veicolano minacce mafiose». Un cronista veneziano attacca i difensori del processo anticamorra, rei di averlo nominato durante l’arringa. La replica: «Giudizio volgare che violenta il processo». Valentina Stella su Il Dubbio l'11 maggio 2023

È scontro pesante a distanza tra un giornalista e i penalisti veneziani. Oggetto della contesa: il ruolo dell’avvocato che difende presunti mafiosi e la sua libertà di espressione in aula. Ma vediamo cosa è successo. «Abbiamo importato oltre alle mafie anche il metodo mafioso che è esattamente questo: cioè le minacce agli organi di stampa e ai giornalisti con nome e cognome vengono fatte dagli avvocati dei mafiosi e non era mai successo questo nel Veneto», ha dichiarato qualche giorno fa un giornalista veneziano antimafia di cronaca e inchiesta ad una emittente televisiva, commentando il processo ai cosiddetti casalesi a Eraclea.

Il giornalista ha poi proseguito: «Io non discuto sul fatto che un avvocato difensore dica che è tutta colpa della stampa: succede sempre... Sono preoccupato dal fatto che gli avvocati difensori abbiano deciso di attaccarmi un bersaglio sulla schiena, cioè di indicarmi direttamente come il responsabile di quello che sta succedendo, come se il processo l'avessi fatto io. Ecco perché dico: abbiamo importato le mafie e purtroppo abbiamo importato anche questo meccanismo bruttissimo per cui si indica direttamente il nemico con nome e cognome. Non era mai successo prima e spero che non succeda mai più».

Come spiega l’emittente Antennatre, il nome del giornalista del Gazzettino, Maurizio Dianese, «è stato citato dagli avvocati di Luciano Donadio che, in aula bunker a Mestre, hanno tentato di smontare la ricostruzione della pubblica accusa che, la scorsa settimana, ha chiesto 30 anni di reclusione per l’uomo accusato di essere stato a capo di un’organizzazione di stampo mafioso operante nel Veneto orientale per 20 anni. Nella loro arringa, i legali, hanno attaccato la stampa senza giri di parole, definendola morbosa. “Si è messo in moto un circolo vizioso, hanno detto, la mafia a Eraclea c’è perché lo dice il giornalista”».

Le dichiarazioni di Dianese hanno subito suscitato la reazione critica della Camera penale veneziana che ha reso noto un duro comunicato. Innanzitutto riassumono i concetti espressi dal giornalista: «1) Gli "avvocati dei mafiosi", applicando "esattamente" il "metodo mafioso" importato, hanno formulato in aula minacce alla stampa, si intende anch'esse di natura mafiosa; 2) "Succede sempre" che gli avvocati difensori dicano che "è tutta colpa della stampa”; 3) gli avvocati difensori "hanno deciso" di "attaccare" sulla schiena del giornalista "un bersaglio", indicandolo come nemico. E ciò non deve più accadere».

La Camera penale veneziana, «a fronte di un tale violentissimo attacco al processo e al diritto di difesa che vi è connaturato», ha osservato innanzitutto che «negli Stati di diritto anche pre-illuministi, il difensore gode della prerogativa di non essere perseguito per le espressioni utilizzate in discussione e addirittura per le offese (libertas convicii). Chiunque comprende che, se così non fosse, non vi sarebbe diritto di difesa. La libera argomentazione è oggi tutelata dall'art. 598 c.p.». Ovviamente questo non significa libertà assoluta di divagare, offendere o, peggio, minacciare. «La stessa norma fa salvo il potere del giudice di adottare "provvedimenti disciplinari"». Ma anche molto di più: «Il presidente dirige la discussione e impedisce ogni divagazione, ripetizione e interruzione" (art. 523, co. 3 c.p.p.). E ciò nell'alveo di un più generale penetrante potere di disciplina dell'udienza, affidato al Giudice: "La disciplina dell'udienza e la direzione del dibattimento sono esercitate dal presidente che decide senza formalità", funzioni per le quali il presidente "si avvale, ove occorra, anche della forza pubblica" (art. 470 c.p.p.)». E a chiudere il cerchio, «"quando viene commesso un reato in udienza, il pubblico ministero procede a norma di legge" (art. 476 c.p.p.)».

Secondo i penalisti veneziani, «con la sua improvvida pubblica intemerata, il giornalista mostra di ignorare completamente tale assetto normativo e valoriale; nel duplice significato di non conoscerlo, sprezzando il profondo valore di rango costituzionale che lo sostiene». Così facendo, «egli ha prima di tutto violato il Giudizio, il processo; la cui immagine non è solo l'essere atto di tre persone/ruoli (il giudice, l'accusa e la difesa), ma l'incarnarsi in un giudice terzo e imparziale. Quel giudice che, come si è precisato, possiede una serie di strumenti forti ed efficaci per garantire la correttezza dello svolgersi del Giudizio». Inoltre, «l'attacco al diritto di difesa, insito nella pretesa di infrangere il recinto del giudizio interpretando e sindacando tratti di arringa difensiva, implica il tentativo di comprimere e umiliare le libertà argomentative del difensore, le libertà di toga. Tentativo che si risolve in una sorta di pretesa di sovragiudizio, superiore al giudice e alle parti; un giudizio mediatico e volgare che violenta il processo penale».

Infine, rileva la Camera penale, «l'attacco pesantemente oltraggioso che trasfigura la libertà argomentativa processuale, espletata nel cerchio sacro del processo, nientemeno che in strumento di minaccia mafiosa; attacco talmente impudico da richiamare l'immagine del bersaglio attaccato alla schiena e, dunque, da evocare l'idea dell'agguato armato». Per concludere: «Ognuno svolga liberamente la propria professione ma nessuno attenti al processo. Chi lo fa, ci trova schierati in difesa della civiltà, prima che dello Stato di diritto».

1993-2023: TRENT’ANNI DALLE BOMBE. Trent’anni di mafia e misteri. La caccia infinita ai mandanti. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 15 maggio 2023

Il 14 maggio 1993 il primo attentato sul “continente” contro Costanzo. Il primo di una lunga guerra allo stato

Dopo la mattanza di Falcone e Borsellino, le bombe dei corleonesi colpiscono passanti e patrimonio artistico

Possibile che la strategia fu ideata solo dalla cupola mafiosa? Le indagini puntano su Berlusconi e Dell’Utri

Pioveva a dirotto il 14 maggio 1993. L’orologio segnava le ore 21:35, minuto più minuto meno. In via Fauro, strada dell’elegante quartiere Parioli di Roma, un boato scuoteva i vetri delle abitazioni. I cornicioni crollarono, il muro di recinzione di una scuola si sbriciolò. L’autobomba era stata piazzata lì per Maurizio Costanzo.

Non ci furono morti, solo feriti, tra questi nel bollettino di guerra comparivano due guardie del corpo del celebre conduttore, scomparso poche settimane fa. Il piano per uccidere Costanzo con 100 chili di tritolo nel centro della capitale era firmato Cosa nostra, la mafia siciliana. C’era anche un giovane Matteo Messina Denaro coinvolto nel progetto, catturato dopo 30 anni di latitanza a gennaio 2023.

La bomba di via Fauro è stata la prima di una scia di attentati nel cuore del paese, ha dato il via alla stagione delle stragi sul continente successive agli eccidi di Capaci e via D’Amelio in cui morirono i magistrati del pool antimafia di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e le loro scorte.Nel 1993 la mafia ha seminato morte e distruzione da Roma a Milano.

Con cinque stragi e la programmazione di una sesta, l’attentato allo stadio Olimpico della capitale, nel gennaio successivo, sfumato per un errore tecnico nell’innesco. I morti innocenti sono stati dieci, una novantina i feriti, il patrimonio artistico vero obiettivo di Cosa nostra devastato.

Il 26 maggio un’altra autobomba, questa volta a Firenze in via dei Georgofili nei pressi della galleria degli Uffizi. L’esplosione distrusse la vicina torre dei Pulci e ucciso cinque persone, tra cui due bambini: Fabrizio Nencioni e Angela Fiume con le loro figlie Nadia (nove anni) e Caterina (nata da neppure due mesi) e lo studente Dario Capolicchio. Quaranta i feriti.

Una strana rivendicazione raggiunse le redazioni, a nome della fantomatica Falange armata: le inchieste dimostreranno che la sigla non corrispondeva a un gruppo terroristico, bensì era usata dalla mafia su suggerimenti esterni, di qualche uomo dei servizi segreti che aveva deciso di stare non dalla parte dello stato.

Il 26 luglio lo stragismo di Cosa nostra ha colpito di nuovo a Roma e per la prima volta Milano. Tre autobombe nel giro di poche ore. Le auto cariche di tritolo sono state azionate davanti a due chiese di valore storico inestimabile: San Giorgio al Velabro e San Giovanni il Laterano. Esplodono a distanza di quattro minuti l’una dall’altra. Nessuna vittima, oltre 20 feriti. La tensione nel paese aveva ormai raggiunto il livello massimo. Puntuale arrivava la rivendicazione della Falange armata, come a Firenze.

Poi il silenzio fino al gennaio 1994: doveva essere il colpo mortale alla Repubblica, con l’attentato allo stadio Olimpico di Roma durante la partita Lazio Udinese. L’innesco fallì. Poteva diventare un massacro mai visto in una domenica affollata di famiglie felici lì per la loro squadra.

NON SOLO MAFIA

La sigle dal sapore di servizi segreti, la scelta dei luoghi artistici da colpire, il ritorno della strategia della tensione. Possibile che un manipolo di mafiosi con la quinta elementare potesse conoscere i segreti per destabilizzare un paese ferendolo nel cuore? Il sospetto è che Cosa nostra non abbia fatto tutto da sola. E che abbia ricevuto dritte precise sugli obiettivi da assaltare e sull’uso della sigla Falange armata. Ci furono, dunque, mandanti esterni per le stragi di Firenze, Roma e Milano? Ci fu una convergenza d’interessi tra centri di potere, come la massoneria deviata, la destra eversiva e Cosa nostra? Domande alle quali sta tentando di dare una risposta la procura antimafia di Firenze con i magistrati Luca Tescaroli e Luca Turco, condotta con la direzione investigativa antimafia.

L’inchiesta in corso non esclude alcuna pista e sta scavano nel passato per rintracciare tracce dei mandanti occulti delle stragi sul continente. Sono due gli indagati eccellenti: Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, fondatore di Forza Italia, ex senatore, fedelissimo del Cavaliere e già condannato per concorso esterno alla mafia.

L’ipotesi di accusa è concorso in strage. Domani ha letto gli atti depositati, le informative, le consulenze e le relazioni finanziarie depositate fin qui nell’indagine. Una mole notevole di questo materiale è relativo al patrimonio dell’ex presidente del Consiglio. Chi indaga sta provando a decifrare l’origine del patrimonio del Cavaliere. Soprattutto in relazione alle dichiarazioni rilasciate davanti ai pm del padrino di Palermo, lo stragista, Giuseppe Graviano.

Graviano, detto “Madre natura”, ha più volte veicolato messaggi all’esterno dal carcere, usando familiari, parlando sapendo di essere intercettato o tramite suoi portavoce liberi di circolare. Quando ha deciso di rispondere ad alcune domande dei magistrati, senza però formalizzare una forma di collaborazione con la giustizia, ha rivelato una storia in cui il protagonista principale è Berlusconi. Per prima cosa ha riferito di un investimento di 20 miliardi di vecchie lire del nonno nelle aziende di Berlusconi. Per i magistrati, tuttavia, Graviano è a conoscenza anche di altri segreti.

Durante un colloquio in carcere è stato intercettato mentre raccontava al suo compagno di ora d’aria di una richiesta ricevuta da Berlusconi di fare «una bella cosa», un riferimento all’attentato di Roma dello stadio Olimpico, evitato per un miracolo.

Secondo l’interpretazione degli uomini della direzione investigativa antimafia la «bella cosa» sarebbe stata quella strage preparata e non realizzata, Graviano sul punto non ha confermato le parole pronunciate durante i colloqui. Anzi ha negato qualunque tipo di riferimento.

Per Graviano la “bella cosa” altro non era che un progetto immobiliare da realizzare sul mare a Palermo, che con Berlusconi al governo avrebbe avuto garanzia di realizzarlo. La procura non gli crede. Accuse e ricostruzioni che secondo gli indagati e i loro avvocati sono pura fantasia di un mafioso sanguinario, una macchinazione architettata per gettare fango su Forza Italia e l’ex presidente del Consiglio.

LA CASA E I RAPPORTI

Graviano ha una caratteristica: è solito inviare messaggi all’esterno che puzzano di ricatto. Lo ha fatto più volte sfruttando diversi canali, uno di questi è un personaggio chiave di questa storia e dell’indagine di Firenze: Salvatore Baiardo, ex gelataio, in passato condannato per aver favorito la latitanza dei Graviano, scomparso dalla scena e riapparso in tv nel novembre 2022 per predire l’arresto di Messina Denaro durante un’intervista andata in onda nel programma Non è l’arena di Massimo Giletti su La7. Baiardo è pure lui ondivago, alterna racconti lineari ad altri in cui smentisce sé stesso. Per gli investigatori districarsi nella selva di parole di Baiardo è faccenda complessa. I detective lavorano su ogni singola dichiarazione dell’uomo dei Graviano.

Il lavoro di verifica inizia a restituire i primi riscontri anche sulle parole del boss stragista.

Un riscontro rilevante, come ha raccontato Domani, è avere rintracciato un appartamento a Milano 3, il complesso immobiliare creato da Berlusconi, affittato nel 1993 a Emanuele Fiore, deceduto nel 2012, nipote di Antonino Mangano, boss condannato per le stragi sul continente, uomo dei Graviano e loro successore al trono della famiglia criminale. Il 1993 è l’anno in cui sarebbe avvenuto l’incontro, secondo il racconto di Graviano, con Berlusconi. Lo ha spiegato il padrino durante una delle udienze del processo “’ndrangheta stragista” a Reggio Calabria in cui la procura di Reggio Calabria ha dimostrato la partecipazione di un pezzo della mafia calabrese alla strategia terroristica di Cosa nostra. L’incontro sarebbe avvenuto in un appartamento del comprensorio Milano 3, a disposizione del capo mafia latitante. Graviano ha descritto l’abitazione indicando alcuni particolari. I detective della direzione investigativa antimafia di Firenze hanno setacciato le palazzine collegandole ai proprietari e cercando la casa dalla quale era visibile una caserma dei carabinieri.

Alla fine sono riusciti nell’impresa di individuare l’immobile affittato nel 1993 a Fiore, lo zio dell’uomo dei Graviano. Questo non vuol dire però che l’incontro con il Cavaliere sia davvero avvenuto. Su questo resta il mistero e le versioni opposte dei protagonisti. Per i legali di Berlusconi sono menzogne, per Graviano è ciò che è accaduto.

Ma, appunto, Graviano non è un collaboratore di giustizia, molte cose le omette, le ritratta. Per esempio ha sempre negato di aver conosciuto Dell’Utri. Così gli investigatori hanno verificato quanto raccontato da Gaspare Spatuzza, collaboratore di giustizia, in merito ai rapporti tra lo stragista e l’ex senatore forzista, in passato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Una vecchia informativa, risalente al 2010, riscontrava la compresenza nei medesimi luoghi di Graviano e Dell’Utri.

Compresenze a Roma, il giorno 8 agosto 1993, in Sardegna, all’inizio di settembre dello stesso anno, così come in Veneto il mese successivo, e «presenza di Marcello Dell’Utri, il giorno 18 gennaio 1994, presso l’Hotel Majestic di Roma insieme a funzionari e collaboratori di Publitalia 80 Spa, in periodo coincidente con l’incontro tra Graviano e Spatuzza al bar Doney a Roma e con la strage dell’Olimpico che doveva compiersi il 23.01.1994 in danno dei Carabinieri», si legge nell’informativa degli investigatori.

Il summit nell’esclusivo bar Doney è il famoso incontro nel quale Graviano avrebbe detto a Spatuzza: «Abbiamo il paese nelle mani» prima di introdurre i nomi di Dell’Utri e Berlusconi che di lì a poco sarebbe diventato presidente del Consiglio. Un passaggio che avrebbe così chiuso la transizione, segnata dalle bombe e da Tangentopoli, e inaugurando la Seconda Repubblica, con Cosa nostra che avrebbe avuto così, sostengono gli inquirenti, il nuovo referente politico dopo il tramonto della Democrazia cristiana. Gli inquirenti hanno recuperato un colloquio in carcere di Giuseppe Graviano del 1998: lo stragista faceva riferimento a un uomo dei servizi segreti da contattare e anche a un Marcello, che viene identificato in Dell’Utri. Graviano, tuttavia, ha sempre negato questa circostanza.

LA FOTO DEI MISTERI

Di certo oltre alla casa e agli incontri, la procura è a caccia di un documento che potrebbe riscrivere la storia della Prima e della Seconda Repubblica. È una foto che ritrarrebbe Silvio Berlusconi, il boss stragista Giuseppe Graviano e il generale dei carabinieri Francesco Delfino. È stato Massimo Giletti a riferire ai magistrati dell’esistenza di questo scatto, che gli sarebbe stato mostrato da Baiardo, l’uomo dei Graviano. Baiardo si è così trasformato presto in una pedina centrale nell’indagine sui mandanti occulti. Lui è il collante che tiene insieme diversi piani: è ritenuto un portavoce dei Graviano, ma è anche a conoscenza, come dimostrano alcuni documenti, dei presunti incontri tra lo stragista Giuseppe Graviano e il magnate fondatore di Fininvest. Correva l’anno 1993, l’anno prima della discesa in campo con Forza Italia.

Baiardo, insomma, è il collegamento tra passato e presente: dai rapporti (ammessi dallo stesso Graviano durante gli interrogatori e negati da Berlusconi) con l’ex presidente del Consiglio alla foto di cui ha parlato Giletti con i magistrati. Baiardo è netto nel sostenere che lo scatto non esiste, i pm al contrario hanno in mano intercettazioni che dimostrerebbero il contrario.Il conduttore, quando è stato sentito dai magistrati fiorentini, ha detto di aver visto l’istantanea e di aver riconosciuto il Cavaliere e il generale Delfino.

Erano immortalati insieme accanto a un terzo soggetto, a detta di Baiardo si tratterebbe di Giuseppe Graviano, ma Giletti non l’ha riconosciuto perché l’ex gelataio ha ritirato la foto senza consegnarla. Delfino è stato un generale dell’Arma dei carabinieri, la sua carriera si intreccia alle trame dei misteri italiani, è morto nel 2014. Il generale dell’Arma era collegato, secondo alcuni pentiti di ‘ndrangheta, al mammasantissima Antonio Papalia, il capo dei capi della mafia calabrese in Lombardia negli anni dei sequestri di persona. Uno dei collaboratori di giustizia, ritenuto tra i più affidabili, si chiama Nino Fiume. Ha raccontato dell’impegno preso da Papalia di evitare in tutti i modi il rapimento di Piersilvio Berlusconi.

BAIARDO E LA “FAMIGLIA”

Baiardo non è un estraneo all’ambiente di Cosa nostra, come vorrebbe far credere. È stato interrogato quattro volte dalla procura di Firenze, questo è certo. «C’è un Baiardo televisivo e un Baiardo che parla coi pm», racconta un investigatore. Molti fatti li aveva raccontati molti anni fa. Erano finiti in un’informativa rimasta senza esito giudiziario. Questo rapporto investigativo è riemerso di recente durante un processo a Reggio Calabria, ne parla Francesco Messina, attuale capo della direzione centrale anticrimine della polizia: «Baiardo ci disse che in quelle telefonate (intercorse tra Dell’Utri e Filippo Graviano, ndr) si evinceva che i du e avevano in comune interessi economici. Nella prima di queste telefonate, avvenute tra il ‘91 e il ‘92, aveva capito che l’interlocutore era Dell’Utri perché Filippo Graviano aveva pronunciato questo nome per farsi annunciare».

Baiardo ha parentele mafiose eccellenti, è cugino acquisito di Cesare Lupo, mafioso di Brancaccio, regno dei Graviano. Un altro legame familiare importante di Baiardo è con la famiglia Greco di Bagheria. Per capire il profilo dei parenti di Baiardo: da Leonardo Greco, «Messina Denaro andava a rapporto da lui» sussurrava un imprenditore intercettato nel 2021 dai carabinieri. Si tratta dello storico capo di Bagheria, la roccaforte di Bernardo Provenzano, il successore di Totò Riina la mente delle stragi del 1992.

Riina è stato arrestato nel gennaio 1993. Provenzano, secondo i pentiti, era favorevole a proseguire con le bombe sul continente. Su queste ultime c’è la firma pure di Matteo Messina Denaro e di Graviano. Trent’anni dopo sulla scena ricompare lo sconosciuto Baiardo, che annuncia l’arresto imminente del primo ed è il portavoce del secondo. Intanto la verità giudiziaria è ancora assente.

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Giovanni Tizian. Classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Nello Trocchia è inviato di Domani, ha realizzato lo scoop sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere pubblicando i video e un libro sul Pestaggio di stato, Laterza editore. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Cosa resta dell’antimafia. Cronaca di un anno difficile. ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'11 maggio 2023

Renato Schifani, sotto processo per associazione a delinquere nel  casdo Montante, diventa governatore della Sicilia. L’ex procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho propone la forzista Rita dalla Chiesa alla presidenza della commissione parlamentare antimafia.

Il giallo della foto che ritrae Giuseppe Graviano, il generale Francesco Delfino e Silvio Berlusconi. E Massimo Giletti cacciato improvvisamente dall’editore Umberto Cairo da“Non è l’Arena”.

La cattura di Matteo Messina Denaro dopo trent’anni di latitanza. Le indagini dei carabinieri del Ros, i dubbi e i sospetti, le polemiche su un arresto troppo facile.

Da un anniversario all’altro, un anno di appunti sul mio taccuino.

Palermo, 22 maggio 2022. Il candidato sindaco del centrodestra Roberto Lagalla, ex magnifico rettore dell’Università, diserta la manifestazione in ricordo del giudice Giovanni Falcone ucciso trent’anni prima a Capaci. Al Foro Italico ci sono tutti, ma la sua sedia è vuota. La campagna elettorale è in pieno svolgimento, Lagalla ha appena ricevuto un endorsement dall’ex governatore Totò Cuffaro e dal senatore Marcello Dell’Utri, il primo condannato per concorso esterno, il secondo per favoreggiamento aggravato mafioso.

Palermo, 24 maggio 2022. Maria Falcone, sorella del giudice e presidente di una fondazione a lui intitolata, dichiara: «La politica non deve dare il minimo sospetto di relazioni con la mafia».

Palermo, 14 giugno 2022. Roberto Lagalla, medico, specialista in radiologia diagnostica e radioterapia oncologica, è sindaco di Palermo. Trionfa al primo turno conquistando il 46,7 per cento dei voti.

Palermo, 14 giugno 2022. La lista della “Nuova Democrazia Cristiana” di Totò Cuffaro supera lo sbarramento del 5 per cento alle elezioni comunali. Sono tre i consiglieri della lista dell’ex governatore.

Palermo, 21 giugno 2022. Al suo primo impegno istituzionale, il sindaco Lagalla depone una corona di fiori al monumento dedicato alle vittime di mafia. Maria Falcone: «Apprezzo molto l’omaggio che ha voluto rendere».

Caltanissetta, 12 luglio 2022. Mancano sette giorni all’anniversario numero trenta dell’uccisione di Paolo Borsellino e i giudici assolvono tre poliziotti accusati di avere sviato le indagini sull’attentato. Quello che viene definito “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana” non ha colpevoli.

Palermo, 19 luglio 2022. Il sindaco Lagalla si presenta in via D’Amelio per ricordare Borsellino, al suo arrivo i militanti delle Agende rosse gli voltano le spalle in segno di protesta.

Caltanissetta, 29 luglio 2023. La procura riapre l’inchiesta su “Mafia e Appalti” archiviata trent’anni prima a Palermo. S’indaga per scoprire se quel dossier fu la vera causa dell’“accelerazione” dell’uccisione di Paolo Borsellino.

Palermo, 6 agosto 2022. Vengono depositate le motivazioni della sentenza che, nel settembre precedente, aveva scagionato i generali Mario Mori e Antonino Subranni, il colonnello Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri per avere trattato con Cosa Nostra durante gli attentati del 1992: «Fu uno sciagurato errore di calcolo ma i carabinieri agirono per fini solidaristici per fermare le stragi». Un tentativo per salvare l’Italia dalle bombe.

Palermo, 27 settembre 2022. Renato Schifani, esponente di Forza Italia, ex presidente del Senato, è eletto governatore della Sicilia. Schifani, in passato, era stato coinvolto in un’indagine per i suoi legami con alcuni boss. Archiviata. Al momento dell’elezione a governatore è sotto processo a Caltanissetta per associazione a delinquere nel dibattimento contro l’ex vicepresidente di Confindustria Calogero Montante.

Molfetta, 27 settembre 2022. Rita dalla Chiesa, giornalista, volto famoso della televisione, figlia del generale Carlo Alberto dalla Chiesa assassinato a Palermo il 3 settembre del 1983, entra in parlamento con Forza Italia. È nel partito di Silvio Berlusconi, tre volte presidente del Consiglio e indagato dalla procura di Firenze per le bombe del 1993 ai Georgofili.

Roma, 31 ottobre 2022. Il governo di Giorgia Meloni con un decreto legge mantiene l’ergastolo ostativo, che non permette ai detenuti il beneficio di determinati permessi – come quelli premio o la semi-libertà – a meno che non collaborino con la giustizia. L’ergastolo ostativo viene applicato a chi sconta la massima pena per reati di mafia e terrorismo. La Corte costituzionale l’aveva giudicato “incompatibile” con i princìpi di uguaglianza e di funzione rieducativa della pena.

Roma, 5 novembre 2022. Massimo Giletti intervista su La7 a "Non è l’Arena” Salvatore Baiardo, un gelataio palermitano amico dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, i boss di Cosa Nostra ai quali aveva trovato riparo quando erano latitanti fra il 1992 e il 1993. Baiardo si augura in diretta che venga abrogato l’ergastolo ostativo così «anche loro (i Graviano, ndr) comincino a godersi la famiglia». E poi aggiunge: «E magari chi lo sa che avremo un regalino. Magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato, che faccia una trattativa lui stesso per consegnarsi e fare un arresto clamoroso, e magari arrestando lui esce qualcuno che ha l’ergastolo ostativo senza che ci sia clamore».

Agrigento, 26 novembre 2022. Il sindaco di Palermo Roberto Lagalla riceve il premio Borsellino dall’Accademia di studi mediterranei di Agrigento, “Istituto di Alta Cultura”, un’associazione «che opera secondo princìpi di legalità, onestà, integrità, correttezza e buona fede».

Agrigento, 9 gennaio 2023. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi durante un vertice sull’immigrazione dice: «Spero di essere il ministro che arresterà Matteo Messina Denaro».

Palermo, 16 gennaio 2023. Matteo Messina Denaro, latitante dal giugno del 1993, viene catturato dai carabinieri del Raggruppamento operativo speciale in una clinica di Palermo dove è in cura per un tumore al colon. Non oppone resistenza. Qualche ora dopo vengono diffusi i suoi selfie con un medico, i messaggi che si scambia con alcune pazienti, i dettagli più intimi della sua vita.

Roma, 17 gennaio 2023. La neo deputata di Forza Italia Rita dalla Chiesa sulla cattura di Matteo Messina Denaro: «Sono molto felice che i carabinieri abbiano raggiunto questo risultato così importante. I Ros è un reparto istituito da mio padre. Anche questo cambio di governo può essere servito».

Palermo, 27 gennaio 2023. Il sindaco Roberto Lagalla posta sul suo profilo Facebook una foto che lo ritrae con Maria Falcone. La foto è accompagnata da una didascalia: «È stato un piacere ricevere oggi la professoressa Maria Falcone per discutere di alcune iniziative che porteremo avanti insieme».

Palermo, 3 febbraio 2023. Il procuratore capo della repubblica Maurizio De Lucia parla agli studenti dell’istituto Gonzaga: «Ci sono soggetti che non fanno indagini da dieci anni e che compaiono sui media per disquisire sulla cattura di Messina Denaro o fanno dietrologie. Questo è uno strano paese, erano passati pochi minuti dall’arresto, un grande successo per l’Italia, e sono iniziati i “murmurii”: si è fatto prendere, non era più lui. Sono tutte considerazioni che ognuno può fare, i fatti, però, sono un lavoro impressionante fatto dai carabinieri e un uomo che a tutto pensava tranne che a farsi catturare». Conclude: «Da noi è sempre così, se si vincono i campionati del mondo di calcio è perché qualcuno ha comprato la partita».

Palermo 17 febbraio 2023. Il tribunale di sorveglianza di Palermo concede la “completa riabilitazione” a Totò Cuffaro, condannato nel 2011 a sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Per l’ex governatore estinta anche la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Cuffaro, commissario regionale della Nuova Democrazia Cristiana, può ricandidarsi.

Palermo, 25 febbraio 2023. All’assemblea dei prèsidi siciliani di Libera, riuniti per preparare la giornata dedicata alla memoria delle vittime di mafia del 21 marzo, ospite d’onore è il sindaco Roberto Lagalla. Dopo la foto con la professoressa Maria Falcone, adesso c’è anche la foto con i ragazzi dell’associazione di don Luigi Ciotti. Sul profilo di Libera, 36 ore dopo, la foto scompare.

Castelvetrano, 5 marzo 2023. Rosalia Messina Denaro, sorella del boss, viene arrestata per avere favorito la latitanza di Matteo. È accusata di avere tenuto la “cassa” della famiglia e gestito la trasmissione di pizzini. I carabinieri scoprono nella gamba di una sedia di casa sua un appunto sulla malattia di Matteo. Appunto, sostengono gli investigatori, che porterà alla cattura del latitante.

Roma, 7 marzo 2023. La Cassazione assolve l’ex governatore Raffaele Lombardo dalle accuse di concorso esterno e corruzione elettorale. Lungo e altalenante l’iter giudiziario. Condannato in primo grado per concorso esterno, in appello riconosciuto colpevole solo di corruzione elettorale, poi la riconosciuta innocenza.

Roma, 8 marzo 2023. La Cassazione mette il suo timbro sull’ergastolo ostativo, il primo provvedimento del governo Meloni emanato con decreto nell’autunno precedente.

Firenze, 17 marzo 2023. Dalle carte dei magistrati della procura di Firenze – quelli che indagano sugli attentati mafiosi del 1993 in Continente – affiorano pagamenti effettuati da Silvio Berlusconi al suo amico Marcello Dell’Utri. Per l’accusa, è una sorta di vitalizio per il silenzio mantenuto dal senatore sull’origine misteriosa delle fortune economiche del Cavaliere.

Palermo, 22 marzo 2023. In un incontro con gli studenti di Giurisprudenza, la docente di procedura penale Daniela Chinnici definisce “un obbrobrio” il maxi processo a Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone.

Roma, 27 marzo 2023. Il governo vara il nuovo Codice sugli appalti. Procedure più snelle, rapidità e affidamento diretto per i lavori di importo inferiore ai 150 mila euro. Dichiarazione dell’ex procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato oggi senatore dei Cinque stelle: «È una sorta di legalizzazione di Tangentopoli».

Roma, 7 aprile 2023. La nuova segretaria Elly Schlein nomina i 21 componenti dell’esecutivo del Partito Democratico. La delega per mafia, legalità e trasparenza viene affidata a Vincenza Rando, avvocata siciliana con studio a Modena dove è stata eletta senatrice nell’autunno del 2022. Per molti anni è stata vicepresidente di Libera curando la costituzione di parte civile in numerosi processi.

Roma, 13 aprile 2023. L’editore Urbano Cairo blocca la messa in onda di Non è l’Arena, il programma condotto da Massimo Giletti su La7. La puntata di domenica 16 aprile salta. L’editore «ringrazia Massimo Giletti per il lavoro svolto con passione e dedizione» e comunica che «Giletti rimane a disposizione dell’azienda».

Al centro del caso una foto che il gelataio Salvatore Baiardo, amico dei fratelli Graviano, avrebbe mostrato a Giletti. Un’immagine con insieme Silvio Berlusconi, il generale dei carabinieri Francesco Delfino e i fratelli Graviano. Il conduttore di Non è l’Arena si presenta alla procura antimafia di Firenze – quella che indaga sulle stragi ai Georgofili – per raccontare tutto. I magistrati decidono di rafforzare le misure di sicurezza per Giletti.

Roma, 14 aprile 2023. Il gelataio Baiardo, dopo avere insinuato a lungo intorno ai rapporti fra Berlusconi e i Graviano, interviene su TikTok: «Ho preso contatti con Mediaset e vi farò sapere quando è la mia serata. Ho tante cose da dire». Aggiunge: «Bisogna smetterla con questa storia per cui Berlusconi è un delinquente, sono fantasie delle procure che lo tirano in ballo da trent’anni». E su Giletti: «Se non firmerà un contratto con la Rai, magari aprirà anche lui un canale YouTube».

Palermo, 21 aprile 2023. Daniela Lo Verde, preside di una scuola intitolata a Falcone, viene arrestata per corruzione. È accusata di avere dilapidato fondi europei, secondo i carabinieri si è appropriata di computer e di cibo destinato alla mensa dei suoi studenti. Nei mesi dell’emergenza Covid la preside era stata nominata Cavaliere al merito della Repubblica dal presidente Sergio Mattarella.

Roma, 26 aprile 2023. Caterina Chinnici, europarlamentare del Pd per due legislature, annuncia il suo trasferimento in Forza Italia, il partito di Berlusconi. Nella campagna elettorale delle regionali siciliane del settembre 2022, dove Chinnici era candidata per il centrosinistra, ha preteso la cancellazione dalle sue liste personaggi con pendenze giudiziarie. Caterina Chinnici entra in un partito dove il suo leader è indagato per strage e il suo presidente della regione sotto processo per associazione a delinquere. Il neo acquisto di Forza Italia è figlia di Rocco Chinnici, il consigliere istruttore del tribunale di Palermo ucciso con un’autobomba a Palermo il 29 luglio del 1983.

Roma, 27 aprile 2023. Il deputato dei Cinque stelle Federico Cafiero De Raho, ex procuratore capo di Reggio Calabria ed ex procuratore nazionale antimafia, lancia una candidatura per l’Antimafia: «Premettendo che la commissione viene presieduta di solito da un esponente di maggioranza, io avrei pensato a una persona come Rita dalla Chiesa, il cui nome di per sé è di importanza storica, direi anche strategica. Una certezza per la strada che si vuole percorrere».

Roma, 27 aprile 2023. Processo trattativa stato-mafia. La Cassazione assolve “per non avere commesso il fatto” i generali dei carabinieri Antonino Subranni e Mario Mori, il colonnello Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri. Reato prescritto per il boss Leoluca Bagarella. Cala il sipario su uno dei più controversi casi giudiziari italiani.

Roma, 28 aprile 2023. La deputata di Forza Italia Rita dalla Chiesa commenta il passaggio di Caterina Chinnici nel partito di Berlusconi: «Sono felice che Caterina abbia scelto di unirsi a noi. La sua presenza non potrà che rendere più incisiva la lotta alla mafia di Forza Italia».

Palermo, 4 maggio 2023. Al cinema Politeama c’è l’anteprima di “1768 giorni”, il documentario che racconta la detenzione di Totò Cuffaro. Il governatore della Sicilia Schifani lo saluta così: «Se non ci fosse, Totò Cuffaro bisognerebbe inventarlo. Non è uno slogan ma è una cosa che sento. Ci lega un rapporto che nasce da tanto tempo. Se, come dice la Costituzione, la detenzione ha una funzione rieducativa penso che questo principio non sia stato contemplato per Cuffaro, che non aveva bisogno di essere rieducato».

Palermo, 5 maggio 2023. Sui muri delle vie al centro della città compare un manifesto del collettivo Offline. È una grande foto di Totò Cuffaro. Sul suo capo un’aureola, sotto una scritta: «Riabilitato e presto beatificato».

ATTILIO BOLZONI

Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

Il dibattito sull'antimafia. Nella furia dell’antimafia rastrellare gli innocenti è lecito. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 24 Marzo 2023

Nel bel libro di Alessandro Barbano (L’inganno – Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene) trovo citata questa frase, tratta da un mio articolo pubblicato qualche anno fa sul Riformista: “Il finalismo antimafia, quello in nome del quale si adotta il mezzo del rastrellamento giudiziario, dell’indagine a strascico, della tortura in carcere, non fu l’incomprensibile messa in pratica di qualche isolato vagheggiamento di un manipolo di pubblici ministeri: ma l’attuazione di una cultura diffusa e la soddisfazione di una pretesa comune”.

Constatazione tanto banale quanto gravemente attuale, mi pare. Far finta che non sia così, e credere che gli abusi di cui si è resa responsabile la disciplina cosiddetta antimafia siano da attribuire all’esclusiva monopolistica di un potere temibile ma ristretto, autonomo e indipendente (si apprezzi il riferimento) rispetto al milieu sociale e civile che ne ha accreditato gli intendimenti e l’azione, può essere in qualche modo consolante. L’abuso antimafia come l’inopinata e correggibile aberrazione di un corso giudiziario altrimenti ineccepibilmente retto, presidiato da un’attenzione pubblica occhiutissima a vigilarne gli argini di compatibilità costituzionale e democratica. Magari. E sarebbe consolante, quella convinzione, pure se l’abuso antimafia avesse avuto modo di imporsi non ostante quella vigilanza: in quel caso avrebbe vinto l’abuso, sì, ma per forza propria e autonoma, e soprattutto nel riconoscimento che esso era tale, che esso era abuso. Nuovamente: magari.

Perché non è andata così e non va così. Al contrario, era ed è convincimento comune che sia possibile e giusto arrestare trecentocinquanta persone al fine di acciuffarne qualcuna forse responsabile di qualcosa. Era ed è convincimento comune che incarcerare un buon numero di innocenti appartenga a un’accettabile fisiologia, se questo è il prezzo da pagare alle preminenti e irrinunciabili finalità antimafia. Era ed è convincimento comune che il carattere personale della responsabilità penale si attenui fino a scomparire nel trionfo inquisitorio della giustizia antimafia che incrimina il possesso di un cognome, fa scrutinio del grado di parentela, procede per blocchi familiari e per provenienza regionale.

Era ed è convincimento comune che l’efferatezza del crimine mafioso non solo giustifichi, ma raccomandi, l’efferatezza del regime carcerario, e che sia non solo inappropriato, ma connivente e oltraggioso per le vittime, reclamare che il carcerato possa accarezzare il figlio di quattro anni o abbandonarsi al lusso intollerabile di cucinarsi un piatto di pastasciutta. La politica che ha messo in legge questa giustizia piombata, e i magistrati che la applicano insorgendo davanti a ogni ipotesi di revisione, anzi istigandone senza sosta l’inasprimento, si sono fatti attuatori di una mozione di inciviltà preesistente ben propagata. Non si cambia la giustizia se non si cambia la società che la genera. Iuri Maria Prado

Il corteo a Milano e gli irriducibili del giustizialismo. Manifestazione dell’antimafia per la verità, ma i processi hanno già detto tutto…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Marzo 2023

Vogliamo la verità sui delitti di mafia. Il grido sale dal corteo che attraversa il centro di Milano per poi concentrarsi in piazza Duomo, dove la voce dei parenti delle vittime di Cosa Nostra cede la voce, e il palco, ai politici di sinistra invitati da Libera, il cartello di associazioni fondato da don Ciotti. Erano tredici anni che non veniva celebrata questa giornata rievocativa. E sono datate a dieci e anche venti anni fa le grandi inchieste sulla criminalità organizzata al Nord condotte dall’ex responsabile della Dda milanese Ilda Boccassini. Inchieste come “Infinito” o “I fiori di San Vito” con le loro alterne risultanze processuali e la costante, purtroppo inutile, denuncia degli avvocati del fatto che nei processi su reati di mafia regolarmente saltano le regole dello Stato di diritto, quelle che in genere governano i dibattimenti “normali”. Più che politica del doppio binario, veri binari morti, per le garanzie degli imputati. Ma siamo a Milano, e si sa quale sia stato, fino a poco tempo fa, il rito ambrosiano, non solo nelle indagini su Tangentopoli.

L’anno 2023 segna per il capoluogo lombardo l’anniversario di una data tragica, quella della bomba di via Palestro, il 27 luglio del 1993. Non è chiaro se l’associazione Libera e il suo promotore don Ciotti abbiano scelto questa ricorrenza piuttosto che il 1992 con le uccisioni di Falcone e Borsellino, per scendere in piazza. Ma la connotazione tutta politica, con la presenza, non solo quella doverosa del sindaco Beppe Sala, ma in particolare anche quella di Elly Schlein, presente a Milano due volte di fila in pochi giorni, e gli interventi contro il governo, lasciano intravedere qualcosa di diverso. Lo ha ben intuito Silvio Berlusconi che, con la sua proverbiale marcia in più, si è affrettato a prendere posizione, con un’uscita sincera, ma anche opportuna, e forse preoccupata per una certa piega che stano prendendo certe indagini che corrono da Firenze a Reggio Calabria. Così, con le parole che sono patrimonio di tutti, il “pensiero commosso” per le vittime e i loro familiari e “l’omaggio a due figure emblematiche” come Falcone e Borsellino, compare anche il riconoscimento alle forze dell’ordine e alla magistratura “che ogni giorno rischiano la vita per la legalità e la sicurezza di tutti”.

È vero che nel commemorare le due più famose vittime delle bombe mafiose l’ex presidente del Consiglio ha tenuto a distinguere il loro “profondo rispetto delle garanzie e dello stato di diritto”, ma il riconoscimento alla magistratura come corpo in sé, rimane. E va a cadere, non casualmente, sulla manifestazione indetta da Libera, “cartello di associazioni contro le mafie” nato su iniziativa di don Ciotti nel 1994. Non nel 1992 con le sue stragi di Capaci e via D’Amelio, e non nel 1993 con le bombe di Milano Firenze e Roma, ma a pochi mesi dall’insediamento del primo governo Berlusconi. Nasce e diventa da subito un potente partito politico. Il successore naturale della “Rete” di Leoluca Orlando, padre Pintacuda e Nando Dalla Chiesa, con il sostegno forte di un pm di Mani Pulite come Gherardo Colombo. Nemici di Leonardo Sciascia e delle garanzie, cui preferivano il loro credo: “Il sospetto è l’anticamera della verità”.

Il gruppo di Libera si è impadronito del prezioso timbro di ceralacca dell’antimafia nella sua veste più ideologica e furibonda, “contro la mafia e la corruzione”, anticipando di molti anni le degenerazioni giuridiche del Movimento cinque stelle e della legge “spazzacorrotti” voluta dal ministro Bonafede. A questa base teorica di chi guarda la realtà in chiave moralistica per dividere il mondo in buoni e cattivi e poi processando questi ultimi in tribunali speciali, Libera ha accompagnato anche un aspetto economico. Favorendo la dissennata politica delle confische fondate sul sospetto più che sulle responsabilità penali, ha cominciato da subito a rivendicare per sé la primogenitura e il “bollino blu” per le assegnazioni ai propri aderenti degli immobili confiscati. Nel nome dell’antimafia, naturalmente, non dell’interesse commerciale. Abbiamo già raccontato quell’esempio di Buccinasco e del sindaco lapidato perché si era permesso di offrire gli spazi confiscati a diverse associazioni e non a una sola. Mancava poco che qualcuno desse del mafioso a quel sindaco, perché aveva preferito un atteggiamento pluralistico nei confronti di tanti piuttosto che far aprire la pizzeria “antimafia”.

E la storia pare ripetersi, dopo gli attacchi di Nando Dalla Chiesa e Giancarlo Caselli al libro L’Inganno di Alessandro Barbano, che ha stracciato il velo dell’omertà di chi viola costantemente le regole nel nome di un bene superiore e della lotta a una mafia che viene dipinta sempre come eterna e invincibile. E intanto tutti i magistrati “in lotta” (obbrobrio in uno Stato di diritto) contro il crimine organizzato, dal procuratore calabrese Nicola Gratteri alla responsabile della Dda milanese Alessandra Dolci, si affannano a spiegare che non importa se la mafia non spara più, ma che si è trasformata in comitati d’affari. “Operatore economico e agenzia di servizi”, la definisce la dottoressa Dolci. Senza mai spiegare, né lei né i suoi colleghi, perché ancora esista nel codice penale quell’articolo 416 bis che pone l’assoggettamento e il con-trollo del territorio come requisiti fondamentali perché un certo comportamento possa rivelare l’esistenza di un’associazione criminale di tipo mafioso. Ma il retroscena delle manifestazioni “antimafia” sono le inchieste giudiziarie sul passato, sugli anni Novanta.

Che cosa significa, al di là dei sentimenti dei parenti delle vittime, cui va sempre rispetto, quel grido “vogliamo la verità”? Se intendiamo parlare di verità storica, ma anche di verità processuale, dobbiamo dire che sulla mafia di Cosa Nostra, ma anche sulla ‘ndrangheta e sulla camorra, si sa ormai tutto. Giovanni Falcone non credeva nel “terzo livello”, e ha avuto ragione. I processi, da quello contro Giulio Andreotti in avanti, hanno dimostrato i limiti politici e culturali proprio di movimenti come la Rete e Libera. E la natura vera di inchieste come quella che ha portato al processo “’ndrangheta stragista” di Reggio Calabria e le forsennate ( e già fallite nelle tre versioni precedenti) indagini fiorentine su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti di stragi. In questo modo non si cercano né verità né giustizia, ma capri espiatori al fine di prolungare all’infinito il ruolo dell’ ”antimafia”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Cafiero De Raho: «È necessario fare memoria contro la mafia» Egidio Lorito su Panorama il 31 Luglio 2023

Per il procuratore nazionale antimafia emerito e attuale vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, «non bastano le parole, non basta il ricordo, perché occorre impedire che ciò che è avvenuto si ripeta»

Trent’anni dopo, l’estate delle bombe e degli attentati contro lo Stato risuona sinistra nei ricordi di quel tratto di storia repubblicana: una serie di attentati dinamitardi preparati ed eseguiti da Cosa Nostra, riecheggia nella nostra memoria a testimoniare che, in fondo, tre decenni sono un arco temporale ancora troppo breve per poter archiviare quei terribili giorni. Come il 27 e il 28 luglio del 1993, quando due potenti esplosioni a Milano e a Roma, riportarono l’opinione pubblica indietro di un anno esatto, alle stragi di Capaci e Via D’Amelio, La strategia dinamitarda tornava prepotente a scuotere palazzi e coscienze, potere costituzionale e opinione pubblica. Panorama.it ha chiesto, in esclusiva, un parere autorevole a Federico Cafiero de Raho che ci ha indicato la via da seguire. Trent’anni dopo… Dottor De Raho, siamo alla trentesima commemorazione di Via Palestro «Alle 23.14 del 27 luglio del 1993, Cosa Nostra faceva esplodere un ordigno di straordinaria potenza che cagionò la morte dei Vigili del Fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, e dell’agente di Polizia locale Alessandro Ferrari; trovò la morte anche un cittadino del Marocco, Moussafir Driss, colpito da una lamiera, mentre dormiva su una panchina. Altre 12 persone riportarono lesioni, anche con postumi permanenti». Stessa strategia a Roma, qualche minuto dopo…

«Meno di un’ora dopo, alla mezzanotte e tre minuti e alla mezzanotte e otto minuti, del 28 luglio 1993, ancora Cosa Nostra faceva esplodere a Roma, nel piazzale della Basilica di San Giovanni in Laterano e nel porticato antistante la Chiesa di San Giorgio al Velabro, due ordigni della medesima composizione di quello confezionato per la strage di Milano. Rimasero ferite 22 persone e si verificò il crollo di alcune strutture portanti di tali luoghi di culto». Un nuovo attacco allo Stato, 365 giorni dopo Capaci e Via D’Amelio? «Le bombe di Milano e Roma si inseriscono in un piano strategico di attacco allo Stato che era stato avviato con le stragi e gli attentati di via Fauro in Roma del 14 maggio e di via dei Georgofili, in Firenze, del 27 maggio. Le indagini sviluppate hanno consentito di provare la responsabilità dei vertici di Cosa Nostra, tra i quali Salvatore Riina, Giuseppe e Filippo Graviano, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e degli altri dirigenti, a tutti i diversi livelli». Era la strategia “stragista”… «Esatto, per finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine costituzionale e per agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso di Cosa Nostra, e, più in particolare, per contrastare i provvedimenti legislativi e amministrativi a favore dei collaboratori di giustizia in materia di regime carcerario, con l’intendimento di affermare l’autorità mafiosa in contrapposizione a quella dello Stato». Sono passati trent’anni esatti, i capi storici della mafia (Riina, Provenzano, Messina Denaro) sono stati catturati. Lo Stato ha reagito all’attacco criminale… «Il contrasto alle mafie è vera e propria lotta dello Stato per la piena affermazione della legalità. Lo Stato, applicando le leggi, con l’osservanza delle regole, ha individuato i responsabili di quelle stragi proprio nei vertici di Cosa Nostra. Proprio il recente arresto di Matteo Messina Denaro ha posto termine ad una latitanza che, incomprensibilmente, si protraeva da oltre trent’anni». Dott. De Raho, quanto accaduto può ripetersi? Il suo è un parere autorevole… «Certo, potrebbe, il pericolo esiste, ecco perché non dimenticare è il dovere principale di tutti noi. Evitare che si ripetano gli orrori del passato è oggi una necessità. Ricordare, oggi, è onorare la memoria delle donne e degli uomini che hanno perso la vita in quelle stragi; ed è, al tempo stesso, il segno di una rispettosa vicinanza che intendiamo esprimere ai familiari delle vittime e a tutti coloro che hanno subito l’azione criminale mafiosa». Non è che si corre il rischio di cadere nella sterile retorica? «Non bastano più le parole, non basta il ricordo, è necessario fare memoria, che è qualcosa di più. E’ la ferma volontà di impedire che ciò che è avvenuto si ripeta. Non è il silenzio, né l’oblìo ciò che ci preserva dal pericolo di reiterazione degli orrori delle stragi. Al contrario, occorre parlare e impegnarsi per diradare le nubi che ancora gravano sullo scenario torbido delle stragi: occorre fare chiarezza, verità e giustizia». A proposito di stragi, per quella di Bologna si avvicina l’ennesimo anniversario… «Gli ulteriori elementi emersi dal processo per quella terribile carneficina evidenziano la centralità della figura di Paolo Bellini, emersa nel corso delle indagini sulle stragi continentali, in relazione all’individuazione del patrimonio storico culturale, come obiettivo di pressione e di aggressione mafiosa». Le trame oscure sono una costante nella strategia stragista: la politica dovrebbe compattarsi… «Occorre, oggi, ancora affrontare tanti altri punti oscuri di cui parlano le sentenze: in questo sforzo di approfondimento cognitivo non ci possono essere divisioni. La politica, questo Parlamento, devono essere uniti e convinti che insieme è possibile lavorare, senza strumentalizzare gli eventuali passi in avanti che possono essere compiuti». All’opinione pubblica interessa molto l’atteggiamento della politica. «La verità e la giustizia non appartengono ad una sola parte politica, ma sono un’esigenza di tutto il Paese, di tutto il popolo italiano. Coltivare la memoria, infatti, è un dovere di noi tutti. Per i familiari delle donne e degli uomini che hanno trovato la morte in quelle stragi si tratta di una ferita che non si rimarginerà mai». Dalla polvere delle stragi riemergono i fantasmi… «Quell’orrore continuano a vivere coloro che sono sopravvissuti alle stragi, riportando lesioni con postumi a volte permanenti, nel corpo e nella mente. È nostro dovere attuare un impegno forte, aprendo gli archivi tutti, laddove possano rinvenirsi elementi utili per una migliore lettura di questi fatti orribili». Il suo impegno continua come vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia. E ha ripreso ad incontrare la gente. «In tanti aspettano il nostro impegno, come uomini delle istituzioni. Personalmente sono ritornato nelle piazze ad incontrare la gente: qualche giorno addietro ho partecipato a Praia a Mare, in Calabria, ad un incontro culturale sull’indicibile legame tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi deviati che ha reso quella terra il luogo da cui si è generata la più pericolosa holding criminale del pianeta. Non posso sottrarmi al dibattito pubblico…».

10 mesi di immobilismo, poi la candidatura coi 5S. Quei dubbi sull'ex procuratore antimafia De Raho. Nell'inchiesta Aemilia e sul caso Mescolini, l'ex forzista Bernini attacca: "Come mai passarono 10 mesi prima di inviare la relazione sull'operato di Mescolini alla procura generale della Corte di Cassazione?" Domenico Ferrara il 23 Marzo 2023 su Il Giornale.

Prima il rumore, i vaffa e le urla, adesso il silenzio e l'oblìo. C'era un tempo in cui il M5s urlava contro il Pd e pretendeva le dimissioni di Graziano Delrio. Era il 2016 e il nodo della discordia era la maxi inchiesta Aemilia sugli affari della 'Ndrangheta nella regione rossa. Da Beppe Grillo a Giulia Sarti, passando per i gruppi parlamentari pentastellati: tutti invocavano chiarezza. E chiedevano la convocazione del sindaco dem Luca Vecchi e del predecessore Graziano Delrio, all'epoca ministro dei Trasporti, in Commissione antimafia.

Sotto accusa erano i presunti legami con soggetti di Cutro legati alle cosche, i voti delle campagne elettorali e non solo. Le indagini, condotte dal pm Marco Mescolini, colpirono soltanto due politici di centrodestra, Giovanni Paolo Bernini e Giuseppe Pagliani, poi assolti. Nessun esponente di centrosinistra fu invece lambito dalle inchieste. E qualche tempo dopo si sarebbe scoperto pure il perché, con la cacciata da parte del Csm di Mescolini reo di aver aiutato il Pd. Versione confermata al Giornale dall'ex pm Pennisi, per anni pm alla Procura nazionale antimafia e dal 2012 al 2013 a Bologna nel 2012-2013, che ha rivelato: "Mi impedirono di indagare sul Pd e le cosche".

"Certi comportamenti del collega Mescolini allora ritenni che fossero dovuti alla sua incapacità di comprendere. Col senno di poi mi sono dato spiegazioni diverse", racconta Pennisi. Che poi continua: "C'era la lettera scritta da un detenuto a un sindaco, è stata letta come una minaccia. E invece il discorso non è così semplice, quella lettera è un segnale, è l'indice di qualcosa che avrebbe potuto essere svelato, e non è stato svelato perché si è scelto di non indagare. Agli atti c'era questa informativa dei servizi segreti, che ci era stata trasmessa dai carabinieri. Di spunti ce n'erano tanti, con nomi e cognomi. Se si fosse deciso, come io chiedevo, di aprire uno stralcio d'inchiesta sui rapporti tra 'ndrangheta e politica quelli sarebbero stati i primi nomi su cui avrei iniziato a indagare. Alla fine dell'inchiesta Aemilia non c'è stato un solo politico condannato, eppure da quelle parti accadevano cose incredibili. Indago sulla 'ndrangheta dal 1991 ma non avevo mai visto che i candidati alle elezioni locali in una città del nord attaccassero i loro manifesti anche in un paesino calabrese. Andava stralciata l'indagine, approfondita la posizione di altri indagati o indagabili per concorso esterno in associazione mafiosa, invece non si fece nulla».

Adesso si aggiunge un nuovo tassello, anzi un nuovo protagonista. Si chiama Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale antimafia dal novembre 2017 al febbraio 2022. Il nome di De Raho emerge in una chat tra l'allora ministro dell'Interno, Marco Minniti, e Luca Palamara. Il Csm aprì una pratica, poi archiviata, sulla vicenda. Ma il consigliere togato di Autonomia&Indipendenza, Sebastiano Ardita nell'aprile 2021 lamentava: "C'è una chat tra Luca Palamara, allora consigliere del Csm, e il ministro dell'Interno in carica Marco Minniti che, rivolgendosi a Palamara all'indomani della mancata nomina di Cafiero de Raho a procuratore di Napoli, ha usato l'espressione 'salviamo il soldato Cafiero'. È una chat che andrebbe approfondita chiedendo magari agli interessati a cosa si riferissero, quale battaglia era stata combattuta, poi chiarita e magari inserita nel provvedimento di archiviazione o così tutto rimane in modo vago. Ci sarebbe anche da capire perché il ministro dell'Interno si rivolge a Palamara, a che titolo lo investe delle sue preoccupazioni, questo rimane a oggi un tema inesplorato, neanche riportato in delibera".

Al netto di ciò e tornando al caso Mescolini, dopo le interrogazioni datate 2020 di Gasparri e Quagliariello, che chiedevano lumi sull'operato del pm, la "Procura generale della Corte di Cassazione - racconta l'ex forzista Giovanni Paolo Bernini - il 14 settembre 2020 chiede alla Direzione nazionale antimafia una relazione sull'inchiesta Aemilia e sull'operato del pm Mescolini". Poi, il nulla. Il tempo passa inesorabile. "Dopo dieci mesi, precisamene il 7 luglio 2021, il pm Pennisi riceve la richiesta da parte del procuratore De Raho di produrre la relazione. E lui la invio dopo sette giorni. Ma come mai passarono 10 mesi?", si domanda con forza Bernini. Relazione che, come scritto dal Giornale, rimarrà poi blindata in qualche cassetto del ministero. Probabilmente perché rappresenta un esplicito atto di accusa sulle modalità di conduzione dell'indagine emiliana lasciando cadere tutti gli indizi che portavano a sinistra.

All'epoca il ministro della Giustizia era il grillino Alfonso Bonafede nel governo giallorosso. Alle politiche del 25 settembre 2022, il procuratore de Raho (nato a Napoli) viene candidato alla Camera dei deputati proprio dal M5S come capolista nel collegio plurinominale Emilia Romagna 3, dove risulterà eletto, e in quello della Calabria. Insomma, adesso da qualche mese è un politico pentastellato. E forse spiega perché nel Movimento 5 Stelle non c’è più nessuno che urla.

"Sono fiducioso che l'onorevole Cafiero De Raho saprà dare una giustificazione alla scelta di ritardare per così tanti mesi l'invio della relazione su Mescolini e, per rimanere in tema inchiesta Aemilia, spero che l'onorevole Cafiero De Raho possa fugare anche i legittimi e imbarazzanti sospetti circa la parentela certa con l'ex capo di Gabinetto del ministro Bonafede, appunto il cognato Raffaele Piccirillo che chiese, in data 7 settembre 2020, ed ottenne, in data 21 settembre 2020, le relazioni della DDA per rispondere alle interrogazioni depositate, in data il 3 settembre 2020, sul pm Mescolini e su inchiesta Aemilia dei Sen Gasparri e Quagliarello, che però rimasero nei cassetti impolverati del ministero, lasciando i due Parlamentari senza mai risposte", tuona ancora Bernini.

E il pm disse: Barbano ha ragione, l’antimafia è un disastro. L’ex capo di gabinetto di via Arenula, Raffaele Piccirillo: «Garanzie sacrificate senza produrre risultati: il libro coglie nel segno». L’ex  ministra Cartabia: «Un’opera polemica ma da prendere sul serio». Errico Novi su Il Dubbio il 26 marzo 2023

Marta Cartabia non ha certo inflazionato la propria immagine pubblica, una volta lasciato l’incarico di guardasigilli. È tornata a esercitare la vocazione di illuminata studiosa dei principi costituzionali, nella sua università milanese della Bicocca. Con rare presenze all’esterno dell’accademia.

Ha voluto fare uno strappo alla regola per “L’inganno”, il libro di Alessandro Barbano che svela gli abusi dell’antimafia. La presidente emerita della Consulta ha scelto una cornice splendida per derogare all’autoconsegna: la Sala della Regina di Montecitorio. È lì che il giornalista divenuto attore principale del dibattito sulla giustizia ha tenuto una nuova presentazione del proprio saggio. Al fianco di una figura del calibro di Cartabia ha avuto la fortuna di trovare una personalità di spessore come Giorgio Mulè a fare gli onori di casa, ha quindi scelto una delle migliori voci dell’accademia e dell’avvocatura penalistica, il professore dell’Università di Bologna Vittorio Manes, e un magistrato. Non un magistrato qualsiasi: Raffaele Piccirillo, oggi sostituto procuratore generale della Cassazione e fino a pochi mesi fa, per più di quattro anni consecutivi, capo di gabinetto al ministero della Giustizia, prima con Alfonso Bonafede e poi con la stessa Cartabia. «Nella sceneggiatura dell’incontro sono colui che dovrebbe fare la parte del cattivo», ha scherzosamente esordito Piccirillo quando ha preso la parola. Ma la sceneggiatura è stata sorprendente. Non tanto per Mulè, la cui onestà intellettuale è nota: con l’eco ancora percepibile degli anatemi lanciati contro Barbano da Gian Carlo Caselli e Nando Dalla Chiesa, il vicepresidente della Camera ha detto che proprio Montecitorio è «il luogo dove le idee si confrontano liberamente nel sacro rispetto della Costituzione», e che quindi non si sarebbe rischiata una scomunica come quelle inflitte nei giorni precedenti.

Non è stata una sorpresa l’eleganza della lezione offerta da Manes, che ha accordato l’orgogliosa replica del giurista dinanzi al lapidario disprezzo dei giustizialisti («coniano di continuo nuove espressioni, “borghesia mafiosa”, “populismo garantistico”...) con l’umana vicinanza agli innocenti colpiti dalle misure di prevenzione, vero epicentro de “L’inganno” ( «una vita segnata da una vicenda penale ingiusta diventa una vita di scarto, ci si può rialzare ma spiritualmente si resta un’anima morta» ).

E poi Cartabia, che nella propria arringa ha intrecciato apprezzamenti e controdeduzioni. I primi, precisati subito, li ha rivolti alla «verve polemica, molto energica, del libro», che però, ha detto, «è documentato e capace disvelare problemi seri in modo serio. Un libro da prendere assolutamente in considerazione». Non ha poi risparmiato le repliche, quanto si è voluta difendere dai passaggi de “L’inganno” che la chiamano in causa direttamente, «in particolare perché ho ricordato, durante il mio mandato di ministra della Giustizia, che la nostra legislazione antimafia è universalmente apprezzata: è così, potrei citare le parole del guardasigilli francese Dupond- Moretti di fronte al riuso di una villa dei Casamonica per l’assistenza ai bambini autistici. Ed è così», ha aggiunto la presidente emerita della Consulta, «anche nel senso che tutte le Corti chiamate a vigilare sui principi fondamentali non hanno fin qui rilevato alcuno strutturale conflitto fra le misure antimafia, la Costituzione e le Carte dei diritti».

Cartabia è una costituzionalista, e non si è sottratta dal rappresentare il punto di vista del mondo da cui proviene rispetto alle contraddizioni denunciate da Barbano. Ma Piccirillo, appunto, nella “sceneggiatura” doveva fare altro, «il cattivo». E invece.

E invece Piccirillo ha ribaltato clamorosamente il canovaccio dei suoi colleghi, di Caselli, ha spiazzato anche la severità di Melillo, intervenuto con Giuliano Amato alla “prima” romana de “L’inganno”. Ha detto, l’ex capo di gabinetto di Cartabia e, non lo si dimentichi, di Bonafede, che intanto “L’inganno” non è un libro da bandire, perché «è un’analisi sul potere, e il controllo sul potere è una cosa necessaria, che a me interessa». Non solo: «Non è appropriata la critica di chi pensa di cavarsela col discorso “eh, però c’è la mafia, la necessità di contrastarla...”: non mi convince. Intanto occupiamoci di quest’altro problema». E già la distanza dai colleghi più indignati è messa in chiaro. «Occupiamoci», dice Piccirillo, «di quanto scrive Barbano: del sacrificio delle garanzie imposto con le misure di prevenzione, a fronte di un sistema che non produce risultato».

Ed è una cosa che dovrebbe far rimbombare le stanze della magistratura antimafia. Perché Piccirillo, lo ricorda lui stesso, non è un osservatore esterno: è stato direttore generale degli Affari penali a via Arenula. «Da lì», spiega, «avevo a disposizione la banca dati dei beni sequestrati. Ebbene, le informazioni erano e sono tuttora disallineate, illeggibili. Non sappiamo quale sia esattamente il valore del patrimonio affidato all’Agenzia. Sappiamo che per molte aziende il riuso è impossibile, perché la loro matrice inquinata dalla criminalità ne pregiudica la capacità di stare sul mercato. E poi dovremmo fare i conti con la dequalificazione degli amministratori giudiziari, con le improvvisazioni dei giudici: c’è da chiedersi, in certi casi, se avrebbero gestito anche le loro proprietà personali, con lo stesso avventurismo adottato per i beni prossimi alla confisca». Parole dirompenti. Con cui dovrà fare i conti chiunque volesse trattare Barbano e il suo libro come un’indegna apostasia. E se solo sarà servito a far emergere, nella magistratura, queste contraddizioni, a “L’inganno” sarà doveroso essere grati.

Cari custodi dell’antimafia, Giovanni Falcone non era come voi. Il giudice assassinato a Capaci diffidava dell’uso incondizionato misure di prevenzione. Ora chi osa criticarle viene messo al bando. Fabrizio Costarella ( Avvocato del Foro di Catanzaro) e Cosimo Palumbo (Avvocato del Foro di Torino) su Il Dubbio il 26 marzo 2023

A tutti quelli che ad ogni piè sospinto gridano all’oltraggio, al vilipendio della figura del Dottor Giovanni Falcone, solo perché qualche intellettuale, qualche giurista si permette di esprimere un pensiero garantista, non allineato al “sentire comune” dei professionisti dell’Antimafia, conviene ricordare che quel Magistrato non era come loro, e che si fa torto alla sua memoria, in egual misura, sminuendone l’opera ed intestandogli pensieri ed azioni che non gli appartenevano culturalmente.

«Ed è questo, in realtà, l'aspetto più singolare dell'attuale polemica: che si continuino ad invocare limitazioni dei diritti di libertà dei cittadini, in funzione di una loro pretesa appartenenza ad organizzazioni criminali e prescindendo da un positivo vaglio giudiziale della effettiva commissione di delitti di matrice mafiosa. A scanso di equivoci, non si intende riproporre, almeno in questa sede, la questione della costituzionalità delle misure di prevenzione, ma solo sottolineare la stranezza che in un Paese dove i "garantisti” abbondano nessuno si sia ancora accorto di quanto sia gravemente distonica, rispetto ai principi dello “Stato dei diritti”, oltre che inefficace, la pretesa di ricorrere massicciamente alle misure di prevenzione contro il crimine organizzato, trascurando il rigoroso accertamento delle responsabilità attraverso il processo penale».

La frase non è stata pronunciata da un avvocato, magari pelosamente garantista (secondo la comune vulgata dei professionisti dell’Antimafia), ma dal Dottor Giovanni Falcone (“La Stampa” del 17 giugno 1991), che non mancava di avvisare il lettore circa gli effetti potenzialmente criminogeni dell’applicazione indiscriminata delle misure di prevenzione.

Ed allora, a quelli che ad ogni piè sospinto gridano all’oltraggio, al vilipendio della figura del Dottor Giovanni Falcone, solo perché qualche intellettuale, qualche giurista si permette di esprimere un pensiero garantista, non allineato al “sentire comune” dei professionisti dell’Antimafia, conviene ricordare che quel Magistrato non era come loro, e che si fa torto alla sua memoria, in egual misura, sminuendone l’opera ed intestandogli pensieri ed azioni che non gli appartenevano culturalmente. Accade, oggi, che le artiglierie del pensiero allineato, in prima fila i suoi “calibri da novanta”, siano puntate contro Alessandro Barbano, la cui colpa è quella di aver richiamato l’attenzione della opinione pubblica sulle storture applicative della legislazione antimafia. Scrive l’autore, specie a proposito delle misure di prevenzione, che l’utilizzo di istituti significativamente deformalizzati e connotati da evidenti profili di distonia asistematica con i principi-cardine del “giusto processo accusatorio”, che consentano l’aggressione di ingenti patrimoni in assenza di prova circa la concreta derivazione illecita degli stessi, non è proprio di uno Stato che voglia dirsi “di diritto”, ossia fondato sulla protezione dei diritti individuali, specie se costituzionalmente garantiti, anche dalla pretesa punitiva pubblica.

E le regole processuali, in fondo, assolvono proprio alla funzione di calmierare l’intervento statale, perché non si debba più parlare di un Leviatano, «nel quale ogni uomo si unisce con ogni altro uomo alienando tutti i propri diritti, tranne quello alla vita, al sovrano».

È un pensiero corretto, quello di Barbano? Ma soprattutto, è un pensiero legittimo? Il primo quesito è argomento per gli addetti ai lavori. Il successo della pubblicazione dice che l’autore non ha evidentemente torto, anche perché la sua opera è basata sulla osservazione di eventi reali e disfunzionali, che poco o nulla hanno a che vedere con un corretto esercizio della giurisdizione.

Quello che Barbano denuncia, in controluce, è l’attrazione sempre più evidente dell’ordinario allo straordinario; la pretesa, condotta a colpi di leggi speciali (specie se “spazza qualcosa”) di utilizzare i “modi” e gli “strumenti” della legislazione antimafia per i “casi” più disparati; di fare della eccezione la regola, dello straordinario l’ordinario, mentre già qualcuno invoca persino l’istituzione - incostituzionale - di giurisdizioni speciali. L’inchiesta che diventa inquisizione.

Il secondo quesito riguarda tutti noi. Siamo ancora liberi di esprimere un’opinione, peraltro motivata, che vada contro il pensiero unico, senza che gli aedi di quel pensiero ci colpiscano con lo stigma del sospetto di “mafiosità”, con l’accusa di voler oltraggiare la memoria dei Magistrati morti nella lotta alla mafia e, in fondo, di volere una recrudescenza di quel fenomeno criminale? Additandoci al ludibrio di moltitudini obnubiliate dal desiderio di una giustizia più sommaria, più sbrigativa e più feroce possibile? L’Inquisizione, davvero, non ammette voci dissonanti: Deus vult! Non è questa la lezione - dimenticata - di tolleranza, confronto e dialogo che ci hanno lasciato le vittime (anche avvocati, tra loro) della lotta alla mafia. Restano epigoni tristi ed inadeguati, capaci solo di gridare alla lesa maestà, all’eresia.

Ma, per dirla con Umberto Eco, «spesso sono gli inquisitori a creare gli eretici. E non solo nel senso che se li figurano quando non ci sono, ma che reprimono con tanta veemenza la tabe eretica da spingere molti a farsene partecipi, in odio a loro». «Tutte le eresie sono bandiera di una realtà dell'esclusione. Ogni battaglia contro l'eresia vuole solamente questo: che l'emarginato rimanga tale».

«C’è anche un’antimafia laica e garantista che però l’antimafia del dogma bolla come complice». Parla Giovanni Fiandaca, emerito di diritto penale all’Università di Palermo: «Il Nordio ministro ha non poco contraddetto il Nordio editorialista. Certo, in parte è fisiologico e al suo posto io non avrei ad esempio accettato di fare il ministro o mi sarei già dimesso». Valentina Stella su Il Dubbio il 22 marzo 2023

Professor Giovanni Fiandaca (emerito di diritto penale all’Università di Palermo e Garante dei diritti dei detenuti siciliani), in un colloquio con il Foglio il Ministro Nordio ha detto: “è ovvio che il Nordio editorialista non potrà mai essere uguale al Nordio ministro. Ma fidatevi: non vi deluderemo”. Secondo lei in questi ultimi mesi chi ha prevalso?

Il Nordio ministro ha, come sappiamo, non poco contraddetto il Nordio editorialista. Pretendere di farli coincidere del tutto significherebbe ignorare che la politica concreta è per lo più poco sensibile ai principi astratti ed è spesso pronta a sacrificarli sull’altare di compromessi contingenti o per calcoli elettorali. Certo, esiste un problema di coerenza personale e vi sono limiti di accettabilità delle soluzioni compromissorie. Al posto di Nordio io non avrei ad esempio accettato di fare il ministro o mi sarei già dimesso.

Cosa ne pensa della proposta del sottosegretario di Fdi Andrea Delmastro delle Vedove di mandare i tossicomani in quelle “comunità chiuse in stile Muccioli” per svuotare le carceri?

L’idea di contribuire ad un decremento della popolazione carceraria con una collocazione in comunità degli autori di reato tossicodipendenti non è di per sé cattiva; non poco dipende però da come verrà tradotta e specificata in concreta proposta normativa.

Il vice presidente del Csm Pinelli ha detto in un convegno a proposito di trojan: “limitarne l'uso ai reati di criminalità organizzata credo sia un punto di equilibrio ragionevole nel rapporto tra autorità e libertà”. C’è anche un ddl del forzista Zanettin che chiede di escludere l’impiego del captatore informatico nei procedimenti per delitti contro la pubblica amministrazione. Lei che ne pensa?

Concordo tendenzialmente con il punto di vista espresso da Pinelli. E concordano con lui peraltro anche alcuni magistrati di mia conoscenza sensibili all’esigenza costituzionale di proporzionalità tra il coefficiente di invasività degli strumenti investigativi e il livello di gravità delle forme di criminalità da contrastare. Ma avanzerei qualche dubbio sulla futura compattezza della maggioranza governativa nel sostegno al ddl Zanettin, a causa del timore di essere accusati di voler indebolire la lotta alla corruzione.

Una proposta di Nordio è quella di prevedere in presenza di una richiesta di ordinanza di custodia cautelare che la decisione venga presa da un organo collegiale. Secondo lei è fattibile?

Condividerei l’esigenza di attribuire ad un organo collegiale la competenza a decidere sulla custodia cautelare. Questa è una esigenza che dovrebbe in teoria essere fatta propria anche dal Partito Democratico, considerata l’enfasi con cui sempre più si erge a paladino dei diritti. Il diritto alla libertà personale non rientra forse tra i diritti più importanti, meritevoli di essere salvaguardati nella maniera più scrupolosa?

Che idea si è fatto del caso Cospito e della decisione di Nordio di tenerlo al 41 bis nonostante 3 pareri favorevoli all’Alta sicurezza?

Sul caso Cospito ho scritto un lungo articolo pubblicato sul Foglio lo scorso 10 febbraio, in cui mettevo in evidenza i motivi che giustificano una riflessione approfondita e aggiornata sul 41 bis anche come istituto generale, per verificare come oggi esso vada migliorato nei presupposti, nella estensione e nelle modalità applicative. Quanto alla specifica vicenda Cospito, ritengo anche io che la sottoposizione al 41 bis possa risultare eccessiva, esistendo nelle strutture carcerarie italiane circuiti di sicurezza meno rigidi del carcere duro in senso stretto.

Secondo lei si arriverà ad ottenere la separazione delle carriere con due Csm separati?

Questa è l’impresa più difficile per Nordio Ministro. Considerato come sono andate finora le cose, tenderei ad essere piuttosto scettico.

Come sono i rapporti tra politica e magistratura al momento? L’Anm ha ancora il potere di cestinare determinate proposte del Governo?

Nonostante gli effetti gravemente discreditanti di vicende scandalose come quella ben nota del caso Palamara, e la conseguente perdita di credibilità che la magistratura ha subìto agli occhi della gente, penso che l’Anm continui a mantenere un rilevante potere latamente politico, anche in forma di interdizione di riforme sgradite.

Le polemiche sul libro di Alessandro Barbano e sul dibattito tra Daniela Chinnici e Nino di Matteo portano a pensare che in Italia debba esserci per forza una unica narrazione sull’antimafia.

Convivono a tutt’oggi nel nostro Paese diverse antimafia, cioè diversi modi di concepire e praticare l’antimafia sui rispettivi piani politico, mediatico e giudiziario. Semplificando al massimo, anche per esigenze di sintesi, esiste una antimafia che definirei dogmatico-sacrale, che in nome di Falcone e Borsellino, impropriamente elevati a divinità tutelari, respinge come turbatio sacrorum ogni possibile critica ai processi gestiti dai magistrati delle generazioni successive che, a ragione o a torto, fungerebbero da loro eredi, come nel caso delle fondatissime critiche rivolte peraltro non solo da me all’emblematico processo Trattativa.

Qual è l’altra antimafia?

Quella che proporrei di definire laica, che antepone i fatti alle ipotesi, i ragionamenti in diritto e le verifiche probatorie ai dogmi, i principi costituzionali del garantismo penale al repressivismo più spinto confinante con l’abuso giudiziario. Dal canto suo una parte del sistema mediatico, in particolare quella di orientamento antimafioso più radicale, tende strumentalmente ad esasperare la suddetta contrapposizione polarizzata, soggiacendo persino alla tentazione di rappresentare come ideologicamente filo-mafiosi gli esponenti dell’antimafia cosiddetta laica. Emblematica in questo senso la recentissima polemica sollevata con toni scandalistici da Repubblica a proposito della professoressa palermitana di giurisprudenza Daniela Chinnici, rea di avere nella sostanza riproposto, sia pure con espressioni poco felici per il loro estremismo, le stesse critiche che i più qualificati studiosi di diritto processuale rivolgono ai maxi processi. E che il maxi processo presenti diverse criticità è una verità che non sfuggiva neanche a Giovanni Falcone, come emerge da diversi suoi scritti tecnici pubblicati nel decennio 1982-1992. Concluderei dunque: tanto rumore per nulla. Un piccolo scandalo artificioso creato da un tipo di giornalismo che, anziché guardare alla sostanza dei problemi realmente sul tappeto, preferisce insistere nell’alimentare una improduttiva contrapposizione tra una presunta antimafia vera e una presunta antimafia fittizia. Infine rilevo che, al di là di qualche eccesso polemico e di qualche imprecisione, anche la recente critica di Alessandro Barbano delle misure di prevenzione pone l’accento su criticità reali. Per cui, anziché demonizzarlo, questo libro andrebbe valorizzato nelle parti in cui prospetta problemi reali. Ancora una volta evitando il facile e dannoso gioco della contrapposizione tra antimafiosi doc e antimafiosi apparenti.

(Monthly Report n. 20) La mafia dentro lo Stato, fatti e verità documentate. L'Indipendente il 20 Marzo 2023.

È uscito il ventesimo numero del Monthly Report, la rivista de L’Indipendente che ogni mese fa luce su un tema che riteniamo di particolare rilevanza e non sufficientemente trattato nella comunicazione mainstream. La mafia dentro lo Stato: questo il titolo del nuovo numero, all’interno del quale andiamo ad approfondire come le organizzazioni mafiose continuino ad avviluppare i loro tentacoli intorno alle istituzioni statali. Il numero, oltre che in formato digitale, è disponibile anche in formato cartaceo spedito in abbonamento (tutte le info su come riceverlo a questo link).

Ci sono questioni, come la narrazione storica e la cronaca giudiziaria dei rapporti tra mafia e politica, che rappresentano la cartina di tornasole dell’ipocrisia di una larga fetta di informazione mainstream. Oltre a quella dei garantisti e dei cosiddetti giustizialisti tout-court, antitetiche ma caratterizzate perlomeno da una certa coerenza di fondo nel trattare questioni così spinose, è infatti ampiamente diffusa un’altra categoria giornalistica che di nobile ha davvero poco. Si tratta di quella che opera uno squallido distinguo all’origine: contro i cittadini comuni che finiscono dinnanzi ai magistrati – che siano operai in sciopero, studenti, oppositori, migranti o ladri di galline – il dito lo si punta senza indugi e la presunzione di innocenza fino all’ultimo grado di giudizio rimane un vezzo sacrificabile per ragioni di propaganda; al contrario, di fronte ai procedimenti giudiziari che riguardano i potenti, è più conveniente levare gli scudi in difesa dei diritti degli imputati.

Un atteggiamento che si spinge fino a negare verità storiche e giudiziarie pienamente acquisite che però creano imbarazzo agli editori, a politici e imprenditori di riferimento, agli amici e agli amici degli amici. Forti con i deboli e zerbini coi potenti, come al solito. Una tradizione che arriva da lontano. Basti pensare a quanto accadeva in Rai ai tempi in cui Giulio Andreotti, imputato per mafia e inquadrato definitivamente (seppur prescritto) come responsabile di associazione per delinquere con gli uomini di Cosa Nostra, trovava il tappeto rosso di Bruno Vespa ad accoglierlo. Basti pensare alle violente campagne scatenate dai giornali berlusconiani, e non solo, contro la Procura di Caselli quando alla sbarra per concorso esterno c’erano funzionari o politici di primo piano come il numero tre del SISDE Bruno Contrada o il fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Fino ad arrivare alle importantissime sentenze di primo e secondo grado – una di condanna per mafiosi, alti Ufficiali dei Carabinieri e per lo stesso Dell’Utri, l’altra di condanna per i soli mafiosi (con assoluzione dei colletti bianchi) – al processo sulla Trattativa Stato-mafia. Le motivazioni della sentenza depositate dai giudici hanno confermato e messo nero su bianco l’esistenza di un invito al dialogo lanciato dallo Stato a Cosa Nostra e hanno sancito come a proteggere la latitanza di Bernardo Provenzano, numero uno della mafia siciliana dal ’93 al 2006, siano stati proprio gli uomini dell’arma dei carabinieri. Eppure sui più influenti media italiani la Trattativa viene ancora oggi bollata come una sorta di teoria del complotto.

Su L’Indipendente, per fortuna, di padroni e potenti da ingraziarci non ne abbiamo. Per questo abbiamo potuto dedicare questo nuovo numero del Monthly Report a indagare senza paura e senza alcun ossequio, se non verso le verità accertate dei fatti, la realtà delle mafie in Italia. Partendo da una ricerca chiara su cosa sono realmente le organizzazioni criminali al giorno d’oggi, la loro forza e il loro potere, ed arrivando fino ai punti più infami della storia e del presente d’Italia. Inclusi i legami e le collusioni profonde con la politica, gli appartati profondi dello Stato e il mondo dell’imprenditoria che, da sempre, rappresentano uno dei freni più forti allo sviluppo di buona parte del nostro Paese. Buona lettura.

Sciascia e Camilleri, l’ingratitudine dei siciliani per i loro scrittori. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 20 marzo 2023

Ignoranza e livore. In Sicilia ci si può fare male da soli, anche senza la mafia. Due vicende insensate ambientate in questi giorni nella provincia agrigentina. Il mistero di un atto ufficiale buttato via e la sconclusionata scelta di far entrare una congregazione religiosa in quello che è considerato un tempio laico.

Il caso che riguarda Sciascia ha portato alla protesta dei giornalisti di “Malgrado Tutto”, la testata giornalistica di Racalmuto nata nel 1980 e che, fin dal primo numero, aveva la firma proprio dello scrittore siciliano.

Per il caso di Camilleri, invece, il sindaco di Porto Empedocle ha avviato un’indagine interna per scoprire chi ha sottratto il documento poi recuperato casualmente in un letamaio.

Ma sono davvero così ingrati i compaesani di Andrea Camilleri e di Leonardo Sciascia? O sono solo sbandati, profondamente ignoranti e livorosi? Sui quotidiani locali siciliani, in questi ultimi giorni, sono apparse due notizie provenienti dalla provincia agrigentina che svelano impulsi fortemente autodistruttivi. Una era sulle pagine di Porto Empedocle dove è nato Camilleri, l’altra su quelle di Racalmuto dove è nato Sciascia.

L’OMAGGIO RIPUDIATO

Cominciamo dalla prima cronaca: «Il documento con cui lo scrittore Andrea Camilleri autorizzava il comune di Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, a utilizzare il nome di Vigata accanto a quello originale è stato trovato dai titolari di una discarica ad Aragona nell’area di stoccaggio».

Un foglio con la firma di uno degli scrittori italiani più popolari – oltre cento libri pubblicati e oltre venti milioni di copie vendute e tradotte in trenta lingue dal croato al giapponese, dal russo al portoghese, dal norvegese al polacco – è stato casualmente recuperato fra le montagne di immondizia.

Una cornice sporca, un vetro rotto, una data (22 aprile 2003) e accanto le firme di Andrea Camilleri e dell’allora sindaco Paolo Ferrara. Con quella carta lo scrittore aveva messo sul suo paese d’origine il marchio “Vigata”, l’immaginario comune siciliano creato per ambientare le fortunatissime avventure del commissario Montalbano.

Nonostante le esigenze produttive avessero portato il set del regista Alberto Sironi dall’altra parte dell’isola, nelle bellissime coste del Ragusano, Camilleri aveva voluto rendere omaggio alla sua comunità riconoscendo “Vigata” come Porto Empedocle. Una generosità che, a quasi quattro anni dalla sua morte, è stata ricompensata con lo sfregio di quel documento rotolato in una discarica. Il sindaco di oggi, Calogero Martello, ha annunciato l’apertura di un’indagine interna per scoprire chi ha sottratto dagli archivi comunali il documento gettandolo in una pattumiera.

IL “PARTITO” DEGLI INVIDIOSI

Al momento resta ignoto il movente ma, conoscendo un po’ gli usi e i costumi della zona, non fatichiamo a credere che a Porto Empedocle ci sia un “partito” degli invidiosi che ha sempre mal sopportato il successo dello scrittore, il più famoso del luogo dopo il filosofo Empedocle vissuto nel quinto secolo avanti cristo e che ha dato il nome al paese.

Così Porto Empedocle ha rinunciato per sempre a essere Vigata. Insensata vicenda che poi tanto insolita non è se riportiamo alla memoria la pirandelliana storia delle ceneri di Luigi Pirandello, trasferite da Roma in Sicilia nell’immediato secondo dopoguerra dopo più di vent’anni e con il vescovo del tempo che non volle dare benedizione.

Detto per inciso, la casa del premio Nobel per la letteratura del 1934 dista in linea d’aria meno di due chilometri da Vigata-Porto Empedocle. Vicinanze significative.

UNA SALA PER I TESTIMONI DI GEOVA

La verità è che, in Sicilia, spesso ci si fa male anche senza la mafia. Bastano gli stolti o gli odiatori di professione. La seconda notizia è targata Racalmuto, che è sempre provincia di Agrigento ma nell’entroterra, un altro mondo rispetto a Porto Empedocle e agli empedoclini, “marinisi” in siciliano, abitanti del mare.

A Racalmuto, una statua in bronzo di Leonardo Sciascia ricorda lo scrittore in corso Garibaldi, proprio vicino al Circolo Unione che frequentava. C’è anche una bellissima casa-museo dove lui visse negli anni dell’infanzia, poi c’è una fondazione che ha sede in una ex centrale elettrica e che raccoglie tutti i suoi scritti, duemila volumi, le sue corrispondenze in mezzo secolo di attività letteraria.

Alla Fondazione si sono sempre organizzate mostre, “giornate sciasciane”, incontri dedicati a intellettuali eretici come Pier Paolo Pasolini. Ma nulla è per sempre e, nei prossimi giorni, esattamente il 4 aprile, la Fondazione ospiterà una riunione dei testimoni di Geova «per la commemorazione della morte di Gesù».

Con tante altre sale libere in paese e con tutto il rispetto per i testimoni di Geova, la Fondazione – spesso paragonata a un tempio laico – era proprio il posto più adatto per ospitare una cerimonia di quella congregazione religiosa? Decisione un po’ sconsiderata che ha scatenato la reazione di "Malgrado Tutto”, una testata giornalistica di Racalmuto fondata nel 1980 e che fin dalla sua prima pubblicazione ha avuto la preziosa firma di Leonardo Sciascia.

Lo scrittore, pur nella sua tolleranza, avrebbe davvero voluto i testimoni di Geova in una fondazione a lui intitolata? Fra la scrittura della ragione e le rettifiche dottrinali degli “studenti biblici”, il passo è francamente eccessivo.

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

LA LETTERA DEI GIURISTI. Cari Di Matteo e Caselli, criticare i maxiprocessi non è lesa maestà...

«Chi fa antimafia in buona fede e tiene a che si faccia, dovrebbe, quale che sia il suo orientamento, mettere per prima cosa razionalmente in discussione l’antimafia stessa, le modalità di farla e i suoi obiettivi». Il Dubbio il 23 marzo 2023

Questo articolo era originariamente destinato alla pubblicazione sul quotidiano La Repubblica Palermo. La scelta di quella sede si giustificava in relazione al fatto che l’articolo qui di seguito riprodotto costituisce una replica a una polemica alimentata nei giorni scorsi da quel giornale. Abbiamo ricevuto una risposta interlocutoria che consideriamo sostanzialmente negativa. Ringraziamo Il Dubbio per averci ospitato.

Nei giorni scorsi il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Palermo è stato investito da una polemica giornalistica, non esente da accenti sensazionalistici, sviluppatasi a margine di un confronto pubblico promosso e gestito dagli studenti. All’iniziativa partecipavano un noto magistrato meritoriamente impegnato sul fronte delle più importanti indagini antimafia e una professoressa di diritto processuale penale del suddetto Dipartimento. La polemica ha avuto a oggetto alcune osservazioni critiche avanzate – forse con un surplus di enfasi – dalla docente in questione sulla compatibilità tra il fenomeno dei Maxiprocessi e il rispetto delle garanzie riconosciute dalla Costituzione all’imputato.

Su tale confronto pubblico e sulla strumentalizzazione mediatica che ne è seguita, come docenti del Dipartimento di giurisprudenza ci limitiamo ad avanzare le seguenti considerazioni.

La prima considerazione riguarda la persistente problematicità dei Maxiprocessi. I prolemi sollevati da tale fenomenologia processuale sono storicamente risalente nel tempo, se è vero che – già a cavallo tra ottocento e novecento – in relazione ai c.d. “processi di gran mole”, si osservava che la sottoposizione a giudizio di un numero quantitativamente rilevante di imputati rendeva difficoltosa una verifica processuale sufficientemente individualizzata della responsabilità penale, con connesso rischio di semplificazioni probatorie. Per venire a tempi più recenti, uno dei padri nobili della procedura penale come Paolo Ferrua, a proposito della valenza simbolica del maxiprocesso come strumento di rassicurazione psicologica dei cittadini sul fronte del contrasto alla criminalità organizzata, mette in luce la trasformazione del giudizio penale in “teatro delle ragioni di Stato”. Le frizioni che il ricorso a un simile congegno processuale determina in ordine alla garanzia costituzionale del diritto di difesa erano del resto ben noti allo stesso Giovanni Falcone, come dimostra il volume che raccoglie i suoi contributi a carattere più tecnico, intitolato Interventi e proposte (1982-1992), in cui egli ravvisa sin da subito la difficile conciliabilità tra il gigantismo processuale del Maxi e il modello del nuovo processo penale accusatorio che stava per entrare in vigore. Infine, in un convegno dell’ottobre 2016, svoltosi presso la Corte di Cassazione e intitolato “Il processo di mafia trent’anni dopo”, alcuni tra i più accreditati studiosi del processo penale hanno criticamente ripercorso tutti i nodi problematici dei processi di grandi dimensioni, in relazione ai quali non basta affermare in modo semplicistico, come ha fatto su La Repubblica Pietro Grasso, che “in quel processo ci furono 114 assoluzioni”. Ancor più fuori fuoco ci appaiono le dichiarazioni su La Stampa dell’ex magistrato Giancarlo Caselli il quale, sentendo soffiare da più parti un vento “anti-antimafia”, giudica “sconvolgente” la presa di posizione della docente palermitana. Qui evidentemente non si tratta di iscriversi al partito dei tifosi o, viceversa, dei detrattori del Maxiprocesso ma di rivendicare un esercizio della ragione pubblica che di fronte a problemi articolati e complessi rinunci a demonizzazioni o santificazioni aprioristiche.

La seconda considerazione riguarda alcune affermazioni sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia fatte da Nino Di Matteo nel contesto del seminario in questione, reperibile per chi vuole sulla pagina Facebook dell’associazione studentesca Contrariamente. Conviene citarle testualmente: “La sentenza di secondo grado ha assolto per asserita mancanza di dolo gli uomini dello Stato ma ha condannato i mafiosi e l’intermediario mafioso. Vi hanno detto, vi vogliono far credere, che i fatti sono stati smentiti, che veniva smontato il teorema dei soliti pubblici ministeri complottisti e politicizzati (…). Questo è proprio falso! Quei fatti sono lì, restano lì pesanti come pietre (c.vi nostri)”. Due brevi notazioni a margine. Innanzitutto, soprattutto chi si intesta compiti di moralizzazione pedagogica delle giovani generazioni di giuristi dovrebbe ricordare che i fatti bruti, senza colpevolezza, sono “fatti inerti” che, a norma dell’art. 27, commi 1 e 2, della Costituzione, non generano responsabilità penale. Inoltre, e ancora una volta, non si tratta di essere pro o contro la “Trattativa” ma di ribadire che i criteri di scientificità e di controllabilità intersoggettiva cui deve, per statuto, conformarsi il confronto di idee all’università non ammettono rigidi apriorismi ideologici, tesi sostenute con certezza dogmatica e contrapposizioni manichee con la pretesa di possedere Verità Potenti.

La terza considerazione è di più ampio respiro e ci interroga sul nostro ruolo di docenti impegnati nel dibattito pubblico. L’istituzione universitaria è elettivamente una sede di argomentazione razionale e di confronto critico. È cioè una sede di approfondimento in cui, come sottolinea Karl Popper, nessuno può vantare l’ultima parola e non deve trasformarsi in una sede di riproduzione di modelli di confronto dialettico da talk show televisivo in cui prevalgono l’espressione pura di emozioni, leadership carismatiche à la Weber, mitizzazione acritica di personaggi-simbolo, si tratti pure di magistrati coraggiosi distintisi per il loro impegno antimafia. In questo foro della ragione hanno pari titolo a partecipare e confrontarsi tutte le diverse voci dell’antimafia oggi compresenti sulla scena pubblica e nella discussione scientifica. Come sostiene Alfio Mastropaolo in un recentissimo articolo apparso su Il Mulino: “…chi fa antimafia in buona fede e tiene a che si faccia, dovrebbe, quale che sia il suo orientamento, mettere per prima cosa razionalmente in discussione l’antimafia stessa, le modalità di farla e i suoi obiettivi”.

Sulla base di tali premesse, come giuristi proponiamo un grande convegno universitario di respiro interdisciplinare su “Mafia e antimafia oggi” che si preoccupi di chiamare a raccolta le migliori energie intellettuali a disposizione per fare il punto su almeno tre questioni centrali. E segnatamente: il concetto, dai confini semantici evanescenti, di ‘borghesia mafiosa’; la presunta persistente tendenza trattavistica tra lo Stato italiano e le mafie; l’attuale stato di salute dell’organizzazione Cosa nostra, anche in rapporto alle altre mafie radicate sul territorio nazionale. Proprio perché niente resta per sempre identico a sé stesso, neppure la mafia, è attuale più che mai il monito di Sciascia: “Qualcosa sta mutando, qualcosa è già mutato: con buona pace di coloro che ancora non vogliono crederci. O che vorrebbero non fosse vero. (…) Così a Robespierre che parlava contro i nemici della rivoluzione, qualcuno (…) gridò: «ma ti dispiacerebbe, se non ce ne fossero più!»”.

Aldo Schiavello, professore ordinario di Filosofia del diritto

Alessandro Tesauro, professore ordinario di Diritto penale e Legislazione antimafia

Così aiuta la mafia”. Tutti contro la prof che critica i maxiprocessi. Il confronto tra Daniela Chinnici e Nino Di Matteo. Che replica: “Il maxiprocesso fu un ‘obbrobrio’? Un insulto alla memoria di Falcone e Borsellino”. Il Dubbio il 20 marzo 2023

In Italia è ancora possibile criticare le norme antimafia senza creare scandalo? La domanda sorge spontanea dopo aver letto un articolo di Repubblica dal titolo: “Palermo, l'accusa di una professoressa di Giurisprudenza: ‘Il maxiprocesso fu un obbrobrio’. E in facoltà è scontro con Di Matteo”.

Il pretesto è offerto da un convegno organizzato la scorsa settimana dall’associazione studentesca ‘ContrariaMente’ nella facoltà di giurisprudenza del capoluogo. A confrontarsi sul tema “Tra riforme e lotta alla mafia: cosa è cambiato dal ’92 all’arresto di Messina Denaro’ ci sono Nino Di Matteo e la docente di procedura penale Daniela Chinnici. «Rischio di essere impopolare», esordisce la professoressa ma «parlerò senza le suggestioni o emozioni di un cittadino siciliano o calabrese».

Il punto centrale che mette in evidenza Chinnici è che «dopo le stragi del 1992 assistiamo ad una svolta inquisitoria del processo, più del precedente rispetto alla riforma del 1989». Ricordando il pensiero di Paolo Ferrua, Franco Cordero, Glauco Giostra la docente ha sostenuto che per i reati di mafia «è consentito un doppio binario ma solo nelle indagini non durante il processo penale». Cordero – ha ricordato la prof – «disse che il processo penale non c’era più perché bisognava rispondere alle esigenze della nazione» e ha riaffermato «ben vengano la DDA, la Procura nazionale antimafia, i tempi raddoppiati per le investigazioni di mafia e terrorismo» ma «quando si arriva al processo le garanzie devono essere le stesse per il ladro di macchine e per il mafioso. Il processo deve essere neutro, non deve ricercare né vendetta, né una verità storica, ma solo quella giudiziaria».

Per Chinnici «non possiamo affidarci ad un solo pentito. Ben vengano i collaboratori di giustizia ma per le indagini». E sempre citando Cordero: «Trovare due dichiaranti che dicono la stessa cosa è troppo facile, difficile è trovare la prova di altra natura». Per fortuna, conclude la professoressa, «con la modifica dell’articolo 111 della Costituzione arriviamo al giusto processo. Si dice che nessuno può essere condannato se non esaminato da un giudice terzo e imparziale».

La pietra dello scandalo che ha portato il dibattito all’attenzione di Repubblica è stata l’espressione di Chinnici per cui il Maxi processo del 1986-1987 è stato un «obbrobrio» e come gli altri maxi processi «eversivo». Quando arriva il suo turno, l’ex membro del Csm Di Matteo controbatte alla docente: «Nei processi di mafia non c'è stata mai alcuna violazione dei diritti di difesa, lo dicono le tante assoluzioni che pure sono arrivate. È inaccettabile che uno dei pilastri della lotta alla mafia quale fu il maxiprocesso venga definito un obbrobrio. Un insulto alla memoria di Falcone e Borsellino, che avevano il culto delle regole dello stato di diritto». E sul concetto di eversivo ha aggiunto: «Quei congegni eversivi del sistema hanno consentito non solo il maxiprocesso, ma anche altri processi importantissimi. Ritengo queste parole inopportune, anche per l'estremo sacrificio della vita costato a tanti valorosi servitori dello Stato».

Quello che manca nel pezzo di Repubblica è la spiegazione che ha dato la professoressa del suo pensiero: «Quando dico che un maxi processo è eversivo intendo dire che lo è, come costrutto giuridico, rispetto al sistema accusatorio. La responsabilità penale è personale, il processo si deve tarare sul singolo, non su centinaia di imputati. Fino a prova contraria ognuno è presunto innocente». E poi amareggiata dalla risposta di Di Matteo e della platea a suo sostegno ha detto: «Non capisco perché questa reazione, quando dico queste cose ai miei studenti ci capiamo».

Quello espresso dalla professoressa è un concetto che avevano già affrontato su questo giornale attraverso un dibattito ampio. Lo aveva iniziato Giorgio Spangher che evidenziò come durante gli ultimi decenni il rito accusatorio sia stato snaturato, abbia perso la sua essenza. Poi Giovanni Fiandaca: «La propensione a utilizzare il processo come mezzo di lotta ha, altresì, preso piede nell’ambito delle strategie di contrasto alla corruzione cosiddetta sistemica: come emblematicamente dimostra l’esperienza giudiziaria milanese di Mani Pulite, di cui quest’anno è stato celebrato il trentennale, anche in questo caso l’obiettivo principale preso di mira dai magistrati inquirenti è finito col consistere, più che nell’accertare singoli episodi corruttivi, nel colpire e disarticolare il sistema della corruzione come fenomeno generale». Infine Alberto Cisterna: «L’ortodossia e il conformismo culturale sono, al momento, la minaccia più grave nel contrasto ai fenomeni criminali organizzati; la dilatazione del doppio binario (pena/ misure di prevenzione) verso fattispecie sideralmente lontane dalla mafia ( persino lo stalking), non rappresenta la dimostrazione dell’espansione inevitabile di uno strumentario ritenuto efficiente, quanto la prova della preoccupante incapacità di procedere a elaborazioni alternative, alla costruzione di modelli di investigazione che sappiano davvero leggere il moderno poliformismo della minaccia criminale per poterlo intercettare in modo non velleitario». 

Maxiprocesso, fango su Daniela Chinnici: vietato criticare gli abusi dei pm. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Marzo 2023

«Quel libro alla Camera umilia le vittime di mafia», sentenzia Nando Dalla Chiesa, indignato perché il libro di Alessandro Barbano, L’inganno, viene presentato in Parlamento. Custode dell’ortodossia emergenziale l’uno, dissacratore dell’Antimafia fatta di leggi speciali e retorica l’altro, fino a evocare lo spirito di Leonardo Sciascia, cui dedica, insieme ai familiari, il libro. E nelle stesse giornate una forte critica “a rovescio”, quando una docente associata di procedura penale a Palermo, Daniela Chinnici, osa toccare l’intoccabile, il maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone.

Inutile soffermarsi alla scelta del termine “obbrobrio” scelto per definirlo, quanto entrare nel merito delle argomentazioni usate. Due facce della stessa medaglia. Da una parte il ruolo che tutto quanto il pacchetto-antimafia, che comprende, oltre alle leggi speciali, non solo pubblici ministeri e giudici, ma anche partiti come il Pd e i Cinquestelle, e poi giornalisti, sindacati, associazioni varie e comitati di parenti, è venuto assumendo nel corso degli anni. E dall’altra, il punto di partenza, il maxiprocesso di Palermo, concluso con la famosa sentenza della Cassazione del 30 dicembre 1992. Cui seguirono le stragi di Cosa Nostra, l’omicidio di Salvo Lima e poi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

In due articoli sul Fatto quotidiano (19 e 20 marzo) Dalla Chiesa sparge retorica a volontà, ma soprattutto senza volerlo, offre la migliore recensione e conferma della tesi del libro di Barbano sull’Antimafia, il suo ruolo politico, le sue degenerazioni. C’è quasi un senso di religiosità, nelle parole del sociologo milanese, e non solo perché annuncia una manifestazione organizzata da Libera, l’associazione di don Ciotti che fa parte a pieno titolo del pacchetto-antimafia, nella chiesa milanese di S. Stefano. Perché fa assurgere a ruolo politico dalla parte dei buoni (“la storia siamo noi”) “i familiari delle vittime innocenti di mafia”. E, mettendo dalla parte dei cattivi il libro e di conseguenza il suo autore, sotto sotto cade nella vecchia abitudine di dare del mafioso a chiunque abbia un atteggiamento critico nei confronti di chi, nel nome della lotta alla mafia, pretende di giudicare sul piano morale. E magari altera anche le regole del processo e dello Stato (laico) di diritto.

Gli esempi sono tanti e hanno sempre lo stesso presupposto, che vede la mafia come eterna, onnipresente e invincibile, e tutto lo squadrone dell’Antimafia armato fino ai denti pronto a combatterla con ogni mezzo e ogni metodo. Attribuendo a questa parte il ruolo politico di angeli eroici in rappresentanza del Bene in lotta contro il Male. Nando Dalla Chiesa lamenta il fatto che nel pacchetto dell’antimafia militante, proprio quella che Sciascia bollava come “professionista”, nel libro di Barbano sia citata anche l’associazione Libera. Gli racconterò un piccolo episodio che nasconde vanità e arrivismo di certi angeli del Bene. Molti anni fa nella cittadina della cintura milanese di Buccinasco, ingiustamente definita, da quelli che la pensano come Dalla Chiesa, la Platì del nord, c’era uno stabile confiscato alla mafia e quelli di Libera vi avevano messo sopra gli occhi, la chiedevano al Comune per farvi una “pizzeria antimafia”. Il sindaco di allora aveva invece preferito mettere lo stabile a disposizione di una serie di associazioni di giovani, compresi quelli di Libera, che però avevano rifiutato. Perché evidentemente interessava loro, tramite la pizza antimafia, fare propaganda politica e segnarsi una tacca sul cinturone di combattenti.

Se tutto ciò si limitasse al mondo della cultura e della politica, non sarebbe grave quanto il fatto che il dogma di emergenza e sospetto spesso paranoico ha contagiato il processo penale. Protagonisti sono i reati associativi e in particolare l’articolo 416-bis del codice penale, l’affastellarsi di leggi speciali costruite a contorno, a partire dal famoso decreto Scotti-Martelli del 1992 che ha introdotto tra l’altro i reati ostativi e incostituzionali. E poi, cosa più grave, il senso di vendetta nei confronti delle stragi mafiose da parte dello Stato che si era esteso anche alle toghe. E’ davvero obbrobrioso, per usare il linguaggio della professoressa Chinnici, sentir dire “magistrati in lotta”, e lo stesso termine “antimafia” attribuito a chi non dovrebbe essere “anti”, ma freddamente dovrebbe indagare e giudicare ogni singolo reato e di conseguenza ogni singolo indagato o imputato.

Giovanni Falcone è sfuggito a questa trappola dell’antimafia? In parte sì, basta leggere i suoi scritti. Era sicuramente un garantista e mostrava di credere nei principi del rito accusatorio del codice del 1989, introdotto un po’ a cavallo del maxiprocesso, una vera contraddizione in termini anche solo per la sua esistenza. Vogliamo dire una cosa impopolare? Il Maxi fu una trappola per Falcone, per l’Antimafia e anche per il Paese. Quando la professoressa Chinnici afferma che l’imputato di mafia deve essere trattato con le stesse regole che si usano per il ladro di auto, dice qualcosa di così vero da essere ovvio. Ma in quei giorni un po’ tutti avevano perso la testa e forse l’aver escluso dalla Cassazione il presidente Corrado Carnevale, che non era affatto amico dei mafiosi, ma certamente un “ammazzasentenze” quando verificava che non si erano rispettate le regole, è stato un errore che si è poi pagato con i tragici eventi che seguirono quella sentenza.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

«Il fortino di potere dell’antimafia ha paura del libro di Barbano». Intervista al leader dei penalisti Gian Domenico Caiazza: «Vogliono intimidire e quindi precludere una riflessione critica e un dibattito su uno strumento giudiziario che senza dubbi è sfuggito di mano a chi lo utilizza». Valentina Stella su Il dubbio il 21 marzo 2023 • 18:50

C’è una sorta di Fatwa, lanciata dal Fatto Quotidiano soprattutto, sul libro del giornalista Alessandro Barbano “L’inganno Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”. In pochi giorni si sono susseguiti due articoli – uno a firma di Nando Dalla Chiesa e l’altro di Gian Carlo Caselli - che definiscono il testo oltraggioso e offensivo per i parenti delle vittime di mafia. Interroghiamo su questa retorica Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione Camere Penali.

Può un libro far paura nel 2023?

Sì, certo. Questo libro fa paura a chi, secondo la lucida previsione di Leonardo Sciascia, ha trasformato o intende trasformare da tempo l’antimafia in una sorta di fortino e di potere inespugnabile e incontrollabile. La pretestuosità dell’aggressione a questo libro e al suo autore risulta evidente proprio perché il richiamo che viene fatto sia da Nando dalla Chiesa che da Giancarlo Caselli allo strumento della misura di prevenzione patrimoniale per colpire la mafia non ha nulla a che fare col tipo di denuncia contenuta nel libro.

Ci spieghi meglio.

Esso non mette mai in discussione che i patrimoni mafiosi debbano essere aggrediti ma racconta le mostruose storture che il meccanismo della misura di prevenzione patrimoniale ha determinato e determina nell’esperienza giudiziaria quotidiana, soprattutto fuori dai processi di mafia o con il pretesto di indagini di mafia troppo spesso a carico di persone innocenti.

Nando Dalla Chiesa: “quel libro umilia le vittime di mafia”

L’uso delle argomentazioni in termini di richiamo emotivo al fenomeno criminale mafioso e alle sue vittime è un modo che io considero intellettualmente disonesto di intimidire e quindi precludere una riflessione critica e un dibattito su uno strumento giudiziario che senza dubbi è sfuggito di mano a chi lo utilizza. Tali e tante sono le anomalie e le storture di quei procedimenti che aggrediscono e distruggono patrimoni sulla base di meri sospetti persino a prescindere dai giudizi assolutori, che si sono estesi a tutta una categoria di reati che con la mafia non c’entrano nulla.

Un altro aspetto che critica Dalla Chiesa è che il libro venga presentato alla Camera e per di più alla presenza dell’ex Ministra Cartabia.

È proprio la Camera dei deputati la sede naturale per occuparsi di questo tema. Noi abbiamo fatto e faremo di tutto come penalisti affinché tale questione venga posta seriamente all’attenzione del Parlamento. Quest’ultimo deve sapere cosa nella realtà accade in merito alle misure di prevenzione. Deve sapere che intorno ad esse si è creata una vera e propria casta ristrettissima di professionisti chiamati ad amministrare le imprese sequestrate e ai quali vengono affidate gestioni di soggetti produttivi anche molto importanti a volte con formidabili ricadute in termini di guadagni ed onorari. Occorre che il Parlamento sappia cioè che il caso Saguto non è la storia di una mela marcia ma esattamente la rappresentazione di ciò che il sistema delle misure di prevenzione può diventare e diventa nella concretezza della sua applicazione. Il libro di Barbano è “scandaloso” perché riesce a dare una documentata rappresentazione di una serie incredibile di patologie del sistema che dimostrano quanto appena detto. Il problema è che non si vuole scardinare questo fortino, luogo di potere formidabile di controllo economico dei territori.

Per chi vi incappa è un calvario.

Oltre alla impossibilità di difendersi, i tempi sono molto lunghi e quindi, come racconta il libro, anche se alla fine si dimostra che pure la misura di prevenzione era infondata, nel frattempo le aziende sono state sequestrate, amministrate, spolpate, vendute o mandate al fallimento.

Secondo Gian Carlo Caselli c’è un “vento’” che vuole modificare la normativa antimafia.

In un sistema democratico vero dobbiamo augurarci il vento delle idee. Quello che ci deve spaventare è il tanfo della bonaccia, la morta gora dell’intangibilità di alcune cose alle quali si vuole conferire un valore di sacralità. Per cui chiunque le mette in discussione bestemmia, oltraggia le vittime e il sangue dei magistrati: si tratta di un modo indecente di affrontare i problemi. Si può concordare o meno sui giudizi critici ma qualunque democratico che abbia a cuore le sorti della vita del proprio Paese deve augurarsi il ‘vento’ delle idee.

Non le sembra un paradosso che Caselli difenda questa triade - maxi processo, legge sui pentiti e 41 bis – ma poi la mafia esiste ancora?

Io vorrei far emergere un altro paradosso. Chi attacca questo libro non spende una parola sulle cose che Barbano denuncia. Se fosse davvero un libro così indegno, intanto sarebbe sommerso di denunce – cosa che non mi risulta – ma soprattutto se si critica un libro bisognerebbe entrare nel merito e dire cosa non è vero. Invece noto che dai critici non arriva nessun accenno al contenuto del libro: dei drammi umani e delle storie di dolore raccontati non c’è traccia in quegli articoli di critica all'autore e alla sua opera. Un libro deve essere messo all’indice se narra delle menzogne e non se dice delle verità. E Barbano le dice e quindi nessuno ha il coraggio di confutare un rigo del libro, nulla sulle distorsioni delle leggi antimafia. Eppure dovrebbe essere un interesse comune, di tutti i cittadini, quello di difendere la legislazione antimafia dove essa funziona e stigmatizzarla dove produce, invece, delle ingiustizie a volte più mostruose di ciò che essa intende combattere.

L’ordine dell’antimafia col “bollino blu”: bruciate il libro di Barbano. La condanna l’ha lanciata il Fatto quotidiano. L’accusa? Il giornalista ha osato mettere in discussione il meccanismo opaco delle misure di prevenzione. Davide Varì su Il Dubbio il 20 marzo 2023

Ora è ufficiale: i custodi del tempio hanno emesso la loro personalissima fatwa contro il libro di Alessandro Barbano e contro chiunque osi parlarne in pubblico. La condanna l’ha lanciata Nando dalla Chiesa dalle pagine del Fatto Quotidiano, ma del resto erano mesi che l’antimafia col bollino volteggiava minacciosa su quel saggio così “scandaloso”.

Ma com’è possibile aver paura di un libro nel 2023? Evidentemente c’è qualcosa, tra quelle pagine, che tocca un nervo scoperto, qualcosa che non può e non deve passare. Lo scandalo, secondo i guardiani dell’ortodossia, sta nel fatto che Barbano ha osato mettere in discussione ciò che non doveva essere toccato, ovvero il meccanismo opaco delle misure di prevenzione, la sua gestione arbitraria che spesso diventa sopruso o vera e propria corruzione. Come nel caso della giudice Silvana Saguto, fino a ieri perno di quel sistema e oggi pietra dello scandalo. Ecco, Barbano nel suo libro spiega che il sistema Saguto non è affatto un incidente di percorso, una deviazione dalla giusta rotta, ma il risultato di una mutazione profonda della magistratura che si ritrova tra le mani un potere enorme; un potere incontrollato e incontrollabile.

Nelle stesse ore una professoressa di procedura penale veniva quasi accusata di “concorso esterno” per aver osato mettere in discussione la struttura giuridica dei “maxiprocessi”. Una valutazione esposta nel corso di un dibattito al quale (ahilei!), partecipava anche il dottor Nino Di Matteo, uno dei teorici della trattativa Stato-mafia che, per la cronaca, non ha avuto gran fortuna nelle aule dei tribunali. Fatto sta che di fronte a una provocazione intellettuale della giurista, Di Matteo ha sfoderato tutta la retorica antimafia fino ad evocare la “memoria oltraggiata” di Falcone e Borsellino. Insomma, il solito schema - che peraltro Falcone e Borsellino mai avrebbero utilizzato - per silenziare ogni forma di dissenso.

Quell’uomo non deve pensare”, disse Mussolini nei giorni precedenti l’arresto di Antonio Gramsci. Forse non siamo a quel punto, ma i segnali sono assai inquietanti. Di alcune cose, in questo paese, non si può scrivere, non si può parlare...

La Commissione Antimafia. La verità è che serve per dare una medaglietta a 25 deputati e 25 senatori. In più c’è un posto da Presidente e due da vice. Ci sono le auto, uffici, collaboratori e tutto il resto. Aldo Varano su Il Dubbio il 5 marzo 2023

I giornali lo hanno quasi nascosto, ritenendo correttamente l’avvenimento privo d’importanza, ma la notizia è ufficiale: il Senato ha varato la Commissione antimafia per alzata di mano. Un mese fa ne avevano approvato l’istituzione anche 288 deputati, insieme a un astenuto. Nessun voto contro. Anche allora il fatto fu privo di rilevanza mediatica. La Commissione non fa parte di quelle istituzionali del Parlamento. Venne eletta per la prima volta nel 1963, sessanta anni fa, ma da allora, chissà perché, viene rieletta su proposta di qualcuno ad ogni inizio legislatura.

Non esistono prove che la Commissione sia mai servita a qualcosa contro i fenomeni mafiosi. Se si esclude l’esperienza dell’Antimafia presieduta da Luciano Violante, sulla quale i giudizi peraltro non sono univoci, l’unica cosa chiara è che il suo contributo alla lotta reale contro il fenomeno risulta irrilevante e vago. Talvolta, perfino equivoco.

Già nel 1992, cioè 31 anni fa, Diego Gambetta, uno dei più autorevoli studiosi del fenomeno, teorico della mafia come “industria della protezione privata”, nell’introduzione al suoLa mafia siciliana (Einaudi), firmata da Oxford, da dove Gambetta scriveva e lavorava, annotava: «In passato l’apporto della Commissione non fu privo di ambiguità». Il sociologo polemizzava col fatto che il confronto «tra la ricchezza del materiale» raccolto dalla Commissione era in contrasto «con la povertà delle relazioni parlamentari».

Insomma, i parlamentari dell’antimafia non capivano o nascondevano carte e documenti che illuminavano il fenomeno. E aggiungeva: «Si ha l’impressione che questo istituto - di cui pure fecero parte Cesare Terranova e Pio La Torre, che hanno pagato con la vita la loro lotta alla mafia - sia servito come una palestra in cui le forze del governo permettevano all’opposizione di sinistra (di quel tempo, ndr) di menare pugni antimafia purché rigorosamente nel vuoto». Ma da allora le cose sono peggiorate se si tiene conto dei diffusi e ripetuti giudizi, nei suoi scritti e nelle sue dichiarazioni, di Giovanni Falcone, che sull’argomento sapeva con precisione di cosa parlava. Del resto, ormai da anni, se si escludono gli interventi di qualche presidente pro tempore dell’Antimafia, nessuno più si occupa più di quella Commissione.

La verità è che col tempo l’Antimafia ha radicalmente impoverito la sua funzione fino a diventare una specie di ricovero per notabili parlamentari decaduti o inadatti, pur potenti, a qualsiasi altro ruolo. Il ministro dell’Interno Pisanu ( Fi) cadde in bassa fortuna dopo il voto del 2013? Gli rifilarono la presidenza dell’antimafia. Rosy Bindi ebbe uno scontro feroce con Renzi diventato potente e fu esclusa da qualsiasi avvicinamento al Governo? Diventò presidente della Commissione antimafia. In passato, non se ne ricorda più nessuno, perfino Rifondazione comunista quando iniziò a essere ridimensionata nei consensi, ma aveva ancora voti in Parlamento si vide rifilare la Presidenza dell’Antimafia. Nella passata legislatura il pentastellato Morra, proveniente dall’insegnamento in un liceo, avrebbe voluto saltare direttamente sulla poltrona di ministro dell’Istruzione? Anche lui presidente dell’Antimafia.

Il Dubbio, da quando esiste, a ogni inizio legislatura pubblica questo articolo cambiando le date e qualche nome. La verità è che la Commissione serve per dare una medaglietta a 25 deputati e 25 senatori. In più c’è un posto da Presidente e due da vice. Ci sono le auto, uffici, collaboratori e tutto il resto. Perché mai una politica e un ceto politico in crisi dovrebbe rinunciare a uno strumento che accontenta e tiene buoni un po’ di parlamentari?

Torniamo all’ Antimafia che puniva i colpevoli. No ai professionisti del bene”. Eleonora Ciaffoloni su L’Identità l’11 Marzo 2023

ALESSANDRO BARBANO DIRETTORE CORRIERE DELLO SPORT GIORNALISTA

Il problema della pericolosità colpisce tutto il sistema penale italiano, fino al 41 bis. Un diritto basato sulla pericolosità produce sofferenza nelle famiglie, una grande turbativa sociale, un grande danno economico e un effetto collaterale di fare il gioco della mafia”. Queste le parole del giornalista e saggista Alessandro Barbano che, con il suo ultimo libro racconta l’Antimafia di oggi e l’emergenza che vive il nostro sistema penale.

Il suo nuovo libro si intitola L’Inganno. Perché? Quali sono le intenzioni?

Ho scritto questo libro perché mi sono convito che il nostro sistema penale, negli ultimi vent’anni, è andato incontro alla cosiddetta sostituzione della colpevolezza con la pericolosità. Significa che il diritto non ha più al centro il reato, ma il reo, che è condannato no per il fatto ma per ciò che è: ladro, mafioso, pericoloso. La pericolosità diventa un giudizio soggettivo fondato sul sospetto e questa ricade nei sequestri: un sistema che consente la sottrazione di beni a un cittadino sulla base di un giudizio di pericolosità.

 Questa “sostituzione” in che modo entra nel sistema?

La colpevolezza è stata sostituita dalla pericolosità anche nel sistema penale. Un esempio: ogni anno vengono fatte retate cicliche nel Mezzogiorno, dove su 200 arresti si hanno 20 al massimo 30 condanne. Operazioni di questo tipo si fanno in nome della pericolosità e non della colpevolezza. Si colpiscono persone ritenute pericolose da una autorità che ha trasformato la macchina per colpire l’emergenza (della mafia), in una macchina dell’emergenza che cresce e diventa aggressiva”.

 Un problema che colpisce il Mezzogiorno o l’intero Paese?

Ci sono sempre più processi e sentenze nei confronti di gruppi meridionali al nord con accuse di associazione a delinquere di stampo mafioso in assenza dei reati fine come furto, estorsione, corruzione. Se non ci sono i reati si colpisce l’associazione mafiosa in quanto tale e il processo ai mafiosi rischia di diventare il processo ai meridionali. La colpevolezza non c’è perché non c’è un fatto costituente reato ma un giudizio di pericolosità. Il problema colpisce tutto il sistema penale italiano, fino al 41 bis. È un diritto basato sulla pericolosità produce sofferenza nelle famiglie, una grande turbativa sociale, un grande danno economico e un effetto collaterale di fare il gioco della mafia”.

 Quale gioco?

Si aiuta la mafia quando si punisce l’imprenditore che ha denunciato gli estortori – mafiosi – confiscandogli i beni, perché poi nessuno sarà spinto a farlo. L’azione dell’antimafia nel Mezzogiorno per come è stata condotta ha prodotto un inquinamento profondo e radicale che ha tradito le premesse per cui era stata costruita”.

 Va cambiata la modalità di azione?

Io non chiedo di disarmare l’antimafia, ma di tornare a uno spirito dell’antimafia compatibile con le regole dello stato di diritto: un’azione penale fondata su investigazioni efficienti, rispettosa delle garanzie e in grado di distinguere ciò che è lecito da ciò che non lo è, ma anche di aiutare la società a isolare e combattere la mafia e non trasformare il Mezzogiorno in una zona del sospetto”.

 Con il caso Messina Denaro si è riaperto il dibattito sulle intercettazioni. Cosa ne pensa?

Le intercettazioni sono uno strumento indispensabile in tutte le democrazie avanzate. Bisogna vedere come vengono utilizzate. Ci sono processi interamente centrati su intercettazioni senza riscontri e verifiche: la Cassazione ha autorizzato questa ricostruzione della verità verosimile ma non accertata. È chiaro che le intercettazioni servono per scoprire reati e sono necessarie, ma usate in maniera chirurgica rispetto alle acquisizioni, con dei limiti dello stato di diritto. Non possono essere usate a strascico: serve un accertamento vigoroso e un riscontro. Oggi vediamo un’investigazione penale che è intercettazione-dipendente, con queste che vengono usate quasi unicamente per fare una condanna mediatica. Non potendo conseguire una condanna fondata su prove, si procede allo svergognamento pubblico attraverso la divulgazione delle intercettazione in una fase di indagini preliminari, messa in atto dalle Procure”.

 Serve cambiare il metodo delle intercettazioni?

Nessuna riforma delle intercettazioni si potrà mai fare fino a quando i cittadini italiani resteranno convinti che conoscere il contenuto delle intercettazioni – irrilevanti – è utile per smascherare il lato oscuro della classe dirigente. Questo tipo di intercettazioni rispondono alla tentazione collettiva di vedere cosa c’è sotto a quanto accade e non servono”.

Si è aperta da poco anche l’inchiesta sul Covid. Cosa ne pensa?

Questa inchiesta pretende di collegare una causalità tra un atto politico – come una scelta politica sanitaria – e un evento, come la morte dei cittadini contagiati. Questa causalità nel diritto penale presuppone una responsabilità individuale accertata non può essere ascrivibile a una scelta di carattere politico”.

 Si parla di un reato di epidemia colposa…

Un reato di questo tipo presuppone una condotta commissiva, che in questo caso non c’è. Gli indagati vengono chiamati a giudizio per aver rinunciato a chiudere una certa zona o per aver rinunciato a modificare il piano pandemico, questa è una condotta omissiva. Ciò può configurare nelle responsabilità politiche ma non può configurare una responsabilità penale. I magistrati hanno diffuso tutti gli atti istruttori, mettendo tutto in piazza. Hanno voluto far vedere ai cittadini cosa c’era sotto in quei giorni nelle stanze del potere. Questa inchiesta è inconferente e strumentale, e mostra protagonismo ed esibizione, che mostrano il peggior volto della magistratura italiana”.

«La giustizia non è guerriglia», Barbano e il velo squarciato sull’antimafia. A Roma la presentazione del libro del giornalista a 160 anni dalla prima legge sulle misure di prevenzione. L’autore: «Basta con la psicosi della pericolosità». Valentina Stella su Il Dubbio il 3 marzo 2023

L’inganno. Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”, l’ultimo libro del giornalista Alessandro Barbano, è stato al centro di un interessante dibattito organizzato ieri dalla Camera Penale di Roma presso l’Aula Occorsio del Tribunale. A moderare i lavori Antonella Marandola, ordinaria di diritto processuale penale Università del Sannio. A inaugurare il dibattito il presidente dei penalisti romani, Gaetano Scalise: «Le misure di prevenzione compiono quest’anno 160 anni. Nascevano nel 1863 come misura eccezionale ma col tempo hanno assunto una pervasività incredibile, tanto che oggi l’Accademia parla di vera e propria pena patrimoniale».

Poi ci sono stati i saluti del presidente del Tribunale Roberto Reali che ha ringraziato la Camera Penale per aver organizzato «questo convegno importante» e ha ricordato «l’intervento della stessa Camera all’inaugurazione dell’anno giudiziario in relazione allo specifico tema del carcere e dell’esecuzione della pena».

Il primo vero intervento è stato quello di Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Ucpi, che ha dovuto lasciare subito il convegno per andare alla prima riunione del nuovo “Comitato tecnico- scientifico per il monitoraggio sull'efficienza della giustizia penale e gli effetti sul Pnrr” in cui è stato nominato da poco: «Il libro di Barbano è straordinario, testimonianza di coraggio civile su un tema delicato come questo. Lo ha affrontato dando voce alle tante “storie di dolore” di chi subisce l’uso distorto degli strumenti di prevenzione per la lotta alla criminalità organizzata. Il volume andrebbe letto da chi applica le misure di prevenzione, divenute strumento di perseguimento degli illeciti quando la strada maestra del processo penale ha portato ad una assoluzione».

A seguire il sociologo Giuseppe De Rita: «Le cose che dice Barbano nel suo libro sono incredibili ma provocano una ondata di opinione? Questa è la domanda che dobbiamo porci. Se tratti in pubblico queste questioni come fa l’autore allora vieni trattato come un traditore di Pio La Torre o di Giovanni Falcone. E allora bisogna trovare il modo di creare una onda di opinione su questo volume. La mia speranza è che questo sia solo l’inizio di una lunga serie di racconti di persone che non potevano parlare. Va rotto questo mutismo».

Per il Governo ha parlato il vice ministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto: «Barbano con questo suo libro ci consegna una radio cronaca delle misure di prevenzione. Il suo racconto riafferma valori costituzionali imprescindibili, quali il diritto di difesa, rimarcando la difficoltà per molti di difendersi in particolari contesti, in cui la prevenzione spesso si trasforma in repressione. Il sospetto – chiediamoci – può essere tale da incidere sui diritti dei cittadini?». Però, dice il senatore di Forza Italia, «attenzione a non scambiare la lotta alla mafia con le responsabilità personali di amministratori e pubblici ministeri troppo zelanti». In sintesi, «non mi sento di condannare il sistema ma sicuramente ci sono delle patologie che vanno sanate».

L’unica voce assolutamente dissonante all’interno del panel è stata quella del pubblico ministero della Dda di Roma, Mario Palazzi: «Il mio non può che essere un giudizio negativo per quello che c’è e non c’è nel libro». Secondo Palazzi è la comparazione con le altre giurisdizioni, come quella statunitense «dove il 98% delle confische avviene per via amministrativa tramite la Dea o l’Fbi e solo il 20% viene contestato perché il ricorso è troppo costoso», a doverci spingere a dire «di tenerci stretto il nostro sistema. Certo, è passibile di alcune censure, la giustizia è umana per cui ci possono essere degli errori, ma si è evoluto nel tempo grazie ad un fecondo dialogo tra le Corti nazionali ed europee».

Secondo il magistrato, l’autore del libro compie un errore metodologico: «Dalle storie seppur dolorose che racconta trae la conseguenza che tutto il sistema è sbagliato. Questa sineddoche è un approccio ermeneutico

sbagliato che, tra l’altro, non sente neanche l’altra campana». Per concludere, Palazzi si dice «orgoglioso della risposta italiana. Qui non siamo a Guantanamo, non abbiamo tradito i valori costituzionali ma abbiamo la forza di affermare la giustizia seguendo le regole». È stato poi il momento dell’ex magistrato Gherardo Colombo che, ammettendo che «altrove succede di peggio», si è chiesto tuttavia: «La prevenzione affidata direttamente al giudice diminuisce le garanzie nei confronti delle persone coinvolte?». Ha evidenziato poi che il «contrasto tra l’esito del processo e quello delle procedure di prevenzione rappresenta un qualcosa che non funziona».

Per lui «occorre fare un passo indietro e domandarsi se è possibile risolvere la questione, affrontando il problema prima che si arrivi nella sfera del penale. La questione maggiore è quella dell’educazione al sistema della nostra Costituzione».

Poi ha preso la parola l’avvocato del Foro di Roma Gianluca Tognozzi: «La misura di prevenzione è guerriglia. Ogni volta che una azione dei pubblici ministeri non è andata a buon fine, cinque giorni dopo è arrivata la guerriglia con l’applicazione della misura di prevenzione, senza le regole della guerra e del processo. La categoria del pericoloso generico non ha nulla a che fare con la legislazione antimafia».

Secondo il legale sono tre gli aspetti da stigmatizzare: «I beni del pericoloso generico vengono sottoposti a sequestro e poi confisca con violazione di tutte le regole del sistema. La misura di prevenzione è discrezionale. Il sequestro anticipato dei beni viene deciso dal giudice che poi fa tutta l’istruttoria e decide poi se applicare o meno la confisca. Ed è incredibile che quella istruttoria è totalmente nelle mani della polizia giudiziaria».

Dopo circa due ore ha parlato finalmente l’autore, Alessandro Barbano: «Non sono un giurista e rivendico il fatto di aver guardato dall’esterno questo fenomeno con l’occhio del giornalista. Il libro non riguarda solo le misure di prevenzione ma fa emergere una tendenza: ossia lo slittamento dalla colpevolezza alla pericolosità, che è diventata una vera e propria psicosi». E replicando a Palazzi: «Non sono caduto nella sindrome della sineddoche. La confisca fuori da un giudicato non esiste in nessun Paese. Io contesto questo sistema, la cultura inquisitoria sottesa ad esso e la sua trasformazione in una guerriglia».

Infine ha chiuso i lavori il vice presidente della Camera Penale di Roma, Giuseppe Belcastro: «Questo libro ha un grandissimo pregio, ossia quello di raccontare finalmente i fatti che stanno dietro alle misure di prevenzione e al doppio binario, partendo dai dati reali e non dallo storytelling ufficiale. Delle cose è importante come vengono fatte, ma anche come vengono narrate. Per la prima volta Barbano offre una narrazione fedele». Si è poi chiesto: «Come possiamo spiegare al cittadino lo iato tra le misure di prevenzione e il buon senso: in un’aula vieni assolto e nell’aula accanto ti confiscano i beni?».

Il libro del giornalista. Alessandro Barbano con “L’inganno” scava nel pozzo nero dell’antimafia. Alberto Cisterna su Il Riformista il 13 Gennaio 2023

Il libro di Alessandro Barbano (L’inganno. Antimafia usi e soprusi dei professionisti del bene) scuote la palude dell’antimafia in Italia e agita le acque melmose di un mondo che tanti punti di contatto ha con l’abisso di malaffare che scuote in questi giorni il Parlamento europeo o la cooperazione agli immigrati. Non c’è dubbio, infatti, che settori non marginali della cosiddetta società civile abbiano preso a pretesto la lotta alla mafia, l’assistenza agli immigrati, la cooperazione internazionale come pretesto per dispensare stipendi, accumulare denaro e, soprattutto, conquistare potere. Insomma, il palazzo sarà pure marcio, ma galleggia in un mare pieno di alligatori e squali.

È un fenomeno che inquieta e, ormai, si staglia con una certa nettezza nell’assetto del potere. Si prende a prestito una bandiera immacolata (diciamo: la lotta alla mafia o la cooperazione internazionale), si inizia un’operazione fiancheggiatrice delle istituzioni nazionali o internazionali incaricate di occuparsene, si sollecita l’ambizione alla pubblicità e alla visibilità degli interessati (magistrati e funzionari pubblici in primo luogo), si crea un bel premio o una serie di manifestazioni con cui fidelizzare questo pittoresco mondo di carrieristi, si legittima così la propria presenza, si passa all’incasso dalla politica con fondi, sussidi, deleghe e via seguitando. In mezzo il ruolo, troppe volte opaco, di un certo giornalismo che prende per mano il mercato del consenso e opera da vera e propria cerniera tra gli uni e gli altri.

Vittime predestinate, e spesso consapevoli, i politici di turno che abbagliati dall’idea di indossare le vesti del militante antimafia o del cooperante zelante o dell’assistente commosso di emarginati elargiscono prebende pubbliche e cooptano per le proprie liste gli epigoni consegnati loro da questo congegno infernale. La storia del paese, e soprattutto di una certa sinistra vocata al commuoversi, pullula di biografie più o meno nobili che certo non possono giustificare mistificazioni e ruberie di vario genere. In questo acquitrino, ovviamente, nessuna battaglia può giungere all’epilogo e nessuna vittoria può essere proclamata perché mondi solo in apparenza diversi si sostengono l’uno con l’altro e, al primo cenno di critica o di dissenso, rispondono all’unisono contro l’apostata, l’aggressore, l’infedele. Come nel Conte di Carmagnola di manzoniana memoria «S’ode a destra uno squillo di tromba. A sinistra risponde uno squillo: s’ambo i lati calpesto rimbomba da cavalli e da fanti il terren»; la consegna delle lobby è sempre la stessa.

Al pari delle massonerie, delle mafie, delle congreghe o delle conventicole, il primo problema è ammutolire la critica, impedire che si alzi il velo sul sistema di potere (talvolta anche piccolo, ma efficace) messo in piedi, minacciando carriere, stipendi, influenza e interferenza. Ora la presunzione di innocenza garantisce tutti, potenti e poveracci; le indagini sono appunto una ricerca e non un approdo, ma sarebbe assurdo negare il tramestio che si alza dal muoversi di denaro, i miasmi che provengono tra certe sistematiche aggressioni a mezzo stampa contro che agita lo spettro di riforme dirompenti e ostili, il clima di diffidenza che si vuole creare intorno a certe coraggiose prese di posizione. Non importa molto cosa Alessandro Barbano abbia scritto nel suo libro, ma importa molto che si cerchi di neutralizzare le sue parole perché disallineate dal verbo che si custodisce nel tempio delle vestali dell’antimafia da almeno due decenni a questa parte.

Da quando la via maestra tracciata coraggiosamente da “Libera” di don Ciotti ha visto l’affiancarsi di un pulviscolo di affluenti, l’allinearsi di un reticolo di canali che drenano denaro e compattano potere e che ora insinuano, insultano, infangano nel tentativo di porre argine a verità scomode. Non è successo solo con l’antimafia, lo si è detto. La società civile, i catari dell’accoglienza e della solidarietà hanno, a macchia di leopardo, creato potere e consenso che è difficile intaccare e periglioso criticare senza essere facilmente tacciati di razzismo, collusione o contiguità. Il paese ha drammaticamente bisogno di fare i conti con questi santuari e c’è da pagare un conto salato per questa bonifica che è una battaglia di trasparenza e di democrazia. Anzi di libertà. Alberto Cisterna

(ANSA il 21 aprile 2023) - Una delle più note esponenti dell'antimafia palermitana, la preside della scuola Giovanni Falcone del quartiere Zen, Daniela Lo Verde, insignita anche del titolo di cavaliere della Repubblica, è stata arrestata dai carabinieri nell'ambito di una indagine coordinata dai pm della Procura Europea Gery Ferarra e Amelia Luise con le accuse di peculato e corruzione. Si sarebbe appropriata, con la complicità del vicepreside Daniele Agosta, anche lui arrestato, di cibo per la mensa dell'istituto scolastico, computer, tablet e iphone destinati agli alunni e acquistati con i finanziamenti europei.

Entrambi gli indagati sono ai domiciliari. Nell'indagine è coinvolta anche una terza persona, Alessandra Conigliaro, la dipendente del negozio R-Store di Palermo che alla preside avrebbe regalato tablet e cellulari in cambio della fornitura alla scuola, in aggiudicazione diretta e in esclusiva, del materiale elettronico. In particolare la preside avrebbe messo in condizione la dipendente, pure lei ai domiciliari, di fare preventivi su misura a discapito di altre aziende sempre per acquisiti realizzati nell'ambito di progetti finanziati dal Pon o da enti pubblici. Tra questi il finanziamento di 675mila per la scuola dell'infanzia, il progetto denominato "Stem", il progetto P.o.. denominato "Edu Green" di 17.500 euro e il Decreto "Sostegni Bis" per le scuole.

(ANSA il 21 aprile 2023) -  Si sarebbe appropriata anche del cibo della mensa scolastica Daniela Lo Verde, preside della scuola Falcone del quartiere Zen di Palermo nota per le sue battaglie antimafia, arrestata oggi per corruzione e peculato. A giugno scorso i carabinieri che la indagavano hanno intercettato la prima di una serie di conversazioni tra la donna e la figlia che provano che la dirigente si portava a casa gli alimenti, comprati con i fondi europei per gli alunni. Mentre lavorava in ufficio in compagnia della figlia, tra una pratica e l'altra, la preside impartiva alla ragazza indicazioni sugli alimenti da riporre all'interno di un sacchetto da portare a casa.

"Questo me lo voglio portare a casa, questi me Ii voglio portare a casa ... poi mettiamo da parte... poi vediamo cosa c'e qui ... Ii esci e Ii metti qui sopra..." si sente nella intercettazione che risale al 15 giugno ed è uno degli esempi della gestione illegale della donna. "Il riso ... lo metti Ii davanti alla cassettiera e per la cucina questo ... benissimo ... ora sistema sopra il frigorifero ... questa cosa di origano mettila pure per casa ... - spiegava - Quelle mettile in un sacchetto che non si può scendere. Il tonno mettilo qui sotto ... poi lo portiamo a casa a Sferracavallo (la villa al mare della preside ndr)". 

Le parole della donna sono ulteriormente riscontrate dalle videocamere piazzate dai carabinieri che la mostrano riempire delle buste di alimenti presenti nell'ufficio di presidenza.

(ANSA il 21 aprile 2023) - Nell'agosto del 2022 per l'ennesima volta furono rubati computer dall'aula magna della scuola Falcone di Palermo. Un episodio denunciato sui media dalla preside Daniela Lo Verde, oggi arrestata per corruzione insieme al vicepreside Daniele Agosta. I due, non sapendo di essere intercettati, svelano la loro soddisfazione per come il fatto abbia portato contributi alla scuola.

"Per un cornuto un cornuto e mezzo - diceva Agosto alla donna - ci stanno arrivando soldi da tutte le parti!". E la preside rivendicava il merito di aver reso pubblica la notizia "proprio al fine di cavalcare l'onda, pubblicizzare ancora di piu ii suo personaggio di preside integerrima in prima linea ed ottenere attestazioni di stima, solidarieta, ma soprattutto soldi e aiuti economici dalle istituzioni", commenta il gip. 

"Grazie tu devi dire .. perche non l'aveva saputo nessuno .... tu lo devi dire che .. che sono io quella speciale!", diceva a proposito della diffusinoe della notizia. Il sindaco di Palermo, attraverso la Fondazione Sicilia, dopo i fatti assegnò all'istituto un contributo di circa tremila euro per riacquistare le attrezzature rubate.

(ANSA il 21 aprile 2023) - L'inchiesta che oggi ha portato all'arresto della preside antimafia della scuola Giovanni Falcone di Palermo Daniela Lo Verde, ai domiciliari per corruzione e peculato, nasce dalla denuncia ai carabinieri di una ex insegnante dell'istituto che ha raccontato agli inquirenti di una "gestione dispotica della cosa pubblica da parte dell'indagata", scrive il gip che ha disposto i domiciliari per la donna, gestione che era impossibile contrastare salvo correre il rischio di ritorsioni.

L'insegnante ha descritto la dirigente come "avvezza alla violazione delle regole": da quelle sull'emergenza sanitaria a quelle dei finanziamenti europei. I progetti scolastici, tutti approvati all'unanimità, secondo la donna non venivano attuati in modo diligente e tra le docenti era frequente la prassi di raccogliere ex post, e non durante lo svolgimento delle attività, le firme dei ragazzi coinvolti. Questo perché ai progetti affidati alla scuola Falcone in realtà gli alunni non partecipavano o partecipavano in numero ridotto e dipendendo dal numero degli studenti partecipanti l'ammontare dei fondi ricevuti, si rischiava di perdere il denaro.

La docente ha anche rivelato che spesso le fatture per gli acquisiti, ad esempio per la palestra, venivano gonfiate e che solo una parte dei soldi veniva spesa per strumenti didattici, mentre il resto del denaro veniva investito in abbigliamento e scarpe per la dirigenza della scuola. Le dichiarazioni dell'ex maestra, confermate ai carabinieri da altri insegnanti, hanno fatto partire le intercettazioni.

(ANSA il 21 aprile 2023) - Oltre al cibo delle mense scolastiche la preside Daniela Lo Verde, arrestata insieme al suo vice per corruzione e peculato, si sarebbe appropriata di computer e tablet acquistati con i fondi europei per la scuola. Emerge dall'inchiesta dei carabinieri. "Che è un nuovo Mac?", chiedeva la figlia alla donna. "Sì ora ce lo portiamo a casa", rispondeva la madre. "Anche in questo caso, così come gia evidenziato in relazione agli iPad, - si legge nella misura cautelare - la genuinità delle conversazioni registrate fugavano ogni ragionevole dubbio sulle reali intenzioni della preside in ordine al nuovo Mac".

Antimafia, origano e patatine. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 21 aprile 2023.

La prima reazione non può essere che di sconforto: se le accuse saranno confermate, ci siamo giocati pure la preside della scuola palermitana intitolata a Giovanni Falcone. Proprio lei, Daniela Lo Verde, santino della lotta alla mafia, insignita da Mattarella del cavalierato al merito e intervistata dalle tv di mezzo mondo in veste di paladina del riscatto di un quartiere disagiato. Quella che diceva: «Noi insegniamo legalità persino durante la ricreazione». E ora eccola, la signora Legalità, intercettata mentre si appropria dei computer pagati con i fondi europei, tarocca le firme degli allievi per giustificare il finanziamento di corsi mai realizzati e ordina alla figlia regalati alla mensa della scuola per rimpinguare la dispensa della loro casa al mare. Quando la declamata bontà sconfina nella presunzione di impunità.

Verrebbe voglia di non credere più a niente, come succede a quelli che credono a tutto, comprese le madonne piangenti e i complotti dei rettiliani. Il famigerato «storytelling» ci ha convinti che un ideale, per arrivare al cuore, abbia bisogno di appoggiarsi emotivamente alla favola di una persona, col bel risultato che quando la persona si rivela una delusione, anche l’ideale finisce per subire la stessa sorte. Ma è un atteggiamento puerile, un delegare ad altri qualcosa che è nostro. Se l’antimafia è una bandiera, siamo noi il vento che la fa sventolare, a prescindere dalla coerenza di chi la impugna.

Il caso di Palermo. Arresto di Daniela Lo Verde, il video contro la preside dello Zen paladina antimafia è solo “marketing giudiziario”. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Aprile 2023 

Marco Travaglio ordina e senza perdere tempo al comando generale dell’Arma dei carabinieri scattano sugli attenti, tornando a distribuire filmati delle indagini per “esigenze comunicative”. È stato prontamente raccolto il grido di dolore del principale house organ delle Procure contro il bavaglio Cartabia che farebbe sparire delitti e indagini. La prima pagina del Fatto Quotidiano del 13 aprile scorso, per chi se la fosse persa, era dedicata infatti alla asserita scomparsa delle notizie di cronaca giudiziaria per “colpa” della legge sulla presunzione d’innocenza.

La norma, approvata a dicembre del 2021 recependo una direttiva europea del 2016, impone regole di civiltà sulla comunicazione, ad esempio vietando affermazioni di colpevolezza prima che questa sia effettivamente provata. A supporto, invece, della tesi del “bavaglio” vi era una lunga intervista a Sigfrido Ranucci dove si poteva leggere «non è presunzione d’innocenza, è oblio di Stato: reagiamo» oppure «la riforma è spacciata come una garanzia ed invece tutela solo politici e potenti».

Non essendoci stati in questi giorni arresti di politici e potenti, il circo mediatico giudiziario in crisi di verbali da pubblicare, si è dovuto accontentare ieri dell’arresto di Daniela Lo Verde, preside di una scuola allo Zen di Palermo ed insignita dal capo dello Stato del cavalierato della Repubblica per la sua attività antimafia, accusata di essersi appropriata di cibo per la mensa, di computer e di tablet destinati ai suoi alunni ed acquistati con finanziamenti europei. L’arresto della paladina dell’antimafia è stato accompagnato dalla diffusione ai media di un video con il logo dell’Arma e della Procura, montato con le immagini delle telecamere piazzate nel suo ufficio, in cui si vede uno dei complici portare fuori dalla scuola un televisore. A cosa serve questo video? Soltanto al “marketing giudiziario”.

Eppure il legislatore europeo già nel 2016 era stato molto chiaro: «La diffusione di materiale video può avvenire solo quando sia strettamente necessario per garantire l’efficienza delle indagini e non per finalità differenti, come quelle prettamente mediatiche, auto-celebrative o di sensibilizzazione dell’opinione pubblica». Sul rispetto di questo principio si sono battuti molto nella scorsa legislatura i deputati Riccardo Magi (+Europa) ed Enrico Costa (Azione). Costa, in particolare, è stato anche promotore di un ordine del giorno, poi approvato a larghissima maggioranza, per un “monitoraggio” da parte dell’Ispettorato del ministero della Giustizia sulle conferenza stampa di pm e forze di polizia.

Tornando all’arresto dalla preside, il sindaco di Palermo Roberto Galla ha volto esprimere tutto il suo sgomento. «Durante il mio incarico di assessore regionale all’istruzione, l’ho conosciuta come dirigente scolastica particolarmente dedita al suo lavoro. È doveroso che le indagini abbiano il loro corso e confido che esse possano inequivocabilmente chiarire i fatti, per il bene della comunità studentesca e della scuola, da sempre importante punto di riferimento civile e sociale del difficile quartiere Zen», sono state le parole del sindaco. Paolo Comi

Laura Anello per "La Stampa" il 23 aprile 2023.

[…] Daniela Lo Verde, Cavaliere della Repubblica, da dieci anni anima dell'Istituto intitolato a Giovanni Falcone, adesso è agli arresti domiciliari per corruzione e peculato, così come il vicepreside. Al suo posto è stato nominato reggente Domenico Di Fatta, il suo predecessore nella scuola dello Zen: un segnale immediato per colmare la voragine che si è aperta tra i casermoni del quartiere dove il lavoro regolare non arriva al 2 per cento, l'analfabetismo tende al 5, la dispersione nelle classi supera il 16. E dove adesso si inseguono le stesse parole: «E adesso a chi crediamo? Ci sentiamo traditi».

Una voragine di senso, di fiducia, di speranza nello Stato, quello Stato che soltanto nel 2011 – mezzo secolo dopo la costruzione del quartiere – ha piantato il suo fortino, una caserma dei carabinieri, tra baby spacciatori, criminali di rango e disgraziati di ogni tipo. Parliamo dello Zen 2. Perché lo Zen 1, realizzato nel 1960, in qualche modo è diventato un pezzo di città.

Lo Zen 2, invece, è fallito come tante analoghe utopie urbanistiche piovute sul terreno come astronavi. Al punto che poco più di dieci anni fa l'archistar Massimiliano Fuksas propose di raderlo al suolo. Lo aveva progettato nel 1969 per l'Istituto case popolari il patriarca degli architetti italiani, Vittorio Gregotti, come un sistema di insulae, costruzioni basse con un cortile interno, per riprodurre i cortili del centro storico che si era svuotato l'anno precedente, con le scosse e i crolli del terremoto del 1968.

Ma la fame di alloggi scatenò ben presto la corsa alle occupazioni abusive (ancora adesso soltanto il venti per cento degli abitanti è un assegnatario regolare), i servizi non furono mai realizzati e l'utopia non tardò a diventare ghetto. A poco servì cambiargli nome, come fece l'ex sindaco Leoluca Orlando: San Filippo Neri, lo ribattezzò. Ma Zen era e Zen restò. «Un dolore per il quartiere e per la città tutta, un episodio che contribuisce a scalfire la fiducia nei confronti delle istituzioni», dicono all'unisono Zen Insieme, Bayty Baytik, l'Albero della vita e Handala, le quattro associazioni impegnate in questa terra di frontiera. Accanto a loro c'è stata a lungo Daniela Lo Verde ad accendere un faro di speranza.

È stata lei a battersi per i corsi pomeridiani nella scuola che accoglie alunni dalla primaria alla media, lei a portare in gita d'istruzione gambe e occhi che non erano mai usciti dal quartiere. Lei a fare miracoli con quei fondi comunitari che secondo la procura europea avrebbe però utilizzato in modo improprio e anche a suo vantaggio, gestendo spregiudicatamente forniture e fatturazioni, oltre che attestando falsamente la presenza degli alunni ai corsi. Saranno i giudici a stabilire le responsabilità, ma Palermo ha già condannato. Un'icona non può permettersi di sbagliare.

Estratto dell’articolo di Riccardo Lo Verso per “Il Messaggero” il 23 aprile 2023.

È la storia di una speranza tradita, di una luce nel degrado che si spegne nel peggiore dei modi. I carabinieri hanno arrestato Daniela Lo Verde, 54 anni, preside di un istituto comprensivo. Non una scuola qualunque, ma la "Giovanni Falcone" del rione Zen, nella periferia degradata e dimenticata di Palermo. 

I pubblici ministeri della Procura europea Calogero Ferrara e Amelia Luise le contestano ipotesi di corruzione e peculato. L'hanno letteralmente sorpresa con le mani nella dispensa, e non solo. La preside avrebbe rubato generi alimentari, ma anche tablet, computer, televisori, giochi da tavolo acquistati per gli studenti con i fondi europei. Ne sono arrivati tanti, e a pioggia, alla scuola. Si parla di circa 600 mila euro sui quali gli investigatori scaveranno ancora. […] la preside finita ai domiciliari assieme al suo vice, Daniele Agosta, e ad Alessandra Conigliaro, dipendente di una società di apparecchiature elettroniche.

[…] Lo Verde aveva lanciato una campagna di raccolta fondi per donare cibo ad alcune famiglie in difficoltà. Suo anche l'appello per recuperare i tablet necessari agli allievi per seguire le lezioni a distanza. «Ci stanno arrivando soldi da tutte le parti», diceva il vicepreside (intercettato) alla dirigente. Che si prendeva tutto il merito: «Grazie tu devi dire, perché non l'aveva saputo nessuno. Tu lo devi dire che sono io quella speciale» […]

Ogni qualvolta la scuola subiva un furto o una incursione vandalica gli episodi sono molteplici Daniela Lo Verde andava in tv a ribadire che non avrebbe indietreggiato di un solo millimetro nel percorso di legalità. L'inchiesta oggi ne svelerebbe il lato oscuro. Secondo il giudice per le indagini preliminari che ha firmato l'ordinanza di custodia cautelare, la dirigente scolastica avrebbe pianificato la sovraesposizione mediatica «proprio al fine di cavalcare l'onda, pubblicizzare ancora di più il suo personaggio di preside integerrima in prima linea e ottenere attestazioni di stima, solidarietà, ma soprattutto soldi e aiuti economici dalle istituzioni». 

Sono i soldi finanziati dall'Unione europea per le attività fuori dalle ore scolastiche: dal calcetto alla cucina, dalla scolarizzazione all'integrazione. Progetti che i ragazzi del quartiere disertavano. E allora sarebbe divenuto necessario falsificare i fogli di presenza in modo da ottenere i finanziamenti. È filato tutto liscio fino a quando una professoressa, nel frattempo andata a lavorare in un'altra scuola, si è rivolta ai carabinieri.

I militari hanno piazzato le telecamere e le microspie alla "Giovanni Falcone". Le immagini sono impietose. La mensa scolastica sarebbe stata saccheggiata, la donna è ripresa mentre carica la spesa in macchina e la porta a casa sua, dove sono stati trovati computer, tablet e un televisore 65 pollici.  […]

Estratto dell’articolo di Riccardo Lo Verso per “Il Messaggero”

Giugno 2022, il cibo per la mensa era stipato nell'ufficio di presidenza della scuola "Giovanni Falcone" nel quartiere Zen. I carabinieri avevano già piazzato una telecamera per tenere sotto osservazione la dirigente Daniela Lo Verde. Dava indicazioni alla figlia: «Questi me li voglio portare a casa. Il riso lo metti lì davanti alla cassettiera, questa cosa di origano mettila pure per casa. Anche un paio di barattoli e gli altri in cucina».

A volte era necessario farsi aiutare per trasportare i generi alimentari nel suo appartamento, fin dove la preside è stata pedinata. «Amore io ho diversi sacchetti, ti secca scendere?», diceva alla figlia chiedendo aiuto. «Li vuoi i succhi di frutta? Mettili qua, anche la Corona. Prendi un pacco di tovaglioli blu, li metti in macchina», aggiungeva. Il problema è che quelle scorte, birra compresa, fossero state acquistate con i soldi europei per i progetti destinati agli alunni di una scuola elementare e media.

[…] Come quella volta in cui la dirigente segnalava al vicepreside Daniele Agosta: «Palesemente queste non sono le firme degli alunni. Guarda, si vede che sono firmate tutte dalla stessa persona. Qua si sono sforzati un poco di più». C'è poi il capitolo sulle forniture di apparecchiature elettroniche. Soprattutto tablet e computer.

Dopo aver ricevuto nell'ambito del cosiddetto "Decreto mezzogiorno" sette MacBook e un computer fisso, Lo Verde diceva ad Agosta: «Ma se me quello blu me lo portassi a casa? Cioè, nel senso, me lo prendo fino a quando siamo qua. Poi si vedrà». […]  Lo scorso settembre Lo Verde ha ricevuto un avviso di proroga delle indagini. Iniziò a temere il peggio. La tensione è rimasta impressa nelle registrazioni degli investigatori: «Me ne vado in carcere, il carcere c'è». Un presagio funesto che si è concretizzato ieri.

«Rubava cibo, pc e tablet agli studenti»L’arresto choc della preside antimafia. Storia di Roberto Puglisi, su Avvenire il 21 aprile 2023.

Il cuore della speranza seminata allo Zen, periferia estrema di Palermo, è ferito. La preside della scuola intitolata a Giovanni Falcone, la professoressa Daniela Lo Verde, 53 anni, simbolo dell’antimafia, insignita del titolo di Cavaliere della Repubblica, è stata arrestata, ieri mattina, dai carabinieri nell'ambito di una inchiesta coordinata dai pm della Procura Europea Gery Ferrara e Amelia Luise con le accuse di peculato e corruzione. Gli addebiti sono molto pesanti: la professoressa Lo Verde, con la complicità del vicepreside Daniele Agosta, si sarebbe appropriata di generi alimentari destinati alla mensa dell'istituto scolastico, computer, tablet e iphone, acquistati con i finanziamenti europei. La preside e il vicepreside sono ai domiciliari. Ci sono altre persone coinvolte nell’indagine, dodici in tutto. Ai domiciliari è finita anche la dipendente di un negozio di elettronica che avrebbe regalato alla dirigente tablet e cellulari in cambio della fornitura alla scuola, in aggiudicazione diretta e in esclusiva, del materiale.

L’inchiesta è nata grazie alla denuncia di una ex insegnante dell’istituto che ha raccontato di una «gestione dispotica della cosa pubblica da parte dell’indagata» come scrive il gip nell’ordinanza. Il quadro è punteggiato dalle intercettazioni, per esempio da alcune conversazioni tra la preside e sua figlia che, secondo gli inquirenti, proverebbero l’appropriazione di alimenti comprati per la mensa degli alunni. Daniela Lo Verde era una figura, fin qui, apprezzatissima dell’impegno per la legalità. Nel corso degli anni aveva rappresentato gli sforzi compiuti in un contesto difficile, denunciando anche atti di vandalismo a scuola. Nel giugno 2020 il momento più alto della sua parabola: il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, l’aveva nominata Cavaliere, per le attività svolte nella fase più cruenta della pandemia da Covid, quando, proprio dalla scuola, era stata lanciata una raccolta fondi per regalare la spesa ad alcune famiglie in gravissima difficoltà economica.

Lo Zen e la città sono sotto choc. Un giro mattutino nel quartiere, protagonista di uno stigma che fa torto alle tante persone di buona volontà che vivono lì, ha offerto il consueto e degradante panorama di spazzatura non raccolta, di rottami e disservizi. Ieri mattina non si sono svolte le lezioni all’istituto Falcone. «Siamo choccati – ecco le parole sgomente di un custode –. Questa cosa può essere un contraccolpo per tutti». «Siamo sconvolti, sì» di rimbalzo la voce una professoressa. Una ragazza, al lavoro nel suo minimarket, ha usato una frase che non si dimentica: «La nostra speranza è stata tradita». Per la dirigente scolastica è stato disposto «il provvedimento di sospensione immediata» come ha fatto sapere il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, sottolineando come «in tempi brevi sarà nominato il reggente».

«Rimango sgomento nell’apprendere la notizia dell’arresto della preside dell’Istituto comprensivo Giovanni Falcone Daniela Lo Verde, che, durante il mio incarico di assessore regionale all’Istruzione, ho conosciuto come dirigente scolastica particolarmente dedita al suo lavoro – ha commentato il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla –. Alla luce degli odierni accadimenti, è doveroso che le indagini abbiano il loro corso e confido che esse possano inequivocabilmente chiarire i fatti, per il bene della comunità studentesca e della scuola, da sempre importante punto di riferimento civile e sociale».

«L’indagine che ha portato all'arresto di Daniela Lo Verde, preside dell’istituto scolastico Giovanni Falcone di Palermo, mi addolora profondamente e non solo perché i fatti che stanno emergendo sono un insulto alla memoria di mio fratello Giovanni – ha detto Maria Falcone –. Conosco bene quella scuola da prima che la dirigesse Lo Verde e l’ho sempre considerata un presidio fondamentale in un quartiere come lo Zen attanagliato da tante criticità, con una presenza criminale notevolissima e una dispersione scolastica tra le più alte d’Italia».

«Lascia sconcertati – incalza con forza la sorella del giudice ucciso a Capaci – scoprire che dietro l’antimafia di facciata di Daniela Lo Verde c’era tanta disonestà. Questo però non mi fa dimenticare la dedizione delle insegnanti, che da anni portano avanti un lavoro prezioso per educare i giovani alla legalità e che sono state sempre presenti con i loro alunni alle manifestazioni per ricordare chi si è sacrificato nella lotta alla mafia».

Palermo, preside antimafia arrestata per corruzione: rubava da scuola pc e cibo della mensa. Era anche stata nominata Cavaliere della Repubblica: l'indagine scattata dopo la denuncia di una docente. La Repubblica il 21 aprile 2023.

Una delle più note esponenti dell’antimafia palermitana, la preside della scuola Giovanni Falcone del quartiere Zen, Daniela Lo Verde, insignita anche del titolo di cavaliere della Repubblica, è stata arrestata dai carabinieri nell’ambito di una indagine coordinata dai pm della Procura Europea Gery Ferarra e Amelia Luise con le accuse di peculato e corruzione. Si sarebbe appropriata, con la complicità del vicepreside Daniele Agosta, anche lui arrestato, di cibo per la mensa dell’istituto scolastico, computer, tablet e iphone destinati agli alunni e acquistati con i finanziamenti europei.

Si sarebbe appropriata anche del cibo della mensa scolastica. A giugno scorso i carabinieri che la indagavano hanno intercettato la prima di una serie di conversazioni tra la donna e la figlia che provano che la dirigente si portava a casa gli alimenti, comprati con i fondi europei per gli alunni.

Mentre lavorava in ufficio in compagnia della figlia, tra una pratica e l’altra, la preside impartiva alla ragazza indicazioni sugli alimenti da riporre all’interno di un sacchetto da portare a casa. «Questo me lo voglio portare a casa, questi me Ii voglio portare a casa ... poi mettiamo da parte... poi vediamo cosa c'e qui ... Ii esci e Ii metti qui sopra...» si sente nella intercettazione che risale al 15 giugno ed è uno degli esempi della gestione illegale della donna. "Il riso ... lo metti Ii davanti alla cassettiera e per la cucina questo ... benissimo ... ora sistema sopra il frigorifero ... questa cosa di origano mettila pure per casa ... - spiegava - Quelle mettile in un sacchetto che non si può scendere. Il tonno mettilo qui sotto ... poi lo portiamo a casa a Sferracavallo (la villa al mare della preside ndr)». Le parole della donna sono ulteriormente riscontrate dalle videocamere piazzate dai carabinieri che la mostrano riempire delle buste di alimenti presenti nell’ufficio di presidenza.

Oltre al cibo delle mense scolastiche la preside Daniela Lo Verde, arrestata insieme al suo vice per corruzione e peculato, si sarebbe appropriata di computer e tablet acquistati con i fondi europei per la scuola. Emerge dall’inchiesta dei carabinieri.

«Che è un nuovo Mac?», chiedeva la figlia alla donna. «Sì ora ce lo portiamo a casa», rispondeva la madre.

«Anche in questo caso, così come gia evidenziato in relazione agli iPad, - si legge nella misura cautelare - la genuinità delle conversazioni registrate fugavano ogni ragionevole dubbio sulle reali intenzioni della preside in ordine al nuovo Mac».

Nell’agosto del 2022 per l'ennesima volta furono rubati computer dall’aula magna della scuola Falcone di Palermo. Un episodio denunciato sui media dalla preside Daniela Lo Verde, oggi arrestata per corruzione insieme al vicepreside Daniele Agosta. I due, non sapendo di essere intercettati, svelano la loro soddisfazione per come il fatto abbia portato contributi alla scuola. "Per un cornuto un cornuto e mezzo - diceva Agosto alla donna - ci stanno arrivando soldi da tutte le parti!». E la preside rivendicava il merito di aver reso pubblica la notizia «proprio al fine di cavalcare l’onda, pubblicizzare ancora di piu ii suo personaggio di preside integerrima in prima linea ed ottenere attestazioni di stima, solidarieta, ma soprattutto soldi e aiuti economici dalle istituzioni», commenta il gip. "Grazie tu devi dire .. perche non l’aveva saputo nessuno .... tu lo devi dire che .. che sono io quella speciale!», diceva a proposito della diffusione della notizia.

Il sindaco di Palermo, attraverso la Fondazione Sicilia, dopo i fatti assegnò all’istituto un contributo di circa tremila euro per riacquistare le attrezzature rubate.

INCHIESTA NATA DALLA DENUNCIA DI UNA DOCENTE

L’inchiesta che oggi ha portato all’arresto della preside antimafia della scuola Giovanni Falcone di Palermo Daniela Lo Verde, ai domiciliari per corruzione e peculato, nasce dalla denuncia ai carabinieri di una ex insegnante dell’istituto che ha raccontato agli inquirenti di una «gestione dispotica della cosa pubblica da parte dell’indagata», scrive il gip che ha disposto i domiciliari per la donna, gestione che era impossibile contrastare salvo correre il rischio di ritorsioni.

L’insegnante ha descritto la dirigente come «avvezza alla violazione delle regole": da quelle sull'emergenza sanitaria a quelle dei finanziamenti europei. I progetti scolastici, tutti approvati all’unanimità, secondo la donna non venivano attuati in modo diligente e tra le docenti era frequente la prassi di raccogliere ex post, e non durante lo svolgimento delle attività, le firme dei ragazzi coinvolti. Questo perché ai progetti affidati alla scuola Falcone in realtà gli alunni non partecipavano o partecipavano in numero ridotto e dipendendo dal numero degli studenti partecipanti l’ammontare dei fondi ricevuti, si rischiava di perdere il denaro. La docente ha anche rivelato che spesso le fatture per gli acquisiti, ad esempio per la palestra, venivano gonfiate e che solo una parte dei soldi veniva spesa per strumenti didattici, mentre il resto del denaro veniva investito in abbigliamento e scarpe per la dirigenza della scuola. Le dichiarazioni dell’ex maestra, confermate ai carabinieri da altri insegnanti, hanno fatto partire le intercettazioni.

Le indagini hanno accertato che non si è trattato di un episodio isolato. Ad una collaboratrice, che giorni dopo chiedeva perché venisse consegnato dalla ditta coinvolta nel progetto finanziato dal Pon tanto cibo a scuola chiusa, la Lo Verde spiegava che il fornitore era cambiato e non si poteva comportare come in passato faceva con una impresa locale con la quale «evidentemente, stando alle sue parole, -dice il gip - aveva un accordo sottobanco che le permetteva di differire le consegna delle forniture indipendentemente dalla data di chiusura dei progetti». «Il progetto è finito quindi la mensa è finita - diceva - Perciò io le cose ce le devo avere dentro». Oltre al cibo per la mensa de bambini la preside della scuola Falcone dello Zen di Palermo, arrestata per corruzione, si sarebbe appropriata anche di salviette e mascherine destinate agli alunni durante il Covid. L’hanno accertato i carabinieri grazie alle intercettazioni. «C'erano delle salviettine in qualcuna di questi ... - diceva non sapendo di essere ascoltata - .. non so se mia mamma ce l’ha .. che cos'altro le puo servire? ... questi sono .. disinfettanti? ... me Ii porto io». Stessa «attitudine» aveva il vicepreside Daniele Agosta, anche lui finito agli arresti domiciliari e ripreso dalle «cimici» a riemperire lo zainetto con confezioni di succhi di frutta, flaconi di gel disinfettante per le mani e mascherine Ffp2 che portava via con sè. L’uomo si sarebbe anche offerto di aiutare la dirigente a portar via il cibo.

Secondo gli inquirenti sarebbe evidente inoltre la premeditazione nella condotta della Lo Verde. Premeditazione - si legge nella misura cautelare - «inconsapevolmente confermata proprio dalla dirigente nel momento in cui su richiesta della figlia, le diceva di inserire tra le provviste da portare a casa anche la birra. Appare infatti quanto meno discutibile che, tra le provviste ordinate alla ditta Eurospin da destinare alla mensa scolastica possa essere compreso anche l’acquisto di alcolici».

In cambio dell’assegnazione esclusiva e in forma diretta di materiale elettronico per la scuola dal negozio RStore di Palermo Daniela Lo Verde, preside della scuola Falcone dello Zen, arrestata per peculato e corruzione, avrebbe avuto da una dipendente dell’attività commerciale, anche lei finita ai domiciliari, regali come telefonini i-phone. Emeerge dall’inchiesta della Procura Europea.

I carabinieri hanno filmato la dipendente tirare fuori da una busta, dopo aver ottenuto copia del preventivo della ditta concorrente relativo alla fornitura degli arredi scolastici ed essersi assicurata la nuova fornitura di ulteriori Notebook, una busta con due cellulari per la Lo Verde. Andata via la donna, rimasti soli in ufficio la preside e il suo vice hanno aperto ii sacchetto con gli iPhone. Il vicepreside si è lamentato con la dirigente per non aver trovato ii modello 13 Pro «da lui evidentemente richiesto», dice il gip.

La Lo Verde avrebbe risposto al suo collega che i due smartphone erano per le figlie non per lui e l’avrebbe invitato a chiamare il negozio per chiederle spiegazioni.

Arrestata la preside antimafia: ecco cosa rubava agli studenti. Secondo gli inquirenti la dirigente scolastica, con l’aiuto di un collaboratore, si sarebbe appropriata del cibo per la mensa dell'istituto scolastico, computer, tablet e iphone destinati agli alunni e acquistati con i finanziamenti europei. Ignazio Riccio il 21 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’indagine

 Le intercettazioni

 I computer

 Il ruolo dell’ex docente dell’istituto “Falcone”

Daniela Lo Verde, 53 anni, è una dirigente scolastica che ha scelto di lavorare a Palermo, in uno dei quartieri più difficili, lo Zen, a contatto con la criminalità organizzata, con la violenza e il disagio sociale. Per la sua attività nell’istituto scolastico "Giovanni Falcone" è stata anche insignita del titolo di cavaliere al merito della Repubblica, un’onorificenza che le ha permesso di ottenere una notevole visibilità a livello nazionale. Ma ora la preside è finita nelle maglie della giustizia con l’accusa di peculato e corruzione. I carabinieri l’hanno arrestata nell'ambito di una indagine coordinata dai pm della procura europea Gery Ferrara e Amelia Luise. Insieme a lei, adesso ai domiciliari, è stato relegato nella sua abitazione il vicepreside Daniela Agosta.

L’indagine

Secondo gli inquirenti la dirigente scolastica, con l’aiuto del collaboratore, si sarebbe appropriata del cibo per la mensa dell'istituto scolastico, computer, tablet e iphone destinati agli alunni e acquistati con i finanziamenti europei. Nell’indagine è coinvolta anche una terza persona, Alessandra Conigliaro, la dipendente del negozio R-Store di Palermo che alla preside avrebbe regalato tablet e cellulari in cambio della fornitura alla scuola, in aggiudicazione diretta e in esclusiva, del materiale elettronico.

In particolare la preside avrebbe messo in condizione la dipendente, pure lei ai domiciliari, di fare preventivi su misura a discapito di altre aziende sempre per acquisiti realizzati nell'ambito di progetti finanziati dal Pon o da enti pubblici. Tra questi il finanziamento di 675mila euro per la scuola dell'infanzia, il progetto denominato "Stem", il progetto P.o.. denominato "Edu Green" di 17.500 euro e il Decreto "Sostegni Bis" per le scuole.

Le intercettazioni

Daniela Lo Verde è indagata perché avrebbe trafugato prodotti alimentari destinati alla mensa scolastica. A giugno scorso i carabinieri hanno intercettato la prima di una serie di conversazioni tra la donna e la figlia dalle quali si evince che la dirigente si portava a casa gli alimenti, comprati con i fondi europei per gli alunni. Mentre lavorava in ufficio in compagnia della figlia, tra una pratica e l'altra, la preside impartiva alla ragazza indicazioni sugli alimenti da riporre all'interno di un sacchetto da portare nella loro abitazione.

"Questo me lo voglio portare a casa, questi me li voglio portare a casa ... poi mettiamo da parte... poi vediamo cosa c'è qui ... li esci e li metti qui sopra...", si sente nell’intercettazione che risale al 15 giugno. "Il riso ... lo metti lì davanti alla cassettiera e per la cucina questo ... benissimo ... ora sistema sopra il frigorifero ... questa cosa di origano mettila pure per casa. Quelle mettile in un sacchetto che non si può scendere. Il tonno mettilo qui sotto ... poi lo portiamo a casa a Sferracavallo (la villa al mare della preside, ndr)", le altre frasi pronunciate dalla dirigente. Le parole della donna sarebbero ulteriormente riscontrate dalle videocamere piazzate dai carabinieri che la mostrano riempire delle buste di alimenti presenti nell'ufficio di presidenza.

I computer

Nell'agosto del 2022, per l'ennesima volta, furono rubati computer dall'aula magna della scuola. Un episodio denunciato sui media dalla stessa Lo Verde, che ne discuteva con il vicepreside. I due, non sapendo di essere intercettati, si rallegravano perché il furto aveva portato contributi alla scuola. "Per un cornuto, un cornuto e mezzo – diceva Agosto alla preside – ci stanno arrivando soldi da tutte le parti!".

E la dirigente rivendicava il merito di aver reso pubblica la notizia"proprio al fine di cavalcare l'onda, pubblicizzare ancora di più il suo personaggio di preside integerrima, in prima linea, e ottenere attestazioni di stima, solidarietà, ma soprattutto soldi e aiuti economici dalle istituzioni", ha commentato il gip. Il sindaco di Palermo, attraverso la Fondazione Sicilia, dopo i fatti assegnò all'istituto un contributo di circa tremila euro per riacquistare le attrezzature rubate.

Il ruolo dell’ex docente dell’istituto “Falcone”

L'inchiesta è nata dalla denuncia ai carabinieri di una ex insegnante dell'istituto che ha raccontato agli inquirenti di una "gestione dispotica della cosa pubblica da parte dell'indagata", ha scritto il gip, gestione che era impossibile contrastare salvo correre il rischio di ritorsioni. L'insegnante ha descritto la dirigente come "avvezza alla violazione delle regole": da quelle sull'emergenza sanitaria a quelle dei finanziamenti europei.

Gli indagati avrebbero attestato falsamente la presenza degli alunni all'interno della scuola anche in orari extracurriculari per giustificare l'esistenza di progetti Pon di fatto mai realizzati o realizzati solo in parte, nella considerazione che la mancata partecipazione degli studenti avrebbe inciso in maniera direttamente proporzionale sulla quota parte dei fondi destinati per ciascun Pon alla dirigenza.

Oltre al cibo delle mense scolastiche la preside si sarebbe appropriata di computer e tablet acquistati con i fondi europei per la scuola. In un’altra intercettazione Lo Verde parla sempre con la figlia: "Che è un nuovo Mac?", chiedeva la ragazza alla donna. "Sì ora ce lo portiamo a casa", rispondeva la madre. "Anche in questo caso, così come già evidenziato in relazione agli iPad – si legge nella misura cautelare – la genuinità delle conversazioni registrate fugavano ogni ragionevole dubbio sulle reali intenzioni della preside in ordine al nuovo Mac".

"Questo prendilo per casa". Le intercettazioni choc della preside "antimafia". Rubava da scuola i generi alimentari destinati agli alunni ma si appropriava anche di tablet e cellulati: fermata Daniela Lo Verde, Cavaliere della Repubblica. Francesca Galici il 21 Aprile 2023 su Il Giornale.

Daniela Lo Verde è una dirigente scolastica piuttosto nota a Palermo, dove lavora presso l'istituto Giovanni Falcone nel quartiere Zen della città, uno dei più degradati e difficili del capoluogo siciliano. Proprio per il suo impegno come "preside di frontiera" e contro le organizzazioni mafiose che da queste parti la fanno da padrona, nel 2020 ha ricevuto l’onorificenza come Cavaliere della Repubblica da parte di Sergio Mattarella. Ma in queste ore è salita al centro della ribalta e non per i suoi meriti ma perché è stata arrestata con l'accusa di aver sottratto beni alimentari e non solo acquistati con i fondi europei.

A svolgere le indagini sono stati i carabinieri, che nell'ambito dell'indagine denominata "La Coscienza di Zen-O", iniziata nel 2022 e coordinata dalla procura europea, hanno piazzato telecamere e cimici all'interno del suo ufficio scolastico, smascherando in questo modo gli "interessi illeciti" che pare fossero radicati all'interno dell'istituto comprensivo. Tutto sarebbe iniziato dalla denuncia di una docente, che ha rotto il muro di omertà rivelando i metodi della preside. Nelle immagini raccolte dai carabinieri, infatti, la donna viene ripresa mentre fa vere e proprie razzie dalla mensa scolastica ma non solo, perché pare abbia preso anche tablet e computer destinati agli studenti dell'istituto. Per questo motivo l'accusa per lei, e per il suo vice, è di corruzione e peculato. Per entrambe, il gip ha disposto la misura degli arresti domiciliari, giustificata all'interno di un quadro probatorio "chiaro, del tutto inequivocabile e imbarazzante".

La preside avrebbe tenuto una condotta spregiudicata, votata al perseguimento di meri interessi personali e non a quelli della comunità scolastica della quale è responsabile. Insieme alla preside e alla vicepreside è stata notificata l'ordinanza di arresto, sempre ai domiciliari, anche a una terza persona estranea al mondo scolastico. Si tratta della dipendente di un negozio di informatica che in cambio delle forniture di dispositivi alla scuola in via diretta e in esclusiva avrebbe offerto in cambio alle due coordinatrici scolastiche dispositivi elettronici come tablet e cellulari.

Le conversazioni che emergono dalle intercettazioni effettuate dalle forze dell'ordine sono inquietanti. "Il riso lo metti lì davanti alla cassettiera e per la cucina questo... Benissimo... Ora sistema sopra il frigorifero... Questa cosa di origano mettila pure per casa", diceva Daniela Lo Verde alla figlia, non sapendo di essere ascoltata dai carabinieri. E ancora: "Quelle mettile in un sacchetto che non si può scendere. Il tonno mettilo qui sotto... Poi lo portiamo a casa a Sferracavallo". Sferracavallo è la località marittima nella quale la preside ha una casa vacanze. In un'altra intercettazione, la preside e il suo vice commentavano l'ondata di generosità generata dalla rivelazione sui media di un furto avvenuto di pc all'interno della scuola: "Per un cornuto un cornuto e mezzo ci stanno arrivando soldi da tutte le parti". Lo stesso Comune, venuto a sapere del furto, stanziò 3mila euro per la scuola.

 Preside "antimafia", Cavaliere della Repubblica: chi è Daniela Lo Verde. Questa mattina è stata arrestata Daniela Lo Verde, preside palermitana, divenuta qualche anno fa un'icona della lotta alla mafia. Dalle indagini sarebbe emerso che la donna rubava cibo dalla mensa, tablet e telefonini destinati ai ragazzi meno fortunati dello Zen. Emanuele Fragasso il 21 Aprile 2023 su Il Giornale.

Daniela Lo Verde, arrestata questa mattina con le pesanti accuse di peculato e corruzione, è la dirigente scolastica della scuola Giovanni Falcone dello Zen di Palermo. Fino a ieri era considerata la “preside antimafia”, che ogni giorno - assieme al suo corpo docenti - si batteva contro la sempre più presente dispersione scolastica e l'analfabetismo in una delle zone più pericolose del capoluogo siciliano. Oggi invece è accusata di aver sottratto beni alimentari, pc, table e smartphone acquistati con i fondi europei.

Famosa durante la pandemia

La sua battaglia è iniziata durante il primo lockdown voluto dal governo Conte, (quando molti bambini non potevano collegarsi da remoto per seguire le lezioni perché non avevano un wifi a casa) e ha avuto una eco gigantesco, arrivando addirittura all’interno delle stanze del Quirinale. Tanto da convincere nel giugno del 2020 il presidente Sergio Mattarella a nominare Lo Verde Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. La donna, sempre nei primi mesi di pandemia, lanciò una raccolta fondi utilizzando anche il conto corrente della scuola per mettere a disposizione delle famiglie degli alunni più bisognosi dei buoni spesa. “La nostra scuola scende in campo per venire incontro alle famiglie disagiate che vivono nel quartiere promuovendo una raccolta fondi che servirà ad acquistare una spesa solidale – scriveva due anni la la preside Daniela Lo Verde su Facebook - Stamattina abbiamo dato i primi buoni. Ho pianto vedendo le foto dei miei alunni con la spesa. Non potevamo proporre lezioni, raccontare favole con le tavole vuote. La mia idea di scuola è quella di essere una comunità. In questi giorni ho ascoltato mamme disperate. Mai ho toccato con mano così tanta povertà”.

La scuola trasformata in un hub vaccinale

Sempre durante l'emergenza Covid-19 la dirigente scolastica trasformò per tre volte il plesso della scuola Falcone in un hub vaccinale, l'ultima volta fu nel gennaio del 2022. “Siamo in overbooking, dovranno mandare più personale di quanto previsto inizialmente - diceva Daniela Lo Verde pochi giorni prima del ritorno a scuola in presenza -. Il tempo non basta mai per ascoltare le esigenze di tutti. Però ne vale la pena e facciamo il possibile per evitare di tenere chiusa la scuola. Certo - lamentava la preside - se ci consegnassero le mascherine Ffp2 che aspettiamo da inizio anno”.

Si definiva una preside di frontiera

Quest'anno la dirigente scolastica ha iniziato il suo decimo anno alla guida dell’istituto comprensivo statale Giovanni Falcone che si trova in via Marchese Pensabene una delle principali piazze di spaccio di Palermo. La donna, non molto tempo fa aveva sostenuto di aver scelto di restare allo Zen per provare a trasformare la scuola in un vero e proprio punto di riferimento per i giovani del quartiere. “Nelle scuole di frontiera - aveva dichiarato Daniela Lo Verde due mesi fa - la figura stabile del dirigente è spesso l'unico presidio e punto di riferimento del territorio Quello che proviamo a fare è essere dei modelli per loro, accoglierli e provare a indirizzarli verso nuove prospettive di vita, anche alla scoperta di passioni o talenti che spesso hanno ma che non sanno neanche di avere. La scuola li deve mettere nella condizione di poter scegliere”.

 Che ridere la star dell’antimafia beccata con le mani nel barattolo. La procura ue fa arrestare la preside antimafia dello Zen 2 di Palermo: “Rubati cibo, tablet e tv”.  Max Del Papa su nicolaporro.it il 21 Aprile 2023

L’intuizione di Sciascia sui professionisti dell’antimafia era un po’ indulgente e un po’ omertosa: se l’antimafia la bazzichi o anche solo la sfiori, capisci presto essere faccenda più complicata, più massonica. Già è tutta roba di sinistra, con alcune pietose infiltrazioni della destra opportunista o subalterna; fatto è che lì dentro, nell’antimafia professionale o amatoriale, sono smanettoni tutti, santi laici o in tonaca, chi su scala industriale, esistenziale, chi in modi anche patetici, tipo le zitelle della mensa dei poveri che si tengono per sé le scatolette ancora buone e ai poveri, ai “negri” danno quelle scadute.

Lo stesso faceva la professoressa antimafia Daniela Lo Verde, preside della scuola antimafia Giovanni Falcone nel cuore del quartiere Zen palermitano, cuore della mafia antimafiosa e dell’antimafia mafiosa. La preside Daniela, conosciuta per le battaglie antimafia, per le roboanti dichiarazioni antimafia, sempre le solite, non abbassare la guardia, tenere alta la testa, si era guadagnata le onorificenze presidenziali, perbacco, ed è finita ai domiciliari con accuse di corruzione. Fermo restando il garantismo, si tratta di una corruzione imbarazzante, quasi straziante: avrebbe usato la sua scuola antimafia come ufficio doganale per farvi transitare il ben di Dio consumistico, apparecchi, dispositivi, elettrodomestici ma pure generi di consumo, derrate, perfino le birre che, come tutti sanno, fanno parte della mensa degli scolari elementari. Niente di lasciato al caso: c’era un trust, un accordo con un negozio di elettronica, facevano la sparta: la roba arrivava, a grandi ordinativi, e la preside con i collaboratori la vagliava, questo lo prendiamo subito, questo lo vediamo dopo, e, si faceva recapitare il meglio a casa. Una preside antimafia, ma soprattutto Amazon.

Per non abbassare la guardia, non la abbassava mai, almeno secondo i carabinieri che la sorvegliavano; le intercettazioni sono irresistibili, da episodio di Montalbano: dopo un furto a scuola, opportunamente cavalcato, tutti a festeggiare, anche il vicepreside, pure lui arrestato, che in un filmato si porta via i computer: “Into u culu, a curnutu, curnutu e mezzo, accà arrivano soldi da tutte le parti“. La brava gente antimafiosa di Palermo si impietosiva agli accorati appelli della preside Daniela e versava. Così vanno le cose nelle scuole “di frontiera”, secondo retorica moralistica e legalitaria, dei quartieri mafiosi nelle città mafiose. Ma non solo in quelli, attenzione.

L’intuizione di Sciascia era in fondo tenera, comprensiva perché non diceva ciò che un intellettuale siciliano, di sinistra, antimafioso non può dire, non può ammettere: che così fan tutti, che nell’antimafia dei virtuosi rubacchiare o anche rubare a man salva è considerato normale anzi scontato, un benefit, quasi un risarcimento per una vita di frontiera a tenere alta la testa, a non abbassare la guardia. Ih, che sarà mai, fesserie, qui noi rischiamo la pelle. C’è molto di estremo, di san Sebastiano nell’antimafia retorica e occasionalmente ladra e la mistica del sacrificio, della bomba immaginaria ma che può arrivare ad ogni momento, è fondativa e non dispensabile, è la retorica del Bene che tutto giustifica e tutto tiene su e tiene insieme.

Chi scrive ha partecipato alle decine di convegni antimafiosi, con le star dell’antimafia giornalistica, politica, religiosa e soprattutto giudiziaria che dietro ai sorrisi si scambiavano allusioni e velate minacce da cosca, certi veleni, certi odii spietati, certo “sparliu”, come chiamano in Sicilia il pettegolezzo mafioso, da fare impallidire u Zu Totò, detto u curtu. E certi protagonismi da annichilire la più spietata delle influencer. Tutto un turbinio, un carosello di scorte, a tutti anche a chi come me non c’entrava una beata minchia e nessuno lo conosceva, ma il circo dell’antimafia si muove in carovana e bisogna sorvegliare tutti. Poi è coreografico, quando arriva l’arnata del bene, che non abbassa la testa, è come il gran premio di Montecarlo, le città prese in ostaggio, fate largo, passa l’antimafia antibiotica. E i parenti delle vittime che ne hanno fatto un mestiere, che passano dalla macarena al pianto retrospettivo appena spunta una telecamera, anche se sono passati cinquant’anni, e poi tornano al balletto e al banchetto. Perché non c’è antimafia senza mangiata catartica e volendo allegorica nel migliore ristorante cittadino, sequestrato e blindato.

Una volta mi diedero anche un premio. Prima la madrina, davanti alla Cosenza infestata dalle ndrine mi prendeva da parte, mi raccomando risparmiaci le tue sparate che qui dobbiamo andare d’accordo con tutti, e per tutti intendeva proprio tutti e io capivo. Poi faceva il suo numero sulla mafia che cresce sul nepotismo e sulle raccomandazioni, ma poco dopo, a cena, mi chiedeva un occhio di riguardo per il figlio aspirante musicista, visto che scrivevo su un giornale musicale. E l’altro, il ragazzino con la sciarpetta di seta e i capelli assassini, da scuotere ogni momento, per la beatitudine delle scolaresche sognanti cui buttava là con nonchalance improbabili storie di minacce, di cannoli recapitati non si capiva da chi, mentre seduto al mio fianco il sindaco antimafioso di Gela, Rosario Crocetta, bofonchiava, che camurria st’antimafia dei pannolini. Poi anche Crocetta è finito nei guai, guai antimafiosi ma lui li attribuiva a non so che sofisticati complotti per farlo fuori, l’altro invece ha ottenuto un posticino alla Rai comunista, tendenza Santoro e non ne ho saputo più niente.

Adesso per lo Zen è inutile chiedere in giro, nessuno ha visto, ha sentito, giusto uno, i capelli tinti e la faccia, non proprio rassicurante ma ammiccante sì, sorrideva sotto il baffetto siculo: la preside qui ha fatto solo del bene, eh eh. E certo. Gli altri filano via neanche gli avessero preso il superboss, occhi bassi, scatti di spastico fastidio verso quei cornuti di giornalisti che arrivano dal continente a scassare i cabasisi. Ma c’è da capirli: brava gente antimafia allo Zen, ma la legge nell’antimafia mafiosa resta la stessa: ciascuno si faccia i fatti suoi. E se la trasgredisci ti può succedere qualcosa di peggio che un avviso di garanzia, un’ordinanza per gli arresti domiciliari. Max Del Papa, 21 aprile 2023

Palermo, arrestata la preside antimafia dello Zen: è accusata di corruzione e peculato. Nel 2020 la dirigente scolastica fu nominata cavaliere del lavoro dal Quirinale per il suo impegno durante la difficile fase del Covid nel quartiere popolare della città palermitana. Il Dubbio il 21 aprile 2023

Peculato e corruzione: è questa l'ipotesi di reato per cui carabinieri hanno eseguito la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti della preside Daniela Lo Verde, dell'istituto compressivo "Giovanni Falcone", allo Zen di Palermo, cavaliere al merito della Repubblica, del vicepreside e da un professionista privato.

Il provvedimento è stato disposto dal gip di Palermo su richiesta formulata dai procuratori europei delegati Calogero Ferrara e Amelia Luise, dell'European Public Prosecutor's Office (Eppo) di Palermo. Secondo quanto emerso dalle indagini svolte, tra febbraio 2022 fino a pochi giorni fa dal Nucleo investigativo dei carabinieri, sarebbe stata accertata l'esistenza un unitario centro di interessi illeciti, formato dagli indagati che, in concorso fra loro, si sarebbero resi responsabili dei reati ipotizzati, afferenti alla gestione dei fondi di spesa pubblici, sia nazionali che europei, nell'ambito di vari progetti scolastici.

In particolare, i dirigenti scolastici, in forza del loro ruolo di pubblico ufficiale, «in maniera spregiudicata e per accaparrarsi i cospicui finanziamenti comunitari connessi», avrebbero attestato falsamente le presenza degli alunni all'interno della scuola anche in orari extracurriculari. Questo per «giustificare l'esistenza di progetti Pon di fatto mai realizzati o realizzati solo in parte, nella considerazione che la mancata partecipazione degli studenti avrebbe inciso in maniera direttamente proporzionale sulla quota parte dei fondi destinati per ciascun Pon alla Dirigenza».

Gli approfondimenti investigativi avrebbero messo in luce una gestione illecita «anche per per procedure di acquisto e fornitura di generi alimentari per il servizio di mensa della scuola», e materiale informatico come tablet, Pc, e Iphone comprati con fondi europei e destinati agli alunni. Nell'ufficio di presidenza era così custodita una ingente quantità di generi alimentari e di costosi dispositivi informatici destinati agli studenti, che sarebbero stati prelevati dalla preside e dal suo vice Daniele Agosta - anche lui ai domiciliari, come la dipendente della R-Store, ditta che commercializza materiale informatico, Alessandra Conigliaro - per «proprie ed esclusive necessità».

Le indagini avrebbero permesso di verificare come la dirigenza dell'istituto avrebbe affidato stabilmente, contro le norme, la fornitura di materiale tecnologico a una sola azienda in forza di un accordo corruttivo volto all'affidamento di ulteriori e importanti commesse in cambio di molteplici illecite dazioni di strumenti tecnologici di ultima generazione. «Le condotte poste in essere dai due pubblici ufficiali - affermano gli inquirenti - risultano particolarmente gravi alla luce della loro completa adesione a logiche di condotta meramente utilitaristica, della strumentalizzazione dell'azione amministrativa e dalla vocazione a ritenere la pubblica amministrazione come un pozzo dal quale attingere costantemente qualsivoglia utilità, dagli strumenti tecnologici di ultima generazione ai generi alimentari».

Ad aggravare il quadro, per come emerge dal provvedimento cautelare, la dirigente «ha costantemente alimentato la propria immagine pubblica di promotrice della legalità nonostante il quotidiano agire illegale e la costante attenzione ai risvolti economici della sua azione amministrativa». Nel 2020 la dirigente scolastica fu nominata cavaliere del lavoro dal Quirinale per il suo impegno durante la difficile fase del Covid in un quartiere, quello dello Zen, tradizionalmente complesso.

La preside arrestata, altra figuraccia dei falsi paladini dell'antimafia siciliana. FRANCESCO VIVIANO su Il Quotidiano del Sud il 24 Aprile 2023

Preside siciliana arrestata con le accuse a vario titolo di peculato, altro brutto caso di chi usa per propri interessi l’antimafia

«Minchia, la preside che ruba, che schifo. Diteci che non è vero! Doveva essere un esempio per i nostri figli. È una cosa che fa troppo male, troppa rabbia. Già siamo un quartiere che finisce sui giornali per le retate di droga, per la mafia, ora perdiamo pure la preside perché ha rubato. A chi dobbiamo credere?».

Questi i commenti i genitori e di giovani dello Zen 2 di Palermo, un quartiere ad alto rischio, alla notizia che la Preside della Scuola intitolata al giudice Giovanni Falcone, Daniela Lo Verde, il vice preside, Daniele Agosta ed una commerciante sono arrestati per una serie di reati, dal furto di generi alimentari, computer e tablet, acquistati con fondi europei che invece di essere destinati agli alunni della scuola molti figli di famiglie indigenti, finivano invece nelle loro case e nelle loro cucine.

Ma ci sono anche una decina tra insegnanti ed operatori scolastici indagati il che dimostra (come testimoniano i filmati e le intercettazioni dei carabinieri) che in quella scuola c’era un vero e proprio “magna magna”. Molti dunque sapevano di quello scandaloso modo di fare e di gestire. Lo sconcerto provocato è stato davvero enorme soprattutto in quel quartiere dove il degrado e la criminalità la fanno da padrona.

Lo sconcerto principale è soprattutto per la Preside soprannominata “Preside Coraggio” per la sua attività di insegnante in quel quartiere, insignita anche come “Cavaliere del lavoro” dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Insomma un vero e proprio schifo che dimostra, purtroppo, ancora una volta, come certi personaggi che si spacciavano come antimafiosi e che ricoprivano ruoli importanti nella politica, nella giustizia, nell’imprenditoria, nel giornalismo che avevano fatto carriera e molti continuano a farla, erano e sono in realtà dei pataccari che sfruttando i loro ruoli, soprattutto di antimafiosi, hanno ingannato migliaia e migliaia persone, facendo i loro personali interessi, anche di natura economica e politica.

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per corriere.it il 24 aprile 2023.

Gli inquirenti lo citano come esempio della spregiudicatezza dell’indagata, la preside antimafia della scuola Falcone di Palermo Daniela Lo Verde, arrestata venerdì per peculato e corruzione. A svelare l’ultimo risvolto dell’inchiesta della Procura Europea è l’intercettazione di una conversazione tra la dirigente e il suo vice, pure lui ai domiciliari con le stesse accuse.

Ad agosto scorso nella mensa dei ragazzi, razziata dalla Lo Verde che rubava e portava via dall’origano, all’acqua, al tonno e alle patatine, mancava il burro. La soluzione la trova una delle collaboratrici della preside che trova un panetto nuovo nel frigo della preside, dove finivano tutte le derrate alimentari che la donna poi trasferiva a casa sua. Incurante che l’alimento fosse scaduto, prima pensa di servirlo ai bambini aperto, in modo che le docenti non coinvolte nei raggiri non se ne accorgessero, poi ha un’idea migliore: cancellare la scadenza.

«A posto, non c’è più», rivela la bidella a un’altra persona ancora non identificata, non sapendo di essere intercettata. Della cosa viene informata la Lo Verde che ci ride su. E al telefono dice ad Agosta: «Gli abbiamo cancellato la data di scadenza al burro». «Vi denunciano», commenta ridendo Agosta. «Secondo me pure», risponde sghignazzando la dirigente.  

[…]

PRESIDE SICILIANA ARRESTATA, ENNESIMA FIGURACCIA DELL’ANTIMAFIA SICILIANA

E questo deve farci riflettere molto, soprattutto chi indica e suggerisce certi personaggi a cariche ed onorificenze importanti. E, purtroppo in Sicilia, ma non solo, gli esempi negativi non mancano. Basta ricordare i recentissimi casi di “paladini dell’ Antimafia” finiti, non soltanto nella polvere ma arrestati e condannati. Alcuni nomi per tutti, Antonello Montante, ex presidente di Confindustria, arrestato, processato e condannato per una serie di reati, la Presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto che decideva di patrimoni milionari fatti gestire agli amici ed agli amici degli amici finita sotto processo e condannata in primo e secondo grado ed in attesa della pronuncia della Cassazione.

Ma ce ne sono ancora tanti altri e tra questi anche alcuni giornalisti, sfiorati fino, ad ora, dall’inchieste dell’ Antimafia Regionale, fino ad alcuni mesi fa guidata dal bravo Claudio Fava, che hanno fatto carriera saltando sul carro dell’antimafia.

Le ultime due chicche quella del Gip di Latina, Giorgia Castriota che in cambio di denaro ed altri benefit è stata arrestata perché affidava consulenze ed incarichi ad amici e conoscenti ed per ultimo la Preside Daniela Lo Verde della scuola “Giovanni Falcone” dello Zen di Palermo. Una inchiesta, quest’ultima che come rivelano le intercettazioni ed i filmati dei carabinieri, gestiva i fondi europei, per dirla in maniera gentile, molto allegramente. “Ma a cosa ci servono tutti questi computer (comprati con i fondi europei e destinati agli studenti ndr) chiedeva il vice preside Daniele Agosta al suo preside Daniela Lo Verde. E lei:”ora vediamo”.

Computer ma anche generi alimentari che invece finivano prima nel bagagliaio della Preside che piazzava la sua auto all’interno del recinto scolastico (perché i pacchi erano tanti ed a volte anche pesanti ndr) e poi a casa sua, nella sua cucina. Generi che comprendevano anche origano, lattine di pelati, birra ed altro. E la Preside Daniela Lo Verde, nonostante nel settembre scorso aveva ricevuto un avviso di proroga delle indagini, aveva continuato nella sua attività come se nulla fosse. Pensava, la Preside che l’inchiesta riguardava alcuni corsi di formazione, sempre finanziati con fondi europei, corsi mai effettuati che erano soltanto sulla carta, falsa naturalmente.

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Il Dossieraggio.

Il Prefetto Mori.

Il Pool Antimafia.

La Commissione Antimafia.

Gli Antimafiosi.

La Chiesa.

Le Associazioni Antimafia.

Il Dossieraggio.

Il dossier. Spionaggio antimafia: perché chiunque può cadere nella rete. Politici spiati, quei dati provenienti dal sistema bancario che ha l’obbligo di segnalare le “operazioni sospette” aggravano le responsabilità di chi ha messo insieme quei dossier. Iuri Maria Prado su L'Unità il 4 Agosto 2023

Ci sarebbe nuovamente il sigillo antimafia, la patacca buona a giustificare ogni sorta di abuso, sulle operazioni di dossieraggio con cui alcuni pubblici ufficiali avrebbero raccolto dati relativi alle attività di politici e imprenditori, puntualmente finiti sui giornali. Ieri le prime cronache riferivano che gli episodi di divulgazione di quei dati sui mezzi di informazione erano “pochi”: come se dovesse tranquillizzare il fatto che la bava velenosa di un’attività di spionaggio in seno all’amministrazione pubblica, e prodotta da appartenenti alla stessa amministrazione pubblica (non da banditi intrufolati), ha contaminato dopotutto solo in qualche occasione (mica tutti i giorni!) il circuito dell’informazione italiana.

Il fatto che questi dati provenissero dal sistema bancario – che ha l’obbligo di segnalare alle autorità competenti, tra cui quelle “antimafia”, la presenza di “operazioni sospette” – aggrava anziché attenuare la responsabilità di chi ha messo insieme quei dossier giunti inopinatamente (si fa per dire) nelle redazioni del glorioso giornalismo d’inchiesta: così come, appunto, peggio semmai ci si sente quando si apprende che la cosa avveniva a spizzichi e bocconi, secondo il tipico protocollo mafioso della delazione anonima a puntate. Ma diciamo immediatamente che le indagini della Procura perugina, che per ora sarebbero a carico di un unico funzionario (il quale respinge gli addebiti), non potranno rendere ragione di un sistema che se non è preordinato alla commissione di simili abusi certamente li rende possibili.

Varrà la pena di ricordare che è eseguito in nome della trasparenza antimafia il rastrellamento giudiziario di trecentocinquanta persone che coinvolge il responsabile dell’estorsione di un cabarè di pasticcini. Sarà bene tenere a mente che è disposto in nome della trasparenza antimafia il sequestro dell’azienda perché il cugino del titolare è stato visto a un party col pregiudicato. Sarà il caso di non dimenticare che è ordinato in nome della trasparenza antimafia l’arresto del medico settantenne che ha prescritto un farmaco per la cura del cancro di un boss.

E bisogna ficcarsi in testa che è tessuta in nome dell’antimafia la rete di leggi e adempimenti e filtri e dispositivi che un qualsiasi funzionario disinvolto è in grado di dispiegare quando vuole, come vuole, dove vuole per farci cadere dentro pressoché chiunque: perché c’è posto per la responsabilità di chiunque nel sistema antimafia che pretende di scovare il crimine nell’incarto delle pasterelle e nelle frequentazioni del prozio del pizzicagnolo dell’intercettato.

Ma qui – per il soprammercato di una tigna liberale indiscutibilmente deplorevole, perché rivolta alla tutela dei potenti di cui notoriamente si fa ventriloquo il garantismo peloso – qui c’è da denunciare la piega particolarmente allarmante di quest’ultima ipotesi (chiamiamola ipotesi, per ora) di interferenza dello spionaggio antimafia: e cioè che la faccenda riguarda esponenti politici.

Che saranno anche tutti mascalzoni, secondo il criterio cingolato dell’onestà giudiziaria, ma ancora costituiscono un residuo dell’organizzazione democratico-rappresentativa formalizzata in quest’altro residuato, la Costituzione della Repubblica, secondo cui la sovranità non appartiene né ai militari della Guardia di Finanza né e pubblici ministeri. E quelli, gli orrendi politici, rappresentano un presidio in ogni caso più affidabile (anche perché revocabile) rispetto al potere in divisa o in toga (è uguale) che assembla e distribuisce veline. Iuri Maria Prado 4 Agosto 2023

Il Prefetto Mori.

Il Prefetto di ferro. Chi era Cesare Mori, il prefetto voluto da Mussolini per combattere la mafia. Aveva ben chiaro che la sua azione si prestava a fini di presunto ristabilimento dell’ordine al prezzo di violazioni e ingiustizie anche più gravi rispetto a quelle che avrebbe dovuto reprimere. Iuri Maria Prado su L'Unità il 3 Agosto 2023

Almeno Cesare Mori, il “Prefetto di Ferro” che per stanare i mafiosi ne prendeva in ostaggio i figli e le mogli, e per “spezzare i legami” tra il territorio e i vertici criminali torturava i pastori e i contadini al servizio dei “patruna”(i padroni), aveva ben chiaro che la sua azione si prestava a fini di presunto ristabilimento dell’ordine al prezzo di violazioni e ingiustizie anche più gravi rispetto a quelle che avrebbe dovuto reprimere.

Agiva con convinzione sul mandato del capo del governo, Benito Mussolini, che lo incaricava di debellare (“cauterizzare”, scrisse il Duce) “se necessario anche col ferro e col fuoco la piaga della delinquenza siciliana”: ma nelle sue memorie avrebbe annotato che la “qualifica di mafioso viene spesso usata in malafede… come mezzo per compiere vendette, per sfogare rancori, abbattere avversari”, e avrebbe constatato nei processi che seguirono ai suoi rastrellamenti come quell’azione antimafia, in aula di giustizia, si prestasse spesso a simili deviazioni.

Si compiaceva delle celebrazioni che gli tributava il notabilato locale del Partito Nazionale Fascista, il quale descriveva i trionfi del “Grande Prefetto” che “con ferro rovente sta epurando tutte le zone infette dalla organizzazioni delittuose”: ma era l’orgoglio del funzionario di polizia che vede riconosciuto il proprio lavoro esecutivo, in una parola era la soddisfazione del soldato per la medaglia ottenuta sul campo, un atteggiamento molto diverso rispetto al misticismo giustiziere della magistratura repubblicana che non solo giustifica, ma addirittura rivendica, la “fisiologia” di una giurisdizione che per trionfare sul delitto sbatte in galera un po’ di innocenti.

Le cronache sugli assedi dei villaggi nelle montagne siciliane degli anni Venti sono quasi identiche, nella retorica, ai sociologismi delle ordinanze che un secolo dopo calano la propria giustizia sul territorio infetto, l’opera di pulizia che a cerchi concentrici lambisce il milieu mafioso e prende dentro quel che serve, il fratello, la madre, l’amante, il commercialista, il medico, il salumaio, chiunque insomma “oggettivamente” favorisca la vita e gli affari del mafioso: ma almeno quelli erano romanzieri di regime, non estensori di provvedimenti giudiziari scritti in nome del popolo italiano, e non si intrattenevano sulle genetizzate attitudini criminali di una intera popolazione regionale, la malacarne da rieducare al ripudio del parente, alle liturgie del pentimento delatorio e all’inchino davanti alla maestà del procuratore antimafia.

Soprattutto, l’antimafia fascista, per quanto condotta in quel modo brutale e indiscriminato, non si esercitava nella pratica legislativa e giurisprudenziale che in epoca repubblicana e “democratica” avrebbe invece eternato il potere del magistrato di fare ciò che vuole, arrestare chi vuole, perseguitare chi vuole solo che il nome sospetto, le frequentazioni, la carriera professionale, le cuginanze, le partite di calcetto, gli acquisti al supermercato, i sussurri della sua vittima trovino spazio nei reati-voragine della Repubblica delle Procure. E almeno, oltretutto, l’inciviltà dell’antimafia fascista non aveva corso – come invece l’attuale – in presenza di una Costituzione che non dovrebbe consentire certi abusi. Iuri Maria Prado 3 Agosto 2023

Il Pool Antimafia.

C'era una volta il pool antimafia, Leonardo Guarnotta e una vita nel bunker. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 18 luglio 2023

Qui si racconta non soltanto cosa è stato per l’Italia il pool antimafia di Palermo, ma fra le pagine viene svelato anche un backstage denso di sentimenti e di emozioni. Un “dietro le quinte” fatto di piccoli gesti, di parole, di paure. E di riti. Come la solita frase con la quale Falcone lo salutava la sera a fine lavoro...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Lì dentro c’era l’“altra” Palermo, quella che non faceva puzza di morte e di mafia, quella lontana dai labirinti dove i poteri s’incastravano uno con l’altro fino a confondersi. Dove le Eccellenze e i Commendatori a volte avevano lo stesso sguardo famelico dei malacarne che s'incrociavano a Santa Maria del Gesù o ai Danisinni, alla Vergine Maria, alla Cala. La città che si mischiava nella sua sporcizia.

Il bunker, così buio e tetro, sembrava un luogo sicuro. Nonostante quei fucili mitragliatori che imbracciavano i ragazzi delle scorte. E poi c’erano loro, in carne e ossa, veri, C’era Angelo Crispino, maresciallo della Guardia di Finanza, un sorriso enigmatico e insieme affettuoso, una parete di legno e dietro la parete i segreti finanziari della Sicilia, conti, numeri, prestanome, denaro che passava dalle mani di un mafioso a quelle di un galantuomo.

E poi c’era anche Paparcuri, Giovanni, che era l’autista saltato in aria il 29 luglio del 1983 con il consigliere Rocco Chinnici ma che ‒ inabile alla guida per i burocrati del Ministero ‒ era diventato abilissimo nel maneggiare i primi computer. Il cervello informatico del pool. E poi, ancora poi, il confine con i giudici. Giuseppe Di Lello. Paolo Borsellino. Giovanni Falcone. E lui, Leonardo Guarnotta.

Da oggi sul nostro Blog Mafie pubblichiamo alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore. Qui si racconta non soltanto cosa è stato per l’Italia il pool antimafia di Palermo, ma fra le pagine viene svelato anche un backstage denso di sentimenti e di emozioni. Un “dietro le quinte” fatto di piccoli gesti, di parole, di paure. E di riti. Come la solita frase con la quale Falcone lo salutava la sera a fine lavoro, prima di oltrepassare al contrario la porta blindata e un po’ scrostata che delimitava la frontiera con il resto di Palermo: “Leonardo, guarda che si è fatto tardi ...togliamo il disturbo allo Stato”.

Il disturbo allo Stato. Ironia e profezia.

ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA

La telefonata che cambia per sempre la vita del giudice Leonardo Guarnotta. LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 18 luglio 2023

Correva il mese di aprile del 1984. Mi trovo nel mio ufficio quando squilla il telefono, alzo la cornetta e, dall’altro capo del filo, sento la voce inconfondibile del nostro consigliere, il quale, senza tanti preamboli, chiede la mia disponibilità a entrare a far parte, insieme a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, del pool antimafia già formalmente costituito nel mese di novembre 1983

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

La luce, io mi ricordo la luce: non mi piaceva.

E non mi piaceva nemmeno quello che già a quel tempo, loro, chiamavano “bunkerino”, una fortezza di piccole dimensioni dentro quel palazzo maestoso che era il Tribunale di Palermo. Ma era la luce che mi rendeva perplesso.

Accesa fin dalle prime ore del mattino, luce di lampade, luce di neon. Perché le loro stanze, quelle di Giovanni e di Paolo, davano sul cortile interno e, nonostante la presenza di grandi finestre, il sole là sotto sembrava che proprio non ci volesse arrivare.

Quando andavo a trovare i miei due colleghi, ogni volta ponevo la stessa domanda: “Ma come fate, come fate a stare rinchiusi qui senza intristirvi, senza la luce del giorno, sempre con quelle lampade accese”.

Non mi rispondevano, alzavano lo sguardo e sorridevano con gli occhi, senza dirmi nulla. Solo una mattina uno di loro, non ricordo se fosse Falcone o se fosse Borsellino, ma credo Paolo perché rispose in dialetto siculo, con il quale amava esprimersi: «Sì, vabbè, poi m’a sai cuntare», poi me la saprai raccontare. Non capii l’allusione.

L’ho capita molto tempo dopo, quando ricevetti dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto la telefonata che mi ha cambiato la vita. Poi me la saprai raccontare... E in effetti, passati quasi quarant’anni, qualcosa da raccontare ce l’ho.

Voglio però fare subito un piccolo passo indietro.

Prima della telefonata di Caponnetto, ne avevo ricevuto un’altra di telefonata, quella del consigliere aggiunto Marcantonio Motisi che mi chiedeva di fare parte di un pool che si sarebbe occupato di indagini relative ai reati contro la pubblica amministrazione, che in realtà non fu mai costituito. Ma la cosa a me non interessava. Con tutto il garbo dovuto, senza avere ancora la più lontana idea che mi sarebbe stata richiesta dal consigliere Caponnetto la disponibilità a fare parte del pool antimafia, ringraziai Motisi per la stima e la considerazione nei confronti della mia persona e rifiutai l’opportunità datami, spiegandone i motivi.

Qualche tempo dopo, Motisi affermò che la causa del mio rifiuto risiedeva nel fatto che avevo considerato quell’offerta un “delitto di lesa maestà”, perché volevo occuparmi solo di mafia. Non era vero, volevo occuparmi di tante altre tipologie di reati e non specializzarmi su quelle relative alla pubblica amministrazione.

Poi venne il giorno dell’altra telefonata che finalmente mi fece capire il significato “recondito” delle parole di Giovanni e Paolo. Quella telefonata non mi ha di certo allungato la vita, come recitava una famosa pubblicità di parecchi anni fa, ma sicuramente me l’ha cambiata, e anzi, considerata la pericolosità del “lavoro” che mi attendeva se avessi accettato, in fondo, avrebbe anche potuto rendermela piena di rischi per la mia incolumità.

In quel momento dimenticai per sempre che la luce artificiale del “bunkerino” mi dava così fastidio. Perché anche io ho occupato quelle stanze (prima quella di Paolo, quando si trasferì a Marsala, poi quella di Giovanni, dopo la sua partenza per Roma) dove il sole non arrivava mai.

Cosa ricordo di quel giorno? Ricordo tutto, come se fosse ieri.

Correva il mese di aprile del 1984.

Mi trovo nel mio ufficio quando squilla il telefono, alzo la cornetta e, dall’altro capo del filo, sento la voce inconfondibile del nostro consigliere, il quale, senza tanti preamboli, chiede la mia disponibilità a entrare a far parte, insieme a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello, del pool antimafia già formalmente costituito nel mese di novembre 1983.

Mi spiega che l’inchiesta assegnata a Falcone stava lievitando, era sterminata e che, per fare fronte alla enorme mole degli atti processuali, alla complessità delle indagini e ai quotidiani impegni, era necessario dotare il pool di un altro componente, e che la sua scelta, anche dietro suggerimento di Falcone, Borsellino e Di Lello, era caduta, tra tutti gli altri giudici istruttori in servizio (pure tra coloro che vantavano maggiore anzianità di carriera e maggiore esperienza), sulla mia persona. C’era bisogno di qualcun altro che si impegnasse anima e corpo a “scalare” quella montagna di carte, di assegni, di intercettazioni, di informative, di relazioni di servizio, di vecchi rapporti giudiziari sepolti negli archivi.

Rimasi sorpreso e lusingato dalla proposta e, in verità, anche un po’ frastornato. Chiesi a Caponnetto di concedermi del tempo per decidere. Ma la cosa che mi fu subito chiara era che se avessi accettato la vita mia e della mia famiglia sarebbe cambiata per sempre. A cominciare dalla libertà.

LEONARDO GUARNOTTA

Una difficile scelta di vita in una Palermo pronta ad esplodere. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA. Il Domani il 19 luglio 2023

La città era una santabarbara pronta a esplodere. E infatti esplose. Era spaventosa Palermo in quegli anni, spaventosa. Ma proprio per questa ragione – la situazione estremamente critica in cui versava la nostra Palermo – ero anche consapevole che fosse giunto il momento di fornire il mio pur modesto contributo a quella causa comune

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Falcone, Borsellino e Di Lello avevano la scorta già da qualche anno, erano protetti giorno e notte, mentre io all’epoca arrivavo in ufficio, accompagnavo i miei figli Debora e Michele a scuola o mia moglie Lidia in giro per negozi utilizzando la nostra autovettura.

Sapevo bene che quando ti assegnano la scorta la tua vita cambia immediatamente e per molto tempo. Anche per tutta la vita lavorativa, anche quando sei ormai in pensione, come è capitato a me e a tanti colleghi.

Così mi presi qualche giorno per riflettere e ne parlai a lungo in famiglia. Non avevo la vocazione dell’eroe e sapevo perfettamente a cosa andava incontro un giudice che si fosse occupato di mafia in quel periodo a Palermo.

La città era una santabarbara pronta a esplodere. E infatti esplose. Era spaventosa Palermo in quegli anni, spaventosa.

Ma proprio per questa ragione – la situazione estremamente critica in cui versava la nostra Palermo – ero anche consapevole che fosse giunto il momento di fornire il mio pur modesto contributo a quella causa comune.

In famiglia il lungo “dibattito” lo chiuse mia moglie con una frase. Una sera, dopo cena, ritornando sull’argomento, mi guardò e con un soffio di voce mi disse: “Dall’emozione che ho colto nelle tue parole e dalla luce nel tuo sguardo, sono sicura che hai intenzione di accettare il nuovo incarico; cosa aspetti ancora, accettalo, se ritieni che sia tuo dovere, non solo come giudice ma come uomo”.

Oggi come allora sono convinto che non ci fosse altra risposta possibile. Il mio sogno, all’inizio della carriera, era di fare il giudice istruttore. E quel sogno mi stava portando dentro il pool antimafia, anche se in quel momento non mi rendevo conto di star entrando nella storia di Palermo, della Sicilia e di questo Paese. Veramente non me ne sono reso conto neanche negli anni a seguire: io volevo fare il giudice, solo il giudice. Con la toga addosso mi sono sempre sentito una persona normale. Certo, rileggendo gli avvenimenti di quella stagione, in effetti tanto normale tutta questa storia non lo è stata.

Ma si tratta di una consapevolezza che è arrivata dopo, molto dopo, con il trascorrere del tempo, ritornando con il pensiero al nostro lavoro, alle malevole critiche subite, ai tentativi di destabilizzare il pool, ma soprattutto alla sorte toccata ai colleghi che se ne sono andati, che non ci sono più.

Presa la decisione di accettare la proposta del consigliere Caponnetto, lo contattai per comunicargli la mia disponibilità. “Sono con voi”, gli dissi, ed ero contento, anche perché contagiato dall’entusiasmo con il quale Falcone, Borsellino e Di Lello si dedicavano da mesi a quel lavoro che, ora, sarebbe diventato anche il mio.

Dopo quella telefonata la mia vita è significativamente cambiata perché, con i colleghi giudici istruttori e con i pubblici ministeri della Procura (Giuseppe Ayala, Giusto Sciacchitano, tra gli altri), che mi piace ricordare, e grazie a loro, ho vissuto un’esperienza giudiziaria unica e irripetibile. Ho trascorso un periodo che mi ha arricchito dal punto di vista professionale, ma anche segnato profondamente sul piano umano, rinsaldando in me, con passione e dedizione, i valori della legalità e della giustizia.

A distanza di tanti anni, mi sono chiesto come mai Caponnetto e gli altri avessero pensato a me. Credo ‒ credo, certezze non ne ho ma un po’ di esperienza sì, vista l’età e visto tutto quello che ho vissuto con quei miei colleghi, con quegli uomini ‒ di avere trovato delle risposte.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Falcone e Borsellino, Di Lello e Guarnotta, ecco il pool che farà la storia. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 20 luglio 2023

Ritengo sia andata proprio così, che Giovanni, Paolo e Peppino abbiano fatto il mio nome al consigliere istruttore Caponnetto perché credevano che io li avrei potuti davvero aiutare e sostenere con il mio lavoro da mediano. Un lavoro quotidiano, meticoloso, infaticabile...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Mi hanno scelto perché c’era bisogno di uno che sapesse fare squadra e io garantivo in qualche modo quell’unità di intenti e di comportamenti di cui il pool aveva assolutamente necessità.

Ritengo sia andata proprio così, che Giovanni, Paolo e Peppino abbiano fatto il mio nome al consigliere istruttore Caponnetto perché credevano che io li avrei potuti davvero aiutare e sostenere con il mio lavoro da mediano. Un lavoro quotidiano, meticoloso, infaticabile.

Il pool aveva bisogno anche di uno come me.

D’altronde il campione, il fuoriclasse, c’era già: Giovanni Falcone. Era il punto di riferimento di un gruppo solido e affiatato.

A pensarci adesso, eravamo diversi uno dall’altro. Anche per il nostro “credo” politico. Borsellino, che Falcone prendeva in giro chiamandolo “camerata”, in realtà si professava ‒ chissà, era vero o Paolo ci scherzava sopra? ‒ “monarchico”. Poi c’erano gli altri sparsi per le varie anime della sinistra. Falcone e io più moderati, Giuseppe Di Lello un po’ più a sinistra di tutti noi. Ma in quella stagione di Palermo le nostre opinioni politiche contavano davvero ben poco, anzi niente. Contava applicare la legge senza guardare in faccia nessuno. Lo posso dire con assoluta certezza: nessun provvedimento adottato in quegli anni è passato al vaglio delle lenti deformanti delle nostre idee politiche.

Ricordo un episodio, tra i tanti, a tal proposito. Un giorno Falcone incriminò un falso pentito, Giuseppe Pellegriti, che stava raccontando frottole su Salvo Lima e lo accusava, pur sapendolo innocente, di essere stato il mandante degli omicidi di Carlo Alberto dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro, Domenico Russo, Pio La Torre e Rosario Di Salvo.

Lo sapevano tutti chi era Salvo Lima, uno dei potenti della Sicilia, ritenuto il proconsole di Giulio Andreotti nell’isola e contiguo ad ambienti mafiosi, come si sussurrava in giro, ma Falcone non si pose nemmeno per un istante il problema: Pellegriti andava incriminato per calunnia.

Per essersi comportato in tal modo, Giovanni subì duri attacchi da chi all’improvviso ‒ paradossalmente proprio per la sua onestà intellettuale ‒ aveva perso fiducia in lui.

Per raccontare quegli anni e quella esperienza giudiziaria devo insistere su questo punto: l’unica nostra guida era la legge, il rispetto delle regole.

Voglio però ritornare alla telefonata del consigliere Caponnetto e a cosa accadde dopo, quando accettai di entrare nel pool. Da quel momento tutto cambiò, come dicevo, e anche in fretta. Il giorno seguente, mentre stavo riposando, ricevetti la telefonata di un maresciallo dei carabinieri che mi preannunciò che da lì in poi sarei stato sotto tutela.

“Mi raccomando, domani non esca se non arriva la scorta”, mi preannunciò. Da allora per 31 anni in servizio e per tre anni e sei mesi da pensionato non sono più rimasto solo. Ho sempre avuto come angeli custodi a Palermo e fuori Palermo i poliziotti che hanno accompagnato ogni mio movimento. All’inizio in maniera discreta, poi in misura rinforzata. Anno dopo anno. Ricordo che ci fornirono un impermeabile anti-proiettile di cui si volle provare la “tenuta”, ma si accertò che non era di alcuna utilità, essendo dotato di una blindatura “morbida” che non aveva opposto “resistenza” ai colpi di pistola esplosi contro in prova al poligono della Guardia di Finanza.

Sì, la mia vita è proprio cambiata. Dalle tranquille passeggiate per il centro e le gite a fine settimana nella nostra casetta di Trabia all’isolamento più totale. E a volte mi è capitato di vivere episodi che mai avrei pensato di vivere. Un giorno, al rientro a casa, i poliziotti della scorta, preoccupati dalla presenza di un uomo sul tetto dell’edificio di fronte alla mia abitazione e temendo che si fosse appostato con cattive intenzioni nei miei confronti, per proteggermi fecero scudo con i loro corpi portandomi di peso dalla strada all’androne dello stabile. Poi venne accertato che si trattava di un tecnico che stava montando una parabola per la tv.

Con il passare del tempo il livello di protezione si fece sempre più alto.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

La Sicilia è in guerra, misure straordinarie per la sicurezza dei giudici. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 21 luglio 2023

Come spesso accade, ci volle un evento tragico per cambiare le cose. Dopo l’attentato al consigliere Rocco Chinnici ‒ avvenuto il 29 luglio del 1983 ‒ i miei tre colleghi si trasferirono al primo piano ammezzato, concesso “in prestito” dalla locale Corte di Appello, e Falcone e Borsellino occuparono le stanze di quello che per tutti sarebbe stato il nostro “bunkerino”

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Nell’estate del 1985, dopo gli omicidi di Beppe Montana e Ninni Cassarà, due eccellenti poliziotti che erano nostri fedeli e preziosi collaboratori, il clima era diventato pesante al punto di costringere la nostra famiglia ad abbandonare precipitosamente la casa al mare perché era troppo pericoloso soggiornarvi.

Un luogo aperto, non difendibile, con strade di campagna non illuminate, non esattamente il posto ideale per stare al sicuro.

Così, pur essendo pieno agosto, rientrammo nella nostra casa di Palermo, dove potevamo godere di maggiore protezione. E noi ci sentivamo più tranquilli.

Un altro rafforzamento delle misure di protezione fu deciso dopo le stragi del 1992 per i magistrati che avevano fatto parte del soppresso Ufficio di Istruzione e che, dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, il codice Vassalli, erano transitati o all’ufficio GIP o alle Sezioni Penali del Tribunale o alla Procura della Repubblica.

A tutti noi vennero potenziati i servizi di scorta o tutela ai quali eravamo già sottoposti. Per prima cosa la scorta con due auto blindate, oltre quella in cui prendevo posto insieme al capo-scorta. E poi un soldato dei Vespri Siciliani sul tetto di casa mia, un altro sul pianerottolo, un terzo in una garitta posta davanti il portone dell’edificio.

E venne anche installato un servizio di videosorveglianza della porta di casa, del portone di ingresso e del vialetto sottostante dove c’è il garage. Infine, vennero montati vetri anti-proiettile alle finestre delle stanze della mia abitazione che davano sulla strada principale.

La scorta ogni tanto mi ricordava che la nostra vita, così come quella dei ragazzi che mi proteggevano, era sempre in pericolo. In quel periodo non uscivo con mia moglie e i miei figli e non intrattenevamo vita di relazione. Stavamo per lo più soli. Raramente ci concedevamo qualche cena

a casa nostra con pochi amici, molto raramente. Certe frequentazioni alle quali eravamo abituati capimmo che non sarebbero più state possibili. La vita sociale di noi giudici ‒ e non solo di noi giudici ‒ era ridotta ai minimi termini.

Casa e lavoro, lavoro e casa era la regola. Ma c’è da dire che Palermo non invitava a vivere spensieratamente in quegli anni. Troppa tensione, troppa paura.

Ecco come tutto è mutato per me e i miei cari dopo la telefonata del consigliere Antonino Caponnetto.

Quando approdai all’Ufficio di Istruzione mi fu assegnata la stanza numero 7, tra la numero 6 occupata da Giovanni Falcone e la numero 8, occupata da Paolo Borsellino. Un segno del destino, probabilmente.

Questi locali, come tutti gli altri occupati da una decina di colleghi, tra i quali Giuseppe Di Lello, si trovavano al piano rialzato del Tribunale e davano sulla piazza del mercato rionale, alla quale era possibile accedere da una scala posta tra la stanza mia e quella di Falcone. In questo modo il pubblico aveva libero accesso ai locali dall’esterno, in entrata e in uscita, in un contesto in cui Falcone, Borsellino e Di Lello lavoravano a tempo pieno su processi di mafia ed erano già sotto scorta. Una situazione intollerabile, che la dice lunga sul livello di rischio di alcuni magistrati in quegli anni e sulla percezione del pericolo da parte dello Stato.

Come spesso accade, ci volle un evento tragico per cambiare le cose. Dopo l’attentato al consigliere Rocco Chinnici ‒ avvenuto il 29 luglio del 1983 ‒ i miei tre colleghi si trasferirono al primo piano ammezzato, concesso “in prestito” dalla locale Corte di Appello, e Falcone e Borsellino occuparono le stanze di quello che per tutti sarebbe stato il nostro “bunkerino”.

Poi, quando sono entrato a fare parte del pool, anche a me è stata assegnata una stanza, accanto a quella occupata da Peppino Di Lello, che si affacciava sul corridoio in cui era allocato il “bunkerino”. Infine, quando Paolo Borsellino assunse, nell’agosto del 1986, le funzioni di procuratore della Repubblica a Marsala, ho ereditato il suo ufficio ed è così cominciata la convivenza con Giovanni Falcone.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Il “bunker”, lì dove passo dopo passo è nato il maxi processo a Cosa Nostra. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 22 luglio 2023

Il “bunkerino” è uno stretto corridoio di una quindicina di metri, almeno credo, dato che non abbiamo mai pensato di misurarlo, cui si accedeva da una porta in ferro con la vernice scrostata e mai riverniciata. All’esterno era installata una telecamera che consentiva di vedere chi vi accedesse...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Il “bunkerino” è uno stretto corridoio di una quindicina di metri, almeno credo, dato che non abbiamo mai pensato di misurarlo, cui si accedeva da una porta in ferro con la vernice scrostata e mai riverniciata. All’esterno era installata una telecamera che consentiva di vedere chi vi accedesse. All’interno, sulla destra, si apriva una prima stanza adibita a segreteria, subito dopo quella di Giovanni, e poi ancora quella di Paolo.

In fondo c’era un angusto locale, occupato da Giovanni Paparcuri, l’autista sopravvissuto alla strage di via Pipitone Federico, quando venne ucciso il giudice Rocco Chinnici. Paparcuri aveva ripreso a lavorare presso il nostro ufficio e, con grande spirito di servizio, dedizione e impegno non comune, si era riconvertito in un ottimo, esperto informatico.

Sul lato sinistro si apriva la porta che immetteva nell’archivio. In quei locali erano custodite centinaia di faldoni contenenti gran parte delle copie degli atti raccolti a decorrere dai primissimi anni Ottanta. E, nonostante la mole di carte fosse lievitata sino a farsi smisurata, tutti noi eravamo diventati in grado di individuare il faldone in cui era conservato il documento che, tra migliaia, ci interessava consultare.

Quei documenti erano ancora lì il 5 gennaio 1995, quando, come giudice istruttore in proroga, misi fine all’esperienza del pool antimafia con il deposito del cosiddetto maxi-quater, ovvero l’ordinanza-sentenza a carico di Alfano Michelangelo + 183, ai quali si contestavano una quarantina di reati.

All’esterno del “bunkerino”, lungo il corridoio del primo piano rialzato, si trovavano le stanze occupate da me (prima di posizionarmi in quella lasciata da Paolo) e da Giuseppe Di Lello, nonché una spaziosa stanza adibita a ufficio di quel manipolo di finanzieri, al comando del capitano Ignazio Gibilaro, che ci ha fattivamente e provvidenzialmente supportati nell’esame della copiosissima documentazione bancaria (assegni, libretti di risparmio, distinte, transazioni) nella quale, altrimenti, ci saremmo persi.

Fuori dalla porta del “bunkerino” stazionavano i ragazzi delle scorte e, molto spesso, si vedevano giornalisti in cerca di notizie.

A proposito di rappresentanti della carta stampata, l’inattesa collaborazione di Tommaso Buscetta, il primo importante “uomo d’onore” a transitare dalla parte dello Stato, calamitò ulteriormente l’attenzione della stampa, che diede grande risalto, oggi si direbbe “mediatico”, alle iniziative poste in essere dal pool, avamposto di contrasto al dilagare del fenomeno mafioso. Tra i cronisti che si occuparono delle nostre vicende desidero ricordare Attilio Bolzoni, Giuseppe D’Avanzo (prematuramente scomparso il 30 luglio 2011), Francesco La Licata, Saverio Lodato, citati in rigoroso ordine alfabetico, decani del giornalismo antimafia e di inchiesta, i quali hanno scritto articoli e libri su Cosa nostra e sulle connessioni con il potere politico, assolvendo con rigore e onestà intellettuale a un compito fondamentale: informare l’opinione pubblica, disvelare ciò che qualcuno vuole nascondere, cercare e fornire prove, scoprire la verità.

Attilio Bolzoni e Saverio Lodato vennero addirittura sottoposti, nel 1988, a misura cautelare in carcere con l’accusa di avere pubblicato alcune dichiarazioni, ancora coperte dal segreto istruttorio, del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, “uomo d’onore” catanese. Scarcerati dopo qualche giorno, vennero assolti, sia pure a distanza di tre anni, con formula piena dall’imputazione.

E non mancano esempi di giornalisti che hanno sacrificato la propria vita per la ricerca della verità e di giornali ed editori che hanno saputo dare conto, senza perseguire interessi di parte, delle principali complessità e spinosità sociali, culturali, ambientali e storiche. Il dovere di cronaca, che consiste proprio in questo, fallisce e tradisce il suo obiettivo se quelle criticità vengono “manipolate” al fine di travisare i fatti o nascondere inconfessabili interessi di bottega.

Chiusa questa doverosa parentesi, torniamo al “bunkerino”.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Rocco Chinnici, il giudice che aveva capito tutto e non si piegava. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA" DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 23 luglio 2023

Uno snodo fondamentale, del quale avrò modo di parlare nel prosieguo. Noi del pool avevamo quindi abbandonato le stanze utilizzate in precedenza, mentre il consigliere Caponnetto aveva occupato la stanza che era stata del suo predecessore. Il consigliere Rocco Chinnici

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Di mattina eravamo sempre in giacca e cravatta, ma specie nei pomeriggi e nelle sere d’inverno, terminati gli impegni ufficiali, Giovanni e io ci mettevamo un po’ in libertà, indossando un maglione: ricordo che il mio era verde, quello di Giovanni rosso, i nostri colori preferiti.

Lavoravamo in silenzio con le porte delle nostre due stanze aperte, e più volte è accaduto che, a una certa ora, lui mi dicesse: “Leonardo, si è fatto tardi, leviamo il disturbo allo Stato”. Una delle non poco frequenti battute scherzose di Giovanni? Forse, ma pensando alla storia di Giovanni Falcone, a tutto quello che gli è accaduto e che ha dovuto subire e a come è stato demolito il pool antimafia dopo l’avvento del consigliere Antonino Meli in quel nefasto 1988, quella sua battuta mi è apparsa negli anni sempre più profetica. «Togliamo il disturbo allo stato...».

Uno snodo fondamentale, del quale avrò modo di parlare nel prosieguo. Noi del pool avevamo quindi abbandonato le stanze utilizzate in precedenza, mentre il consigliere Caponnetto aveva occupato la stanza che era stata del suo predecessore. Il consigliere Rocco Chinnici.

All’Ufficio di Istruzione avvertivamo ancora la sua presenza, a tutti noi mancava molto. L’uomo che aveva gettato il seme per la nascita del pool era anche fisicamente imponente.

Pieno di vitalità, possedeva una grande esperienza in materia di mafia, parola che pronunciava all’antica con due effe: non diceva mafia, diceva “maffia”.

Era poco incline al compromesso, era duro e di tanto in tanto irascibile; un uomo tutto d’un pezzo, come si suol dire.

Per questo Cosa nostra lo riteneva molto pericoloso.

Ricordo il suo passo pesante che risuonava nel corridoio il pomeriggio, quando a volte veniva a vedere se ci fosse ancora qualcuno.

Apriva la porta di una delle nostre stanze e, constatato che il collega era intento sulle carte, quasi si scusava, chiarendo che non era sua intenzione controllare la nostra presenza in ufficio ma solo accertarsi se, per caso, non avessimo dimenticato le luci accese...

Il giorno della sua uccisione ero a Trabia, nella casa al mare. Mi stavo facendo la barba e, informato da un amico dell’accaduto, corsi subito a Palermo. Ricordo che Falcone era in Thailandia per una rogatoria.

Come ho raccontato, alla strage sopravvisse Giovanni Paparcuri, autista di Falcone ma quella mattina addetto alla guida dell’auto blindata assegnata a Chinnici. Paparcuri riportò ferite gravissime delle quali, a tanti anni di distanza, patisce ancora le conseguenze.

Il giorno del funerale, terminata la funzione religiosa, mentre colleghi portavano sulle spalle la bara, io li precedevo reggendo, con le mani tremanti per la commozione, il “tocco” di Chinnici posato su un cuscino di velluto.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA" DI LEONARDO GUARNOTTA 

Cosa nostra è una e verticistica, l’intuizione che ha cambiato tutto. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 24 luglio 2023

La seconda intuizione è stata considerare la mafia un’organizzazione verticistica e unitaria. Non una congrega di bande in perenne competizione fra loro, ma un’organizzazione che potremmo definire “federale” e dotata di una certa unità...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Ripensando adesso al periodo iniziale, mi sovviene l’impatto che ha avuto su di me. Fin dal primo giorno ho capito che avrei dovuto cambiare completamente il modo di lavorare, e così i primi tempi non furono affatto facili, era necessario che mi adattassi, al più presto, al metodo di lavoro dei compagni della mia nuova esperienza.

Nei primi venti anni della mia carriera avevo quasi sempre svolto le funzioni di giudice monocratico, assumendo gli incarichi di giudice istruttore a Milano, Pretore del Mandamento di Niscemi prima e del Mandamento di Termini Imerese dopo, nonché di giudice istruttore penale presso quel Tribunale.

Queste funzioni mi consentivano di svolgere indagini e accertamenti e di adottare i provvedimenti conseguenti in piena e assoluta autonomia.

Nel pool invece ho scoperto un diverso approccio, quel metodo che poi è stato il segreto di una strategia vincente.

La nostra forza stava nel saper lavorare insieme, nella capacità del leader di tenere unito il gruppo, motivarlo e spronarlo. Elementi determinanti e affinati nel tempo.

La costruzione del pool avvenne per fasi successive. Rocco Chinnici ebbe due geniali intuizioni. Innanzitutto quando disse che “un magistrato non è un uomo separato dalla società”. Affermazione che si traduceva concretamente nella sua costante partecipazione a dibattiti, convegni e incontri con gli studenti.

Chinnici voleva parlare di mafia in tutti i luoghi e le maniere possibili, convinto che l’azione repressiva non potesse essere l’unica risposta dello Stato. Occorreva coinvolgere scuole, società civile, associazioni, perché alla fine prevalesse la cultura della legalità, fondamentale per prosciugare le sorgenti che alimentavano Cosa nostra.

Rocco Chinnici è stato il primo magistrato a uscire dal Palazzo di Giustizia e dall’ambito del suo lavoro per cercare di spiegare alla gente che la lotta alla mafia doveva essere un impegno di tutti, non solo di pochi poliziotti, carabinieri e magistrati.

La seconda intuizione è stata considerare la mafia un’organizzazione verticistica e unitaria. Non una congrega di bande in perenne competizione fra loro, ma un’organizzazione che potremmo definire “federale” e dotata di una certa unità.

Per questo motivo le indagini non potevano riguardare il singolo omicidio o la singola famiglia, ma dovevano essere improntate a una visione generale del “problema”, perché, come era successo, un fatto che per un magistrato non aveva un particolare significato poteva assumerlo per un altro. Importante era che le informazioni circolassero all’interno di un gruppo ristretto che si occupava solo di mafia.

Fare parte di quella squadra voleva dire anche di più.

Io, l’ultimo arrivato, venivo soppesato dai colleghi e soprattutto dovevo offrire piena disponibilità. La dedizione doveva essere totale, non c’erano feste o week-end. E se improvvisamente bisognava partire, ad esempio per il Canada, come è successo a me, si faceva la valigia e si andava, dopo avere ottenuto in fretta e furia da mia moglie il “benestare” per l’espatrio, essendo i nostri figli ancora

minorenni.

E poi, quanti giorni prefestivi e, spesso, festivi trascorsi in ufficio per decidere sulle numerose istanze di libertà provvisoria inoltrate dagli imputati, o per adottare con urgenza altri provvedimenti. Al riguardo, essendomi stato affidato anche il compito di curare la gestione dei beni sequestrati ad alcuni imputati, nei momenti e nei giorni più impensati, di domenica o nei giorni di festa, mi è toccato occuparmi, insieme all’amministratore giudiziario, dei problemi più eterogenei, come ad esempio reperire un idraulico per una infiltrazione d’acqua da un appartamento a quello sottostante di uno stabile, al fine di evitarne l’allagamento.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Le riunioni del lunedì, i riti e le regole del pool di Palermo. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 25 luglio 2023

Il pool aveva un calendario preciso. Ogni lunedì ci riunivamo nella stanza di Giovanni Falcone per fare il consuntivo della settimana precedente, riferendo sull’esito delle indagini, e per programmare quella che iniziava, decidendo quali attività ognuno di noi avrebbe dovuto svolgere

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Come si svolgeva l’attività quotidiana? Il pool aveva un calendario preciso. Ogni lunedì ci riunivamo nella stanza di Giovanni Falcone per fare il consuntivo della settimana precedente, riferendo sull’esito delle indagini, e per programmare quella che iniziava, decidendo quali attività ognuno di noi avrebbe dovuto svolgere. All’occorrenza, ci ritrovavamo anche nel corso della settimana.

Ciascuno di noi quattro (ma in seguito pure Gioacchino Natoli, Ignazio De Francisci e Giacomo Conte, entrati a fare parte del pool dopo il trasferimento di Paolo Borsellino a Marsala), quando rientrava dalle frequenti rogatorie in Italia o all’estero, disponeva che copia degli atti istruttori fosse recapitata agli altri colleghi, con sopra un post-it sul quale era annotato, per esempio, “A Leonardo, per parlarne”.

Va detto che il pool antimafia non era un organo giudiziario previsto dall’allora vigente codice di procedura penale; la sua costituzione era stata resa possibile dalla facoltà riservata al consigliere istruttore, ai sensi dell’articolo 17 delle Disposizioni Regolamentari del codice di rito, di delegare a ognuno di noi le stesse indagini.

La strategia che si voleva attuare era, dunque, di affidare a un gruppo di magistrati, all’inizio davvero esiguo (come dicevo, noi quattro più il consigliere), tutte le indagini sulla criminalità organizzata comune e di tipo mafioso, in modo che ognuno di noi espletasse quelle assegnategli, ma i risultati venissero portati a conoscenza degli altri colleghi, affinché un prezioso patrimonio di informazioni non andasse disperso ‒ come spesso era accaduto in passato – e servisse anzi per prendere decisioni congiunte, a partire da una visione globale delle strutture e dei dinamismi di Cosa nostra, e anche per minimizzare i rischi personali.

Dunque, la filosofia del pool si basava sulla constatazione che, essendo quella consorteria un’organizzazione unitaria e verticistica fatta di mandanti ed esecutori materiali, era necessario accumulare, elaborare notizie e dati che consentissero ai componenti del pool di avere una visione complessiva del fenomeno mafioso, e nel contempo di affinare la propria professionalità.

Questa strategia non avrebbe avuto successo se non avessimo avuto, con tutte le nostre forze e capacità, l’obiettivo comune di restituire la Sicilia ai siciliani onesti, senza gelosie, invidie, smanie di protagonismo, tutti per uno e uno per tutti, tetragoni a ogni tentativo esterno di fomentare zizzanie e malcontento tra noi.

Sui criteri seguiti per la selezione dei componenti del pool e sull’unico, comune, superiore interesse perseguito fin dalla sua costituzione, e ribadito con fermezza, si soffermò poi Giovanni Falcone nel corso della sua audizione del 31 luglio 1988 davanti la Prima Commissione Referente del Consiglio Superiore della Magistratura, quando scoppiò il cosiddetto “caso Palermo”, su cui ritornerò, e le tensioni tra Csm e pool antimafia erano ormai molto forti.

“Quando si è costituito il pool, poiché già sapevamo quali sarebbero stati gli attacchi esterni per cercare di sgretolarlo, per cercare di inserire problemi di attrito, abbiamo curato di fare in modo che tutte le componenti ideologiche e culturali della magistratura fossero presenti, e abbiamo lavorato insieme e continuiamo a lavorare, almeno fino a questo momento, in pieno accordo mettendo da parte totalmente problemi che non siano esclusivamente istituzionali”.

Due sono gli elementi che hanno caratterizzato l’azione del pool.

Accanto all’intenso scambio di informazioni, c’era lo sviluppo di quello che poi sarebbe stato mediaticamente inteso come “il metodo Falcone”.

Si tratta di un modo di procedere che, in seguito, è stato adottato dalla magistratura inquirente, facendo tesoro delle intuizioni di Giovanni.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Segui il denaro”, il caso Spatola e la genialità di Giovanni Falcone. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 26 luglio 2023

Falcone comprese ben presto che la mafia era anche un fenomeno criminale transnazionale, che la sua potenza economica aveva superato i confini della Sicilia, che era riduttivo e fuorviante indagare solo a Palermo e che, soprattutto, era necessario penetrare nei “santuari” degli istituti di credito, dovunque si trovassero...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Tutto è iniziato nel 1980: Rocco Chinnici assegna a Falcone il procedimento a carico di Rosario Spatola, un faccendiere e costruttore siciliano, su cui gravava l’accusa di gestire un grosso traffico internazionale di sostanze stupefacenti tra Palermo e New York, dove coesistevano e prosperavano, commerciando in armi ed eroina, ben cinque “famiglie” mafiose.

Nel corso di quel procedimento, a carico anche di altri soggetti, si accertò come alcune “famiglie” mafiose palermitane acquistassero in Turchia ingenti quantità di morfina base, la trasportassero a Palermo, dove veniva trattata in “raffinerie” clandestine e trasformata in eroina purissima, che veniva commercializzata preferibilmente a New York, ma anche in altre città statunitensi, e il cui ricavato era oggetto di transazioni economiche presso istituti di credito svizzeri.

Quel processo, in cui erano coinvolti importanti soggetti legati a Cosa nostra, fece comprendere a Giovanni Falcone che la strategia sino ad allora seguita nel contrasto giudiziario alla criminalità organizzata andava abbandonata perché del tutto inidonea a conseguire risultati soddisfacenti.

Istruendo il procedimento a carico di Rosario Spatola e altri, Falcone comprese ben presto che la mafia era anche un fenomeno criminale transnazionale, che la sua potenza economica aveva superato i confini della Sicilia, che era riduttivo e fuorviante indagare solo a Palermo e che, soprattutto, era necessario penetrare nei “santuari” degli istituti di credito, dovunque si trovassero. Lì affluivano e venivano “puliti” gli ingentissimi capitali accumulati con i traffici internazionali di armi e droga.

Perché, argomentava Falcone, se la droga non lascia quasi tracce (se non per i danni alla salute di coloro che la assumono), il denaro ricavato dal suo commercio non può non lasciare dietro di sé una scia, segni, orme del suo percorso, del suo passaggio da chi la fornisce a chi l’acquista.

Follow the money, si diceva, a partire da una consapevolezza del sistema criminale globale che era tutt’altro che diffusa tra gli inquirenti in quel periodo.

Per questo motivo furono disposte accurate e mirate indagini bancarie, patrimoniali e societarie, in Italia e in altri Paesi, nei confronti di centinaia di soggetti, al fine di portare alla luce rapporti di affari, contatti, trasferimenti di somme di denaro da un soggetto all’altro, infrangendo così il segreto bancario, fino ad allora considerato alla stregua di un totem inviolabile.

Passammo al setaccio migliaia di assegni e numerosissima altra documentazione (tutto è contenuto in ben quattro dei quaranta volumi della ordinanza-sentenza, depositata l’8 novembre 1985, che ha dato vita al Maxiprocesso) per acquisire la prova inconfutabile, in precedenza quasi mai raggiunta, di rapporti di conoscenza e di affari illeciti tra mafiosi, trafficanti di denaro sporco e colletti bianchi, ostinatamente negati dagli interessati.

Segui il denaro, follow the money, voleva dire anche andare all’estero e lavorare con investigatori di tutto il mondo, in particolare negli Stati Uniti.

Questo ha fatto sì che Giovanni sia diventato un pioniere anche per quanto riguarda l’internazionalizzazione del contrasto alla criminalità organizzata, stringendo assidui rapporti con gli investigatori d’oltreoceano.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

La collaborazione con l’Fbi e l’inchiesta sulla “Pizza Connection”. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 27 luglio 2023

Giovanni Falcone approfittò dell’occasione per prendere contatti, ben presto favoriti da cordiali rapporti personali, con le autorità giudiziarie che all’epoca erano impegnate nella complessa inchiesta condotta dall’FBI che aveva per oggetto un grosso traffico di droga tra Palermo e Stati Uniti gestito da mafiosi siciliani e “cugini” americani. Era la nota operazione “Pizza Connection”...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Era l’ottobre del 1982 quando una delegazione italiana partecipò alla Conferenza internazionale delle forze dell’ordine tenutasi presso la sezione Criminalità organizzata del Federal Bureau of Investigation, l’Fbi, nella sede della sua accademia a Quantico, in Virginia.

Di quella delegazione faceva parte Giovanni Falcone che approfittò dell’occasione per prendere contatti, ben presto favoriti da cordiali rapporti personali, con le autorità giudiziarie che all’epoca erano impegnate nella complessa inchiesta condotta dall’FBI che aveva per oggetto un grosso traffico di droga tra Palermo e Stati Uniti gestito da mafiosi siciliani e “cugini” americani.

Era la nota operazione “Pizza Connection”, così denominata perché pizzerie e ristoranti venivano impiegati per coprire l’importazione dell’eroina dalla Sicilia e per tenervi i summit tra affiliati.

In quegli anni di febbrile attività di indagine, ben presto si intensificarono le rogatorie negli Usa di Giovanni Falcone, di tutti noi giudici istruttori e dei pubblici ministeri della Procura della Repubblica di Palermo, con l’obiettivo di acquisire elementi di prova da utilizzare nel processo pendente a carico dello Spatola e di altri trafficanti di armi e sostanze stupefacenti.

Ma anche per trarre insegnamenti, e farne tesoro, dall’esperienza maturata da investigatori e funzionari dell’Fbi, il principale corpo della polizia federale statunitense, e della Dea (Drug enforcement administration), l’agenzia anti-droga statunitense.

E fu possibile ottenere la preziosa collaborazione di Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di Manhattan, che sarebbe diventato sindaco di New York nel 1994, di Louis Freeh, componente prima e direttore poi dell’FBI, e di Richard Martin, procuratore del distretto di Manhattan.

Nel corso delle numerose rogatorie a New York, si aprì davanti ai nostri occhi un mondo nuovo, un metodo investigativo all’avanguardia, grazie anche alle conoscenze in tema di collaboratori di giustizia (figure ufficialmente introdotte nel nostro ordinamento soltanto nel 1991) e alla disponibilità da parte degli investigatori statunitensi di moderni strumenti di lavoro. Imparammo molto.

Quando entrammo nella sede dell’Fbi la nostra attenzione venne colpita prima dagli enormi boccioni d’acqua presenti in ogni ufficio, poi dalle agende elettroniche e dai computer utilizzati dagli investigatori con i quali avremmo collaborato.

Già Rocco Chinnici aveva più volte chiesto in dotazione questo tipo di strumenti, ma dal nostro Ministero non era mai arrivato nulla, per cui noi quattro e i pubblici ministeri ancora annotavamo i nomi degli imputati e le informazioni sul loro conto su quaderni e agende cartacee.

Ci volle del tempo perché qualcuno si interessasse alle nostre condizioni di lavoro e finalmente rivolgesse da Roma lo sguardo verso la Sicilia.

Fu Liliana Ferraro, magistrato in forza al nostro Ministero, a essere inviata a Palermo dal guardasigilli Mino Martinazzoli per verificare le condizioni in cui operavamo.

Fu una visita molto utile perché Ferraro rimase sorpresa nel constatare le condizioni disastrose in cui versavano gli uffici: scrivanie e sedie malandate, macchine per scrivere obsolete o mal funzionanti, molti faldoni custoditi alla bell’e meglio, anche per terra, perché mancavano armadi sufficienti per contenerli.

Le indagini bancarie, infatti, avevano comportato l’acquisizione di una enorme quantità di documentazione. Grazie all’interessamento della dottoressa Ferraro, i nostri uffici vennero dotati di nuove ed efficienti attrezzature, anche informatiche.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Coca connection. La tragica profezia di Rocco Chinnici e la Sicilia prigioniera del mercato della droga. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta il 29 Luglio 2023

Il 29 luglio del 1983 il magistrato morì disintegrato da una bomba perché capì per primo il ruolo di Cosa nostra nel traffico di stupefacenti. Quarant’anni dopo nelle strade di Palermo si muore nell’inferno del crack. E nei palazzi del potere anche i politici sembrano cadere nella tentazione di sballarsi

Morì Rocco Chinnici uscendo di casa, a Palermo, in Via Pipitone Federico alle 08.05, del 29 luglio di quaranta anni fa. Morì disintegrato da una bomba, la prima di una lunga serie, in un salto di qualità di Cosa nostra e di Totò Riina per eliminare i nemici, fuori e dentro la mafia, in uno stile che – erano i tempi – i giornali definirono «libanese».

Morì Rocco Chinnici non perché era quello che, da consigliere capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, aveva battezzato il pool antimafia. Non per i processi che aveva fatto, o per le indagini. Non perché aveva alzato il livello di scontro con Cosa nostra. Né perché, come diceva lui, era «normale» essere uccisi, per il lavoro che faceva. O perché, come ricordava Paolo Borsellino «aveva la religione del lavoro».

 Morì Rocco Chinnici per i giovani. E perché aveva capito tutto. I giovani avevano cominciato a morire, a Palermo. Perché era arrivata la droga. La droga era quella dei mafiosi. E non interessava quasi a nessuno. A Rocco Chinnici sì.

E con l’eliminazione di Chinnici venne meno quella visione che lui aveva messo in campo, la capacità di guardare i grandi scenari, e le piccole cose. La mafia aveva portato le raffinerie della droga in Sicilia, inventando il moderno traffico internazionale di stupefacenti, per come oggi lo intendiamo. Prima era una cosa estemporanea, incerta, Cosa nostra lo rende un business scientifico, gestito in maniera funzionale.

Ad esempio, fa scomparire tutti gli altri tipi di droga. Irrompe nel mercato l’eroina. E quando le indagini rendono difficile l’esportazione della droga negli Stati Uniti – quell’idea clamorosa di Tano Badalamenti di creare una rete di spaccio nelle pizzerie italiane negli Stati Uniti viene smantellata dall’operazione “Pizza Connection” – la nuova feroce Cosa nostra dei Corleonesi sconfessa i vecchi boss e il mantra secondo il quale il commercio di droga andava bene, purché fatto all’estero. Viene dato così il via libera a vendere il prodotto anche in Sicilia e in Italia. Tutti i piccioli fanno ricchezza.

È una trasformazione non solo criminale, ma anche antropologica, sociologica. Perché a Palermo la droga cominciano a venderla in tutte le strade. E Chinnici è il primo che capisce che c’è un legame tra i piccoli spacciatori e i grandi criminali che si stanno arricchendo a dismisura. Si accorge cioè che la portata del fenomeno ha una dimensione finanziaria – grandi capitali che si accumulano, e che vengono reinvestiti nelle forme più diverse – e un riscontro pratico, in strada: una generazione di giovani che comincia a bucarsi, a morire.

È talmente ossessionato dalla droga che va nelle scuole – è il primo magistrato a farlo – coinvolge altri magistrati e intellettuali. È inascoltato. Ne parla nei convegni, scrive relazioni. Lancia ai giovani un appello disperato, che allora sembrava una provocazione: «Ragazzi, se volete sconfiggere la mafia, non drogatevi».

Un’utopia. Perché non solo nessuno in quegli anni coglieva il nesso tra i morti per overdose e la mafia, ma in realtà in quel periodo nasce un trend, se così vogliamo chiamarlo, che arriva ai giorni nostri, inarrestabile. E perché da allora ogni generazione ha avuto le sue droghe, il flusso è stato inarrestabile. Con la differenza che adesso la droga investe tutti gli strati sociali: nei palazzi la coca, nelle strade il crack.

Morì Rocco Chinnici per questo, perché sosteneva che i ragazzi che morivano per la droga, in strada a Palermo, erano vittime della mafia, quanto i magistrati, i poliziotti, o gli imprenditori che si ribellavano al pizzo.

Morì Rocco Chinnici perché voleva chiudere un cerchio. E quel cerchio ancora oggi non si è chiuso.

Morì Rocco Chinnici forse invano, allora, oggi che la Sicilia è diventata davvero un hub internazionale della droga.

Lo dimostra anche l’ultima operazione della Guardia di Finanza, di qualche giorno fa che ha portato al più grande sequestro di cocaina mai effettuato in Italia: 5,3 tonnellate. Viaggiavano su un peschereccio al largo della Sicilia. Avrebbero fruttato ottocentocinquanta milioni di euro.

Oggi, a Palermo, nelle strade vicino al porto si muore nell’inferno del crack. Quaranta anni fa come oggi. Cinque euro a dose, nel cuore del mercato di Ballarò. L’ultima vittima, Anita, aveva venti anni. «Non basta mai – raccontano i pochi volontari che la notte fanno slalom tra i corpi per strada, scuotendoli per capire se sono in vita – e chi è dipendente dal crack fuma, cerca i soldi, fuma ancora, e non ne esce più». Si aggirano tra i vicoli alle spalle della Cattedrale, lì dove lo Stato arretra fino a quasi scomparire.

A pochi passi, Palazzo dei Normanni, sede del parlamento regionale, è travolto dallo scandalo che ha coinvolto l’ex presidente dell’assemblea e delfino di Silvio Berlusconi in Sicilia, Gianfranco Micciché, che andava con l’auto blu – secondo le indagini dell’accusa – a comprare la coca dall’amico chef della Palermo bene. 

Milita, Gianfranco Micciché, in Forza Italia. Lo stesso partito al quale ha aderito la figlia di Rocco Chinnici, Caterina, anche lei magistrata, e fino a poco tempo fa europarlamentare e simbolo del Partito democratico siciliano.

Morì, Rocco Chinnici, inconsapevole.

I casi sospetti, le indagini della Finanza sui patrimoni mafiosi. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 28 luglio 2023

Una svolta nel nostro lavoro è derivata dalla collaborazione di un piccolo ma competente drappello di uomini della Guardia di Finanza, perché per espletare indagini in campo bancario e finanziario erano necessarie specifiche competenze che noi non possedevamo

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

L’altra innovazione che da lì in poi caratterizzò l’azione del pool fu una maggiore collaborazione e sinergia con l’ufficio del pubblico ministero.

Se le indagini sulla criminalità organizzata comune o mafiosa erano adesso di competenza del pool, cioè di un gruppo di giudici istruttori specializzatosi nella materia, era necessario che, anche in Procura, l’andamento dei processi che erano stati “formalizzati” fosse seguito, sin dall’inizio, da uno stesso gruppo di sostituti in stretto collegamento con i giudici del pool. In modo che, adottate nel corso dell’istruttoria le loro conclusioni propedeutiche al provvedimento dei giudici istruttori, fossero poi gli stessi sostituti a sostenere l’accusa in dibattimento.

Era invece accaduto in precedenza che, anche in procedimenti delicati e complessi, l’accusa venisse sostenuta in dibattimento da sostituti diversi da quelli che avevano partecipato alla fase istruttoria, ai quali difettava quindi quella approfondita, personale conoscenza della complessa attività di indagine svolta in precedenza.

Tra i sostituti impegnati nelle inchieste di mafia, il punto di riferimento del pool, e in particolare di Falcone, era Giuseppe Ayala, magistrato dalle indubbie capacità professionali e persona estroversa, brillante, bon vivant, praticamente l’opposto di Giovanni.

Ayala, oltre ad avere collaborato assiduamente e proficuamente con Falcone, è stato anche una presenza importante per Giovanni, soprattutto in alcuni momenti difficili della sua vita.

Inoltre, come accennavo in precedenza, una svolta nel nostro lavoro è derivata dalla collaborazione di un piccolo ma competente drappello di uomini della Guardia di Finanza, perché per espletare indagini in campo bancario e finanziario erano necessarie specifiche competenze che noi non possedevamo.

E infatti iniziava così la lettera con la quale il consigliere Caponnetto, il 13 dicembre 1983, chiedeva al comandante del nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo il distacco di finanzieri per almeno otto mesi: “In relazione alla natura, complessità e urgenza degli atti istruttori da compiersi in alcuni procedimenti pendenti presso quest’Ufficio e nei quali è stata acquisita una copiosa documentazione bancaria e contabile, rivolgo viva preghiera alla S.V. Affinché voglia assegnare due sottufficiali al compito esclusivo di svolgere la loro opera di Ufficiali di Polizia Giudiziaria presso l’Ufficio di Istruzione”.

La domanda venne accolta e sotto il comando dell’allora capitano Ignazio Gibilaro, oggi generale di corpo d’armata e comandante dell’area dell’Italia Meridionale della Gdf, iniziò a lavorare con noi quel gruppo che Antonino Caponnetto ringraziò con una nuova lettera al momento della sua partenza da Palermo. “Senza l’apporto della Guardia di Finanza – scrisse – non sarebbe stato possibile effettuare complesse e numerose indagini bancarie e patrimoniali che hanno contribuito a far ottenere notevoli risultati giudiziari”.

Caponnetto in quell’occasione volle elencare i loro nomi, a partire dal capitano Gibilaro, per passare al maresciallo capo Angelo Crispino (per me “il mitico maresciallo Crispino”), ai brigadieri Domenico Schimizzi, Antonino Castelli, Cosimo Dimagli, Filippo Longo e poi ai vice-brigadieri Antonio Condello e Franco Bosco. Li ricordo tutti, uno per uno, questi finanzieri.

Dovevano restare per “almeno otto mesi”, si sono fermati per molti anni.

La collaborazione con gli uomini della Guardia di Finanza fu una fonte di arricchimento per noi magistrati, dotati soltanto di cognizioni giuridiche. Come testimonia la risposta che dava sempre, scherzando, Paolo Borsellino quando gli chiedevano se avesse fatto corsi o studi particolari per affrontare le questioni del riciclaggio e delle indagini bancarie: il suo unico rapporto con le banche

consisteva solo nei prelievi e mai nei versamenti, perché non aveva una lira da versare.

Come lo capivo!

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Quei momenti di vita “leggera” vissuti con Falcone fuori dal bunker. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 29 luglio 2023

Erano poche le serate dove ci lasciavamo andare, dove ci sentivamo davvero rilassati. Ne ricordo una in particolare: tutti seduti al tavolo, a me e ad altri sembrò che qualcosa si fosse posato sui capelli. Pensavamo si trattasse di una mosca o di un pezzettino di intonaco che si fosse staccato dal soffitto, ma guardandoci attorno cogliemmo Giovanni nell’atto di levare la mollica dal pane, farne delle piccole palline e lanciarle a tutti quanti noi...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

La Guardia di Finanza produsse un grande contributo che servì di base per le indagini, oltre a fornire utili consigli pratici che diedero i loro effetti. E se oggi la Gdf è partner abituale di molte procure, allora questo affiancamento si presentava come una strada tutta da percorrere e dava il via a un gioco di squadra che ha reso possibile esperire la prima, efficace e vincente azione di contrasto a Cosa nostra.

In questa prospettiva, assicurarono il loro impegno e la loro professionalità funzionari come Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli (venuto a mancare il 20 marzo 2013 e al quale mi legava un forte rapporto di amicizia), Alessandro Pansa, tutti funzionari di pubblica sicurezza che nel tempo, uno dopo l’altro, sono stati nominati capi della Polizia. E ancora, l’allora capitano dell’Arma dei Carabinieri Angiolo Pellegrini (oggi generale di corpo d’armata in pensione, ma per me sempre “il capitano”, stretto collaboratore di Giovanni Falcone), che ho avuto il piacere di incontrare di nuovo dopo molti anni, nel 2018, in occasione del conferimento a entrambi del Premio internazionale Joe Petrosino.

Ora, a distanza di tantissimo tempo, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato in Italia e all’estero, avendo segnato una svolta epocale, delineato uno spartiacque definitivo rispetto ai precedenti sistemi di indagine in uso nel contrasto a qualsiasi forma di criminalità organizzata.

Visti dall’esterno, noi giudici del pool potevamo sembrare quattro matti, dalla mattina alla sera chiusi in un ufficio blindato... e forse un po’ matti lo eravamo davvero. Ma lì nel “bunkerino”, se non altro, ti sentivi un po’ più al sicuro rispetto a quando andavi in giro.

Ci occupavamo di mafia, delitti, droga, ci toccava interrogare criminali incalliti certamente non bene disposti nei nostri confronti. Per la verità, non lo erano neppure alcuni colleghi e qualche rappresentante della cosiddetta società civile, ma di questo vi dirò più avanti.

Insomma non un bel vivere e soprattutto con poco spazio per qualche intermezzo spensierato. Eppure, certamente anche per il clima di tensione nel quale eravamo immersi, i nostri rapporti personali divennero sempre più stretti e i colleghi diventarono amici.

A volte andavamo anche fuori a cena con le mogli in un ristorante che oggi non credo ci sia più, dalle parti di viale Michelangelo a Palermo.

Erano poche le serate dove ci lasciavamo andare, dove ci sentivamo davvero rilassati. Ne ricordo una in particolare: tutti seduti al tavolo, a me e ad altri sembrò che qualcosa si fosse posato sui capelli. Pensavamo si trattasse di una mosca o di un pezzettino di intonaco che si fosse staccato dal soffitto, ma guardandoci attorno cogliemmo Giovanni nell’atto di levare la mollica dal pane, farne delle piccole palline e lanciarle a tutti quanti noi.

Come degli adolescenti alla cena di fine anno scolastico, reagimmo con prontezza a quell’attacco proditorio e ne nacque una battaglia senza esclusione di... molliche, con conseguente vergogna finale quando ci rendemmo conto di averne lasciato sul campo un tappeto. Non so cosa abbia pensato il proprietario del ristorante, che magari all’inizio era pure contento di avere quel gruppo di magistrati nel suo locale.

Con Giovanni condividevo poi una grande passione per le penne stilografiche, quelle che si caricavano con l’inchiostro che, come mi è accaduto più volte, finiva con il tracimare dal contenitore con immaginabili, disastrose conseguenze. Un effetto devastante che si era verificato in misura particolarmente amplificata nel corso di una delle trasferte di lavoro. Portavamo nella tasca le nostre penne stilografiche (allora si usavano) e una volta in aereo, per un problema di depressurizzazione, la sua e la mia scoppiarono, inondando di inchiostro giacche, camicie e cravatte. Non era possibile cambiare gli indumenti inchiostrati perché non potevamo accedere alle valigie custodite in stiva ma, per fortuna, eravamo in inverno e, scesi a terra, ci imbacuccammo nei cappotti per nascondere il disastro.

Quando avevamo un po’ di tempo libero, andavamo da Bellotti De Magistris, all’epoca la bottega più fornita di Palermo, per visionare i nuovi arrivi di stilografiche, sui quali ci teneva puntualmente informati il titolare del negozio. Giovanni aveva maggiori disponibilità economiche, e quando comprava una penna il cui costo era fuori dalla mia portata ne faceva sfoggio con me. Ricordo che

un giorno mi chiamò nel suo ufficio. Lo trovai che stava facendo finta di scrivere con una penna stilografica che – notai subito – doveva essere stato il suo più recente, costoso acquisto. Immaginai dove intendesse andare a parare e gli sedetti di fronte senza parlare, non volevo dargli soddisfazione, finché fu Giovanni a chiedere: “Ma tu non vedi niente di nuovo, non mi devi dire niente?” Io risposi: “Veramente sei tu che mi hai fatto venire nel tuo ufficio, cosa devi dirmi?” E lui: “Non vedi che sto scrivendo con una nuova penna? Ti piace?” E io di rimando: “Una penna nuova? Non me n’ero accorto, mi sembrava una di quelle che comprammo assieme”. Gli avevo rovinato la sceneggiata, me ne disse di tutti i colori e alla fine ci mettemmo a ridere come due ragazzini.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Penne stilografiche e papere, coppe e centinaia di sigarette fumate. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 30 luglio 2023

Falcone era anche un collezionista di papere. Andava alla ricerca di nuovi esemplari a ogni viaggio e li cercava di un materiale sempre diverso. Aveva cominciato la collezione perché all’inizio della carriera aveva commesso un errore, “una papera” appunto, e da quel momento, per ricordarsi di non commetterne più, incominciò a volersene circondare

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Scrivo e man mano i momenti leggeri riaffiorano.

Qualche volta succedeva che Giovanni si divertisse a “scoprire” cognomi siciliani da tradurre... in lingua italiana. Una mattina venne da me e mi chiese: “Leonardo, che fine ha fatto quell’imputato che si chiama Assaggialuva?”

Gli risposi che non ricordavo nessun imputato con quel cognome. E lui: “Possibile che non ti ricordi?” Insomma andammo avanti per un po’ fino a quando non ammise che l’imputato di cui parlava era Mangiaracina, che in italiano si tradurrebbe in “assaggia l’uva” perché la “racina” nel nostro dialetto è l’uva.

E poi devo assolutamente raccontare di una trasferta fatta insieme negli Stati Uniti e in Canada. Quella volta fu necessario che io mi fermassi a New York ancora un giorno per un ultimo atto istruttorio, mentre Giovanni mi avrebbe preceduto a Montreal, dove l’avrei raggiunto, per un altro atto istruttorio. Poiché avrei dovuto pagare il soggiorno nell’albergo con la carta di credito, che avevo però dimenticato a casa, pregai Giovanni di occuparsi, insieme al suo, anche del mio conto. Mal me ne incolse, perché al ritorno a Palermo Giovanni iniziò a stressarmi per avere il saldo del debito. Un po’ stupito gli dissi che la somma anticipata gli sarebbe stata addebitata dopo qualche tempo e, quindi, non c’era alcuna premura. Ma non ci fu nulla da fare. Serissimo, insisteva. Ricorse an- che al latino: “Bis dat qui cito dat”, “dà due volte chi dà presto”, finché non scoppiò in una grossa risata. Mi stava prendendo in giro.

Ci si scambiava spesso anche piccole gentilezze. Come quando, al ritorno da una trasferta all’estero, Giovanni mi portò in dono la riproduzione di un monaco tibetano della quale si impossessò subito mio figlio, suo grande “tifoso” e oggi anche lui magistrato. O dopo il passaggio alla Procura, quando Giovanni mi regalò due quadri tra quelli che adornavano la sua stanza nel “bunkerino”, e che conservo gelosamente. Ma ripensandoci, mi è sorto il sospetto, chissà perché, che si sia disfatto di quelli che gli piacevano meno!

Falcone era anche un collezionista di papere. Andava alla ricerca di nuovi esemplari a ogni viaggio e li cercava di un materiale sempre diverso. Aveva cominciato la collezione perché all’inizio della carriera aveva commesso un errore, “una papera” appunto, e da quel momento, per ricordarsi di non commetterne più, incominciò a volersene circondare.

Quando la professoressa Maria Falcone, Presidente della Fondazione intitolata al fratello, di cui sono consigliere, mi propose di assumere l’incarico di Segretario generale, le risposi, celiando, che avrei accettato a condizione che mi avesse regalato una delle tante papere di Giovanni. Ne ho scelta una in legno e ora la tengo nel mio studio come una cosa estremamente cara.

E mentre Giovanni accumulava papere, io collezionavo coppe.

Una volta Paolo Borsellino venne a trovarmi con il figlio Manfredi, all’epoca adolescente, in ufficio, dove avevo esposto in una bacheca i trofei vinti giocando a calcio. Restammo a conversare per un po’ e poi Paolo e il figlio lasciarono l’ufficio. Qualche giorno dopo Paolo tornò a trovarmi, bussò forte alla porta, dove “bussare” è un eufemismo perché stava quasi per buttarla a terra, e con la sua immancabile sigaretta all’angolo della bocca mi apostrofò in dialetto: “A vo’ sapere ’na cosa? Sabato scorso sarei subito tornato indietro e, se non c’era mio figlio, t’avissi ammazzato”. Sorpreso, gli chiesi cosa mai avessi fatto per meritare quelle sue parole minacciose, e Paolo chiarì: “Vuoi sapere cosa ha detto mio figlio Manfredi quando sono uscito dalla tua stanza? Ha detto: ‘Papà, hai visto quante coppe e medaglie ha ricevuto il tuo collega? Quello sì che è un giudice, non tu che non ne hai mai vinta una’”. Naturalmente ci facemmo una bella risata.

Le sigarette... Giovanni e Paolo fumavano tantissimo, soprattutto il secondo. Io invece non ho mai fumato in vita mia, eppure da una radiografia, effettuata per accertare eventuali segni di una bronchite, emerse addirittura che i miei bronchi erano “neri, come quelli dei fumatori”.

Insomma, ero rimasto vittima del fumo “passivo” accumulato nelle lunghe riunioni del lunedì e in altre occasioni. Ad esempio, anche quando gli davo un passaggio in macchina Paolo non rinunciava alla sua ennesima sigaretta e, a seconda che sedesse alla mia destra o alla mia sinistra, quando rientravo a casa mia moglie sentiva che la mia guancia destra o quella sinistra “odorava” di fumo.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Quell’incombente paura della morte che accompagnava i giudici. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 31 luglio 2023

D’altronde Giovanni era da tempo nel mirino di Cosa nostra. A lui che si era precipitato sul luogo dell’agguato al giudice Gaetano Costa, un collega disse: “Pensa un po’, ero proprio sicuro sarebbe toccata a te”. Era il 6 agosto 1980

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Certo, tra noi colleghi gli scherzi non mancavano. Anche perché, è inutile negare, la paura di un attentato ‒ e quindi della morte ‒ è stata una nostra assidua compagna per tutti quegli anni, mentre intorno a noi cadevano altri fedeli servitori dello Stato.

Per alcuni, come per Giovanni Falcone, la minaccia era più pressante, tanto che lui era molto attento alla sua sicurezza. Ricordo che, una volta, un giovane carabiniere appena assegnato alla sua scorta gli chiese se poteva aiutarlo a portare la borsa che teneva sempre con sé. Un normale gesto di gentilezza. Giovanni gli porse la borsa e gli disse: «E se adesso arriva qualcuno che tenta di aggredirmi, tu che fai? Gli chiedi di darti il tempo di impugnare la pistola? Come fai a proteggermi se tieni la mia borsa in mano? Tu devi avere entrambe le mani libere».

D’altronde Giovanni era da tempo nel mirino di Cosa nostra. A lui che si era precipitato sul luogo dell’agguato al giudice Gaetano Costa, un collega disse: «Pensa un po’, ero proprio sicuro sarebbe toccata a te». Era il 6 agosto 1980.

Dopo l’omicidio di Costa, procuratore capo a Palermo, gli atti delle sue indagini vennero trasmessi all’Ufficio di Istruzione e l’inchiesta fu assegnata a Falcone, subito sottoposto a un servizio di scorta con tre volanti della Polizia.

Tutti eravamo consapevoli del grave pericolo che incombeva, si percepiva nell’aria.

Nei mesi successivi Giovanni Falcone diventò il magistrato più scortato d’Italia.

Due agenti con giubbotto antiproiettile lo precedevano quando entrava nella sua stanza, con altri tre dietro; un elicottero si alzava in volo quando doveva spostarsi e ancora altri due uomini erano di guardia dietro la porta di casa sua. Giovanni sosteneva che tutti dovevamo essere prudenti. Redarguiva il collega che non aveva compreso i pericoli a cui andava incontro con le sue indagini solitarie, o che ancora non aveva capito che il ruolo che avrebbe dovuto assumere rappresentava una minaccia per gli uomini di Cosa nostra, o che avesse deciso di andare in vacanza proprio in mezzo ai mafiosi. Quest’ultimo era il mio caso.

Nell’estate del 1986 o 1987, adesso non rammento con precisione, mi accordai per prendere in affitto una bella villa in territorio di San Nicola l’Arena, borgata marinara di Trabia, a pochi passi dal mare, e mi scappò di parlarne con Giovanni. Non l’avessi mai fatto! O forse è stato meglio così: mi aggredì dandomi dell’incosciente, ricordandomi, se me ne fossi dimenticato, che quella era una zona ad alta densità mafiosa, che la posizione della casa, che gli avevo descritto, avrebbe consentito un attentato sia dalla terraferma sia dal mare, e ingiungendomi, alla fine, di lasciare perdere.

In effetti, Giovanni aveva ragione di preoccuparsi per la mia incolumità, perché la zona in cui avrei dovuto trascorrere la vacanza è la stessa in cui, nel 1989, avvenne una mattanza di “uomini d’onore” cui facevano riferimento gli anonimi del cosiddetto “corvo”, dei quali mi occuperò più avanti.

Ma purtroppo Giovanni non pensò abbastanza alla sua incolumità quando, sempre in quel 1989, prese in affitto la nota villa sul mare all’Addaura, posizionata come quella in cui avevo deciso di trascorrere l’estate un paio di anni prima, in una zona ad alta densità mafiosa.

Una villa dove sarebbe stato possibile progettare un attentato dinamitardo ai suoi danni, come in effetti accadde, fortunatamente senza esito. Almeno in quella occasione.

Come accennavo, sulla morte si scherzava anche per allontanarne il pensiero. Quando noi giudici istruttori ancora occupavamo i locali al piano rialzato del Tribunale, un giorno il consigliere Rocco Chinnici, nel corso di una riunione, quasi a esorcizzare il pericolo che già incombeva sul pool, così ci rassicurò, tra il serio e il faceto: «Ragazzi, vi ho reso immortali; ho fatto montare vetri antiproiettile sulle finestre delle vostre stanze e così non correrete più alcun pericolo».

Falcone e Borsellino si divertivano invece a scriversi a vicenda i necrologi. Paolo diceva: «Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa quando ti avranno ammazzato. In questo mondo ci sono tante teste di minchia. Teste di minchia che tentano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello, quelli che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero. Ma oggi, signore e signori, davanti a voi, in questa bara di mogano costosissimo, c’è il più te- sta di minchia di tutti. Uno che si era messo in testa, niente di meno, di sconfiggere la mafia applicando la legge».

E poi c’è una scena nel film di Giuseppe Ferrara “Giovanni Falcone”... Un film che fotografa con molto realismo il nostro lavoro, perché l’autrice della sceneggiatura, Armenia Balducci, ebbe più volte a contattarmi, a nome del regista, per apprendere come e dove operavamo (anche se poi, in alcune scene, mi inquadrano mentre fumo, e io, ripeto, non ho mai toccato una sigaretta). Dicevo, c’è una scena in cui Paolo e Giovanni scherzano sulla loro morte, finché uno dei due sbotta: «Ma se ammazzano prima Guarnotta!»

Anche alla Questura di Palermo, allora chiamata «l’avamposto delle ombre perdute», Ninni Cassarà e Francesco Accordino, capo della sezione investigativa il primo e dirigente della sezione omicidi della Squadra mobile il secondo, passando davanti alla lapide che all’ingresso ricordava i poliziotti caduti in servizio, spesso scherzavano sulla propria fine, osservando che i loro nomi ci sarebbero stati bene lì, sulla lapide dei caduti.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Palermo, una città “addormentata” che faceva finta di niente. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani l'01 agosto 2023

Vista da lontano, Palermo sembrava una città dove il problema principale era la mafia. Poi arrivavi a Palazzo di Giustizia e vedevi che chi se ne occupava erano pochissimi magistrati. La maggioranza faceva tutt’altro...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Il nostro lavoro per qualche tempo venne ignorato da gran parte della città o peggio criticato, temuto, ostacolato. Era facile trovare qualcuno, imprenditore, commerciante, professionista che si lamentasse delle incursioni della Guardia di Finanza nelle banche e, soprattutto, di quel giudice, Falcone, un po’ troppo intraprendente.

La città guardava, non si schierava. Stava alla finestra in attesa di conoscere il vincitore.

Poi la collaborazione da “pentito” di Tommaso Buscetta e il blitz di San Michele attivarono un processo virtuoso. Buscetta era una figura particolare. Non era al comando di una “famiglia” ma era trattato lo stesso con grande rispetto. Era un capo e decise di parlare con Falcone che, forse, considerava una sorta di pari grado dall’altra parte della barricata.

Giovanni lo incontrò praticamente sempre da solo, verbalizzò a mano le sue dichiarazioni. Mentre lui parlava e l’inchiesta lievitava, c’era una Palermo che assisteva indifferente alla guerra di mafia. Nessuno sapeva ancora delle rivelazioni di Buscetta, tanto che, nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1984, partì il blitz di San Michele che portò in carcere oltre trecento persone senza che Cosa nostra avesse sentore di nulla. Il giorno dopo a Palazzo di Giustizia ci fu molta agitazione.

Da lì partì il momento d’oro del pool, se così possiamo dire, e dalle esigue disponibilità di uomini e mezzi alle quali ci eravamo abituati si passò a un largheggiare di risorse mai visto prima.

Il periodo tra settembre 1984 e maggio 1985 fu quello in cui il pool conseguì i primi positivi risultati.

Sentivamo e percepivamo con chiarezza che il clima attorno al nostro lavoro era cambiato. I colleghi mostravano sincero apprezzamento, molti chiedevano di entrare a fare parte del pool, volevano lavorare con noi. E l’attenzione e l’appoggio dello Stato ci incoraggiavano. Palermo era diventata una priorità per il nostro Ministero. Non era mai successo.

Anche il consenso dei palermitani era palpabile. “La gente fa il tifo per noi”, si spinse ad affermare Giovanni Falcone in un momento di entusiasmo, per come riferito poi da Paolo Borsellino in un suo cruciale intervento pubblico.

In realtà, Falcone era misurato nelle sue esternazioni, era diffidente, non contava troppo su quella improvvisa esplosione di vicinanza da parte della città. Infatti ci fu poco tempo per gioire. Quei pochi mesi passarono in fretta. Un nugolo di piombo ci fece ricordare, se mai ce lo fossimo dimenticati, che la guerra era ancora lunga e che altri morti avrebbero accompagnato il nostro cammino.

Mentre noi dovevamo fronteggiare attacchi che arrivavano da molte e differenti parti, la nostra “controparte” aveva un unico nemico: i giudici del pool e quel manipolo di poliziotti, carabinieri e uomini della guardia di finanza che ci collaborava.

Nell’immaginario collettivo è rimasta l’idea del pool, ma quando chiedi quanti giudici ne facessero parte senti dare cifre inverosimili che parlano anche di venti o trenta magistrati. Eravamo quattro, lo ribadisco, con Caponnetto che coordinava, e poi lievitammo a sei. Vista da lontano, Palermo sembrava una città dove il problema principale era la mafia. Poi arrivavi a Palazzo di Giustizia e vedevi che chi se ne occupava erano pochissimi magistrati. La maggioranza faceva tutt’altro.

Il terrorismo agiva soprattutto nel Nord del Paese e decine di magistrati con centinaia di uomini delle forze dell’ordine diedero la caccia alle Brigate rosse e alle altre sigle dell’epoca; in Sicilia, invece, occuparsi di mafia era una anomalia, una specializzazione nemmeno così qualificante. Numerose erano le obiezioni e le critiche al nostro lavoro. Giuristi, giornalisti, uomini politici a più riprese sostennero che la lotta alla mafia non è compito dei magistrati. “Il magistrato non lotta”, dicevano. E affermavano anche che, se questi – cioè noi del pool – fanno del contrasto a Cosa nostra uno degli obiettivi principali del loro lavoro, significa che non sono più affidabili, imparziali.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Quel “comunista” di Falcone accusato di voler sovvertire la democrazia. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 02 agosto 2023

Secondo qualcuno il pool in realtà era strumentalizzato e stava lavorando per i comunisti. In quella terra di Sicilia, da sempre serbatoio di voti per la Democrazia cristiana, quei giudici, e in particolare quel “comunista” di Falcone, stavano lavorando per un cambio di governo

Io, in tutta coscienza, credo che compito del magistrato sia quello di ristabilire il primato della legge, quando si ritiene sia stata violata. Se c’è stato un omicidio o si sospetta un traffico di droga, con il supporto della polizia giudiziaria io devo risalire ai colpevoli. E se questi presunti colpevoli fanno parte di un’organizzazione che si dedica per statuto alla progettazione e attuazione di fatti

criminosi e si chiama Cosa nostra, io devo combatterla.

Ma il magistrato deve essere “terzo”, disse qualcuno. Sicuramente lo è il giudice che in Tribunale deve decidere della colpevolezza o dell’innocenza dell’imputato, ma io che indago ho il dovere di individuare e perseguire i colpevoli cercando le prove a loro carico ma anche quelle a favore, come prescrive il codice di rito.

Mentre i criminali ammazzavano giornalisti, colleghi, poliziotti, facevano saltare autovetture con il tritolo, noi avremmo dovuto mantenere un certo aplomb nei confronti di quelle belve assassine. Siamo stati rigorosi e non ci siamo fatti travolgere dall’emergenza, infatti, abbiamo sempre cercato prove e riscontri, ma avevamo ben chiaro un fatto: quelli erano i nostri avversari. Siamo stati giudici, non giustizieri.

Eppure c’era chi diceva che la specializzazione dell’attività dei magistrati non andava bene, addirittura era contraria alla democrazia. Questa posizione, in realtà, ho sempre fatto fatica a capirla. Perché oggi esistono magistrati specializzati nei reati contro i minori, quelli più versati sul fronte delle indagini bancarie, ci sono stati il pool di Mani pulite e prima ancora quello contro il terrorismo, eppure la nostra democrazia mi sembra che goda di buona salute.

Migliorabile magari, ma ancora con una certa efficienza. E allora, forse era solo quel pool che non andava bene.

A tal proposito mi viene in mente il Manzoni, l’incontro dei “bravi” con Don Abbondio e la frase: “Questo matrimonio non s’ha da fare. Né domani, né mai”.

Infine, c’era un’ultima accusa, probabilmente la più sentita tra quelle che venivano mosse dal fronte dei nostri “amici” e che tradiva il suo vero, unico obiettivo. Secondo qualcuno il pool in realtà era strumentalizzato e stava lavorando per i comunisti. In quella terra di Sicilia, da sempre serbatoio di voti per la Democrazia cristiana, quei giudici, e in particolare quel “comunista” di Falcone, stavano lavorando per un cambio di governo.

Non riuscendo a vincere le elezioni il Pci stava manovrando per utilizzare la via giudiziaria che avrebbe scardinato un blocco di potere. Tutto questo, par di capire, anche con l’appoggio del monarchico Paolo Borsellino, da giovane animatore della formazione di destra del Fuan e che alle elezioni parteggiava per il Msi.

A forza di sentire certe accuse e insinuazioni, piano piano ci accorgemmo che l’opinione pubblica e il clima intorno a noi stavano cambiando. Ad esempio, Falcone se la prese molto quando i condomini del suo palazzo di via Notarbartolo, dove oggi c’è l’albero Falcone, scrissero al “Giornale di Sicilia” per prendere le distanze dal pericoloso condomino che metteva a rischio la loro incolumità e i loro beni.

Le lamentele sulle scorte erano un classico e trovavano sfogo sempre sulle colonne del “Giornale di Sicilia”, che pubblicava lettere come quella firmata da una signora che affermava di abitare nelle vicinanze di casa Falcone.

«Regolarmente tutti i giorni (non c’è sabato e domenica che tenga), al mattino, durante l’ora di pranzo, nel primissimo pomeriggio e la sera (senza limiti di orario), vengo letteralmente ‘assillata’ da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora io domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell’intervallo del lavoro? O quanto meno seguire un programma televisivo in pace?» «Perché non si costruiscono per questi ‘egregi signori’ delle villette alla periferia della città, in modo tale che, da una parte, sia tutelata la tranquillità di noi cittadini-lavoratori, dall’altra, soprattutto, l’incolumità di noi tutti che, nel caso di un attentato, siamo regolarmente coinvolti senza ragione».

Aveva ragione Giovanni quando lucidamente affermava: «La mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Essa vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di cultura di Cosa nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione».

Già, la mafia... Sono passati quasi quarant’anni dall’“avventura” del pool che vi sto e mi sto raccontando. Ma c’è anche un lunghissimo prima, e c’è un dopo che giunge fino a oggi.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Il trasferimento a Milano e la prima inchiesta, Lutrig “solista del mitra”. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 03 agosto 2023

Tra i primi procedimenti, ricordo quello a carico di Luciano Lutring, uno dei protagonisti della malavita milanese di quegli anni, soprannominato “il solista del mitra” perché aveva l’abitudine di nascondere il fucile mitragliatore che utilizzava per i suoi crimini nella custodia di un violino

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Non era ancora questo il contesto storico in cui ho mosso i primi passi quando, dopo un breve periodo di uditorato a Palermo, sono stato trasferito al Tribunale di Milano e mi sono state assegnate dal Presidente Luigi Bianchi D’Espinosa le funzioni di giudice istruttore penale. Che colpo di fortuna! Da non crederci. Svolgere, sin dall’inizio della carriera, il lavoro che avevo sempre sognato. In seguito non sarebbe stato più possibile coprire quelle funzioni appena entrati in carriera. Quello di giudice istruttore era il mio lavoro, nel senso che era ciò che desideravo fare quando studiavo, chino sui libri.

Ho cominciato nella fredda, umida e nebbiosa Milano, allora non ancora “da bere”. Per me non era la destinazione ideale, troppo lontana da casa, dalla mia Sicilia.

Certo, si trattava di una sede importante, dove avrei potuto fare interessanti esperienze, e per un certo periodo ho pensato anche seriamente di fermarmi lì. Poi però le cose, come vedremo, sono andate in modo diverso, molto diverso.

Preso possesso del mio ufficio, mi venne assegnata una stanza occupata anche dal collega Rigillo ‒ fratello del noto attore Mariano Rigillo ‒, il quale fu prodigo di consigli e suggerimenti che mi furono davvero utili per la mia nuova esperienza. Tra i primi procedimenti, ricordo quello a carico di Luciano Lutring, uno dei protagonisti della malavita milanese di quegli anni, soprannominato “il solista del mitra” perché aveva l’abitudine di nascondere il fucile mitragliatore che utilizzava per i suoi crimini nella custodia di un violino.

Era specializzato in rapine e ne portò a termine centinaia, per un bottino, secondo quello che raccontò lui stesso quando fu arrestato, di circa trenta miliardi di lire. Io, giovane magistrato, fui colpito dallo spessore criminale del personaggio, uno che amava la bella vita, le auto di lusso e le belle donne; allora non potevo immaginare che, alcuni anni dopo, mi sarei imbattuto in efferati criminali, capaci delle peggiori barbarie, al cui confronto Lutring poteva essere considerato un ladro gentiluomo. È proprio vero che nella vita tutto è relativo.

Tra i procedimenti assegnatimi in quel periodo, rammento quello riguardante un reato di bancarotta fraudolenta da circa 800 milioni di lire, somma notevole all’epoca anche per l’opulenta Milano. Fu con quel processo che iniziai a interessarmi di scritture contabili e movimenti bancari, acquisendo un’esperienza che mi sarebbe risultata utile in seguito, una volta tornato a Palermo e entrato a fare parte del pool antimafia.

Sono tanti i ricordi della mia vita a Milano. Uno di essi è legato proprio al procedimento penale cui ho fatto testé riferimento. Il difensore (o uno dei difensori, non rammento con precisione) dell’imputato era Luigi Franchi, autore con Virgilio Feroci e Santo Ferrari de “I quattro codici per le udienze civili e penali”, un manuale, tra i tanti, utilizzato da studenti della facoltà di giurisprudenza, avvocati e magistrati.

Orbene, Franchi, nel presentarsi come difensore dell’imputato, non poté fare a meno di segnalarmi che era lui, proprio lui, l’avvocato Luigi Franchi, autore insieme agli avvocati Feroci e Ferrari de “I quattro codici”. Un modo di mettermi sull’avviso che avrei avuto a che fare, giovanissimo e inesperto magistrato appena arrivato in città, con un “Principe del Foro”.

Mi chiese se potesse omaggiarmi una copia dei “suoi” codici, nonostante una la tenessi bene in vista sulla scrivania, e io gentilmente ma fermamente rifiutai l’offerta; non perché ne fossi già in possesso, sia ben chiaro, ma perché non intendevo essere condizionato in alcun modo.

A distanza di quasi sessant’anni, conservo gelosamente la mia copia di quel manuale, sul quale è impresso il timbro “Ministero di Grazia e Giustizia” e il numero di matricola 1231, avendolo utilizzato per le prove scritte del concorso per uditore giudiziario, superato al primo tentativo.

A Milano rimasi solo un anno. Di quei mesi mia moglie Lidia e io, sposini, ricordiamo una vita casa e lavoro, un tranquillo e freddo condominio dalle parti di piazzale Corvetto, non più centro ma non ancora periferia, rapporti con i vicini di pianerottolo cordiali ma un po’ asettici.

Ricordo che arredammo la piccola ma graziosa casa presa in affitto (costo della pigione 46 mila lire, poco meno di un terzo del mio stipendio) con l’aiuto dei colleghi Armando D’Agati e Salvatore Martino, vincitori del mio stesso concorso e anche loro “esiliati” in Lombardia. Debbo essere sincero. Quando mi riferisco all’aiuto datomi da Armando e Salvatore, intendo dire che, non essendo mai stato portato per i lavori manuali, io dirigevo i lavori e impartivo ordini, loro due li eseguivano! In compenso, rimanevano nostri ospiti a cena.

Qualche volta veniva a trovarci lo zio materno di mio padre, il commendatore Ersilio Marcucci, che abitava a Piacenza e che si era interessato per l’affitto della casa di via Avezzana al numero 14. In quell’anno pensai spesso a cosa fare della mia vita.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Una scelta di cuore, il ritorno in Sicilia nella “sperduta” Niscemi. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 04 agosto 2023

Ciò che mi preoccupava non era l’esistenza della mafia, di questo non si occupava nessuno allora. Nel 1965 non avevamo la consapevolezza del fenomeno. La mafia c’era e non c’era, c’era e non si vedeva, si sentiva e non si sentiva. Il problema vero erano le condizioni economiche e civili della Sicilia

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

Ero giovane, molto giovane, con una moglie e una figlia ‒ nel frattempo era nata Debora ‒, ed era giusto così, pensare al futuro. Rimanere lì, a Milano, o tornare in Sicilia?

Quale occasione migliore, per lasciarsi definitivamente alle spalle, sia pure con tristezza e amarezza, una terra che non prometteva nulla di buono in termini di sicurezza, di vivibilità, di guardare con fiducia al futuro, di certezza di un domani in cui far crescere i propri figli. Abbandonare per sempre la terra dove ero nato e cresciuto oppure rimanere abbarbicato alle origini, affrontando le tante contraddizioni, i problemi strutturali ed endemici, le difficoltà ambientali di una terra meravigliosa che non può non amarsi, nonostante tutto?

Ciò che mi preoccupava non era l’esistenza della mafia, di questo non si occupava nessuno allora. Nel 1965 non avevamo la consapevolezza del fenomeno.

La mafia c’era e non c’era, c’era e non si vedeva, si sentiva e non si sentiva. Il problema vero erano le condizioni economiche e civili della Sicilia.

Alla fine di quell’anno di pensamenti e ripensamenti, vinse la Sicilia. Mi sarei presto accorto però che essere magistrato in questa terra avrebbe significato, come in realtà è accaduto, patire ancora più dolorosamente la perdita per mano mafiosa di coraggiosi colleghi.

Cadono sotto il piombo mafioso: Pietro Scaglione, procuratore capo della Repubblica di Palermo, il primo magistrato ucciso in Italia nel dopoguerra, il 5 maggio 1971. Poi Antonino Saetta, presidente di Corte di Assise d’Appello, assassinato insieme al figlio Stefano. Gaetano Costa, procuratore capo della Repubblica di Palermo. Cesare Terranova, consigliere di Corte di Appello, designato a dirigere l’Ufficio di Istruzione penale del nostro Tribunale. Rosario Livatino, giudice del Tribunale di Agrigento. Giangiacomo Ciaccio Montalto, sostituto procuratore a Trapani. E infine, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

La scelta fatta, lasciare Milano, mi ha costretto a vedere scorrere sangue, a raccogliere dolore e disperazione, ma come siciliano credo sia stato mio dovere tornare nella mia terra.

Ciascuno di noi può fare qualcosa, un piccolo passo, anche soltanto un piccolo passo purché sempre in avanti. E loro, i miei amici, sono stati “puniti” duramente proprio per avere voluto fare quel passo.

Vinse la Sicilia anche perché grande era il desiderio di tornare nell’isola e il più vicino possibile a Palermo: qui abitavano i miei genitori (sono figlio unico) e la famiglia di mia moglie. Fui combattuto per un lungo anno ma poi, su mia domanda, fui trasferito alla Pretura di Niscemi.

Da Milano, la città più “moderna” d’Italia e in pieno boom economico, a un paese dell’interno della Sicilia, circondato da campagne bellissime.

Devo dire che è stato un cambio di vita notevole, estremo. Non sapevo nemmeno in quale parte della Trinacria fosse Niscemi, me ne sono accorto dando uno sguardo alla carta geografica solo dopo avere presentato la domanda di trasferimento.

A Niscemi, provincia di Caltanissetta, ma sul versante sud, molto più vicina a Gela e al mare, ho trascorso tre anni e mezzo. Ci trasferimmo tutti là. Io, Lidia e la piccolissima Debora.

Ricordi veramente d’altri tempi.

Abitavamo una delle pochissime case con le stanze sullo stesso piano, presa in affitto tramite il collega Mario Fantacchiotti, vincitore del mio stesso concorso e giudice a Caltagirone.

Quando mia moglie usciva per fare la spesa, io rimanevo in casa per accudire nostra figlia di pochi mesi che dormiva dentro una cesta in vimini posata sul tavolo del soggiorno, attorno al quale passeggiavo ‒ sono sempre stato uno studioso “peripatetico” ‒ consultando codici, raccolte di giurisprudenza o atti processuali e, naturalmente, controllando che Debora continuasse a dormire.

Tre anni e mezzo a Niscemi. Tanti, se ci penso ora. E anni anche importanti per la mia formazione. Venni più volte applicato al Tribunale di Caltagirone, dove svolsi le funzioni di giudice monocratico e di componente del collegio, addetto sia al civile sia al penale, così arricchendo la mia esperienza anche come giudice di secondo grado, dato che all’epoca le sentenze del Pretore venivano appellate al Tribunale.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Le indagini con i carabinieri e i “presunti” mafiosi mandati al confino. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTA su Il Domani il 05 agosto 2023

Con il maresciallo Alampi, comandante della Stazione dei Carabinieri “ripulimmo” la zona da un buon numero di malavitosi, tra i quali un certo Salvatore Arcerito che mandammo al soggiorno obbligato, misura di sicurezza all’epoca in vigore. Soltanto molti anni dopo ho appreso che si trattava del capo della “famiglia” mafiosa di Niscemi

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del suo libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

La nostra vita privata consisteva nella saltuaria frequentazione della famiglia del notaio Tumbarello, alla sua prima assegnazione a Niscemi, e in quella, più assidua, con la famiglia, originaria di Salerno, del signor Sabato Voto, amministratore del feudo (ubicato in territorio di Niscemi) dell’ambasciatore Raffaele Guariglia, già ministro degli Esteri del Regno d’Italia e senatore del Partito Nazionale Monarchico. Con i Voto, che abitavano di fronte, si instaurò una sincera amicizia, che contribuì a non farci sentire soli; e la nostra bambina ben presto venne “adottata” da tutti.

Per il resto, nessuna frequentazione con gli avvocati del Foro, con i quali intrattenevo rapporti del tutto formali, non accettavo inviti a cena dai soci del più importante circolo del paese e non andavo al cinema perché il figlio del titolare era imputato in un procedimento pendente davanti la mia Pretura. Ritenevo che, essendo la sola autorità giudiziaria del posto, non fosse opportuno intrattenere altre frequentazioni oltre quelle con le famiglie Tumbarello e Voto, per le quali nutrivo la massima fiducia.

E con il sindaco sotto processo per danneggiamento?

Solo rapporti istituzionali. Ricordo ancora la folla incuriosita di cittadini che il giorno dell’udienza si radunò davanti la Pretura.

Naturalmente avevo un ottimo rapporto di collaborazione con il maresciallo Alampi, comandante della Stazione dei Carabinieri (dopo tanti anni, l’ho rivisto a Palermo con l’incarico di responsabile del servizio di traduzione dei detenuti), con il quale “ripulimmo” la zona da un buon numero di malavitosi, tra i quali un certo Salvatore Arcerito che mandammo al soggiorno obbligato, misura di sicurezza all’epoca in vigore. Ricordo che poco tempo prima la moglie di Arcerito bussò alla porta della nostra abitazione. A mia moglie, che aveva aperto, spiegò il motivo della “visita”, implorando che il marito non fosse allontanato da Niscemi. Tirò fuori da sotto il mantello che indossava un coniglio vivo, pregando di accettarlo in segno del rispetto che il marito nutriva nei miei confronti.

Lei venne subito mandata via e il marito inviato al soggiorno obbligato, in quanto pericoloso delinquente. Soltanto molti anni dopo ho appreso che si trattava del capo della “famiglia” mafiosa di Niscemi.

C’è un altro episodio che non dimentico. Avevo preso servizio a Niscemi da appena qualche giorno e nottetempo venni informato che era stato rinvenuto un cadavere alla periferia del paese. Accorsi sul posto. Si trattava di un omicidio, il primo fatto di sangue di cui mi sono dovuto occupare.

A Niscemi cambiarono anche le nostre abitudini di vita quotidiana, drasticamente. Per le cose più banali, che a Niscemi non erano affatto banali. Per esempio l’acqua.

Non c’era l’acqua corrente, servizio al quale eravamo abituati a Milano ma anche a Palermo. Uno choc per noi.

Dovevamo arrangiarci come facevano tutti. Riempire la vasca da bagno per fare scorta, usare i recipienti... avevamo la casa piena di bidoni. Era preziosissima l’acqua, la cosa più preziosa che c’era a Niscemi.

Quando lasciavamo il paese, io e Lidia ci accorgevamo di uscire da quel mondo dall’asfalto che scivolava sotto le ruote della nostra macchina.

Quando si rientrava nel mondo “normale”, in provincia di Catania, l’asfalto diventava meno ruvido, più liscio. Per noi era il segnale che stavamo rientrando a casa. A Palermo, dove c’erano tutti i nostri affetti. Quel viaggio era una vera e propria epopea: con la mia gloriosa Fiat 850 di color bianco puntavamo verso sud, in direzione di Gela e Licata, e dopo ci dirigevamo verso la Valle dei Templi. Per poi ‒ da lì ‒ “risalire” verso nord attraverso la vecchia strada statale, con la prua verso l’agognata Palermo. Un viaggio massacrante di circa cinque ore. Con frequenti soste, anche perché le condizioni delle strade all’epoca “agevolavano” il mal d’auto di mia moglie Lidia... Un’altra epoca davvero. Ricordi in bianco e nero.

Dopo Niscemi, via a Termini Imerese, città distante circa 45 chilometri da Palermo, dove, tra il mese di gennaio 1971 e il mese di febbraio 1979, ho ricoperto le funzioni di Pretore Mandamentale prima e dopo quelle di giudice “tutto fare” presso il Tribunale.

Niscemi era stata una buona palestra, visto che lì mi ero occupato di tutto e le sentenze le redigevo dettandole in presa diretta al dattilografo “prestato” dal Comune.

Avevo maturato una preziosa esperienza sia nel settore penale che in quello civile, per cui non ebbi difficoltà a svolgere le relative funzioni sia come giudice monocratico sia come componente dei collegi civili e penali. Nell’ultimo periodo di permanenza a Termini Imerese mi vennero affidate le funzioni, indovinate quali?, sì, proprio quelle di giudice istruttore, tanto per non perdere l’abitudine!

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTA

Ritorno a Palermo, il giudice Guarnotta e l’indagine su Marino Mannoia. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA" DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 06 agosto 2023

Mi fu assegnato anche il procedimento a carico di Francesco Marino Mannoia, allora non ancora collaboratore di giustizia, alla cui latitanza pose fine il dottor Beppe Montana, capo della sezione “catturandi” della Squadra mobile della Questura di Palermo, grazie all’intercettazione di una conversazione telefonica tra il Mannoia e la sua amante Rita Simoncini

Termini Imerese è stata una tappa decisiva per la mia carriera, lì tornerò nel 2003 con le funzioni di Presidente del Tribunale. Ma soprattutto porto Termini Imerese nel cuore perché lì mia moglie e io abbiamo concepito nostro figlio Michele.

In seguito, su mia domanda, sono stato trasferito al Tribunale di Palermo dove, dopo una breve permanenza presso la Seconda Sezione Penale, il 2 gennaio 1980 sono approdato all’Ufficio di Istruzione. Qui sono rimasto sino all’11 gennaio del 1995.

Alla Seconda Sezione Penale trovai un presidente che, per fortuna, comprese il mio desiderio di assumere le funzioni di giudice istruttore e perorò la mia “causa” presso il Presidente del Tribunale. Non ringrazierò mai abbastanza quel collega a cui devo l’inizio della mia “avventura” presso l’Ufficio di Istruzione di Palermo.

Ricordo che, quando tutto ebbe inizio, festeggiammo con una bottiglia di champagne. Prima, al momento di lasciare la Seconda Sezione Penale, il Presidente mi gratificò di una lettera di elogio perché in poco più di dieci mesi avevo redatto, oltre a ordinanze e decreti, circa cento sentenze, delle quali 25 depositate il 14 agosto, durante il periodo feriale del 1979.

Tutta quella produttività, però, avrebbe potuto giocare a mio sfavore perché il Presidente del Tribunale Franco Romano, che disponeva le assegnazioni, faceva parte di quella vecchia scuola che, senz’altro in buona fede, riteneva che all’Ufficio di Istruzione dovessero essere assegnati magistrati non particolarmente idonei per i collegi giudicanti penali e civili. Quando ci penso mi viene da sorridere perché a quella incomprensibile “selezione” sono sfuggiti, per fortuna, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, magistrati che hanno cambiato la storia della magistratura in Italia, che hanno “inventato” quel capolavoro di ingegneria giudiziaria che è stato il Maxiprocesso, sotto la sapiente guida di Rocco Chinnici prima e di Antonino Caponnetto dopo.

Come cambiano i tempi.

D’altronde di mafia non si parlava, ci si occupava di altre realtà delinquenziali e molti magistrati pensavano che il vero esercizio del diritto stesse altrove, non certo in quell’ufficio che in fondo era un po’ roba da sbirri. Ovviamente, invece, la rivoluzione partì da lì. Ma questo serve per comprendere lo spirito dell’epoca: molta era la distanza che ci separava dai tempi attuali.

Appena arrivato a Palermo mi sono occupato di un grosso processo per sofisticazione di vino a Partinico, in quegli anni la capitale italiana della sofisticazione vinicola. Facevano il vino con lo zucchero, in paese c’erano serbatoi sotterranei di cemento armato dove si nascondeva il vino adulterato. Che altro? In ufficio ho trovato poi un armadio pieno di fascicoli contenenti gli atti di indagini relative a rapine, omicidi e sequestri.

Mi fu assegnato anche il procedimento a carico di Francesco Marino Mannoia, allora non ancora collaboratore di giustizia, alla cui latitanza pose fine il dottor Beppe Montana, capo della sezione “catturandi” della Squadra mobile della Questura di Palermo, grazie all’intercettazione di una conversazione telefonica tra il Mannoia e la sua amante Rita Simoncini, nella quale i due prendevano accordi per incontrarsi nel rifugio in cui il Mannoia trascorreva la latitanza. Nel corso dell’irruzione dei poliziotti, Rita Simoncini accusò un malore al seguito del quale perse i due gemelli che teneva in grembo, frutto della sua relazione con il Mannoia.

Ricordo che Montana mi chiese se fosse possibile estromettere dal rapporto inviato alla Procura, a me assegnato per la formale istruzione, il suo nome quale responsabile dell’operazione di polizia. Ma il fascicolo processuale era stato sicuramente fotocopiato, era passato per diverse mani, per cui feci presente che l’unica possibilità sarebbe stata quella di farmi pervenire una nota con la quale mi informava che, in realtà, non aveva partecipato all’operazione e che il suo nome era stato erroneamente inserito nel rapporto. Erano già tempi difficili, la tensione era alta.

Aveva paura di una eventuale vendetta e temeva per la sua vita? Ma non fu questo singolo fatto che ne decretò la morte. Montana fu assassinato perché a Cosa nostra facevano paura il suo coraggio e la sua determinazione nella caccia ai latitanti.

Approdato all’Ufficio di Istruzione, finita la felice esperienza presso la Seconda Sezione Penale, ho avuto l’opportunità di incontrare di nuovo Falcone e Borsellino dopo i tempi lontani dell’università quando, sia pure fuggevolmente, era capitato di incrociarci in attesa di “dare” una materia o di passeggiare nell’atrio della facoltà di giurisprudenza.

Parlando del più e del meno, Falcone e io scoprimmo di essere stati nominati presidenti di seggio a Bagheria, in occasione di una consultazione popolare (non ricordo se si trattasse di elezioni comunali o nazionali). All’epoca Giovanni non era stato ancora incaricato da Rocco Chinnici di istruire il procedimento contro Rosario Spatola, pertanto non era ancora sottoposto a servizio di scorta.

Allora ci organizzammo in modo che, a turno, ognuno di noi utilizzasse la propria autovettura (la mia Alfa Romeo grigia e la sua Alfa Sud bianca) per raggiungere Bagheria nei giorni delle votazioni. Durante i tragitti, ricordavamo le rispettive esperienze di lavoro vissute dall’entrata in carriera (Giovanni alla Pretura di Lentini e poi alla Procura della Repubblica di Trapani), ma mai avremmo potuto anche soltanto immaginare cosa il destino avrebbe riservato a entrambi negli anni successivi. Ed è proprio di questo che desidero parlare, del pool, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Peppino Di Lello e degli altri colleghi, Giacomo Conte, Ignazio De Francisci e Gioacchino Natoli, che ci hanno affiancato dopo il trasferimento di Borsellino alla Procura della Repubblica di Marsala. Voglio tornare a parlare di Antonino Caponnetto e del Maxiprocesso. E di tanto altro. Perché tanto, di bello e di brutto, è accaduto in quegli anni a Palermo.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA" DI LEONARDO GUARNOTTA

Con l’uccisione di Rocco Chinnici i boss pensavano di averla scampata. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA" DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 07 agosto 2023

Per quegli “addetti ai lavori” e per tanti altri, dopo l’uccisione di Chinnici, la città di Palermo poteva tornare a respirare, a vivere se stessa come sempre, poteva tornare alla sua calma, alla sua indifferenza, alle sue abitudini, alla sua convivenza “tranquilla” con la mafia e i mafiosi

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

A Firenze Antonino Caponnetto aveva lasciato una moglie – non certo felice della sua partenza verso una destinazione così pericolosa – e tre figli. Per andare dove? Per venire a Palermo a sostituire il consigliere istruttore Rocco Chinnici che il 29 luglio 1983 Cosa nostra aveva fatto saltare in aria con un attentato alla libanese, un’autobomba fatta scoppiare in città, in mezzo ai palazzi, ai negozi, alle persone che a quell’ora uscivano da casa.

Ma Caponnetto faceva anche ritorno alla sua terra natia, la Sicilia, dove era nato il 5 settembre 1929, a Caltanissetta, una delle tappe della carriera del padre.

Riservato, schivo, l’arrivo di Antonino rese contenti, ma solo inizialmente, molti addetti ai lavori, imprenditori, commercianti, professionisti nell’orbita mafiosa e, forse, qualche avvocato penalista palermitano, dai quali fu visto e soppesato come un magistrato innocuo e incolore, di passaggio, uno che ci avrebbe messo chissà quanto tempo prima di impadronirsi della “materia”, capire la struttura e le dinamiche dell’organizzazione criminale che il suo predecessore aveva iniziato a contrastare con un gruppo di giudici istruttori. E comunque, sempre meglio lui “che quel rompiballe di Chinnici con la sua fissazione della mafia”, per giunta con due effe, come la pronunciava.

Per quegli “addetti ai lavori” e per tanti altri, dopo l’uccisione di Chinnici, la città di Palermo poteva tornare a respirare, a vivere se stessa come sempre, poteva tornare alla sua calma, alla sua indifferenza, alle sue abitudini, alla sua convivenza “tranquilla” con la mafia e i mafiosi.

Debbo essere sincero. Dopo avere appreso che era stato designato il dottor Antonino Caponnetto, sostituto procuratore generale in servizio a Firenze, e dopo averlo conosciuto personalmente, fu istintivo in ciascuno di noi fare il confronto con il suo predecessore.

Vedevamo una persona di una certa età, 63 anni, esile, non proprio in salute, del quale ignoravamo se fosse competente in materia di criminalità organizzata ‒ mentre Rocco Chinnici era aitante, fisicamente imponente, pieno di vitalità e molto esperto di mafia. E ci chiedevamo se il Csm avesse designato il magistrato giusto per sostituire il “nostro” Rocco Chinnici. Ma ci volle pochissimo per constatare di che pasta e tempra fosse fatto il nostro nuovo consigliere, al di là dell’aspetto fisico.

Aveva lasciato a Firenze la sua famiglia per condurre a Palermo una vita monastica, divisa esclusivamente tra l’ufficio e, per motivi di sicurezza, una spoglia stanza della caserma Cangialosi della Guardia di Finanza. Più che una stanza era quasi una cella: un lettino, un piccolo bagno e un comodino con i suoi libri, Le Confessioni di Sant’Agostino e La Recherche di Proust. La sera, lì in caserma, se arrivava entro le nove, a volte riusciva a trovare i piatti caldi della mensa dei finanzieri.

In generale, cercava di rispettare gli orari ma quando non ce la faceva se la cavava con un piatto freddo che gli facevano trovare nella sua stanzetta. I suoi unici momenti all’aperto, la sua ora d’aria, come quella dei carcerati, li trascorreva nel chiostro seicentesco del convento domenicano di Santa Cita (Santa Zita, più propriamente), trasformato in ospedale militare nel 1850 e, successivamente, nella caserma Cangialosi.

La sua dedizione al lavoro era davvero straordinaria. Antonino Caponnetto rimaneva in ufficio con noi, e più di noi, fino a tarda sera. Ci aveva perso quasi la vista a collazionare più e più volte quelle circa novemila pagine della ordinanza-sentenza che aveva aperto la strada al primo Maxiprocesso contro i boss di Cosa nostra.

Era prodigo di consigli, ci incoraggiava nei non rari momenti di difficoltà. Ci spronava a non mollare mai, a credere che il nostro impegno avrebbe potuto redimere, rendendola migliore, la nostra terra bagnata col sangue versato da tanti rappresentanti delle forze dell’ordine e da innocenti vittime del massacro voluto dai “Corleonesi”, scesi allora a Palermo per un regolamento di conti con le “famiglie” del capoluogo, per la conquista della supremazia nel campo della criminalità organizzata.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA" DI LEONARDO GUARNOTTA

La svolta, l’arrivo di Antonino Caponnetto e la creazione del “pool”. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani l'08 agosto 2023 • 19:00

Quando Caponnetto arrivò a Palermo gli chiesero se non avesse paura di morire. Lui rispose che, a 63 anni, bisogna pur familiarizzare con l’idea della morte. Ben detto, perché immediatamente arrivarono le minacce...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro, “C'era una volta il pool antimafia”, edito da Zolfo Editore

In quella caserma e nel suo ufficio trascorse tantissimi week-end e festività per non impegnare in servizio i suoi “angeli custodi”, visto che “anche la scorta ha una famiglia”, come soleva dire.

Antonino Caponnetto, nei suoi quattro anni e mezzo di permanenza a Palermo, percorse quasi esclusivamente le strade che lo conducevano dalla caserma all’ufficio. Soltanto un paio di volte, se non ricordo male, noi del pool uscimmo tutti insieme per partecipare a cerimonie pubbliche. Quando accettammo l’invito ad assistere all’anteprima del film Cento giorni a Palermo del regista Giuseppe Ferrara, dedicato al prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa.

E poi la volta in cui ci recammo (mancava soltanto Falcone perché all’estero per una rogatoria) a Prato su invito del sindaco per la consegna del “Gigliato d’oro”, l’antica moneta pratese, simbolo della prima repubblica cittadina, in “segno della solidarietà che questa città intende concreta- mente esprimere con la Sicilia degli onesti che, ne siamo convinti, è certamente la Sicilia dei più”.

Quando Caponnetto arrivò a Palermo gli chiesero se non avesse paura di morire. Lui rispose che, a 63 anni, bisogna pur familiarizzare con l’idea della morte. Ben detto, perché immediatamente arrivarono le minacce.

Sul telegramma inviatogli dall’alto commissario Emanuele De Francesco in occasione del suo insediamento, qualcuno appose una striscia di carta che cambiava l’espressione “le auguro successo” con “le auguro occiso”. Un affettuoso saluto palermitano di benvenuto da parte degli uomini di Cosa nostra. Venuto a conoscenza dell’“augurio”, ma non solo per questo, l’alto commissario De Francesco dispose che venisse subito installato uno spesso vetro blindato alla finestra dell’ufficio di Caponnetto, perché fuori, proprio di fronte, chiunque poteva transitare o posteggiare la sua autovettura.

Nella prima riunione che tenne con i colleghi – allora non facevo ancora parte del pool e quindi ne fui informato in un secondo tempo –, Caponnetto chiarì subito che era sua ferma intenzione proseguire sulla linea tracciata dal suo predecessore. Anzi, assicurò che voleva andare

oltre. L’obiettivo a brevissimo termine – ci mise solo una decina di giorni a elaborarlo dal suo arrivo – era di costituire un gruppo di giudici istruttori che si occupasse esclusivamente dei processi di mafia.

Un pool specializzato che ripristinasse, nel pieno rispetto delle norme penal-processuali, il predominio del diritto e della legalità contro la violenza, l’arroganza e la tracotanza non più tollerabili della criminalità organizzata comune e, soprattutto, di Cosa nostra, che aveva assunto le preoccupanti proporzioni di un vero e proprio Stato illegale nello Stato.

Musica per le orecchie di Falcone, Borsellino e Di Lello.

La creazione del pool voleva anche accreditare l’idea di una responsabilità collettiva degli atti: tutti dovevano sapere tutto delle indagini svolte da ciascuno. Non ci sarebbe più stato il singolo giudice istruttore responsabile di una singola istruttoria, e per questo esposto al pericolo di minacce o di attentati.

Il consigliere Caponnetto, applicando l’articolo 17 delle disposizioni regolamentari del codice di procedura penale, dispose l’assegnazione a ognuno dei componenti del pool di tutte le indagini sui reati di mafia, intestandosi il relativo processo.

Era anche un modo di operare a maggiore garanzia della sicurezza dei magistrati. Perché non ci fosse un altro caso come quello del procuratore Gaetano Costa che in solitudine, nella primavera

del 1980, aveva firmato un ordine di cattura contro gli Spatola e gli Inzerillo, i quali ne avevano decretato la fine. Il magistrato avrebbe avuto assegnata la scorta, finalmente, il 7 agosto 1980, e lo stesso giorno sarebbe partito in vacanza con la famiglia.

Ma venne ucciso da un killer il 6 agosto.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

«Non eravamo lo stato, ma un piccolo avamposto in una terra pericolosa». DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 09 agosto 2023

Noi avevamo una fiducia totale in Caponnetto. A lui spettava la guida del pool ma aveva in Giovanni il suo punto di riferimento. E visto che eravamo solo in quattro, per lasciare il pool libero di occuparsi esclusivamente di Cosa nostra, Caponnetto si auto-assegnò anche molti procedimenti di altra natura, facendo registrare altissimi indici di produttività

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Per prendere confidenza con il nuovo e difficile compito, Caponnetto si giovò della collaborazione di Falcone, che lo mise al corrente dei risultati conseguiti dal “gruppo”.

In particolare, gli descrisse la struttura di Cosa nostra secondo le ancora incomplete conoscenze sino ad allora acquisite, lamentando che all’azione di contrasto del fenomeno mafioso fosse stata di ostacolo una quasi totale omertà, il pilastro su cui da sempre si basavano il potere e la sopravvivenza di Cosa nostra.

E infine lo mise in guardia, avvertendolo che in quel Palazzo avrebbe trovato ben pochi amici. Molto pochi.

Noi avevamo una fiducia totale in Caponnetto. A lui spettava la guida del pool ma aveva in Giovanni il suo punto di riferimento. E visto che eravamo solo in quattro, per lasciare il pool libero di occuparsi esclusivamente di Cosa nostra, Caponnetto si auto-assegnò anche molti procedimenti di altra natura, facendo registrare altissimi indici di produttività.

In un suo libro ha scritto di me che ero il più anziano dei giudici del pool, ma in quel caso si sbagliava. Sono nato infatti il 12 febbraio 1940, Falcone (nato il 18 maggio 1939) e Borsellino (nato il 19 gennaio 1940) erano perciò i più anziani, mentre Di Lello era il più giovane, essendo nato il 24 novembre 1940. Caponnetto aveva ragione, invece, quando diceva che ho sempre cercato di mantenere un ritmo di vita il più normale possibile. Per questo non rinunciavo alle mie partite a pallone e a tennis, nonostante mi esponessero a notevole rischio, facendolo preoccupa- re. Bontà sua, mi accreditava di una solida preparazione giuridica maturata nel corso degli anni e dovuta alle mie “variegate”, pregresse esperienze professionali.

Il suo prezioso impegno è proseguito anche dopo la fine dell’esperienza palermitana. Ritornato a Firenze, si è speso per incontrare gli studenti di ogni istituto per fare memoria del lavoro svolto dal pool e per rendere i giovani partecipi degli stessi principi e valori ai quali si erano ispirati quei magistrati, con i quali manteneva un legame profondo.

Non si era dimenticato del pool e di me. Ricordo, ad esempio, che avendo appreso dalla stampa che avevo depositato, il 5 gennaio 1995, l’ordinanza-sentenza che chiudeva l’esperienza del “suo” pool, volle che gli facessi avere copia degli undici volumi di cui il provvedimento si componeva, per complessive 1.750 pagine. Mi ringraziò commentando: “Ma quanto hai scritto!”

Infine, tengo cara nella memoria una delle sue frasi più belle e cariche di significato: “Ragazzi, godetevi la vita, innamoratevi, siate felici ma diventate partigiani di questa nuova resistenza, la resistenza dei valori, la resistenza degli ideali. Non abbiate mai paura di pensare, di denunciare, di agire da uomini liberi e consapevoli. State attenti, siate vigili, siate sentinelle di voi stessi!

L’avvenire è nelle vostre mani. Ricordatelo sempre!”

Mi piacerebbe che queste parole fossero il testamento morale di “nonno Nino”, come veniva chiamato dai giovani che incontrava nelle scuole.

Dopo quei quattro anni intensissimi alla guida dell’Ufficio di Istruzione, Antonino Caponnetto aveva chiesto di essere trasferito a Firenze, certo che il suo posto sarebbe stato assegnato a Giovanni Falcone, che ne aveva fatto domanda e che vantava una straordinaria esperienza nella lotta alla criminalità organizzata.

Fino all’ultimo, però, avanzò dei dubbi su come sarebbero andate le votazioni al plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, ma fu rassicurato da Falcone che, illuso da falsi amici, era convinto di avere i voti necessari per la nomina. Ma di ciò che è accaduto in quel 1988 parlerò più avanti e a fondo, perché è una delle pagine più nere della recente storia d’Italia.

Nonostante gli omicidi avvenuti fra il 1979 e il 1980 (il capo della Squadra mobile Boris Giuliano, il consigliere istruttore Cesare Terranova, il presidente della Regione Piersanti Mattarella, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile e il procuratore capo della Repubblica Gaetano Costa), in realtà sul fronte della lotta alla mafia non era successo nulla.

Qualcuno strillava per qualche giorno e poi tutto tornava come prima.

Ma noi eravamo stufi di stare a guardare e difenderci e così impostammo un lavoro che avrebbe prima o poi dato i suoi frutti. Anche in questo cambiammo la prospettiva, decidemmo che era la mafia a doversi preoccupare, lavorammo sul lungo periodo con costanza, tenacia e la tranquillità di chi sa di avere imboccato la strada giusta.

Però noi non eravamo lo Stato, tutto lo Stato, eravamo solo un piccolo avamposto in una terra pericolosa che aveva bisogno di essere sostenuto. E questo, in verità, successe solo qualche volta.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Falcone, le qualità umane e il suo altissimo senso delle istituzioni. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 10 agosto 2023

Possedeva un altissimo senso delle istituzioni, che lo portò a collaborare con il consigliere istruttore Antonino Meli anche quando comprese che questi aveva deciso, con provvedimenti che non condivideva, di mettere fine all’esperienza del pool

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Se Caponnetto era la nostra guida, Giovanni Falcone, accanto a lui, era il nostro leader. La sua autorità se l’era guadagnata sul campo.

D’altronde, se un magistrato come Rocco Chinnici aveva deciso di affidargli il processo Spatola qualche buon motivo doveva esserci. Era capace di iniziare la giornata alle cinque del mattino, andare in piscina (non sempre) e poi lavorare tutto il giorno fino a tardi.

Era dotato di carisma, di un intuito formidabile e di una memoria straordinaria.

La sua vita era dedicata al lavoro. Le sue giornate non avevano pause. Nonostante la sua autorevolezza, conservava un atteggiamento rispettoso e colloquiale nei confronti dei colleghi più giovani, mentre nei nostri confronti manteneva sempre un comportamento franco, leale, aperto, amichevole e anche protettivo.

Se avevi un dubbio su un mafioso, non ricordavi a quale “famiglia” appartenesse, lui era in grado di ricordare non solo la “famiglia”, cioè il manipolo di “uomini d’onore” di cui faceva parte, ma anche tutta la sua parentela di sangue. L’unico che poteva stargli dietro era Paolo. Per questo fra i due si scatenavano ogni tanto accese discussioni su quello o quell’altro mafioso, sul curriculum, l’appartenenza, la parentela. Nessuno dei due cedeva. Una “camurria”, avrebbe detto Andrea Camilleri, anche molto divertente.

Giovanni sapeva ridere e scherzare, ma non aveva un carattere facile. Come se interponesse sempre una barriera fra sé e gli altri. Non era ottimista né pessimista, era realista. Era una persona riservata, ma quando oltrepassavi quella barriera scoprivi un uomo dalla grande bontà d’animo. Rammento che spesso chiedeva notizie dei nostri genitori e dei nostri figli, ed era sempre pronto a sostenerci nei momenti difficili o dolorosi, come è avvenuto in occasione del decesso di mio padre.

Quando Caponnetto salutò tutti per fare ritorno a Firenze, Giovanni pianse.

Falcone era pienamente convinto delle proprie capacità e di ciò che stava facendo. Lavorare con lui era impegnativo perché ogni giorno dovevi essere all’altezza del compito, perché lui non si concedeva tregua. Era schietto, non sapeva nascondere il giudizio su persone che riteneva non

capaci, per questo si attirò molte critiche. Persino Chinnici, che pure lo stimava, nei suoi diari avanzò qualche dubbio sui suoi atteggiamenti. Ma possiamo solo immaginare il clima di paranoia del consigliere istruttore in quei giorni.

Il sense of humor di Giovanni era intonato al suo carattere. Gli piacevano le freddure, quelle battute che ci metti un po’ a capire e ti lasciano perplesso. Ai giornalisti che chiedevano come stesse, lui rispondeva “in piedi”, se era alzato, oppure “seduto” se non lo era, e se citofonavi e dicevi: «Sono Leonardo», lui rispondeva: «Io no».

Possedeva un altissimo senso delle istituzioni, che lo portò a collaborare con il consigliere istruttore Antonino Meli anche quando comprese che questi aveva deciso, con provvedimenti che non condivideva, di mettere fine all’esperienza del pool.

Giuseppe Di Lello e Giacomo Conte invece preferirono rinunciare alle loro deleghe.

Sempre per lealtà istituzionale, e anche per non essere coinvolto in un altro scontro come quello con Antonino Meli, Giovanni firmò la requisitoria del procedimento relativo ai delitti politici Reina, Mattarella e La Torre, le cui conclusioni non lo convincevano. Allora Falcone era Procuratore aggiunto mentre il capo dell’ufficio era il dottor Pietro Giammanco.

Vicende su cui tornerò ancora più avanti.

Altro che forcaiolo e altro che sceriffo, Giovanni era un cultore delle regole, dei codici, della legge. Nessuno di noi era un giudice “oltre le righe”. Eravamo garantisti, garantisti fino al midollo. Una volta, eravamo nel 1988, valutammo la possibilità di emettere un mandato di cattura nei confronti di uno dei fratelli Costanzo, a nome Carmelo, i potenti costruttori catanesi, i famosi “cavalieri”, sul cui conto aveva reso dichiarazioni il collaboratore

Antonio Calderone indicandoli come “vicini”, se non “interni”, al clan mafioso di Nitto Santapaola. Ricordo che discutemmo sino a tarda sera ma alla fine, poiché non ne eravamo sicuri al 101 per cento, quel mandato di cattura non lo emettemmo.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Due giudici “complementari”, entrambi perfetta sintesi della Sicilia. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA" DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani l'11 agosto 2023

Uno era laico, l’altro molto cattolico, uno era orientato a sinistra e l’altro a destra, uno senza figli perché non voleva fare nascere orfani, così soleva dire, e l’altro di figli ne aveva tre, uno che ti guardava col sorriso appena accennato e l’altro dalla risata franca, aperta. Erano straordinariamente complementari

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editor

Ed è proprio a questo episodio che ha fatto riferimento Giovanni Falcone nel corso della sua audizione del 15 ottobre 1991 davanti la Commissione Referente del Csm. In occasione del blitz di San Michele del 1984, dei circa 360 imputati soltanto uno venne tratto in arresto per errore di persona dovuto alla consuetudine, all’epoca da noi non presa in considerazione, secondo cui il soprannome, l’“inciuria” nel dialetto siciliano, si eredita di padre in figlio, per cui il mafioso indicato dal boss “pentito” Salvatore “Totuccio” Contorno come “Peppino Garibaldi” non era la persona che credevamo ma il figlio, che aveva ereditato l’“inciuria” dal genitore. Naturalmente, scoperto l’arcano, provvedemmo immediatamente a scarcerare il mal capitato.

La logica emergenziale non ci è mai appartenuta, come dicevo in precedenza, anzi cercavamo i riscontri agli elementi indiziari acquisiti con cura certosina, con attenzione, fino allo sfinimento, per non commettere gli errori del passato, quando rinvii a giudizio non basati su prove certe, granitiche si erano conclusi con sentenze di assoluzione per insufficienza di prove, vero fiore all’occhiello per ogni mafioso. Falcone, come ha raccontato anche Peppino Di Lello, era attento a stralciare posizioni che richiedevano ulteriori riscontri.

È stato, tra tanti altri, il caso di Bruno Contrada, il poliziotto più famoso di Palermo, sul cui conto aveva reso dichiarazioni Tommaso Buscetta senza però scendere in molti particolari circa la sua asserita “vicinanza” a Cosa nostra. Il capo della Criminalpol, Gianni De Gennaro, preoccupato, sollecitò ulteriori chiarimenti. Ma Buscetta, interrogato da Falcone, ritenne di non dovere aggiungere altro a quel poco che aveva riferito sul conto di Contrada.

Pertanto non ritenemmo di adottare alcun provvedimento. Soltanto dopo le stragi, nel dicembre del 1992, all’esito di ulteriori indagini, venne spiccato mandato di cattura nei confronti del funzionario in ordine al reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Nel maggio 2007 è passata in giudicato la sentenza che lo ha condannato a dieci anni di reclusione, quasi interamente scontata tra carcere e domiciliari. La lunga vicenda giudiziaria di Contrada si è conclusa di recente con una sentenza della Prima Sezione della Corte di Cassazione che ha “annullato” e dichiarato “ineseguibile e improduttiva di effetti penali” la sentenza di condanna a dieci anni in esecuzione di un giudicato della Cedu, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha dichiarato quella sentenza “ineseguibile” perché, all’epoca dei fatti (1979-1988), il contestato reato di concorso esterno in associazione mafiosa non “era sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti”.

Va rilevato ancora che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno escluso che il verdetto della Cedu si applichi anche agli altri condannati per concorso esterno per fatti commessi prima dell’ottobre 1994, quando la tipologia del reato è stata codificata, perché “quel verdetto non è una sentenza pilota e non è espressione di una consolidata giurisprudenza europea”.

Tornando a noi, sapevamo di versare in una situazione di emergenza, ma questo non significava che dovessimo andare di fretta e mandare qualcuno in carcere senza prove.

Si procedeva veloci, ma attenti, cercando le prove punto per punto. Su tutto fummo rigorosi. Buscetta parlò per quattro mesi in segreto. Falcone verbalizzava a mano le sue dichiarazioni, poi passava i verbali a Caponnetto che ci teneva informati. Nulla mai trapelò. La mafia scoprì che Buscetta stava collaborando perché, dopo l’arresto in Brasile, si rese conto che era sparito nel nulla: non era in carcere, in Italia o all’estero, non era in un ospedale. Vuoi vedere che don Masino se la sta cantando?

Questo era Giovanni, una persona aperta, franca, leale, che dedicava tutto se stesso al lavoro con grande impegno, professionalità e spirito di servizio.

Paolo era molto diverso, era estroverso, un po’ come me. Aveva un grande carisma, un’incrollabile fede cristiana, era amante della vita e incorporava una grande sicilianità, intesa come sentita espressione della sua appartenenza alla terra che gli aveva dato i natali, per cui si esprimeva spesso e volentieri in dialetto. E per questo lo prendevamo tutti in giro.

Solo lui sa cosa ha provato in quei terribili 57 giorni che separarono la morte di Giovanni dalla sua. Una corsa contro il tempo perché sapeva che il suo momento stava arrivando e che il tritolo per lui era già giunto a Palermo.

Era dotato di una grandissima umanità. I collaboratori di giustizia li conquistava grazie al suo carattere: la facilità nello stabilire relazioni e di entrare in sintonia con gli altri gli permisero di ottenere risultati eccezionali con alcuni “uomini d’onore”, che si fidavano solo di lui.

Al contrario, Falcone “conquistava” i criminali con un atteggiamento più freddo, serio, rispettoso. Sono celebri gli sguardi e i silenzi degli interrogatori di Giovanni, che lasciavano perplesso il pubblico ministero presente all’atto istruttorio. Oppure la sua capacità di partire da lontano per disegnare un quadro complessivo dei fatti.

“L’uomo d’onore” pensava di fornire chiacchiere senza costrutto e lui invece accumulava preziose informazioni. Era sempre Falcone che guidava il gioco, ma i suoi interlocutori non se ne accorgevano. A volte aveva invece bisogno di poche informazioni per completare il suo puzzle. Era capace anche di andare negli Stati Uniti per porre soltanto qualche domanda a un collaboratore. I colleghi d’oltreoceano lo guardavano stupiti, ma lui tornava soddisfatto, col suo solito enigmatico sorriso.

Giovanni e Paolo erano due felici espressioni della Sicilia. Uno era laico, l’altro molto cattolico, uno era orientato a sinistra e l’altro a destra, uno senza figli perché non voleva fare nascere orfani, così soleva dire, e l’altro di figli ne aveva tre, uno che ti guardava col sorriso appena accennato e l’altro dalla risata franca, aperta. Erano straordinariamente complementari.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA" DI LEONARDO GUARNOTTA

Il processo sull’omicidio del capitano Basile, vergogna della giustizia. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 12 agosto 2023

Madonia, Puccio e Bonanno vennero arrestati pochi minuti dopo l’attentato. Era la prima volta che accadeva in un delitto di mafia. Con la sentenza di primo grado furono però assolti dalla Corte d’Assise presieduta da Salvatore Curti Giardina. Puccio, Bonanno e Madonia si difesero sostenendo che quella sera erano reduci da un incontro con donne sposate, delle quali non fornirono i nomi “per tutelarne l’onore”

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Quella di Giovanni rimane comunque, per me, la storia più tragica. È stato il magistrato più bravo d’Italia ma anche il più ferito. Una sorta di Aureliano Buendía con la toga, il colonnello dei Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez che condusse trentadue battaglie e amaramente tutte le perse. Gli venne preferito Antonino Meli quando si candidò a guidare il pool dopo Antonino Caponnetto. Un mese dopo, andò buca anche la nomina alla guida dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia perché gli preferirono Domenico Sica; si candidò alle elezioni dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura del 1990 e non venne eletto. Per la Procura Nazionale antimafia gli venne preferito Agostino Cordova.

Occuparsi seriamente e con tutto se stesso di mafia in Italia, nonostante molti lo sostengano, non è un buon viatico per fare una prestigiosa carriera in magistratura. Sarà un caso ma a nessuno di noi, a nessun altro del pool, è capitato. Non siamo diventati delle star, né volevamo esserlo del resto, e non ci avete visto spesso in tv. Forse anche questo faceva parte del marchio di fabbrica del pool antimafia.

Anche Paolo Borsellino aveva una storia particolare alle spalle. Prima di entrare a fare parte del pool, per un certo periodo di tempo, gli vennero tolte le indagini di mafia.

Accadde infatti che Paolo indagasse sull’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile (avvenuto la notte del 4 maggio 1980 a Monreale, comune nei pressi di Palermo) e riuscisse a portare a processo, con prove decisamente inoppugnabili, killer pericolosi come Giuseppe Madonia, Vincenzo Puccio e Armando Bonanno. Quella del processo Basile è una vicenda che dice molto della Sicilia di quegli anni e di Paolo Borsellino.

Madonia, Puccio e Bonanno vennero arrestati pochi minuti dopo l’attentato.

Era la prima volta che accadeva in un delitto di mafia. Con la sentenza di primo grado furono però assolti dalla Corte d’Assise presieduta da Salvatore Curti Giardina. Puccio, Bonanno e Madonia si difesero sostenendo che quella sera erano reduci da un incontro con donne sposate, delle quali non fornirono i nomi “per tutelarne l’onore”. Furibondo per l’assoluzione, Paolo riuscì comunque a mandare i tre al soggiorno obbligato in Sardegna, dal quale però fuggirono pochi giorni dopo.

Successivamente, Madonia e Puccio furono nuovamente tratti in arresto mentre Bonanno, secondo gli inquirenti, sarebbe rimasto vittima della “lupara bianca”, cioè ucciso e il suo corpo fatto sparire. Il 24 ottobre del 1984 furono riprocessati e condannati all’ergastolo, ma la sentenza venne annullata con rinvio dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale.

La sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello, presieduta da Antonino Saetta, che aveva confermato le condanne all’ergastolo degli imputati, venne annullata per difetto di motivazione.

In seguito alla fuga dal soggiorno obbligato di Puccio, Bonanno e Madonia, la famiglia di Borsellino si preoccupò molto, perché temeva la vendetta da parte di quei pericolosi killer che, sicuramente, erano rientrati a Palermo.

Intervenne il suocero di Paolo, Angelo Piraino Leto, anch’egli magistrato, cercando di convincere il genero a non occuparsi ancora di indagini di mafia. Ovviamente, senza ottenere alcun risultato. E allora provò a ottenere qualcosa dal consigliere Rocco Chinnici, facendogli presente la pericolosità dei processi affidati al genero. Paolo quando lo seppe si arrabbiò moltissimo, ma l’esito fu comunque che Chinnici in quella fase lo escluse dalle indagini di mafia.

Ecco perché, quando si racconta la nascita del pool, si ricorda che fu Falcone a convincere Caponnetto a “recuperare” Paolo – allora perduto fra fascicoli relativi a reati “bagatellari” –, il quale accettò con entusiasmo, naturalmente.

Con Paolo era facile entrare in confidenza tanto che intrattenemmo una affettuosa amicizia. Se Falcone era un moderato, lui era uno che “non la mandava a dire”, tanto da non esitare, nella famosa intervista a “Repubblica” e a “l’Unità” rilasciata nel luglio del 1988 a Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, a denunciare lo smantellamento del pool e la “normalizzazione” della Squadra mobile della Questura di Palermo.

Io e Paolo condividevamo un rito. Verso fine primavera ci portavamo al bar del Tribunale per consumare il nostro primo caffè freddo. Con il suo fare comunicativo e accattivante, e con l’indimenticabile sorrisetto sotto i baffi, Paolo pronunciava sempre la fatidica frase: “Leonardo, abbiamo vissuto un altro anno”, quasi a esorcizzare il pericolo che, ormai, incombeva su di noi. Anche dopo il suo trasferimento alla Procura di Marsala non mancavamo di celebrare quel rito all’inizio della bella stagione ma, in quel terribile 1992, non pronunciò la nostra frase d’intesa con l’espressione ammiccante degli anni precedenti. E non solo per il ricordo bruciante e doloroso del collega e amico Giovanni Falcone che, alcuni giorni prima, la barbarie mafiosa ci aveva portato via per sempre. Fu infatti chiaro – e me lo confermò in occasione dei nostri successivi incontri – che era impegnato, con tutto se stesso, in una disperata corsa contro il tempo per scoprire i nomi degli esecutori e dei mandanti della strage di Capaci, con la consapevolezza che bisognava fare in fretta, sempre più in fretta perché era certo che il tempo stesse per scadere anche per lui.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA" DI LEONARDO GUARNOTTA

Il pool antimafia gioca in attacco, lo Stato quando va bene di rimessa. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 13 agosto 2023

Eravamo tutti proiettati all’attacco, perché in quel periodo abbiamo cercato di non giocare semplicemente di rimessa, come ha sempre fatto lo Stato, reagendo con durezza solo nei momenti di emergenza. Anzi, a ben vedere, neppure in quei momenti lo Stato ha mai giocato in attacco

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Poi c’era Peppino Di Lello, il pupillo di Rocco Chinnici. L’uomo di sinistra che, dopo avere vissuto, dando il meglio di sé, l’esaltante e irripetibile esperienza del pool, ebbe una lunga e prestigiosa carriera politica. Deputato alla Camera in Abruzzo sino al 1996, parlamentare europeo per il Partito della Rifondazione Comunista sino al 2004, senatore della Repubblica, sempre per quel partito, sino al 2008.

A rifletterci bene, in quest’epoca di forti divisioni, mi viene da ridere nel pensare come sia stato possibile che uno capace di andare in manifestazione con i metalmeccanici indossando la tuta blu sia riuscito a lavorare senza problemi con Borsellino, “monarchico” e aderente al Fuan. Ma erano altri tempi e le situazioni estreme contribuiscono a cementare le amicizie. Un po’ come succede in guerra. E Palermo era in guerra.

Di Lello è un abruzzese dal fisico esile e già allora aveva alle spalle una vita difficile. Eppure lavorava come un matto senza risparmiarsi. Per noi era l’intellettuale, il filosofo.

La mattina del 28 settembre 1984 era in corso il saluto di commiato al nostro cancelliere dirigente, andato in pensione, quando Giovanni si avvicinò a me, Paolo e Giuseppe e, quasi sottovoce, ci diede appuntamento alle tre nel “bunkerino”, perché aveva appreso che in un noto settimanale sarebbe stato pubblicato lo scoop della collaborazione di Tommaso Buscetta, che avrebbe inevitabilmente compromesso l’esito delle nostre indagini e, soprattutto, avrebbe messo in allarme i sodali di Cosa nostra nei cui confronti, in realtà, si era divisato di emettere mandato di cattura non prima del 4 ottobre 1984.

Nel primo pomeriggio passai a prendere Paolo, che mi attendeva affacciato al balcone della sua abitazione all’ottavo piano e mi faceva ampi segni di salire a casa sua. La cara, dolce, indimenticabile Agnese chiese cosa dovessimo fare e Paolo, di rimando, con tono scherzoso, le rispose: “Non ti interessare e, per favore, preparaci il caffè”.

Quella sera Giovanni aveva fatto preparare dei panini accompagnati da birra e frutta da consumare in ufficio, perché pensavamo di trattenerci sino a tarda notte.

Verso le nove Di Lello decise di andare a casa per cenare con la sua famiglia, mentre noi restammo nei locali del “bunkerino”. Alle undici non aveva ancora fatto rientro in ufficio, così lo contattammo al telefono e apprendemmo che era andato a letto, convinto che avremmo continuato l’indomani il nostro lavoro. Il buon Ninni Cassarà mandò qualcuno a prenderlo e poco mancò che, per la fretta, Peppino rientrasse in ufficio in pigiama.

Alle tre del mattino del 29 settembre 1984 firmammo il mandato di cattura n. 323/84 RGUI nei confronti di circa 360 imputati.

Ecco, ripensando ai componenti di quel meraviglioso gruppo, mi viene facile utilizzare una metafora calcistica e definire Falcone come il nostro Maradona, Borsellino invece era una mezz’ala che sapeva dare la palla (ricordate un certo Rivera?). A me, scherzosamente, concedete invece il paragone con Gigi Riva (da sempre il mio idolo), oppure – parlando di giocatori più recenti – penso a Luca Toni, uno in grado di far salire la squadra e sostenere da solo il peso dell’attacco. Infine c’era Di Lello, uomo dalla grande visione, che rivestiva il ruolo di allenatore, capace di farci riflettere anche grazie alla sua profonda conoscenza del codice e della parte tecnica del nostro lavoro.

Eravamo tutti proiettati all’attacco, perché in quel periodo abbiamo cercato di non giocare semplicemente di rimessa, come ha sempre fatto lo Stato, reagendo con durezza solo nei momenti di emergenza. Anzi, a ben vedere, neppure in quei momenti lo Stato ha mai giocato in attacco.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Giovanni Paparcuri e tutti gli altri preziosi collaboratori del bunker. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 14 agosto 2023

E poi c’era Giovanni Paparcuri, con la sua storia particolare, come accennavo in principio. Autista di Rocco Chinnici sopravvissuto all’attentato che causò la morte del giudice, fu costretto a cambiare mansioni. “Dal 29 luglio 1983 ho notte e giorno un’autofficina nell’orecchio”, dice ancora oggi. Rischiò di essere riformato e di andare in pensione a 27 anni

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

E poi c’era Giovanni Paparcuri, con la sua storia particolare, come accennavo in principio. Autista di Rocco Chinnici sopravvissuto all’attentato che causò la morte del giudice, del maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, dell’appuntato Salvatore Bartolotta – componenti della scorta – e del portiere dello stabile di via Pipitone, Stefano Li Sacchi, Paparcuri fu costretto a cambiare mansioni. “Dal 29 luglio 1983 ho notte e giorno un’autofficina nell’orecchio”, dice ancora oggi.

Rischiò di essere riformato e di andare in pensione a 27 anni.

Quanti avrebbero scelto come lui di continuare a lavorare? Non voleva arrendersi, non voleva tradire se stesso e le persone che erano rimaste vittime dell’attentato.

Lo Stato lo declassò dal quarto livello di autista giudiziario al secondo di commesso. Resistette e rimase in ufficio fino a quando il Ministero affidò l’appalto per la digitalizzazione (all’epoca probabilmente non si diceva così) degli atti del pool a un’azienda esterna. Questo voleva dire avere estranei che giravano nei nostri uffici. Anzi, in quell’ufficio, il “bunkerino”. No, non era possibile correre il grave pericolo di una fuga di notizie e di dati sensibili. Borsellino, richiesto da Caponnetto di trovare una soluzione al problema, reclutò Paparcuri che iniziò così a smanettare sul “casciabanco”, un computer che oggi sarebbe superato per potenza da qualsiasi cellulare e all’epoca era una meraviglia della tecnologia. Se avessimo avuto i pc odierni, dice Paparcuri, non avremmo fatto il maxi ma il megaprocesso.

Il “bunkerino” è ancora lì e, su lodevole iniziativa della Corte di Appello e della Sezione Distrettuale di Palermo della Associazione Nazionale Magistrati, è diventato un museo, anche se a Paparcuri questa denominazione non piace, dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Giovanni Paparcuri ne è il geloso custode e da vero cicerone quotidianamente mostra a scolaresche, cittadini e turisti in visita a Palermo le stanze arredate come lo erano ai tempi del pool, grazie al suo infaticabile lavoro di ricerca degli originari mobili e suppellettili.

La visita al “bunkerino” non è però una cosa da due foto e via. Paparcuri non si limita a ricevere i visitatori ma racconta come tutto è iniziato, l’impegno dei giudici, come si lavorava, le motivazioni di ciascuno, gli aneddoti. È un viaggio di istruzione, con istantanea finale su Facebook, per chi lo desideri, insieme allo stesso Paparcuri.

Il contributo di tutti i “nostri” collaboratori in quegli anni è stato fondamentale. Incluso il preziosissimo personale di cancelleria: Anna Radica, Ester Galati, Duilia Mercatali, Nunzia Russo, Barbara Sanzo, che ci hanno sempre assistito senza risparmiarsi, efficientissime e instancabili.

Le ricordo una per una. Si andava di fretta, tutto era sempre e comunque urgentissimo. Se succedeva che una nostra collaboratrice chiedesse quando dovesse essere trasmesso un fax, si rispondeva con la frase di rito: “Signora, subitissimo, anche... ieri!”

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Il delitto Notarbartolo e poi per quasi un secolo la mafia fu “dimenticata”. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 15 agosto 2023

Si sarebbe potuto avere la meglio se si fosse indagato più approfonditamente in alcuni casi e se, da parte dello Stato, non si fosse sempre agito in una logica emergenziale, a partire da quello che è considerato il primo delitto eccellente, consumato il primo febbraio 1893, l’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

È stato anche grazie alla fedeltà di tutti alla causa comune se neppure una notizia, una indiscrezione uscì da quelle stanze. Il che ci ha permesso di rimanere concentrati sul lavoro senza dover rincorrere articoli di giornale o fare fronte a polemiche su quanto avveniva all’interno del “bunkerino”.

Non sempre è stato così in altre vicende italiane. A tutti i nostri collaboratori va riconosciuto il grandissimo merito di avere dato il meglio di sé, spesso in condizioni difficili, e supplendo, a costo di sacrifici personali, alle già allora congenite e ben note insufficienze di organici e strumenti di supporto.

Con questo non folto gruppo di persone si cercò di affrontare la mafia del clan dei “Corleonesi” che, nella Palermo degli anni tra fine Settanta e inizio Ottanta, mise termine all’egemonia delle vecchie famiglie palermitane di Cosa nostra imponendo la dittatura di Totò “’u curtu”.

Già allora, un coraggioso magistrato, Cesare Terranova, aveva fatto domanda per essere nominato consigliere istruttore. Era stato deputato e componente della Commissione Parlamentare Antimafia ed era intenzionato, una volta acquisito il nuovo incarico (che gli addetti ai lavori davano per certo), a sferrare un decisivo attacco a Cosa nostra. Il 25 settembre 1979, Cesare Terranova venne ucciso per impedirgli di assumere quell’incarico. Un delitto preventivo.

Ma sulla cosca dei “Corleonesi”, che aveva lasciato una lunga scia di sangue, si sarebbe potuto avere la meglio se si fosse indagato più approfonditamente in alcuni casi e se, da parte dello Stato, non si fosse sempre agito in una logica emergenziale, a partire da quello che è considerato il primo delitto eccellente, consumato il primo febbraio 1893, l’omicidio del marchese Emanuele Notarbartolo, persona retta e onesta, già direttore generale del Banco di Sicilia ed ex sindaco di Palermo. Quel delitto provocò un acceso dibattito sulla situazione della mafia in Sicilia e, soprattutto, sulla collusione tra mafia e politica. Anche se, inizialmente, nessuno osò fare nomi di mandanti ed esecutori di quel delitto. Da allora e, per quasi un secolo, la lotta alla mafia è stata quasi sempre un susseguirsi di risposte a feroci attentati, come l’insediamento della Commissione Antimafia del 1963 dopo la strage di Ciaculli.

Nella borgata palermitana regno di Michele Greco, detto “il Papa”, capo della commissione provinciale di Cosa nostra, perirono la mattina del 30 giugno 1963 quattro uomini dell’Arma dei Carabinieri, due dell’Esercito italiano, e un sottufficiale del Corpo delle Guardie di P.S., dilaniati dall’esplosione di una carica di tritolo nascosta nel bagagliaio di una “Giulietta”, una delle prime autobombe impiegate da Cosa nostra.

Sì, perché altre auto imbottite di esplosivo erano state utilizzate nel corso della cosiddetta “prima guerra di mafia”. Addirittura un’altra auto, all’alba dello stesso 30 giugno 1963, era saltata in aria davanti il garage di Giovanni Di Peri, boss della “famiglia” di Villabate, provocando la morte del custode e di uno sfortunato passante.

Erano i tempi in cui le conoscenze dell’apparato strutturale e funzionale di Cosa nostra erano ancora frammentarie e parziali e, di conseguenza, era stata episodica e discontinua l’azione repressiva e punitiva dello Stato, e per di più contraddistinta da risultati deludenti: si pensi alle numerosissime assoluzioni per insufficienza di prove con le quali, negli anni Sessanta e Settanta, si erano chiusi i processi a carico di centinaia di mafiosi, celebrati a Bari e Catanzaro per legittima suspicione. Una risposta finalizzata quasi esclusivamente a individuare e colpire i responsabili di singole azioni criminose, viste in un’ottica parcellizzante e disancorata da una considerazione unitaria. Il fenomeno mafioso venne sottovalutato, forse inconsapevolmente ma colpevolmente, da coloro i quali avrebbero potuto e dovuto occuparsene, se è vero – come è vero – che ancora alla fine degli anni Settanta, anche da parte di rappresentanti delle istituzioni, si diceva che non ci fosse alcuna mafia da combattere, o che fosse una invenzione giornalistica per distogliere l’attenzione dei cittadini da chissà quali altri problemi o, addirittura, che fosse una voce messa in giro dal Partito Comunista Italiano per screditare la Democrazia Cristiana. Sull’autore di questa affermazione tornerò in seguito.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Le prime “scandalose” indagini bancarie, tutti contro Giovanni Falcone. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 16 agosto 2023

Il presidente della Corte di Appello di Palermo Giovanni Pizzillo convocò il consigliere Chinnici per dirgli: “Ma cosa credete di fare all’Ufficio di Istruzione? La devi smettere di fare indagini nelle banche, così rovini tutta l’economia siciliana”. E gli suggerì di caricare di “processetti” Falcone, in modo che “così farà come ogni giudice istruttore: non farà più niente”

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Di fronte a questo scenario, la rivoluzione giudiziaria – come poi accadde per la mia vita professionale – partì con una telefonata. E fu quella che Rocco Chinnici fece a Giovanni Falcone. Senza tirarla tanto per le lunghe, il consigliere gli chiese la disponibilità a occuparsi del processo Spatola, l’inchiesta di cui si era già occupato il procuratore Gaetano Costa, ucciso dopo aver firmato in solitudine il mandato di cattura nei confronti di alcuni “uomini d’onore”.

Falcone, naturalmente, accetta l’incarico, inizia a indagare e, in breve tempo, intuisce che alcuni delitti di mafia sono legati fra loro, fanno parte di una logica associativa; per quanto riguarda il traffico di droga, realizza che era più facile seguire il denaro delle transazioni che andare a caccia delle raffinerie, ovvero di laboratori impiantati in Sicilia che per anni ci si era intestarditi a scovare. A Giovanni quel difficile lavoro sul campo sembrava troppo dispendioso e pericoloso.

Sarà anche per la sua preparazione giuridica e perché era un cultore del diritto bancario, ma le prove andò a cercarle nelle banche, provocando il panico nell’intera società siciliana.

Nel 1979 ebbe la brillante e, a quel tempo, eversiva idea di chiedere ai direttori degli istituti di credito di Palermo e provincia di inviargli le distinte di cambio di valuta estera per le operazioni effettuate a partire dal 1975. Fu un’intuizione rivoluzionaria che provocò un terremoto di reazioni immediate e scomposte. Come quella di un importante penalista palermitano che, nell’atrio del Tribunale, in modo che tutti potessero sentirlo, disse: “Ma dove vuole andare questo Falcone?”, dal momento che Giovanni aveva chiesto copia di un versamento da 300 mila dollari alla filiale siciliana della Cassa di risparmio per le province siciliane.

O come quando il presidente della Corte di Appello di Palermo Giovanni Pizzillo convocò il consigliere Chinnici per dirgli: “Ma cosa credete di fare all’Ufficio di Istruzione? La devi smettere di fare indagini nelle banche, così rovini tutta l’economia siciliana”. E gli suggerì di caricare di “processetti” Falcone, in modo che “così farà come ogni giudice istruttore: non farà più niente”. Ma Chinnici, ovviamente, non ascoltò il consiglio di sua eccellenza Pizzillo.

L’idea di entrare negli istituti di credito, considerati santuari inaccessibili, ebbe un effetto destabilizzante perché era impensabile, sino ad allora, che qualcuno potesse mettervi piede per effettuare delle indagini. La mafia lì dentro si sentiva al sicuro. L’ispirazione a procedere in tal modo venne a Falcone, così si racconta, dopo aver visto un documentario sulla storia di Al Capone, il principale gangster americano degli anni Venti, all’epoca del Proibizionismo. Per anni i federali cercarono di incastrarlo senza riuscirci, ma raggiunsero l’obiettivo quando, dopo che il boss era stato dichiarato “nemico pubblico numero uno”, fu formata una squadra di investigatori con il compito di esaminare le sue transazioni finanziarie. Alla fine Al Capone venne condannato alla pena di undici anni di reclusione per il reato di evasione fiscale.

Per la Sicilia, e l’Italia intera, stava davvero accadendo una specie di rivoluzione. E mi sarebbe piaciuto vedere da vicino le facce di quei funzionari di banca. Qualcuno rispose con prontezza alla richiesta, altri presero tempo e altri ancora chiamarono Falcone per chiedere chiarimenti. Ma non c’era nulla da chiarire: bisognava trasmettere la documentazione richiesta.

Fu grazie a questo metodo di lavoro, per esempio, che Giovanni riuscì a scoprire, nel 1979, che sotto il falso nome di Joseph Bonamico si nascondeva Michele Sindona, raggiungendo così la prova della sua presenza in Sicilia. Un passaggio fondamentale per quell’indagine.

D’altra parte, bisogna ricordarsi che, nonostante la leggendaria capacità di lavoro di Falcone e l’abnegazione delle forze dell’ordine, si lavorava in maniera artigianale, complice la mancanza di strumenti informatici. E infatti la sorella Maria mi ha confermato quello che già sapevamo, e cioè che anche i tavoli dell’appartamento in cui Giovanni viveva con la madre erano interamente coperti di assegni da esaminare. Ed era stato con l’aiuto di Ninni Cassarà e del giovane capitano della Guardia di Finanza Ignazio Gibilaro che Falcone aveva potuto mettere a fuoco i collegamenti fra Cosa nostra italiana e quella americana, resi manifesti nel corso dell’indagine cosiddetta “Pizza Connection”, e aveva compreso che la lotta alla criminalità organizzata doveva valicare i confini nazionali.

Allora crebbe anche la consapevolezza che la mafia avesse raggiunto un alto grado di contaminazione dell’economia legale, con effetti visibili quali la distorsione della concorrenza, l’imposizione dei prezzi e dei ribassi nelle gare di appalto.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Una “rivoluzione copernicana”, il metodo Falcone fa paura alla mafia. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 17 agosto 2023

Quello che la mafia teme e non può accettare è che lo Stato sequestri e confischi la sua “roba”. Ed è proprio facendo leva su questo che Giovanni Falcone iniziò un’indagine che non aveva precedenti. La nuova normativa permetteva di seguire le tracce lasciate dal denaro acquisito illecitamente e, atto vieppiù rivoluzionario, di mettere mano alla documentazione bancaria

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Fu questo tipo di visione che, declinata dal punto di vista normativo, portò al varo della legge Rognoni-La Torre, che diede un forte impulso a questo tipo di indagini.

Anche in questo caso, come spesso per le normative antimafia, la legge è stata varata in risposta a due gravi attentati: l’uccisione di Pio La Torre (30 aprile 1982), segretario regionale del Pci siciliano, e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982), prefetto di Palermo inviato in Sicilia subito dopo l’omicidio del politico comunista.

La legge, varata il 13 settembre 1982, introdusse il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, il 416 bis del codice penale, e dispose importanti misure di prevenzione patrimoniali come il sequestro e la confisca dei beni.

I mafiosi andavano attaccati nel loro punto debole, “la roba”, cioè il denaro, i loro patrimoni. Perché un appartenente a Cosa nostra mette in conto che potrà essere arrestato e potrà trascorrere anni in carcere, rientra nei rischi della vita che ha scelto e può servire, nel suo mondo capovolto, anche ad acquisire prestigio e “promozioni” all’interno dell’organizzazione. Ma quello che teme e non può accettare è che lo Stato sequestri e confischi la sua “roba”. Questo no. Ed è proprio facendo leva su questo che Giovanni Falcone iniziò un’indagine che non aveva precedenti.

La nuova normativa permetteva di seguire le tracce lasciate dal denaro acquisito illecitamente e, atto vieppiù rivoluzionario, di mettere mano alla documentazione bancaria.

Il sistema del credito, infatti, costituisce uno dei nodi più importanti del riciclaggio di denaro sporco, ovvero del sistema per rendere puliti i capitali che provengono invece da attività illegali. E gli accertamenti sono indispensabili per capire quali modalità di finanziamenti siano stati utilizzati dalle cosche, incluso l’utilizzo di programmi di pubblico intervento nell’economia o di sostegno alle imprese che siano stati dirottati verso le casse di Cosa nostra.

Attraverso questo tipo di indagini, ieri e ancora di più oggi, si cerca di ricostruire dal punto di vista dinamico la storia di un patrimonio, la sua formazione ed evoluzione nel tempo. A ciò, man mano, si è affiancata un’attività inquirente che mira a conoscere il contesto socio-economico del territorio e quindi la realtà in cui operano i mafiosi.

Uno dei vantaggi principali, soprattutto pensando all’epoca pionieristica di certe inchieste, fu la possibilità di trovare connessioni fino ad allora impensabili tra le persone.

Finalmente la polizia giudiziaria ebbe la delega per accedere ai conti bancari anche senza l’autorizzazione del magistrato e senza che gli istituti di credito potessero negare l’accesso. Lo sviluppo di questo tipo di investigazioni portò inoltre, come felice conseguenza, l’avvio della stretta

e proficua collaborazione con la Guardia di Finanza.

Solo per fare un esempio del lavoro svolto, nel volume 38 dell’ordinanza-sentenza dell’8 novembre 1985 si ricostruiscono i movimenti bancari con i quali Michele Greco ha fatto pervenire un assegno di tre milioni di lire a tale Bonaccorso Maria che lo ha girato a Greco Ignazio che, a sua volta, lo ha negoziato, ha prelevato venti milioni all’ordine della Olimar Costruzioni (sono elencati anche i soci) e poi ha tratto altri due assegni per altre persone.

Tutti questi movimenti, alcuni molto più complessi, interessarono ben 707 soggetti, ovvero tutti gli imputati della più volte menzionata ordinanza-sentenza.

Nasceva così il “metodo Falcone”.

Ma un giudice istruttore da solo non era in condizione di esaminare migliaia di documenti bancari, era necessario allestire una squadra, un pool di magistrati dediti esclusivamente ai reati di mafia. Furono queste alcune delle riflessioni che Giovanni condivise con Rocco Chinnici, il quale diede il via all’embrione del pool antimafia, poi formalizzato da Antonino Caponnetto prendendo spunto dalla lotta all’eversione.

Dal punto di vista procedurale, infatti, la figura del pool non era contemplata, visto che la regola parla di giudice monocratico. Gian Carlo Caselli e Ferdinando Imposimato, magistrati in servizio a Torino e Milano rispettivamente, impegnati in indagini sul terrorismo, avevano però già battuto questa strada. Con i loro consigli furono di aiuto a Caponnetto, il quale ricorse a un escamotage, come già evidenziato in precedenza, che gli permise di fare funzionare il pool. Peraltro, quell’espediente procedimentale aveva già resistito al vaglio della Corte di Cassazione, che aveva respinto il ricorso di alcuni terroristi.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Le casseforti svizzere e l’accusa di fare “turismo giudiziario”. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 18 agosto 2023

E allora l’intuizione vincente fu di andare personalmente in altri Paesi a compiere atti o acquisire documenti e a conoscere i colleghi con i quali intrattenere rapporti di collaborazione. Un’iniziativa che il consigliere aggiunto Marcantonio Motisi più volte aveva bollato come “turismo giudiziario”!

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Il lavoro che dovevamo affrontare era comunque immane. E nell’attività investigativa, oltre alla collaborazione degli uomini della Guardia di Finanza, va rimarcato che la collaborazione con la magistratura di altri Stati, in particolare la Svizzera, ci fece conseguire risultati insperati.

Per il compimento di atti istruttori in altri Paesi è necessario ricorrere all’istituto della rogatoria, la cui funzione è quella di rendere possibile, per l’autorità giudiziaria, non solo l’espletamento di atti processuali ma anche la raccolta di elementi di prova presso una diversa autorità giudiziaria, italiana o straniera.

L’esperienza maturata in tanti anni aveva insegnato a tutti noi che spesso le rogatorie venivano espletate con ritardo o in modo insoddisfacente perché il giudice richiesto era già impegnato in altre indagini, alle quali dava, comprensibilmente, la precedenza. E allora l’intuizione vincente fu di andare personalmente in altri Paesi a compiere atti o acquisire documenti e a conoscere i colleghi con i quali intrattenere rapporti di collaborazione.

Un’iniziativa che il consigliere aggiunto Marcantonio Motisi più volte aveva bollato come “turismo giudiziario”!

Falcone fu autorizzato a recarsi in Svizzera per una rogatoria. In quell’occasione conobbe Carla Del Ponte, procuratrice di Lugano, la più giovane in servizio in quell’ufficio, alla quale era stato comunicato che un magistrato italiano, anzi siciliano, un certo Giovanni Falcone, si era voluto scomodare per venire fin lassù, chissà perché... Da allora ebbe inizio un sodalizio professionale e un saldo rapporto di amicizia che diede frutti eccezionali.

A sua volta il magistrato elvetico venne a Palermo per interrogare esponenti mafiosi che, confidando sull’impenetrabile segreto bancario svizzero, avevano acceso conti correnti a loro nome sui quali pendevano delle indagini.

Lo stesso Salvatore Riina venne interrogato da Del Ponte, alla quale, in tono aggressivo, chiese perché fosse venuta fino a Palermo per perdere tempo, visto che si era rifiutato di rispondere alle sue domande. Poi alla fine, con un classico atteggiamento mafioso, si scusò.

Proprio lei, Carla Del Ponte, era presente a Palermo – come spiegherò meglio più avanti – il giorno del fallito attentato a Falcone, il 21 giugno del 1989, e chissà quanto questa vicinanza contribuì a che il muro del segreto svizzero, a un certo punto, iniziasse a cedere.

Un giorno arrivò la notizia che le autorità elvetiche erano pronte a consegnare copia della documentazione bancaria relativa a Vito Ciancimino.

Un’informazione riservatissima e clamorosa alla quale doveva darsi seguito nell’immediato perché un’eventuale fuga di notizie avrebbe rischiato di mandare a monte l’operazione.

Subito venne allertata la Guardia di Finanza che si occupò di ritirare la documentazione presso un istituto di credito di Chiasso e di consegnarla a Falcone, quasi fosse un importante trofeo.

In effetti, era come se il Palermo calcio avesse vinto la Coppa dei Campioni, ma lo sapevamo solo noi; e dubito che in certe zone della città, se alcuni mafiosi l’avessero saputo, ci sarebbero stati grandi festeggiamenti.

Oggi, come sappiamo, a distanza di tantissimi anni, il “metodo Falcone” è comunemente utilizzato, con risultati mai raggiunti prima, in Italia e all’estero.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Quando Falcone mise in scacco i boss senza sequestrare un grammo di eroina. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 19 agosto 2023

La cosa curiosa è che la “Pizza Connection” non registrò il sequestro di neanche un grammo di eroina. Tutto si basava sulla tracciabilità del denaro. L’indagine mise in evidenza il ruolo della Sicilia come produttore di eroina

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

L’indagine “Pizza Connection”, condotta dagli investigatori statunitensi, fornì a Giovanni preziosissimi elementi per il processo maxi-uno. Trovò così conferma l’intuizione di un giudice lungimirante – non visionario, come definito dai suoi detrattori – sulla necessità della collaborazione tra le nazioni per fare fronte comune, sul versante sia preventivo che repressivo, alle organizzazioni criminali che, già allora, facevano affari fuori i confini nazionali, spartendosi un mercato miliardario. E anche sulla scorta dell’esperienza maturata negli Usa e nel pool antimafia, Giovanni, lasciate le funzioni di Procuratore aggiunto presso la Procura di Palermo e assunte quelle di responsabile della Direzione Generale degli Affari Penali dell’allora Ministero di Grazia e Giustizia, si adoperò affinché il legislatore adottasse provvedimenti legislativi inediti, mirando a dotare la magistratura e le forze dell’ordine di strumenti innovativi di contrasto al crimine organizzato.

E non è un caso se oggi, nella scuola dell’FBI di Quantico, sia esposto il busto di Giovanni Falcone, per iniziativa di Louis Freeh, già direttore del bureau, in ricordo perenne della “più alta rappresentazione della Giustizia e dello Stato”. E anche una sala del quartier generale di Washington lo ricorda nella “Giovanni Falcone Gallery”.

“Pizza Connection” era in pratica il proseguimento del processo Spatola.

Il business si sostanziava nell’esportazione di droga per circa 2.000 miliardi di lire che vennero poi occultati nelle banche dello stato delle Bahamas e di altri Paesi offshore. Nel corso delle indagini, constatato che gli imputati parlavano al telefono in stretto dialetto siciliano, fu necessario inviare negli Stati Uniti poliziotti in grado di comprendere quel dialetto e tradurre in diretta le conversazioni telefoniche.

Il processo celebrato negli Usa, durato un paio di anni, non ebbe uno svolgimento del tutto tranquillo, a cominciare dalle necessarie precauzioni nella scelta dei giurati i cui nomi vennero tenuti segreti. Ma, nonostante l’adozione di questo accorgimento, uno di essi fu costretto a rinunciare all’incarico perché la sua famiglia aveva ricevuto delle minacce.

La cosa curiosa è che la “Pizza Connection” non registrò il sequestro di neanche un grammo di eroina. Tutto si basava sulla tracciabilità del denaro.

L’indagine mise in evidenza il ruolo della Sicilia come produttore di eroina. All’inizio i mafiosi siciliani ricorrevano alle doti professionali di chimici marsigliesi o corsi, come accertato grazie a una segnalazione della polizia francese che avvisò i colleghi italiani dell’arrivo di un certo André Bousquet, catturato con altri due francesi che risiedevano all’hotel Riva Smeralda di Carini dove dei poliziotti, travestiti da camerieri, li tenevano d’occhio. I pedinamenti portarono gli agenti di polizia fino al laboratorio dove lavoravano i francesi, e qui venne arrestato anche Gerlando Alberti, soprannominato “’u paccaré“, cioè l’imperturbabile, un personaggio della mafia degli anni Sessanta. Era l’agosto del 1980. Era la prima raffineria di droga scovata in Sicilia. A questa operazione fece

seguito la scoperta subito dopo della seconda raffineria.

Un successo che Carmelo Jannì, proprietario dell’albergo dove i poliziotti avevano agito sotto mentite spoglie, pagò con la vita. Durante le fasi dell’arresto, infatti, in uno dei poliziotti i mafiosi riconobbero il cameriere che li aveva serviti in hotel. Collaborare con lo Stato poteva essere molto rischioso.

La fine dell’alleanza con i chimici francesi portò alla ribalta Pietro Vernengo che divenne il nuovo chimico, responsabile della raffinazione della morfina base e della produzione di eroina.

Vernengo però non si dimostrò all’altezza – era stato studente di chimica e per questo nel

suo ambiente lo chiamavano “’u dutturi” – e combinò un disastro quando a New York ci fu una serie di decessi a seguito dell’assunzione della droga prodotta a Palermo.

Gli americani erano furibondi e a quel punto subentrò Francesco Marino Mannoia, che invece se la sapeva cavare molto meglio, e la situazione venne risolta.

Il traffico mondiale di droga inizia qui, da quelle raffinerie, situate dove Cosa nostra aveva il pieno controllo del territorio, che avevano bisogno di tanta acqua ed energia elettrica per funzionare. Per questo, nella zona della nostra casetta estiva di Trabia, succedeva a volte che la luce elettrica si affievolisse o addirittura si spegnesse.

Scoprimmo dopo che una raffineria era in funzione proprio da quelle parti. Dalle zone dove mancava spesso la luce partivano le indagini finalizzate alla scoperta dei laboratori che facevano ricca la mafia di Palermo.

Tutta questa storia è stata ricostruita, in quel piccolo bunker, grazie al prezioso lavoro e al diuturno impegno dei nostri due Dioscuri.

Un fil rouge, mai spezzato, ha legato indissolubilmente le vite e il comune destino di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Dapprima, l’adolescenza trascorsa insieme nel rione di Palermo dove erano nati e le loro famiglie abitavano, poi la scelta, terminati gli studi scolastici, di iscriversi alla facoltà di giurisprudenza e la decisione di partecipare, conseguito con il massimo dei voti il diploma di laurea, al primo concorso utile per entrare in magistratura, superato brillantemente da entrambi. Poi, lasciati alle spalle gli anni di tirocinio e delle prime assegnazioni a sedi giudiziarie fuori Palermo, l’approdo di entrambi, in tempi diversi ma prossimi, all’Ufficio di Istruzione del Tribunale del capoluogo. Così tutto ebbe inizio.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Melchiorre Allegra, il pentito di mafia nei reportage di Mauro De Mauro. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 20 agosto 2023

La storia venne alla luce negli anni Sessanta grazie al lavoro d’inchiesta di Mauro De Mauro; il giornalista scovò i verbali dell’interrogatorio di Melchiorre Allegra negli archivi della Procura della Repubblica di Trapani, e così quelle pagine, inspiegabilmente dimenticate, vennero pubblicate nel 1962

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È tempo, adesso, di parlare di loro. Sì di loro, perché senza non saremmo riusciti a conseguire i risultati che abbiamo raggiunto. E intendo farlo dopo tanto tempo – il tempo mette le cose al loro posto –, perché passati tutti questi anni credo, anzi sono sicuro, che il mio giudizio sarà meno condizionato, più oggettivo.

Voglio parlare dei collaboratori di giustizia, di coloro che la stampa e l’opinione pubblica chiamano “pentiti”. È veramente grazie a loro che il muro dell’omertà mafiosa è crollato, ed è anche grazie a loro che siamo riusciti a penetrare nei misteri di quella che era l’associazione segreta e criminale più potente del mondo occidentale: Cosa nostra.

Questa storia è così importante che bisogna raccontarla, raccontarla bene e per intero. Fin dal principio.

E se il titolo di questo capitolo allude alla “stagione dei pentiti” vissuta dal pool, va detto che andando indietro nel tempo scopriremmo che magistrati e inquirenti avrebbero potuto vivere “stagioni” analoghe anche prima del 1984, se solo avessero dato credito alle rivelazioni dei primi collaboratori di giustizia.

Non avremmo dovuto attendere quell’anno per squarciare il velo dell’omertà che, da sempre, aveva impedito di scoprire i segreti della mafia.

Mi riferisco, anzitutto, alla vicenda del medico Melchiorre Allegra, nato a Gibellina nel 1881 e morto a Castelvetrano nel 1951.

Con la sua confessione – rilasciata già nel 1937, pensate, quasi un secolo fa – sarebbe stato possibile avere un quadro sufficientemente esauriente di Cosa nostra, nella quale aveva “prestato servizio” e sulla cui organizzazione riempì 26 pagine di verbali. Allegra, per ragioni che ancora oggi non conosciamo, era stato tratto in arresto nel corso di una retata. Iniziò a collaborare descrivendo la struttura di Cosa nostra, come poi avrebbero fatto altri pentiti.

Parlò del rito d’iniziazione e della “commissione” – quella che viene chiamata anche “cupola”, l’organo direttivo e deliberativo, deputato anche a decidere questioni di carattere economico tra “famiglie” –, parlò di mandamenti, famiglie, capi decina.

Rivelò gli stessi termini usati da Tommaso Buscetta quasi cinquanta anni dopo.

Fece moltissimi dei nomi e cognomi di capimafia e di “picciotti” che abbiamo ritrovato nel corso delle nostre successive indagini: Calò, Cancemi, Montalto, Troia, Cuccia e tanti altri “avi” degli odierni “uomini d’onore”.

A conferma che la mafia in Sicilia è quasi sempre una tradizione di famiglia che si eredita, di padre in figlio, di generazione in generazione.

La storia venne alla luce negli anni Sessanta grazie al lavoro d’inchiesta di Mauro De Mauro, il giornalista rapito dalla mafia il 16 settembre 1970 e il cui cadavere non è mai stato ritrovato.

De Mauro scovò i verbali dell’interrogatorio di Melchiorre Allegra negli archivi della Procura della Repubblica di Trapani, e così quelle pagine, inspiegabilmente (per usare un eufemismo) dimenticate per lungo tempo nei cassetti di qualche magistrato, vennero pubblicate nel 1962 dal giornale “l’Ora” di Palermo, un quotidiano che ha rappresentato una fucina di altri ottimi giornalisti.

Eppure vennero a conoscenza della Commissione Antimafia solo un anno più tardi, quando li sottopose all’attenzione dei colleghi il deputato Girolamo Li Causi, allora segretario regionale del Pci. Senza sortire alcun effetto.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Accusati di pazzia, i “traditori” di Cosa Nostra mai creduti dallo Stato. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 21 agosto 2023.

Con la sentenza del 10 giugno 1969 la Corte di Assise di Bari pronunciò l’assoluzione di Leggio e degli altri sessantatré. La Corte, infatti, non credette alle propalazioni di Luciano Raia, dichiarandolo inattendibile perché si trattava di un soggetto più volte ricoverato in manicomio, omosessuale

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Bisogna attendere quasi trent’anni prima che un altro “uomo d’onore” si decida a “saltare il fosso” e collabori con gli inquirenti. Si chiamava Luciano Raia, imputato nel processo a carico di Luciano Leggio + 63, sui quali pesava l’accusa di essere responsabili di nove omicidi perpetrati a Corleone tra il 1955 e il 1962, nonché di associazione per delinquere.

Nel gennaio 1966, agli inquirenti sembrò che il muro di omertà che sino ad allora aveva impedito di fare chiarezza su quei gravi fatti di sangue avesse finalmente ceduto grazie alla inattesa collaborazione di Raia.

Costui riferì di avere ascoltato nel carcere di Palermo le conversazioni fra due mafiosi sui delitti compiuti da Luciano Leggio e dai suoi uomini per eliminare la cosca capeggiata dal medico Michele Navarra, allora capomafia di Corleone.

Il processo venne celebrato a Bari per “legittima suspicione”, l’espediente “salvifico” al quale si ricorse a man bassa per ottenere in sedi più “congeniali” sentenze di assoluzione con formula ampiamente liberatoria o per insufficienza di prove oppure di condanna ma con applicazioni di pene irrisorie.

Con la sentenza del 10 giugno 1969 la Corte di Assise di Bari pronunciò l’assoluzione di Leggio e degli altri correi dalle imputazioni di omicidio, limitandosi a irrogare lievi condanne per i reati di associazione per delinquere semplice prevista dall’articolo 416 c.p. (all’epoca, non esisteva ancora il 416 bis c.p.).

La Corte di Assise, infatti, non credette alle propalazioni di Raia, dichiarandolo inattendibile perché si trattava di un soggetto più volte ricoverato in manicomio, omosessuale, che si era indotto a parlare soltanto dopo avere avuto assicurazione dal vice-questore Angelo Mangano che sarebbe stato aiutato sia per ottenere una eventuale libertà provvisoria (era accusato di estorsione e di associazione per delinquere), sia per avere gli assegni familiari per i figli dei detenuti.

Uno “scenario” simile si ripeterà a Palermo alcuni anni dopo.

Il 30 marzo del 1973 successe qualcosa che avrebbe consentito a investigatori e magistrati più attenti e solerti di scoprire i segreti dell’organizzazione mafiosa.

In un verbale di dichiarazioni rese al dottor Bruno Contrada, commissario della Polizia di Stato, Leonardo “Leuccio” Vitale, nato nella borgata palermitana di Altarello di Baida e nipote di Giovanbattista “Titta” Vitale, capo del mandamento locale, anticipò di oltre un decennio le analoghe, ma più precise e circostanziate, rivelazioni di Tommaso Buscetta. Sia pure a livello delle sue parziali e incomplete conoscenze, trattandosi di un giovane aspirante “uomo d’onore”, Vitale descrisse l’organigramma delle “famiglie” mafiose operanti nella provincia di Palermo, facendo nomi e cognomi di numerosi sodali e di persone contigue a Cosa nostra.

Tra gli altri, menzionò Alessandro Vanni Calvello principe di San Vincenzo (il quale, quando aveva ospiti della sua stessa risma, era solito far loro riporre le armi dentro un mobile della sala d’ingresso). E poi anche Pippo Calò, il cassiere dell’organizzazione, e il corleonese Vito Ciancimino, a lungo assessore comunale ai lavori pubblici e per breve tempo sindaco, responsabile del cosiddetto “sacco di Palermo”, una spregiudicata devastazione architettonica compiuta attraverso una affaristica urbanizzazione della città.

Dimenticavo, “Leuccio” Vitale fece anche il nome di uno sconosciutissimo Totò Riina. Fu il primo. E riempì 42 pagine di verbale che avrebbero potuto risparmiare molti lutti e probabilmente cambiato la storia della mafia e dell’Italia, se le sue dichiarazioni fossero state prese in seria considerazione dagli inquirenti e dai magistrati dell’epoca.

In quel verbale, infatti, Vitale raccontò di una tangente contesa fra due “famiglie” mafiose, quelle di Altarello di Baida e della Noce. Fu Totò Riina a chiudere prepotentemente la disputa con la frase “Io la Noce ce l’ho nel cuore”, pronunciata nel corso di una “commissione”. Nessuno dei presenti, tra i quali i più autorevoli capi mandamento, ebbe qualcosa da ridire sulla decisione adottata da Riina.

Siamo nella primavera del 1973 e l’episodio è importante perché allora Riina, latitante da quattro anni, era ritenuto dagli inquirenti un “viddano”, un contadino. Pericoloso, avendo scatenato una sanguinosa guerra a Corleone, ma pur sempre un contadino non ancora in grado di sfidare le cosche del palermitano. E invece ‒ lo rivelò proprio Vitale ‒ aveva già una posizione apicale in seno a Cosa nostra.

Leonardo Vitale, soprannominato anche “il Joe Valachi di borgata”, con riferimento al mafioso siculo-americano della famiglia Genovese, però non venne creduto, anzi, essendo stato dichiarato seminfermo di mente ‒ ricordate Raia? ‒ e affetto da schizofrenia, venne condannato per i reati commessi e confessati e internato nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, dal quale fu dimesso nel giugno del 1984. E nessuna ‒ o quasi ‒ iniziativa giudiziaria venne intrapresa nei confronti delle persone chiamate in reità e correità.

Ma Cosa nostra non dimentica mai e il 2 dicembre 1984, qualche mese dopo il suo rientro a Palermo, punì il suo “tradimento” con due colpi di lupara che lo uccisero all’uscita dalla Chiesa dei Cappuccini, mentre era in compagnia della madre. Nella ordinanza-sentenza dell’8 novembre 1985, abbiamo voluto ricordarlo scrivendo: “A differenza della Giustizia dello Stato, la mafia percepì l’importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell’omertà. È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi il credito che meritava e che merita”.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Da Di Cristina a Buscetta, paure e ossessioni di Totò Riina. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 22 agosto 2023

I pentiti furono un chiodo fisso per Totò Riina, disposto a tutto pur di tappare loro la bocca. Il boss capiva che avrebbero potuto fare molto danno all’organizzazione, perché “si poteva mettere tutto il mondo contro di noi e non ci poteva fare niente”, soleva affermare con orgoglio, ma, aggiungeva, “se un uomo d’onore iniziava a parlare era un disastro”

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Il 30 maggio 1978 venne ucciso a Palermo un importante esponente di Cosa nostra. Si trattava del boss Giuseppe Di Cristina, detto la “tigre” di Riesi per la sua ferocia, capomafia di quel paese, alleato e amico dei fratelli e “colleghi” catanesi Giuseppe e Antonio Calderone, ma acerrimo nemico dei “Corleonesi”, di Luciano Leggio in particolare.

Ben prima di quella data, avvertito e spaventato dopo l’uccisione di due suoi guardaspalle, Di Cristina aveva cominciato a sentire sul collo il fiato dei nemici, che lo braccavano da tempo (era già miracolosamente scampato a un attentato), e pensò di trovare rifugio e salvezza affidandosi allo Stato. Iniziò così a collaborare con il capitano dei Carabinieri Alfio Pettinato in un casolare della campagna di Riesi appartenente al fratello Antonio, anche egli ucciso dai “Corleonesi”.

È di tutta evidenza che Di Cristina non rimase folgorato sulla via per Damasco come Saulo di Tarso, divenuto poi San Paolo, perché il suo non era un sentito pentimento per le atrocità commesse, ma la collaborazione mirava soltanto a mettersi al sicuro e a vendicarsi fornendo agli inquirenti le informazioni giuste per mettere con le spalle al muro gli odiati nemici Leggio, Riina e Provenzano.

E anche se non gli servì a nulla, come si è avuto modo di ricordare, Di Cristina fece in tempo a profetizzare l’omicidio del giudice Terranova, a indicare la sede di una raffineria e, più in generale, a fornire un quadro completo delle attività del gruppo di “viddani” che ormai aveva conquistato il capoluogo siciliano a colpi di pistola.

Il capitano Pettinato e il brigadiere Di Salvo, che aveva assistito all’incontro, descrissero Di Cristina come un animale braccato e in preda al terrore. I suoi uomini più fidati erano già stati uccisi e lui stava attendendo la consegna dell’auto blindata che non arrivò abbastanza in fretta.

“L’eliminazione del boss di Riesi – si legge nella ordinanza-sentenza dell’8 novembre 1985 – costituisce il primo passo di un lucido piano, attuato con feroce determinazione dai Corleonesi, per eliminare a uno a uno tutti i più potenti alleati di Stefano Bontate di modo che la programmata eliminazione dello stesso Bontate non avrebbe scatenato reazioni di sorta.

E l’errore di Stefano Bontate, in questa tragica partita a scacchi, è stato proprio di non avere capito in tempo il perverso piano dei suoi avversari”.

Le rivelazioni del Di Cristina furono importanti ma, anche in questo caso, non lasciarono il segno. I “Corleonesi” poterono continuare indisturbati, ancora per qualche anno, nel loro perverso disegno di conquistare la leadership in Cosa nostra. Se le informazioni ricevute dai collaboratori di giustizia fossero state recepite, riscontrate, traendone le dovute conseguenze, oggi racconteremmo una storia diversa. Perché tutte quelle notizie, sempre concordanti, sulla esistenza di una societas sceleris con le sue regole inviolabili, sono le medesime alle quali ha fatto riferimento nel 1984 Tommaso Buscetta.

Disattenzione, inettitudine, ignavia, incompetenza, chissà cos’altro, hanno impedito una efficace azione repressiva che avrebbe cambiato la storia. E purtroppo questi non sono stati gli unici casi.

Data la superficialità e, quasi, la noncuranza, con cui sono state considerate le “testimonianze” dei pentiti citati sopra, prima della collaborazione di Tommaso Buscetta non si aveva ancora un’idea precisa di come fosse organizzata Cosa nostra.

C’era quasi la contezza della sua esistenza da notizie che risalgono alla notte dei tempi, ma le regole interne, i rapporti tra gli “uomini d’onore”, le gerarchie non erano del tutto noti. Come constatò Falcone, “prima di lui, non avevo ‒ non avevamo ‒ che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare coi gesti”.

Grazie al “professore di lingue” e alle complesse indagini effettuate dal pool, appena costituito, è stato invece possibile indagare, finalmente, a fondo: i numerosi, efferati omicidi, il traffico di sostanze stupefacenti e di armi, i sequestri di persona, le rapine. E poi le estorsioni consistenti nell’imposizione del “pizzo”, cioè il pagamento di somme di denaro, a commercianti, imprenditori e professionisti, le cui attività si svolgevano nel territorio sotto la giurisdizione delle numerose “famiglie” mafiose operanti a Palermo e provincia.

Le indagini hanno consentito, soprattutto, di far luce sulla guerra di mafia combattuta tra il 1981 e il 1983, nel corso della quale vennero uccisi, a opera dei “picciotti” di Riina e Provenzano, “uomini d’onore” della fazione avversa quali Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo.

Allora fu consumata una vera e propria mattanza, una chirurgica resa dei conti che insanguinò la città di Palermo in nome del predominio egemonico di un clan, quello dei “Corleonesi”. Delitti che provocarono anche la fuga di centinaia di membri delle cosche perdenti, e che purtroppo sono stati considerati da troppi con indifferenza, quasi fossero una naturale conseguenza di un violento gioco di potere, quasi che quei poveri corpi strangolati, sfigurati, incaprettati (cioè legati con una corda stretta tra il collo e gli arti inferiori) o sciolti nell’acido, uccisi nelle maniere più atroci, non appartenessero anch’essi alla comunità umana e non fosse compito della società civile impedire quel massacro.

Il generale Dalla Chiesa, in un’intervista resa al quotidiano “l’Unità”, disse: “Il primo pentito lo abbiamo avuto nel ’70 proprio fra i mafiosi siciliani. Perché escludere che questa struttura possa esprimere un gene che finalmente scateni qualcosa di diverso dalla vendetta o dalla paura?

Ma questo può verificarsi soltanto nei momenti più alti dell’iniziativa dello Stato”.

Una frase profetica. Buscetta e poi gli altri collaboratori di giustizia non spuntarono fuori per un caso fortuito, ma perché compresero che stavolta lo Stato faceva sul serio, al contrario di quanto avvenuto in passato (ricordate le “voci” nel deserto di Alagna, Raia, Vitale e, in parte, Di Cristina?). E, soprattutto, erano scesi in campo magistrati credibili come Rocco Chinnici, Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, che avevano dimostrato con il loro quotidiano impegno di voler perseguire con forza Cosa nostra, incuranti dei pericoli ai quali sicuramente sarebbero andati incontro.

Ed è altresì da riconoscere che un apporto decisivo nel contrasto al crimine organizzato di stampo mafioso è venuto dalla collaborazione di “uomini d’onore” attendibili, passati dalla parte dello Stato.

I pentiti furono un chiodo fisso per Totò Riina, disposto a tutto pur di tappare loro la bocca. Il boss capiva che avrebbero potuto fare molto danno all’organizzazione, perché “si poteva mettere tutto il mondo contro di noi e non ci poteva fare niente”, soleva affermare con orgoglio, ma, aggiungeva, “se un uomo d’onore iniziava a parlare era un disastro”.

Per questo motivo ‒ oltre alla volontà di imporre alla politica l’annullamento del carcere duro per i mafiosi, regolato dal 41 bis e dell’ergastolo ‒ uno dei suoi obiettivi fu l’eliminazione della legislazione premiale sui collaboratori di giustizia. Per contrastarli decise che, se non si poteva ricorrere all’eliminazione diretta dei “pentiti”, gli si sarebbe fatta terra bruciata intorno eliminando i loro familiari, gli amici o le persone più care.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Quei collaboratori di giustizia poco conosciuti ma molto attendibili. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 23 agosto 2023

Vincenzo Sinagra, un killer che non faceva parte di nessuna “famiglia”, ma “collaborava” con Cosa nostra. Arrestato nell’agosto 1982, vittima di un esaurimento nervoso, prese la decisione di “affidarsi” a Paolo Borsellino raccontando la sua vita criminale. In particolare, ammise di avere partecipato ad alcune delle “imprese” delittuose di Filippo Marchese

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Tommaso Buscetta è stato sicuramente il pentito più importante nella storia della mafia, ma in quei primi anni Ottanta, prima di lui, si fecero avanti per collaborare con lo Stato criminali che, pur non essendo “uomini d’onore”, avevano rapporti con Cosa nostra.

Penso ad esempio a Vincenzo Sinagra, un killer che non faceva parte di nessuna “famiglia”, ma “collaborava” con Cosa nostra. Arrestato nell’agosto 1982, vittima di un esaurimento nervoso, prese la decisione di “affidarsi” a Paolo Borsellino raccontando la sua vita criminale.

In particolare, ammise di avere partecipato ad alcune delle “imprese” delittuose di Filippo Marchese, capo della cosca di Corso dei Mille, un quartiere di Palermo, come la nota “strage di Natale”, quando a Bagheria la mattina del 25 dicembre 1981 un commando di killer a bordo di due autovetture, guidato da Giuseppe Greco “Scarpuzzedda”, tese un agguato, sparando all’impazzata tra le strade del paese, a Giovanni Di Peri, capo della “famiglia” di Villabate, al suo vicecapo Antonino Pitarresi e al figlio di quest’ultimo, Biagio. Sul terreno rimasero Giovanni Di Peri, Biagio Pitarresi e Onofrio Valvola, un ignaro passante, mentre Antonino Pitarresi venne caricato su di una autovettura e ucciso in un secondo tempo perché ai killer erano terminate le munizioni.

Uno dei killer aveva lasciato un’impronta digitale sul volante di una delle macchine usate per l’agguato (era stata data alle fiamme ma non completamente distrutta), sulla quale venne disposta una perizia dattiloscopica, affidata a un collegio peritale di cui faceva parte il professore Paolo Giaccone, al cui esito si accertò che quella impronta apparteneva a Giuseppe Marchese, boss della “famiglia” di Corso dei Mille. Giaccone subì pressioni, tramite un comune amico suo e dei Marchese (del quale parlò alla moglie ma senza riferirne le generalità), perché “ammorbidisse” le conclusioni in modo da dare “spazio” alla difesa degli imputati. Ma Giaccone, da medico fedele al giuramento di Ippocrate, rifiutò ogni compromesso firmando così la sua condanna a morte. La mattina dell’11 agosto 1982, mentre si recava all’Istituto di Medicina Legale del Policlinico Universitario di Palermo, di cui era direttore, fu raggiunto da due killer e ucciso con tre colpi di revolver calibro 38 e due colpi di pistola Beretta calibro 9 parabellum.

La storia di Paolo Giaccone è la storia di un eroe borghese. Ci insegna che non è necessario rivestire particolari posizioni di potere per combattere ogni forma di illegalità, da chiunque sia posta in essere. Ciascuno di noi è chiamato ad adempiere al proprio dovere, qualunque sia il ruolo nella società, nella consapevolezza che ci sono stati uomini che hanno sacrificato il bene supremo della vita nell’azione di contrasto all’illegalità e alla criminalità.

Un altro “pentito”, Vincenzo Marsala, passò dall’altra parte della barricata dopo l’omicidio, avvenuto nel 1983, di suo padre Mariano Marsala, “uomo d’onore” della “famiglia” di Vicari, un paese del palermitano nella zona di Corleone. L’importanza della collaborazione è dovuta al fatto che Marsala nelle sue dichiarazioni diede risalto alla figura di Totò Riina, che da più di dieci anni era sparito dai radar di polizia e carabinieri. Peraltro, di Riina e Provenzano sono esistite per lungo tempo due vecchie foto diventate sempre meno “somiglianti” con il passare degli anni.

Le rivelazioni di Marsala permisero di accertare che la guerra in atto a Palermo aveva avuto tragici effetti anche in provincia.

L’attendibilità di Marsala è stata passata al vaglio della Corte di Assise di Palermo che, anche sulla base delle sue dichiarazioni, ha emesso sentenza di condanna per reati associativi a carico di vari mafiosi. Il pentito spiegò le regole elettorali di Cosa nostra, che da sempre votava per la Democrazia Cristiana, in quanto i suoi adepti “erano quelli che proteggevano maggiormente la mafia”. In particolare Peppe Marsala (capo mandamento di Vicari) appoggiava sempre Salvo Lima, ma tutta l’organizzazione “militava” a favore di altri esponenti della Dc come Mario D’Acquisto, Vincenzo Carollo e Mario Fasino.

La regola, la “consegna” fondamentale, a cui si dovevano attenere gli “uomini d’onore”, era quella di fare propaganda solo in favore della Dc, mentre era severamente vietato fare propaganda o votare per comunisti e fascisti.

Erano però previste delle eccezioni. Infatti si poteva votare per politici di altri partiti, ma a titolo esclusivamente personale, per ricambiare favori ricevuti, e comunque con divieto assoluto di fare propaganda. Il rapporto con i politici, inoltre, non poteva essere mantenuto da un qualsiasi “uomo d’onore”, ma soltanto dai capi mandamento o da membri della “famiglia” con un grado piuttosto elevato nella gerarchia dell’organizzazione.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

La cantata di Don Masino e i verbali scritti a mano da Giovanni Falcone. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 24 agosto 2023

Il collaboratore di giustizia riavvolse il nastro della sua vita in un continuo, spesso tormentato flash-back, richiamando alla memoria per quattro mesi fatti, episodi, avvenimenti, riempiendo 329 pagine di verbali, scritti a mano da Falcone, senza che nulla trapelasse all’esterno

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Tommaso Buscetta è stato il collaboratore per noi più importante, dicevo, perché ha svelato, con dovizia di riferimenti sempre riscontrati, i segreti di Cosa nostra. Perché i “valori” non erano più quelli di una volta, quelli in cui lui aveva creduto, ormai era diventata una comune organizzazione criminale. In particolare, sin dal primo interrogatorio ha dichiarato, e lo ha poi sempre ribadito: “Non sono un pentito. Non sono una spia né un informatore, né un criminale che prova piacere a infrangere le leggi e sfruttare gli altri”.

Nell’appunto che consegnò a Falcone il giorno del loro primo incontro c’era scritto: “Sono stato un mafioso e ho commesso degli errori per i quali sono pronto a pagare integralmente il mio debito con la giustizia senza pretendere sconti né abbuoni di qualsiasi tipo (allora la legge sui pentiti non esisteva ancora, ndr).

Invece, nell’interesse della società, dei miei figli e dei giovani, intendo rivelare tutto quanto è a mia conoscenza su quel cancro che è la mafia affinché le nuove generazioni possano vivere in modo più degno e umano”.

Parole impegnative di un mafioso che aveva uno spessore criminale importante e che, nonostante non avesse mai assunto ruoli apicali in Cosa nostra, godeva di grande rispetto nell’ambito dell’organizzazione. Anche in carcere era tenuto in grande considerazione, tanto che qualcuno era sempre pronto a preparargli il caffè e, quando era detenuto all’Ucciardone a Palermo, i suoi pasti arrivavano dai migliori ristoranti della città. Era uno che non aveva bisogno di alzare la voce per farsi sentire. A questo proposito, ricordo che a Giovanni Falcone, che per tre volte si era lamentato del disturbo arrecato da agenti della Questura di Roma dove si svolgeva l’interrogatorio, Buscetta fece notare con sentito rispetto che, in un caso simile, a un “uomo d’onore” di “peso” sarebbe bastato lamentarsi solo la prima volta e senza alzare la voce.

Don Masino era dotato di grande intuito e, durante la sua visita a Palermo che precedette lo scoppio della seconda guerra di mafia, si rese conto che qualcosa non andava, che il fuoco covava sotto la cenere. Tuttavia non capì subito la pericolosità dei “Corleonesi” e rimase perplesso di fronte agli omicidi eccellenti del 1979 che interrompevano una situazione di quiete che faceva molto comodo a Cosa nostra. Come già Tano Badalamenti, Buscetta pensava che “Cosa nostra non deve fare la guerra allo Stato”. Con lo Stato si convive, si cerca di approfittare delle sue debolezze, a volte tocca anche andare in galera, ma il quieto vivere porta business alla mafia. Anche per questo i sequestri di persona a un certo punto non furono più effettuati in Sicilia. Creavano allarme sociale, e soprattutto attiravano l’“attenzione” delle forze dell’ordine e della magistratura.

Buscetta, che assistette da lontano al massacro dei suoi parenti e amici, collaborò perché voleva salvare se stesso e quello che rimaneva della sua famiglia, e perché riteneva di avere trovato in Giovanni Falcone un magistrato di cui fidarsi. Quando venne arrestato in Brasile ed estradato in Italia, in aereo, dove rischiò di morire per la stricnina ingerita nel tentativo di uccidersi, ebbe modo di apprezzare la professionalità del dottor Gianni De Gennaro, che aveva curato la sua traduzione. Ma fu nel primo incontro con Falcone che gli fu posta una domanda alla quale Buscetta obiettò che ci sarebbe voluto molto tempo per rispondere.

Era il segnale che Giovanni colse al volo.

Il 16 luglio 1984 Tommaso Buscetta, presenti il pubblico ministero Vincenzo Geraci e il vice-questore Gianni De Gennaro, siede davanti il giudice istruttore Giovanni Falcone. Gli ribadisce la sua volontà di collaborare, ma con una premessa: “L’avverto, signor giudice. Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. E con me faranno lo stesso. Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa nostra non si chiuderà mai. È sempre del parere di interrogarmi?”

E la deposizione ebbe inizio.

Il collaboratore di giustizia riavvolse il nastro della sua vita in un continuo, spesso tormentato flash-back, richiamando alla memoria per quattro mesi fatti, episodi, avvenimenti, riempiendo 329 pagine di verbali, scritti a mano da Falcone, senza che nulla trapelasse all’esterno. Due sedute quotidiane, un fiume di parole e un uomo, Buscetta, che aveva scelto Falcone come suo punto di riferimento,

nonostante si rendesse conto degli ostacoli che avremmo potuto incontrare nel dare seguito alle sue dichiarazioni.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Il “Teorema Buscetta” e l’instancabile lavoro del pool antimafia. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 25 agosto 2023

Falcone mise a dura prova gli inquirenti, disponendo oltre tremila riscontri alle dichiarazioni di Buscetta. Tutto il possibile andava verificato, occorreva che il “prodotto” della nostra fatica, l’ordinanza-sentenza nei confronti di 707 imputati, fosse sorretto da prove granitiche. Perché si affrontava una battaglia che il pool non poteva permettersi di perdere

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Nel corso degli interrogatori Buscetta ha sempre affermato che la “sua” Cosa nostra, come l’aveva conosciuta all’inizio della affiliazione, non esisteva più. Era diventata “la Cosa nostra” di Riina e Provenzano che non rispettava più le regole alle quali si erano da sempre attenuti gli “uomini d’onore” della vecchia mafia.

Collaborando, intendeva vendicarsi non solo di chi gli aveva ammazzato due figli, un fratello, un genero, un cognato e altri parenti per un totale di undici persone, ma anche di chi aveva sovvertito le regole che governavano la mafia di un tempo, la mafia di Bontate e Inzerillo, la “sua mafia”.

Ai suoi occhi, la Cosa nostra non era più quella in cui era entrato giovanissimo, per colpa soprattutto di Totò Riina. Era diventata la “cosa sua”. La “cosa di Totò Riina”.

Ad esempio, ricordò che per tre anni aveva condiviso la stessa cella con il responsabile dell’omicidio di un suo amico, comportandosi come se niente fosse, consapevole che, secondo le regole non scritte ma inviolabili di Cosa nostra, quell’uomo sarebbe stato ucciso al momento della sua uscita dal carcere. E così accadde.

Ricordò anche, con sofferenza e pur con orgoglio, come, torturato dalla polizia brasiliana, legato a un palo per ore sotto un sole cocente, torturato con le scosse elettriche, minacciato di morte, si fosse limitato a declinare le sue generalità.

La storia racconterà che Buscetta ebbe totale fiducia in Giovanni Falcone, non nello Stato. Ma in realtà quel giudice istruttore faceva parte, con gli altri uomini del pool, di una componente, sia pure minoritaria, delle istituzioni che voleva vederci chiaro sul perverso intreccio politico-mafioso-imprenditoriale, perché non tutto era stato ed era sempre e soltanto mafia.

Don Masino riteneva però che il tempo non fosse ancora maturo per aprire, con le sue rivelazioni, quel “vaso di Pandora” dove erano rimasti occultati segreti inconfessabili che, una volta svelati, non sarebbe stato più possibile celare, con gravi conseguenze sulla tenuta delle istituzioni. No, era più opportuno tacere, per il momento, in attesa che i tempi maturassero. Come in realtà avvenne.

Buscetta descrisse dettagliatamente l’organizzazione di Cosa nostra, raccontò la guerra di mafia di quegli anni che definì “non una guerra ma una caccia all’uomo”, fornì codici di interpretazione, svelò nomi di killer e mandanti di atroci omicidi.

Per noi del pool fu un salto quantico, da semplici artigiani diventammo dei professionisti, pur fedeli alla nostra linea per cui non potevamo prendere per oro colato tutte le affermazioni di un personaggio che, in definitiva, faceva parte delle cosche perdenti della guerra di mafia e aveva dichiaratamente in animo di vendicarsi dei suoi nemici giurati.

Così Falcone mise a dura prova gli inquirenti, disponendo oltre tremila riscontri alle dichiarazioni di Buscetta. Tutto il possibile andava verificato, occorreva che il “prodotto” della nostra fatica, l’ordinanza-sentenza nei confronti di 707 imputati, fosse sorretto da prove granitiche. Perché si affrontava una battaglia che il pool non poteva permettersi di perdere.

Eravamo coscienti che l’eventuale accoglimento da parte della Corte di Assise delle conclusioni alle quali eravamo pervenuti avrebbe provocato una grave crisi in Cosa nostra, incoraggiando l’arrivo di altri pentiti, invogliati a mettersi sotto l’ala protettrice dello Stato che aveva “vinto” la battaglia. Di contro, qualora le conclusioni del cosiddetto “sistema Buscetta” fossero state sconfessate da parte del collegio giudicante, ciò avrebbe tarpato ancora per molto tempo le ali alla risposta dello Stato.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

E Ninni Cassarà trovò “Prima Luce” per decifrare la grande guerra di mafia. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 26 agosto 2023

Salvatore Contorno aveva fornito al dottor Ninni Cassarà, dirigente della Squadra mobile della Questura, informazioni sulla mafia, trasfuse nel rapporto dalla copertina rossa “Michele Greco + 161”, dove il “pentito” veniva indicato come “prima luce”

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Alla inattesa collaborazione di Tommaso Buscetta fecero poi seguito quelle di Salvatore Contorno, Antonino Calderone e Francesco Marino Mannoia, per restare alle più importanti. E anche questi “uomini d’onore”, passati dalla parte dello Stato, ci hanno consentito di “spiare” all’interno di Cosa nostra.

Le dichiarazioni di Contorno hanno integrato quelle di Buscetta, che risultavano comunque un po’ datate perché quest’ultimo era dovuto scappare dalla Sicilia per rifugiarsi in Brasile, dove solo ogni tanto, e spesso incomplete e frammentarie, gli giungevano notizie sui parenti e sul progredire della mattanza dei “perdenti”.

In particolare, Salvatore Contorno già aveva fornito al dottor Ninni Cassarà, dirigente della Squadra mobile della Questura, informazioni sulla mafia, trasfuse nel rapporto dalla copertina rossa “Michele Greco + 161”, dove il “pentito” veniva indicato come “prima luce”, perché Contorno era stato il primo a “illuminare” il fitto buio nel quale erano celati fatti e avvenimenti accaduti in Cosa nostra negli anni precedenti.

Come è notorio, Contorno decise di collaborare soltanto dopo essere stato rassicurato sulle “buone intenzioni” di Giovanni Falcone, con il quale chiese di incontrarsi, e dei suoi colleghi, dei quali avrebbe potuto fidarsi.

“Totuccio” Contorno, soprannominato Coriolano della Floresta (come il protagonista del romanzo I Beati Paoli), affiliato alla “famiglia” di Santa Maria di Gesù di Stefano Bontate, fu prodigo di informazioni sul conto dei più autorevoli aderenti a Cosa nostra negli stessi termini in cui si era espresso Tommaso Buscetta.

Contrabbandiere di sigarette e poi trafficante di droga insieme ai cugini Grado, killer al servizio della sua “famiglia” sino all’omicidio di Stefano Bontate, la sua deposizione nel Maxiprocesso risultò di fondamentale importanza e viene ricordata anche per le vivaci reazioni degli avvocati per lo “slang” dialettale con il quale si esprimeva, così “stretto” da essere quasi incomprensibile anche per chi conosceva il dialetto palermitano.

Dopo avere scontato la pena irrogatagli, Contorno ebbe diverse vicissitudini, tornò in carcere, si trasferì negli Usa, rientrò temporaneamente a Palermo, come avrò modo di raccontare.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

I quattro picciriddi uccisi, così Antonino Calderone decide di pentirsi. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 27 agosto 2023

Calderone era reo confesso dell’omicidio di quattro ragazzini: Benedetto Zuccaro (15 anni), Giovanni La Greca (14), Riccardo Cristaldi (15) e Lorenzo Pace (14), colpevoli di avere scippato e maltrattato la madre di Nitto Santapaola, che era caduta e si era rotta un braccio

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Antonino Calderone divenne un “uomo d’onore” per seguire il fratello Giuseppe, detto “Cannarozzu d’argento”, gola d’argento, e nonostante lo zio, altro “uomo d’onore”, lo avesse sconsigliato di intraprendere quella strada.

Giuseppe Calderone fu uno dei primi caduti nella guerra di mafia, ucciso grazie a un accordo fra il suo luogotenente Nitto Santapaola, esecutore materiale dell’omicidio, e Totò Riina.

Deceduto il fratello, Antonino Calderone si rifugiò a Nizza, dove aprì una lavanderia, ma si rese presto conto che anche la cittadina francese era frequentata da mafiosi della fazione opposta, che, prima o dopo, avrebbero scoperto il suo nascondiglio.

È stato un “pentito” importante perché diede preziose indicazioni: spiegò i rapporti tra imprenditoria catanese e mafia e si soffermò sui collegamenti con le cosche nissene e agrigentine. Le sue deposizioni provocarono una raffica di arresti.

E fra i tanti interrogatori effettuati il suo mi è rimasto impresso in modo indelebile.

Calderone era reo confesso dell’omicidio di quattro ragazzini: Benedetto Zuccaro (15 anni), Giovanni La Greca (14), Riccardo Cristaldi (15) e Lorenzo Pace (14), colpevoli di avere scippato e maltrattato la madre di Nitto Santapaola che era caduta e si era rotta un braccio.

Calderone, abbandonata Cosa nostra seguendo i consigli della moglie e con le stesse motivazioni di Buscetta e Contorno, raccontò che i quattro ragazzi erano stati sequestrati e rinchiusi in una stalla perché disturbavano la tranquillità del quartiere con continui atti di teppismo.

Vennero strozzati e buttati in un fosso. Quel delitto pesò molto sulla coscienza di Calderone. Me ne resi conto quando, nuovamente interrogato da me sulle modalità dell’omicidio, Calderone, al ricordo di quell’atroce delitto commesso insieme ad altri, smise di parlare, iniziò a singhiozzare e, in preda a una crisi di nervi, cadde per terra e non riuscì a riprendersi, tanto che dovetti interrompere l’interrogatorio. Il giorno dopo ripresi l’atto istruttorio, ma Calderone non fu ancora in grado reggere la tensione emotiva che gli procurava il ricordo della fine di quei quattro ragazzi.

L’interrogatorio venne condotto anche da Falcone, arrivato da Palermo nel primo pomeriggio, al quale avevano “consigliato”, per motivi di sicurezza, di pernottare in quel carcere. Mi propose di seguire anche io il “consiglio” ma risposi: “Giovanni, lo sai che ti voglio bene e per te farei qualunque cosa, tranne che passare una notte in carcere”.

Anni dopo, al termine di una udienza tenuta a Roma nel carcere di Rebibbia, Calderone chiese di essere ricevuto, acconsentii e mi trovai di fronte un uomo diverso da quello che avevo conosciuto anni addietro. Mi disse che l’avere collaborato a lungo con la giustizia gli aveva fatto rinnegare quei valori distorti nei quali aveva creduto e, soprattutto, l’avere confessato quel feroce assassinio facendo i nomi dei correi, e l’essersi cristianamente pentito per averlo commesso, gli consentiva di sentirsi in pace con la propria coscienza e di guardare in faccia i suoi figli finalmente senza vergognarsi. Ne fui compiaciuto, ma il mio pensiero corse anche a quei ragazzi ai quali la ferocia di Cosa nostra aveva negato persino una sepoltura.

Sono convinto che quello di Antonino Calderone sia l’unico esempio di sincero “pentimento”, inteso come stato d’animo di rammarico, rimorso e dolore per un atto umanamente riprovevole.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Marino Mannoia rivela gli incontri tra Giulio Andreotti e i boss di Palermo. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 28 agosto 2023

Marino Mannoia è stato l’autore delle rivelazioni su incontri che il politico Giulio Andreotti avrebbe avuto con capimafia palermitani, tra i quali lo stesso Stefano Bontate. Dichiarazioni ritenute veritiere nella sentenza di appello nel processo a carico di Andreotti

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Un’altra storia particolare è quella di Marino Mannoia.

Anche lui faceva parte delle cosche perdenti, visto che era un affiliato della “famiglia” di Santa Maria di Gesù di Stefano Bontate. Soprannominato “Mozzarella”, faceva il chimico per l’organizzazione e si occupava della raffinazione di eroina quando ancora in Sicilia prosperavano raffinerie clandestine. Come si usava all’epoca tra appartenenti a diverse “famiglie” o alla stessa per rinsaldare i reciproci rapporti, gli fu combinato il matrimonio con Rosa Vernengo, figlia del boss Pietro Vernengo della stessa “famiglia” di Santa Maria Di Gesù, ma poi si innamorò di Rita Simoncini, la quale ebbe un ruolo importante nel suo processo di pentimento.

Nonostante fosse “uomo d’onore” di Bontate, era una sorta di freelance. Grazie alle sue competenze come “chimico”, lavorava anche per altre “famiglie” e questo gli consentì di sopravvivere alla seconda guerra di mafia e di trovare subito occupazione, questa volta alle dipendenze di Totò Riina. Quando decise di collaborare con lo Stato e la notizia iniziò a circolare, gli uccisero, oltre al fratello

Agostino, anche la madre, la sorella e la zia.

Ricordo di avere interrogato Marino Mannoia in una chiesa sconsacrata di Roma pochi giorni dopo il triplice omicidio. Gli chiesi se se la sentisse di sostenere l’interrogatorio, lui rispose affermativamente, “perché sappiamo che queste cose possono succedere”. Aggiunse che era dispiaciuto perché non gli era stato consentito di dare l’ultimo saluto alle sue parenti.

Una notazione di colore. Appreso che uno dei killer era stato identificato per tale Nicolò Eucaliptus, “uomo d’onore” il cui cognome non era certo comune in quel di Bagheria, dove era stata commessa la strage, Marino Mannoia osservò che non avrebbe mai pensato che anche uno straniero, forse un egiziano, fosse stato reclutato da Cosa nostra!

Marino Mannoia è stato l’autore delle rivelazioni su incontri che il politico Giulio Andreotti avrebbe avuto con capimafia palermitani, tra i quali lo stesso Stefano Bontate. Dichiarazioni ritenute veritiere nella sentenza di appello nel processo a carico di Giulio Andreotti.

Questo lungo “excursus” storico sulle collaborazioni di alcuni tra i più attendibili “pentiti” è servito a dimostrare come senza il loro aiuto non sarebbe stato possibile sferrare un attacco senza precedenti alla mafia, grazie anche a un metodo investigativo incisivo e innovativo.

Né avrebbe avuto fine la serie di sentenze di assoluzione per insufficienza di prove nei confronti di appartenenti a Cosa nostra che avevano contraddistinto, per esempio, i processi di Catanzaro e Bari celebrati alla fine degli anni Sessanta.

I pentiti si sono quindi confermati una risorsa indispensabile. D’altra parte va detto che confrontarsi con loro non era facile. Non è facile avere davanti un uomo che ha ucciso tanti altri uomini ‒ strangolati, sciolti nell’acido, fatti sparire per sempre ‒ e mantenere la calma e la lucidità che

ti permettano di fare il tuo mestiere di giudice. Siamo magistrati navigati, esperti, rotti a tutte le intemperie, ma alcune volte i sentimenti, le passioni possono prendere il sopravvento. È umano. Ecco, questo è un altro “dictat” a cui abbiamo sempre voluto e dovuto attenerci: mantenere la lucidità e non lasciarci condizionare da fattori diversi da quelli che ci dovevano guidare: il rispetto e l’osservanza della legge. Con un obiettivo sempre ben chiaro in testa: combattere l’insidiosa Bestia che devastava ‒ e devasta ‒ la Sicilia e l’Italia.

Lavoravamo con ogni energia per sconfiggere Cosa nostra.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

La “previsione” di Buscetta, le stragi e una misteriosa trattativa. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 29 agosto 2023

Paolo Bellini, in accordo con l’Arma dei Carabinieri, instaurò una trattativa con Gioè, dietro il quale c’era Brusca, per effettuare uno scambio fra benefici di pena per cinque “uomini d’onore” anziani e malati e la restituzione di opere d’arte per decine di miliardi. Siamo nel periodo che precede l’attentato di via D’Amelio, e la trattativa non andò a buon fine

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Era il mese di aprile del 1993. Mi recai in Canada per interrogare Tommaso Buscetta a conclusione dell’attività istruttoria dell’ordinanza-sentenza che verrà emessa il 5 gennaio 1995. Eravamo nel difficile, terribile, fosco periodo seguente le stragi di Capaci e di via D’Amelio e prima degli attentati di Roma, Firenze e Milano.

Al termine dell’interrogatorio, al quale partecipò anche il collega Gioacchino Natoli (nel frattempo transitato in Procura dopo l’entrata in vigore del codice Vassalli), chiesi a Buscetta se, secondo lui, sarebbero stati perpetrati in futuro altri omicidi eccellenti.

Ci pensò, rimanendo qualche secondo in silenzio e, alla fine, vaticinò che la strategia di Cosa nostra sarebbe cambiata: non avrebbe più compiuto attentati a rappresentanti delle forze dell’ordine, magistrati e imprenditori, ma bensì al patrimonio architettonico e artistico italiano.

Disse proprio così.

In effetti arrivarono le bombe di Roma, Firenze e Milano, che provocarono dieci vittime innocenti, tra di esse due bimbe. E poi decine di feriti e montagne di macerie.

Con le stragi la mafia intendeva mettere all’angolo lo Stato italiano, costringerlo a venire a patti, creando così le condizioni per quella che, processualmente, sarà nota come “la trattativa Stato-mafia”.

All’epoca ritenni che Buscetta avesse espresso soltanto una opinione personale e non una vera e propria previsione che sarebbe stata confermata, purtroppo, da quanto accaduto qualche mese dopo.

Ho raccontato anche a chi di dovere questo episodio, che mi ha colpito perché allora Buscetta viveva sotto protezione, isolato dal suo vecchio ambiente, senza nessuna frequentazione particolare. Eppure fu in grado di sfornare una previsione, rivelatasi esatta, paventando una serie di eventi rispetto ai quali non c’erano precedenti.

E allora pensai che o eravamo di fronte a un personaggio dall’intuito straordinario oppure qualcuno, che magari gli offriva protezione, gli aveva sussurrato questa possibilità. Ma se gli americani, che avevano Don Masino in custodia, erano al corrente di una simile “svolta” da parte di Cosa nostra rispetto alle sue sperimentate iniziative, possibile che nessuno avesse pensato ad avvisare per tempo i servizi italiani?

Oppure la notizia partì dall’Italia, dove qualcuno si sentì forse in dovere di chiedere l’opinione di un esperto come Buscetta su un simile cambiamento di strategia?

C’è da dire, però, che nell’orizzonte criminale l’ipotesi di usare l’esplosivo contro monumenti era già balenata grazie a Paolo Bellini.

Di chi si tratta? Ex militante di Avanguardia nazionale, assassino di Alceste Campanile, suo ex amico del Fronte della Gioventù poi passato a Lotta Continua, Bellini, nel febbraio 2020, ha ricevuto anche un avviso di fine indagine per la nuova inchiesta sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione ferroviaria di Bologna.

Di quell’attentato Bellini è ritenuto un esecutore che avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi ‒ questi quattro tutti deceduti e ritenuti mandanti, finanziatori o organizzatori ‒, oltre che in concorso con esponenti dei Nar già condannati.

Questa però è la parte della sua vicenda giudiziaria che meno ci riguarda, in questo frangente. Perché ciò che risulta interessante è che Bellini, nel 1981, era detenuto nel carcere di Sciacca, dove conobbe Antonino Gioè, che faceva parte della cosca di Altofonte e che più tardi avrebbe avuto un ruolo determinante nella strage di Capaci, occupandosi del confezionamento dell’esplosivo e del successivo posizionamento nei cunicoli sotto l’autostrada.

Gioè diede anche il segnale a Giovanni Brusca per azionare il telecomando che provocò l’esplosione.

Bellini, in accordo con l’Arma dei Carabinieri, instaurò una trattativa con Gioè, dietro il quale c’era Brusca, per effettuare uno scambio fra benefici di pena per cinque “uomini d’onore” anziani e malati e la restituzione di opere d’arte per decine di miliardi.

Siamo nel periodo che precede l’attentato di via D’Amelio, e la trattativa non andò a buon fine. Dopo le stragi però, con Riina in carcere, Bagarella, Brusca e Messina Denaro decisero di proseguire nella sfida allo Stato accettando un suggerimento che, tramite Gioè, arrivava da Bellini: posizionare, a mo’ di intimidazione, una bomba da fare ritrovare nella Torre di Pisa e siringhe di sangue infetto sulle spiagge di Rimini. Brusca ha raccontato di essere stato tagliato fuori dall’organizzazione degli attentati da qui in poi, ma di avere saputo che la decisione dei luoghi da colpire fu adottata da Matteo Messina Denaro, l’esperto d’arte dell’organizzazione.

Tutto questo per dire che è difficile comprendere come Buscetta abbia potuto sapere, isolato com’era, dei progetti dentro Cosa nostra, ma che l’ipotesi di colpire chiese, musei e monumenti circolava in qualche forma già da tempo all’interno dell’organizzazione.

Ripensando a quel colloquio, dopo molti anni continuo a chiedermi se Tommaso Buscetta avesse soltanto azzardato una sua ipotesi oppure avesse inteso fornire una precisa “anticipazione” sugli imminenti piani di Cosa nostra.

Se è valida la seconda ipotesi, da chi avrebbe potuto ricevere quelle informazioni? Difficile supporre che fosse stato avvisato dai suoi ex sodali. E allora, da chi?

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Cambia l’aria a Palermo, per qualcuno il pool antimafia è “un problema”. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 30 agosto 2023

I condomini di via Notarbartolo, dove abitava Falcone, preoccupati che la sua sola presenza mettesse a rischio la loro incolumità personale. Ma anche le scorte dei magistrati, che percorrevano velocemente le strade cittadine, erano oggetto di vibranti e continue lamentele. Quelle lamentele trovavano sfogo, forse per un caso, sempre sulle colonne del “Giornale di Sicilia”

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Il 1984 è stato l’anno in cui il pool ha mietuto i primi importanti, determinanti successi nell’azione di contrasto a Cosa nostra. La inattesa e imprevista collaborazione di Tommaso Buscetta e, sulla scorta delle sue propalazioni, la emissione di un mandato di cattura (il cosiddetto blitz di San Michele) che portò in carcere oltre trecento persone tra “uomini d’onore” e soggetti vicini a Cosa nostra, convinsero l’opinione pubblica che, finalmente, si faceva sul serio, che era giunta l’ora di un definitivo regolamento di conti con la mafia, che da tempo, troppo tempo, seminava morte e terrore. Ma quel vento favorevole, che aveva gonfiato le vele del consenso per il nostro lavoro, ben presto smise di soffiare, cambiando direzione.

Ci si accorgeva che l’opinione pubblica e il clima intorno a noi stavano mutando, come se Palermo volesse sprofondare ancora nel suo passato, nella sua “normalità”.

Quale fosse la “normalità” a Palermo tornammo a rendercene conto quando nel 1985 vennero uccisi due funzionari della Polizia di Stato, Beppe Montana e Ninni Cassarà, e perirono, in un tragico incidente stradale, gli studenti Biagio Siciliano e Maria Giuditta Milella, investiti da un’auto della scorta mia e di Paolo Borsellino. Un episodio atroce, una storia triste, una storia di quella Palermo.

Il 25 novembre 1985 è stato l’ultimo giorno di scuola per Biagio Siciliano, 14 anni, e Maria Giuditta Milella, 17 anni, studenti del Liceo Classico Meli. Alle 13,35 un’Alfetta che scortava l’auto blindata in cui sedevamo io e Paolo Borsellino, dopo avere urtato contro una Fiat 127 che non si era fermata all’alt di un vigile urbano all’altezza dell’incrocio tra viale della Libertà e piazza Croci, piombava addosso a decine di studenti del vicino liceo che, terminate le lezioni, attendevano a una fermata di autobus di fronte l’istituto, per fare rientro a casa.

A seguito del violento impatto, ventitré studenti riportarono ferite, per fortuna non gravissime, mentre Biagio morì dopo qualche ora e Giuditta a distanza di cinque giorni dal ricovero in ospedale.

Fu una tragedia che sconvolse una città blindata che, ormai da qualche tempo, viveva in un clima di terrore e di violenza dovuto alle centinaia di morti per mano mafiosa nel giro di pochi anni. E dalla morte di Biagio e Giuditta anche le nostre famiglie furono sfiorate. No, non furono solo sfiorate, la mia famiglia davvero sprofondò in quel dramma. Mio figlio Michele, allora tredicenne, frequenta-

va quella stessa scuola ma non si trovava ad aspettare sotto la pensilina dell’Amat perché le lezioni della sua classe erano finite un’ora prima, alle dodici e trenta.

La fine di quelle due giovanissime vite ha lasciato un vuoto incolmabile nelle famiglie e un dolore straziante, una cicatrice indelebile in me e in Paolo, involontarie cause di quel terribile lutto, e ha centuplicato il nostro impegno nell’azione di contrasto a Cosa nostra.

Di recente, il Comune di Palermo ha intitolato a Biagio e Giuditta, vittime innocenti di mafia, una strada nei pressi del Liceo Meli. Nel suo commosso intervento, il Sindaco Leoluca Orlando ha ricordato come “in un momento ‒ si era proprio alla vigilia del Maxiprocesso ‒ in cui molti criticavano lo Stato che combatteva la mafia, criticavano le scorte e le sirene, i genitori e i compagni di Biagio e Giuditta reagirono con una straordinaria compostezza vivendo l’inconsolabile dolore senza una sola parola fuori posto, senza farsi trascinare nel gorgo delle emozioni più negative, cose che sarebbero state subito strumentalizzate da chi guardava con fastidio l’impegno dello Stato contro la mafia”.

In quei giorni, il consigliere istruttore Antonino Caponnetto parlò di grande consapevolezza civica e diede prova, anche in quel drammatico frangente, di essere un grande uomo. Era ritornato a Firenze, a casa sua, da ventiquattro ore appena, in una delle rare occasioni di libera uscita da Palermo in quattro anni e mezzo, quando ricevette la telefonata con la quale Paolo Borsellino in lacrime gli comunicava l’accaduto.

Paolo era distrutto dai sensi di colpa, non chiese ad Antonino di tornare ma lui non ci pensò due volte, prese il primo volo utile e si precipitò a Palermo per stargli vicino.

Purtroppo non ricevemmo uguale solidarietà da tanti cittadini palermitani, che, di contro, si esibirono in manifestazioni di intolleranza tutt’altro che edificanti, se non di misconoscenza del pericolo gravissimo che correvano i magistrati, non solo noi del pool si intende, impegnati in processi di mafia.

Già abbiamo detto degli strali a mezzo stampa dei condomini di via Notarbartolo, dove abitava Falcone, preoccupati che la sua sola presenza mettesse a rischio la loro incolumità personale. Ma anche le scorte dei magistrati, che percorrevano velocemente le strade cittadine, erano oggetto di vibranti e continue lamentele. Quelle lamentele che trovavano sfogo, forse per un caso, sempre sulle colonne del “Giornale di Sicilia”, che pubblicava lettere di protesta come quella che già abbiamo visto.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Con l’omicidio di Beppe Montana inizia una tragica estate di sangue. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 31 agosto 2023

Il primo a cadere fu Beppe Montana, commissario della Squadra mobile della Questura di Palermo, soprannominato “Serpico” perché era sempre in prima linea. “A Palermo siamo poco più d’una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà”

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

La dimostrazione che il “clima” era definitivamente cambiato, che il vento del consenso aveva da tempo smesso di soffiare, è data anche da un episodio vissuto da un componente della mia famiglia.

Si era nel periodo dopo le stragi del 1992. Mia moglie si trova in un negozio a cui accede una signora adirata perché aveva fatto molto fatica a parcheggiare la sua autovettura. Ad alta voce, si lamenta del fatto che, con “la storia della messa in sicurezza dei magistrati”, era impossibile trovare un posto dove parcheggiare l’auto per le numerose zone rimozione nei pressi delle abitazioni di

magistrati impegnati in indagini di mafia. Non solo. La signora suggerisce un rimedio al problema. Perché non concentrare tutti quei magistrati in un luogo isolato, così, se li ammazzano, li ammazzano tutti lì?

Gelida, mia moglie le fece notare che non si sarebbe espressa in quei termini infelici e offensivi se uno dei suoi familiari fosse obbligato a muoversi con la scorta per i pericoli che correva perché stava facendo il suo dovere. Nel negozio calò il silenzio.

Non era facile vivere in una simile atmosfera di tensione, dove a volte sembrava che dessimo soltanto fastidio. Noi tutti sapevamo che il magistrato deve svolgere il proprio compito senza preoccuparsi di quel che pensa la gente. Non cercavamo il consenso, il plauso dell’opinione pubblica. Ma è altrettanto vero che, nella situazione in cui viveva Palermo, dove la battaglia era anche culturale, sarebbe stata appagante e incoraggiante la consapevolezza che la società civile fosse partecipe e attenta al nostro lavoro.

Mi accorgo che sto divagando, forse perché voglio allontanare da me il momento del ricordo di quei terribili giorni dell’estate di sangue del 1985.

Il primo a cadere fu Beppe Montana, commissario della Squadra mobile della Questura di Palermo, soprannominato “Serpico” perché era sempre in prima linea. “A Palermo siamo poco più d’una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà”. Così disse, in occasione di una retata finita con l’arresto di otto uomini di Michele Greco, in cui “il Papa” si era sottratto alla cattura.

Montana girava in moto nelle strade di Palermo e con il suo motoscafo controllava il largo della costa, in particolare la zona di Porticello, perché era convinto che i latitanti non si rifugiassero in altre parti del mondo ma si nascondessero dove avrebbero potuto contare su di un reticolo di protezioni e aiuti. In altri termini, nelle zone di appartenenza.

Montana morì il 28 luglio, una domenica piena di sole, sotto i colpi di due killer a viso scoperto. Ecco cosa era la lotta alla mafia di quegli anni. Una sorta di sfida all’O.K. Corral per le strade di Palermo e provincia. Ma era una sfida impari perché i cattivi erano più dei buoni che soli, ogni giorno, dovevano guardarsi le spalle.

Per l’assassinio di Montana c’era però un sospettato per avere partecipato all’omicidio o avere favorito gli autori. Si chiamava Salvatore Marino, aveva 25 anni, giocava a calcio in una squadra appena promossa in Serie D.

Nella sua abitazione furono rinvenuti dieci milioni di lire arrotolati in un giornale del 30 luglio 1985 (che riportava, a caratteri cubitali, la notizia dell’omicidio di Montana) e altri 24 milioni di lire nascosti in un armadio. Gli inquirenti non lo trovarono a casa ma il giorno seguente Salvatore Marino si presentò spontaneamente in Questura. Ne uscirà, cadavere, il giorno dopo.

Nessuno, all’infuori dei poliziotti che effettuarono il fermo e interrogarono il giovane Marino, sa cosa sia realmente avvenuto nel segreto delle stanze e della camera di sicurezza della Squadra mobile in quelle dodici ore, le più nere della Questura di Palermo, tra il pomeriggio dell’1 e l’alba del 2 agosto 1985. La versione ufficiale degli inquirenti, che esclude maltrattamenti e addebita la morte del Marino “ad un collasso e a violente convulsioni”, cozza contro quella dei parenti della vittima, che parlano di una vera e propria “esecuzione” rifacendosi ai numerosi lividi (gonfiori al volto e alle labbra, escoriazioni al naso, tumefazioni ai piedi) sul corpo del loro congiunto. Fu rinvenuto cadavere su una spiaggia palermitana, quella di Sant’Erasmo, dove sarebbe stato ritrovato dagli uomini della Squadra mobile.

Per qualche ora, Marino venne spacciato per un immigrato africano, anche per il colore scuro della pelle.

Il 5 agosto successivo, con provvedimento del ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro, vengono destituiti il capo della Squadra mobile, Francesco Pellegrino, il capitano dei carabinieri, Gennaro Scala, e il dirigente della sezione anti-rapine Giuseppe Russo. A tutti viene contestato il reato di omicidio colposo.

Quello Stato, spesso assente o distratto, questa volta interviene subito e non poteva essere altrimenti. Troppo grande era stato lo sfregio alla credibilità dell’istituzione che pure aveva lasciato sul terreno tanti suoi servitori, in ultimo Beppe Montana. Ma la lotta alla criminalità deve sempre essere condotta nell’ambito delle norme e delle garanzie di rango costituzionale. Se, anche a fronte di dolorosi avvenimenti che non solo ti toccano personalmente ma che riguardano persone con le quali hai lavorato e rischiato la vita, quelle norme di condotta non si rispettano sempre e comunque, se sei venuto meno ai tuoi doveri, hai perso credibilità, hai perso la fiducia riposta in te e nel tuo compito.

Lo penso e lo scrivo con tutto il rispetto che ho sempre avuto per un’istituzione come la Polizia di Stato, non solo perché in essa hanno militato mio nonno Leonardo, come già ricordato, funzionari dotati di non comune spirito di servizio, nostri compagni di un’avventura professionale e umana straordinaria, ma anche perché, per oltre trentaquattro anni, la mia sicurezza è stata affidata al solerte servizio di scorta o di tutela di agenti della Polizia di Stato.

La morte di Salvatore Marino fu un duro colpo anche per noi. Il clima favorevole che aveva accompagnato il nostro lavoro si era ormai dissolto e i giornali, sempre i soliti, rinnovarono gli attacchi.

Ma non finì tutto con quella morte in Questura.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

La morte di Ninni Cassarà e il salatissimo “soggiorno” all’Asinara. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani l'1 settembre 2023

Ad Antonino Caponnetto nel contempo era pervenuta una segnalazione, non c’erano dubbi sulla sua attendibilità, secondo cui, in base a un preciso programma, erano state decise le eliminazioni prima di Borsellino e poi di Falcone. Non c’era tempo da perdere. A notte fonda, con i loro familiari, Giovanni e Paolo partirono da Palermo per Alghero con un aereo militare...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

La tragica estate palermitana dell’85 continuava. Cosa nostra voleva vendicare la morte di Salvatore Marino e farsi “sentire” subito, ancora una volta, nel solo modo che conosceva, facendo “parlare” i kalashnikov.

Il 6 agosto il vicequestore Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia muoiono sotto una valanga di piombo.

Da giorni, per motivi di sicurezza, Cassarà non tornava a casa. Era un uomo stravolto, sfiduciato, distrutto dalla morte violenta del collega Montana e aveva bisogno di riposarsi almeno per qualche ora. L’attentato avvenne in via Croce Rossa, dove il vicequestore abitava. Non era stato imprudente, la sua linea telefonica non era controllata, ma probabilmente una “talpa” che si aggirava in Questura aveva avvisato il commando dei killer del suo rientro a casa.

Il capitano dei carabinieri Angiolo Pellegrini, collaboratore prezioso di Giovanni Falcone, ne ebbe la certezza anni più tardi con le rivelazioni di Angelo Siino, il “ministro” dei lavori pubblici di Cosa nostra. Ma anche il capitano Pellegrini era entrato nel mirino della mafia ed era sfuggito al piombo di due killer solo grazie alla sua prontezza di riflessi.

Una sera stava rientrando in auto da una riunione in Questura, quando, fermo a un semaforo, si accorse che alle sue spalle una moto di grossa cilindrata si avvicinava a grande velocità. A bordo due persone munite di casco.

Intuito il pericolo, Pellegrini, senza attendere che il semaforo desse via libera, accelerò improvvisamente, tagliando la strada alla moto prima che gli si affiancasse, per dirigersi a tutta velocità verso la vicina caserma Carini dei carabinieri. I killer, sorpresi dalla inattesa manovra, desistettero dal portare a termine la loro missione di morte.

Ma altri attentati erano in cantiere, secondo voci arrivate dal carcere che, in particolare, indicavano in Giovanni e Paolo i probabili, prossimi obiettivi. In realtà, qualcosa più di una voce era stato il messaggio, oscuro e allarmante, che alludeva a “qualcosa che si doveva fare” ‒ e di cui ero venuto a conoscenza in quanto delegato anche al visto di censura sulla corrispondenza dei detenuti ‒ trasmesso a mezzo di cartolina postale da Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina e “uomo d’onore” della famiglia di Corleone, a Salvatore Lipari, geometra dell’Anas, vicino ai “Corleonesi”.

Ad Antonino Caponnetto nel contempo era pervenuta una segnalazione, non c’erano dubbi sulla sua attendibilità, secondo cui, in base a un preciso programma, erano state decise le eliminazioni prima di Borsellino e poi di Falcone. Non c’era tempo da perdere.

A notte fonda, con i loro familiari, Giovanni e Paolo partirono da Palermo per Alghero con un aereo militare. Quindi vennero trasferiti a Porto Torres a bordo di mezzi blindati e infine, viaggiando su alcune motovedette, fatti sbarcare a Cala Reale, nell’isola dell’Asinara. Vennero ospitati in una casermetta di mattoni rossi, la foresteria di Cala d’Oliva.

Sulla parete esterna dell’edificio il 22 giugno 2012 sono state apposte, nel corso di una cerimonia, due targhe ricordo sulle quali sono incise altrettante frasi famose di Falcone e Borsellino. Io stesso, allora Presidente del Tribunale di Palermo, scelsi e suggerii quelle frasi agli organizzatori del Festival “Pensieri e Parole. Libri e film all’Asinara” che me ne avevano fatto richiesta, e presenziai alla posa insieme al collega Giuseppe Ayala.

Si è scritto da qualche parte che i colleghi sarebbero stati allontanati da Palermo per poter completare, in tutta sicurezza, la stesura dell’ordinanza-sentenza che sarebbe stata depositata solo l’8 novembre 1985.

In realtà Paolo e Giovanni non ebbero il tempo di portare con loro anche soltanto parte delle centinaia di faldoni contenenti gli atti processuali da consultare per continuare il lavoro. Lo scrisse Caponnetto e lo confermo, confortato anche dai ricordi del personale di cancelleria e dei colleghi Ayala e Di Lello, i quali raggiunsero sull’isola per un paio di giorni Falcone e Borsellino.

Giovanni e Paolo durante quella sorta di esilio non rimasero certo con le mani in mano, ma poterono dedicarsi esclusivamente a prendere appunti solo per i capitoli dell’ordinanza-sentenza ai quali stavano lavorando prima di essere “trasferiti” all’Asinara. Nessuno dei due aveva la benché minima intenzione di considerarsi in vacanza e di oziare mentre si lavorava a un provvedimento fondamentale come la monumentale ordinanza-sentenza dell’8 novembre 1985 che concludeva, sia pure parzialmente, una intensa, frenetica, laboriosa attività processuale iniziata nel 1980.

Quando rientrarono a Palermo, sempre per ragioni di sicurezza, non poterono neppure mettere subito piede in ufficio e, in particolare, Falcone fu costretto per un breve periodo a soggiornare in un luogo protetto.

E mi sovviene una notazione di colore. Pur avendone ogni diritto, i colleghi non chiesero mai di essere rimborsati della somma di 415 mila lire da ciascuno versata allo Stato per il pernottamento e mantenimento nella casermetta, anche se, di tanto in tanto, commentavano il fatto con ironia. Borsellino faceva ricorso al suo sense of humor dicendo in siciliano stretto: «Giovanni, ’u vinu ni vippimu, ma ’u paammu». Ne abbiamo bevuto di vino, ma accidenti se lo abbiamo pagato caro.

Gli sforzi di Cosa nostra per impedire di portare a termine il nostro lavoro furono però inutili, la macchina era partita ed era una macchina poderosa.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Un’aula bunker tutta nuova per celebrare il processo che ha fatto la storia. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 02 settembre 2023

Fu pertanto necessario costruire in tempi brevissimi una struttura, accanto al carcere borbonico dell’Ucciardone (per consentire il passaggio dei detenuti dalle loro celle all’aula senza pericolo alcuno), dove sarebbe stato possibile celebrare il processo in condizioni di assoluta sicurezza essendo stati previsti anche sistemi di protezione in grado di resistere persino ad attacchi missilistici

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

L’8 novembre 1985 venne quindi depositata l’ordinanza-sentenza, che consta di 8.608 pagine contenute in 40 volumi con 22 allegati, il cui incipit recita: “Questo è il processo all’organizzazione mafiosa denominata Cosa nostra, una pericolosissima associazione criminosa che, con la violenza e la intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore”.

La strada verso il Maxiprocesso era ormai spianata.

Quando era in fase avanzata la stesura della ordinanza-sentenza realizzammo che le aule delle Corti di Assise del Palazzo di Giustizia non avrebbero potuto “ospitare” gli oltre quattrocento imputati rinviati a giudizio, in stato di detenzione e a piede libero, le parti civili, gli avvocati difensori, i testimoni. E tanto meno contenere il pubblico, i giornalisti e gli operatori televisivi, provenienti da tutte le parti del mondo per raccontare e trasmettere le fasi di quello che già era considerato nell’immaginario collettivo il più imponente processo mai celebrato al mondo contro un’organizzazione criminale.

Venne presa in considerazione ma subito abbandonata l’ipotesi di “spacchettare” il processo rinviando a giudizio gli imputati, opportunamente selezionati secondo i reati loro contestati, davanti diversi collegi. Questo perché si sarebbe corso il serissimo rischio che i diversi giudici coinvolti non percepissero la visione unitaria di Cosa nostra e ci fosse il pericolo di contrasti o difformità di giudicati tra i vari collegi. Venne esclusa anche la soluzione, sostenuta da una parte della classe forense, di celebrare il processo in altra città che fosse dotata di un’aula adatta alla bisogna. No, il processo poteva e doveva essere celebrato a Palermo.

Fu pertanto necessario costruire in tempi brevissimi una struttura, accanto al carcere borbonico dell’Ucciardone (per consentire il passaggio dei detenuti dalle loro celle all’aula senza pericolo alcuno), dove sarebbe stato possibile celebrare il processo in condizioni di assoluta sicurezza essendo stati previsti anche sistemi di protezione in grado di resistere persino ad attacchi missilistici. Venne completata in circa sei mesi, pochi giorni prima del 10 febbraio 1986, data di inizio del processo, grazie anche al lodevole impegno di Liliana Ferraro, vice-direttore generale degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia.

Quando vuole lo Stato è in grado di essere veloce ed efficiente.

La struttura è costata 36 miliardi di lire (circa 18,5 milioni di euro) e venne realizzata molto in fretta, con turni di lavoro che andavano dalle sei del mattino alle dieci di sera, senza giorni di riposo, e che vedevano impegnati 120 operai. Tempi record per le abitudini italiane e siciliane,

soprattutto tenendo conto che vennero utilizzati quelli che per l’epoca erano sofisticati sistemi di sicurezza.

L’aula bunker, detta anche “aula verde” per il colore del pavimento, ha forma ottagonale e dimensioni mastodontiche, che consentono la contemporanea presenza di circa seicento imputati, “ospitati” nelle trenta gabbie poste di fronte lo scranno dei giudici, mentre numerosissimi e vasti spazi delimitati sono destinati agli avvocati, ai testimoni, agli imputati a piede libero e al pubblico. La definizione di aula bunker non era di certo “usurpata”.

Questo luogo simbolo della lotta a Cosa nostra da molti anni ogni 23 maggio viene “invaso” da studenti e studentesse delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, in occasione della premiazione di scuole o singole classi vincitrici del concorso indetto annualmente da Fondazione Falcone e Miur.

Le studentesse e gli studenti che oggi siedono sui banchi di scuola non erano nati il 23 maggio 1992, ma la partecipazione riscontrata di volta in volta e la profondità dei lavori realizzati, nonché la qualità dei percorsi di educazione alla legalità, cittadinanza e Costituzione, testimoniano quanto l’esempio di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, delle donne e degli uomini delle scorte e di tutte le vittime della criminalità organizzata sia vivo e attuale nelle nuove generazioni.

Da alcuni anni l’aula bunker è anche meta continua di turisti di ogni nazionalità in visita a Palermo, al pari dei monumenti e dei luoghi più famosi del capoluogo, attratti dalla opportunità di vedere con i propri occhi il “teatro” in cui lo stato sconfisse Cosa nostra.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

Le critiche di certa stampa intorno al Maxiprocesso. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 03 settembre 2023

Tornando indietro nel tempo, ricordo che al processo ci avvicinammo in un clima che, mano a mano, si fece sempre più rovente. Gli attacchi del “Giornale di Sicilia” ‒ ma dov’era la novità? ‒ si fecero quotidiani; improvvisamente ci fu un risveglio di attenzione, mai notato in precedenza, per il rispetto delle libertà civili. I giudici erano un pericolo per la democrazia

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

Tornando indietro nel tempo, ricordo che al processo ci avvicinammo in un clima che, mano a mano, si fece sempre più rovente. Gli attacchi del “Giornale di Sicilia” ‒ ma dov’era la novità? ‒ si fecero quotidiani; improvvisamente ci fu un risveglio di attenzione, mai notato in precedenza, per il rispetto delle libertà civili. I giudici erano un pericolo per la democrazia... Anche la politica fece la sua parte mettendo le mani avanti e negando che ci potessero essere collegamenti fra Cosa nostra e la classe dirigente siciliana.

E infine presero una posizione borderline esponenti della Arcidiocesi di Palermo.

Dopo la “strage” di Ciaculli del 30 giugno 1963, Angelo Dell’Acqua, sostituto della segreteria di Stato, su iniziativa di Papa Paolo VI, inviò una lettera al cardinale Ernesto Ruffini, a Palermo dal 1946, con la quale invitava l’arcivescovo a valutare se non fosse “il caso, anche da parte ecclesiastica, di promuovere un’azione positiva e sistematica con i mezzi che le sono propri... per dissociare la mentalità della cosiddetta ‘mafia’ da quella religiosa e per confortare questa a una più coerente osservanza dei principi cristiani, col triplice scopo di elevare il sentimento civile della popolazione siciliana, di pacificare gli animi e prevenire nuovi attentati alla vita umana”.

Il cardinale Ruffini rispose in modo irritato e risentito.

Si disse sorpreso alquanto che si potesse supporre che la mentalità della cosiddetta mafia fosse associata a quella religiosa e aggiunse: “È una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata dalla mafia, mentre difendono i propri interessi economici in concorrenza proprio con organizzatori mafiosi o ritenuti tali”.

Va ancora ricordato che, richiesto di spiegazioni da Papa Paolo VI sul caso dei frati di Mazzarino, finiti sotto processo, il cardinale Ruffini si lanciò in una loro difesa a spada tratta. Il palese intento di Ruffini era quello di giustificare il suo operato agli occhi del nuovo Papa e, soprattutto, smentire, oltre ogni evidenza, l’esistenza di collusioni tra clero e criminalità.

Prese una decisa e ferma posizione, invece, il cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo metropolita di Palermo, il cui impegno contro Cosa nostra ha segnato una tappa importante nella storia della Chiesa siciliana. È rimasta nel ricordo di tutti, e all’epoca ebbe una clamorosa risonanza, la frase pronunciata durante l’omelia al funerale del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”, (“mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”), un esplicito atto di accusa contro lo Stato che temporeggiava nella stagione degli omicidi eccellenti.

Per alzare la tensione venne utilizzata anche la piazza, con manifestazioni organizzate contro l’arresto dell’ex sindaco Vito Ciancimino e la nuova politica del Comune che cercava di eliminare la piaga del clientelismo anche a scapito di posti di lavoro nelle municipalizzate.

I dimostranti portavano in corteo cartelli con le scritte “Con l’antimafia non si mangia”, “Viva la mafia e viva Ciancimino” oppure “Con Ciancimino c’era lavoro”.

Il giorno in cui si aprì il processo, il “Giornale di Sicilia” intitolò: “Silenzio entra la corte”. Nell’editoriale si avvertirono i lettori che da allora in poi il giornale si sarebbe astenuto da ogni commento. Come se non bastasse, vennero varate due nuove rubriche dal titolo “Mafia” e “Antimafia” per rispettare l’obiettività di giudizio.

Come se fosse normale avere una posizione equidistante tra mafia e antimafia. Il tutto ricordava i tempi in cui molti sostennero lo slogan “Né con le Br né con lo Stato” assumendo una posizione terza fra chi sparava e chi cercava di fare rispettare la legge.

Anche l’ultimo passaggio non fu facile. Bisognava trovare il magistrato che avrebbe assunto la presidenza della Corte di Assise. Compito dimostratosi arduo per il Presidente del Tribunale. Qualcuno dei primi designati adduceva indisposizioni presentando certificati medici, altri si giustificavano evidenziando di essere già oberati di lavoro che non avrebbe consentito loro di presiedere un processo che si prevedeva essere complesso e di lunga durata.

Alla fine e a sorpresa, la scelta cadde sul dottor Alfonso Giordano, che non si sottrasse al suo dovere.

L’ho conosciuto giovane sostituto procuratore della Repubblica a Palermo, nel corso del mio uditorato in quella Procura. Ricordo che si occupava, anche, di sostenere l’accusa nelle cause civili nelle quali è previsto l’intervento del pm.

Alfonso Giordano, una vita professionale quasi interamente dedicata al diritto civile, come da lui ricordato, non aveva mai pronunciato una condanna all’ergastolo. Per essere in grado di gestire quel processo, affrontò anche un suo percorso interiore che gli fece acquisire la tranquillità necessaria per affrontare i due anni di un dibattimento che vedeva alla sbarra il “gotha” di Cosa nostra. E lo fece in maniera egregia. Al suo fianco il giudice a latere, Pietro Grasso, che chiese e ottenne di essere trasferito dalla Procura al Tribunale per assumere quell’incarico. Non gli fu difficile, in considerazione della riottosità degli altri colleghi a ricoprire quel posto scomodo. Scelte coraggiose, ma ancora più coraggiosa fu la decisione di quei cittadini che accettarono di fare parte della corte come giudici popolari. Quando vennero convocati 50 cittadini tra i quali sorteggiare quelli che avrebbero composto la Corte di Assise, 37 non si presentarono, nove rifiutarono e quattro accettarono con “riserva”. I certificati medici fioccarono: gastroduodenite, coliche renali, problemi vascolari, malattie dell’apparato respiratorio, reumatismi. Venne sorteggiata anche la moglie di Pietro Grasso, il giudice a latere del Maxiprocesso, che dovette rifiutare per ovvie ragioni di incompatibilità. Alla fine qualcuno accettò e con fatica si riuscì a completare l’organico della corte anche con la nomina di giudici togati e popolari supplenti.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

L’omicidio del piccolo Claudio Domino. Così la mafia gettò la maschera. DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA su Il Domani il 04 settembre 2023

Lo spietato e feroce delitto sconvolge Palermo. Il boss Giovanni Bontate sceglie di rompere il silenzio affermando di comprendere il dolore dei genitori ma di rifiutare l’ipotesi che “un simile atto di barbarie ci possa sfiorare”, così implicitamente ammettendo l’esistenza e l’associazione a un’organizzazione mafiosa

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore

All’inizio del processo ci furono le solite schermaglie procedurali: molti avvocati che protestavano, imputati che si lamentavano e avanzavano le più svariate richieste nel tentativo di impedire il regolare svolgimento del processo, simulando pazzia, crisi epilettiche, inghiottendo chiodi, cucendosi la bocca o denudandosi in aula. Si arrivò persino a ricusare il Presidente della Corte con l’accusa di avere suggerito una risposta a Salvatore Contorno.

Ma il Presidente Giordano, con mano ferma e decisa, seppe destreggiarsi tra gli ostacoli e condusse felicemente in porto quel difficile, complesso e mastodontico processo.

Grazie a Giordano e Grasso il processo scivolò via.

Non mancò qualche colpo di teatro, senza alcun effetto.

Luciano Leggio, che rinunciò, dopo averne fatto istanza, a confrontarsi con Buscetta, un giorno chiese di parlare e, a sorpresa, iniziò a raccontare del golpe Borghese, nella preparazione del quale erano stati coinvolti anche “uomini d’onore”. Il boss però ignorava che Buscetta aveva già detto della vicenda a Falcone e anche a Caponnetto, presente il giorno dell’incontro su richiesta del collaboratore stesso. Così, quando Leggio iniziò a parlare, il pubblico ministero, che aveva in mano la copia dell’interrogatorio di Buscetta, lo fermò, e il boss vide così svanire l’effetto della sua deposizione, con la quale forse intendeva inviare messaggi a qualcuno.

Dal suo nascondiglio anche Riina non fu contento dell’improvvisata di Leggio, che infatti fu poi avvisato in carcere di tacere: basta esibizioni.

Ma il processo, quel processo, non poteva concludersi che con un altro colpo di scena.

Durante l’ultima udienza, Michele Greco “il Papa”, che era stato arrestato il 20 febbraio 1986, appena pochi giorni dopo l’inizio delle udienze, prese la parola e rivolgendosi alla Corte declamò: “Auguro a tutti voi la pace, perché la pace è la tranquillità dello spirito e della coscienza, perché per il compito che vi aspetta la serenità è la base per giudicare. Non sono parole mie, ma le parole che Nostro Signore disse a Mosè...”

Un augurio di pace che non gli impedì di ricevere una condanna all’ergastolo.

E sempre “il Papa” si era rivolto a me con un atteggiamento simile quando, alla fine di un interrogatorio, mi disse: “Signor giudice, se lei mi lascia libero non sbaglia”.

Risposi che, nel suo caso, preferivo sbagliare. Richieste che se arrivano da un boss mafioso di quel calibro non ti lasciano indifferente.

Tra i tanti aneddoti, ricordo anche che, mentre era in corso il Maxiprocesso, mi recai al carcere dell’Ucciardone per interrogare Salvatore Contorno. Venni visto da qualcuno che ‒ in vena di facezie, per non pensare male ‒ mise in giro la voce che ero andato a trovare “Totuccio” per fargli omaggio, per conto del pool, di un vassoio di cannoli!

Nel corso del processo, ma fuori dall’aula, si registrarono diversi eventi che scossero Palermo. In particolare l’omicidio del piccolo Claudio Domino e l’articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia” pubblicato dal “Corriere della Sera”. Mentre le polemiche generate da quell’articolo meritano una trattazione a parte, ricordo qui l’omicidio perché ebbe un’importante risonanza proprio nell’aula bunker.

Palermo, 7 ottobre 1986, quartiere San Lorenzo. Claudio Domino, 11 anni, si trova in compagnia di due amici, quando viene richiamata la sua attenzione da un uomo a bordo di un motorino, che gli fa cenno di avvicinarsi. Il bambino acconsente ma il killer, appena Claudio gli è vicino, esplode a bruciapelo un colpo di pistola che raggiunge il bambino in piena fronte, uccidendolo.

Lo spietato e feroce delitto sconvolge una Palermo che, a quel tempo, segue il Maxiprocesso in corso a carico degli esponenti di Cosa nostra ma non lascia insensibile qualcuno di essi: Giovanni Bontate, fratello di Stefano (capo della “famiglia” di Santa Maria di Gesù), sceglie di rompere il silenzio affermando di comprendere il dolore dei genitori ma di rifiutare l’ipotesi che “un simile atto di barbarie ci possa sfiorare”, così implicitamente ammettendo l’esistenza e l’associazione a un’organizzazione mafiosa.

Il piccolo Claudio era figlio di uno dei titolari della ditta che gestiva il servizio di pulizia all’interno dell’aula bunker e le indagini susseguenti al delitto presero in considerazione diverse ipotesi sul movente di quel grave fatto di sangue che, tuttavia, rimane ancora irrisolto perché i responsabili non sono stati individuati e riconosciuti con sentenza.

Si è appreso da un mafioso “pentito” che Salvatore Riina per “vendicare” il piccolo Claudio avrebbe dato l’ordine di individuare e “scannare” i responsabili del delitto, evidentemente esecrabile anche agli occhi del capo di una delle più sanguinarie associazioni criminali.

Ma Claudio Domino è stato, di certo, l’ennesima vittima innocente della mafia che crudelmente ha stroncato la sua giovanissima vita, sottraendolo all’amore dei suoi genitori, i quali si sono fatti poi promotori di un progetto di crescita e tutela dei minori finalizzato a fare memoria del sacrificio del figlio e di altri 108 bambini, anche loro vittime innocenti della mafia.

È giusto e doveroso non dimenticare quell’azione efferata, disumana, del tutto estranea al nostro modo di concepire l’esistenza e, soprattutto, essa stessa negazione della cultura della vita.

DAL LIBRO "C'ERA UNA VOLTA IL POOL ANTIMAFIA", DI LEONARDO GUARNOTTA

La Commissione Antimafia.

Colosimo: «Ora vogliamo la verità su “mafia e appalti” per capire le stragi del ’92». Parla la presidente della Commissione parlamentare antimafia: «Su quei delitti ci sono troppe domande senza riposta». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 agosto 2023

Parla l’onorevole di Fratelli d’Italia Chiara Colosimo, presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere.

In questi giorni si parla molto di suicidi in carcere. Cosa ci restituiscono le storie di quelle due donne morte nel carcere di Torino?

Il suicidio è un dramma che aggiunge dolore alla morte stessa. Quelli in carcere, poi, sono la sconfitta di un sistema, una sconfitta ciclica, giro i penitenziari dal 2010, avevo 23 anni. Ogni estate da allora alcuni si accorgono del problema carcerario, ma è una situazione che esiste anche d’inverno.

Secondo Antigone il sovraffollamento è al 121%. Inoltre “in tantissimi istituti mancano i ventilatori, le finestre sono schermate, non ci sono frigoriferi in cella e a volte neanche nelle sezioni e in molti casi in cella non c’è neanche la doccia”. La soluzione proposta da Nordio di utilizzare le caserme dismesse non sarebbe tardiva rispetto all'emergenza generale in corso?

La stessa associazione Antigone ha scritto: “8% dei detenuti ha diagnosi psichiatriche gravi, 22% assume antipsicotici o antidepressivi, 44% sedativi o ipnotici”. Sposo appieno la “cura” Delmastro che sta parlando con le comunità terapeutiche per immaginare una misura ad hoc per i detenuti tossicodipendenti. È ovvio che il perenne disagio deve portare a una riflessione politica generale; sono già stati stanziati 84 milioni dal governo Meloni all’aumento del personale di polizia penitenziaria - che voglio ricordare fa un lavoro importante e delicatissimo - , e se necessario anche nuove strutture come ipotizzato dal ministro Nordio.

Lei parlando di Messina Denaro ha detto che non dobbiamo dimenticare la sua portata criminale ma neanche escludere la compassione per un uomo malato. Il suo avvocato ci ha detto: "Lo Stato ha vinto quando lo ha arrestato, perderebbe se gli negasse il diritto alla salute". È d'accordo?

Nel modo più assoluto, no. L’avvocato mente sapendo di mentire, infatti Messina Denaro è curato e sono stati garantiti al detenuto, che ricordo essere non un semplice boss, tutti i diritti garantiti dalla nostra Costituzione e dal nostro ordinamento giuridico. L’avvocato forse si è distratto. O forse, ancora una volta, qualcuno cerca di mettere in discussione il 41 bis? Il 41 bis non si tocca.

Condivide la distinzione del professor Fiandaca tra “una antimafia laica, quella dei principi costituzionali del garantismo penale” e un’altra “dogmatica che in nome di Falcone e Borsellino, impropriamente elevati a divinità tutelari, respinge come turbatio sacrorum ogni possibile critica ai processi gestiti dai magistrati delle generazioni successive”?

Respingo al mittente il processo che continua da un po’ e che tende a spaccare l’antimafia. L’antimafia esiste grazie alla lotta ed al sacrificio di Falcone e Borsellino, se dovessi iscrivermi a una corrente mi iscriverei a questa, perché non può esserci antimafia senza misure di prevenzione e le spesso dimenticate misure di sorveglianza. Il declino di Cosa Nostra è merito loro, l’arresto di Messina Denaro, l’ultimo debito che avevamo in sospeso con quella storia. Detto questo, basta con le patenti di antimafia doc; tenendo fermi principi e norme sacrosante dobbiamo auspicare una generazione di magistrati che con lo stesso fervore combattono l’emergenza di oggi, che si chiama ’ndrangheta e narcotraffico, che ci porta fino alla Tripla Frontera, tramite accordi transnazionali e piattaforme digitali evolute.

Lei ha annunciato al Foglio che a settembre aprirà un filone investigativo sulle verità storiche delle stragi di mafia, partendo da quella di via D’Amelio. Crede che l'indagine su mafia-appalti sia la strada giusta per decifrare i massacri dell'estate del 1992?

Sì. Ho questa convinzione, ma al netto delle mie convinzioni penso sia il filone fin qui meno esplorato. Non so e non voglio dire se volontariamente. Ma certo è nostra volontà rispondere ad alcune domande rimaste fin qui tali. Prendo spunto dalla domanda precedente: non sarà che il turbatio sacrorum vale solo per alcuni magistrati ed alcuni processi? Ho le stesse domande che si fanno i figli di Borsellino e l’avvocato Trizzino e vorrei provare a trovare risposte, sui verbali del Csm e su quei famosi 57 giorni, perché se qualcuno in quel “nido di vipere” ha tradito si sappia.

Come è maturata la sua decisione di non voler spiattellare la black list degli impresentabili alle elezioni?

Chiariamoci, non esiste niente di peggio di un politico che finisce in un’indagine per mafia. Ma che senso ha elencare a uno o due giorni dal voto una black list? A liste consegnate, a campagna elettorale svolta, per altro a preferenze magari? Ve lo dico io, nessuno. Credo due cose. La prima, poco utilizzata, è il controllo preventivo. Dico ai partiti: datemi i possibili candidati, li controlliamo così se davvero sono impresentabili non li candidati proprio. La seconda: bisogna essere inflessibili con alcuni reati, di mafia appunto, ma anche contro la PA, ma non confonderli con altri reati che non hanno lo stesso peso. Lo dico con casellario e carichi pendenti illibati e avendo dovuto usare le denunce contro le istituzioni quando le interrogazioni non sono bastate. Credo nel ritorno della politica; e la politica deve prendersi le sue responsabilità. Se scegli di candidare un “impresentabile” sapendolo te ne assumi le responsabilità davanti ai tuoi elettori, ma credo anche nella capacità di scelta dell’elettore, che deve sapere, ma non a campagna elettorale svolta. No alla gogna tardiva, sì alla selezione a monte.

Come ha vissuto le polemiche sulla questione Ciavardini? I parenti delle vittime di mafia e terrorismo sono stati molto duri nei suoi confronti.

Ho subito detto e ribadisco che ne sono profondamente dispiaciuta e che le polemiche mi hanno ferita profondamente. Ho letto qualsiasi cosa su una donna nemmeno 40enne che non ha niente a che fare con la Strage di Bologna, non solo perché non era nata, ma perché per educazione ricevuta ripudia ogni forma di violenza. Spero che il mio lavoro li porti a ricredersi, certamente da parte mia nessuna chiusura. Lasciatemi aggiungere, alla luce del dibattito odierno sulla condizione carceraria e la piena applicazione dell’articolo 27, che auspico che valga per tutti però.

Adriano Sofri ha scritto: “I sentimenti di giustizia delle vittime, sole o associate, devono ricevere il riguardo sincero e non ipocrita della legge. Ma non sono la legge, né la sua fonte d’ispirazione. Quando provano un desiderio di punizione, rivendicano un carcere più duro, pensano alla galera come a un luogo di espiazione, hanno torto, il più umano dei torti, ma torto. Chi, nel mondo politico, se ne fa un alibi in favore dell’afflizione carceraria e dell’inerzia sul ruolo del carcere ha torto, il più losco dei torti”. Concorda?

Mi sarebbe piaciuto leggere questa affermazione in relazione alle polemiche a cui faceva riferimento prima. Il carcere duro è fondamentale e non discutibile. La certezza della pena è garanzia per i sentimenti di giustizia delle vittime e per la riabilitazione del condannato. Sto leggendo in questi giorni “A colloquio con Gaspare Spatuzza”, me l’ha consigliato Padre Maurizio, Parroco della Chiesa San Gaetano, non credo che senza quella solitudine dovuta anche alle misure detentive saremmo arrivati alla stessa collaborazione e conversione. Non condivido il peloso buonismo di chi dice che c’è differenza tra chi vuole giustizia e chi vuole durezza, come le famiglie delle vittime: le due cose non sono in conflitto anzi, non si può cambiare, non ci si può riabilitare se non si riconosce l’infame mostruosità di quanto si è fatto, infliggere una pena non vuol dire uccidere. Vanno rotti i legami e pagati i debiti, per andarsene da ogni parte (e riconquistare la libertà perduta).

Parlando della decisione della Consulta sull'ergastolo ostativo, il pm antimafia Stefano Musolino ci disse: “Continuare a ragionare in termini emergenziali di lotta alla criminalità organizzata è ormai antistorico. La mafia è un fenomeno cronicizzato che deve essere affrontato con una legislazione che tenga insieme le ragioni della sicurezza sociale, insieme ai diritti dei soggetti coinvolti nei processi. Questo è il nuovo equilibrio invocato dalla Corte Costituzionale che è anche una sfida culturale”. Che ne pensa?

Non condivido affatto. E in parte ho già spiegato perché nella domanda sull’antimafia dogmatica. Primo, se una cosa dura per un lungo tempo, non vuol dire che non sia emergenziale. La lotta alla criminalità organizzata è un’emergenza, costante per carità, non solo per i motivi più noti, ma anche solo per il Pil sommerso che fa circolare. Secondo, l’ergastolo ostativo è stato il primo provvedimento del governo Meloni, proprio perché riteniamo che la legislazione antimafia non sia da relegare a un periodo storico ma una reazione imprescindibile dello Stato. Non vorrei che si arrivasse al paradosso della mafia che si difende dallo Stato. Questa sì che sarebbe una catastrofe.

"Basta con l'antimafia show". Colosimo cambia rotta sugli "impresentabili". "Voglio evitare la gogna tardiva, lo show". Il presidente della commissione Antimafia annuncia la svolta sulle liste di proscrizione degli impresentabili. "Proporrò di cambiare il codice di autoregolamentazione". Marco Leardi il 4 Agosto 2023 su Il Giornale.

Basta con "l'antimafia show": Chiara Colosimo annuncia la significativa svolta e sulle liste di proscrizione degli impresentabili promette un repentino cambio di rotta. La presidente della commissione Antimafia ha le idee chiare e intende voltare pagina rispetto al passato. "Il tempo delle liste di proscrizione degli impresentabili è terminato. Proporrò di cambiare il codice di autoregolamentazione del mio predecessore Nicola Morra affinché entri in vigore prima delle elezioni europee e delle comunali del 2024", ha annunciato la deputata Fdi alla guida della commissione bicamerale. I controlli, dunque, avverranno prima che le liste siano state depositate, così da evitare gogne e polemiche a scoppio ritardato.

"Saremo più severi sui reati di mafia e contro la Pubblica amministrazione, ma niente lettere scarlatte sui reati di opinione: quella non è mafia", ha affermato Colosimo in un'intervista rilasciata al Foglio. Poi i dettagli sul cambiamento nell'approccio alla materia, con l'intenzione di evitare casi di "liste degli impresentabili" agitate a pochi giorni dal voto. "Bisogna procedere per tappe. A ottobre vanno alle urne tra i comuni Foggia, Rosarno, poi le province autonome di Trento e Bolzano e le suppletive a Monza. Ho chiesto a partiti e liste civiche di inviarci, settantacinque giorni prima del voto, i nomi dei candidati per visionarli. Così voglio evitare proprio questo: la gogna tardiva, lo show, l'antimafia d'avanspettacolo", ha argomentato il presidente della commissione Antimafia. Parlando poi del regolamento in vigore, Colosimo ha aggiunto: "In alcuni casi bisogna essere nettissimi. Ma mettervi dentro la diffamazione, il cumulo di reati sopra i 4 anni dentro cui magari c'è una condanna per rissa o la legge Mancino mi sembra fuori luogo".

Incalzata di seguito proprio sulla legge Mancino, che si occupa di incitamento all'odio, alla violenza, di discriminazioni per motivi razziali, etnici e religiosi, la deputata ha replicato: "Su questi argomenti Fdi non deve prendere lezioni da nessuno. Ripeto: le liste di proscrizione non mi piacciono e non servono. Credo sia compito di questa commissione dare ai partiti strumenti per evitare infiltrazioni criminali e lanciare allarmi per i reati contro la Pa. Stop".

Nella recente intervista non poteva poi mancare un riferimento al caso dei presunti dossieraggi avvenuti - secondo quanto emerso - nel cuore della Direzione antimafia. "Il procuratore Raffaele Cantone ha chiarito i margini della vicenda: gli anticorpi si sono subito messi in moto, c'è stata una riorganizzazione della Dna e il finanziere è stato trasferito", ha commentato Colosimo, manifestando la propria vicinanza al ministro Guido Crosetto, parte lesa della vicenda. "La sua storia mi ha colpito ma per questo dobbiamo andare avanti, essere feroci. Mi fa paura, anzi vomitare, chi usa questi metodi contro gli avversari politici", ha chiosato.

Colosimo ha anche anticipato che a settembre aprirà un filone investigativo "sulle verità storiche delle stragi di mafia, partendo da quella di via D'Amelio". Obiettivo dell'operazione? Non certo quello di riscrivere le sentenze, ha sottolineato la deputata. "Non mi sovrapporrò mai a un'indagine in corso, ma voglio concentrarmi sulla verità storica di quella stagione, che ancora non è chiara. Cosa accadde nei 57 giorni che passarono dall'uccisione di Falcone a quella di Borsellino. Perché la frase del magistrato sul nido di vipere? E i documenti del Csm? È un'operazione verità che dobbiamo alle famiglie delle vittime", ha argomentato. E ancora: "Vorrei fare chiarezza sui depistaggi. Quanto alla trattativa Stato-mafia (...) per formazione politica non ci ho mai creduto".

Quella Commissione vecchia di 60 anni contraddice Falcone. Il giudice ripeteva che la mafia aveva avuto un inizio e avrebbe avuto una fine. Ma non per i parlamentari. Aldo Varano su Il Dubbio il 23 maggio 2023

È insopportabile il mescolarsi del ricordo del supremo sacrificio di Giovanni Falcone, sua moglie e la loro scorta, con le pretese e le polemiche odierne di un pezzo della politica italiana, peraltro di seconda serie, sull’elezione e la composizione degli organi dirigenti della commissione parlamentare Antimafia che il Parlamento attuale ha nuovamente rifilato agli italiani. Si sarebbe potuta e dovuta evitare la coincidenza tra la ricorrenza della tragedia della Strage di Capaci con le nuove manovre e furbizie di terze e quarte file parlamentari a caccia degli ultimi strapuntini di (apparente) rilievo di Camera e Senato. È un segno della debolezza complessiva della nostra politica.

La commissione Antimafia non è una delle commissioni istituzionali del Parlamento. Esiste perché ad ogni inizio di legislatura viene ripresentata e riapprovata. Non si ha purtroppo notizia che qualche volta qualcuno, partito o parlamentare, abbia tentato di bloccarne la rielezione.

Fu varata la prima volta nel 1962. La firmarono Paolo Taviani (Dc) e il comunista Girolamo Li Causi (a cui la mafia siciliana aveva sparato addosso) due politici che dopo tanto tempo i giovani rischiano di confondere con altre personalità del Risorgimento. Era previsto che funzionasse per un’intera legislatura. Certo, poteva essere ricostituita ma nessuno immaginava potesse durare tanto. Oltre 60 anni che, a partire dalla rivoluzione industriale, sono un’eternità: difficile credere che quando Falcone ripeteva che la mafia come tutti i fenomeni umani aveva avuto un principio e avrebbe avuto una fine pensasse a un periodo così lungo.

La legge che istituisce la Commissione prevede che sia diretta e presieduta da un/una parlamentare della Repubblica. Il testo della legge non ha mai indicato né richiesto o imposto altre condizioni. Quindi, tutte le pretese di queste ore secondo cui per presiedere l’Antimafia sarebbe necessario un parlamentare sì, ma con un curriculum speciale (o uno speciale gruppo sanguigno) e la pretesa che si possano porre veti su questo o quel/quella presidente per i suoi orientamenti politici e culturali vanno ascritte alla guerriglia tra le file sempre meno potenti del Parlamento. Quando Camera e Senato appena rieletti decideranno di non rifare la legge Antimafia il Paese avrà fatto un minuscolo passo in avanti per sradicare quel che resta del fenomeno mafioso in Italia. Fenomeno, spiegano storici e sociologi, fino allo scandaloso Alessandro Barbano, ormai molto diverso da quello che abbiamo conosciuto in passato. Del resto, perché meravigliarsi del drastico indebolimento della mafia? S’è semplicemente avverata la profezia di Falcone che un po’ prima di morire, mentre insieme scrivevano Cose di Cosa nostra, consegnò a Marcelle Padovani «la certezza della vittoria finale» contro la mafia e ribadì la sua convinzione che nonostante «le opacità di un grosso ministero» niente poteva distoglierlo dalla sua idea fissa: «Lo Stato ha i mezzi per sconfiggere la mafia».

Diciamo la verità: l’occupazione delle caselle previste dalla rielezione dell’Antimafia di oggi riguarda ormai soltanto parlamentari privi di prestigio e/o potere che vanno sistemati in un posto da dove non possono più far danni. Per incontrare personalità di rilievo è necessario risalire nel tempo a parecchi decenni fa quando la carica di Presidente fu ricoperta da Luciano Violante e/o, ma eravamo agli sgoccioli, Gerardo Chiaromonte. Ma perfino nei loro confronti ci furono critiche perché la Commissione in quanto tale non riusciva ad avere alcun ruolo nel contenimento della mafia delle stragi che, spiegano gli storici (non i politici o le schiere dell’Antimafia del nostro tempo), è un fenomeno che è stato contenuto e indebolito sul campo dalle strategie dispiegate da Falcone, Borsellino e altri eroi del loro tempo.

Oggi si sarebbe potuto approfittare dell’occasione per una riflessione più ponderata e per cancellare una struttura che (a dir poco) da moltissimi anni non produce più alcun contributo nella lotta contro le mafie (ma fior di studiosi contestano lo abbia mai fatto) limitandosi ad audizioni di magistrati e vertici delle forze dell’ordine. Una struttura che deve ormai difendersi dall’accusa di essere una enclave parlamentare per parcheggiare politici ingombranti ai quali è necessario dare adeguata collocazione in attesa della scomparsa dal palcoscenico della politica.

Quasi 30 anni fa, Dario Gambetta, uno dei più acuti analisti delle mafie del Novecento, firmando da Oxford una nuova introduzione al suo La Mafia siciliana (Einaudi 1992, traduzione dall’inglese di Severi e Gambetta), sulla Commissione antimafia annotava: «Si ha l’impressione che questo istituto - di cui pure fecero parte Cesare Terranova e Pio La Torre, che hanno pagato con la vita la lotta alla mafia - sia servito come una palestra in cui le forze di governo permettevano all’opposizione di sinistra di menare pugni antimafia purché rigorosamente nel vuoto». Da allora sono passati oltre 30 anni. I protagonisti hanno nomi diversi e i ruoli si sono invertiti ma la Commissione antimafia continua a essere un inutile diversivo.

Estratto dell’articolo di Antonio Bravetti per la Stampa il 24 maggio 2023.

Nessuna sorpresa. Chiara Colosimo, deputata di Fratelli d'Italia, è la nuova presidente della commissione Antimafia. La candidata di Giorgia Meloni è stata eletta al primo scrutinio, tra gli applausi della maggioranza e le proteste delle opposizioni che hanno abbandonato l'aula, tutte tranne il Terzo polo. «Una pessima scelta - dice la vicepresidente del Pd Chiara Gribaudo - un'altra pagina nera». Su Colosimo pesa la presunta vicinanza all'ex terrorista nero dei Nar Luigi Ciavardini. «Non c'è alcuna amicizia», assicura lei. A vuoto gli appelli dei familiari delle vittime che avevano chiesto alle forze politiche di non votarla. 

«Ambiguità e ombre - dicono dall'associazione Libera di don Ciotti - siamo contrariati». In serata, mentre lascia la Camera, a La Stampa Colosimo dice di sentirsi «emozionata e grata». 

(...) Ai cronisti assicura di non avere «alcuna amicizia con Ciavardini» e a chi le chiede se durante la sua presidenza sarà possibile scandagliare i rapporti tra mafie ed eversione nera, risponde che si indagherà «su tutto quello su cui bisogna indagare», a cominciare «dalle infiltrazioni negli appalti e nel Pnrr». Alle critiche delle associazioni risponde invitandole in commissione: «Qui è casa loro».

Estratto dell’articolo di Andrea Palladino per la Stampa il 24 maggio 2023. 

Ha provato a fare pulizia la neoeletta presidente della Commissione antimafia Chiara Colosimo, mettendo il sito personale «in aggiornamento» e cancellando dalla sua bacheca Facebook ogni minima traccia dei contatti con l’ex Nar Luigi Ciavardini. La rete, però, è in grado di restituire le impronte digitali che meno ti aspetti. 

Chiara Colosimo, romana, originaria della Balduina, in politica dal 2003 – sempre

con la destra – difficilmente può negare quei rapporti stretti con l’associazione fondata dal terrorista nero condannato in via definitiva per la strage di Bologna, per l’omicidio del magistrato Mario Amato (…) 

Tutto è iniziato nel 2010, quando l’allora più giovane consigliera della Regione Lazio

si avvicina a Luigi Ciavardini e alla associazione che aveva fondato un anno prima dentro il carcere di Rebibbia. 

Le iniziative comuni

Per almeno cinque anni – probabilmente di più – tra Colosimo e il giro dell’ex Nar ci sono legami stretti. (…) 

Luigi Ciavardini non è solo un simbolo di quel mondo della destra romana anni ’70 e ’80 che conviveva con il Movimento sociale italiano. Quando era una giovane dirigente dell’organizzazione giovanile di Alleanza nazionale, era la stessa Giorgia Meloni a difendere l’ex Nar dall’accusa di stragismo, per la quale poco dopo verrà condannato in via definitiva: «Vogliamo che sia fatta chiarezza sulle stragi, da piazza Fontana, a Ustica, alla stazione di Bologna; vogliamo che si sappia la verità sulle pagine strappate della nostra storia che qualcuno non ha il coraggio di riportare alla luce», scriveva in un comunicato nel 2004 la premier. 

(…) 

E per rendere ancora più chiara la posizione, Giorgia Meloni organizzò anche un evento pubblico a Catania, come si legge in un volantino conservato sul sistema archive.org,

che fotografa le istantanee dei siti web, compreso quello di Azione giovani. In quell’evento accanto a Giorgia Meloni intervenne l’ex terrorista dei Nar Luigi Ciavardini, all’epoca imputato per strage e già condannato per l’omicidio di Mario Amato.

I rapporti con la Regione

I contatti stretti tra il mondo di Ciavardini e la Regione Lazio a guida Rocca oggi sono ancora più evidenti. Germana De Angelis – moglie dell’ex terrorista nero e dirigente del Gruppo Idee fin dall’inizio – è la sorella di Marcello De Angelis, l’ex esponente di Terza Posizione, per anni latitante in Gran Bretagna, e nominato nei giorni scorsi a capo dell’ufficio stampa della Regione Lazio. Nell’area della destra è noto soprattutto come vocalist dei “270bis” – ovvero l’articolo del codice penale che punisce le associazioni terroristiche – che hanno come hit la canzone “Claretta e Ben”, dedicata alla Petacci e a Mussolini. Un gruppo che Chiara Colosimo metteva tra i suoi preferiti nella biografia del suo sito,qualche anno fa.

Scelta divisiva. Colosimo all’Antimafia, dal regolamento ai misteri dell’arresto di Messina Denaro: l’agenda della ‘fiamma’ di Meloni. Claudia Fusani su Il Riformista il 24 Maggio 2023

Doveva diventare ministro. “Non si creò lo spazio” si disse allora. Doveva essere la candidata della destra alla guida della Regione Lazio, poi Meloni blindò l’accordo sull’ex presidente della Croce Rossa Francesco Rocca. Alla fine è diventata la Presidente della Commissione antimafia. Si chiama Chiara Colosimo, ha 38 anni e ne dimostra anche meno, nel suo bouquet c’è una famiglia da sempre a destra, la militanza in Azione studentesca, i giovani di An, l’elezione in consiglio comunale nella giunta Alemanno, in consiglio regionale nella giunta Polverini, l’elezione in Parlamento alla Camera, tanta “generazione Atreju” e l’amicizia diretta e personale con la premier Meloni.

E’ stata eletta ieri dopo un battage di settimane in cui qualche Fratello e molti leghisti non vedevano di buon occhio un incarico così delicato e prestigioso affidato “all’ennesima fiammella della Fiamma magica meloniana”. Metà Commissione, Pd, Avs e 5 Stelle, non ha partecipato al voto per protesta. Poi però sono rientrati e si sono presi i 5 Stelle la vicepresidenza con Cafiero De Raho, l’ex procuratore antimafia e il Pd la segreteria con Anthony Barbagallo. Iv e Azione, l’unica forza parlamentare a restare senza incarichi nella presidenza della Commissione, denunciano l’ennesimo inciucio 5 Stelle-Pd-Meloni. Ma di questo parliamo tra qualche riga.

In questa lunga attesa durata sette mesi – ritardo record – quando il toto nomi si è stretto su Chiara Colosimo, è saltata fuori qualche fotografia da spiegare, ad esempio quella in cui si vede Colosimo sorridente al tavolo con l’ex Nar Luigi Ciavardini, terrorista neofascista dei Nar, condannato per omicidio e strage con Fioravanti e Mabro per la strage di Bologna. “L’ho incontrato – ha spiegato la neo presidente appena eletta – nell’ambito del mio ruolo istituzionale (consigliera regionale) e del suo incarico alla guida di un’associazione che si occupa, come da articolo 27 della Costituzione, del reinserimento dei detenuti nel momento in cui hanno scontato le pene. Non è un’amicizia. Lo conosco io come moltissimi di diversa appartenenza politica conoscono altri presunti terroristi”. Prendiamo per buona la spiegazione. Tranne che sul “presunto”: Ciavardini è un terrorista di destra. E sulla strage di Bologna, così come sull’omicidio di Piersanti Mattarella, i magistrati non hanno ancora concluso il loro lavoro.

Senza dubbio la nomina di Colosimo è divisiva. E di parte. Sicuramente non lo sarebbero stati altri candidati e candidate, dall’ex procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho e all’ex procuratore Scarpinato (entrambi dei 5 Stelle). Per restare nelle fila della destra, la stessa Rita Dalla Chiesa (Forza Italia), figlia del generale Carlo Alberto, ucciso da Cosa Nostra, avrebbe saputo unire e dare un senso più alto all’incarico. Una foto è una foto e vale per quello che vale. Però non ci si può stupire se Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione che riunisce i parenti degli 85 morti e 200 feriti causati dalla bomba alla stazione di Bologna, oggi dica: “Guai se Colosimo si presenta a Bologna il 2 agosto per le commemorazioni della strage”. Più cauto, dopo le critiche durissime dei giorni scorsi, Paolo Borsellino: “Valuteremo in base ai fatti”.

La Commissione Antimafia è il luogo della memoria e della battaglia, è stata guidata in passato da esperti come Luciano Violante e Gerardo Chiaromonte ed ex ministri dell’Interno come Beppe Pisanu, ha aperto archivi e scoperto i percorsi di una trattativa Stato-Mafia che se non ha mai raggiunto lo status di prova a livello processuale è però documentata da contatti e depistaggi tra Cosa Nostra e le istituzioni, su più livelli. “Sono molto emozionata e sento la responsabilità di questo incarico” ha detto la neopresidentessa convinta che “la sfida della lotta alla mafia debba essere tramandata alle nuove generazioni”. Giusto. La carne al fuoco è tanta. Presidente, ha già in mente da quali audizioni cominciare? “Beh, no, però un attimo, primo deve leggere il regolamento, poi devono indicare i capigruppo per l’ufficio di presidenza”.

Giorgia Meloni ha deciso da tempo che doveva essere lei, Colosimo, alla guida della Commissione. Alla faccia delle competenze e dell’esperienza. La neo presidente era iscritta a Scienze politiche alla Luiss ma non ha terminato gli studi, optando per il lavoro come addetta alle relazioni esterne e consulente del gruppo Fratelli d’Italia alla Camera. Gode della massima stima della premier che le ha anche confezionato su misura una data simbolo: essere eletta nel giorno del 31 esimo anniversario della strage di Capaci. Scontata la dedica. “Rivolgo il primo pensiero a Giovanni Falcone, nell’anniversario della strage di Capaci in cui perse la vita con la moglie e gli uomini della scorta, un pensiero che è testimonianza del futuro e saldo impegno di questa Commissione”.

In attesa che prenda confidenza con il regolamento, indichiamo alla neo Presidente qualche spunto sulle cose da fare: i misteri dell’arresto di Matteo Messina Denaro a cominciare dalle previsioni poi rivelatesi fondate dell’ex prestanome Baiardo; i depistaggi su via d’Amelio dove morirono Borsellino e la scorta neppure sessanta giorni dopo Capaci; il rischio infiltrazione delle mafie sugli appalti del Pnrr; il codice degli appalti.

Fin qui le cose di mafia. Poi c’è la politica e gli accordi trasversali con cui si è arrivati alla nomina dell’ufficio di presidenza. Quando è stata votata la presidente, 5 Stelle, Pd e Sinistra e Verdi hanno lasciato l’aula. Italia Viva e Azione sono invece rimasti per votare Musolino (Autonomie). Poi le opposizioni sono rientrati e magicamente sono stati eletti Cafiero De Raho (M5S) alla vicepresidenza e Barbagallo (Pd) alla segreteria. “Pd e M5s hanno fatto un inciucio – denuncia Raffaella Paita, capogruppo Iv-Azione al Senato – Nulla da eccepire su Cafiero de Raho, ma non si può gridare allo scandalo e poi fare gli accordi sottobanco”. Verini (Pd) smentisce. Paita completa il ragionamento: “Che sia un inciucio lo dicono i fatti. Le forze di opposizione, Pd e M5s, hanno deciso di uscire dall’aula anziché fare una battaglia a viso aperto. Poi, guarda caso, rientrano quando c’è da votare i loro come vicepresidenti”. I fatti dicono che il Terzo Polo è stato ancora una volta tagliato fuori dagli uffici di presidenza (era già successo alla Camera e al Senato). E che Giuseppe Conte ieri a metà pomeriggio gustava un aperitivo con i suoi alla buvette della Camera.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Quando la garantista Tina Anselmi difendeva l’eversore nero Giovanni Ventura. Chiara Colosimo di FdI, neopresidente della commissione Antimafia, è ferocemente attaccata per una visita a una cooperativa gestita da un ex militante dei Nar. Un confronto con il “caso Anselmi” dimostra l'assurdità dell’ennesima dietrologia che inquina perennemente i pozzi. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 maggio 2023

L’attacco preventivo nei confronti della deputata di Fratelli d'Italia Chiara Colosimo, neo presidente della commissione parlamentare Antimafia, desta stupore. Come ha ricordato Daniele Zaccaria su queste pagine, il motivo è la foto riportata da Report in cui si vedeva insieme a Luigi Ciavardini, ex militante dei Nar, condannato per due omicidi e per la strage alla stazione di Bologna (su quest'ultimo fatto continua a professarsi innocente). La grave colpa è di aver visitato la cooperativa da lui gestita, che si occupa del recupero dei detenuti. Sarebbe dovuto essere, soprattutto per la sinistra, un esempio virtuoso. Anzi, sarebbe stato un motivo in più per esortare la deputata a continuare a occuparsi dei detenuti e delle condizioni disastrate del nostro sistema penitenziario. E invece parte l'accostamento della deputata Colosimo al terrorismo nero.

Eppure, per fortuna, non ci fu una levata di scudi nei confronti della grande Tina Anselmi, conosciuta soprattutto per essere stata presidente della commissione parlamentare di inchiesta sulla P2. Lei non solo conosceva l'allora terrorista nero Giovanni Ventura perché compaesano e amico di famiglia, ma lo difese dall'accusa di aver ordito la strage di Piazza Fontana. Ma erano altri tempi, in quel contesto storico la politica - tranne una paradossale eccezione che indicheremo più avanti - non era contaminata dal feroce giustizialismo e soprattutto non era affetta dalla peggior dietrologia della Storia repubblicana.

Prima la paranoia politica era componente principale dei totalitarismi. Nessuno, e ci mancherebbe, ha osato dire che Tina Anselmi era stata messa a presiedere la commissione per dare seguito a una strategia ordita dal ”Deep State”. Definizione molto in voga tra taluni parlamentari grillini (e forse a breve anche piddini) cavalcata dai QAnon americani, gli esaltati complottisti che si sono poi vestiti da Unni e hanno assaltato il Campidoglio americano.

Tina Anselmi, ricordiamo, è stata una donna schietta, simpatica, rassicurante, ma anche rigorosa, battagliera, appassionata, a volte pungente e ironica, materna e femminista allo stesso tempo; una personalità politica atipica, sempre attenta ad anteporre l'interesse collettivo a quello personale o di partito. Una cattolica convinta e coerente, ma non integralista. E soprattutto aveva il difetto di essere anche garantista. E lo era persino nei confronti di un terrorista della destra eversiva come Giovanni Ventura. Ma ora viene il bello. Chi tentò di fare polemica sull'amicizia tra Tina Anselmi e l'ordinovista Giovanni Ventura? L’allora deputato Beppe Niccolai del Movimento Sociale Italiano. Incredibile, ma vero.

Fu proprio lui dell'Msi a rendere pubblica una corrispondenza tra Tina Anselmi e l'allora ministro Silvio Gava, dove sostanzialmente chiedeva aiuto per Ventura. Leggiamola nella sua interezza: «Caro Silvio, grazie dei tuoi auguri che ricambio a te, a Flora, alle piccole e a mamma. Con l'anno nuovo spero di maltrattare meno gli amici e di poter avere la gioia di passare qualche ora con voi. L'amico che ti porta questa mia è il dottor Giovanni Ventura di Castelfranco. È stato coinvolto per colpa di un democristiano, ex-seminarista, con la vocazione di giustiziere, con gli attentati di Milano. La polizia e la magistratura l'hanno completamente scagionato, come per me fu chiaro fin dall'inizio per quanto conosco di lui e della sua famiglia. Purtroppo quel tipo di pubblicità non gli ha giovato e ora ha qualche problema: se puoi aiutarlo, te ne sarò grata: mi sento un po' colpevole, come democristiana, del male che gli hanno fatto. Grazie, arrivederci a presto e tanti saluti cordiali anche per i tuoi. Tina».

Immaginiamo se una lettera del genere fosse stata scritta da Chiara Colosimo per aiutare Luigi Ciavardini che, messo a confronto con Ventura, appare come una educanda del '700. Sarebbe scoppiata una rivoluzione civile. Ricordiamo che Giovanni Ventura, a differenza dei Nar che erano un gruppo spontaneista e - fino a prova contraria - senza alcun legame con i servizi segreti o altro, faceva parte della destra eversiva di Ordine Nuovo (da non confondersi con l'omonimo creato da Pino Rauti, anche se si gioca tuttora a fare confusione) e secondo il giudice Guido Salvini, che all'epoca si occupò della strage di Piazza Fontana, avrebbe ricoperto un ruolo cruciale. Ventura avrebbe mantenuto i rapporti con Guido Giannettini, il giornalista legato al Sid, i servizi segreti di allora. Nel 1973 Ventura inizia a parlare e Giannettini avrebbe cercato di farlo fuggire dal carcere, su ordine diretto del Sid. Lui però, in quell'occasione, evita di farlo: temeva che in realtà volessero farlo uscire per ucciderlo.

Per la strage di Piazza Fontana ci fu un percorso giudiziario travagliato. Nel 1979 il tribunale di Catanzaro condanna all'ergastolo Franco Freda, Ventura e Giannettini, tutti e tre fuggiti all'estero prima della pena; l'anarchico Pietro Valpreda viene assolto per la strage (come sappiamo messo in mezzo innocentemente a causa di un evidente depistaggio) ma condannato a quattro anni e mezzo per associazione eversiva.

Nel 1981 Freda e Ventura vengono assolti in secondo grado, ma condannati a 15 anni per (altri) attentati compiuti a Padova e Milano. Il tribunale conferma la condanna di Valpreda e assolve Giannettini. Nel 1982, la Corte di Cassazione annulla la sentenza di secondo grado sulla strage di Piazza Fontana e rinvia il processo a Bari, confermando solo l'assoluzione di Giannettini. La Corte d'Assise d'Appello assolve per insufficienza di prove Freda, Ventura, Merlino e Valpreda. La Cassazione renderà poi definitiva la sentenza nel 1987, confermando comunque la condanna di Freda e Ventura per gli attentati commessi fra la primavera e l'estate del 1969.

Si comprende benissimo quanto sia assurdo e strumentale aver ferocemente attaccato Chiara Colosimo. Lei, come Tina Anselmi, non può essere accostata nemmeno lontanamente al terrorismo o allo stragismo. Sia per questioni anagrafiche, sia - come nel caso di Anselmi - per una questione politica che è lontana anni luce dall'eversione. Fratelli d'Italia è erede dell'allora Msi, che ovviamente non aveva nulla a che fare con la strategia della tensione e il terrorismo. È come se dovessimo accostare l'allora Partito Comunista alle Brigate Rosse. Erano nemici. Così come le forze extraparlamentari nere erano nemiche del Movimento Sociale Italiano. D'altronde, lo stesso Paolo Borsellino, roba nota, simpatizzava per l'Msi. Era molto amico di Francesco Grisi, di Giuseppe Tricoli, storico rappresentante della Fuan e più volte deputato regionale eletto nel Msi, di Tommaso Romano.

Ma è chiaro l'attacco preventivo. Si crea così un ricatto morale: se Colosimo non si occupa dei neofascisti che avrebbero partecipato alle stragi mafiose, allora è la dimostrazione che è stata messa lì appositamente. Di nuovo siamo alla dietrologia funzionale a ben altro. Tralasciando il fatto che è completamente fuorviante pensare che la mafia sia stata in qualche modo eterodiretta dall'eversione nera (sono suggestioni fuori dal mondo per chi conosce soprattutto la mafia corleonese), la commissione Antimafia dovrebbe invece scavare nelle carte, analizzare i fatti, magari far tirare fuori le 39 annotazioni di Falcone situate probabilmente in qualche faldone della procura nissena e magari pretendere che fine abbia fatto il pc e gli eventuali documenti requisiti dalla polizia giudiziaria dall'ufficio di Borsellino. Magari ripercorrere ogni passo che Borsellino fece durante la sua Via Crucis che si conclude con il suo annientamento. La commissione Antimafia non deve continuare con le fantasie giudiziarie. Non deve riscrivere la Storia, casomai approfondirla. Chiaro che se lo fa, la massacreranno. In tal caso avrà la forza di resistere, al costo di essere impopolare?

Non è lei il pericolo...Colosimo e le polemiche sull’Antimafia, il vero problema è cosa ha fatto la commissione negli ultimi anni… Tiziana Maiolo su L'Unità il 20 Maggio 2023

Ma chi sarà mai questa Chiara Colosimo, che ha la pretesa di andare a presiedere la Commissione Antimafia senza aver mai indossato una toga? Meglio un bel pm “antimafia”, anche se ex. Non ha peli sulla lingua il dottor Giancarlo Caselli, e ha già il suo bel candidato da proporre per quella Bicamerale così speciale da avere persino poteri requirenti. Cioè gli stessi dell’autorità giudiziaria, con esclusione del potere di manette. Ecco la proposta, in uno dei tanti organi di famiglia: “E francamente avendo a disposizione una personalità professionalmente e moralmente ineccepibile di altissimo livello e di collaudata indipendenza come Cafiero de Raho, non riesco proprio a capire cosa di meglio si potrebbe trovare”. Il che non pare significare tanto che la candidata proposta dalla maggioranza parlamentare non abbia professionalità e moralità ineccepibili, quanto piuttosto il fatto che, anche quando, come nel caso di Cafiero, il magistrato sbarca in Parlamento, quel che conta è il suo habitus di pm, la sua natura di “antimafia”. Uno dei nostri, insomma, di noi unici titolati a presiedere una commissione con quella denominazione. Il contrario, sarebbe un po’ come se un “civile” avesse la pretesa di guidare un battaglione dell’esercito. Se poi, come nel caso di Chiara Colosimo, su di lei “si profilino ombre capaci di minare la credibilità e fiducia assolute di cui deve godere”, è chiaro che non vi è dubbio su chi dovrebbe cadere la scelta. E sarebbe interessante, lo diciamo senza retorica, poter assistere ai lavori di una commissione parlamentare come continuazione di quelli della Direzione Nazionale Antimafia condotta dal dottor, oggi onorevole, Federico Cafiero de Raho.

Naturalmente non sappiamo neppure, essendo Chiara Colosimo una giovane deputata alla sua prima esperienza parlamentare, come intenda condurne lei la presidenza. Perché nel frattempo è stata finalmente, con il ritardo fisiologico di ogni inizio legislatura, fissata la data del 22 maggio come quella in cui la commissione si formerà e i suoi componenti eleggeranno gli organi dirigenti. Sarà una data significativa, la vigilia dell’anniversario della strage di Capaci, quella in cui furono assassinati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. Ci sono tanti modi di ricordare un grande magistrato e il suo sacrificio. In passato ci furono in Parlamento tanti deputati e senatori di Alleanza Nazionale, il partito antenato di Fratelli d’Italia, quello cui appartiene Chiara Colosimo, i quali avevano le idee ben chiare sui principi che distinguono lo Stato di diritto dallo Stato etico. Non è vero che questi principi sono estranei al mondo della destra, come non lo sono a una parte della sinistra. Ci sono i nomi e i cognomi, oltre ai resoconti stenografici delle Camere a dimostrarlo. Un punto fondamentale è ovviamente quello della divisione dei poteri, in cui rientra il fatto che la lotta alla mafia è compito dei governi, mentre alla magistratura spetta individuare i responsabili dei reati. Ecco perché sarebbe alquanto inopportuno che l’esperienza e la cultura “antimafia” di un pubblico ministero venissero traslate automaticamente in una commissione parlamentare.

Meglio quindi Chiara Colosimo, pur se inesperta. E pure se ignoriamo se la sua cultura politica sia più vicina a quella dei suoi “padri” politici di An che siedevano vent’anni fa sugli stessi scranni occupati oggi dai colleghi di Giorgia Meloni, o invece a quel settore del suo partito più contiguo alla visione da Stato etico di Rousseau e i suoi seguaci dei Cinque stelle. Un fatto però ci dà speranza, i lividi che la giovane deputata porta sul corpo dopo le legnate che le sono pervenute da Ranucci e il suo Report con annessi il gruppo di Libera e il piccolo circolo di qualche parente di vittime di mafia. Quei colpi (piace sempre ricordare i “lividi dell’anima” di cui parlava Rosa Luxemburg) potrebbero essere i suoi salvavita. Se è vero che molti di quelli che oggi si professano “garantisti” lo sono diventati solo quando gli artigli della malagiustizia hanno graffiato i loro volti, o quelli dei loro cari, ben vengano anche i lividi sul corpo di Chiara Colosimo.

Una foto con una “brutta persona”, Luigi Ciavardini, uomo della destra estrema, condannato per strage e due delitti, pena scontata e ampia revisione del proprio passato. Nel presente l’adesione a una associazione di quelle che si occupano dei detenuti. Un po’ come, sul versante di sinistra, Salvatore Buzzi, che anni fa fu fotografato a incontri di fundraising del Pd laziale e a tavola anche con qualcuno che poi diventerà ministro, senza destare particolare scandalo. Ci vogliono proprio gli spiriti maligni di destra e di sinistra per rinfacciare a qualcuno il reato di fotografia. Chiara Colosimo era consigliere regionale, ai tempi di quella foto, e faceva il suo lavoro bene, evidentemente, se si occupava anche di detenuti. O avrebbe dovuto chiedere l’esame del sangue e il tasso di antifascismo ogni volta che qualcuno le si affiancava per una foto? Dobbiamo quindi ritenere che, se per esempio stringiamo una mano, condividiamo non solo il presente ma anche il passato della persona che ci si è avvicinata?

Il problema vero della Commissione bicamerale antimafia è se mai un altro, chiunque la presiederà. Nelle due ultime legislature, quelle in cui fu presieduta prima da Rosi Bindi e poi da Nicola Morra, ha dato l’impressione di svolgere un’attività moralistica, con lo stile tipico della subcultura grillina, più che di indagine sulla congruità della normativa antimafia e sull’applicazione concreta della stessa da parte della magistratura. Questi due ex presidenti, che non sono più in Parlamento, vengono ricordati soprattutto per le famose “liste degli impresentabili”, attese con bramosia da quei giornalisti e quelle testate che brillano per l’adesione alla medesima sub-cultura. Se fosse fondata l’impressione che quelle due commissioni, una successiva all’altra, abbiano rivolto la loro attività investigativa più a fare le pulci a ogni candidato alle elezioni per verificare se nel loro passato ci fosse per esempio una foto come quella che viene imputata oggi a Chiara Colosimo, che non a verificare l’applicazione rigorosa delle leggi antimafia, questo significherebbe una cosa sola.

Che questa commissione è inutile, forse addirittura dannosa. Ha più importanza l’informazione di garanzia ricevuta nel passato da un candidato alle elezioni comunali, o l’attività costante di procuratori che spendono energie e denaro pubblico in clamorosi blitz “antimafia” che vengono poi puntualmente smentiti dai giudici di vari gradi? Proprio ieri, giusto per fare un piccolo esempio, è stato scarcerato dal tribunale del riesame in Calabria il “capo degli zingari”, arrestato il 15 aprile con un’altra sessantina di persone per narcotraffico. Sarebbe ordinaria amministrazione, se tutta l’operazione non fosse stata presentata in conferenza stampa come una colossale operazione “antimafia”. Perché c’è proprio un problema di cultura politico-giudiziaria, in questo momento in Italia e trent’anni dopo le uccisioni di Falcone e Borsellino. C’è un settore, ristretto ma rumoroso, di società che pare aver bisogno che la mafia continui a esistere e che non accetta il fatto che non tutto ciò che si muove nell’illegalità e nella trasgressione debba essere catalogato come “mafia”. C’è anche altro, e non è detto che sia meno grave. Ecco, onorevole Colosimo, hic Rhodus, hic salta. Non sarà una foto a farci capire che Presidente sarà. Auguri. Tiziana Maiolo

Antimafia, polemiche e poltrone: ma la Commissione serve davvero?  Filippo Facci su Libero Quotidiano il 25 maggio 2023

Tema: antimafia. La prima notizia è che Maria Falcone, sorella di Giovanni, è intervenuta su Repubblica con l’articolo «Basta con l’antimafia» dopo analogo articolo di segno opposto scritto da Alfredo Morvillo, ex procuratore di Trapani e pure lui parente (cognato) di Falcone; la seconda notizia in realtà è una mancata notizia, ossia: in questa legislatura nessun giornale ha sollevato - come avveniva puntualmente - un dibattito sull’effettiva necessità della Commissione parlamentare antimafia, di cui sono appena stati nominati i vertici. Si comincia da Maria Falcone, sorella più anziana del magistrato, che è appunto è intervenuta su Repubblica con l’articolo «Basta con l’antimafia di carriere e passerelle» destando qualche soddisfazione nel centrodestra (ma anche più silenziosamente nel centrosinistra) più qualche perplessità circa la sua coerenza.

Da una parte, infatti, è vero che digitando la parola «antimafia» su un motore di ricerca il nome Maria Falcone è tra i primi nomi che spunta fuori, anche se indubbiamente, sin dal 1992, la medesima non ha fatto solo la sorella, ma ha lavorato a una Fondazione poi celebrata, sovvenzionata e divenuta un vessillo di testimonianza che ha raccolto riconoscimenti in Italia e nel mondo, dal Quirinale all’Onu; dall’altra parte, è anche vero che la stessa Fondazione non si è mai propriamente sottratta alle strumentalizzazioni dell’antimafia peggiore, quella che lei, Maria, ora sta all’apparenza criticando, e che nei decenni ha trasformato Falcone & Borsellino in un santino da parabrezza con copyright su celebrazioni e commemorazioni. Ma dall’articolo non si capisce bene di quale antimafia parli, anche perché non compaiono nomi né riferimenti: «È il tempo di andare avanti», scrive, e «di perseverare nella ricerca della verità e al contempo smettere di usare l’antimafia per fare carriera, per fare passerella».

Però, dal suo elogio alla cattura di Matteo Messina Denaro, onorando testualmente «la magistratura più coraggiosa», s’intende che la Falcone prenda apertamente le distanze dagli inguaribili dietrologi dell’eterna «trattativa» e in particolare dall’ex procuratore di Trapani Alfredo Morvillo, peraltro suo parente perché cognato di Falcone: il magistrato, caro al fronte del Fatto Quotidiano, era infatti rimasto inorridito dopo che Maria Falcone aveva firmato un accordo col sindaco palermitano di centrodestra per realizzare l’ennesimo museo dell’antimafia. Infatti, sullo stesso dorso palermitano di Repubblica, si era chiesto: «In questa città aver fatto accordi con la mafia viene ritenuto da tutti un fatto disdicevole?».

CHI È PIÙ ADAMANTINO?

Il riferimento era all’appoggio fornito all’attuale sindaco da parte di Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro, politici condannati per fatti di mafia. «Troppo spesso i cittadini ricevono dall’alto segnali che invitano a convivere con ambienti notoriamente in odore di mafia», aveva aggiunto Morvillo con apparente riferimento a Maria Falcone, che in effetti, durate la campagna elettorale dell’anno scorso, si era scagliata contro «gli impresentabili», affermando che «la politica non si può permettere sponsor che non siano adamantini, Dell’Utri e Cuffaro non lo sono». Ma poi, ora, ha firmato un accordo col sindaco per fare un museo. 

Neanche l’articolo di Alfredo Morvillo conteneva nomi e riferimenti chiari, secondo uno stile siciliano che non vogliamo definire: ma si accennava, ancora, alla «rituale presenza di personaggi che non tralasciano occasione per propagandare la convivenza politico-sociale con ambienti notoriamente in odore di mafia» e questo era un primo indizio. Poi, ancora: «Se si vuole concretamente dare un seguito alle parole di Paolo Borsellino, dobbiamo adoperarci per tenere lontano dalla nostra vita tutto ciò che ha anche il più lieve odore di mafia. Anche quando queste scelte comportano la rinuncia a godere di quegli aiuti, di quegli appoggi che ben noti ambienti politico-mafiosi sono in grado di assicurare». Secondo indizio, pesantissimo: sì, parlava proprio di Maria Falcone. La quale ha risposto così: «$ il tempo di non abbassare la guardia e al contempo di costruire ponti tra le diverse componenti sociali, pretendere impegni da chi vuole unirsi allo sforzo del cambiamento, senza criticare a priori, magari rianimati da una certa nostrana acida propensione alla presunzione». Potrebbe essere solo una bega tra parenti, o forse sono i segni del tempo che passa in una regione che ha fatto della mafia corleonese una materia da archeologia giudiziaria. 

DA QUEL LONTANO 1962...

E, a proposito di archeologia giudiziaria e di antimafia, eccoci alle polemiche sulla nomina della meloniana Chiara Colosimo alla presidenza dell’immancabile Commissione antimafia: la quale non va certo abolita perché la presiede Chiara Colosimo, ma che la presieda lei, ora, senza averne particolare titolo, come pure non l’aveva chi l’ha preceduta Nicola Morra dei Cinque Stelle e Rosi Bindi del Pd – è qualcosa che spiega bene la perfetta inutilità della Commissione. In tempi di «anticasta» forse avrebbero potuto scrivere, molto in teoria, di antiquata fabbrica di poltrone, di incarichi da spartire, di benefit, di gettoni di presenza, di trasferte, di auto blu, di autisti e segretarie, di quintalate di carta per produrre «studi» e faldoni, audizioni e compitini, soprattutto pile di atti ufficiali e ripetitivi che nessuno legge mai, spesso doppiandosi con altre commissioni, il tutto con poteri d’indagine ma non di accertamento o di sanzione. L’espressione «antimafia» tuttavia avrebbe scoraggiato anche gli anticasta più famelici.

Si parla di una Commissione che dovrebbe occuparsi di mafia, camorra, ’ndrangheta, mafie straniere e narcomafie, riciclaggio all’estero, nuove leggi da introdurre e, il tutto, senza sovrapporsi alle varie Dia e Dda e Dna. Sorta nel 1962, la «Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali anche straniere» doveva essenzialmente studiare e capire il fenomeno: verrebbe da rispondere che forse è stato studiato e capito a sufficienza, e che, anzi, la vecchia mafia ha pure fatto in tempo a sparire per come era stata studiata e compresa. Forse servirebbe altro, tipo una commissione che contribuisse alla costruzione di uno spazio giuridico condiviso dall’Unione europea, opera complicata perché molte leggi antimafia esistono soltanto da noi: dal 416bis o al concorso esterno. Anche il compito di indagare sul rapporto tra mafia e politica ormai è stato svolto più o meno impropriamente dalle procure.

Nei fatti, i pur provvisori libri di Storia contemporanea riportano che dopo i vertici toccati dalla Commissione di Gerardo Chiaromonte, e la brusca degenerazione della Commissione di Luciano Violante – che ascoltava e riascoltava le stesse fonti dei magistrati, ossia i collaboratori di giustizia - le presidenze successive sono progressivamente giunte al vuoto, sempre più allontanandosi dalla comprensione dei nuovi trend criminali e dall’individuazione dei nuovi spazi, pubblici e privati, in cui le mafie sono diventate globali e multinazionali. Tuttavia il ferrovecchio della Commissione rimane lì: fa litigare per le poltrone, ma non per il loro significato.

La memoria corta. Le “amnesie” di Scarpinato e Travaglio, critiche a Colosimo e memoria corta su Palamara. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 26 Maggio 2023 

“L’elezione di Chiara Colosimo a presidente della Commissione antimafia rappresenta un segnale dei tempi, di questa stagione di normalizzazione e di restaurazione”, ha dichiarato il senatore del M5s Roberto Scarpinato, forse deluso per non essere stato scelto al posto della deputata di Fratelli d’Italia. “Bisogna tenere una linea di decenza istituzionale, in quanto la credibilità dello Stato si salva proponendo persone credibili”, ha poi aggiunto l’ex procuratore generale di Palermo, chiaramente riferendosi all’incontro avuto diversi anni fa fra Colosimo e l’ex Nar Luigi Ciavardini.

A favore della nomina di Scarpinato si era speso Marco Travaglio. Per il direttore del Fatto, l’ex magistrato siciliano in questo momento è l’unico in Parlamento a conoscere il “filo nero che collega 25 anni di strategia della tensione, da piazza Fontana del 1969 alle stragi del 1992-94”. Travaglio, però, dimentica che l’indagine “Sistemi criminali”, che avrebbe visto Cosa nostra, massoneria deviata, pezzi di Stato ed eversione nera, tutti insieme appassionatamente per destabilizzare il Paese, aperta proprio da Scarpinato nel 1998, non aveva portato a nulla, finendo subito archiviata. È interessante, invece, ricordare come avvenne la nomina della toga preferita dai grillini a procuratore generale di Palermo.

In aiuto alla ricostruzione dei fatti vi sono i libri scritti dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara e dal direttore di Libero Alessandro Sallusti, “Il Sistema” e “Lobby e logge”. La storia inizia nel 2012. La poltrona del procuratore di Palermo è occupata da Francesco Messineo. Il magistrato è in difficoltà per alcune vicende che riguardano il fratello. Al Consiglio superiore della magistratura aspettano solo un passo falso per sostituirlo. La Procura generale del capoluogo siciliano, invece, è vacante. Per quel posto hanno fatto domanda Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte, da sempre vicino a Gian Carlo Caselli.

Il primo è esponente di Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, il secondo del gruppo centrista Unicost, lo stesso di Palamara. Giuseppe Pignatone, allora procuratore di Reggio Calabria e anch’egli esponente di Unicost, e Palamara decidono di contattare Riccardo Fuzio, membro del Csm che poi diventerà procuratore generale della Cassazione. Anche Fuzio è di Unicost. Con lui si decide la strategia: Palamara dovrà convincere Lo Forte a ritirare la candidatura, in modo da spianare la strada a Scarpinato, in cambio dell’assicurazione, garantita da Magistratura democratica, che un suo esponente avrebbe preso il posto di Messineo. Md voleva Scarpinato ma la sua nomina non era affatto scontata: era necessario che Unicost convergesse nella votazione su di lui, e che Md ricambiasse il favore su Lo Forte nella successiva votazione.

Da casa di Fuzio, Palamara chiamò quindi Lo Forte assicurandogli la tenuta di questo patto, legittimato dalla presenza di Pignatone, che tra l’altro era suo amico. Pignatone in quel momento era in ottimi rapporti con il capo dello Stato Giorgio Napolitano. Lo Forte, al termine di queste manovre, revocherà la domanda e Scarpinato sarà nominato procuratore generale di Palermo agli inizi del 2013.

La spartizione a tavolino degli incarichi, per utilizzare le parole dello stesso Caselli, un “laido sistema”, non è stata smentita da Scarpinato. Nei suoi libri Palamara, comunque, aveva anche ricordato i rapporti di Scarpinato con Antonello Montante, presidente di Confindustria Sicilia e paladino dell’antimafia, condannato a 14 anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. Scarpinato si era difeso sottolineando che non c’era nulla di male ad aver avuto rapporti con Montante, all’epoca non inquisito. “Mi sarei aspettato da Scarpinato un accenno all’elenco di generali, esponenti di spicco del Ministero dell’interno, prefetti della Direzione investigativa antimafia e direttori del servizio segreto che si recavano da Montante per chiedergli favori”, aggiunse quindi Palamara. “Quando vennero trovati gli elenchi di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi esplose lo scandalo della P2”, ricordò l’ex magistrato. In occasione dell’arresto di Montante, infatti, durante la perquisizione a casa erano stati rinvenuti alcuni documenti da cui emergevano rapporti molto intensi con Scarpinato, ad esempio diverse “richieste”.

In particolare, un appunto datato 3 maggio 2012 con la dicitura: “Scarpinato (in quel momento procuratore di Caltanissetta, la città di Montante, ndr) mi consegna composizione del Csm con i suoi iscritti per nuovo incarico, procura generale Palermo più Dna”. L’appunto era una “mappetta” della sala del Plenum del Csm con su indicati, in maniera assai precisa, i nomi dei vari componenti, laici e togati, e la loro rispettiva appartenenza politica o di corrente.

Nei confronti del magistrato venne subito aperta una pratica per il trasferimento per incompatibilità ambientale, poi archiviata in quanto nel frattempo Scarpinato era stato trasferito da Caltanissetta a Palermo.

Paolo Pandolfini

Chiara Colosimo, la rivelazione: "Ecco perché la sinistra mi attacca". Libero Quotidiano il 25 maggio 2023

Dalle fiaccolate in memoria di Paolo Borsellino, nume tutelare della “generazione Atreju”, alla presidenza della Commissione nazionale Antimafia nell’anniversario della strage di Capaci: quando cadde l’altro grande eroe della lotta a Cosa Nostra, Giovanni Falcone. «Un onore indescrivibile» per Chiara Colosimo – trentaseienne deputata di Fratelli d’Italia, prodotto della cantera di Azione Giovani e legatissima alla premier Giorgia Meloni – che non poteva non dedicare il suo primo pensiero da neopresidente proprio al giudice assassinato insieme alla moglie e a tre uomini della sua scorta il 23 maggio del ’92. E con lui a tutti i martiri della lotta antimafia ai quali – come ha spiegato nel suo discorso di insediamento – «dobbiamo il solenne impegno a combattere la solitudine degli uomini e delle donne di giustizia». Un’elezione, figlia di un percorso allineato alla storica tradizione legalitaria della destra di An, su cui tutta la maggioranza si è pienamente ritrovata ma che ha visto la levata di scudi dell’opposizione. Anzi di una parte di questa, dato che – anche questa volta – Pd, 5 Stelle e Terzo Polo sono riusciti a farsi male da soli: dividendosi clamorosamente sull’atteggiamento da tenere rispetto alla proposta del centrodestra.

LA VOTAZIONE

Andiamo con ordine. Poco dopo le 13 di ieri Colosimo è stata eletta presidente dell’Antimafia con 29 voti a favore, 4 sono andati a Dafne Musolino delle Autonomie (sostenuta dal Terzo Polo) e un astenuto. Pd, M5S e rosso-verdi? Hanno scelto di ritirarsi sull’Aventino uscendo dall’Aula. Il motivo, a sentir loro, sarebbero le presunte frequentazioni della deputata con Luigi Ciavardini, ex terrorista dei Nar oggi membro di un’associazione che si occupa di reinserimento di detenuti. A far partire la grancassa politica, dopo il servizio di Report, le proteste di alcune associazioni di vittime dei parenti di mafia: subito raccolte da dem, grillini e sinistra che hanno minacciato di abbandonare la votazione in caso di indicazione per la Colosimo. E così è stato. Per il Pd – seguito a ruota da 5 Stelle e Avs – la sua elezione «rappresenta uno schiaffo che la commissione e questo Paese non meritavano». Dal Nazareno ci si lamenta pure per la rottura del «fronte unitario» sull’indicazione dell’Antimafia: non si ricordano, forse, di quanto fu divisiva l’indicazione di Rosy Bindi nel 2013 (con il Pdl che non partecipò al voto) e di Nicola Morra nel 2018. Chi non si accoda ai giallorossi è il Terzo Polo: «Non si esce dalle Aule», li ha bacchettati Raffaella Paita «non l'abbiamo mai fatto». Spaccatura che si farà ancora più profonda con l’elezione, in seconda battuta, di un vicepresidente e di un segretario frutto, secondo Azione-Iv, di una spartizione fra Pd e M5S. A stigmatizzare l’ennesimo Aventino delle sinistre è stato il capogruppo meloniano a Montecitorio, Tommaso Foti, più che amareggiato con chi si è voluto «distinguere per faziosità, nel segno di una vuota quanto infondata dietrologia».

A confutare la tesi dell’inopportunità politica, e insieme a ciò la ricostruzione dei suoi rapporti con l’ex terrorista, ci ha pensato proprio Chiara Colosimo: «Io non ho amicizie. Ho semplicemente espletato, nelle mie funzioni di consigliere regionale (dal 2018 al 2022, ndr), quello che mi era concesso e che era anche dovuto e cioè incontrare anche persone che sono state o sono detenute». La conoscenza di Ciavardini è dovuta, come per «moltissimi altri eletti di altri partiti, al fatto che lui è in un’associazione che si occupa, come da articolo 27 della Costituzione, del reinserimento di altri detenuti che hanno scontato la loro pena». Colosimo ha anche invitato i familiari delle vittime a Palazzo San Macuto: «Nella mia vita parlano i fatti e le battaglie che fin qui ho condotto. Con il profondo rispetto che devo ai familiari delle vittime, li invito qui: questa è casa loro, possono venire quando vogliono e indicare le priorità». 

Su Colosimo all’Antimafia il Pd voleva solo le poltrone”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 24 Maggio 2023.   

Chiara Colosimo, la fedelissima di Giorgia, è il nuovo presidente della Commissione antimafia, ma non sono mancate le polemiche. Fa discutere la presunta amicizia con l’ex Nar Luigi Ciavardini, smentita prontamente dalla diretta interessata. Ecco perché, al momento del voto, escono dall’aula i componenti delle opposizioni, ad eccezione di Italia Viva e Azione. “Questo modo di fare – dichiara la capogruppo dei renziani Raffaella Paita – non ci appartiene”. I dem rientrano solo quando è il momento di scegliere i vice presidenti, tra cui il 5 Stelle Fabio Cafiero De Raho. L’ex procuratore, infatti, riesce a spuntarla solo grazie ai pesantissimi voti provenienti dal Nazareno. Ricoprirà, dunque, l’incarico insieme al forzista Mauro d’Attis. Segretario, invece, sarà Anthony Barbagallo, profilo indicato da Elly per chiudere l’intesa con i gialli. Un’alleanza che, comunque, riceve non poche critiche sia dalla maggioranza che dallo stesso Terzo Polo, ormai sempre più distante dai compagni rosso-gialli. A gioire, intanto, per la deputata romana è Giovanni Donzelli, responsabile nazionale dell’organizzazione di Fratelli d’Italia. 

Partito Democratico e Movimento 5 Stelle escono dall’aula quando viene eletta Colosimo. Non la ritengono un profilo idoneo a ricoprire quell’incarico…

Per fortuna, nel momento in cui dovevano eleggere il loro vice presidente, hanno finito la protesta e sono rientrati in aula. La ferita, quindi, è durata pochissimo, ovvero il tempo necessario a non perdere il proprio incarico. Il Pd probabilmente voleva solo la poltrona.

Non teme, quindi, un nuovo polverone…

Il problema è già risolto. 

Perché?

Colosimo è così brava e capace che saprà conquistarsi, nel tempo, grazie al lavoro e fuori da ogni polemica, sia la fiducia delle associazioni che si occupano di contrastare la malavita organizzata che dei parenti delle vittime. Io credo delle stesse opposizioni.

Negli ultimi giorni, però, non erano mancati i post per una sua presunta amicizia con l’ex Nar Luigi Ciavardini…

Uscendo fuori dalle strumentalizzazioni mediatiche di questi giorni, sono certo che verrà fuori la sua grande capacità e determinazione nel combattere la mafia. Questo è l’unico aspetto che interessa agli italiani.

È venuto il momento che la sinistra la finisca con questa storia del “fascismo”. Il nero possiamo dire che è diventato una vera e propria ossessione per qualche progressista…

Ciascuno fa le scelte che vuole, è libero di comportarsi come ritiene opportuno. Se qualcuno pensa sia giusto agire così, per Fratelli d’Italia non è un problema. Non è per questo, d’altronde, che abbiamo cambiato candidato. Loro hanno fatto la loro sterile polemica e noi siamo andati avanti lo stesso, eleggendo il migliore profilo possibile alla presidenza della commissione. Per noi è un orgoglio sapere che alla guida di questo importante organo ci sia una persona trasparente, una giovane donna che rappresenta al meglio lo spirito di coloro i quali non si voltano dall’altra parte.

Il Pd, a suo parere, intende, ancora una volta, intestarsi le battaglie sulle legalità, quasi come se gli appartenessero…

Parlano i fatti. Il primo atto del governo è stato confermare il carcere ostativo. Le battaglie per difendere il 41-bis valgono più di mille parole.

Chiara Colosimo eletta presidente della commissione antimafia. Libera protesta: «Nomina piena di ambiguità e ombre». Le opposizioni escono dall’Aula per protestare contro la deputata di Fratelli d’Italia, contro il cui nome si erano sollevate diverse associazioni. A pesare i presunti legami con l'ex terrorista nero Luigi Ciavardini, oggi parte di una onlus che si occupa di reinserimento di detenuti. Simone Alliva su L'Espresso il 23 maggio 2023.

Quando tutto è finito, e la maggioranza ha votato per lei, quando ha vinto la Presidenza dell’antimafia con 29 voti, Chiara Colosimo, deputata di Fratelli d’Italia, commenta l'appello che i familiari delle vittime di mafia e terrorismo rivolsero alle forze politiche a non votare per lei alla presidenza della Bicamerale d'inchiesta: «Nella mia vita hanno sempre parlato i fatti e le battaglie che ho condotto sin qui. Con il profondo rispetto che devo ai familiari delle vittime, li invito qui. Questa è casa loro, possono venire qui quando vogliono e indicare loro le priorità».

Nella lettera le associazioni delle vittime delle mafie dichiaravano una dura contrarietà a Colosimo all’antimafia: «Rimaniamo sbigottiti e increduli di fronte a questa prospettiva. Grazie alla trasmissione “Report” sono ormai pubblici i rapporti tra la suddetta deputata di Fratelli d’Italia e il terrorista dell’eversione di destra Luigi Ciavardini», ex Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari), condannato definitivamente per l’omicidio del poliziotto Francesco Evangelista e del magistrato Mario Amato (che aveva preso in mano le indagini del collega Vittorio Occorsio – assassinato dal terrorista neofascista Pierluigi Concutelli – sui legami tra destra eversiva, P2 e apparati dello Stato)».

Appello rimasto inascoltato. Con 29 voti Colosimo conquista la Commissione parlamentare antimafia, composta da 50 membri. Alla votazione erano presenti e hanno partecipato 34 parlamentari, nessuno si è astenuto. Pd, M5S e Avs sono usciti dall’aula in polemica con l’indicazione del nome scelto. Non ha fatto lo stesso Italia Viva: «Ci siamo distinti, non abbiamo lasciato l'aula perché le battaglie vanno fatte a viso aperto. Chi è uscito ha fatto accordi sui vicepresidenti» ha commentato a margine dell’Aula la senatrice renziana Raffaela Paita.

La stessa Colosimo ha partecipato allo spoglio per poi prendere le redini per l’elezione dei vicepresidenti, quando i parlamentari di Pd e M5s sono comunque rientrati per votare. Eletti Mauro D’attis di Forza Italia e Federico Cafiero De Raho del Movimento 5 stelle, rispettivamente con 29 e 13 voti. Quattro le schede bianche.

Segretari Anthony Barbagallo del Pd (13 voti) e Antonio Iannone di Fratelli d’Italia (30), il partito di Meloni è tornato a prendersi la sua maggioranza, nulla ai renziani che si sono “contati” insieme ai parlamentari di De Luca. Votanti 47.

Ma le polemiche non si placano ed è l’associazione Libera a con una nota a tenere alta l’attenzione: «Siamo contrariati per una nomina del nuovo presidente della Commissione Antimafia sul quale si profilano ambiguità e ombre capaci di minare la credibilità e la fiducia assoluta di cui deve godere. La vera lotta non ha bisogno di compromessi o patteggiamenti politici ma di scelte chiare, coerenti, credibili e radicali contro la corruzione, le forme di illegalità e le mafie per leggere ciò che sta avvenendo sui territori e avanzi accanto alla denuncia delle proposte utili a liberare il Paese dalla morsa degli interessi criminali e dalle troppe connivenze di cui godono. Nel Paese non ci saranno più zone grigie quando tra il lecito e l'illecito non ci saranno più  scorciatoie e vie di mezzo, ossia quando l'etica tornerà a essere il movente principale della politica e della società nel suo insieme». 

«Un brutto, bruttissimo segno» è il commento dei parenti della strage del 2 agosto 1980 che attaccano frontalmente l'approdo di Chiara Colosimo: «Una occasione persa... Assolutamente incredibile: ma come si fa- si domanda Paolo Bolognesi, presidente dell'associazione che riunisce i parenti degli 85 morti e 200 feriti causati dalla bomba alla stazione di Bologna- e per di più in un giorno come quello di oggi, l'anniversario della strage di Capaci? Eleggere oggi alla presidenza di una commissione così importante chi ha avuto frequentazioni con Ciavardini  è per noi una cosa di una gravità assoluta». «Avevamo preso posizione nei giorni scorsi, avevamo fatto capire quanto fosse inopportuna per noi quella scelta" sperando in un ripensamento. Invece, uno dopo l'altro si susseguono fatti negativi, si moltiplicano bruttissimi segnali. Spero proprio che Colosimo non venga a Bologna il prossimo 2 agosto», ammonisce.

Colasimo non si scompone: «Non ho amicizie. Ho espletato, nelle mie funzioni di consigliere regionale, ciò che mi era concesso e ciò che era dovuto: incontrare anche persone che sono state o sono detenute. Conosco Ciavardini come moltissimi altri eletti di altra appartenenza politica perché è in un'associazione che si occupa del reinserimento dei detenuti». 

In Alleanza Nazionale prima e in Fratelli d'Italia, poi, Colosimo ha percorso l'intero cursus dell'amministrazione pubblica: dal Consiglio comunale di Roma, dove è approdata durante la giunta Alemanno, al Consiglio regionale del Lazio, fino al Parlamento.

La vicinanza con con l'ex Nar era stata denunciata dalle opposizioni anche sulla base di una inchiesta giornalistica di Report e sulla quale torna oggi il capogruppo Pd in Commissione Antimafia, Walter Verini. L'elezione di Chiara Colosimo, per il senatore dem, «rappresenta uno schiaffo che la commissione e questo Paese non meritavano». Per Verini, i partiti della maggioranza «hanno dimostrato sordità e chiusura» alle richieste delle opposizioni.

Intanto nei corridoi si pensa al dopo, chiusa la presidenza di questa bicamerale, vinta da Fratelli d’Italia, ci sarebbero trattative in corso tra maggioranza e una parte dell’opposizione continuano: per gli Affari regionali, per il Federalismo fiscale, per Schengen e per il Femminicidio.

Estratto dell'articolo di Francesco Olivo per “la Stampa” il 25 maggio 2023.

In mezzo alla bufera Chiara Colosimo si trova tutto sommato a suo agio. Il primo giorno da presidente della Commissione Antimafia, la deputata di Fratelli d'Italia, legatissima a Giorgia Meloni, lo trascorre tracciando le linee del suo mandato e difendendosi dalle accuse dell'opposizione: «Ciavardini non è un amico». Le polemiche del centrosinistra se le aspettava, «non mi aspettavo quelle dalle associazioni dei familiari delle vittime, di cui ho molto rispetto. Questo mi ferisce. Vorrei incontrarli presto. La narrazione che si è fatta è surreale. Sono nata nel 1986 e sto passando per la persona che non sono». 

Chiara Colosimo, lei è amica dell'ex membro dei Nar Luigi Ciavardini?

«No, non lo sono e spero di non ripeterlo ancora. Ho conosciuto Ciavardini nell'ambito di iniziative con l'associazione gestita da sua moglie (sorella di Nanni, terrorista nero morto in carcere e Marcello oggi alla Regione Lazio ndr.), nelle quali ovviamente c'era anche lui. Era il mio primo mandato da Consigliera regionale del Lazio, 2010-2013. Non ho problemi a dichiararlo. L'articolo 27 della Costituzione parla di funzione rieducativa della pena e di reinserimento dei detenuti». 

La foto, però, scattata nel carcere di Rebibbia, lascia intendere una certa confidenza fra voi.

«Sono rimasta sorpresa anche io e capisco che possa dare questa impressione, in effetti non è una posa istituzionale. Io davvero non ricordo con precisione in quale occasione sia stata scattata, saranno passati circa dieci anni. Io quella foto non ce l'ho, forse l'hanno fatta dopo una sfilata di un'associazione che fa abiti cuciti dalle detenute. In ogni caso sono certa che fosse una occasione pubblica». 

(...) 

Il presidente delle vittime della strage di Bologna si augura che lei non vada alle celebrazioni del 2 agosto. Lei ci sarà?

«Il presidente della Commissione Antimafia deve esserci e io vorrei esserci. È ovvio, però, che non farò alcun passo per provocare dolore ai familiari». 

(...)

Giorgia Meloni ha spinto molto affinché lei venisse indicata presidente.

«Non è il premier che indica il presidente delle commissioni, è una prerogativa del Parlamento e così è stato». 

(...)

Cosa dice all'opposizione?

«Che ora c'è da lavorare e non polemizzare. Tuttavia è la prima volta che una persona con un casellario giudiziario immacolato e battaglie come quella delle mascherine, come quella dei concorsi e contro la proroga per la discarica di Albano, diventa una persona che non può fare il presidente dell'Antimafia a causa di una foto. Molti esponenti di altri partiti politici hanno avuto frequentazioni con persone condannate per reati gravi, come quelli per cui è stato condannato Ciavardini e non ho visto tutto questo scandalo».

A chi si riferisce?

«A differenza loro non cerco la polemica e non mi metterò a fare i nomi».

Estratto dell'articolo di A.Oss. e D.Aut. per “la Repubblica” il 25 maggio 2023.

(...) Se davanti alla prima foto, quella che ritrae Colosimo in compagnia di Ciavardini, la donna si è smarcata spiegando che l’immagine risale al 2014 e che avrebbe conosciuto il terrorista condannato per la strage di Bologna solo per impegni istituzionali, le nuove istantanee dimostrano che quella tra Colosimo e la galassia Ciavardini è una frequentazione che va avanti almeno dal 2011, quando lei stessa ha pubblicato la foto spiegando il contesto: «A Rebibbia con l’associazione Gruppo Idee».

Estratto dell'articolo di Eleonora Capelli per “la Repubblica” il 25 maggio 2023.

«Tanto valeva mettere alla presidenza della Commissione Antimafia direttamente Matteo Messina Denaro. La scelta di Chiara Colosimo è un bruttissimo segno, perché le sue relazioni con l’ex Nar Luigi Ciavardini, di qualsiasi natura siano, sono gravi. Io spero proprio che all’anniversario della strage del 2 agosto a Bologna non si faccia vedere». Il presidente dell’associazione delle vittime del 2 agosto 1980, Paolo Bolognesi, non usa mezzi termini. 

Bolognesi, come giudica la scelta di Colosimo all’Antimafia?

«Il governo ha sprecato l’ennesima occasione, scegliendo di premiare una persona fedele. Colosimo ha detto di aver conosciuto Ciavardini perché è in un’associazione per il recupero dei detenuti, ma noi sappiamo perfettamente di cosa si tratta, è inutile che ci prenda in giro. La moglie di Ciavardini ha un’associazione (Gruppo Idee, ndr )per aiutare nel reinserimento sociale gli autori di reato e si vantò di aver fatto uscire dal carcere l’ex Nar Gilberto Cavallini. È semplicemente una schifezza». 

Perché vi sentite offesi?

«Perché dobbiamo sempre stare in trincea, è sfinente. L’associazione della moglie di Ciavardini, che Colosimo cita come occasione istituzionale di incontro, a un certo punto voleva organizzare un concerto rock con una band dell’estrema destra, che aveva dedicato una canzone a ErichPriebke. Abbiamo dovuto fare una battaglia per impedirglielo». 

Perché secondo lei è grave questa nomina?

«Ci sono collegamenti materiali che stanno emergendo tra fascisti e mafiosi, ogni giorno ne abbiamo conferma. Bisogna approfondire le stragi del 1992 e del 1993 ed è provata ad esempio la presenza nei luoghi degli attentati di Stefano Delle Chiaie, noto esponente dell’estrema destra neofascista, che venne coinvolto nel processo per la Strage di Bologna. Ci sono collegamenti su cui bisogna andare a fondo, questa nomina non aiuta». 

(...)

Forse ai più giovani il nome di Ciavardini non dice niente, ma per voi, familiari delle 85 vittime e 200 feriti della più grave strage italiana non è così...

«Ciavardini è uno degli stragisti, condannato con condanna passata in giudicato, ed è a processo per falsa testimonianza. È stato coinvolto nell’uccisione del giudice Mario Amato, ha avuto il ruolo di esecutore materiale della strage. Non credo sia difendibile il fatto di frequentare, per qualsiasi ragione, una persona del genere. Che noi a 43 anni dalla strage dobbiamo ancora stare sulle barricate è sconvolgente».

Che follia paragonare Colosimo a Messina Denaro...Ci vorrebbe un po’ di senso delle proporzioni anche nelle critiche, come quelle rivolte alla neo presidente della Commissione parlamentare antimafia dal presidente dell’associazione delle vittime della strage di Bologna. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 25 maggio 2023 

Nessuno pretende che la nomina di Chiara Colosimo alla presidenza della Commissione antimafia venga salutata da feste di piazza e fuochi d’artificio, e nessuno è tenuto a incontrarla o a collaborare con lei se non lo ritiene opportuno, ma anche nelle critiche ci vorrebbe un po’ di senso delle proporzioni. «È una schifezza, a questo punto potevano nominare direttamente Matteo Messina Denaro», dice a Repubblica Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione delle vittime della strage di Bologna. Parole estreme e intrise di dolore e quindi umanamente comprensibili, ma cosa c’entra Colosimo con Cosa Nostra?

Quel che viene rimproverato alla giovane esponente di Fratelli d’Italia e fedelissima di Giorgia Meloni è una presunta amicizia con l’ex Nar Luigi Ciavardini condannato per la strage del 2 agosto 1980. A “inchiodarla” ci sarebbe una fotografia diffusa dalla trasmissione televisiva Report e poi rilanciata da tutti i media. Colosimo nega categoricamente di avere rapporti stretti con Ciavardini, spiegando che la foto è stata scattata durante una visita nel carcere romano di Rebibbia in un’iniziativa di raccolta fondi per il recupero dei detenuti sostenuta dalla moglie dell’ex terrorista nero.

Ma anche se i due fossero uniti da un legame fraterno questo non la renderebbe una collusa, né con l’estremismo armato dei Nar, né tanto meno con la Mafia di Matteo Messina Denaro. In uno Stato di diritto ognuno è responsabile dei propri atti e delle proprie parole, non delle proprie frequentazioni. Peraltro, spulciando in rete, non sembra che ci siano dichiarazioni inopportune o ambigue da parte di Colosimo che possano in qualche modo associarla alle cosche. Di certo il governo che in uno slancio di bulimia sembra non voler lasciare all’opposizione neanche le briciole (vedi il caso sulla nomina del commissario per l’emergenza alluvione), contribuisce a esasperare il clima politico. Ma la strada dell’Aventino e della delegittimazione totale dell’avversario è un vicolo cieco.

Chi è Chiara Colosimo: l'amicizia (smentita) con Ciavardini e la vicinanza a Giorgia Meloni. Adriana Logroscino su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2023.

La giovane deputata di FdI, vicinissima alla premier, ha negato di essere amica dell'ex estremista nero dei Nar Ciavardini. È stata eletta alla presidenza della Commissione antimafia, nonostante le critiche di alcuni familiari delle vittime

Vicinissima a Giorgia Meloni, Chiara Colosimo - eletta martedì 23 maggio al vertice della Commissione parlamentare antimafia -, è nata a Roma il 2 giugno 1986. 

Si avvicina alla politica fin dal liceo, quando aderisce ad Azione studentesca, il movimento di An. Pur provenendo dal quartiere della Balduina frequenta la sede della Garbatella del partito, la stessa in cui la premier, di 9 anni più grande, ha iniziato la sua militanza. 

La carriera politica è rapidissima. Prima segretaria di sezione, poi, a 23 anni, Colosimo viene eletta presidente regionale del movimento giovanile del Pdl, Giovane Italia. La prima esperienza nelle istituzioni è del 2010, quando si candida alle elezioni regionali del Lazio nel listino che sostiene Renata Polverini e viene eletta. Aderisce a Fratelli d’Italia nel 2012, cioè nel momento in cui il partito nasce dalla scissione dal Pdl, e ne diventa dirigente nazionale. Candidata alle elezioni politiche del 2013, e contemporaneamente alle regionali del Lazio, non viene eletta. Torna invece in Consiglio regionale, all’opposizione, nel 2018. 

Alle ultime elezioni politiche, a settembre scorso, approda alla Camera. La neodeputata è considerata una delle persone più vicine alla premier alla quale, il giorno del voto, ha rivolto queste parole:  «Sei pronta, e poi guardaci qui, noi ci fidiamo di te. E tu, no, non ci deluderai».

Di Colosimo si è occupata la trasmissione di Raitre Report ricostruendo un rapporto con l’ex estremista nero dei Nar, Luigi Ciavardini, condannato per diversi atti di terrorismo, inclusa la strage di Bologna, e un legame con l’associazione che si occupa di recupero e reinserimento dei detenuti, «Gruppo idee», presieduta dalla moglie di lui, Germana De Angelis. 

La deputata ha respinto la tesi di un’amicizia con Ciavardini: «Ho semplicemente espletato, nelle mie funzioni di consigliere regionale, quello che mi era concesso e che era anche dovuto cioè incontrare anche persone che sono state o sono detenute». 

Nei giorni scorsi alcuni familiari delle vittime, come il fratello di Peppino Impastato, Giovanni, Salvatore Borsellino, fratello di Paolo e i presidenti delle tre associazioni di familiari delle vittime delle stragi di piazza della Loggia, Piazza Fontana e stazione di Bologna, hanno scritto una lettera aperta contro l’indicazione di Colosimo alla guida della commissione parlamentare antimafia: «Siamo sbigottiti, Colosimo avrebbe giganteschi conflitti di interessi».

L'opposizione e le inchieste sui rapporti con le associazioni di detenuti: "Con Ciavardini rapporto istituzionale". Antimafia, Chiara Colosimo presidente più forte della gogna: accordo Pd-5Stelle per Cafiero De Raho e Barbagallo. Redazione su Il Riformista il 23 Maggio 2023 

Eletta tra le polemiche dell’opposizione che rientrano nell’aula presente a Palazzo San Macuto solo per eleggere i vicepresidenti. Chiara Colosimo è la nuova presidente della commissione parlamentare Antimafia. La deputata di Fratelli d’Italia ha raccolto 29 voti e al raggiungimento del quorum i parlamentari hanno applaudito mentre Partito democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra hanno lasciato l’aula. Quattro preferenze sono andate a Dafne Musolino del gruppo Autonomie (votata dal Terzo Polo) e c’è stato anche un astenuto. I voti del solo centrodestra sulla carta erano 30 ma uno di loro risulta assente.

Eletti vicepresidenti Mauro D’Attis di Forza Italia con 29 voti (quelli della maggioranza) e Federico Cafiero De Raho del Movimento 5 Stelle (salta dunque l’ipotesi Roberto Scarpinato) che raccoglie 13 voti, ovvero quelli di Pd, M5S e AVS. Eletti segretari, infine, Antonio Iannone di Fratelli D’Italia e Anthony Barbagallo del Pd: 30 i voti per Iannone e 13 quelli per Barbagallo. Quattro le schede bianche.

Il primo pensiero della neo presidente è per Giovanni Falcone, nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci: “Rivolgo il primo pensiero a Giovanni Falcone, nell’anniversario della strage di Capaci in cui perse la vita insieme alla moglie Francesca Morvillo, magistrato anche lei, e alla sua scorta composta da Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. E alle vittime di tutte stragi,di stampo mafioso e terroristico”. Colosimo torna sulle polemiche delle scorse ore relative alla conoscenza con l’ex Nar, nuclei armati rivoluzionari, Luigi Ciavardini: “Io non ho amicizie. Ho semplicemente espletato, nelle mie funzioni di consigliere regionale, quello che mi era concesso e che era anche dovuto e cioè incontrare anche persone che sono state o sono detenute. Conosco il presunto Ciavardini, esattamente come lo conoscono moltissimi altri eletti di altre appartenenze politiche, poiché lui è in un’associazione che si occupa, come da articolo 27 della Costituzione, del reinserimento di altri detenuti nel momento in cui hanno scontato le loro pene”. Colosimo, 37 anni il prossimo 2 giugno, ha iniziato la sua carriera politica prima in Alleanza Nazional, poi Fratelli d’Italia, passando dal Consiglio comunale di Roma, dove è approdata durante la giunta Alemanno, al Consiglio regionale del Lazio, fino al Parlamento.

Le polemiche sollevate dall’opposizione e relative alla vicinanza con Ciavardini, colpevole di prodigarsi in un’associazione che aiuta i detenuti e gli ex detenuti, partono da una inchiesta giornalistica di Report. Per il senatore dem Walter Verini, la sua elezione “rappresenta uno schiaffo che la commissione e questo Paese non meritavano”. Per Verini, i partiti della maggioranza “hanno dimostrato sordità e chiusura” alle richieste delle opposizioni che chiedevano un altro nome per la presidenza salvo poi accordarsi per dividersi vicepresidenza e segretario.

Una “spartizione” che ha lasciato Azione e Italia Viva fuori dall’accordo. “Pd e M5S si sono divisi i ruoli e porteranno a casa un segretario e un vice presidente. Non entro nel merito dei nomi, ma hanno stretto un accordo senza coinvolgere noi e anche se Cafiero De Raho è un nome di tutto rispetto, io per i vicepresidenti e i segretari ho votato scheda bianca”, spiega Raffaella Paita di Italia Vita. Malumori anche all’interno dello stesso Partito democratico con alcuni parlamentari che lamentano – secondo quanto riferisce l’Agi, che “non c’è stata alcuna condivisione della scelta. Se ci avessero interpellato, forse, qualcuno avrebbe fatto presente che non era il caso di uscire dall’Aula. In fondo siamo rimasti a votare anche con Nicola Morra”.

5 Stelle alleato più credibile della destra. L’asse di ferro Meloni-Conte, all’Antimafia la coppia Colosimo-Scarpinato: se tre indizi fanno una prova…Valeria Cereleoni su Il Riformista il 21 Maggio 2023 

Frenetica giornata di incontri nei palazzi romani per decidere chi guiderà la Commissione Antimafia. Martedì prossimo infatti si riunirà per la prima volta la Commissione e si eleggerà l’Ufficio di Presidenza. Ma se è certa la nomina di Chiara Colosimo, su cui il direttore del nostro quotidiano Andrea Ruggieri ha scritto venerdì, oggi l’attenzione si sposta sulla vicepresidenza.

E anche se non è detta l’ultima parola avanza una ipotesi sorprendente. Pur di difendere la candidatura della Colosimo, attaccata in modo molto duro soprattutto da alcuni organi di informazione come Report e Repubblica, Fratelli d’Italia si starebbe preparando all’ennesimo accordo più o meno sotterraneo con il Movimento Cinque Stelle. Colosimo otterrà agevolmente i voti necessari all’elezione. Ma ciò che sorprende è il nome che Conte avrebbe in mente di proporre come vicepresidente. Si tratta di Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo, e attaccato duramente anche dal Riformista per l’approccio giustizialista e per la trattativa Stato Mafia. Sul nome di Scarpinato, ovviamente, larga parte della destra nicchia. E anche dentro il Movimento crescono i sussurri di chi preferirebbe una scelta meno divisiva.

Ma la sostanza politica è molto chiara. I Cinque Stelle si confermano l’alleato più credibile della destra di governo su tutte le partite istituzionali. Al momento dell’elezione degli uffici di presidenza di Camera e Senato, infatti, i grillini avevano fatto il pieno prendendo due posti in più del Partito Democratico e lasciando a bocca asciutta il Terzo Polo.

Sulla vicenda della Vigilanza si era scritto a lungo: in tanti sostenevano che l’elezione di La Russa a Palazzo Madama fosse stata benedetta anche da una parte dei riformisti pur di ottenere per Italia Viva o Azione la presidenza della Commissione che controlla la Rai. Al netto di semplici questioni numeriche (La Russa ha infatti ottenuto molti più voti di quelli della maggioranza e dell’intero Terzo Polo, segno che ha raccolto diversi consensi anche in casa grillina o dem), il punto politico è che la Vigilanza è poi andata nelle mani della senatrice Barbara Floridia, già presidente dei senatori del Movimento Cinque Stelle.

Che ci sia un asse privilegiato tra Meloni e Conte è dimostrato poi dalla rocambolesca elezione di Alfonso Bonafede al Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Contro Bonafede si sono espressi i parlamentari del Pd e del Terzo Polo ma sul suo nome si è registrata – per di più a scrutinio segreto – la convergenza tra la maggioranza e i grillini con buona pace delle tante polemiche del passato.

Non sappiamo se tre indizi fanno una prova. Ma certo sono il segnale di una relazione speciale che collega l’attuale inquilina di Palazzo Chigi con uno dei suoi predecessori, l’avvocato foggiano, attuale leader grillino. Scarpinato riuscirà a mettere tutti d’accordo? Possibile ma non ancora certo. Su di lui pesano soprattutto le polemiche legate alla trattativa stato mafia, ma anche come scritto qualche giorno fa su questo giornale da Paolo Pandolfini le rivelazioni di Luca Palamara contenute nel suo ultimo libro denuncia sulla magistratura e inerenti i legami tra lo stesso Scarpinato e l’industriale siciliano Antonello Montante, già eroe dell’antimafia e poi condannato non ancora in via definitiva per associazione mafiosa. E in ogni caso i rapporti tra Conte e Scarpinato non sono più quelli di inizio legislatura.

Radio Movimento Cinque Stelle sussurra di tensioni che peraltro l’ex magistrato non ha nascosto quando si è stupito di alcune dichiarazioni di Conte. E ha detto: “Pensavo che il Movimento Cinque Stelle fosse di sinistra”. Non crediamo che la cosa abbia turbato il sonno del Giuseppi nazionale se è vero come è vero che egli è abituato a passare con disinvoltura dalla orgogliosa firma dei decreti Salvini all’alleanza con Fratoianni e compagni. Ma anche questo segnale dice che la partita non è chiusa. Fino a tarda serata ieri i telefoni delle opposizioni ribollivano per capire se davvero i Cinque Stelle otterranno anche questa vicepresidenza e se la destra accetterà persino il nome di Scarpinato. Martedì pomeriggio il voto a San Macuto metterà fine alla lunga assenza della Commissione Antimafia. E vedremo se nascerà la strana coppia Colosimo-Scarpinato in rappresentanza dell’asse di ferro Meloni-Conte. Valeria Cereleoni

Bocchino travolge la sinistra: "Perché hanno paura della Colosimo". Libero Quotidiano il 23 maggio 2023

"Clamoroso che Chiara Colosimo diventi presidente della Commissione Antimafia! Con i suoi rapporti...". A Otto e mezzo va in scena il processo alla meloniana neo-eletta nonostante l'assenza dei membri dell'opposizione per protesta. La Colosimo infatti viene accusata da Pd e M5s di aver avuto contatti con il terrorista di estrema destra dei Nar Ciavardini, condannato anche per la strage di Bologna.  "Tutti sanno che i neri spesso hanno collaborato con i mafiosi per far fuori magistrati, giornalisti, mettere bombe", sottolinea Antonio Padellaro, firma del Fatto quotidiano, ospite di Lilli Gruber negli studi di La7.

Parole che scatenano la reazione di Italo Bocchino: "Quando la maggioranza è di centrodestra, l'opposizione di sinistra vuole spiegare al governo cosa deve fare. Padellaro ci ha detto che la Colosimo non è adatta, ma ancora non ha cominciato... Siamo al pregiudizio, la cosa peggiore tanto più nei confronti di una donna e di una giovane. La Colosimo non è amica di Ciavardini, ha partecipato a un convegno in una sala del Consiglio regionale del Lazio, con il patrocinio del Consiglio a guida Pd, insieme al vicepresidente regionale Massimiliano Smeriglio della Sinistra e a Marta Bonafoni, oggi coordinatrice della segreteria Pd di Elly Schlein. Il presidente della Commissione antimafia va giudicato per quello che farà".

Padellaro e Monica Guerzoni del Corriere della Sera parlano di "opportunità" e Bocchino esplode: "Sapete perché fa paura la Colosimo? Perché è quella che ha tirato fuori lo scandalo dei 14 milioni di euro di truffa che la sinistra nella Regione Lazio si è fatta fare sotto al naso, è quella che ha portato le carte in Procura, ha fatto  interrogazioni a cui Zingaretti e Pd non hanno voluto nascondere. La Colosimo fa paura in quel posto perché ha lottato sempre per la trasparenza e la legalità".

Gli Antimafiosi.

Antonio Giangrande: Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi.

Antonio Giangrande 

Antonio Giangrande: Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Lettera al Direttore. Se questa è antimafia…di Antonio Giangrande.

In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale.

Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposti a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate.

L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione?

E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile?

E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi?

La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere.

La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…

Allora niente è mafia.

E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

*Antonio Giangrande ha scritto dei saggi sulla Mafia. (Mafiopoli; La Mafia dell’Antimafia; Castopoli; Massoneriopoli; Impunitopoli.)

Antonio Giangrande: Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo. La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

Antonio Giangrande: “Un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.” Antonio Giangrande dal libro “L’Italia allo specchio. Il DNA degli italiani”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".

Antonio Giangrande: La mafia, conviene, ma non esiste. O almeno come oggi ce la propinano.

Cosa è la legalità?

La legalità è ogni comportamento difforme da quanto previsto e punito dalla legge. Si parla di comportamento e non di atteggiamento. Con il primo si ha un’azione o omissione, con il secondo vi è neutralità senza effetti. Per quanto riguarda la legge c’è da dire che un popolo di “coglioni” sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie.

Cosa significa comportamento mafioso?

Prendiamo per esempio il nostro modo di chiamare i prepotenti violenti che vogliono affermare la loro volontà: diciamo “so’ camburristi”, ossia: sono camorristi. Quindi mafia significa prepotenza.

Contro il “Subisci e Taci”. Il dettato normativo. L. 13 settembre 1982 n. 646 (Rognoni-Latorre) L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

Mafia: Nascita ed evoluzione.

Il fenomeno delle organizzazioni criminali in tutta Italia prendevano il nome di Brigantaggio. La struttura era orizzontale con nuclei locali autonomi ed indipendenti.

In tutto il Sud Italia con l’unificazione e l’occupazione Sabauda, se prima il brigantaggio ha favorito l’ascesa di Garibaldi, successivamente è diventato un piccolo esercito partigiano di liberazione di piccola durata 1860-1869. La struttura orizzontale è rimasta, ma si formò una sorta di coordinamento. Se da una parte vi fu la soppressione del brigantaggio politico meridionale, dall’altra parte in Sicilia si sviluppò il fenomeno di Cosa Nostra e del separatismo.

Mafiosi erano i potentati locali, sia essi amministratori periferici dello Stato, sia i latifondisti o potentati economici. Il loro braccio armato erano i componenti delle famiglie locali più pericolose e numerose. La mafia ha agevolativo di eventi storici: lo sbarco dei mille di Garibaldi, che ha permesso l’invasione dell’Italia meridionale da parte dei settentrionali; lo sbarco degli Alleati che ha agevolato la cacciata dei tedeschi.

La strage della portella della Ginestra a Palermo si deve ricondurre ad un tentativo di ristabilire l’ordine che veniva turbato da manifestazioni sindacali. Il fenomeno mafioso nel centro-nord Italia non era sviluppato, perché il Potere era molto più vicino alle periferie ed il controllo era più stringente.

Quel potere si sosteneva con le estorsioni, le mazzette, giochi d’azzardo e prostituzione, l’abigeato ed il furto di frutti o di bestiame. L’affare della droga verrà successivamente.

Il sistema mafioso aveva una struttura orizzontale, sia in Sicilia, sia in Calabria, sia in Campania e nel resto del Sud Italia. La Stidda e Cosa Nostra, la ‘Ndrangheta, La Sacra Corona Unita, i Basilischi, la Camorra, la Società foggiana.

Cosa Nostra, in Sicilia, rispetto alla Stidda, era il braccio armato dei potentati locali: al servizio della politica e dell’economia. Il Clan dei Corleonesi era una fazione all’interno di Cosa Nostra formatasi negli anni settanta, così chiamata perché i suoi leader più importanti provenivano dalla famiglia di Corleone: Luciano Liggio, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella. Cosa Nostra aveva struttura piramidale.

La Camorra, in Campania, da sodalizi criminali locali strutturati in linea orizzontale, agevolati dalla scarsità di risorse rispetto alla demografia del territorio, ha avuto un incremento con l’avvento di Raffaele Cutolo (Nuova Camorra Organizzata) con l’influenza e la supervisione di Cosa Nostra e ‘Ndrangheta. Con il culto della personalità degli esponenti delle fazioni in lotta la Camorra prende una struttura verticistica.

La Camorra influenzerà la Società Foggiana a struttura orizzontale.

La mafia pugliese e la mafia lucana, invece, sono creature delle famiglie calabresi.

Il sistema statale di contrasto.

Se dal Regno Sabaudo fino al Fascismo la magistratura era sotto l’egita governativa, con l’avvento della Repubblica i Magistrati sono sotto effetto politico.

La lotta al brigantaggio era più che altro una lotta politica contro gli oppositori della monarchia Sabauda ed impegnava tutte le risorse governative. In tal senso la criminalità comune e disorganizzata ne veniva avvantaggiata. Da sempre c’è stato il problema della sicurezza. Già oggi noi riscontriamo il problema della sicurezza. In caso di reati diffusi e ritenuti a torto bagatellari (furti, aggressioni, minacce, ingiurie, ecc.). Figuriamoci nei tempi andati, dove la struttura amministrativa aveva maglie molto più larghe e meno capillari, specialmente nei territori più remoti e lontani dal Centro del Potere. Se oggi abbiamo pochi agenti delle forze di polizia, figuriamoci allora. In questi territori lontani dal controllo burocratico il potere del Governo era affievolito perché non poteva contare su risorse adeguate di mezzi e persone. Ciò arrecava anarchia e corruzione, dove il prepotente, spesso al soldo dei ricchi, la faceva da padrone. In queste terre lontane si commettevano abusi e violenze di ogni specie, specie nei campi, lontani da occhi indiscreti. La mancanza di prove o la complicità delle istituzioni locali produceva impunità. L’impunità creava omertà.

Nella stessa America, nel Far West, per esempio si assoldavano pistoleri, spesso loro stessi criminali, per incutere rispetto al ruolo, al fine di affermare l’Ordine e la Sicurezza.

In Italia le terre più remote erano la Sicilia e la Calabria. In questi territori il rispetto, la sicurezza e l’ordine era delegata dai rappresentanti dello Stato o dai latifondisti a gruppi di cittadini, che oggi potremmo chiamare “vigilanza o ronda privata”. A questi, spesso galeotti o criminali, veniva riconosciuta una sorta di impunità dei loro crimini, nel nome dell’interesse comune.

Gli affari della Mafia.

L’attività criminale del Brigantaggio era fondata da rapine, estorsioni, furti. giochi d’azzardo e prostituzione, l’abigeato ed il furto di frutti o di bestiame.

La loro struttura solidale portava intimidazione e quindi soggezione ed omertà.

Poi è arrivata il traffico di droga ed armi, lo smaltimento di rifiuti illeciti e la tratta degli esseri umani. E cosa più importante sono arrivati gli appalti pubblici: la mafia-appalti.

L’Evoluzione della Mafia. Da coppola e lupara a penna e calcolatrice.

Nel 1950 Il Governo De Gasperi istituì La Cassa per il Mezzogiorno, ossia un fondo per finanziare lo sviluppo del meridione. Con questo strumento finanziario si ebbe la scissione tra mente e braccio armato della gestione criminale della cosa pubblica. E di conseguenza si ebbe una dicotomia del sistema mafioso tra armato e colletti bianchi. In Sicilia la struttura capillare territoriale rimase con il nome “Stidda”. Al contempo nella zona di Palermo, partendo da Corleone, si impose una struttura piramidale chiamata “Cosa Nostra” che si espanse in Italia e nel mondo. Avere a che fare con un singolo capo dei capi, era più comodo che interloquire con centinaia di capetti. Ora la gestione del potere non era più improntata sulla gestione del territorio e la commissione di reati comuni, ma sui flussi finanziari del denaro che servivano per lo sviluppo del Sud Italia. La gestione illecita di quei flussi, inoltre non era prevista e punita come illegale da nessuna norma. Quella mafia era perseguita con l’art.416 c.p.

La mafia appalti aveva appetiti enormi ed aveva tante bocche: La politica, la Massoneria deviata, le caste e le lobby. Queste componenti avena la mafia come braccio armato.

L’evoluzione dell’attacco al sistema.

Con l’avvento degli anni 80 si ebbe il salto di qualità. La torta di Mafia Appalti non era più distribuita in modo equitativo. Cominciarono a cadere le vittime eccellenti, ossia gli uomini dello Stato con alte cariche.

Lo Stato rispose con la Legge antimafia Rognoni-La Torre. Negli anni 90 si ebbe il periodo stragista.

Il Periodo Stragista e la morte di Falcone e Borsellino.

Fino a che non si è toccato il potere politico istituzionale e fino a Mani Pulite, cioè fino al tentativo di coinvolgere il PCI nelle malefatte politiche di Tangentopoli, il fenomeno mafioso rimaneva sottaciuto.

L’originale famiglia numerosa, pericolosa e prepotente territoriale, è sostituita da una famiglia più allargata: quella dei partiti che si finanziano con i fondi illeciti perché destinate per altre finalità. Questo per perpetuare il potere e le poltrone.

La gestione dell’ingente flusso di risorse finanziarie statali destinate al Sud era in mano alla politica (meno il MSI): Da Roma di decideva a chi destinare i fondi. La politica locale amministrava quei fondi. Tutti erano coinvolti.

Probabilmente il Pci, nella suddivisione della torta, era meno favorito della DC, al governo da sempre, a Roma come in Sicilia, per questo Berlinguer nel 1981 parlo di Questione morale.

Giovanni Falcone con il nuovo 416 bis c.p. istruì il Maxi Processo. Ma di questo enorme flusso di denaro se ne era accorto, come si era accorto, anche, che la faccia della mafia era cambiata. Il potere dalla Coppola e la Lupara di gente ignorante, era passato in mano ai colletti bianchi. I colletti bianchi rappresentavano i poteri dello Stato: la politica che gestiva il denaro; l’economia che riciclava quel denaro; la magistratura che insabbiava le notizie di reato. Per questo Falcone diceva che per sconfiggere la mafia bisognava seguire i soldi: quelli della Cassa del Mezzogiorno, in seguito quelli dei fondi europei. E per questo nacque la collaborazione con Antonio Di Pietro a Milano. Ma Falcone diceva anche un’altra cosa che ai magistrati dava molto fastidio perché lesiva delle loro prerogative: creare un’entità nazionale che potesse far applicare la legge in quei porti delle nebbie che erano i palazzi di giustizia.

Quell’essere diverso è costata cara a Giovanni Falcone. Su quei soldi non si doveva indagare. Il fatto che Falcone potesse avere un più alto grado di Responsabilità e Potere nei palazzi romani era osteggiato da tutti, specialmente dalla sinistra e da quei magistrati di riferimento. Falcone, che con quel ruolo al Ministero della Giustizia, aveva fatto nascere la Procura Nazionale Antimafia, era da calunniare e denigrare. Lo stesso Leoluca Orlando, “eterno” sindaco di Palermo ed esponente di quella sinistra della Dc, poi tramutata in La Rete, è stato il più acerrimo nemico di Giovanni Falcone con i suoi molteplici esposti penali contro il magistrato. L’inchiesta “Mafia appalti”, assolutamente non si doveva fare. O lo si fermava con le calunnie. O lo si fermava in alto modo.

Il Penta Partito acquisiva ed impiegava i fondi illeciti Italia su Italia. Il Pci li acquisiva e li inviava a Mosca. Qui le somme di denaro si convertivano in Rubli, ed in questa forma rientravano come finanziamenti leciti dall’Urss che li riciclava e li lavava. Finanziamenti ignorati dal Pool di Milano

Agli inizi del 1992 inizia Mani Pulite. Al Penta Partito ci pensa il Pool di Mani Pulite di Milano, che sui rubli del PCI rimane inattivo, ma che, sicuramente, Falcone non avrebbe avuto remore ad andare avanti, o chi per lui, anche attraverso gli incarichi ministeriali. Ma non doveva.

Infatti il 23 maggio 1992 con la sua morte la pista dei rubli di Mosca si ferma definitivamente.

Con la morte di Falcone e di Paolo Borsellino, che sicuro ne avrebbe proseguito le orme, il Pci è uscito indenne dal ciclone di Mani Pulite, dove addirittura la Lega ha pagato lo scotto.

E l’immagine del Pci è rimasta illibata a scanso di tutte le inchieste. Quelle inchieste in cui gli investigatori hanno trovato candidatura nei partiti da loro inquisiti, o comunque alleati: Di Pietro, Emiliano, Maritati.

Gli affari dell’antimafia.

Con la Morte di Falcone e Borsellino gli affari della mafia sono diventati affari dell’antimafia.

L’apparato statale in mano alla sinistra: Le istituzioni, i media, la cultura, l’associazionismo e il sindacalismo hanno impiegato tutto il loro impegno nella propaganda, sfruttando al meglio la possibilità di finanziarsi economicamente con il business dell’antimafia.

Oggi con le leggi del Cazzo si attua quell’espropriazione proletaria che ha sempre ispirato il Pci (tu sei ricco perché sei mafioso ed hai rubato), ma il meridione paga un danno enorme, perché in nome della lotta alla mafia si lede la libera concorrenza. Perché il meridionale è mafioso a prescindere, ovunque esso sia.

Nel nome della lotta antimafia l’azienda meridionale non può lavorare perché se si ha sentore di mafiosità scatta l’interdittiva antimafia. Anche sol perché si ha un parente lontano ritenuto mafioso o un dipendente vicino o con parenti vicini ad esponenti mafiosi.

Nel nome dell’antimafia si sequestrano i beni di imprenditori ritenuti mafiosi da indagini aperte per delazione di pentiti fasulli. Imprenditori che alla fine risultano innocenti. Ciò nonostante quei beni vengono confiscati.

Nel nome dell’antimafia gli appalti tolti alle aziende meridionali (cessate o interdette) vanno a finire per lo più assegnati alle Cooperative Rosse, ed in minima parte ad altre aziende settentrionali.

Oggi con le leggi del Cazzo la sinistra ha pensato bene di finanziare la sua attività politica e di propaganda anche con attività extraeconomiche. Lo stesso Sciascia nel 1987 puntava il dito sui professionisti dell’antimafia.

Oggi ci ritroviamo Libera ad essere il collettore monopolista di tutte le associazioni antimafia prefettizie che costringono i loro assistiti alla denuncia, per non essere cancellati, da cui scaturisce il business delle costituzioni di parti civili e dei beni sequestrati e confiscati.

Oggi ci ritroviamo Libera ad avere il monopolio della gestione dei beni sequestrati e confiscati ai cosiddetti mafiosi o presunti tali. Gestione oltretutto sostenuta con progetti e fondi finanziati dallo Stato.

Oggi ci ritroviamo apparati giudiziari ed associativi che

Perché si è Sciasciani.

Prima degli anni ‘80 a dare carattere di mafiosità al sistema criminal-burocratico vi era solo un grande conoscitore della questione: il comunista Leonardo Sciascia. Sciascia con il suo “Il Giorno della Civetta” suddivideva la realtà contemporanea in “uomini (pochi) mezzi.

Tutte le mafie. Oggi l’originale famiglia numerosa, pericolosa e prepotente territoriale, con la coppola e la lupara, è sostituita da una famiglia più allargata e dalla faccia pulita:

Quella dei partiti che continuano a finanziarsi non più con fondi illeciti, ma con fondazioni.

Quella delle caste e delle lobby, composte da ordini, collegi, e gruppi economici, che per pressione elettorale inducono a legiferare per i loro tornaconti

Quella delle Massonerie deviate, i cui componenti, portatori di interessi lobbistici e di gruppi economici finanziari, influenzano le scelte politiche nazionali e locali.

Queste entità spostano l’attenzione, attraverso i media a loro asserviti su falsi problemi.

Il Caporalato. Parlano di caporalato, tacendo sullo sfruttamento addirittura del magistrati onorari, ricercatori universitari, praticanti e portaborse parlamentari.

L’Usura ed i fallimenti truccati. Parlano di Usura, tacendo su quella bancaria e quella di Stato e sui fallimenti truccati e sulle aste truccate.

gestiscono in modo approssimativo ed amicale i beni sequestrati e confiscati ai cosiddetti mafiosi.

Le mafie in Italia. In questo stato di cose oggi ci troviamo ad avere oltre le nostre mafie bianche e nere, anche le mafie di importazione: nigeriana, cinese, albanese, rumena, russa, ecc.

Oggi intanto gli arroganti saccenti col ditino alzato continuano a menarla con “avversario politico = ignorante-mafioso.

Antonio Giangrande: La liturgia antimafia.

«Da presidente nazionale di una associazione antimafia è una vergogna non essere invitati ad alcuna celebrazione istituzionale o scolastica dedicata ai martiri della mafia: tra cui Falcone e Borsellino. Questo pur essendo il massimo esperto della materia. Questo perché noi non seguiamo la logica nazionale delle celebrazioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, specialmente fatta da chi ne ha causato la morte. Perché non ci associamo alla liturgia di questa antimafia che poi è forse solo propaganda. Si farebbe cosa nobile, invece, svelare la verità sulla loro morte e disincentivare tutti quei comportamenti socio mafiosi che inquinano la società italiana. Come si farebbe onore alla verità svelare chi e come paga l’andabaran di carovane e carovanieri. In riferimento all’attentato di Brindisi ed a tutte le manifestazioni di esaltazione di un certo modo di fare antimafia di parte e di facciata, denuncio l’ipocrisia di qualcuno che suggestiona e manipola la mente dei giovani per indurli ad adottare comportamenti miranti a promuovere una verità distorta su chi e come fa antimafia» Questa è la denuncia del Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale de “L’Associazione Contro Tutte le Mafie”. «Brindisi e Mesagne e l’intero Salento sono diventate tutto d’un tratto terra di mafia e di mafiosi e per gli effetti sono diventate palco promozionale per carovane e carovanieri proveniente da ogni dove, da cui noi prendiamo assolutamente le distanze. Mesagne e Brindisi e tutto il Salento non hanno bisogno di striscioni in sparute manifestazioni o di omelie religiose per fare ciò che deve essere fatto: sia in campo istituzionale, sia in campo sociale. Gli studenti, con la mente vergine ed aperta, non devono essere influenzati da falsi pedagoghi catto-comunisti, sostenuti da sindacati e movimenti di sinistra, che inducono a falsi convincimenti di tipo ideologico. La lotta alla mafia è un’altra cosa: è conoscenza senza censura ed omertà scevra da giudizi preconcetti».

Antonio Giangrande: Gli impresentabili e la deriva forcaiola.

Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…

La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!

L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.

Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.

Questo perché: chi si loda, si sbroda!

Le liste di proscrizione sono i tentativi di eliminare gli avversari politici, tramite la gogna mediatica, appellandosi all'arma della legalità e della onestà. Arma brandita da mani improprie. Ed in Italia tutte le mani sono improprie, per il sol fatto di essere italiani.

Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto.

"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". (art. 49 della costituzione italiana). Alle amministrative del 31 maggio 2015 gli elettori saranno aiutati dalla commissione parlamentare antimafia che ha presentato una lista di impresentabili, spiega Piero Sansonetti. Cioè un elenco di candidati che pur in possesso di tutti i diritti civili e politici, e quindi legittimati a presentarsi alle elezioni, sono giudicate moralmente non adatte dai saggi guidati da Rosy Bindi. Le liste di proscrizione furono inventate a Roma, un’ottantina di anni prima di Cristo dal dittatore Silla, che in questo modo ottenne l’esilio di tutti i suoi avversari politici. L’esperimento venne ripetuto con successo 40 anni dopo da Antonio e Ottaviano, dopo la morte di Cesare, e quella volta tra i proscritti ci fu anche Cicerone. Che fu torturato e decapitato. Stavolta per fortuna la proscrizione sarà realizzata senza violenze, e questo, bisogna dirlo, è un grosso passo avanti. La commissione naturalmente non ha il potere – se Dio vuole – di cancellare i candidati, visto che i candidati sono legalmente inattaccabili. Si limita a una sorta di blando pubblico linciaggio. Un appello ai cittadini: «Non votate questi farabutti».

Ed i primi nomi spifferati ai giornali sono pugliesi.

Ma chi sono i 4 candidati impresentabili pugliesi, quelli che, in base al codice etico dei loro partiti o dei partiti al cui candidato sono collegati non avrebbero potuto presentare la loro candidatura?

Attenzione! Siamo di fronte al diritto di tutti i candidati ad essere considerati persone perbene fino all’ultimo grado di giudizio.

Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile, secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali.

Il primo è l’imprenditore Fabio Ladisa della lista «Popolari con Emiliano» che appoggia il candidato del Pd ed ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. La Commissione precisa che «è stato rinviato a giudizio per furto aggravato, tentata estorsione (e altro), commessi nel 2011, con udienza fissata per il 3.12.2015». Imputato, non condannato.

Con Schittulli c'è Enzo Palmisano, medico, accusato per voto di scambio (anche se poi il procedimento era andato prescritto). Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

Con Schittulli c'è Massimiliano Oggiano, commercialista, della lista «Oltre» (per lui accuse attinenti al 416 bis e al voto di scambio con metodo mafioso, è stato assolto in primo grado e pende appello, la cui udienza è fissata per il 3 giugno 2015). Assolto, quindi innocente.

Giovanni Copertino, ufficiale del corpo Forestale in congedo, accusato di voto di scambio (anche se poi era stato tutto prescritto, contro tale sentenza pende la fase di appello ), consigliere regionale Udc è in lista invece con Poli-Bortone. Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

C’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale. Vittima, anch'egli di una legge sclerotica voluta dai manettari. Legge che ha colpito proprio loro, i forcaioli, appunto Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, e Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e già dell’IDV di Antonio Di Pietro. Sospesi per legge, ma coperti temporaneamente dal Tar. Tar sfiduciato dalla Cassazione che riconosce il potere al Tribunale.

Con le liste di proscrizione si ha un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità, spiega Mattia su “Butta”. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione. Non una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone degli impresentabili qualcuno macchiato del reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, non ci sarebbero state elezioni...

Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi.

Forse non si percepisce la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, ossia una istituzione che avrebbe ben altro da fare, come cercare la mafia nell’antimafia, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni.

In questo modo avremo come impresentabili tutti quelli indicati da Filippo Facci.

1) Quelli condannati in giudicato;

2) No, quelli condannati in Appello;

3) No, quelli condannati in primo grado;

4) Basta che siano rinviati a giudizio;

5) Basta che siano indagati;

6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione;

7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza);

Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile;

9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale;

10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario;

11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano;

12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra";

13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili;

14) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali;

15) Sono i voltagabbana;

16) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

E così sia.

Processo Montante, i giudici "Sostenuto da politici e istituzioni". Report Rai 21 novembre 2023

“Era l’uomo potente che poteva garantire la possibilità di ottenere sostegno e favori”. Con queste parole la Corte d’Appello di Caltanissetta descrive, nelle motivazioni della condanna a 8 anni di reclusione in carcere, l’ex paladino antimafia e leader di Confindustria Sicilia, Antonello Calogero Montante. In primo grado erano stati chiesti 14 anni.

Montante è stato condannato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, accesso abusivo al sistema informatico: “Ha approfittato di opportunità che avrebbe potuto perseguire per coltivare ambizioni, interessi particolari e al contempo anche valori civici e obiettivi ideali, invece le ha piegate per pratiche di natura illecita”, si legge ancora nelle oltre 400 pagine di motivazione della sentenza d’Appello.

Report nel 2018, con l’inchiesta di Paolo Mondani “Codice Montante”, aveva portato alla luce il sistema di potere, fatto di ricatto, mistificazione e segreti, che aveva trasformato un costruttore di ammortizzatori e biciclette in uno degli uomini più potenti del nostro Paese. Montante era accusato di aver creato un “governo parallelo” in Sicilia per gestire la spartizione dei fondi alle imprese, e disporre delle carriere di politici e uomini delle istituzioni. Aveva inoltre creato una rete di spionaggio per ottenere informazioni riservate. Fra loro, uomini dei servizi, delle istituzioni e investigatori in prima linea nella lotta alle mafie.

Il processo a Calogero Montante, l’ex meccanico con il vizietto di spiare. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 05 dicembre 2023

Colpevole lui e soltanto lui, tutti i suoi complici già “graziati” o prossimamente fuori da un processo che non è mai veramente decollato. Alla fine pagherà il conto solo il personaggio che sembrava al vertice di un “sistema” ma che in realtà era un burattino, una marionetta agitata da qualcun altro...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado sul processo Montante

Un'indagine difficile e pericolosa. E un dibattimento lungo, troppo lungo, con raffiche di prescrizioni per imputati eccellenti. Nonostante pesantissime condanne (con rito abbreviato in primo grado a quattordici anni di carcere e in appello a otto anni per associazione a delinquere e dossieraggio), il suo processo si sta rivelando uno dei tanti fallimenti della giustizia italiana. Colpevole lui solo e soltanto lui, Calogero Antonio Montante in arte Antonello, ex vicepresidente di Confindustria, un siciliano che era “nel cuore” di un boss di Costa Nostra ma che è diventato comunque un faro dell'Antimafia nel nostro paese.

Colpevole lui e soltanto lui, tutti i suoi complici già “graziati” o prossimamente fuori da un processo che non è mai veramente decollato. Alla fine pagherà il conto solo il personaggio che sembrava al vertice di un “sistema” ma che in realtà era un burattino, una marionetta agitata da qualcun altro. Con intorno ministri dell’Interno come Annamaria Cancellieri e Angelino Alfano, alti magistrati, generali dei carabinieri e della finanza, questori e prefetti, direttori centrali e periferici della Direzione Investigativa Antimafia. E intellettuali, giornalisti, famosi romanzieri, governatori di regione, senatori, esponenti di primo piano della politica nazionale e i soliti approfittatori del sottobosco, maggiordomi e lacchè in gran quantità.

Tutti insieme appassionatamente per almeno una dozzina di anni al fianco di un ex meccanico di paese catapultato nell'olimpo del potere. È la storia di una banda che ha intrallazzato e ricattato, di una “mafia trasparente” (definizione della giudice di primo grado che ha condannato Montante) travestita di legalità.

Da oggi sul nostro Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado, un verdetto che solo parzialmente ridimensiona quello di primo grado e che comunque fa affiorare le molteplici e misteriose “attività“ di Calogero Antonio Montante detto Antonello, l'ex meccanico con il vizietto di spiare amici e nemici. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA

I rapporti tra il Cavaliere di Serradifalco e la “famiglia” degli Arnone. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 05 dicembre 2023

Emerge dalla ricostruzione dei fatti che Antonio Calogero Montante era stato inizialmente indagato in ragione delle plurime dichiarazioni di collaboratori di giustizia che riferivano della sua vicinanza ad esponenti di spicco della "famiglia" mafiosa di Serradifalco, in particolare Paolino Amone e il figlio Vincenzo...

La motivazione della sentenza di primo grado contiene la rassegna dettagliata e completa di tutte le fonti di prova e l'analisi puntuale delle stesse, a conclusione della quale il gup ha ritenuto pressoché integralmente asseverata l'ipotesi di accusa.

LE INDAGINI SUI RAPPORTI DI MONTANTE CON ESPONENTI MAFIOSI

Emerge dalla ricostruzione dei fatti che Antonio Calogero Montante era stato inizialmente indagato in ragione delle plurime dichiarazioni di collaboratori di giustizia che riferivano della sua vicinanza ad esponenti di spicco della "famiglia" mafiosa di Serradifalco, in particolare Paolino Amone e il figlio Vincenzo. Salvatore Ferraro, già affiliato a "cosa nostra" nissena, aveva riferito il 18.5.2016 che Paolino Amone aveva sostenuto e finanziato l'espansione economica di Montante e che il figlio Vincenzo gli aveva fatto da testimone di nozze. Paolino Arnone glielo aveva presentato come "persona a posto" che egli aveva "nel cuore" negli anni 1984-1985.

Aldo Riggi, già esponente di spicco di "cosa nostra" di San Cataldo, aveva riferito il 13 e il 19 marzo 2009 che nei primi anni "90 Montante, con una sua società di cui faceva parte anche il fratello, stava realizzando dei lavori per la costruzione di un palazzo in via Amico Valenti a Caltanissetta e gli aveva commissionato dei lavori di sbancamento e di trasporto materiali.

Improvvisamente però aveva revocato l'affidamento dei lavori di trasporto per darli agli Arnone e alle sue proteste aveva spiegato che erano suoi amici ma anche mafiosi di Serradifalco, che aveva diversi automezzi fermi perché non avevano più commesse dalla miniera di Pasquasia e che alle loro richieste egli non poteva dir loro di no.

Gli accertamenti contabili confermavano questa circostanza e consentivano anche di verificare che nelle liste di clienti della "Autotrasporti Amone" vi erano le società facenti capo a Montante.

Pietro Riggio, già esponente di "cosa nostra" di Caltanissetta, negli interrogatori del 19.12.2008 e del 17.5.2016 aveva riferito di essere stato bloccato da Dario Di Francesco, reggente della "famiglia" di Serradifalco, dopo l'arresto di Vincenzo Arnone, quando aveva manifestato l'intenzione di sottoporre ad estorsione Montante.

Di Francesco gli aveva spiegato che, già nella metà degli anni '90, aveva interceduto presso Totino Riggi per consentire a Montante di eseguire opere edili nel territorio della "famiglia" di San Cataldo senza ricevere richieste estorsive o intimidazioni.

Dario Di Francesco aveva confermato l'interessamento della "famiglia" mafiosa di Serradifalco in favore di Montante per quei lavori, ma 1 'aveva attribuita a Vincenzo Arnone.

Carmelo Barbieri, già esponente mafioso di spicco del clan Emmanuello di Gela e trait d'union con la famiglia del rappresentante provinciale Giuseppe Madonia, nell'interrogatorio del 15.4.2009 aveva riferito di una riunione con Carmelo Allegro, all'epoca capomandamento a Serradifalco, e Luigi Ilardo, nel corso della quale Allegro aveva indicato Antonio Calogero Montante e il padre come amici personali e come tali sostenuti nella loro crescita imprenditoriale.

Ciro Vara, già esponente di vertice della "famiglia" di Vallelunga, nell'interrogatorio del 18.5.2016, aveva pure riferito della vicinanza degli Allegro con Montante.

Ancora Dario Di Francesco, nel!' interrogatorio del 24. 7.2014 e in quello successivo del 17.5.2016, aveva riferito che era stato proprio Vincenzo Amone a perorare l'elezione di Montante a presidente dei giovani industriali di Caltanissetta e in contraccambio Montante avrebbe sostenuto Arnone perché fosse designato come componente del comitato dei "saggi" dell'associazione.

Come emerge dalla ricostruzione del GUP, le indagini avevano preso le mosse da alcune delle dichiarazioni sopra richiamate di collaboratori che già da tempo (tra il 2008 e il 2010) avevano fornito spunti in ordine alla vicinanza di Montante alla "famiglia" mafiosa di Serradifalco.

Peraltro in un precedente procedimento recante n. 636/11 r.g.n.r. e avente altro oggetto, Montante era stato sentito sui suoi rapporti con Vincenzo Amone (cfr. verbale in data 12.11.2011) e aveva mostrato qualche reticenza, pur ammettendolo, in ordine al fatto che costui gli aveva fatto da testimone, quando convolò a nozze con la moglie nel 1980; Montante in quell'occasione aveva sostenuto che non aveva alcuna consapevolezza del ruolo di Arnone nella "famiglia" mafiosa, sostenendo che fino al 2000-2001 non aveva avuto alcun problema con la giustizia. SENTENZA CORTE D'APPELLO

La “discovery” giornalistica sulle trame e gli affari di Antonello. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 06 dicembre 2023

Era poi intervenuta la pubblicazione in data 9.2.2015 di un lungo articolo a firma dei giornalisti Francesco Viviano e Attilio Bolzoni, che rivelava l'esistenza di un procedimento penale in fase di indagini a carico di Montante per il reato di concorso esterno e che dava conto delle prime dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sui quali gli inquirenti stavano lavorando...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado sul processo Montante

Frattanto, tuttavia, Montante aveva assunto posizioni di vertice all'interno di Confindustria di Caltanissetta, ma anche negli organismi associativi di Confindustria regionale e nazionale.

Era poi intervenuta la pubblicazione in data 9.2.2015 di un lungo articolo a firma dei giornalisti Francesco Viviano e Attilio Bolzoni, che rivelava l'esistenza di un procedimento penale in fase di indagini a carico di Montante per il reato di concorso esterno e che dava conto delle prime dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sui quali gli inquirenti stavano lavorando.

Erano in corso operazioni di intercettazione, disposte in quel procedimento, in parte confluite nel presente giudizio e riportate nella sentenza di primo grado. Da esse emergono i commenti alla diffusione di questa notizia.

L'indagine veniva, però, arricchita dalle dichiarazioni di altri due soggetti che erano stati molto vicini a Montante: Marco Venturi, titolare dell'azienda SIDERCEM, presidente di Confindustria Centro Sicilia e già Assessore regionale all'industria, membro sin dal 1993 di Assindustria Caltanissetta, l'associazione che prenderà poi il nome di Confindustria; e Alfonso Cicero, presidente dell'I.R.S.A.P. (istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive).

Costoro erano stati sentiti dagli inquirenti nisseni il 17.9.2015, dopo la pubblicazione di un'intervista a Venturi a "Repubblica" dal titolo "Trame e affari torbidi, la svolta antimafia di Confindustria e è solo un inganno".

Venturi aveva ricordato il suo ingresso in Assindustria nel 1993 su sollecitazione di Pasquale Tomatore, titolare di un'azienda di marketing che lavorava per la SIDERCEM, ed era quindi dentro l'associazione, quando Montante fu eletto Presidente dei giovani industriali nel 1996. Sia Venturi sia Tomatore ricordavano un'elezione senza dibattito interno e segnalavano che già da allora Montante

riusciva ad imporre le sue decisioni, sfidando in maniera autoritaria chi non era d'accordo con lui. Allo stesso modo, secondo quanto dichiarato da Tornatore, aveva imposto lo stesso Venturi come suo successore alla presidenza dei giovani industriali.

I documenti relativi all'ingresso di Montante in Assindustria, della sua elezione a presidente dei giovani industriali e del suo successivo sostegno alla nomina di Arnone nel comitato dei saggi non venivano rinvenuti presso la sede di Confindustria Centro Sicilia. E ciò, secondo il GUP, dimostrava la volontà di far sparire tutte le prove dei rapporti tra Montante e Amone in Confindustria.

Rosario Amarù, liquidatore di Confindustria Caltanissetta (l'associazione che sarà sostituita il 12.6.2012 da Confindustria Centro Sicilia che riunisce le provincie di Caltanissetta, Enna e Agrigento), aveva segnalato la lacunosità della documentazione, dovuta a diversi traslochi e a diversi furti subiti. Ma dai furti effettivamente denunciati nel passato, l' 1.4.1996 dal direttore di allora Tullio Giarratano, il 13.2.2008 dal direttore dell'epoca Giovanni Crescente, non risultava la sottrazione di documentazione.

Mentre Crescente nel verbale del 22.12.2015 aveva riferito di avere personalmente assistito al prelievo di documenti da parte di Montante per trasferirli in un suo locale di via Amico Valenti con il pretesto di metterli in sicurezza rispetto all'uso improprio che potevano farne i protagonisti delle precedenti gestioni dell'associazione.

Anche Maurizio Sapienza, dipendente di Confindustria Caltanissetta dal 13.2.1992 al 28.2.2013, aveva riferito che Montante aveva ordinato a Francesco Castorina, consulente del consiglio direttivo di Confindustria, e a Vincenzo Mistretta, consigliere tesoriere di sgomberare i locali di quei documenti, che furono collocati in 35 scatoloni e portati in un magazzino di Massimo Romano.

Le indicazioni di Di Francesco hanno ricevuto conferma nei documenti trovati dal giornalista Giampiero Casagni e pubblicati sul periodico "Centonove" il 12.2.2015; la Procura nissena, che non aveva rinvenuto questi atti negli archivi di Confidustria, aveva convocato Casagni, che aveva fornito all'ufficio copia del verbale di Assindustria Caltanissetta del 20.1.2001, dal quale si evinceva che Vincenzo Arnone, insieme a Carmen Pilato e a Massimo Romano, aveva fatto parte del Comitato dei "saggi" per l'elezione di Marco Venturi quale nuovo presidente dei Giovani Industriali di Caltanissetta succedendo a Montante.

E Montante aveva preparato una bozza di querela a carico di Casagni, accusandolo di essere coinvolto in un furto di documenti presso Confindustria, avvenuto nel 2007. SENTENZA CORTE D'APPELLO

L'ultimo pasticcio del Csm: vuoto il posto all'Antimafia. Alla Direzione nazionale no al reintegro del pm Sirignano che denunciò il "sistema". Favorito Itri che ha cambiato lavoro. Luca Fazzo il 6 Novembre 2023 su Il Giornale.

Un modo bizzarro per coprire i vuoti d`organico in uno degli uffici giudiziari più delicati del paese: mandarci un magistrato che in quel posto non ci vuole più andare, anzi, che nel frattempo ha chiesto e ottenuto di lasciare la magistratura; e non mandarci un pubblico ministero che quel posto lo ha già coperto, che ne è stato cacciato ingiustamente e che ha tutto il diritto di ritornarci. Risultato finale: il posto rimane scoperto. Tutto merito del Consiglio superiore della magistratura.

Il posto in ballo è quello di sostituto procuratore alla Dna, la procura nazionale Antimafia e antiterrorismo. È uno dei sei posti - su ventidue - ad oggi vacanti, un buco d`organico che il procuratore nazionale Giovanni Melillo ha ripetutamente lamentato. Per coprire almeno un posto, basterebbe che il Csm eseguisse quanto il Consiglio di Stato gli ha ordinato di fare: reintegrare in Dna Cesare Sirignano, il pm che il Csm precedente trasferì d`ufficio alla procura di Napoli Nord nel maggio 2020 a causa delle sue intercettazioni con Luca Palamara. La colpa di Sirignano: avere dato per assodato, chiacchierando con l`ex presidente dell`Associazione nazionale magistrati, che tutte le nomine vengono fatte col manuale Cencelli delle correnti in toga. Un segreto di Pulcinella, un sistema che - fino all`esplosione del caso Palamara - era sotto gli occhi di tutti e che quasi tutti fingevano di non conoscere. «Sono diventato il capro espiatorio del sistema delle correnti», fu il commento amaro di Sirignano, «un sistema che non ho contribuito a creare né a mantenere e della cui esistenza ho preso semplicemente atto». Oltre a sfrattarlo dalla Dna, il Csm gli inflisse anche una sanzione disciplinare, la perdita di due mesi di anzianità.

Sirignano fece ricorso e nel luglio di quest`anno il Consiglio di Stato gli ha dato ragione: sanzione annullata, trasferimento annullato, il pm ha diritto a tornare in servizio alla procura nazionale Antimafia. Sono passati quattro mesi, e il Csm non si muove. E anzi per mercoledì prossimo ha messo all`ordine del giorno la nomina in Dna un altro magistrato napoletano, Paolo Itri: che nel 2015 - altra era geologica, prima che esplodesse il caso Palamara - era già in lizza per quel posto, si vide preferire Sirignano, ha fatto anche lui ricorso e a distanza di ben cinque anni ha vinto.

Il Csm si trova dunque stretto tra due sentenze del Consiglio di Stato apparentemente incompatibili tra di loro: una che ordina di rimettere Sirignano al suo posto in Dna, l`altra che dice che a quel posto ci deve andare Itri. A togliere d`impiccio il Csm sembrava aver provveduto lo stesso Itri, che nel frattempo ha chiesto e ottenuto di cambiare mestiere: vuole lasciare la magistratura ordinaria, e andare a lavorare al Tar della Calabria, il tribunale amministrativo regionale. Tutto risolto, dunque? Manco per niente. Ora c`è il rischio concreto che il Csm invece di mandare Sirignano alla procura nazionale - dove come capo si ritroverebbe Giovanni Melillo, verso il quale nelle famose chat con Palamara aveva parole non proprio benevole - decida di mandarci Itri anche se nel frattempo ha deciso di cambiare lavoro. Tra i tanti pasticci di questi anni, quello di spedire un magistrato amministrativo a occuparsi di mafia e terrorismo non si era ancora visto, ma tutto è possibile.

La persecuzione. Michele Santoro dissente, e gli amici antimafia spariscono. Carmine Fotia su L'Unità il  9 Agosto 2023

Michele Santoro ha ragione. Il presidente della repubblica, cui era rivolta la lettera pubblicata sull’Unità, saprà cosa fare e non mi permetto di dare consigli. Credo però che la vera e propria persecuzione giudiziaria di cui sono stati vittime Santoro e Guido Rutolo, per il semplice fatto di aver scritto un libro-intervista a un mafioso pentito che contestava la teoria dei mandanti esterni delle stragi mafiose, cara a qualche procura, a qualche esponente politico, a qualche giornale, meriterebbe l’attenzione dell’opinione pubblica, delle forze politiche, dei media.

I fatti li ha riassunti già Michele: lui e Guido Ruotolo raccolgono la testimonianza di un collaboratore di giustizia, Maurizio Avola, legato alla mafia catanese, che confessa di aver partecipato alla strage di via d’Amelio confezionando l’esplosivo, svela la partecipazione della famiglia Santapaola all’attentato contro il giudice Borsellino e smentisce l’affermazione del pentito Spatuzza secondo il quale, nel commando di via d’Amelio vi fosse una persona a lui sconosciuta , un “estraneo” a cosa nostra, che, secondo gli inquirenti nisseni apparteneva ai servizi segreti. I due giornalisti fanno le loro verifiche, si convincono che quel racconto meriti di essere conosciuto.

Tuttavia invitano il pentito a rivolgersi ai giudici di Caltanissetta cui spetta la competenza per la strage, e aspettano che lo faccia prima di pubblicare il libro, “Nient’altro che la verità”. I pm nisseni, però, prima che il libro sia pubblicato e a indagini in corso, rilasciano un comunicato in cui ipotizzano un depistaggio e accusano i giornalisti e l’avvocato difensore del pentito, Ugo Colonna, di esserne complici.

Nel frattempo, uno dei boss tirati in causa da Avola, Aldo Ercolano, della famiglia Santapaola, condannato all’ergastolo ostativo, querela per calunnia Santoro e il pentito, contestazione che i pm estendono anche all’avvocato del pentito. Santoro viene iscritto nel registro degli indagati e Ruotolo no, ma entrambi i giornalisti vengono intercettati con il trojan, spiati, pedinati: “Ricostruendo come reato la pubblicazione di un libro, prendendo spunto dalla querela di un boss della mafia, sono stato spiato nella mia attività professionale, nei rapporti con le mie fonti e nella vita privata, perfino quando ero a colloquio con il mio difensore, Lorenzo Borrè”, racconta Santoro che denuncia un’altra grave violazione delle regole processuali perché sia lui che Ruotolo vengono chiamati come testimoni nel procedimento scaturito dalle dichiarazioni di Avola, pur essendo indagati o indagabili in un procedimento connesso, nato in seguito alla querela del boss catanese Ercolano. La differenza sta nel fatto che il testimone non può avvalersi né di un avvocato difensore, né delle garanzie processuali di un indagato. Alla fine delle loro indagini i pm nisseni chiedono l’archiviazione per le accuse contenute nella testimonianza di Avola, ma il Gup non l’accoglie e fissa l’udienza a ottobre per approfondire.

Questa la vicenda giudiziaria che avrà il suo corso, ma le questioni poste da Michele travalicano l’ambito giudiziario e toccano questioni delicatissime che riguardano il diritto alla privacy, il diritto a fare informazione libera, la reputazione di due giornalisti, l’origine e l’obiettivo delle stragi mafiose.

Intanto, vorrei offrire una testimonianza personale. Conosco Guido Ruotolo e Michele Santoro da decenni (Guido credo più o meno da cinquant’anni) e respingo l’idea che possano essere stati complici consapevoli di un depistaggio mafioso. Accusarli di complottare con la mafia è ridicolo, prim’ancora che ingiusto. Le trasmissioni di Santoro sono sempre state una sfida aperta alla mafia: da quelle con Libero Grassi alla maratona antimafia in comune con Maurizio Costanzo, per il quale il conduttore di Mediaset subì un attentato mentre Santoro, che ha sempre rifiutato la scorta, compariva in una lista di obiettivi da eliminare. E le inchieste di Guido Ruotolo parlano per lui.

Vedranno i giudici se il racconto del pentito sia fondato, ma i due giornalisti hanno fatto semplicemente il loro dovere facendo le verifiche possibili, incrociando fonti diverse, consultando esperti e pubblicando il libro solo dopo che il pentito aveva rilasciato le sue dichiarazioni all’autorità giudiziaria. Quello cui assistiamo oggi è dunque un mascariamento (dal siciliano mascariare che vuole dire sporcare) della immagine pubblica e dunque della credibilità di due giornalisti liberi e coraggiosi. Dove sono le “scorte mediatiche” dei miei cari amici di Articolo 21? Dov’è la mobilitazione dell’indignato permanente collettivo? E gli intellettuali pronti a firmare qualsiasi appello dove sono adesso?

C’è poi la denuncia di Michele che chiederebbe quanto meno un approfondimento del Csm sul modo in cui i due giornalisti sono stati spiati, subendo un’intrusione devastante nelle loro vite private e professionali, fino all’aberrazione della registrazione dei colloqui con il proprio avvocato difensore.

Infine, c’è la madre di tutte le questioni: il teorema della trattativa stato-mafia e dei mandanti esterni delle stragi mafiose, smentito da una quantità ormai copiosa di sentenze passate in giudicato, ma pronto a rinascere ogni volta dalle sue ceneri, come una sorta di araba fenice .

Il primo a essere mascariato come regista dell’operazione fu l’ex-democristiano Calogero Mannino (assolto definitivamente dopo una lunga carcerazione e anni di processi), poi tocco al generale Mario Mori (assolto), l’uomo che catturò Totò Riina, in seguito ai ministri del governo Ciampi, Nicola Mancino (assolto), ministro dell’interno della sinistra dc (quella che in Sicilia, con l’assassinio di Piersanti Mattarella, pagò il prezzo più alto nella lotta alla mafia) e Giovanni Conso (deceduto prima della sentenza) e si arrivò persino a coinvolgere l’allora capo dello stato Giorgio Napolitano. Caduti miseramente questi cartelli di carta ora se ne vuole erigere un altro che vede in Silvio Berlusconi, tramite Marcello Dell’Utri, il mandante esterno delle stragi. Dunque, sarebbe esistito un complotto che coinvolge centro, destra e sinistra per trattare con i mafiosi e nascondere l’esistenza di una regia occulta, esterna alla cupola mafiosa.

Un teorema non sorretto da alcuna prova, che si fonda su una lettura errata del pensiero di Giovanni Falcone che per primo parlò di un “terzo livello” nella gerarchia mafiosa ma, come egli stesso e i suoi più stretti collaboratori hanno chiarito, non pensava affatto che esistesse qualcuno che dall’esterno ordinasse alla mafia cosa fare. Voleva dire, come fu poi acclarato, che la mafia non era fatta solo di killer ma che comprendeva anche uomini politici e grandi uomini d’affari (I Lima, i Salvo, i Ciancimino) e che questi avevano complicità nelle istituzioni, compresa la magistratura e i servizi segreti. Era un sistema di potere consolidato che nel corso degli anni ’80, con l’ascesa dei corleonesi, ha inaugurato lo stragismo con l’attentato al giudice Rocco Chinnici e ha decapitato le istituzioni siciliane assassinando giudici e poliziotti scomodi, politici nemici della mafia e servitori dello stato. Una mafia che non cerca più l’accomodamento con il potere politico ma vuole dominare e per questo, in un delirio di onnipotenza, decide le stragi del ’92-93, che determineranno la risposta forte dello stato e la loro sconfitta.

Questa è la verità sancita da innumerevoli processi. Ed è anche la verità storica. Esiste invece un’antimafia lisergica che sostiene tutt’altro. Si riunisce attorno a riviste come Antimafia2000, diretta da un signore che si chiama Maurizio Bongiovanni e che sostiene di avere le stimmate, di parlare con gli alieni e di aver ricevuto da Gesù in persona l’incarico di sconfiggere la mafia. Insomma, come i Blues Brother, è un “inviato per conto di Dio”. C’è di più: uno dei più autorevoli esponenti della procura di Palermo, Roberto Scarpinato, ora senatore del M5S, collaboratore della succitata rivista, sostiene l’esistenza di una sorta di Spectre fatta di pezzi di istituzioni, servizi segreti, logge massoniche, formazioni neofasciste e personalità politiche, che stava sopra le Cupola mafiosa e che avrebbe orchestrato tutte le stragi italiane dal 1969 al 1993. Secondo questo ennesimo teorema non sappiamo nulla di quanto realmente accaduto: dopo le stragi del 1992, come in una distopia alla Philip K. Dick, non vinse lo stato ma la mafia e pertanto siamo stati governati per decenni da una consorteria che ordinava alla mafia cosa fare e che quindi se di tale gigantesco complotto non si trova traccia è perché essendo stati governati (ed essendo tuttora governati) da tale Associazione Segreta, le prove sono nascoste, occultate, manipolate. Una visione che dunque affida a un manipolo di Pm dai poteri debordanti il compito di liberare l’Italia.

È questo l’humus nel quale nasce la persecuzione contro Michele Santoro e Guido Ruotolo. E non è solo in difesa di due valorosi colleghi che occorrerebbe parlare, ma anche per demolire l’idea di una mafia invincibile, di un paese governato dai poteri occulti, di una democrazia che può rinascere solo sotto il controllo totalitario di un gruppo di illuminati. Solo che così non si combatte la mafia, si uccidono la democrazia e la speranza. La mafia ha avuto complicità anche nelle istituzioni, ma la rivolta civile dopo le stragi del 1992 le ha travolte, messe in luce, ha costretto lo stato a reagire con una forza mai vista prima e ha consentito all’Italia di risollevarsi e alla sua democrazia di crescere pur tra limiti, imperfezioni e gravi ineguaglianze. Correggerle è compito della società e della politica, non dei tanti aspiranti Angeli Vendicatori dei quali faremmo volentieri a meno. Carmine Fotia 9 Agosto 2023

Saviano si crede il Verbo, Paragone a valanga sul "martire di professione". Gianluigi Paragone su Il Tempo il 28 luglio 2023

Se lo aspettava, il Martire Saviano. Se lo aspettava perché farlo fuori dalla Rai «è una decisione politica», come ha commentato sul «suo» Corriere. Niente Saviano, insomma. Niente più quei bei racconti di denuncia, di coraggio ineguagliabile, di inconfondibile epica che puntellavano la riserva culturale e intellettuale di Fabio Fazio. Cosa non ci farà vedere dunque la nuova Rai del governo Meloni e che invece l’Insider di Saviano ci avrebbe rivelato? Inchieste «su Don Peppe Diana, sacerdote ucciso dal clan dei casalesi; sui collaboratori di giustizia che hanno permesso di svelare importanti rapporti tra mafia e politica e tra mafia e imprenditoria. E sui giornalisti perseguitati».

E allora uno si domanda: ma davvero senza Saviano non ci sarà pure un racconto sull’antimafia? Ci sarà eccome, ma il Martire pensa di avere l’appalto narrativo in esclusiva: nessuno come lui. In Rai resterà solo Peppa Pig, ha dichiarato il Nostro che ovviamente pensa di essere il solo Verbo e il solo Papa. «Io ho attaccato il potere», per questo gli hanno tolto la trasmissione. Saviano propone la stessa cosa da anni, gli cambia titolo e tanto basta. Di don Diana in Rai possono parlare con altrettanta intensità anche altri giornalisti, ciò che nella nuova narrazione della Rai dovrebbe accadere - ma non so se accadrà - è il coraggio di sfidare la comunicazione dominante ponendo e ponendosi delle domande scomode perché controcorrente: è facile dire oggi che Kevin Spacey ha pagato un prezzo alto; più difficile era ascoltare le ragioni della difesa prima, cioè quando imperava il #MeToo. Per esempio. I racconti dell’antimafia sono una fondamentale prova di giornalismo (e non solo) per il Paese, ma la prova di maturità si completa quando si ha il coraggio di dire che se rovini la vita di una persona innocente con l’accusa di essere mafioso o in odor di ‘ndrangheta, quella persona va risarcita e riabilitata.

Nel presepe di Saviano non c’è spazio per queste storie, per queste prese di posizione. Il giornalismo di Saviano serve a Saviano. Altre trasmissioni racconteranno di mafia e di ‘ndrangheta e lo faranno magari raccontando anche cosa significa vivere in galera perché un certo furore, misto a intoccabilità, muove taluni procuratori; racconteranno cosa significa spendere soldi per difendersi da accuse pesantissime con la differenza che per difenderti da accuse false devi intaccare i tuoi risparmi mentre chi costruisce castelli accusatori non paga mai dazio. Saviano non attacca il potere, Saviano è il megafono di un altro potere, assolutamente legittimo; basta piagnistei come fosse l’unico a essere bersagliato. «L’Italia è un paese che mette paura», ha detto. Vero soprattutto per chi da innocente finisce con la vita rovinata per colpe che non ha.

 Saviano nel mirino di Dalla Chiesa: "Si desse pace, non è l'antimafia". Il Tempo il 29 luglio 2023

Roberto Saviano è da giorni al centro delle discussioni per la cancellazione da parte dei vertici Rai del suo programma "Insider, faccia a faccia con il crimine". Ad annunciarlo è stato l'amministratore delegato Roberto Sergio. Il motivo della decisione? Una violazione del codice etico, occorsa nella recente occasione in cui lo scrittore ha definito il ministro dei Trasporti Matteo Salvini “Ministro della malavita”. Questa vicenda è stata commentata su Twitter da giornalisti, politici e opinionisti. Tra questi, Rita Dalla Chiesa su Twitter ha espresso la sua opinione. 

Paolo Giordano, su Twitter, ha esternato un parere sulle parole pronunciate da Roberto Saviano dopo l'annullamento della sua trasmissione in Rai. "Per Saviano 'l’Italia è un paese che fa paura'. Gli auguro di non trovarsi mai nei paesi che fanno DAVVERO paura. Le sue parole sono un insulto a chi perde vita, lavoro, affetti e speranze proprio nei paesi che fanno DAVVERO paura": così il giornalista ha "incenerito" il saggista. 

L'intervento di Giordano non è passato inosservato a Rita Dalla Chiesa che, su Twitter, ha risposto così: "Se gli fa paura l’Italia c’è sempre la scorta che ha da anni per proteggerlo, e la casa di New York per accoglierlo. Si desse pace. L’antimafia non è lui". E ancora sui social la conduttrice è tornata a puntare il dito contro chi crede che la cancellazione del programma di Saviano sia una vendetta per quella della striscia quotidiana affidata a Filippo Facci. "Vendetta per che cosa? Il diritto all'insulto non è il sacrosanto diritto di critica. Nessuno può permettersi di offendere così pesantemente le Istituzioni. Non rappresenta l'antimafia, lui. Rappresenta solo uno che ha copiato gli articoli di due coraggiosi giornalisti", ha scritto Rita Dalla Chiesa. 

"Il suo contributo? Non pervenuto". Il generale antimafia asfalta Saviano. Francesca Galici il 28 Luglio 2023 su Il Giornale.

Carmelo Burgio è stato in prima linea nella lotta alla camorra come generale dei Carabinieri e dai social si è esposto con una posizione critica su Roberto Saviano

Continua a far rumore l'esclusione di Roberto Saviano dalla Rai. Mentre a sinistra si stracciano le vesti, considerandola parte di un sistema politico, nel mondo reale la decisione è stata considerata per quello che è, una scelta editoriale, sulla base della quale nei giorni precedenti era stato cancellato anche il programma di Filippo Facci. "Saviano icona della anti-camorra? Io resto ai fatti come li ho vissuti. Un libro di successo e una condanna per plagio... Pare abbia scopiazzato… Non sono io a dirlo ma una sentenza", dichiara in un lungo post Carmelo Burgio, generale italiano dell'Arma dei Carabinieri, che ha vissuto in prima persona la lotta contro la camorra negli anni più sanguinosi delle faide locali, essendo lui di stanza a Caserta.

"Peppe Setola o’ cecato iniziò nel 2008 la mattanza, segno che per sparare ci vedeva... 20 morti in 6 mesi e la strage di S. Gennaro... Un italiano e sei africani in una sera sola. Era allora ministro dell’interno Bobo Maroni... Veniva una volta al mese in prefettura organizzando il Comitato Nazionale Ordine e Sicurezza Pubblica", prosegue Burgio, che poi chiede: "Contributo di Saviano alla lotta alla camorra, in quegli anni? Parlo per me e i Cc di Caserta : NON pervenuto". In quegli anni, spiega il generale, Caserta era una città quasi militarizzata: "Arrivò di tutto e di più, anche il 186esimo paracadutisti di Siena che fu di grande aiuto. Setola arrestato insieme a tanti altri, di altri clan. Il modello Caserta, per intenderci".

Il ruolo di Roberto Saviano, secondo Burgio, nella lotta alla camorra è stato irrilevante. "Magari comunque altri hanno avuto di più dalle sue esternazioni... Non saprei", prosegue il generale, sottolineando poi che quanto scritto dall'autore nei suoi libri non fosse poi una gran novità. "Ad ogni modo, nel 1927 il PCM in carica, nel celebre discorso, spiegava a tutta l’Italia che le mafie serie, allora, erano nella Terra dei Mazzoni (Castelvolturno), nell’agro aversano e in Sicilia. Quindi manco questa è stata una scoperta di Saviano", fa notare il militare, che ha dimostrato sul campo di conoscere molto bene le organizzazioni criminali che agiscono nel nostro Paese, avendole affrontate sul campo. Nel suo post, quindi, Burgio prosegue ricordando che "Gomorra esce a processo Spartacus concluso, dopo il duce del fascismo lo aveva detto anche altra gente, fra magistrati e Forze dell’Ordine".

Sallusti contro Saviano e Don Ciotti: "Un caso psichiatrico e un caso umano". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 28 luglio 2023

Giorgia Meloni è alla Casa Bianca a parlare del futuro dell’Occidente ma qui da noi l’estate della sinistra si incentra su quattro casi delicati: un caso psichiatrico, Roberto Saviano, un caso umano, don Ciotti, un caso di depistaggio politico internazionale, il Pd e un caso di linciaggio mediatico al compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno.

Partiamo dal caso di Roberto Saviano, il cui programma Rai è stato cancellato dopo gli improperi pubblici rivolti a mezzo governo. Essendo lui un egocentrico con manie persecutorie sta andando in giro a dire che la sua sospensione è una vittoria della mafia su mandato del governo. Di mafia ovviamente in questa storia non c’è ombra, e neppure di censure o limitazioni della libertà di informazione. Saviano infatti è libero di dare, cosa che ha fatto, dei bastardi e dei malavitosi al primo ministro e ai ministri, ma non essendo ciò un’inchiesta giornalistica documentata bensì una sua opinione incappa nel codice etico della Rai che non vuole tra i piedi chi insulta gratuitamente e gravemente rappresentanti delle istituzioni, cioè i suoi azionisti.

Il caso politico è che il Pd ha portato la questione della “censura a Saviano” addirittura al Parlamento europeo lasciando intendere al mondo - qui sta il depistaggio - che in Italia non c’è più libertà di opinione. Ora, è vero che “Meloni bastarda” e “Salvini ministro della malavita” sono opinioni che hanno diritto di circolare, infatti circolano, ma non necessariamente o per forza anche in prima serata sulla televisione pubblica. 

Terzo caso, quello umano. All’alba dei suoi ottant’anni, don Ciotti – il prete che da antidroga si è riciclato antimafia – ha detto che il Ponte sullo Stretto caro a Matteo Salvini è una follia perché “unisce due cosche”, intendendo immagino la mafia e la ’ndrangheta. La secca replica del ministro è stata fatta passare come un tentativo di censura a un eroe dell’antimafia. Ora, vogliamo ammettere che anche gli eroi invecchiando rimbambiscono? Già, perché sarebbe come dire che non si doveva costruire l’Autostrada del Sole in quanto avrebbe unito più velocemente le bande criminali dell’Italia, la Salerno-Reggio Calabria perché avrebbe collegato la camorra alla mafia, ma financo che è stato folle dare vita all’Alitalia perché avrebbe avvicinato Milano ai loschi traffici mafiosi di Palermo.

E infine, non in ordine di importanza, il linciaggio in corso al compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno, secondo la sinistra l’unico a non avere libertà di opinione pur essendo un giornalista. Nella sua trasmissione su Mediaset, Giambruno ha così commentato le parole del ministro del Turismo tedesco che aveva invitato a non passare le vacanze in Italia perché fa troppo caldo: “Se non le sta bene stia a casa sua, avete pur sempre la Foresta Nera”. Tra un italiano che difende l’Italia e un tedesco che ci denigra secondo voi la sinistra chi sceglie? Il tedesco, ovvio. E quindi apriti cielo e giù di manganello contro Giambruno colpevole di lesa idiozia (del tedesco). Ecco, questa è l’agenda politica della sinistra italiana per l’estate 2023 affidata a psicopatici, rimbambiti, mestatori e picchiatori. Intanto Joe Biden, democratico e presidente degli Stati Uniti d’America, brinda ai successi e all’affidabilità di Giorgia Meloni. A voi le conclusioni. 

Maschera antenata. Le insospettabili convergenze tra l’antimafia repubblicana e quella di epoca fascista. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 24 Luglio 2023.

Sulla lotta al crimine organizzato c’è una somma impressionante di segni identitari tra due periodi teoricamente antitetici della storia italiana

Chissà se nel Paese della Costituzione più bella del mondo, la Costituzione “antifascista”, la Costituzione “nata dalla resistenza”, si riconoscerà mai che proprio uno dei motivi di presunta nobiltà e civilizzazione di quell’ordinamento ripete la retorica e la pratica di quello che l’ha preceduto. Non che sia un argomento inedito: Leonardo Sciascia e altri già ne scrissero, ma ancora quando non era compiutamente formulato il profilo aguzzino dell’antimafia democratica, ancora quando esso non ripeteva in modo quasi perfetto i tratti della maschera antenata, l’antimafia fascista.

La malversazione legislativo-giudiziaria sui reati associativi era già in corso e aveva dato i suoi frutti malati da tempo, anche prima delle architetture di fine secolo sulle aggravanti mafiose, ma solo dopo, solo più recentemente è venuta squadernandosi la somma impressionante di segni identitari che accomuna le due antimafie, quella repubblicana e quella fascista.

Le deplorazioni mussoliniane per la “poetica” mafiosa, così come le ambizioni di estirpazione sociale del fenomeno tramite l’inoculazione delle virtù del regime, si sarebbero trasfigurate nella demagogia dei convegni e dei filmetti democratici sulla “cultura della legalità”, per intendersi quella che indugia nello scrutinio della mafiosità della testata al giornalista e conduce infine alla celebrazione dei processi-bufala, come Mafia Capitale.

Ma sarebbe stata ben più vasta e reiterata la riprova di quella continuità culturale: la prescrizione di un farmaco anti-tumorale e l’indicazione di un “percorso terapeutico” rivoltate nel concorso esterno; le dissertazioni psico-criminologiche sui sentimenti della donna legata al boss, la renitente al dovere della sconfessione impassibile alla preminenza dei valori democratici; l’incolpazione su base onomastica e territoriale che si sviluppa nella requisitoria contro “l’assordante silenzio dell’intera comunità” che proteggeva il padrino; le conferenze stampa ai margini dei rastrellamenti giudiziari per attuare la rivoluzione che smonta come un giocattolo la società corrotta, e dunque le braccia allargate davanti all’inevitabile fisiologia delle carcerazioni improvvide.

Non è casuale il fatto che tra le ingiustizie imputate al fascismo durante il corso repubblicano manchino le politiche antimafia del Ventennio. Non è casuale che tra le vittime del fascismo evocate dalla retorica democratica manchino i caprai e i braccianti torturati dal Prefetto di Ferro per «fare terra bruciata» intorno al crimine organizzato: troppo simili, quelle vicende, alla storia delle carceri finalmente destituite della sontuosità da grand hotel e convertite nelle liberali austerità con cui lo Stato resiste alla mafia precludendo al detenuto il lusso di vedere il figlio di quattro anni più di un’ora al mese, e concedendogli minuti d’aria in spazi che l’animalista medio denuncerebbe come tortura se si trattasse di un verro o di una vacca anziché di un essere umano.

"Basta con l'antimafia ereditaria usata per screditare". Il sindaco di Palermo: "C'è chi pensa di distribuire patenti di legalità e purezza". Francesco Curridori il 22 Luglio 2023 su Il Giornale.

«L'antimafia che sposo è sicuramente quella basata, in primo luogo, sui fatti». Roberto Lagalla, sindaco di Palermo, spazza via così ogni eventuale polemica sulle sue parole pronunciate ieri in occasioni di convegno sul contrasto alle mafie.

Sindaco, a quali fatti si riferisce?

«Mi riferisco a quell'antimafia praticata, ad esempio, in silenzio da quei magistrati, coadiuvati dall'impegno e dall'azione delle Forze dell'ordine, che ha permesso e permette ancora oggi di contrastare la forza criminale di Cosa nostra che oggi continua a fare affari con le estorsioni e il traffico di stupefacenti, come dimostrano anche le operazioni di polizia degli ultimi giorni. L'antimafia dei fatti, però, deve essere praticata anche dalle istituzioni e dai suoi rappresentanti. Seppellire circa 1.400 bare rimaste nei depositi per oltre tre anni nel cimitero di Palermo e abbattere 72 tombe abusive costruite dai mafiosi, come è riuscita a fare l'amministrazione che guido, credo siano azioni che vanno proprio nella direzione dell'antimafia dei fatti e siano significative affermazioni di legalità».

Cosa rappresenta per lei la figura di Paolo Borsellino?

«Uno degli eroi dell'antimafia che oggi rimpiangiamo e senza i quali lo Stato non avrebbe compiuto passi decisivi in avanti nella lotta alla criminalità organizzata. Paolo Borsellino e altri martiri non ci sono più, ma il loro insegnamento e la loro testimonianza non vanno dispersi ed è nostro compito quello di tradurli in comportamenti trasparenti in linea con quell'antimafia del fare di cui parlavo».

Perché ha criticato la cosiddetta «antimafia ereditaria»?

«Tengo subito a precisare che in questa espressione non c'era alcun riferimento ai parenti delle vittime di mafia, per i quali nutro profondo rispetto. Semmai, mi riferisco a quelle sigle o associazioni rassicuranti che avrebbero dovuto suggerire a educare al valore del giudizio e, invece, fanno a gara per distribuire patenti di incorruttibilità e sicura legalità e per raggiungere il primato dell'intransigenza e della purezza. Quelle realtà che, appunto, ereditano preconcetti che assumono sembianze di verità, andando contro, a volte, anche a sentenze passate in giudicato».

L'antimafia non dovrebbe avere colore politico eppure, spesso, la sinistra ha mostrato una certa superiorità morale anche in questo campo. Perché, secondo lei, manca uno spirito di unità nazionale persino nella lotta alle mafie?

«Prima di tutto, non esiste un'antimafia di destra o di sinistra. Per questa ragione, ho molto apprezzato il responsabile e recente intervento del Presidente del Tribunale di Palermo, Piergiorgio Morosini, e l'azione di quanti hanno voluto richiamare alla dimensione di un'antimafia basata sui fatti, sul contributo concreto al bene comune, indipendentemente da posizioni politiche, pregiudizi personali o di gruppo, ostracismi di ogni tipo. L'antimafia dovrebbe unire e, invece, si sono create delle divaricazioni che hanno un effetto pericoloso, ovvero il rischio di disorientare l'opinione pubblica che, di certo, ama i suoi Eroi per la legalità, ma assiste attonita a certe prese di posizione».

Pietro Grasso, Franco Roberti e Cafiero De Raho. Cosa pensa del fatto che spesso il ruolo di procuratore antimafia è stato usato come trampolino di lancio per fare politica?

«Non è mia abitudine giudicare scelte personali altrui, convinto nella buonafede di chi abbia voluto trasferire il grande impegno in magistratura anche in politica, come hanno fatto, ad esempio, queste figure».

ROBERTO MARIA FERDINANDO SCARPINATO EX MAGISTRATO. L'eroe Borsellino e le puntuali polemiche. La passerella di Scarpinato, il sacerdote dell’Antimafia che dissacra successi e sentenze dello Stato che rappresenta. Davide Faraone su Il Riformista il 20 Luglio 2023 

Il 19 luglio due cortei a Palermo, l’uno contro l’altro. Lucia, Manfredi e Fiammetta, i figli del giudice Borsellino, assenti per assenza di verità e di giustizia. La Presidente del consiglio, Giorgia Meloni, il Presidente della regione, Renato Schifani ed il Sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, costretti ad una commemorazione blindata, lontana dalla gente di Palermo, da quelli che nei giorni delle stragi invasero le strade, appesero i lenzuoli, gridarono la loro indignazione, anche contro i politici di allora, i rappresentati delle Istituzioni considerati traditori.

Roberto Scarpinato, uno di quelli «ammessi» alle commemorazioni in via D’Amelio, ha dichiarato: «31 anni quella strada resta interdetta ai riti della retorica di Stato e alle passerelle delle autorità. È un luogo nel quale i rappresentati delle istituzioni non potranno ripresentarsi senza disagio sino a quando non sarà fatta piena luce sulle complicità di Stato nell’esecuzione della strage e nei successivi ripetuti depistaggi. Il disagio è ancora più forte quest’anno».

Lui è un Senatore della Repubblica, prima di essere Senatore è stato magistrato, ha indagato, è uno dei convinti assertori della trattativa tra Stato e mafia. Lui si astrae, si tira fuori dalle «autorità», a lui che ha potuto giocare la sua partita nel campo della giustizia, quello legittimo dei processi ed ha perso, a lui la passerella è concessa. Sì, ad uno che disconosce le sentenze emesse in nome del Popolo italiano, paradossalmente è stato donato il pass di accesso in via D’Amelio.

Ma siamo certi che la memoria di Paolo Borsellino meriti tutto questo? Siamo certi come dice Scarpinato, che ora è come allora? Che non sia cambiato proprio nulla? Che quegli uomini, a maggio e a luglio del 92, siano morti invano? Io non credo, ma l’isteria di questi giorni, sembra invece confermarlo, nell’assoluta mancanza di rispetto nei confronti di chi è morto per ridare dignità al nostro Paese piegato dalla mafia, per ricercare la verità, per trovare i colpevoli e consegnarli alla giustizia. La memoria di Paolo Borsellino meriterebbe unità, «sacralità», non dovrebbe essere scalfita dalle polemiche.

Come tutte le volte che celebriamo un Santo – in questo caso laico – chi si sognerebbe di contestare, di organizzare il dissenso, di scontrarsi con le stesse forze dell’ordine che hanno lasciato morti per terra nella lotta alla mafia. È vero: la mafia non spara più, è diventata il male assoluto, oggettivo, per tutti, è questa è stata la più grande vittoria dei nostri eroi antimafia, ai quali oggi, solo oggi viene riconosciuto l’eroismo. Ma se l’Italia si mostra così litigiosa nel giorno del ricordo del suo più grande eroe, mostra il volto della sconfitta di fronte alla criminalità organizzata.

Non riusciamo a restare uniti nemmeno nel ricordo di un uomo che sapeva benissimo che sarebbe stato ucciso per servire lo Stato e non ha avuto alcuna paura, avrà dedicato alla certezza della morte che arrivava qualche nervosa sigaretta in più, il dolore per i propri cari, ma non si è fatto piegare, non si è fatto zittire, anzi. Si è fatto ammazzare per noi, per rendere migliore la nostra società, ha lasciato che fosse il suo ricordo a sopravvivere al tempo.

Ogni anno rinnoviamo la sua memoria per celebrare la sua immortalità, ma non sappiamo nemmeno regalargli un’unica marcia. Non sappiamo regalargli una giornata scevra da polemiche, ognuno si arroga il diritto di interpretarlo, di comunicare il suo pensiero autentico: «Paolo avrebbe fatto le barricate contro la riforma della giustizia annunciata dal Governo», ancora Roberto Scarpinato. In tanti oltre lui si ergono a censori e vanno oltre la giustizia costituita perché più delle sentenze valgono i teoremi.

E più dei «professionisti», adesso crescono i «sacerdoti dell’antimafia», con le loro sacre scritture a cui devi attenerti o se in difformità, abiurare e se non lo fai o sei affiliato alla mafia o alla P2. Bontà loro. Fa molto più audience, ma anche tanti più danni, sventolare il flirt Stato-mafia, non celebrare la vittoria per la cattura di Matteo Messina Denaro, perché in realtà «si è lasciato acchiappare». Per i «sacerdoti dell’antimafia» non conta celebrare i successi, conta dissacrarli. Non serve la verità da ricercare tutti insieme per i troppi misteri rimasti ancora irrisolti, per le agende scomparse, per i covi ripuliti, per i pentiti che deviano i binari su cui corre il treno della realtà, conta una verità, che sia di una parte. Conta più un accesso riservato ad una commemorazione che una commemorazione di tutti. Davide Faraone

Show giustizialista nelle cerimonie per Borsellino. L'obiettivo finale? Sempre il governo. Sul cadavere di Paolo Borsellino si consuma lo scontro tra il governo di Giorgia Meloni e la magistratura siciliana. Felice Manti il 20 Luglio 2023 su Il Giornale.

Sul cadavere di Paolo Borsellino si consuma lo scontro tra il governo di Giorgia Meloni e la magistratura siciliana, incapace di scovare la verità sulla morte del giudice saltato in aria in Via D'Amelio il 19 luglio del 1992. «Un fatto intollerabile», tuona il presidente del Tribunale di Marsala Vito Marcello Saladino alla commemorazione. «Ci fu un'unica strategia non solo opera di Cosa Nostra. Dopo 31 anni verità e giustizia», chiede su Twitter il responsabile Informazione del Pd Sandro Ruotolo.

Verità, certo. Ma a chi? Alla Meloni appena quindicenne nel 1992, che sulle lamiere fumanti dell'auto del giudice simpatizzante missino giurò la sua guerra alla mafia? O agli ex magistrati che oggi siedono di fianco a Ruotolo? Se la magistratura appare compatta con la donazione alla Fondazione di tutte le correnti dell'Anm (Area, Md, Magistratura indipendente, Movimento per la Giustizia e Unicost), chi ha appeso da poco la toga al chiodo profana la ricorrenza per lanciare pizzini e sospetti. L'ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris si schiera con Salvatore Borsellino nella caccia all'agenda rossa sparita da Via D'Amelio, Piero Grasso difende l'inchiesta della Procura di Firenze che vorrebbe Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri mandanti delle stragi, ipotesi già fatta a brandelli da tre archiviazioni: «Quando i pm toccano i politici diventano scomodi», blatera l'ex presidente del Senato. Ma Grasso non aveva detto che le uniche vere leggi contro Cosa nostra le aveva firmate il Cavaliere? Altri tempi, altre convenienze.

«Nessuno sa perché si decise di dare una falsa rappresentazione di via D'Amelio né come ricostruire il biennio che si chiuse con il mancato attentato all'Olimpico di Roma del 1993», si chiede giustamente Luigi Marattin di Italia Viva. Citofonare Antonino Di Matteo, il pm che si bevve le panzane del finto pentito Vincenzo Scarantino (manipolato dall'ex prefetto Arnaldo La Barbera) tanto da fare appello contro la sentenza che sanciva la sua estraneità. Lo stesso Di Matteo che avrebbe convinto i pm di Firenze a seguire la pista di Salvatore Baiardo, manutengolo della famiglia Graviano che vagheggia di pizzini e fantomatiche foto su Tik Tok. Ipotesi a cui non hanno mai creduto il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia e Paolo Guido, autori dell'arresto di Matteo Messina Denaro, condannato ieri in appello all'ergastolo.

«La lotta ai clan è fatta di scelte e azioni nette, non di vuote frasi di circostanza da declamare il giorno giusto», dice Giuseppe Conte, il cui pasticcio sui crediti fiscali legati ai bonus edilizi hanno fatto ricche le mafie. «C'è una politica smemorata, revisionista che rischia di garantire la borghesia mafiosa», attacca don Luigi Ciotti, fondatore di Libera. «Grazie a un'incredibile sequenza di depistaggi siamo lontani da una verità deflagrante sulle connessioni tra servizi deviati, destra eversiva, massoneria e mafie» è il messaggio in coro della delegazione parlamentare M5s, guidata dagli ex magistrati Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato. Quest'ultimo mise la parola fine sulle indagini «Mafia-Appalti» tanto care a Borsellino e fu autore dell'inchiesta «Sistemi criminali», basata sulle stesse suggestioni e archiviata perché inconsistente. Se questo è un omaggio, meglio il silenzio via social di Gioacchino Genchi, storico collaboratore di Giovanni Falcone, che lasciò le indagini su Capaci e Via D'Amelio nel maggio del 1993 dopo uno scontro con La Barbera. La memoria è un esercizio difficile ma doveroso.

Quando l'antimafia è solo cosa loro. Salvatore Borsellino: "Volteremo le spalle alle istituzioni". Avrebbe potuto essere il suo trionfo. Lei, presidente del Consiglio donna, forte di una vittoria contro Cosa nostra a Palermo a ricordare Paolo Borsellino. Mariateresa Conti il 19 Luglio 2023 su Il Giornale.

Avrebbe potuto essere il suo trionfo. Lei, presidente del Consiglio donna, forte di una vittoria contro Cosa nostra in quanto premier nel momento in cui la lotta alla mafia ha centrato il risultato dei risultati, la cattura di Matteo Messina Denaro, a Palermo a ricordare Paolo Borsellino. E per di più, come lei stessa ha sottolineato qualche giorno fa, presente a una delle manifestazioni che da 30 anni è da sempre appannaggio della destra, la fiaccolata che dalla Statua (al secolo piazza Vittorio Veneto), la sera del 19 luglio, sfila lungo via Libertà e raggiunge via Mariano d'Amelio. Armata solo di fiaccole, e di magliette con la scritta «Meglio un giorno da Borsellino che cento anni da Ciancimino». Ogni tanto anche dello striscione: «Spazziamo via la mafia dell'antimafia». Cosa sua, questa manifestazione, una sfilata che da leader di destra ha fatto tantissime volte. Eppure Giorgia Meloni no, non ci sarà. Perché quelli che l'antimafia è cosa loro e basta, hanno deciso che no, in quanto premier di un governo che per di più vuole riformare la giustizia, meglio che non si faccia vedere.

Che poi. La sinistra che lancia l'altolà alla premier di destra a partecipare alla manifestazione della sua parte politica sfiorerebbe il comico, se non fosse tragico. Certo, la premier è in buona compagnia. Il divieto di presentarsi in via d'Amelio quest'anno è già stato esteso al sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, al governatore Renato Schifani, e a quelli che gli antimafiosi di professione chiamano gli «impresentabili» in quanto di altra parte politica. E nel 1994, quando era da poco premier, una mini-protesta in via d'Amelio toccò anche a Silvio Berlusconi. Il Cavaliere fece un blitz a sorpresa. Ma la sorella di Borsellino, Rita, a casa con un piede fratturato, non lo fece salire, parlarono soltanto al citofono.

A farsi portavoce del raus istituzioni, è stato Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, che con le sue «Agende rosse» da molti anni a questa parte si è appropriato delle manifestazioni in via d'Amelio. «Le esternazioni del ministro Nordio - ha dichiarato - al di là del loro esito, hanno mostrato la volontà di demolire la legislazione pensata da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per dare alle forze dell'ordine, alla magistratura, alla parte sana della società, gli strumenti per combattere la criminalità organizzata». E a scanso di equivoci ha aggiunto: «Noi non facciamo contestazioni violente: se dovessero presentarsi persone non gradite, diremo la nostra. In via d'Amelio può venire chiunque, l'importante è che si venga come semplici cittadini, non come rappresentanti delle istituzioni. Altrimenti manifesteremo il nostro dissenso, alzando le nostre agende rosse e girandoci di spalle». E rivolto alla premier Salvatore Borsellino ha concluso: «Se avrò modo di incontrarla le vorrei chiedere come si concilia il suo entrare in politica dopo la strage di via D'Amelio e la morte di Paolo Borsellino e le esternazioni di un suo ministro che promette di smantellare la legislazione antimafia di Giovanni Falcone attaccando proprio l'articolo del concorso esterno in associazione mafiosa».

Dunque, Meloni no, ma Massimo Ciancimino invece sì, sarebbe da ricordare a Salvatore Borsellino. Già, perché nel 2014 fu proprio lui ad accogliere con baci e abbracci l'allora pentito chiave del processo sulla Trattativa Stato mafia. «L'ho fatto e lo rifarei», disse allora quando qualche polemica si sollevò. Poi Ciancimino è stato ritenuto inattendibile, il processo Trattativa è franato. Ma questa è un'altra storia.

Oggi in via d'Amelio (forse) ci sarà Elly Schlein. Ci sarà anche Roberto Scarpinato, già pm di punta a Palermo, ora parlamentare dei 5 stelle e in quanto tale più che gradito. «Non vogliamo che ci siano avvoltoi in via d'Amelio, ipocriti che portino corone e onori fasulli», ha avvisato Salvatore Borsellino. Quelli che l'antimafia è cosa loro hanno avvertito.

Giustizia, la sinistra sulle barricate come ai tempi di Berlusconi. Cristiana Flaminio su L'Identità il 18 Luglio 2023

Non dite a Giorgia Meloni che non s’è inventata niente. Il partito conservatore, in Italia, esisteva già ed è il Pd. Sono pochi, pochissimi, i capisaldi di una sinistra in perenne stato di confusione, che non sa dove andare né a chi affidarsi. Uno di questi è la magistratura. Tutto deve cambiare, dall’economia fino al costume, ma l’amministrazione della giustizia deve rimanere uguale a se stessa. Più conservatori di così. Anche perché, questo, è un argomento capestro. Se c’è un’eredità che ci ha lasciato il trentennio che va da Tangentopoli ai giorni nostri è che chiunque tenti di ragionare sulla giustizia, di sicuro avrebbe qualcosa di oscuro, losco, da nascondere. Alla faccia del garantismo. La Guerra dei Trent’anni non è finita, come dice Marina Berlusconi. E nemmeno va in soffitta l’armamentario dem che, da tre decadi, sibila e tuona e rimbomba, nel dibattito politico.

Walter Verini, senatore Pd e membro della commissione Antimafia, ha bollato le parole di Marina Berlusconi come “messaggio inquietante che si inserisce in una situazione inquietante”. Le parole hanno un peso. Verini, in un post chilometrico pubblicato sui social, calca la mano: “C’è un brutto clima nel Paese per quanto riguarda l’impegno contro le mafie e per la legalità. La responsabilità principale è del governo della maggioranza, che hanno indebolito e in certi casi smantellato regole, presidi, controlli”. Dopo aver passato in rassegna il codice degli appalti e tutte le novità ritenute dubbie, sotto il profilo della legalità, il senatore evoca il “manganello” e denuncia: “In questi giorni abbiamo assistito con grande preoccupazione ad attacchi diretti all’autonomia e all’indipendenza della magistratura. Da parte dello stesso Guardasigilli, da parte delle fonti di Palazzo Chigi e Via Arenula. Da parte di professionisti del manganello verbale contro magistrati e giornalisti. Si, perché sotto attacco stanno magistratura e giornalismo, in particolare quello d’inchiesta”.

Tutti sotto attacco, tutti sotto accusa. Chiaramente, se le cose stanno così, il Pd, è pronto a ritirare il pass, a Meloni, per le manifestazioni in ricordo di Paolo Borsellino: “Come si fa ad apprestarsi a ricordare l’anniversario della strage di via d’Amelio, il sacrificio di Paolo Borsellino mentre il tuo governo, certi ministri come quello della Giustizia offrono questi segnali, colpiscono strumenti di legge, norme, meccanismi che nacquero proprio su impulso di martiri e simboli come Falcone, Borsellino, La Torre, Chinnici e tanti altre vittime, magistrati, politici, servitori dello Stato?”. Giorgia, scansati. I conservatori non stanno con te. Ma dall’altra parte.

Cronaca di 31 anni fa. L’impotenza degli italiani sulla morte annunciata di Paolo Borsellino. Franco Maresco su L'Inkiesta il 19 Luglio 2023.

In "La mia Battaglia", il regista Franco Maresco conversa con la celebre fotoreporter palermitana sul periodo delle stragi mafiose: «Quei giorni erano inimmaginabili prima che fossero vissuti. Una tensione e un’attenzione collettiva come quella non la vivremo più. Perché ci andava di mezzo l’orgoglio stesso di tutta una società e della sua cultura»

Queste conversazioni coprono un tempo lungo tre anni, dal 2017 al 2019. Sono state raccolte a margine del film La mafia non è più quella di una volta (2019) – che vide partecipe nella realizzazione Rean Mazzone, già produttore di Totò che visse due volte e Belluscone –, ma nessuna parte di esse è poi finita all’interno della pellicola. Sono momenti di pausa, di attese, di trasferimenti da un luogo a un altro, in cui Franco Maresco interroga di continuo Letizia Battaglia sui temi più disparati e più inusuali. Si era instaurata tra di loro una tensione dialettica molto forte, per cui l’obiettivo del regista era non permettere a Battaglia di annoiarsi. Ogni momento di silenzio veniva riempito da domande incalzanti, stemperate dal clima familiare e ironico che Maresco le aveva creato intorno durante le riprese.

Franco Maresco: 23 maggio 1992. Ti ricordi dov’eri in quel momento? 

Letizia Battaglia: Ero da mia madre. Ogni domenica andavo da lei perché aveva il morbo di Parkinson. Stavamo guardando qualcosa in televisione e, tutto a un tratto, le trasmissioni vennero interrotte. Un annunciatore riferì che era successo qualcosa in un’autostrada a Palermo. Avevamo alle spalle una serie di terribili omicidi, avevamo già un’incredibile tensione addosso. Non seppi fare altro che chiamare un taxi. E invece che sull’autostrada, andai al pronto soccorso. Avevano detto che Falcone e la moglie Francesca Morvillo erano feriti. Al pronto soccorso non li vidi arrivare. Ero andata in un posto dove loro non sarebbero mai stati portati. Io non volevo più vedere tragedie. Non volevo vedere Falcone ammazzato. Non lo accettavo. Intanto Franco e Shobha erano andati sull’autostrada a Capaci. Un fotografo ha un dovere di testimonianza, ma io forse non mi sentivo più una fotografa in quel momento. Sapevo solo che non lo accettavo tutto questo. E insieme a me c’erano tanti altri palermitani che non l’accettavano. Quel giorno fu il primo dei tanti giorni in cui la gente comune si riversò per le strade di Palermo. Era una città disperata quella che vivevo. La disperazione era di tutti nel giorno dei funerali di Falcone, e quando facemmo per solidarietà e protesta la catena umana. Furono giorni belli e terribili. Si piangeva insieme. Piangere era importante, in quel momento. E poi siamo rimasti come in attesa dell’altra strage.

Adesso, a distanza di tanti anni – con il senno di poi –, si dice che ce lo aspettavamo, sapevamo che il prossimo sarebbe stato Borsellino. A parte il fatto che Paolo Borsellino stesso lo disse. Tu credevi veramente che potesse esserci un’escalation? Non pensavi che con Falcone la misura fosse colma? Quando in luglio saltò in aria Borsellino con la scorta, c’era nella gente una specie di assuefazione. Una catalessi?

In realtà non ci aspettavamo che ammazzassero Falcone. Sapevamo che c’era questa minaccia che incombeva su di lui, sapevamo dell’odio della mafia verso di lui. Ma dopo Capaci capimmo che avrebbero ammazzato Borsellino. Lo sapeva lo Stato, lo sapevano tutti. Perché non si sapeva di Falcone e invece di Borsellino sì? Perché ormai era scritto che dovesse avvenire. La logica voleva che se si ammazza Falcone, si ammazza anche Borsellino. E Borsellino era lì, una figura tragica che fino all’ultimo incontrò la gente e soprattutto gli studenti. Lui sapeva che sarebbe stato ammazzato. E lo diceva. Lo diceva con eleganza e con pudore. Quei giorni erano comunque inimmaginabili prima che fossero vissuti. Una tensione e un’attenzione collettiva come quella non la vivremo più. Nemmeno se venisse a mancare il pane. Perché ci andava di mezzo l’orgoglio stesso di tutta una società e della sua cultura. Ci andavano di mezzo tutti i nostri valori che vedevamo frantumati. Noi non volevamo che ammazzassero Borsellino. Non lo volevamo con tutte le nostre forze. Ma non sapevamo come difenderlo.

C’era un senso di impotenza assoluta.

Di grande impotenza e di dolore. Avevamo tutti voglia di incontrarci, di discutere, di parlare, di progettare, di chiedere aiuto. Ricordo donne coraggiosissime che fecero il digiuno a piazza Politeama contro il procuratore capo, contro il capo della polizia. E questo perché non avevano permesso di partecipare ai funerali alla cattedrale di quei poveri agenti della scorta di Borsellino saltati in aria. Non c’erano solo i lenzuoli contro la mafia esposti nei balconi delle case. Quello fu un gesto di coraggio perché ogni balcone aveva un indirizzo individuabile [pausa]. Non servì a niente. Nessuna manifestazione servì a fermarli. Non ci fu difesa.

Tu in quel periodo eri impegnata politicamente e mettesti da parte la fotografia.

Sì.

Ti venne mai la voglia di essere presente con l’obiettivo per raccontare quel periodo così drammatico?

No. Mi ero stancata di raccontare. Ero entrata nella politica perché volevo lottare in un altro modo. In via D’Amelio, quel pomeriggio in cui ammazzarono Borsellino e la sua scorte, c’erano tutti i pezzi dei loro corpi sparpagliati. Io ero lì, con la macchina fotografica al collo ma non scattai niente. Gli altri fotografi lo facevano. Io non volevo, non potevo più. Non sono una vile, ho coraggio ma sentivo l’inganno. Sentivo che si continuava a raccontare, a documentare tutto questo orrore e poi non succedeva niente. L’inganno delle non risposte. Sentivo che c’era qualcosa di terribile dietro tutto questo sangue versato. Non bastava una fotografia, dieci fotografie. No, non bastavano, non sono bastate. E questo mi dava un senso di impotenza, sia come fotografa e sia come persona che voleva raccontare i fatti perché la gente prendesse coscienza. Ero in politica, ero deputato, quando ammazzarono Falcone e Borsellino. E fu l’esperienza più brutta della mia vita essere deputata in quel periodo.

(…)

Quando è morto Borsellino, hai un ricordo di dov’eri, dove ti arrivò la notizia?

Ancora una volta ero da mia madre. Era nuovamente domenica. E tutte le domeniche le dedicavo a mia madre, dopo una settimana di lavoro al giornale L’Ora. Questa volta non fu la televisione ad avvisarmi. Fu un rimbombo potente. Erano le cinque meno qualcosa. E allora chiamai la polizia. Ma poi la televisione diede la notizia. Ancora una volta presi il taxi e arrivai in via D’Amelio con la macchina fotografica. Lì c’era veramente la tragedia. Era come la fine di tutto. Di tutto. Non c’è fotografia o ripresa televisiva che possa raccontare quel disastro. Niente che possa restituire il nostro stare là. Ricordo che c’è una foto splendida di Franco Zecchin. Niente morti, sono solo dei ciottoli per terra e un gatto che vomita. Perché il gatto si era spaventato a quel boato. La foto era bellissima. Fece fotografie anche mia figlia Shobha. Fecero tutti fotografie. meno io.

Non so perché avessi questo dolore così forte. Ma era un dolore che m’impedì di fare la professionista. Venivo da troppe tragedie. E poi era come se ti avessero detto: «Ammazzeranno tuo figlio». E tu sai che lo ammazzeranno. Quel pezzo di pancia che vedi là è tuo figlio [pausa]. Non ci sono parole. Non ci sono parole per raccontare quella scena apocalittica: un pezzo di auto su un albero, l’asilo dei bambini di via D’Amelio devastato. E tutti quei pezzi di corpi, per terra. Ricordo il silenzio. C’era gente che si agitava in silenzio. Tanti carabinieri, tanta polizia. E poi sparì l’agenda rossa di Borsellino. In tutto quel disastro ci fu qualcuno che mantenne i nervi saldi e sottrasse l’agenda rossa. Le prove, chissà di che cosa. E così veramente finì. Con Borsellino finì…

Non posso dire che finì la nostra vita. Finì la possibilità di sognare, di sperare sperimentando una vita più bella. Dopo fatti come questi, però, ci si rimbocca le maniche e si capisce che bisogna andare avanti. Che bisogna continuare a credere. Che la vita è bella e che ci sono pure quelli che non sono belli. Ad esempio, l’altro ieri hanno decapitato una statua di Falcone davanti a una scuola a lui intitolata allo Zen. L’hanno decapitata e usata per sfondare una porta. Dopo venticinque anni Falcone è ancora odiato da una parte di Palermo. Lui che ha dato la sua vita perché questa terra avesse regole giuste. Noi però, che facciamo parte di un’altra Palermo, lo ricordiamo. Perché lui ci dà la forza di continuare, di essere belli in questa ricerca, di dimenticare la paura e di essere anche coraggiosi. Immagino quei poveri insegnanti, quella scuola, quei bambini.

E vabbè, si va avanti. Io ci credo. Ci debbo credere. Certo, non credo che un uomo solo possa cambiare le cose, ma piano piano saremo in tanti a volere qualcosa di diverso per il nostro mondo. Intanto a Palermo, intanto in Sicilia. Intanto onorando il ricordo di questi nostri cari amici che non ci sono più. 

Da “La mia battaglia – Conversazioni con Letizia Battaglia” di Franco Maresco, Il Saggiatore, 192 pagine, 18 euro

Via D’Amelio, la sfilata dei ministri e l’egemonia di un Paese mediocre. Giorgia Meloni diserta la fiaccolata nel giorno dell’anniversario della morte di Paolo Borsellino. Una preoccupazione anticontestazione. Perché la destra al governo prova ancora una volta ad annettersi definitivamente il magistrato nel Pantheon degli eroi borghesi nostalgici. Enrico Bellavia su L'Espresso il 18 luglio 2023.

Pregni di pretese e privi di sostanza, uno dietro l’altro gli anniversari consumano fiumi di retorica dietro la coltre di un ricordo che non è mai, non riesce a essere, memoria, monito, lezione per il presente ma si conforta nella rassicurante passerella dell’esserci per l’esserci.

Con la destra post (post?) fascista al governo, l’elenco dei ministri partenti per Palermo al seguito della premier, si ingrossa oltre misura. A trentun anni dall’eccidio di via D’Amelio, nell’affollato calendario di iniziative del fronte antimafia diviso e divisivo come non mai, ci saranno Gennaro Sangiuliano, stregato dalle gaffe, l’ex governatore Nello Musumeci l’unico al mondo che abbia preso l’alta velocità da Catania per Roma e perfino il titolare dello Sport Andrea Abodi, perché si sa, quello è lo zoccolo duro del consenso giovanile dei Fratelli. Non ci sarà il garantista a senso unico Carlo Nordio, titolare della Giustizia che si spinge dove neppure i berluscones osavano. Ci sarà, c’è sempre, Matteo Piantedosi che è il titolare dell’Interno, più di Matteo Salvini che non ha mai davvero traslocato alle Infrastrutture.

Con Meloni in testa (assente alla fiaccolata per paura di contestazioni), che ascrive Paolo Borsellino al suo personalissimo Pantheon, i Fratelli tutti hanno idea che annettersi definitivamente il magistrato ucciso ora sia finalmente possibile. Del resto è un’idea che parte da lontano. Dalla tradizione del doppio sit-in che ha sempre mobilitato il Fuan, dallo slogan “meglio un giorno da Borsellino che cento da Ciancimino”. Simboli di un racconto radicato e ingigantito, nella convinzione che le idee di un giovanissimo studente universitario vicino al Fuan perché astrattamente di simpatie monarchiche basti a fare del magistrato un eroe borghese ma nostalgico. Il padre nobile che manca agli ex ragazzi dei campi Hobbit, che li riscatti dalla mediocrità del potere presente. Con i suoi riti sfinenti da accomodamento permanente.

Mentre un pezzo della famiglia Borsellino cerca la verità nell’unico luogo in cui dovrebbe materializzarsi, l’aula dei tribunali, un altro si fa scudo del popolo per una post verità che ha gambe fragili, tante congetture e molto di irrisolto. In un profluvio di misteri che accompagnano sempre quella giustizia impotente che a un passo dalle sentenze si ritrae e si accomoda sul divano della pubblicistica.

Come tutti i 19 luglio, specchio di un’Italia che non trovando mai la pistola fumante si accontenta di accapigliarsi sul fumo, passerà anche questo.

È stata la mafia, no è stato lo Stato. I mandanti, occulti per definizione, erano in Parlamento. No, ci stavano per entrare. E poi: c’erano anche i colleghi pavidi, conniventi o solo invidiosi. Era per la trattativa, no era per gli appalti. Quasi che la complessità avesse bisogno di ridursi a partito, a squadra, a club, a coro o a tifo da stadio per risolversi. Nel nulla. Tutto congiura perché ci si allontani dall’unica cosa che sembra essere certa: Paolo Borsellino, come Falcone era un servitore dello Stato, di incrollabile, granitica, fermezza repubblicana. E perciò temibile nemico del Paese che gli è sopravvissuto. E che ora può anche celebrarlo, straziandone le spoglie a proprio uso e consumo.

Via D’Amelio: l’anniversario delle divisioni. Stefano Baudino su L'Indipendente il 18 Luglio 2023.

Un movimento antimafia spaccato, a tratti dilaniato, incarnato da fazioni ontologicamente contrapposte in disaccordo su (quasi) tutto. È questo lo scenario a cui si assiste in vista del 31esimo anniversario dell’attentato di Via D’Amelio, in cui, il 19 luglio 1992, vennero assassinati il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Una strage feroce segnata da un maxi-depistaggio certificato dal processo Borsellino-Quater, su cui il Tribunale di Caltanissetta ha da poco partorito un’importante sentenza e attualmente oggetto di delicate indagini dei pm di Caltanissetta, che stanno approfondendo il tema del presunto ruolo di entità esterne a Cosa Nostra nel delitto. Proprio sulle risultanze processuali legate alle inchieste sull’attentato, nonché sulle implicazioni politiche legate a quegli episodi segnanti e alla loro narrazione odierna, si sta consumando una battaglia colpo su colpo, in cui anche i parenti delle vittime di mafia prendono posizioni divergenti e spesso inconciliabili.

Tale fotografia era già stata scattata lo scorso 23 maggio, giorno delle commemorazioni per l’anniversario della morte di Giovanni Falcone. In quella occasione, ai giovani attivisti del corteo “Non siete Stato voi, ma siete stati voi“ – che riuniva decine di associazioni e sigle sindacali – era stato impedito attraverso un’ordinanza del questore di Palermo di raggiungere l‘Albero di Falcone di via Notarbartolo, luogo in cui ogni anno si ricorda la morte del giudice. L’accesso era stato garantito solo al corteo “ufficiale” organizzato dalla Fondazione Falcone, di cui è simbolo la sorella del giudice orto a Capaci, Maria Falcone: in prima fila, accanto a lei c’era il sindaco di Palermo Roberto Lagalla, che in campagna elettorale ottenne l’endorsement di Marcello Dell’Utri e Totò Cuffaro: due condannati per gravi reati connessi alla mafia. Cercando di spezzare i cordoni delle forze dell’ordine per protestare contro il corteo “ufficiale” e omaggiare il defunto giudice, decine di attivisti sono stati spintonati e manganellati dai poliziotti in tenuta antisommossa, in un pomeriggio di grandi scontri e feroci polemiche.

Uno dei primi a esprimere pubblicamente solidarietà ai manifestanti era stato Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo. Eppure, anche all’interno della famiglia Borsellino fioccano enormi divisioni. Alcuni giorni fa, intervistato da Salvo Palazzolo su Repubblica, Fabio Trizzino, avvocato dei tre figli del giudice palermitano, da un lato ha auspicato l’unitarietà del movimento antimafia, ma dall’altro ha pesantemente criticato l’operato del Movimento delle Agende Rosse fondato da Salvatore Borsellino, che da anni si batte per la verità sulla strage di Via D’Amelio, sugli attentati “collaterali” e sui rapporti tra mafia e istituzioni. «A volte mi chiedo se le Agende Rosse siano veramente al servizio della ricerca della verità, per arrivare a una ricostruzione corretta – ha dichiarato Trizzino – oppure se sono innamorate di una tesi, quella della “Trattativa”, in maniera dogmatica e la portano avanti nonostante la plausibilità di ricostruzioni alternative». Trizzino, che ritiene il “rapporto mafia-appalti” del Ros – a cui Paolo Borsellino si sarebbe interessato prima della sua morte – come la più plausibile causa scatenante dell’accelerazione dell’eccidio del 19 luglio, nell’intervista ha sostenuto che la “Trattativa Stato-mafia” non sia stata “giudiziariamente accertata”. A smentirlo, però, sono diverse sentenze passate in giudicato che quella trattativa l’hanno ormai da tempo confermata e “storicizzata”, nonostante al processo “Trattativa” la Cassazione (al contrario dei giudici di primo grado) non abbia inquadrato come reato le condotte dei Carabinieri del Ros alla sbarra, che partorirono quella proposta di dialogo ai mafiosi tramite Vito Ciancimino. Sentenze che da sempre il Movimento delle Agende Rosse porta all’attenzione dell’opinione pubblica.

La reazione di Salvatore Borsellino era stata dura: «L’Avv. Fabio Trizzino, a meno che non si sia innamorato delle tesi sostenute da Mario Mori (generale dei Carabinieri imputato e poi assolto al processo “Trattativa”, ndr) e dai Ros, dovrebbe sapere che le recenti sentenze, sebbene largamente contraddittorie nei tre gradi di giudizio, non hanno negato l’esistenza della trattativa, peraltro già da tempo accertata da una sentenza passata in giudicato come la sentenza Tagliavia di Firenze, ma ne hanno negato gli effetti penali – ha scritto in un comunicato su Facebook -, e che lo stesso Mori, del quale egli sostiene così caldamente le tesi, che peraltro è stato il primo a parlare in fase processuale di “Trattativa”, dopo queste sentenze ha affermato in una intervista “Io rifarei la trattativa”, confermando così implicitamente il fatto di averla già fatta una volta». Dopo aver giudicato estremamente inverosimile che il dossier “mafia-appalti” possa aver costituito la causa acceleratrice della strage, Borsellino conclude affermando che, se Trizzino avesse davvero voluto evitare divisioni, «avrebbe potuto aspettare un altro momento per le sue dichiarazioni».

Lo scorso maggio, la Commissione Antimafia ha eletto la sua nuova presidente, Chiara Colosimo, di Fratelli d’Italia. La nomina è stata apertamente criticata da molti familiari delle vittime di mafia, tra cui lo stesso Salvatore Borsellino, che in una missiva di protesta avevano evidenziato la gravità dei rapporti amicali intrattenuti da Colosimo con Luigi Ciavardini, ex terrorista nero. Per contro, solo un mese dopo, l’avvocato Fabio Trizzino è recato a braccetto con lo stesso Mario Mori e una delegazione del Partito Radicale in Commissione Antimafia a incontrare Chiara Colosimo, al fine di esprimerle “solidarietà dopo le critiche sulla sua elezione”. Anche in quel caso, Salvatore Borsellino aveva preso le distanze dal legale dei suoi nipoti, sottolineando criticamente la malsana tendenza degli organi di informazione a presentare Trizzino come “l’avvocato della famiglia Borsellino” (il fratello del giudice è assistito da un altro legale, Fabio Repici) -, sostenendo che «il Generale Mario Mori dovrebbe essere inquisito dalla Commissione Antimafia, piuttosto che ricevuto».

Ad ogni modo, le Agende Rosse hanno già reso noto che il 19 luglio sfileranno insieme al cartello di sigle sindacali, associazioni e movimenti che avevano preso parte al “contro-corteo” dell’anniversario di Capaci, questa volta al grido di “Basta Stato-mafia“. La manifestazione partirà alle 15 proprio dall’albero Falcone, ormai divenuto simbolo dello “scollamento” tra l’antimafia istituzionale e quella movimentista. «Il corteo sarà composto dalle stesse persone che il 23 maggio sono arrivate in via Notarbartolo e in maniera poco edificante sono state fermate quando stavano per arrivare all’albero Falcone per il minuto di silenzio – ha dichiarato Salvatore Borsellino -. Ecco, questo non accadrà il 19 luglio: in via D’Amelio saranno i benvenuti».

Poche ore dopo, alle 19, inizierà invece la fiaccolata organizzata dalla destra palermitana – che ha sempre sbandierato l’appartenenza politico-ideologica di Paolo Borsellino, che non fece mai mistero della sua vicinanza all’MSI -, che da piazza Vittorio Veneto confluirà fino in via D’Amelio. Sono attesi la presidente della commissione antimafia Chiara Colosimo e i ministri di Fdi Andrea Abodi e Nello Musumeci. Ma, anche qui, non mancano i malumori e le voci fuori dal coro. Fabio Granata, storico esponente della destra siciliana – arrivato in passato alla vicepresidenza della Commissione Antimafia e protagonista dello “strappo” degli ex di Alleanza Nazionale con il PDL di Silvio Berlusconi – quest’anno ha per esempio deciso di smarcarsi dall’evento, di cui è sempre stato uno dei principali promotori. L’ex deputato, oggi assessore a Siracusa, ha criticato il governo Meloni per non aver «determinato su questi temi una rottura auspicata (non solo a destra) con il berlusconismo», registrando la «malcelata soddisfazione» di alcuni settori del governo e del partito della premier per le assoluzioni dei Ros al processo sulla Trattativa e «l’autentica crociata contro i magistrati» del ministro Nordio. Volgendo lo sguardo allo schieramento opposto, Granata ha anche attaccato l'”interpretazione storiografica miope, ideologica e sostanzialmente falsa” che “a sinistra ha preso sempre più piede”, in cui si promuove l’idea di una «alleanza e organica» di fascismo e neofascismo con Cosa Nostra.

A confluire tra i dimostranti meloniani sarà poi un terzo corteo, quello organizzato dalla Nuova Democrazia Cristiana. Il suo leader indiscusso, l’ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro – condannato nel 2011 per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra – non sarà però fisicamente presente, poiché impegnato in un viaggio in Burundi. [di Stefano Baudino]

Agenda rotta. La Palermo bene, quella buona e le surreali divisioni per l’anniversario della morte di Borsellino. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta il 17 Luglio 2023

Il 19 luglio ci saranno tre grandi manifestazioni nel capoluogo siciliano per commemorare l'eccidio di Via D'Amelio del 1992. Una spaccatura tutta politica che fa scivolare in secondo piano il vero senso della commemorazione

Potendo, inserirebbero una data in più nel calendario. Un luglio di 32 giorni. Con due 19 luglio, come una data che si inceppa. Allo scrittore argentino Borges, chissà, sarebbe piaciuto. Qui non siamo nella letteratura, purtroppo, ma nella realtà, ed è quello che accade, in Sicilia, sulle spoglie delle vittime della mafia. La memoria è sempre più terreno di scontro, e mentre si avvicina un’altra data fatidica, il 19 luglio, appunto, giorno in cui si ricorda l’eccidio di Via Mariano D’Amelio, a Palermo, in cui persero la vita il dottore Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, le tensioni tra i diversi fronti dell’antimafia aumentano.

E così, il 19 luglio sarà almeno doppio. La destra siciliana si dà appuntamento, come ogni anno, in piazza Vittorio Veneto, a Palermo, per raggiungere via D’Amelio la sera del 19 luglio e rendere omaggio a Paolo Borsellino. Il secondo corteo, invece promosso dalla Cgil con una serie di sigle, sfilerà dall’Albero Falcone a partire dalle 15, il corteo gemello del 23 maggio finì a manganellate, e ai partecipanti fu impedito di arrivare all’Albero Falcone, scelto adesso come punto di partenza. 

È anche per questo che l’avvicinarsi del 19 luglio si è caricato di tensioni. Serpeggia tra associazioni, comitati studenteschi, collettivi, una voglia di rivincita. Si legge nel manifesto delle sigle aderenti: «Noi siamo in strada. Per noi la battaglia è questa, mentre c’è chi non ha problemi ad avere rapporti con chi ha avuto il sostegno di condannati per reati di mafia». Il riferimento è a Maria Falcone, sorella del magistrato Giovanni, che con la sua Fondazione collabora con Regione e Comune, nonostante il presidente della Regione Renato Schifani e il sindaco di Palermo Roberto Lagalla abbiano l’appoggio di Marcello dell’Utri e Totò Cuffaro, i grandi nemici dell’antimafia militante siciliana.

Nel manifesto, poi, anche un passaggio sulla presidente meloniana della commissione Antimafia, Chiara Colosimo, la cui elezioni è definita «inopportuna»: «Inopportunità – si legge ancora – dovuta ai suoi rapporti con Luigi Ciavardini, condannato, in via definitiva, come esecutore materiale della strage di Bologna». Un attacco, dunque, alla presidente che sarà presente il 19 luglio durante le commemorazioni per la strage.

La sera, dicevamo, ci sarà la fiaccolata organizzata da gruppi e movimenti che della galassia della destra siciliana, che da sempre ha avuto Paolo Borsellino nel suo pantheon. «In tanti anni mai una polemica, mai un incidente tra la nostra comunità e le Agende rosse – racconta Fabio Granata, uno dei politici di riferimento per la lotta alla mafia nella destra siciliana – anzi applausi reciproci e sorrisi. Da qualche anno, invece, il 19 luglio ha iniziato purtroppo a esser vissuto in un clima del tutto diverso».«Loro sono la Palermo bene – ironizzano intanto le associazioni antimafia – noi invece siamo la Palermo buona».

Alberto Di Benedetto, del forum 19 luglio e social media manager di Fratelli d’Italia a Montecitorio, cerca di gettare acqua sul fuoco: «Ogni manifestazione in ricordo di Borsellino o contro la mafia è importante, ben accetta e va rispettata. Poi, che la gente vada a quella delle 15 o passi dalla fiaccolata, per me è indifferente. Io mi auguro davvero che ogni anno possa esserci sempre più gente. Alla fiaccolata abbiamo sempre scelto di non avere simboli di partito, perché l’antimafia non deve avere colore politico».

Ma in realtà le manifestazioni per ricordare la strage non sono due, ma tre. C’è infatti l’altro fronte, quello delle celebrazioni ufficiali, che vede una spaccatura ancora più dolorosa quello della famiglia Borsellino con il movimento delle Agende Rosse, nato sulla scorta della domanda di verità e giustizia dopo la strage di Via D’Amelio. Le agende rosse insistono ancora sul tema della Trattativa Stato – mafia, nonostante il bollo definitivo della Cassazione. La famiglia Borsellino è di diverso avviso. I figli non credono che Paolo Borsellino sia stato ucciso perché si oppose alla trattativa Stato-mafia, ritengono più plausibile che dietro la strage del 19 luglio 1992 possa esserci invece l’interesse mostrato dal magistrato per il rapporto mafia-appalti del Ros dei Carabinieri.

Fabio Trizzino, legale della famiglia Borsellino, nonché marito di Lucia Borsellino, attacca: «Ho l’impressione che i movimenti antimafia possano essere oggetto di una strumentalizzazione da parte di chi ha interesse, una volta viste cadere determinate ricostruzioni, a insistere. Mi chiedo se le Agende rosse siano veramente al servizio della ricerca della verità, oppure se sono innamorate di una tesi, quella della trattativa, in maniera dogmatica». 

Trizzino difende anche Colosiamo: «Nella scorsa legislatura la mia audizione in commissione Antimafia, auspicata dall’allora presidente Nicola Morra, non ha trovato tempi e modi per essere realizzata. Forse perché le tesi portate avanti dalla famiglia Borsellino venivano ritenute non in linea con una certa narrazione? L’attuale presidente della commissione, Chiara Colosimo, ha invece subito manifestato la sua disponibilità alla mia audizione».

Le parole di Trizzino hanno provocato la reazione del fratello del giudice, Salvatore Borsellino, che, si è detto «incazzato» e ha aggiunto: «Da avvocato Trizzino dovrebbe sapere che la trattativa non è stata smentita, è solo stata considerata non reato». E ancora: «Non posso accettare che si accusino le Agende Rosse, e quindi me, di andare dietro a un’idea e non di ricercare la verità come ho fatto, e continuo a fare, in tutti questi anni. Non sono solo deluso, mi perdoni il termine, sono incazzato». Il presidente del Tribunale di Palermo, Piergiorgio Morosini, ha cercato di fare da paciere proponendo un confronto in campo neutro, il Tribunale: «Vorrei aprire il palazzo di giustizia, dove hanno vissuto e lottato i nostri martiri, a chi ormai non dialoga più».

Si avvicina così un 19 luglio all’insegna della divisione e della contrapposizione che mette in secondo piano la questione sostanziale: la richiesta inevasa di verità e giustizia sui mandanti del massacro di Paolo Borsellino e sui loro complici, al quale ha fatto seguito – ricordiamolo sempre – il più grave depistaggio nella storia della Repubblica. A mettere tutti d’accordo, comunque, ci pensa il ministro della Giustizia Carlo Nordio. La sua idea di rivedere il concorso esterno per associazione mafiosa ha creato in Sicilia cori unanimi di dissenso, da movimenti e associazioni sia a destra sia a sinistra.

E poi c’è un’altra cosa a mettere tutti d’accordo: il caldo. Il 19 luglio la Sicilia sarà al centro di un’ondata di caldo eccezionale. A Palermo sono attesi 43 gradi. Nell’afa del pomeriggio, ricordare Borsellino e le vittime della mafia sarà una prova di resistenza umana. Chissà se litigheranno anche su quello, nei vari cortei, su chi ha sudato di più, e con chi.

 Falcone e Borsellino, "giù le mani". Sallusti: sono stati vittime della sinistra. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 25 maggio 2023

Proviamo a mettere le cose in chiaro, perché quando la sinistra dice alla destra come ha fatto nelle scorse ore a proposito della nomina del presidente della commissione parlamentare antimafia e dell’anniversario della strage di Capaci, “giù le mani da Falcone e Borsellino”, sta bestemmiando in chiesa. Andiamo con ordine. Paolo Borsellino era un uomo di destra che più di destra non si può, da giovane universitario fu dirigente del Fuan, l’organizzazione del Movimento Sociale Italiano che raccoglieva gli studenti di destra e nel 1992, due mesi prima della sua morte, il Msi lo candidò come presidente della Repubblica: ottenne solo 47 voti perché chi oggi a sinistra e non solo lo celebra come un Giusto della Patria gli preferì Oscar Luigi Scalfaro.

Tutto questo è stato censurato, rimosso da una propaganda martellante, non ne trovate traccia neppure sulla sua biografia su Wikipedia che non è quel luogo di libertà e indipendenza che dice di essere. E veniamo a Giovanni Falcone, ucciso sì dalla mafia ma ancora prima dalla sinistra politica e giudiziaria. Nel 1990, l’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando, leader della sinistra cattocomunista, intervistato da Michele Santoro a Samarcanda, iniziò il killeraggio: «Falcone- disse senza avere in mano uno straccio di prova - ha una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti». A ruota seguì una campagna denigratoria guidata dalla corrente di sinistra della magistratura, Magistratura democratica, e un processo davanti alla commissione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura da parte di colleghi invidiosi del suo successo e molto ansiosi di disfarsi di una figura diventata ingombrante.

E adesso la sinistra ci dice “giù le mani da Falcone e Borsellino”? Tenetele giù voi le mani dalla memoria di eroi che non sono mai stati vostri, eroi che sarebbero entrambi ancora vivi se la sinistra non li avesse scaricati e abbandonati al loro destino, nel caso di Borsellino non solo ma anche perché uomo di destra. La sinistra può rimuovere e sbianchettare la storia quanto vuole, per interesse e per vergogna, ma la storia è questa e nessuno può cambiarla: Borsellino e Falcone sono vittime della sinistra ed eroi della destra.

L'intervista. La mia verità su Falcone, l’intervista a Claudio Martelli sul magistrato antimafia. Claudio Martelli racconta in un libro la storia inedita e dolorosa di Giovanni Falcone al tempo in cui non era ancora un mito. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 27 Maggio 2023 

Claudio Martelli, allora vicesegretario del PSI, fu ministro della Giustizia dal febbraio 1991 al febbraio 1993. Fu lui a individuare in Giovanni Falcone l’uomo a cui affidare la Direzione Generale degli Affari Penali. In quel periodo Claudio Martelli e Giovanni Falcone lavorarono al progetto di una Superprocura Antimafia. Sulla storia e l’autentica persecuzione del magistrato antimafia, l’allora Guardasigilli ha pubblicato con La Nave di Teseo “Vita e persecuzione di Giovanni Falcone”.

Il dialogo tra lei, Martelli e Falcone fu un dialogo eminentemente politico.

“Politico nel senso che ci rendemmo conto di quale salto di qualità criminale avesse compiuto Cosa nostra, e ci rendemmo conto di come le istituzioni fino ad allora avessero sottovalutato il problema”.

Il rapporto stretto tra Martelli e Falcone diede modo a molti di attaccare entrambi. Perché?

“Avevo capito che il toro andava preso per le corna e individuato in Falcone il miglior interprete della lotta alla mafia. Per questo lo avevo voluto fortemente a capo degli Affari Penali del Ministero. Ed eravamo tutti e due bersagli di feroci attacchi. Ricordo a questo proposito le parole di Borsellino: “La magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, ha cominciato a far morire Falcone…”

Si riferiva alla bocciatura da parte del Csm?

“Non solo. Certo, la bocciatura del Csm pesò molto ma non è ascrivibile a quello l’aver esposto Falcone alla mano armata dei suoi assassini. Ne scrivo nel mio libro a pagina 107…”

Ecco la pagina. “Dopo il verdetto in cui D’Ambrosio telefonò per comunicare l’esito del voto. Coraggio, andrà meglio la prossima volta, nomineremo te”. Parola alle quali Falcone replicò: “Non ci sarà una prossima volta. Hanno ingaggiato una battaglia”.

“Sì, Falcone capì che se il suo avversario ufficiale era la mafia, quello ufficioso era seduto tra i banchi dei suoi colleghi”. Un mese dopo la morte di Falcone, Borsellino fa una conferenza stampa a Palermo e dice quella frase famosa sulla magistratura che ha bocciato Falcone al Csm. ‘Mi avete crocefisso, mi avete inchiodato come bersaglio. Avete eseguito la sentenza di morte che la mafia ha pronunciato da tempo. La può eseguire adesso perché sa che non mi vogliono neanche i miei’, mise agli atti”.

Ed è andata così?

“Quello che succede a Palazzo di giustizia, la mafia lo sa il minuto dopo. Appena avranno saputo, immagino abbiano brindato a Champagne. Avranno detto: adesso lo facciamo fuori. Era come un generale che tre settimane prima aveva vinto con il maxiprocesso, ottenendo la sentenza di condanna di tutta la cupola mafiosa, e da tutto il mondo viene riconosciuto come giudice antimafia numero uno. Si candida semplicemente per fare il capo dell’Ufficio Istruzione, perché Caponnetto si era dimesso, era stanco e andava sostituito. Falcone in realtà era già da un po’ capo dell’Ufficio istruzione. E quelli, non solo non ratificano questa situazione di fatto ma dopo che Falcone aveva ottenuto il suo successo storico, gli tolgono il comando dell’Ufficio istruzione. Affidandolo a un signore che si chiama Tonino Meli. Un giudice che non aveva mai fatto l’investigatore in vita sua, e apparteneva a quella corrente maggioritaria della magistratura – anche siciliana – che non voleva saperne delle idee di Falcone. E così si torna all’antico, ciascun Procuratore fa la sua indagine come vuole, non c’è più un coordinamento. E quelle Procure che non avevano abbastanza magistrati, Termini Imerese, Gela, se con Falcone erano spinte a concentrare tutto su Palermo, adesso riprendevano ciascuna la propria attività. Magari andando a rilento, con il rischio di perdere pezzi lungo la strada”.

Perché concentrare e non decentrare, per un fatto di mezzi, di uomini?

“Anche per una idea generale, una visione di Cosa nostra diversa. Qualcuno pensava che Cosa nostra fosse un pulviscolo di mandamenti che si potevano affrontare uno per uno. Falcone capì che era una unica organizzazione globale e che c’era bisogno di un’unica centrale di contrasto alla mafia. L’interpretazione che ne ha dato Giovanni Falcone era di una organizzazione unitaria, gerarchica e militarizzata”.

Perché invece voi due vi siete trovati così vicini, così uniti?

“Ero straconvinto, così come Falcone, della grande sottovalutazione della mafia, frutto di una filosofia sbagliata, rinunciataria, rassegnata. Non bisogna rinunciare mai, neanche davanti alle più grandi battaglie. Quando arrivai io al Ministero, l’aria era ferma. “Non bisogna esagerare con la repressione e la mafia non esagererà con la violenza”, si diceva. Io pensavo il contrario, che bisognava riorganizzare tutto e puntare sulla figura di Falcone che si era dimostrato un investigatore formidabile”.

Lei e Craxi eravate consonanti, su Falcone?

“Sì, su tutto e su Falcone sicuramente. Il Psi voleva candidare Falcone alle elezioni della primavera 1992. L’idea nacque in Sicilia, dai nostri compagni siciliani. E la voce iniziò a circolare. Falcone venne da me un po’ turbato, a chiedermene conto. Gli dissi che io lo volevo Procuratore nazionale antimafia, non deputato. Nel suo ruolo avrebbe inferto alla mafia i colpi decisivi che seppe assestare, da parlamentare no. E ci trovammo anche su quello d’accordo”.

La polemica dell’epoca anticipava quella sulla Trattativa che ha interessato, per dirne uno, il generale Mario Mori.

“Lo avevo già scritto dieci anni fa nel mio libro Ricordati di Vivere. L’ipotesi della Tratattiva Stato-mafia ha consentito a persone come Travaglio di costruire una fortuna sul niente. Hanno creato un format su una speculazione suggestiva che non ha né capo, né coda. Se si intende il fatto che qualche ufficiale dei Carabinieri ha trattato con qualche emissario della controparte, certo. Lo ha spiegato Mori, sono accorgimenti che gli investigatori usano con i confidenti, facendo balenare qualche vantaggio e ottenendo in cambio delle informazioni importanti per le indagini”.

In quegli anni nacque il 41 bis, non sarebbe tempo di fargli un tagliando?

“Assolutamente sì. Il 41bis nacque come norma transitoria per sottolineare un passaggio importante della lotta alla mafia. La linea dura, a contrasto delle bombe e della strategia stragista di Cosa nostra. Quando divenne legge ci fu molta polemica, soprattutto da parte del Pci e di alcuni giuristi progressisti tra i quali ricordo Cesare Salvi e Luciano Violante. Si gridò alla soppressione della libertà. Dissi che doveva servire nell’emergenza ed essere rivisto nel tempo. Come molte misure temporanee, divenne definitiva. E con chi? Durante l’ultimo governo Berlusconi, per mano dell’allora Guardasigilli, Angelino Alfano”.

E’ tempo di rivederla, quindi?

“Direi proprio di sì. Perché la lotta alla mafia la stiamo vincendo noi. Grazie al sacrificio di uomini come Giovanni Falcone, magistrato che dovette combattere contro una parte della magistratura”.

Aldo Torchiaro

Così fu tradito. Chi era Giovanni Falcone, un gigante odiato da mafia e antimafia. 31 anni fa la mafia lo uccise con un attentato mostruoso. L’antimafia l’aveva lasciato solo e lo criticava. Piero Sansonetti su L'Unità il  24 Maggio 2023

Il Tg3, quel pomeriggio, disse che c’era stato un attentato vicino all’aeroporto di Palermo. Che Falcone era ferito. Poi arrivarono le conferme. Poi la notizia che era morto. Poi che era morta anche la moglie, anche la scorta. Solo uno dei poliziotti che lo proteggevano era sopravvissuto, ma era gravissimo. Son passati trentun’anni da quel pomeriggio da cani. Ricordo tutto benissimo. Ero in redazione. Chiamai Veltroni, che era direttore da pochissimi giorni. Non era al giornale. Tornò subito. Eravamo sconvolti. Forse persino impauriti. Poi i funerali, e quel pianto struggente della moglie del poliziotto Vito Schifani. “Loro non si pentono, non si pentono…”.

Per chi da qualche anno seguiva le vicende alterne della lotta sanguinosa tra una parte della magistratura palermitana (minoritaria) e la mafia fu una frustata. Che ci costrinse a ripensare a molte cose. Falcone, quando fu ucciso, era molto isolato. Contro di lui c’erano non solo le forze larghe e potenti controllate dalla mafia. Contro di lui si era scatenata una campagna di sinistra che aveva messo insieme robusti settori dell’antimafia. Piuttosto, direi, della presunta antimafia. Che però si era aggregata attorno ad alcune figure simboliche, e attorno ad alcuni giornali, e alcune trasmissioni Tv, e si era autoassegnata il distintivo. Il distintivo che diceva: l’antimafia siamo noi. Noi e basta. Lo portano ancora addosso.

Proprio questi settori della cosiddetta antimafia avevano isolato Falcone e lo avevano messo, diciamo così, a processo. Lo accusavano di essere troppo indulgente, troppo garantista, di fare il gioco delle cosche. E di proteggere la politica, con quella sua “ idea stupida” secondo la quale il terzo livello non era mai esistito. E con quella fissazione che per incriminare e condannare servissero le prove…

La tesi degli “antimafia” – che ancora è la tesi che domina tra gli eredi dell’“antimafia” – era semplice e folle: la vera mafia è il terzo livello, cioè la politica; e la mafia è solo e appena appena il braccio armato. Riina, o Badalamenti, o Luciano Liggio, o Bontade erano semplici funzionari del potere occulto. Chi erano i capi? Bastava buttare giù un po’ di nomi e non c’era bisogno di prove, neppure di indizi. Bastava il distintivo antimafia per dire: è così. I capi? Andreotti, naturalmente, era il capo, e forse anche Fanfani, e poi Berlusconi, Dell’Utri e tutti gli altri. Anche qualche socialista, anche qualche repubblicano. E Mannino, e magari Mancino, e un po’ Conso, e poi pure Napolitano. Questi nomi vennero dopo. Allora il punto fermo era Andreotti, l’amico dei fratelli Salvo. Ci vollero anni per accertare che Andreotti i fratelli Salvo non li conosceva. E così, quando Falcone incriminò il falso pentito Pellegriti che accusava Andreotti, o meglio, lo calunniava, l’antimafia latitante si scagliò contro Falcone. È complice, è complice.

Giovanni Falcone morì così. Solo. Solo e abbandonato. E accusato da gruppi di antimafiosi che non avevano mai mosso un dito per contrastare la mafia. Lui era l’uomo che più di tutti gli altri esseri viventi aveva colpito al cuore Cosa Nostra. Ne aveva avviato la distruzione, col maxiprocesso. Lui era un genio delle indagini. Probabilmente è stato il più straordinario magistrato mai apparso sul suolo italiano. Ma non produceva vantaggi politici a nessuno. Non era interessato a questo. Concepiva il lavoro del magistrato come una cosa molto concreta: cercare il reato, seguire i soldi, trovare il colpevole, e poi dal colpevole risalire all’organizzazione. Lavorava con grandi collaboratori. Indagava a tappeto. E così si creava nemici, nemici, nemici. Soprattutto nella magistratura palermitana. Alcuni erano suoi nemici perché erano amici della mafia. Senza fare nomi. Altri solo per invidia, perché non volevano che diventasse troppo potente. O semplicemente per paura. A Palermo, in quegli anni, se andavi seriamente contro Cosa Nostra rischiavi davvero la pelle.

Restò solo Falcone. Negli ultimi mesi di vita lo difendevano solo Claudio Martelli, Gerardo Chiaromonte, un drappello di socialisti e cinque o sei magistrati amici: Borsellino, Di Lello, e pochi altri. E poi c’erano i Ros dalla sua parte. I carabinieri del colonnello Mori, che sotto la direzione di Falcone svolgeva le indagini e aveva preparato un dossier esplosivo. Si chiamava “mafia e appalti”. Bisognava lavorare ancora su quel dossier per arrivare a stroncare i legami tra le imprese del Nord e i corleonesi. Perché nel frattempo in Sicilia era avvenuta una cosa sconvolgente. Cosa Nostra era sfuggita di mano ai vecchi stati maggiori palermitani – Badalamenti, Bontade…- ed era stata conquistata dai Corleonesi di Riina e Provenzano. I corleonesi erano un corpo estraneo alla vecchia mafia. Erano un gruppo paramilitare, violentissimo, che concepiva la propria attività come qualcosa da proteggere con la morte e con le stragi. Non con la politica. I corleonesi non avevano nessun rapporto col mondo politico. Assomigliavano più ai narcos del Messico che ai vecchi siciliani di Cosa Nostra. Falcone aveva messo Mori e i Ros a lavorare sul dossier che poteva stroncarli. È molto, molto probabile che il motivo vero per il quale fu ucciso, Falcone, fu quello: fermare l’indagine sugli appalti.

E infatti Paolo Borsellino, dopo la sua morte, fece fuoco e fiamme per ereditare il dossier Mori. Voleva andare a fondo. Aveva capito che Giovanni era arrivato vicino vicino alla spallata finale. E che la spallata finale avrebbe tirato giù un bel pezzo del mondo capitalista. Non aveva capito però che la mafia era ancora potentissima. E che proprio perché stava per crollare il muro avrebbe alzato il tiro. O forse l’aveva capito, e se ne fregava.

Già, le cose andarono così. La mafia uccise Borsellino e la Procura di Palermo, nel silenzio generale, archiviò il dossier Mori. Indagine finita. Poi iniziarono i depistaggi. Fino al depistaggio principale: la bufala della trattativa stato mafia che serviva a bloccare definitivamente il colonnello Mori e a sviare le indagini sugli imprenditori del Nord. I giornali lanciarono il nome di Berlusconi, e i Pm appresso, perché quel nome serviva a coprire i nomi dei colpevoli. Sapevano tutti che Berlusconi con la mafia non c’entrava proprio niente.

E oggi? Beh, non siamo molto lontani da allora. I circoli dell’antimafia ufficiale, quelli che infilzarono Falcone, sono ancora forti e dettano legge. Il dossier Mori è morto. Alcuni giornali continuano a raccontare della trattativa, e a sviare, e a depistare, e a proteggere chi aveva colpe gravi.

Ha ragione Mattarella, la mafia non è invincibile. E Cosa Nostra, in larga misura, è stata ferita a morte. Resta il bubbone della politica che vuole utilizzare mafia e antimafia per fare consensi, e polemiche, e per colpire l’avversario. Contro quel bubbone non si può far niente. Il giustizialismo è uno dei grandi mali della modernità, e per ora nessuno ha trovato una medicina che lo fermi. Piero Sansonetti

Attaccare le misure di prevenzione è da mafiosi”: il procuratore fa cadere l’ultimo muro. In un convegno organizzato dai penalisti in Sicilia, il capo dei pm di Palmi, Crescenti, ha parole pesantissime per “L’inganno” e per Cavallotti, descritto come una vittima nel libro di Barbano ma ritenuto dal magistrato “colpevole” di aver denunciato la barbarie del codice Antimafia. Errico Novi su Il Dubbio il 23 maggio 2023

È ancora difficile parlarsi. È ancora quasi impossibile discutere con serenità di misure di prevenzione, dello storture incistate nel codice Antimafia. Della barbarie che si realizza talvolta in virtù di quelle norme.

Lo dimostra il dibattito, peraltro di altissimo livello giuridico e straordinaria intensità emotiva, organizzato nello scorso fine settimana a Capo d’Orlando da Camera penale e Ordine degli avvocati di Patti, in Sicilia. Al centro della contesa, “L’inganno”, il libro di Alessandro Barbano, meritoriamente assurto a caso editoriale-giudiziario degli ultimi mesi, con la sua potente denuncia sugli “abusi” commessi dai “professionisti del bene”. La discussione è stata inserita nel più ampio programma della due giorni che l’avvocatura di Patti ha dedicato alle “Emergenze del sistema penale”.

Vi partecipano un moderatore emozionante nel suo racconto come il giornalista Nuccio Anselmo, un testimone, anzi una vittima degli abusi di cui parla Barbano, cioè Pietro Cavallotti, e un magistrato, il procuratore di Palmi Emanuele Crescenti. Cavallotti non può che rievocare l’assurdità, la barbarie appunto delle vicende che hanno polverizzato le imprese della sua famiglia e vanificato il sudore di due generazioni: «Mio padre e i suoi fratelli hanno visto il loro procedimento di prevenzione concludersi con una confisca definitiva nonostante fosse definitiva anche l’assoluzione, nel processo penale vero e proprio, dall’accusa di 416 bis. Noi figli abbiamo visto aprire a nostro carico un ulteriore processo penale, con parallelo procedimento di prevenzione, per “trasferimento di esperienza lavorativa” da parte dei nostri genitori, siamo stati assolti e almeno noi abbiamo ottenuto, su nostra impugnazione, anche l’annullamento dei sequestri. Peccato che siamo passati direttamente dall’amministratore giudiziario al curatore fallimentare, visto che il primo ha potuto tralasciare, in virtù della legge che glielo consente, il pagamento di fornitori e tasse, anche se si è ben guardato dal congelare i propri compensi, in tutto 700mila euro».

Da lì, l’inevitabile, lapidario giudizio: «Una misura di prevenzione che toglie il patrimonio agli assolti non è giustizia: è barbarie. Dobbiamo combattere la mafia senza distruggere le persone che con la mafia non c’entrano niente», ha concluso Cavallotti dopo la sintesi storiografica sul terrificante sistema di ingiustizie avallato dal codice Antimafia.

Ecco, così come è potente il racconto di Barbano, lo è anche una simile testimonianza “dal vivo”. Di fronte a tanta forza narrativa, Crescenti, che pure ha riconosciuto ed enumerato storture e possibili rimedi della prevenzione antimafia, si è difeso in modo particolarmente “ruvido”. Primo: «Non leggo libri di chi ha subito processi», avverte in riferimento a “L’inganno” che parla dello stesso Cavallotti e di altri casi analoghi, «così come non leggo un libro sulla malasanità scritto da chi è stato vittima di errore medico».

E già non è una mano tesa verso il dialogo. Poi: «Tra le Sezioni unite e lei, dottore Cavallotti, mi fido delle prime», replica a proposito del passaggio in cui l’imprenditore aveva ricordato la controversa pronuncia sull’assenza di incompatibilità per il magistrato chiamato a giudicare i ricorsi avverso le misure di prevenzione che lui stesso ha emesso. E va bene. Ma poi Crescenti ha decisamente alzato il tiro quando ha aggiunto «guai a chiedere di eliminare le misure di prevenzione, perché così si fa il gioco della mafia», e soprattutto quando ha detto che è «mafiosità» indicare come un problema dello Stato «l’aggressione condotta attraverso le misure di prevenzione».

Ora, è chiaro che la discussione si è surriscaldata. Accorato e impietoso, seppure impeccabile nelle argomentazioni, è stato pure il tono di Cavallotti. Eppure la mafiosità evocata dinanzi a chi è stato vittima innocente delle misure antimafia è insostenibile. Lo ha fatto notare, a Crescenti, il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, che non ha mancato di ricordare la «vergogna e la barbarie di amministratori giudiziari che non rispondono dei loro atti». Il procuratore di Palmi l’ha a propria volta condivisa. Ma poi ha ribadito che è «mafioso prendere spunto da un caso per aggredire il sistema».

Il discorso è che lo scarto fra l’enfasi con cui l’Antimafia — non Crescenti, al quale va riconosciuto di non negare la necessità, per esempio, di una «maggiore interdipendenza fra processo penale e misure di prevenzione» — ha sempre proclamato l’intangibilità di quel sistema, da una parte, e le ingiustizie che d’altra parte quel sistema può produrre, ecco, quello scarto provoca uno stridore così acuto che parlarsi diventa impossibile. E perciò, siamo dinanzi all’ennesima dimostrazione di quanto sia urgente rendere più coerenti con lo Stato di diritto le misure antimafia. Ne guadagnerebbe lo stesso spirito costruttivo di un confronto come quello dello scorso fine settimana.

Barbano: “Mi fa paura un pm che bolla come mafiose le mie critiche all’antimafia”. Il giornalista e autore de “L’inganno” replica, in una lunga intervista, al procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, che aveva additato come pericolose le obiezioni sulle misure di prevenzione. Errico Novi su Il Dubbio il 24 maggio 2023

Emanuele Crescenti è un procuratore della Repubblica. Capace di vivere la propria funzione con un non trascurabile grado di eroismo: la esercita a Palmi, nel territorio a più alta concentrazione ’ndranghetista del Paese. Ora, il procuratore Crescenti, come riferito dal Dubbio, ha duramente replicato, durante un convegno, a una vittima della in-giustizia antimafia come Pietro Cavallotti. Quindi ha apostrofato l’autore di un libro critico con il sistema antimafia come Alessandro Barbano. Riguardo al secondo, ha sostenuto che trarre da un caso singolo lo spunto per attaccare le misure di prevenzione è «mafioso». E “L’inganno”, il libro “scandalo” di Barbano sugli “usi e soprusi dei professionisti del bene”, sulla barbarie consumata a danno degli innocenti grazie alle norme della “prevenzione”, di quei casi è strapieno. La reazione di un magistrato di fronte a queste verità – processuali, cioè accertate nei limiti dell’umano – è dunque di scorgere un “collaborazionismo” in chi ne fa derivare una critica al codice Antimafia.

Vista la situazione, ci sembra giusto parlarne con te, Alessandro Barbano. A partire però da un altro fatto, concomitante col resoconto del conflitto dialettico fra l’avvocatura e il procuratore Crescenti. Sempre ieri, su un giornale come il Manifesto, noto per i titoli dalla folgorante genialità, si dava notizia dell’elezione di Colosimo al vertice della commissione Antimafia con il seguente epitaffio: “Capaci di tutto”. Vi si coglie l’anatema contro chi sconfessa il dogma antimafia, e sceglie per la Bicamerale una persona “colpevole” di essersi fatta fotografare con un condannato per eversione. C’è pure l’assimilazione fra chi “osa” tanto e chi sta con la mafia stragista. C’è insomma la linea rossa, sottile o meno, che separa il bene, e i suoi “professionisti” appunto, dal male.

Sì, in quel titolo ci sono molte cose. Ci vedo la teoria del doppio Stato, il complottismo come religione civile, come autobiografia della Nazione. E naturalmente ci vedo la censura moralistica di chi si sente autorizzato a dare patenti di idoneità e presentabilità rispetto all’assunzione di ruoli istituzionali. E soprattutto, direi, c’è una logica di potere: della serie, “l’Antimafia è roba nostra”. Cioè, l’Antimafia, la sua struttura, i suoi organismi, appartengono a un campo ben determinato. Non possono essere appannaggio di altri che a quel campo sono estranei.

Ecco, ma qui siamo a una rivendicazione di inaccessibilità (per gli estranei) che rimanda alla mistica dell’antimafia. Ai suoi dogmi. E torniamo al procuratore Crescenti, che nel suo liquidare come “mafioso” il discorso critico sulle misure di prevenzione, sembra assumere la rigidità di chi preserva un dogma.

Se critichi, se denunci la barbarie delle misure di prevenzione, se spieghi quanto siano incompatibili con lo Stato di diritto, sei un nemico. Non hai diritto di parola. La narrazione dell’antimafia non è contendibile, quindi non esistono vittime dell’antimafia, e se esistono sono sostanzialmente mafiosi, e non dovrebbero essere invitate a un tavolo in cui si parla di mafia, riservato solo ai rispettabili. Il procuratore Crescenti non contesta nel merito chi critica l’antimafia, gli addebita anzi una mafiosità. Ma lo dice solo incidentalmente a chi è autore del libro…

Che sei tu…

…lo dice soprattutto agli avvocati, che si sono intestati il diritto, la pretesa, l’impudente arbitrio di mettere in discussione il codice Antimafia. E questo sinceramente mi fa paura.

Esattamente perché?

Perché a definire mafioso il discorso che segnala le aberrazioni delle misure antimafia non sono io, che ho solo le parole come strumento: lo fa un magistrato che ha nelle mani armi pervasive, consegnate negli ultimi quarant’anni dalla politica alla magistratura. Armi che producono effetti collaterali. Mi fa paura in quanto destinatario dell’avviso, se posso chiamarlo così, ma anche come cittadino, perché il procuratore Crescenti rappresenta l’azione penale nel Mezzogiorno d’Italia, cioè l’istituzione che incarna la forza repressiva dello Stato. Il procuratore è anche un docente della Scuola superiore della magistratura: se trasferisce un simile approccio ai nuovi pm e ai nuovi giudici, c’è da temere che il dogmatismo dell’antimafia sia destinato a irrigidirsi anziché ad evolvere.

Crescenti ha reagito con quelle frasi sulla “mafiosità” alle dure critiche sulle misure di prevenzione, ma ha anche razionalmente riconosciuto l’urgenza dei correttivi, li ha elencati. È come se la prima parte della replica riflettesse anche una sorpresa, uno spiazzamento nel verificare che la critica alle misure antimafia è assai più strutturata di quanto si possa immaginare.

C’è sicuramente la sorpresa di cui parli. Ma a me sembra vi sia anche la difesa di un potere immane, connesso all’esercizio delle prerogative attribuite dal codice Antimafia alla magistratura. Mi spiego. Le norme su sequestri, confische e interdittive consentono di infliggere delle pene, al di là di come la Corte costituzionale ha qualificato, con un artificio sofistico, tali misure. Il codice Antimafia cioè consente di somministrare provvedimenti afflittivi senza provare la colpevolezza di chi li subisce. È un potere immane, appunto: si può infliggere una pena a un innocente. Siamo oltre la meccanica tipica dei regimi che, se mai, falsificano le prove della colpevolezza: siamo al potere del sovrano nelle monarchie assolute, al potere di dare la morte a chi è non cittadino ma suddito. Ecco, se non si ha idea di che strumento di distruzione di massa sia il codice Antimafia, della possibilità di confiscare beni agli innocenti, a chi è assolto in un processo, ai terzi ignari che abbiano acquisito quei beni lecitamente, se non ci si rende conto di quanto sia assoluto questo potere, non si comprende la sorpresa di chi si trova dinanzi all’ipotesi anche remota che tutto questo sia messo in discussione. Quel potere, va ricordato, non esiste in nessuna democrazia d’Europa.

Eppure Crescenti si è anche detto d’accordo sulla necessità di correggere le misure di prevenzione con un «meccanismo probatorio serio», con una «interdipendenza» fra tali provvedimenti e il processo penale vero e proprio.

Mi chiedo: se tale disponibilità è concreta, perché nessuno ci ha mai pensato, in quarant’anni? Perché in questi anni, di fronte a ogni intervento sul codice Antimafia, a cominciare dalla riforma Orlando, proprio i magistrati hanno invece fatto pressione affinché questi poteri speciali fossero estesi ai reati contro la Pa, nonostante il parere contrario di tanti autorevolissimi giuristi? E perché, se la disponibilità a eliminare gli aspetti abnormi della legislazione antimafia è effettiva, quando poi si discute di riforme, la premessa è che “però, per i reati più gravi, non deve cambiare nulla”? Sediamoci domattina e stabiliamo che una misura di prevenzione non può essere adottata a fronte di una sentenza penale di assoluzione.

Se l’antimafia è un sistema dogmatico, la sua liturgia riflette alla perfezione il dogmatismo e l’intransigenza tipici dei fondamentalismi.

Ecco, siamo all’altro aspetto che considero decisivo: il metalinguaggio. Inquinato da una logica di polizia. È una forma di “fascismo inconsapevole”. Lo rappresenta perfettamente, secondo la logica che i giuristi definirebbero a contrariis, una sentenza illuminata con cui pochi giorni fa la Cassazione ha stabilito che il ricorso alle interdittive non può basarsi su una mera familiarità mafiosa del destinatario. È stato travolto l’automatismo per cui chi ha un nonno, uno zio o un padre mafioso debba rassegnarsi a subire l’interdittiva.

Anche il Consiglio di giustizia amministrativa siciliano ha adottato, persino in anticipo rispetto alla Suprema corte, tale orientamento.

Ecco, possiamo rallegrarcene, ma dobbiamo anche chiederci, da intellettuali, perché sia necessario affermare con una sentenza ciò che dovrebbe essere pacifico in uno Stato di diritto. Anche un bambino sa che non è giusto far pagare ai figli le colpe dei padri. Ma se le supreme giurisdizioni devono sancirlo con una sentenza è perché, per trent’anni, il procedimento di prevenzione ha risposto a una logica di polizia. E così è stato, a ben vedere, non solo per la prevenzione, ma anche per la giustizia sia cautelare sia ordinaria.

E tutto è lecito perché una retorica moralista e dogmatica ha impedito qualsiasi esercizio critico.

Un metalinguaggio divenuto, di fatto, in modo inavvertito, il racconto della Repubblica. Un linguaggio intuitivo: nei secoli, la civiltà ha modellato il diritto con una logica controintuitiva, cioè ha frapposto tra il fine e il mezzo dell’azione penale tutta una serie di paletti grazie ai quali la legge ha assecondato l’irripetibilità dei fatti umani, tutti l’uno diverso dall’altro.

A parità di indizi puoi trovare un colpevole come un innocente.

Esatto. Ma in questi ultimi quarant’anni si è affermata la logica contraria: un diritto intuitivo, reattivo, secondo cui il fine giustifica i mezzi. Costruito su allusioni e suggestioni. Capace di informare lo stile dei giornali che scrivono e titolano “è stato assolto, ma secondo l’informativa della Dia, dieci anni prima era a cena con...”.

E così hanno liquidato Colosimo come “unfit”.

Lei ha spiegato di conoscere Ciavardini per aver sostenuto un’associazione impegnata nel reinserimento dei detenuti. Ma non poteva sfuggire a un altro assioma: l’irredimibilità del male. Sostenuto da chi con una mano brandisce la Costituzione e con l’altra finge di non sapere che, in base alla Costituzione, la pena deve tendere al recupero del condannato.

Giovanni Falcone, 31 anni per una mezza verità. E la strage di Capaci resta intrappolata tra memoria e retorica. Nella giornata del ricordo si consuma il rito della celebrazione delle vittime. Il rischio è che si trasformi in una liturgia vuota. Accanto ai processi che dicono che fu la mafia a volere l’eccidio, manca ancora un pezzo fondamentale: chi la rese possibile. Enrico Bellavia su L'Esprresso il 23 maggio 2023.

Intravista nei processi, sfuggita di mano all’ultimo miglio, inseguita ancora in una caccia sfibrante e persa di nuovo. A trentuno anni dalle stragi del 1992, la verità è l’ultima grande latitante di questa storia di patti e ricatti, di sangue, piombo, tritolo, sacrifici e carriere. Perdite e tornaconti. Mafia e potere. Sarà per questo che il mesto ripetersi di una giornata del ricordo è insieme doveroso tributo ma anche un inevitabile trionfo di retorica. Da tempo immemore ormai, all’esercizio attivo di memoria che pretende certezze su quel che è stato, si è sostituito l’accomodante rito delle celebrazioni. In parole, in musica, in canzoni, libri. Articoli - e anche questo, di sicuro, non fa eccezione.

Il 23 maggio, tutti i 23 maggio, Giovanni Falcone è solo e soltanto l’eroe. Comodo espediente per issarlo su un piedistallo sacrale, fargli compiere un giro in processione e riporlo nella teca dei santi laici che nessuno potrà mai eguagliare. Politici impresentabili, compromessi, funzionari dalle dubbie morali e dalle incerte obbedienze, senza imbarazzo, davanti a folle plaudenti di ragazzini obbligati al rito, celebrano la cerimonia che ha la meccanica di una liturgia. Falcone, ad esempio, va sempre omaggiato di una citazione, saccheggiando il repertorio dei suoi pensieri, incuranti di piegarlo a una tesi e al suo opposto.

Poco importa che si sia stati tra quelli, commentatori ed editorialisti in prima fila, che in vita ne osteggiarono l’impegno, ne ostacolarono il percorso o semplicemente si voltarono dall’altra parte, isolandolo. Con Falcone si ammantano di eroismo la moglie Francesca, magistrato e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani rimasti con loro mentre i boia prendevano la mira.

Tutti eroi perché ci si dia pace e li si possa dimenticare già il 24. Eppure, se le parole hanno un senso, pensare a loro concretamente come vittime del dovere, compiuto senza esitazioni e fino in fondo, forse ne esalta l’assolvimento del compito che si erano dati e ci costringe a concentrarci su chi avrebbe dovuto fare altrettanto e non lo fece.

Perché negli atti mancati, non soltanto in quelli compiuti c’è l’impronta della corresponsabilità, della complicità. La mafia volle la strage, ci hanno spiegato le sentenze. Ma questo è solo un pezzo della storia e riguarda il regno della volontà. In quello della possibilità, le convenienze, le compromissioni, la verità scorrazza libera. E più che un mistero è un segreto ancora ben custodito.

Senato, bagarre in aula dopo il discorso di Scarpinato su Strage Capaci. Paita: “Parole vergognose”. Redazione su Il Riformista il 23 Maggio 2023

“Il male di mafia non è affatto solo fuori di noi, è anche tra noi.” Sospettoso, giustizialista dell’ultima ora con toni a tratti inquietanti. Il discorso del senatore grillino Roberto Scarpinato in occasione della commemorazione per le vittime della strage di Capaci, ha suscitato pesanti polemiche e accesso l’aula del Senato.

Un popolo di colletti bianchi…che grazie alla mafia, hanno costruito carriere politiche e fortune economiche. Presidenti del Consiglio, Ministri, parlamentari nazionali e regionali, Presidenti di Regione, vertici dei Servizi segreti della polizia, alti magistrati e molti altri.”- prosegue il pentastellato – “fino a quando i protagonisti del passato e del presente di questo gioco cinico e sanguinario non saranno chiamati a rendere conto delle loro responsabilità, le stragi del 1992 del 1993 resteranno lo specchio della cattiva coscienza di questo Paese e segno della sua immaturità democratica.

Immediate le reazioni, prima fra tutte quella di Raffaella Paita, Presidente del gruppo Azione-Italia Viva in Senato. Senza mezzi termini Paita sostiene che Scarpinato “oggi come non mai, si debba profondamente vergognare e scusarsi anziché riproporre il fasullo teorema della trattativa Stato-Mafia, smontato dalla Cassazione e su cui ha costruito tutta la sua notorietà. Peraltro oggi ha utilizzato toni inquietanti facendo riferimento a figure istituzionali di cui si è guardato bene dal fare nomi e cognomi. Mai sentita una cosa simile nelle istituzioni.

Prosegue Paita – “E farebbe bene, anche, a ricordare che se la guerra a Falcone l’ha fatta la Mafia, la sua denigrazione è stata fatta ad opera di alcuni esponenti del Csm, che gli negarono fra l’altro, anche con la complicità di una certa stampa, il ruolo di Procuratore nazionale Antimafia”.

E sul ruolo del Csm si è concentrato anche l’intervento del senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri: “Il Csm ha scritto pagine francamente non virtuose anche quando negò a Falcone incarichi importanti e prestigiosi. Falcone infatti non ebbe una vita facile, non solo per l’aggressione mafiosa che ha distrutto la vita sua, della sua compagna e della scorta che lo accompagnava, ma perché in vita veniva a volte celebrato e a volte contrastato.” – prosegue Gasparri – “Fu negato a Falcone un incarico importante dal Csm, che meritava più di altri. Falcone fu accusato quando assunse i ruoli, forse anche per l’amarezza di quei giudizi, nelle strutture di governo in quegli anni, svolgendo un’azione fondamentale per preparare quella che sarebbe stata la procura nazionale antimafia, che non deve essere solo il luogo per preparare le candidature di un certo schieramento politico. C’è una strana coincidenza; non ce ne è uno che non si candidi da una certa parte politica.”

L'editoriale del 24/05/1992. “Assassinato Falcone, e adesso le parole sono gusci vuoti”: l’editoriale de L’Unità dopo la strage di Capaci. Luciano Violante su L'Unità il 23 Maggio 2023

Il 23 maggio del 1992 in un attentato a Capaci, Palermo, venne ucciso il giudice Giovanni Falcone. Alle 17:58 oltre cinquecento chili di tritolo vennero fatti esplodere in una galleria scavata sotto il chilometro quinto dell’autostrada A29, nel tratto tra Palermo e l’aeroporto della città a Punta Raisi. Nella strage morivano anche la magistrato e moglie di Falcone, Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. L’Unità il giorno dopo, il 24 maggio 2023, dedicava ampio spazio all’attentato e in prima pagina pubblicava un editoriale scritto da Luciano Violante dal titolo: “E adesso le parole sono gusci vuoti”

Pezzi di strada percorsi insieme. Poi divisi. Poi ancora insieme. Di nuovo divisi. Qualche tentativo di parlarsi, reciproco e incerto. Adesso le parole sono gusci vuoti. Falcone è stato ucciso. I capi di mafia assolti. Il codice è sempre quello. Il superprocuratore non è nominato: era urgente, ci avevano detto. La legge sul riciclaggio non funziona, ma verranno le circolari. Giovanni e sua moglie e la sua scorta stanno su un letto di marmo. L’Italia senza presidente; il governo dimissionario; il maggiore partito senza segretario. Ci saranno parole solenni. Qualcuno cadrà nella trappola delle ritorsioni. Di chi è la colpa? Perché? Era solo; era utilizzato dalla politica; voleva utilizzare la politica.

Ma nelle strade è tornato il Convitato di pietra. Quello dei treni di Bologna e di Firenze. Quello delle piazze insanguinate. Quello di via Fani. Quello che uccise Mattarella e La Torre. Non deve cambiare nulla in questo paese. E quando qualcosa può cambiare, il Convitato decide di fermare tutto, perché può farlo, uccidente. Perché qualcuno, una volta, gli dette il primo ordine; ed il secondo; ed il terzo. Poi non c’è stato bisogno di altro. Capisce da solo. Sa quando, sa dove, sa chi. Ieri, l’uomo simbolo della democrazia contro la mafia.

C’è la politica dietro il cadavere di Giovanni Falcone. È mafia, ma non è più solo mafia. Non è più solo la mano omicida. Un atroce assassinio politico, come quello di Moro.

I leader fotografati. Qualcuno esaminava quel tratto di autostrada. Le interviste a ripetizione, le osservazioni sulla parola o sul silenzio del grande leader. Qualcuno metteva una tonnellata di esplosivo nel cunicolo sotto l’autostrada. Tecniche di intesa sottile a Roma. A Palermo qualcuno innestava il timer.

A Roma si perdeva tempo? Non è così. Il presidente della Repubblica oggi vuol dire un progetto, una via di uscita per la crisi, una possibilità di futuro o un’altra tutta diversa. C’è cialtroneria nella politica; ma c’è anche la tenace ricerca di una via per la vita degli uomini. La decisione politica è tanto più difficile quanto più la politica è debole.

Ma quanti lo capiranno? Quanti penseranno ad un agitarsi sterile; alla inutilità della democrazia? E qualcuno sorriderà a Palermo, o a Roma, o a Milano, o a Zurigo, dove hanno deciso che per quella morte era arrivato il momento.

Mi chiedo, da amico di questa vittima e da politico. Riusciamo ad essere diversi? A non ingaglioffirci? A capire che cosa sta succedendo? A capire che la mafia è uno dei cardini dei padrini nel vecchio sistema che non vuole mollare. Capire che abbiamo il dovere tragico di cambiare, di fare presto. Di creare un’altra Italia, dei doveri e delle responsabilità.

Non servono parole solenni. Non servono abbracci ecumenici. Serve una feroce volontà di riscatto. Per Giovanni e per quei tre ragazzi della scorta i cui nomi tra poco nessuno ricorderà, ma che sono il segno più vivo e più atroce di una Italia pulita. Luciano Violante 

Giovanni Falcone, ecco da chi fu tradito: Filippo Facci e la più scomoda delle verità (30 anni dopo). Filippo Facci su Libero Quotidiano il 24 maggio 2022

Il perché uccisero Giovanni Falcone è scritto nero su bianco, ma tutti guardano altrove. Il 2 dicembre 1991 l’intero corpo dei magistrati scioperò «contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura». Giacomo Conte, ex del pool antimafia di Palermo, il 6 giugno aveva definito il progetto della superprocura «quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti». La vera coltellata però era stata la pubblica lettera che annoverava, tra i primi firmatari, colleghi e amici come Antonino Caponnetto e Giancarlo Caselli e persino Paolo Borsellino: «Ci accomuna la convinzione che lo strumento proposto sia inadeguato, pericoloso e controproducente... fonte di inevitabili conflitti e incertezze». Seguivano 60 firme, data 23 ottobre 1991.

Falcone fu accusato di essersi venduto a Martelli, al potere politico. Per il resto, tutte le accuse di Leoluca Orlando risulteranno lanciate a casaccio. Il il 26 settembre 1991, al Maurizio Costanzo Show, ad attaccare Falcone toccò il sodale di Orlando, Alfredo Galasso: «L'aria di Roma ti fa male», gli disse. Si scagliò contro Falcone anche il direttore de il Giornale di Napoli, Lino Jannuzzi: «Falcone e Gianni De Gennaro... dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma».

De Gennaro, ex capo della Polizia, collaborò con Falcone e nel 1984 si era occupato dell'estradizione dal Brasile di Tommaso Buscetta. Tra gli articoli più vergognosi ce ne fu uno di Sandro Viola su Repubblica: «Falcone è stato preso da una febbre di presenzialismo... fumose, insopportabili logorree... Articoli, interviste, sortite radiofoniche, comparse televisive. E come se non bastasse, libri: è uscito da poco, infatti, un suo libro intervista dal titolo accattivante, un titolo metà Sciascia e metà serial televisivo, "Cose di Cosa Nostra"... non si capisce come mai il dr. Falcone... non ne faccia la sua professione definitiva, abbandonando la magistratura. Scorrendo il libro s' avverte (anche per il concorso d'una intervistatrice adorante) proprio questo: l'eruzione d'una vanità, d'una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste dei guitti televisivi». Nota: il libro Cose di Cosa Nostra (Rizzoli 1991) è il longseller sulla mafia più venduto della storia, eternamente ristampato; «l'intervistatrice adorante» è invece la francese Marcelle Padovani, già corrispondente del Nouvel Observateur e al tempo moglie del segretario nazionale della Cgil, Bruno Trentin. Il volume scritto con Falcone spiegava per la prima volta la vera struttura di Cosa Nostra. Nell'ultimo capitolo, il sesto, Falcone dice: «In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».

IL RUOLO DI ORLANDO

Due mesi prima che Falcone saltasse in aria, il 12 marzo 1992, L'Unità fece scrivere da un membro del Csm un intervento così titolato: «Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché». Lucio Tamburini sul Resto del Carlino: «Inaffidabile e Martelli-dipendente». Contro di lui non mancava proprio nessuno. Il 3 febbraio 1992, persino i componenti della sezione Lombarda del Movimento «Proposta '88» scrissero a Falcone (loro collega di corrente) per dirgli che «non apprezziamo la politica del ministro Martelli ma tu gli sei pubblicamente a fianco e ne rendi credibili parole e prese di posizione, e anche perché alla gran parte di noi non piace la superprocura nazionale». Quella che, in pochi anni, permetterà di sconfiggere la mafia stragista per sempre. Oggi riesce difficile immaginare quanto la figura di Falcone distasse da quella a cui oggi si intitolano scuole, vie e monumenti. Chi lo avversava, nel 1992, sembrava che letteralmente non sapesse chi era. Chi oggi l'ha trasformato in un'icona, probabilmente, ne sa ancor meno.

Gli aveva voltato le spalle, come detto, anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, questo dopo che un pentito, Giuseppe Pellegriti, aveva accusato l'andreottiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti; però Falcone aveva fiutato la calunnia e non abboccò. Tanto bastò a Orlando per decidere che il giudice volesse proteggere Andreotti e Lima. «Orlando era un amico», racconterà Maria Falcone, sorella di Giovanni. «Erano stati amici, avevano pure fatto un viaggio insieme in Russia». «Orlando ce l'aveva con Falcone», ha ricordato l'ex ministro Claudio Martelli ad Annozero di Michele Santoro, nel 2009, «perché aveva riarrestato l'ex sindaco Vito Ciancimino con l'accusa di essere tornato a fare affari a Palermo con sindaco Orlando: questo l'ha raccontato Falcone al Csm per filo e per segno». Il fatto è vero: fu lo stesso Falcone, in conferenza stampa, a spiegare che Ciancimino era accusato di essere il manovratore di alcuni appalti col Comune sino al 1988. 

Durante una puntata di Samarcanda condotta da Michele Santoro, il 24 maggio 1990, Orlando scagliò l'accusa: Falcone- disse- ha dei documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti. Una menzogna che verrà ripetuta a ritornello. Falcone dovrà difendersi al Csm dopo un esposto presentato da Orlando. Intanto Saverio Lodato, corrispondente dell'Unità e classico «mafiologo» di alterne militanze, intervistava ripetutamente Orlando. Poi, Falcone dovette pure difendersi al Csm anche dalle accuse della Dc andreottiana che lo volevano complice dei fratelli Costanzo: il 15 ottobre 1991 raccontò che i due fratelli - primo gruppo di costruttori in Sicilia - non erano organici alla mafia: ne conoscevano i meccanismi, ma il loro contributo era molto più importante sul fronte delle tangenti. Uno dei due fratelli gli stava raccontando tutto il sistema dell'isola, ma poi il procuratore capo Antonino Meli l'aveva fatto arrestare per mafia. E si fermò tutto. 

SALDARE IL CONTO

Forse la storia di Tangentopoli poteva essere scritta molto tempo prima delle confessioni di Mario Chiesa: «All'imprenditore più forte della Sicilia è stato impedito di poter denunciare che in Sicilia tutti gli altri pagano tangenti... eravamo appena agli inizi... È tutto documentato». «Quel giorno», racconterà Francesco Cossiga al Corsera, «uscì dal Csm e venne da me piangendo». Cosa nostra in ogni caso aveva già deciso di saldare il conto. Mentre a Roma si discuteva su come impedire a Falcone qualsiasi nomina, Giovanni Brusca stava già facendo dei sopralluoghi sull'autostrada Palermo-Trapani. Risulta anche un'interrogazione presentata al Senato dal radicale Piero Milio che chiedeva lumi su quale «somma urgenza» aveva spinto l'impresa «Di Matteo Andrea» a eseguire dei lavori proprio nel tratto autostradale di Capaci dal 27 settembre 1991 al 31 marzo 1992, dove il mafioso Antonino Gioè (poi suicidatosi in carcere) risultava nel ruolo di magazziniere. Non ebbe risposta. 

Poi, il 23 maggio 1992, sappiamo com' è andata. Eppure anche i quotidiani di questi giorni, nelle loro commemorazioni vecchie di vent' anni, ignorano la ragione principale ormai assodata (anche da successive sentenze) per cui fu ucciso urgentemente Falcone e per cui lo era stato Salvo Lima e per cui lo sarà Paolo Borsellino: l'informativa «mafia appalti» che sarà concausa anche di tutta la successiva stagione stragista. Il responsabile dell'informativa, il generale Mario Mori, già fondatore dei Ros dei Carabinieri (Raggruppamento operativo speciale) e protagonista della cattura di Totò Riina, l'aveva consegnata aun Falcone «entusiasta» anche perché si parlava nel dettaglio di Angelo Siino, definito «il ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra», la quale, scrisse Mori, «temeva gli attacchi alle sue attività economiche che gli consentivano di sostenersi e di ampliare il proprio potere. Individuai nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici il canale di finanziamento più importante dell'organizzazione. Angelo Siino era l'uomo di Cosa Nostra incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell'affare appalti». Insieme a Falcone, Mori aveva sviluppato un'indagine sulle gare degli appalti pubblici e venne fuori che tra mafia e imprenditoria e politica le ultime due non erano vittime, ma partecipi. Si arrivò a risultati concreti addirittura prima che l'inchiesta Mani Pulite prendesse corpo, come confermato dallo stesso Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali. 

GLI APPALTI

Falcone portò l'informativa al procuratore capo Pietro Giammanco il 20 febbraio 1991, ma non se ne seppe più nulla. Si sa che l'informativa lasciò misteriosamente l'ufficio di Giammanco. Falcone ne riparlò il 15 marzo durante un convegno pubblico al castello Utveggio di Palermo: «La materia dei pubblici appalti è la più importante... consente di far emergere l'intreccio tra mafia e imprenditoria e politica... La mafia è entrata in Borsa». Fu questo, come affermerà il citato «ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra» Angelo Siino, a mandare in bestia vari imprenditori legati alla mafia: «Falcone aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c'era effettivamente Cosa Nostra». Sta di fatto che il dossier nell'agosto «Mafia -appalti» 1991 passò nelle mani del democristiano andreottiano Salvo Lima che lo mostrò subito al mafioso Angelo Siino: accadde nella sede della Dc di via Emerico Amari. Il successivo omicidio di Lima partì da lì. Lo pensavano Falcone e anche Paolo Borsellino. Lo ha confermato la recente sentenza del processo «Borsellino Quater» a proposito della decisione di Cosa Nostra di eliminare i due giudici. Lo ha fatto, circa l'inizio della strategia stragista, anche il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso nel 2012. È ciò che fece disperare Paolo Borsellino, che dopo la strage di Capaci sapeva di avere le ore contate. Eppure, anche in questi giorni, i quotidiani commemorano la strage di Capaci incaricando imbucati come Saviano o intervistando parenti rinco***iti, o azzardando complicatissimi depistaggi e piste nere che portino a «mascariare» i nemici del presente. Peggio di non conoscere il passato c'è il non volerlo conoscere. 

"Non chiamateli eroi". Capaci, la strage mai dimenticata. La strage di Capaci, il 23 maggio 1992, è un monito che spinge verso la ricerca della legalità. E che passa anche dalla caccia ai superlatitanti come è stato per Messina Denaro. Rosa Scognamiglio Angela Leucci il 23 Maggio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 I prodromi e la strage

 L'impatto nell'attualità e nella storia

 Messina Denaro e gli altri

Una delle vicende più importanti relative alla fine della Prima Repubblica è senz'altro la strage di Capaci, che fa parte di un fenomeno più ampio: all'inizio degli anni '90 del Novecento, a seguito del maxiprocesso che portò alla condanna di diversi boss, la mafia cercò di sollevare la testa contro lo Stato. E lo fece con le bombe, con gli attentati, con gli omicidi. "Commemorare la strage di Capaci - chiarisce alla nostra redazione Pierluigi Larotonda, radiocronista e scrittore d'inchiesta - è importante non solo per la drammaticità dei fatti accaduti, ma per comprendere la complessità della lotta alle mafie e l'impegno dei numerosi magistrati che persero la vita in quegli anni. Al tempo, il contrasto alla criminalità organizzata e non si diramava in due direzioni: a Sud contro i clan eversivi che avevano dichiarato guerra allo Stato e a Nord contro la corruzione politica. Dieci anni prima che fossero uccisi Falcone e Borsellino, il 26 giugno 1983, a Torino, morì per mano della 'ndrangheta il magistrato Bruno Caccia. Una morte che, ancora oggi, attende piena giustizia".

Nella strage di Capaci furono infatti uccisi due magistrati, Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, e tre agenti della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, tre poliziotti trentenni ligi al loro dovere fino alla fine, tre giovani del Sud che difendevano la legalità. Molti dicono tre eroi. "Ho avuto una grande fortuna: incontrare don Luigi Ciotti, presidente di Libera - racconta a IlGiornale.it Matilde Montinaro, sorella del poliziotto Antonio - Mi ha presa per mano e mi ha fatto capire che non trasferire il ricordo di Antonio significa ucciderlo una seconda volta. Quando effettuiamo i percorsi nelle scuole non rappresentiamo Antonio come eroe, un appellativo che lui per primo non avrebbe voluto. Raccontiamo la sua quotidianità, la sua normalità: lo facciamo scendere dal piedistallo, non deve essere un alibi per non fare nulla. I ragazzi devono farlo diventare uno di loro e assumere la responsabilità del vivere civile".

Ci sono delle storie singole che si intrecciano prima della strage. Una di queste è quella appunto di Antonio Montinaro. "Per me non è mai facile parlare di Antonio - dice la sorella - Il pensiero va al 23 maggio e alle conseguenze di quella strage, soprattutto sulla vita di nostra madre, che oggi non c'è più. Antonio, come diceva la mamma, aveva l'argento vivo addosso. La nostra era una famiglia numerosa, io e lui eravamo i più piccoli e avevamo un rapporto speciale. Nella tarda adolescenza andò a lavorare con papà, che era commerciante in prodotti ittici: quel lavoro era duro e molto difficile, richiedeva sacrificio. Ma secondo papà era un modo per farlo tornare sui banchi. A un certo punto mi confidò di essere interessato alla vita militare".

Antonio Montinaro, dopo aver vinto il concorso in polizia, cambiò varie procure, prima Vibo Valentia, poi Bergamo, e quando sembrava aver trovato una certa serenità accettò di andare a Palermo, che al tempo non era un luogo tranquillo. "Andare a Palermo e incontrare il dottor Falcone fece risvegliare in lui quel senso di responsabilità che i nostri genitori avevano ispirato con i loro valori - continua Matilde Montinaro - Restò a Palermo 5 anni e quegli anni cambiarono completamente la sua vita: emerse quella profondità che aveva nascosto da bambino attraverso l'incontro con quest'uomo. Per questo chiamò il suo secondogenito Giovanni".

Per tre volte, nel 1983, nel 1987 e nel 1989, la mafia aveva cercato di uccidere Falcone, senza riuscirci. Poi arrivò il biennio '92-'93 con il suo carico di attentati e omicidi, studiati attentamente attraverso diverse riunioni regionali e locali di Cosa Nostra. E il 30 gennaio 1992 giunse la sentenza della cassazione che confermava una serie di ergastoli del maxiprocesso alla mafia.

Dopo alcune prove e appostamenti, Cosa Nostra decise di piazzare le sue bombe sulla A29 nei pressi di Capaci, dove Falcone con la scorta sarebbe dovuto passare andando o tornando dall'aeroporto di Punta Raisi. E il 23 maggio 1992 la mafia attuò il suo piano: mentre la scorta riportava a Palermo Falcone e la moglie, vennero attivati i 400 chili di esplosivi posti con uno skateboard nel cunicolo di drenaggio dell'autostrada. La scena viene rappresentata in tutta la sua forza emotiva nel film Il Divo di Paolo Sorrentino: nel momento dell'attentato l'Italia si fermò con un rumore sordo.

"Il 23 maggio Antonio non avrebbe dovuto essere di servizio - racconta Matilde Montinaro - da qui possiamo capire il suo senso di responsabilità e lo spirito di abnegazione. Non volle lasciare scoperto il gruppo di uomini che andava a prendere il dottor Falcone e la moglie, la dottoressa Morvillo. Quei 400 chili di tritolo entrarono direttamente nella nostra casa, sconvolsero la nostra vita. Era un sabato molto caldo, quando nel Salento si saluta la primavera. Un'amica di famiglia ci diede la notizia. Non sapevamo cosa stesse facendo Antonio quel giorno: arrivammo a casa di mia madre, dove ci confermarono che Antonio non c'era più".

Falcone e la scorta procedevano in una carovana di tre auto, tre Fiat Croma. La prima e la seconda vennero colpite in pieno: erano quelle su cui viaggiavano le cinque vittime, i tre poliziotti morti sul colpo, i due magistrati periti successivamente in ospedale. La terza, su cui si trovarono altri tre poliziotti (Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo), fu lambita dall'esplosione, ma quei tre poliziotti di scorta, benché feriti, erano ancora vivi e si precipitarono a estrarre Falcone e Morvillo dalle lamiere e tutelarli da eventuali sicari. Così come fece la popolazione dei dintorni: in tanti si riversarono in autostrada per i soccorsi. Non ci fu però nulla da fare.

L'impatto nell'attualità e nella storia

"Io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio". Ai funerali della scorta furono queste le parole rivolte ai mafiosi da Rosaria Costa, la vedova di Vito Schifani, parole di una potenza incredibile, capaci ancora oggi, a decenni di distanza, di suscitare una grande commozione.

La strage di Capaci è stata raccontata e citata in moltissimi modi: dal brano Signor tenente di Giorgio Faletti ("Ed è così, tutti sudati / Che abbiam saputo di quel fattaccio / Di quei ragazzi morti ammazzati / Gettati in aria come uno straccio") alla serie 1992, da Il giovane Montalbano a La mafia uccide solo d'estate, fino alla canzone Fuck the Violenza di Caparezza ("Il prossimo è facile odiarlo, se sei forte amalo / Che a fare stragi siamo tutti Capaci"). Luigi Garlando ha scritto un romanzo per giovanissimi, Per questo mi chiamo Giovanni, in modo da raccontare a chi non c'era ancora gli orrori di quegli anni, l'importanza del lavoro di Falcone, l'abnegazione dei poliziotti Schifani, Dicillo e Montinaro.

A seguito delle prime indagini tra il 1992 e il 1993, furono arrestati Antonino Gioè, Santino Di Matteo e Gioacchino La Barbera: il primo si suicidò in carcere, gli altri due diventarono collaboratori di giustizia. Il piccolo Giuseppe Di Matteo fu rapito per volere di Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, che lo uccisero e lo sciolsero nell'acido dopo oltre due anni di sequestro. 

Il processo di primo grado per la strage, processo che durò dal 1995 al 1997, vide la condanna all'ergastolo per Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Bernardo Brusca, Leoluca Bagarella, Raffaele e Domenico Ganci, Giovanni Battaglia, Salvatore Biondino, Salvatore Biondo, Giuseppe Calò, Filippo e Giuseppe Graviano, Michelangelo La Barbera, Salvatore e Giuseppe Montalto, Matteo Motisi, Pietro Rampulla, Bernardo Provenzano, Benedetto Spera, Antonino Troia, Benedetto Santapaola e Giuseppe Madonia. In appello, nel 2000, la sentenza fu confermata e vennero aggiunti gli ergastoli per Salvatore Buscemi, Francesco Madonia, Antonino Giuffrè, Mariano Agate e Giuseppe Farinella, mentre poi in Cassazione vennero annullate le condanne per Aglieri, Buscemi, Calò, Farinella, Giuffrè, i Madonia, i Montalto, Motisi e Spera.

Nel 2016 infine, venne indagato e rinviato a giudizio Matteo Messina Denaro, che era latitante dal 1993. Il boss è stato condannato all'ergastolo in contumacia nel 2020 e arrestato il 16 gennaio 2023. "Per questo arresto - chiosa Matilde Montinaro - va il plauso alla magistratura e alle forze dell'ordine. Ma, secondo me, bisogna interrogarsi molto su ciò che ha permesso la latitanza a Messina Denaro. Non è stato arrestato a 1000 chilometri, ma nel suo covo. Di strada ce n'è molta da fare, cominciando a ragionare su chi ha permesso la sua latitanza. Dobbiamo insegnare ai ragazzi che la denuncia ha un valore importante".

Messina Denaro e gli altri

Il capomafia di Castelvetrano, latitante per 30 anni, è oggi imputato in un procedimento sulle stragi di Capaci e di via D'Amelio in corso davanti alla corte d'assise d'appello di Caltanissetta. Ma chi è davvero l'ex boss di Cosa Nostra? "Matteo Messina Denaro era un fedelissimo di Totò Riina appartenente a quella fronda stragista di Cosa Nostra che 'portò le bombe' anche fuori dalla Sicilia - spiega Larotonda - Mi riferisco alle stragi di via Georgofili a Firenze, quella di via Palestro a Milano, alle autobombe nei pressi della basilica di San Giovanni in Laterano e della chiesa di San Giorgio in Velabro a Roma. Qualora Messina Denaro decidesse di parlare, potrebbe fornire preziose informazioni riguardo a quegli eccidi che ebbero come obiettivo alcuni dei più prestigiosi musei italiani. Fatti storici, drammatici, le cui circostanze non sono mai state chiarite fino in fondo. Perché se è vero che la giustizia ha stabilito di chi furono le responsabilità morali e materiali delle stragi, resta ancora sconosciuto il motivo per cui Cosa Nostra decise di colpire il patrimonio artistico italiano. Quali 'menti raffinatissime', citando una nota espressione del magistrato Falcone, si celavano dietro gli ordigni di Roma, Firenze e Milano?".

Se la cattura di Matteo Messina Denaro chiude il cerchio sugli attentati ai due magistrati antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, resta ancora aperta la caccia agli ultimi tre malviventi inseriti nella lista dei "latitanti di massima pericolosità". Il primo è Giovanni Motisi, altro esponente di Cosa Nostra, condannato all'ergastolo per l'omicidio del commissario Giuseppe Montana avvenuto nel luglio 1985. "Motisi è un personaggio fondamentale nel passaggio di potere da Totò Riina a Bernardo Provenzano all'interno di Cosa Nostra - illustra Larotonda – Era un uomo di fiducia di Totò Riina ma, secondo gli investigatori, anche vicino alla fazione più moderata della mafia siciliana. Se fosse catturato, e decidesse di parlare, potrebbe fare luce su molti punti oscuri relativi alla scelta dei corleonesi di abbandonare il progetto stragista in favore di una gestione, per così dire, più 'moderata'".

Il secondo "superlatitante" è Attilio Cubeddu, esponente dell'Anonima sequestri coinvolto nel rapimento dell'imprenditore di Manerbio Giuseppe Soffiantini (giugno 1997) e sospettato di aver avuto un ruolo in quello di Silvia Melis (febbraio 1997). "Il periodo dei sequestri - continua l'esperto - è stato sicuramente uno dei più bui nella storia d'Italia. E per quanto sia stata fatta luce sulla dinamica dei rapimenti, restano ancora molte zone d'ombra. Quali reali interessi si celavano dietro i rapimenti? Consideriamo che il 10 luglio 1976 veniva ucciso il magistrato Vittorio Occorsio, che aveva compreso i collegamenti tra il mondo malavitoso dei sequestri. Ad oggi ancora non si è fatta piena luce sulla stagione dei sequestri di persona".

L'audio choc di Messina Denaro contro Falcone: "Commemorazioni di 'sta minchia"

L'ultimo latitante di massima pericolosità rimasto a piede libero è Renato Cinquegranella, esponente della Nuova Famiglia ricercato dal 2002 e condannato all'ergastolo per concorso in omicidio, associazione per delinquere di tipo mafioso, detenzione e porto illegale di armi. "Renato Cinquegranella - spiega Larotonda - sarebbe coinvolto nell'omicidio di Giacomo Frattini, detto 'bambullella', un giovane affiliato della Nuova Camorra di Raffaele Cutolo che fu torturato, ucciso e fatto a pezzi nel gennaio del 1982. Non solo. Sembrerebbe coinvolto anche nell'omicidio della capo della Squadra Mobile di Napoli Antonio Ammaturo e del suo autista Pasquale Paola avvenuto il 15 luglio 1982. Il superpoliziotto morì per mano della Brigate Rosse e Cinquegranella ha sicuramente avuto una responsabilità morale nel delitto. Fu colui che ospitò alcuni di questi brigatisti nella sua villa di Castel Volturno, fornendo viveri e medicinali. E il fatto che dopo 21 non sia stato ancora catturato la dice lunga. È 'l'ultimo ma non ultimo' dei latitanti".

"Falcone diceva che la mafia è un fenomeno umano e quindi un giorno finirà. Io credo che molto dipenda da noi: dobbiamo cercare di scegliere la normalità e non la complicità", conclude Matilde Montinaro. Lei va nelle scuole, racconta chi era il fratello, i suoi colleghi, i magistrati Falcone e Morvillo. Tiene viva una memoria piena di insegnamenti sul valore della legalità.

La Chiesa.

La scomunica doveva essere l’arma del Papa contro i mafiosi. Ecco chi l’ha spuntata. A Berlino i vescovi tengono una conferenza sul crimine organizzato. Un segnale per la curia romana. Che, critica verso Francesco, sembra insabbiarne le mosse contro clan e cosche. Mentre da un anno e mezzo gli esperti in materia che lavorano per il Pontefice non riescono a incontrarlo.  Sergio Rizzo su L'espresso il 28 Luglio 2023

Che in Vaticano la bella pensata dei vescovi tedeschi sia andata di traverso a qualcuno non è solo un sospetto. Non lo è soprattutto dopo l’articolo del cattolicissimo quotidiano francese La Croix, la cui attendibilità sulle vicende della Chiesa è raramente in discussione. Secondo il giornale fondato nel 1880 dai padri agostiniani, a Roma l’offensiva di papa Francesco contro la mafia è stata insabbiata. La clamorosa denuncia viene pubblicata all’inizio di luglio. E non casualmente assieme alla notizia che, a Berlino, la commissione episcopale Iustitia et Pax sta al contrario tenendo una grande conferenza internazionale «sull’azione della Chiesa di fronte alla criminalità organizzata». Come deve riportare anche Vatican News, organo ufficiale del papato.

Segnale preciso, se si interpreta questa iniziativa alla luce dei rapporti non sempre facili fra la Chiesa tedesca e la curia romana. Perché è ormai chiaro che all’interno delle mura leonine la faccenda della mafia è un nervo scoperto.

Per capirlo è sufficiente riavvolgere il nastro degli ultimi anni. Francesco è pontefice da poco più di un anno e nella messa celebrata il 21 giugno 2014 nella piana di Sibari dichiara guerra senza quartiere alla criminalità organizzata: «La ’ndrangheta è adorazione del male e disprezzo del bene comune… I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati!». Parole mai pronunciate prima da un capo della Chiesa cattolica e apostolica romana. Che troppo a lungo ha evitato di affrontare con la necessaria determinazione un tumore diffuso non solo in Italia, dove la Chiesa ha pure dovuto piangere i suoi morti, come i preti antimafia Giuseppe Puglisi e Giuseppe Diana, mentre si facevano passare processioni religiose sotto le finestre dei boss di clan e cosche per rendere loro omaggio.

Da decenni, ormai, il male è sparso in tutto il mondo. Anche e soprattutto in quei Paesi dove la povertà dilaga e le mafie si arricchiscono con il narcotraffico grazie alla complicità del potere. Abbastanza, insomma, perché un papa proveniente dal Sudamerica, dove le metastasi sono profonde, e schierato senza esitazioni dalla parte degli ultimi decida di mettere in campo l’arma più potente che un papa ha. Cioè la scomunica.

Come detto, è il 21 giugno 2014. Passano nove mesi e Francesco, a Scampia, attacca un altro cancro: «La corruzione puzza, la società corrotta puzza e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, puzza». E perché nemmeno questo sembri un intervento di circostanza, si confeziona un video che fa il giro del mondo. La lotta a mafie e corruzione si prende la prima parte del suo pontificato. In soli due anni si contano 34 discorsi pubblici, dall’Italia all’Africa, al Brasile… Ma la lotta non si fa solo a parole.

Francesco affida la missione al ministero (il dicastero per il Servizio allo Sviluppo umano integrale) guidato da un cardinale ghanese considerato un fedelissimo. Si chiama Peter Turkson e la campagna parte con un libro pubblicato da Rizzoli, scritto con il suo consigliere Vittorio Alberti e con la prefazione del Papa. La strada sembra in discesa, ma ben presto affiora la sensazione che in un fronte tanto ampio e impegnativo le insidie siano molteplici. In Vaticano non manca chi rema contro. E se spesso non risulta nemmeno facile individuare il punto dal quale partono i siluri, un fatto certo è che da subito Francesco se la deve vedere con un pezzo dell’apparato ecclesiastico contrario alla sua visione del mondo, critica verso il capitalismo più liberista, e quindi del ruolo della Chiesa. Succede che quelle forze, pur non prevalendo, riescano comunque a mettere i bastoni fra le ruote. E il tempo passa inutilmente.

Poi, a maggio del 2021, la possibile svolta. Il magistrato siciliano Rosario Livatino, assassinato da Cosa nostra a 37 anni, nel 1990, è proclamato beato. Lo stesso giorno viene annunciata la creazione di un gruppo di lavoro di nove esperti incaricato di formulare una proposta concreta sulla scomunica ai mafiosi da sottoporre al Papa. Sullo sfondo c’è il trentennale della nascita della Direzione investigativa Antimafia. Anche per questo del comitato fanno parte l’ex presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi, il fondatore di Libera, don Luigi Ciotti, l’ex arcivescovo di Monreale, Michele Pennisi. E poi l’ispettore generale dei cappellani carcerari, Raffaele Grimaldi, l’animatore della fondazione antiusura Interesse Uomo, don Marcello Cozzi, l’allora procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho (che si candiderà al Parlamento con i grillini), il presidente del tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, il giurista canonico Ioan Alexandru Pop e lo stesso filosofo Vittorio Alberti.

Per mesi lavorano al documento. Nella bozza si profilano i necessari passaggi dottrinari e tecnici per tradurre il principio della scomunica ai mafiosi nel diritto canonico. Ma si parla anche della sua estensione a livello internazionale, nonché delle eventuali sanzioni a carico dei sacerdoti collusi. Peccato solo che non vadano a buon fine i tentativi di presentare i risultati della lunga istruttoria al Papa. Eppure Francesco non ha cambiato idea. Il 21 dicembre 2021, all’Angelus, avverte di tenere alta la guardia, perché con la pandemia c’è stato il serio rischio che siano cresciute «la violenza e la criminalità organizzata, soffocando la libertà e la dignità delle persone, avvelenando l’economia». Tuttavia, senza una ragione apparente, ecco che si materializza un muro di gomma.

Qualche giorno dopo quel discorso il cardinale Turkson, cui competevano istituzionalmente i dossier su corruzione e mafia, lascia l’incarico. Formalmente il mandato, che dura cinque anni, è scaduto e lui può essere sostituito. Al suo posto arriva Michael Czerny, un cardinale ceco naturalizzato canadese. È gesuita come Bergoglio, ma nonostante questo non si verifica il cambio di passo. Probabilmente prevale la tesi che la mafia sia una questione prevalentemente italiana e vada trattata come tale, anche se il Papa ne ha sempre sostenuto la dimensione planetaria. Risultato è che la matassa non si dipana. A dispetto di ogni evidenza. E dire che di sicuro Francesco neppure ha ammorbidito la propria visione della Chiesa. Prova ne sia la nomina dell’arcivescovo argentino progressista Victor Manuel Fernandez come nuovo responsabile del dicastero vaticano per la Dottrina della fede, l’Inquisizione di un tempo. Accolta in modo assai critico dall’ala più conservatrice della curia romana.

Resta il fatto che, da quando hanno terminato il compito, i membri della commissione su mafia e scomunica non riescono a incontrare il Papa perché il loro lavoro possa sfociare in misure concrete. Ed è trascorso oltre un anno e mezzo. Il quotidiano francese La Croix afferma nell’articolo del 4 luglio scorso che «un documento finale, completato dopo una decina di riunioni tenutesi fra maggio e ottobre 2021, non sarebbe mai stato consegnato a Francesco». Esattamente ciò che risulta a L’Espresso. Ma il mistero è destinato a continuare. Il 7 luglio, l’Ansa pubblica un resoconto della conferenza dei vescovi tedeschi sulla mafia, citando come fonte Vatican News, dove si afferma invece che «nell’ottobre 2021 il gruppo ha consegnato una relazione al Papa». Si sono forse dimenticati di precisare la modalità con cui potrebbe essere avvenuta la consegna: «Spiritualmente».

Quando la mafia attaccò la Chiesa, memoria di 30 anni fa. DAMIANO MATTANA su Il Quotidiano del Sud il 31 Luglio 2023  

QUANDO la mafia attaccò la chiesa. Due detonazioni diverse ma l’eco fu praticamente la stessa. Non tanto per la loro vicinanza temporale o geografica quanto per la risonanza che suscitarono quando il sole del 28 luglio 1993 illuminò il cielo della Capitale. Un’Italia che aveva appena affrontato il primo anniversario delle stragi di Capaci e Via D’Amelio si ridestava da una delle tante notti insonni di metà estate ritrovandosi di fronte due immagini: da un lato le ferite visibili su due chiese di Roma, dall’altro un quadro astratto che dipingeva una consapevolezza più matura sulla natura reale della criminalità organizzata che, per la prima volta, lanciava la propria sfida anche alla casa di Dio. Perché gli obiettivi scelti non erano due qualsiasi: San Giorgio al Velabro, poco distante dal Campidoglio, dilaniata da un’autobomba, ma soprattutto San Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma, la chiesa più importante della cristianità.

Il torpore del sonno estivo era stato spazzato via dal gelo di una paura che ritornava con la prepotenza di un sentimento vissuto solo poco prima, troppo poco perché potesse essersi già allontanato. Anche perché il tremendo gioco degli incastri aveva immediatamente preso forma: ci si rese immediatamente conto che dal grido di papa Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento non erano trascorsi nemmeno tre mesi. Un appello alla conversione diretto a coloro «che portano sulle loro coscienze tante vittime umane». Ribadito quello stesso giorno, prima di far visita ai luoghi colpiti: «Non è col disprezzo per Dio e per l’uomo che si costruisce una società umana e civile».

Trent’anni dopo, quel «Convertitevi» pronunciato dall’ora santo papa Wojtyla continua a risuonare con forza. Un appello che fu più forte delle bombe stesse, le cui onde sonore sono diventate man mano più indistinte. Anche perché, quella stessa notte, a Milano esplose un’altra autobomba, davanti al Padiglione di Arte Contemporanea di Via Palestro. Era ancora la tarda serata del 27 luglio e le vie meneghine contavano ancora un discreto numero di passanti: i morti furono 5, mentre non se ne contò nessuno a Roma. Sulle due chiese colpite c’era il sangue dei feriti (22 in tutto) ma anche i segni tangibili di una violenza cieca perpetrata da chi si arrogava il diritto di poter decidere della vita e della morte altrui.

Il risultato ottenuto, ancora una volta, fu l’opposto: così come il Paese si era unito contro le mafie, quasi fosse stato ridestato, dopo gli orrori delle stragi di Palermo del 1992, la Chiesa fa altrettanto. Sulla pietra d’angolo delle parole del Santo Padre, la preghiera e la fraternità diocesana rispondono alla violenza, dando vita a una celebrazione eucaristica, la sera del 30 luglio, proprio sul sagrato della cattedrale. Alle spalle del cardinal vicario, Camillo Ruini, le ferite aperte di un attacco vile, perpetrato nelle tenebre. Di fronte a lui, la risposta di unità di un popolo che dimostra di non aver paura. E, forse per la prima volta, divenne definitivamente evidente l’inconciliabilità tra mafia e Chiesa, tra l’essere mafiosi e l’essere cristiani.

Il 1993 fu l’anno della strategia stragista sul “Continente”. Il tritolo, lo stesso impiegato per squarciare il tratto autostradale di Capaci e per ridurre Via D’Amelio a un cratere fumante, aveva lasciato la Sicilia per estendere la minaccia mafiosa anche al resto del Paese. Il 27 maggio era toccato a Firenze, con la bomba di via dei Gergofili che spazzò via la vita di una famiglia intera e di uno studente universitario. L’attacco della mafia alla Chiesa, invece, segnava un punto di svolta nella logica della criminalità organizzata – che sarà sancita del tutto solo un paio di mesi più tardi, con l’omicidio di don Pino Puglisi a Palermo – che violava il dettame di intoccabilità dell’istituzione religiosa e tentava, in tal modo, di scoraggiare i pastori a interferire con la strategia della monopolizzazione dei territori. Le vicende processuali riconobbero colpevoli, come mandanti, i principali boss delle cosche siciliane, tra i quali Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro e Bernardo Provenzano. Enorme l’impatto sull’opinione pubblica che, forse più nel corso del 1993, riconobbe, in modo inquietante, come gli effetti della strategia della tensione mafiosa fossero estremamente prossimi alla vita quotidiana.

A tre decenni di distanza, e con almeno un paio di generazioni diventate adulte o quasi, è chiaro che il processo di storicizzazione tenga ancora conto della vicinanza temporale degli eventi. Sicuramente meno impressi nella memoria civile dei più giovani rispetto alle stragi siciliane. Ma forse per questo il dovere della memoria diventa più che mai un’occasione per riflettere sugli eventi e sul loro impatto nella coscienza della società. In una notte la mafia svelò il suo volto più vile, denigrando vita e religione con la forza bruta dell’esplosivo. Di contro, si ritrovò a sua volta smascherata. Il velo ingannatore di alternativa allo Stato era stato spazzato via dalle stesse bombe che avrebbero dovuto imporne il potere.

Le Associazioni Antimafia.

Estratto da open.online mercoledì 26 luglio 2023.

Se don Luigi Ciotti riferisce di una correlazione tra Ponte sullo Stretto e rischi sul fronte della criminalità organizzata, le sue parole hanno un peso. Se non altro perché il presidente di Libera, impegnato da decenni nel contrasto alle cosche, è forse tra i massimi esperti di fenomeni mafiosi. 

Ma c’è anche chi non dà credito alle sue esternazioni sul tema. Come Matteo Salvini, principale promotore della grande opera in capo al suo ministero, quello dei Trasporti. Lo scontro si è acceso nelle scorse ore, dopo che don Ciotti ha parlato di una «politica smemorata», di «segnali che diventano inquietanti» in relazione a «pilastri» dell’antimafia che «oggi vengono messi fortemente in discussione».

La critica si è fatta presto esplicita durante la presentazione di un libro, nella Locride, e punta dritta al Ponte sullo Stretto: «Non unirà solo due coste, ma certamente due cosche». Il leader della Lega ha definito la frase «una vergogna, una mancanza di rispetto nei confronti di milioni di persone perbene che meritano di lavorare e di studiare e di fare il pendolare, di andare a farsi curare come tutti gli altri. 

Mi fa schifo che qualcuno pensi che Sicilia e Calabria rappresentino le cosche». E ancora: «Fino a che c’è qualcuno all’estero che dipinge l’italiano “mafia, pizza e mandolino” fa schifo, ma è all’estero. Se però c’è qualche italiano che continua a dipingere l’Italia come “mafia, pizza e mandolino”, se espatria fa un favore a tutti». 

(…)

Sallusti contro Saviano e Don Ciotti: "Un caso psichiatrico e un caso umano". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 28 luglio 2023

Giorgia Meloni è alla Casa Bianca a parlare del futuro dell’Occidente ma qui da noi l’estate della sinistra si incentra su quattro casi delicati: un caso psichiatrico, Roberto Saviano, un caso umano, don Ciotti, un caso di depistaggio politico internazionale, il Pd e un caso di linciaggio mediatico al compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno.

Partiamo dal caso di Roberto Saviano, il cui programma Rai è stato cancellato dopo gli improperi pubblici rivolti a mezzo governo. Essendo lui un egocentrico con manie persecutorie sta andando in giro a dire che la sua sospensione è una vittoria della mafia su mandato del governo. Di mafia ovviamente in questa storia non c’è ombra, e neppure di censure o limitazioni della libertà di informazione. Saviano infatti è libero di dare, cosa che ha fatto, dei bastardi e dei malavitosi al primo ministro e ai ministri, ma non essendo ciò un’inchiesta giornalistica documentata bensì una sua opinione incappa nel codice etico della Rai che non vuole tra i piedi chi insulta gratuitamente e gravemente rappresentanti delle istituzioni, cioè i suoi azionisti.

Il caso politico è che il Pd ha portato la questione della “censura a Saviano” addirittura al Parlamento europeo lasciando intendere al mondo - qui sta il depistaggio - che in Italia non c’è più libertà di opinione. Ora, è vero che “Meloni bastarda” e “Salvini ministro della malavita” sono opinioni che hanno diritto di circolare, infatti circolano, ma non necessariamente o per forza anche in prima serata sulla televisione pubblica. 

Terzo caso, quello umano. All’alba dei suoi ottant’anni, don Ciotti – il prete che da antidroga si è riciclato antimafia – ha detto che il Ponte sullo Stretto caro a Matteo Salvini è una follia perché “unisce due cosche”, intendendo immagino la mafia e la ’ndrangheta. La secca replica del ministro è stata fatta passare come un tentativo di censura a un eroe dell’antimafia. Ora, vogliamo ammettere che anche gli eroi invecchiando rimbambiscono? Già, perché sarebbe come dire che non si doveva costruire l’Autostrada del Sole in quanto avrebbe unito più velocemente le bande criminali dell’Italia, la Salerno-Reggio Calabria perché avrebbe collegato la camorra alla mafia, ma financo che è stato folle dare vita all’Alitalia perché avrebbe avvicinato Milano ai loschi traffici mafiosi di Palermo.

E infine, non in ordine di importanza, il linciaggio in corso al compagno di Giorgia Meloni, Andrea Giambruno, secondo la sinistra l’unico a non avere libertà di opinione pur essendo un giornalista. Nella sua trasmissione su Mediaset, Giambruno ha così commentato le parole del ministro del Turismo tedesco che aveva invitato a non passare le vacanze in Italia perché fa troppo caldo: “Se non le sta bene stia a casa sua, avete pur sempre la Foresta Nera”. Tra un italiano che difende l’Italia e un tedesco che ci denigra secondo voi la sinistra chi sceglie? Il tedesco, ovvio. E quindi apriti cielo e giù di manganello contro Giambruno colpevole di lesa idiozia (del tedesco). Ecco, questa è l’agenda politica della sinistra italiana per l’estate 2023 affidata a psicopatici, rimbambiti, mestatori e picchiatori. Intanto Joe Biden, democratico e presidente degli Stati Uniti d’America, brinda ai successi e all’affidabilità di Giorgia Meloni. A voi le conclusioni. 

Molte le reazioni. Ponte sullo stretto di Messina, Salvini sprezzante: “Un signore in tonaca dice parole ignoranti, volgari” e mette insieme cosche e coste. Solidarietà a Don Ciotti. Redazione su Il Riformista il 26 Luglio 2023 

La Sicilia versa in condizione disastrose con il fuoco che continua ad ardere da diversi giorni consecutivi. Una situazione drammatica che sta rivelando le pesanti carenze infrastrutturali di un territorio da sempre problematico con uno stato di arretratezza cronica, semplicemente aggravata dall’emergenza incendi delle ultime ore.

Nel frattempo il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, trova il tempo per polemizzare e torna a parlare del Ponte sullo Stretto di Messina. “Un signore in tonaca che ha detto che il Ponte più che unire due coste unirà due cosche, queste parole sono di una volgarità, ignoranza e superficialità senza confini. Non solo è una mancanza di rispetto nei confronti di milioni di italiani, ma con le decine di migliaia di posti di lavoro sarà la più grande operazione antimafia dal dopoguerra ad oggi perché la mafia la combatti con il lavoro e lo sviluppo e non con convegni e chiacchiere” – tuona Salvini contro don Luigi Ciotti, fondatore di Libera.

Molte le reazioni sulle dichiarazioni del ministro e in difesa di Don Ciotti, a iniziare da quella Michele De Palma, segretario generale Fiom-Cgil: “Le parole pronunciate nei confronti di Don Luigi Ciotti da parte del Ministro Salvini sono inaccettabili. Il tentativo di minimizzare il fenomeno delle mafie e delle infiltrazioni criminali nelle grandi opere è l’ennesimo pessimo segnale del Ministro. La Fiom è come sempre al fianco di Don Luigi Ciotti nella lotta per la legalità. Le mafie si combattono con il diritto al lavoro, praticando l’antimafia sociale e con l’applicazione della nostra Costituzione”.

“Si metta una volta per tutte con l’animo in pace: il Ponte sullo Stretto è la cosa più inutile che i siciliani si possano aspettare – dichiara Fratoianni -. Servono in queste ore misure straordinarie per mettere sotto controllo le fiamme, magari investendo sulla prevenzione e sulla protezione civile invece di pensare a comprare nuovi armamenti, infrastrutture decenti, ed interventi urgenti per una sanità pubblica all’altezza della situazione”.

Le associazioni esprimono vicinanza a Don Ciotti – “Esprimiamo solidarietà e vicinanza a don Luigi Ciotti dopo gli insulti che gli ha rivolto il vicepremier e ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini. Estrapolare una frase dal contesto generale nel quale è stata pronunciata può, in talune circostanze, deviare il significato delle cose, fino a legarle a logiche e usi impropri. Dopo aver ricostruito le circostanze per le quali il ministro Salvini ha duramente attaccato il presidente di Libera appellandolo come un ‘signore in tonaca’ che mette insieme ‘cosche e coste’ offendendo milioni di cittadini calabresi e siciliani esprimiamo la nostra piena solidarietà e il ringraziamento a don Luigi Ciotti per l’impegno instancabile che profonde nella lotta alle mafie e per l’affermazione della legalità”. È quanto affermano in una nota congiunta ANPI, Arci, Acli, Greenpeace, Legambiente e WWF in merito alle affermazioni di Salvini nei confronti del fondatore e presidente di Libera, don Luigi Ciotti.

Il Ponte sullo Stretto di Messina: “La manovra del prossimo autunno sarà quella che stanzierà le cifre più importanti”

“Il costo massimo è di 13 miliardi e conto che si stia ampiamente al di sotto. E’ meno della metà di quello che fino ad oggi sta costando il reddito di cittadinanza che non lascia traccia sul futuro. Le Regioni saranno chiamati a dare il loro contributo, non si sa ancora quanti soldi hanno e conto che è che lo sappiano al più presto. Quindi i primi miliardi veri saranno in legge di bilancio”.

Il bando per il ponte, assicura Salvini, sarà pronto “tra un mese. Sono previsti 3666 metri di lunghezza complessiva, 399 metri di altezza dei pilastri, 60,4 metri di larghezza. È un’opera visionaria e avanguardista che deve essere valorizzata anche commercialmente e turisticamente oltre che a livello infrastrutturale. Le navi ci passano sotto, lo garantisco. Sono previste 6 corsie stradali, 6000 veicoli l’ora, 2 binari ferroviari, 200 treni al giorno. E 100mila nuovi posti di lavoro. In due anni riassorbirà i costi di quello che oggi costa non avere il Ponte”.

Don Ciotti, l’attacco di Salvini e le mille battaglie di un utile «grillo parlante». Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera giovedì 27 luglio 2023.  

Il ministro Salvini ha detto che, se don Ciotti decidesse di espatriare, farebbe «un favore a tutti»: il sacerdote dell’associazione antimafia Libera aveva dato voce al rischio che il Ponte sullo Stretto di Messina potesse «unire due cosche» 

Ma davvero don Luigi Ciotti «se espatria fa un favore a tutti»? La cagnara scoppiata tra i partiti dopo la sparata di Matteo Salvini contro il fondatore di Libera, una rissa dove ciascuno tira acqua al proprio mulino al di là del merito delle cose, rischia di occultare il tema centrale: ci sono o no anche dei rischi dietro la febbricitante corsa al Ponte di Messina ripartita di colpo dopo anni di promesse, rinvii, rinunce, oblio? 

Che il prete torinese nipote di un fornaio cadorino sia da decenni un fastidiosissimo grillo parlante per chi è al potere e ci tenga a gestirlo senza interferenze di destra o sinistra è fuori discussione. Dalle messe mattutine alle conferenze nelle scuole, dai dibattiti sulla corruzione ai convegni sull’azzardo, dall’apertura di cooperative in aziende confiscate alla criminalità fino alle fiaccolate nelle piazze, su e giù per l’Italia, non c’è giorno che Dio mandi in terra in cui don Ciotti non rovesci la sua generosità combattiva su tutti i temi più sensibili della nostra società: dall’usura al caporalato, dal traffico di stupefacenti alla difesa del territorio fino alla denuncia di piccole e grandi emergenze che ad altri magari sfuggono. Vogliamo dirlo? Un tornado, per il sonnacchioso quieto vivere. Un rompiballe come pochi nella convinzione assoluta, ereditata dal mestiere dei nonni, che «un mulino non deve fermarsi mai». E lui, amatissimo da una parte degli italiani e meno da tanti altri, macina, macina, macina. Citando sempre il giudice-ragazzino Rosario Livatino: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere se siamo stati credenti, ma credibili».

E in tanti anni trascorsi battendo a tappeto il Sud, la S icilia e la Calabria dicendo a volte anche verità scomode a chi non le voleva sentire (come il giorno che affrontò i portuali di Gioia Tauro in lotta dicendo: «Ragazzi, cercheremo di darvi una mano ma basta con l’assenteismo. E più corresponsabilità») si è tirato addosso la diffidenza, l’odio e il rancore dei padrini. Ovvio. Basti ricordare l’ustionante lettura, ogni anno al microfono, in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno, dei nomi di 1.100 vittime innocenti delle mafie. La raccolta di un milione di firme (un milione!) per destinare a uso sociale i beni confiscati ai mafiosi. La costituzione di Libera come parte civile in 76 processi alle mafie. La gestione di 991 beni immobili confiscati alla criminalità organizzata e avuti in concessione dagli Enti locali in 359 comuni di 18 regioni. Tutti «fastidi» che spinsero nel 2013 Totò Riina, intercettato nel carcere di Opera col boss pugliese Alberto Lorusso, a dire: «Ciotti putissimo pure ammazzarlo».

Fatto sta che, sulla base delle esperienze accumulate, il fondatore di Libera si è fatto l’idea dal lontano gennaio 2001 (partì da uno studio commissionato dal ministero dei Lavori pubblici a Nomos, il centro studi per la legalità del Gruppo Abele, spiega un’Ansa dell’epoca) che non solo il Ponte di Messina, di cui si vagheggiava almeno dal 1960 quando la Settimana Incom magnificava il progetto dell’americano David B. Steinmann, non sia una priorità per il Mezzogiorno dove ancora le ferrovie restano a volte medievali, ma che senza regole blindate rischi di essere un enorme affare per la criminalità delle due sponde. Una convinzione riassunta già dal 2009, non da ieri, nella sintesi: il rischio è di unire non solo due coste ma due cosche. Timore via via consolidato da varie inchieste giornalistiche e giudiziarie. Una convinzione sballata o perfino piemontesista, come titolava ieri il sito strettoweb («il razzismo concesso a Don Ciotti: “non unirà due coste ma cosche”») ripreso dai social ufficiali salviniani? Mah...

Certo l’ostilità fu condivisa per anni non solo da Umberto Bossi («un’opera vergognosa e dispendiosa») ma da tutta la Lega. Lo ricordano La Padania («Coi soldi del Ponte di Messina si fanno le grandi opere del Nord») e Roberto Maroni («Le infrastrutture padane non possono essere certo sacrificate in nome del Ponte») nel 2005, lo stesso Matteo Salvini nel 2016 contro il Ponte proposto da Renzi («Faccia funzionare i treni, che da Trapani a Ragusa ci mettono 10 ore e mezzo») e via così fino al «contratto di governo» con Luigi Di Maio nel 2018: non una parola.

Il titolare delle Infrastrutture, che ancora tredici anni fa si vantava di non essere «mai sceso sotto Napoli», ha cambiato idea e pensa possa essere invece un volano per la crescita? Libero di farlo. E anche di contestare i timori di don Ciotti sui rischi condivisi peraltro, in questi anni, da vari magistrati. Liquidare il fondatore di Libera dicendo che gli «fa schifo» chi «continua a dipingere l’Italia come mafia, pizza e mandolino» e concludendo che «se espatria fa un favore a tutti», però, è un insulto insensato e offensivo. Lo stesso Nicola Gratteri, in corsa per fare il procuratore di Napoli, spiegò mesi fa a Otto e mezzo: «Non si può pensare che le opere pubbliche importanti, come l’Alta velocità, non si possono fare in Calabria perché c’è la ’ndrangheta. Le opere pubbliche si devono fare eccome». Ma si può andar via spediti in un contesto in cui tante regole chieste e promosse da Falcone e Borsellino vengono quotidianamente messe in dubbio?

Il diario segreto di Antonello Montante. Redazione Pubblicato 24 Agosto 2018 su site.it

Angelo Venti e Claudio Abruzzo

SITe.it è in possesso del diario segreto di Antonello Montante, il paladino dell’antimafia finito in una inchiesta della DDA di Caltanissetta con l’accusa iniziale di Concorso esterno in associazione mafiosa.

Considerato per anni il simbolo della riscossa degli imprenditori siciliani contro la mafia, per i Pm Montante avrebbe invece “intrattenuto qualificati rapporti con esponenti di spicco di Cosa nostra”. Alla fine, il 14 maggio di quest’anno, è stato arrestato per Associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, spionaggio e accesso abusivo a sistema informatico.

Montante avrebbe creato una rete di informatori per spiare i magistrati che da tre anni indagano su di lui: “Soggetti inseriti – scrive il Gip nell’ordinanza – ai più alti livelli della Polizia, dei Servizi di informazione e sicurezza e dell’ambiente politico italiano”.

ATTENZIONE – Per completezza dell’informazione, in fondo a questo articolo riportiamo una scheda su Antonello Montante e una scheda di approfondimento sull’inchiesta che lo riguarda, con i nomi – e i ruoli – di tutti i personaggi coinvolti.

IL DIARIO SEGRETO

Chiariamo subito che quella contenuta nel Diario è la verità di Montante, ma il documento sarebbe comunque ritenuto molto attendibile dagli inquirenti.

Si tratta di un corposo file excel con annotati nomi, date, appunti di lavoro e incontri che – quando il 22 gennaio 2016 gli inquirenti perquisiscono una ventina di case e uffici di Montante – la sua collaboratrice tenta di distruggere.

Il Diario viene sequestrato nella villa di Serradifalco, dove viene scoperto un bunker contenente un corposo archivio cartaceo ed elettronico in cui trovano di tutto: telegrammi, email, sms, regali e contributi concessi, foto con ministri, politici e capi della polizia, oltre a circa 40 dossier su politici, magistrati, giornalisti e un memoriale di più di mille pagine. Un bunker che nelle intercettazioni Montante chiama così: “La stanza – diciamo – della legalità”.

Nel suo Diario Montante annota con scrupolo quasi maniacale incontri, telefonate, pranzi, colazioni, cene, segnalazioni, richieste di favori e regalie varie ai personaggi più disparati, anche di peso: una sorta di agenda personale che parte con un appunto del 6 agosto 1848 – data della nascita del suo trisavolo Calogero Montante – e arriva fino al 26 ottobre 2015.

Quella che svelano le circa 250 pagine del documento è la fitta ragnatela di relazioni di alto livello intrattenute da Antonello Montante con politici, imprenditori, prefetti, alti funzionari dello Stato, dirigenti dei servizi segreti, magistrati, giornalisti, personaggi pubblici ed esponenti dell’antimafia.

Un affresco che però diventa a tinte fosche il 9 febbraio 2015, quando con l’articolo Antonello Montante, l’industriale paladino dell’antimafia sotto inchiesta in Sicilia per mafia, i giornalisti di La Repubblica Attilio Bolzoni e Francesco Viviano squarciano il velo di ipocrisia che avvolge certa Antimafia e fa scoppiare il Caso Montante.

Un articolo e una data che rappresentano lo spartiacque tra il Montante Paladino dell’antimafia e il Montante indagato per Concorso esterno in associazione mafiosa. Un articolo e una data che segnano – per tutti coloro che hanno frequentato Antonello Montante – una cesura netta tra il Prima e il Dopo: in particolare per quei personaggi e funzionari pubblici che hanno continuato a intrattenerci rapporti anche dopo che la notizia dell’inchiesta a suo carico è diventata di pubblico dominio.

Il Diario contiene molti dati e informazioni interessanti che aiutano a capire il funzionamento, lo sviluppo e il radicamento di quello che viene ormai definito come Sistema Montante. Per facilitare la lettura e la comprensione, SITe.it ha deciso di raggruppare le informazioni per argomenti e pubblicarle a puntate.

IL PERSONAGGIO

Antonello Calogero Montante, originario di Serradifalco (CL), è nato il 5 giugno 1963. A capo del Gruppo Montante, un impero che la leggenda vuole nato da una fabbrica di biciclette, fondatore della Msa Spa, azienda di progettazione e produzione di ammortizzatori per veicoli industriali e treni presente in tutto il mondo: dal 2008 è Cavaliere del lavoro.

Presidente della Camera di commercio a Caltanissetta, dove nel 2005 ha ricoperto anche il ruolo di presidente di Confindustria e delegato del presidente nazionale di Confindustria per la legalità. Nel 2012 diventa il numero uno dell’associazione regionale degli industriali e nel 2013 sale al vertice di Unioncamere Sicilia. Il 20 gennaio 2015 – pochi giorni prima della notizia dell’inchiesta a suo carico per Concorso esterno in associazione mafiosa – è stato designato componente dell’Agenzia dei beni confiscati, su proposta del ministero dell’interno guidato da Angelino Alfano.

L’INCHIESTA

La trama e i protagonisti sembrano quelli di una spy-story.

Montante è accusato di aver creato una rete illegale per spiare le indagini a suo carico: tra gli indagati figura anche l’ex presidente del Senato Renato Schifani, accusato di aver rivelato notizie riservate.

Insieme a Montante finiscono agli arresti domiciliari anche il colonnello dei carabinieri Giuseppe D’Agata (ex capocentro della Dia di Palermo ed ex dei servizi segreti), Diego Di Simone (ex sostituto commissario della mobile di Palermo), Marco De Angelis (sostituto commissario prima a Palermo poi alla prefettura di Milano), Ettore Orfanello (ex comandante del nucleo di polizia tributaria Guardia di finanza a Palermo), Giuseppe Graceffa (vice sovrintendente polizia a Palermo, sospeso dal servizio per un anno) e infine l’imprenditore Massimo Romano, (re dei supermercati con oltre 80 punti vendita in Sicilia ed ex del Team legalità di Sicindustria).

Della rete farebbero parte anche altri esponenti delle forze dell’ordine e dei servizi segreti: tra gli indagati anche Arturo Esposito (ex capo dei servizi segreti), Andrea Grassi (ex funzionario dello Sco della polizia da poco nominato questore di Vibo Valentia), Andrea Cavacece (capo reparto dell’Aisi), Gianfranco Ardizzone (ex comandante provinciale della Guardia di finanza di Caltanissetta e poi capocentro della Dia nissena), Mario Sanfilippo (ex ufficiale della polizia tributaria di Caltanissetta), Letterio Romeo (ex comandante del reparto operativo dei carabinieri di Caltanissetta).

La lista degli indagati prosegue ancora con Angelo Cuva (docente di diritto tributario all’università di Palermo), Maurizio Bernava (ex segretario confederale della Cisl), Andrea e Salvatore Calì (titolari di un’azienda che avrebbe effettuato bonifiche negli uffici di Montante), Carlo La Rotonda (direttore di Reti d’imprese di Confindustria), Salvatore Mauro e Vincenzo Mistretta. Infine Vincenzo Arnone (boss di Serradifalco, figlio di Paolino storico padrino morto suicida in carcere nel 1992, testimone di nozze di Montante).

Il 24 maggio scorso Montante passa dai domiciliari alla custodia in carcere. “Durante le fasi dell’arresto – spiegano dalla questura – si barricava in casa per quasi due ore, non aprendo ai poliziotti e distruggendo documenti e circa 24 pen drive“. Montante avrebbe anche tentato di disfarsi di altra documentazione lanciandola nel pozzo luce del palazzo (rivenuta e sequestrata), mentre sul balcone di un vicino di casa è stato poi rinvenuto uno zainetto contenente altre pen drive e documentazione cartacea.

Intanto alla prima si aggiunge una nuova inchiesta, che ipotizza che Montante sia al centro di due associazioni a delinquere:

– la prima finalizzata alla corruzione di esponenti delle forze dell’ordine per carpire notizie riservate sulle indagini

– la seconda per corrompere esponenti della politica, con l’obiettivo di razzolare fondi pubblici.

Finiscono così sul registro degli indagati anche Giuseppe Catanzaro (attuale presidente di Confindustria Sicilia), l’ex governatore Rosario Crocetta (accusato di  Associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e al finanziamento illecito), Linda Vancheri e Mariella Lo Bello  (ex assessori regionali alle Attività produttive),  Alessandro Ferrara (dirigente regionale), Mariagrazia Brandara (ex presidente dell’ente regionale per lo sviluppo delle attività produttive)  e gli imprenditori Rosario Amarù, Totò Navarra e Carmelo Turco.

E’ dei giorni scorsi l’ultimo colpo di scena:

nella sede romana di Confindustria sono state scovate due telecamere spia: sotto accusa Diego Di Simone Perriccone, ex investigatore della squadra mobile di Palermo da qualche anno assunto in Confindustria proprio da Montante. Per gli investigatori De Simone può contare su una fonte riservata (forse un magistrato) presso la Direzione nazionale antimafia e una talpa al tribunale di Caltanissetta che, nelle intercettazioni con Montante, chiamavano “L’uomo a L’Avana”.

«Sistema Montante»: ecco il capitolo sui giornalisti, con tutti i nomi. Redazione Pubblicato 25 Maggio 2018 su site.it.

Ad essere coinvolto nel «Sistema Montante» è anche il mondo dell’informazione. Nessuno dei nomi dei giornalisti, anche illustri, è stato finora pubblicato dalla stampa: su questo punto si registra un misto di pudore, prudenza, garantismo e autocensura che ha improvvisamente contagiato quasi tutte le redazioni italiane: un silenzio imbarazzante che per certi versi sfiora quasi l’omertà.

SITe.it – per dovere di cronaca – ha deciso di pubblicare l’intero capitolo dell’Informativa della squadra mobile di Caltanissetta – allegata all’inchiesta condotta su Montante dalla Procura – con tutti i nomi delle testate e dei colleghi coinvolti, anche per dare l’opportunità a chi si sente chiamato in causa ingiustamente di potersi difendere. Buona lettura.

(MONTANTE E GLI AMICI DELL’ANTIMAFIA: Tano Grasso e don Ciotti. Angelo Venti Pubblicato 27 Agosto 2018 su site.it 

Quello che salta subito agli occhi nel Diario di Antonello Montante  – di cui SITe.it è in possesso – sono le relazioni e i contatti da lui intrattenuti con molti funzionari e personaggi pubblici, in un periodo in cui prudenza e ragioni di opportunità avrebbero dovuto sconsigliarli. Tra di essi anche due paladini storici dell’antimafia sociale, Tano Grasso e don Luigi Ciotti. Nel documento si legge di 16 incontri con il primo, mentre secondo Montante sarebbero 26 le telefonate intercorse con il secondo, in appena dieci giorni.

Ma per comprendere la portata di cosa stiamo parlando bisogna fare un passo indietro e fare alcune precisazioni che sono più che mai opportune.

La prima cosa da ricordare è che Montante – anche lui paladino dell’antimafia – è finito in una inchiesta della DDA di Caltanissetta con l’accusa iniziale di Concorso esterno in associazione mafiosa e poi, il 14 maggio di quest’anno, è stato arrestato per Associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, spionaggio e accesso abusivo a sistema informatico.

Un’altra precisazione è sul Diario in cui Montante annotava tutti i suoi incontri: ribadiamo ancora una volta che – ovviamente – quella contenuta nel Diario è la verità di Montante, ma il documento sarebbe comunque ritenuto molto attendibile dagli inquirenti.

L’ultima precisazione, infine, è sulle date. A tracciare lo spartiacque tra chi ha avuto contatti e rapporti con il Montante Paladino antimafia e il Montante indagato per Concorso esterno in associazione mafiosa è un articolo del 9 febbraio 2015, con cui La Repubblica dava notizia della scottante inchiesta in corso. Per brevità omettiamo di riportare l’elenco di chi – per i motivi più disparati e non sempre cristallini – ha avuto relazioni con il Montante del Prima e concentriamo l’attenzione su chi ha continuato ad averli anche nel Dopo: certo nulla di illecito, ma sulla opportunità di quei rapporti esprimiamo tutte le nostre riserve.

TANO GRASSO

Una delle posizioni più imbarazzanti è quella dell’anima della FAI, Federazione antiracket italiana, l’ex parlamentare ed ex commerciante di scarpe Gaetano Grasso, detto Tano, fondatore e presidente della prima associazione antiracket nata in Italia nel 1990 (l’Acio di Capo d’Orlando).

Nel suo Diario segreto Montante ha annotato – tra il 28 febbraio e il 21 ottobre 2015 – almeno 16 incontri con Tano Grasso, di cui ben 7 a pranzo e almeno 3 con la presenza anche di altri indagati nelle stesse inchieste su Montante, come il presidente di Sicindustria Giuseppe Catanzaro, l’imprenditore di Gela, vicinissimo a Montante, Carmelo Turco e l’imprenditore Rosario Amarù. Montante sul Diario ha anche annotato – con scrupolo quasi maniacale – che per 5 di questi incontri esistono anche delle registrazioni audio.

Cosa si siano detti l’esponente antimafia Grasso e l’indagato per Concorso esterno in associazione mafiosa Antonello Montante sul Diario non c’è scritto. Certo è che Tano Grasso, subito dopo la notizia dell’inchiesta a carico di Montante da parte della DDA di Caltanissetta – oltre a incontrarlo per ben 16 volte dopo il 9 febbraio 2015 – è stato anche molto attivo nel rilasciare dichiarazioni di solidarietà al Montante indagato.

La sua federazione antiracket è stata in prima linea – insieme all’ex sindaco di Catania Enzo Bianco e alla Lega coop – a difenderlo con un comunicato in cui scrivono addirittura di Rivoluzione copernicana portata avanti da Montante e da quel gruppo dirigente di Confindustria che oggi è sotto accusa.

Queste alcune delle prese di posizione della Fai alla notizia del Montante indagato dalla DDA di Caltanissetta per Concorso esterno in associazione mafiosa:

“Esprimiamo la nostra convinta fiducia nel lavoro dei magistrati, ma è doveroso richiamare la forza e il valore di una storia personale e collettiva, quella di Antonello Montante e del nuovo gruppo dirigente di Confindustria Sicilia – continua  poi ricordando come nell’estate del 2007 a Caltanissetta – partì una vera e propria ‘Rivoluzione copernicana’ che ha rappresentato un elemento di svolta nella lotta al racket rafforzando l’esperienza di quel movimento che nel 1990 era nato a Capo d’Orlando“. E poi ancora: “La Fai rivendica con orgoglio la collaborazione realizzata in questi anni con Confindustria Sicilia nell’interesse di tutti quegli imprenditori che hanno trovato la forza di ribellarsi alla mafia“.

Confindustria Sicilia, in difesa di Montante, non è da meno:

“Non può essere etichettata né come ‘antimafia dell’ultim’ora’ né come soggetto segnato dalla retorica. Al contrario: dopo quella svolta niente più, sul terreno dei fatti concreti, è stato come prima per gli imprenditori siciliani“.

Per inciso, ricordiamo che indagato per Associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e al finanziamento illecito dei partiti – insieme a Montante – è anche il suo successore in Confindustria Sicilia, Giuseppe Catanzaro.

Una Rivoluzione copernicana, quella rivendicata dalla Fai, smentita comunque dall’inchiesta giudiziaria di Caltanissetta: “in 10 anni nessun espulso per mafia”. Ma nonostante le evidenze investigative, Tano Grasso continua a difendere quella esperienza anche in audizione in Commissione parlamentare antimafia, nel luglio 2017:

“Abbiamo assunto una posizione a mio giudizio semplicissima e di grande buonsenso, che è quella di distinguere una vicenda giudiziaria, su cui è compito dell’autorità procedere e indagare, con un’esperienza, quella dei nostri colleghi di Confindustria in Sicilia, che comunque ha avuto un importante valore nella lotta al racket – e infine – Noi ci siamo rifiutati di cavalcare una campagna di criminalizzazione di Confindustria, questo a mio giudizio è il punto”.

DON LUIGI CIOTTI

Sono 26 le telefonate che sarebbero intercorse tra Montante e don Luigi Ciotti in appena 10 giorni. Chiariamo subito, però, che sul Diario di Montante non si trovano annotati incontri o contatti con don Ciotti successivi al 9 febbraio 2015, data cioè in cui la notizia dell’indagine a suo carico per Concorso esterno in associazione mafiosa diventa di dominio pubblico.

E’ interessante però un appunto, datato 27 gennaio 2015, con annotato accanto: “al 05/02/2015 ho tel Don Ciotti 26 tel (Senn)“.

Su questo appunto di Montante facciamo notare tre aspetti. Il primo è che le telefonate sarebbero partite dal Montante. Il secondo è una curiosità sulle date riportate (l’annotazione del 5 febbraio sembrerebbe aggiunta in un secondo tempo su un appunto che è del 27 gennaio), infine che tutte le telefonate sono comunque precedenti al 9 febbraio, data dell’uscita dell’articolo di La Repubblica.

Riportiamo però questa citazione di Montante per due motivi. La nostra redazione ha prove e testimonianze affidabili che don Luigi Ciotti e la dirigenza di Libera era stata messa a conoscenza dell’inchiesta che incombeva su Montante già dagli ultimi mesi del 2014. Inoltre che la stessa comunicazione era stata ribadita alla dirigenza a gennaio, prima del 27. Insomma, a Libera sapevano cosa stava per accadere a Caltanissetta e siamo in grado di provarlo anche documentalmente. Sul contenuto e sui motivi delle 26 telefonate nel Diario di Montante non vi è nessun accenno: chissà, magari dei chiarimenti potrebbe fornirli la Direzione nazionale di Libera.

Anche in don Ciotti, come già visto con Tano Grasso, non manca una dichiarazione in difesa di Antonello Montante. E la fa quando c’è già stata la serie di perquisizioni – effettuate nel gennaio 2016, nelle abitazioni e uffici di Montante che portano anche alla scoperta nella villa di Serradifalco del famoso bunker segreto pieno di documenti compromettenti e dossier. Eppure in questo video di Meridionews.it del marzo 2016 il fondatore di Libera – a Messina per la giornata nazionale delle vittime della mafia – imbarazzato dalle domande della giornalista sull’indagine che riguarda il presidente di Confindustria Sicilia, così risponde: VIDEO

Chiudiamo l’articolo con un curioso appunto – questo però del 26 aprile 2014 – in cui Montante annota tra parentesi “Senn“, che nel gergo delle sigle utilizzate dal Montante nel suo Diario sta per “Segnalazione“:

La difesa in Corte d’Appello Il Sole 24ore.it il 13 giugno 2021

Si conclude con un botta e risposta a distanza, e al vetriolo, con don Luigi Ciotti la seconda udienza dedicata all’interrogatorio di Antonello Montante, l’ex presidente degli industriali della Sicilia, imputato per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione. Il religioso risponde alle dichiarazioni del legale di Montante, l’avvocato Carlo Taormina, che prima di lasciare l’aula bunker del carcere di Caltanissetta dice: «Don Luigi Ciotti voleva Antonello Montante all’Agenzia dei beni confiscati. L’artefice della vicenda beni confiscati sulla base dello schema di don Luigi Ciotti è stato sicuramente l’ex ministro dell’Interno Maroni - spiega Taormina - C’era uno schema di don Ciotti sulla modalità di gestione dei beni confiscati nell’ambito dell’agricoltura che naturalmente è stato importante per la costituzione dell’agenzia, anzi Ciotti invogliò Montante a diventare componente dell’agenzia dei beni confiscati: lo vedeva come una persona adatta. Così come hanno fatto molti altri, tanto è vero che c’era una sorta di vocazione che Montante potesse diventare presidente dell’Agenzia dei beni confiscati». Ma poi, nel 2015, fu resa nota da un quotidiano l’inchiesta per mafia a carico di Montante. Secondo Taormina «non è stata una coincidenza. Immediata la replica di don Ciotti secondo cui queste dichiarazioni sono «false e prive di qualsiasi fondamento e per questo ci si tutelerà nelle sedi competenti. Libera, fin dalla raccolta di un milione di firme per sollecitare la legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati, è contraria alla vendita generalizzata sul libero mercato dei beni confiscati, una posizione agli antipodi rispetto alla strategia dello stesso Montante sul ruolo e funzione dell’agenzia beni confiscati. «Inoltre - si legge in una nota Libera - ben prima che si avesse notizia dell’inchiesta sul sistema Montante, Libera aveva segnalato ufficialmente al Governo Renzi le proprie perplessità su nomina e ruolo di Montante, per motivi di opportunità, nel consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati non ottenendo, peraltro, una risposta positiva.

Le dichiarazioni dell’Avvocato Taormina non si comprendono e confondono e tutto questo non aiutano la ricerca della verità», concludono Libera e don Ciotti. «La mia azione di legalità in Confindustria cominciò già nel 2005, nel tempo poi ci siamo costituiti parte civile in tutti i processi, a partire dall’operazione Munda Mundis di Gela nel 2007. Fu proprio grazie al mio codice etico che in Confindustria ci fu una svolta nel segno dell’antimafia». Lo ha detto Antonello Montante deponendo davanti la Corte d’appello di Caltanissetta. Montante ha raccontato dei suoi primi passi nel mondo degli industriali quando, socio in una società di ammortizzatori, divenne presidente dei giovani imprenditori. «Nel processo scaturito dall’operazione Colpo di Grazia nel quale era imputato anche Di Francesco (imprenditore poi indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) - ha detto - fui io a fare costituire Alfonso Cicero, allora presidente dell’Irsap, come parte civile». E sempre nei confronti di Cicero, uno dei testi dell’accusa, insieme a Marco Venturi, ha sostenuto: «Quando lui cominciò a corteggiarmi io già da tempo avevo avviato la stagione della legalità».  

Don Ciotti, Libera e le polemiche su Montante «Molti combattono antimafia anziché la mafia». Simona Arena il 16/03/2016 su meridionews.it

Libera arriva a Messina. Insieme al suo presidente nazionale, don Luigi Ciotti. Quest’anno, infatti, la Giornata della memoria in ricordo delle vittime delle mafie – promossa da Libera e Avviso Pubblico – si svolgerà nel capoluogo peloritano lunedì 21 marzo. Il primo giorno di primavera, un modo simbolico per rinnovare l’impegno nella lotta alla criminalità organizzata. 

Don Ciotti, perché ha scelto Messina?

È un segno di gratitudine per chi è impegnato in Sicilia nel contrasto dell’illegalità. A Messina avremo una rappresentanza dei familiari delle vittime. Il miglior modo per fare memoria è quello di impegnarci tutti i giorni. Abbiamo bisogno dell’opera quotidiana di cittadini responsabili che si mettono in gioco. Soprattutto in un momento di grande crisi, con le mafie che sono tornate a essere forti economicamente. Bisogna ricordare che corruzione e mafia sono due facce della stessa medaglia. 

La soddisfa il ruolo della commissione antimafia?

Non ho nessun titolo per dire se arrivino tardi sui casi o trascurino qualcosa. È chiaro che non si tratta di un lavoro semplice. Ci sono gruppi criminali, poteri forti e massoneria a pesare sulla scena generale, ma anche tanti indifferenti che hanno sottovalutato il problema delle mafie e della corruzione, e che ancora non ne prendono coscienza.

La strada da seguire è quella della denuncia?

Da sola non basta. Ci vuole una rivolta delle coscienze. La prima grande riforma da fare nel nostro paese dovrà essere un’autoriforma.

Qual è la posizione di Libera dopo le accuse mosse ad Antonello Montante?

Mi auguro che Antonello possa dimostrare la verità. Vorrei che ognuno di quelli che vengono indagati siano messi nella possibilità di farlo. Per il resto, non sono in grado di entrare in una storia di questo tipo. Dico solo che oggi sono molti che invece di fare lotta alla mafia, la fanno all’antimafia. Bisogna saper distinguere e stare molto attenti. Anche nei riguardi di Libera ci sono delle semplificazioni e capita che arrivi del fango. 

Eppure l’ex assessore regionale Nicolò Marino ha detto che proprio Libera avrebbe avuto un ruolo nel demolire il cosiddetto sistema Montante.

Questa è una falsità assoluta. Ho già denunciato per calunnia un magistrato (Catello Maresca, sostituto procuratore di Napoli, ndr), perché ha dato del sistema mafioso a una realtà che abbraccia 1600 associazioni. Dall’Azione cattolica, all’Agesci, dall’Arci a Legambiente. Libera è un coordinamento di mondi e di contesti diversi. E da 20 anni dà il suo contributo. 

La Sicilia è terra di mafia, ma anche l’isola di Attilio Manca e Graziella Campagna. Quanto è importante la testimonianza delle loro famiglie?

Le abbiamo sempre accompagnate nella ricerca della verità. L’annuncio che la giornata si sarebbe tenuta qui a Messina l’abbiamo dato il giorno in cui si ricordava Graziella Campagna. Per Attilio Manca, posso dire che non lasceremo mai sola la sua famiglia, che chiede ciò che vuole il 75 per cento dei familiari delle vittime di mafia. Ovvero verità e giustizia, perché non si può avere giustizia se non c’è la verità.

Caso Montante, Guidotto controquerela don Ciotti. Il presidente dell’Osservatorio veneto sulla mafia: «La mia non era un’accusa a Libera ma un invito ai suoi vertici a tutelare la propria immagine pubblica». DAVIDE NORDIO il 28 Aprile 2019 su tribunatreviso.gelocal.it

CASTELFRANCO. Caso Montante, il prof. Enzo Guidotto contro querela Don Luigi Ciotti ed Enza Rando, rispettivamente presidente e vicepresidente di Libera, che a loro volta avevano querelato Guidotto per le dichiarazioni espresse circa la vicinanza di Libera con Antonello Montante, l'ex presidente di Confindustria Sicilia sotto processo per corruzione, e trasmesse dalla testata online LaPrimaTv.it. Non è arrivato nessun chiarimento tra Guidotto e don Ciotti, ma soprattutto dalle carte processuali emergerebbe che quanto dichiarato da Guidotto è provato dai fatti: ovvero che Montante cercasse di avere informazioni a suo riguardo anche nella vicinanza con realtà attive nell'antimafia: «Le mie affermazioni - spiega Guidotto, presidente dell'Osservatorio Veneto sul fenomeno mafioso - erano basate su quanto emerso nella puntata di Report sul Caso Montante del novembre scorso. Nel corso della trasmissione, i conduttori di Report, parlando della rete di rapporti creata dall’ l’imprenditore siciliano con politici, agenti segreti, dirigenti delle forze dell’ordine e di Banca Nuova del gruppo Banca Popolare di Vicenza, avevano formulato ripetutamente l’auspicio di una presa di posizione di Libera sulla vicenda e di un rinnovato impegno dei suoi aderenti nella lotta alla mafia, da me condiviso nelle interviste. In una avevo anche messo in evidenza l’opportunità di un chiarimento sull’annotazione, scritta nel diario segreto di Montante e sequestrato dagli inquirenti, di 26 telefonate in 10 giorni a “Don Ciotti” all’epoca in cui il sacerdote era al corrente dell’indagine a carico dell’imprenditore per concorso esterno in associazione mafiosa». Per Guidotto l'opportunità e l'auspicio di un chiarimento da parte di Libera, «erano giustificati dal fatto che Antonio Montante era sottoposto a procedimento penale non semplicemente per corruzione ma ben più gravi reati commessi con la complicità di alti esponenti delle istituzioni: associazione per delinquere, tentata violenza privata, concorso in accesso abusivo aggravato ad un sistema informatico o telematico e altro, tant'è che Pubblici ministeri hanno chiesto la condanna a 15 anni e 9 mesi di carcere ridotta di un terzo per via del rito abbreviato, precisando però che l’indagine per concorso esterno in associazione mafiosa rimane aperta». «Il mio intendimento - precisa ora Guidotto -non era di accusare ma solo quello di invitare Luigi Ciotti ad esprimersi per tutelare la propria immagine pubblica e di riflesso quella di Libera, ma anche del movimento antimafia nel suo complesso, già offuscato da scandali derivanti da comportamenti privi di chiarezza e trasparenza». Davide Nordio

Rapporti Libera-Montante, Ciotti mi ha querelato: mercoledì il processo a Ragusa. Di Angelo Di Natale il 16 dicembre 2019 su italyflash.it

Mercoledì 18 dicembre comincerà dinanzi al Tribunale di Ragusa il processo per diffamazione a mezzo stampa che mi vede imputato, come (all’epoca dei fatti) direttore responsabile de La Prima Tv, insieme a Enzo Guidotto, intervistato per l’occasione sui tanti dubbi suscitati dalla condotta dei dirigenti di ‘Libera’ rispetto al sistema-Montante. I fatti risalgono a poco più di un anno fa: il 12 novembre 2018 in una storica puntata intitolata ‘L’apostolo dell’Antimafia’ condotta da Paolo Mondani e Sigfrido Ranucci, Report affronta quanto emerge dall’inchiesta sul sistema Montante e tenta, invano, di avere da Pio Luigi Ciotti, presidente dell’associazione ‘Libera, associazione, nomi e numeri contro le mafie’ risposte e chiarimenti in merito ai rapporti con lo stesso Montante.

Sul tema ho chiesto ad un bravissimo giornalista, Marco Milioni, allora collaboratore de La Prima Tv, di intervistare Enzo Guidotto, siciliano trapiantato in Veneto e da decenni limpido testimone dell’impegno autentico nell’educazione alla legalità e nel contrasto alle mafie, tra i fondatori peraltro di Libera in quella regione.

La Prima Tv, sotto la mia responsabilità, trasmise, il 21-11-18, una versione breve di quell’intervista in un servizio dal titolo ‘Guidotto: Anche Libera era caduta nella rete di Montante’ e, il 6-12-18 una ben più ampia in un approfondimento contenuto nella rubrica Il Fatto del giorno, dal titolo ‘Sistema Montante, servizi segreti e la missione di Banca Nuova: e Libera dovrebbe spiegare’.

Né Guidotto nella sua analisi – lucida, coerente ed onesta, votata esclusivamente al valore della verità – né io, nelle considerazioni e nei commenti con cui ho presentato l’intervista, abbiamo mai diffamato alcuno, ma semplicemente riferito fatti veri, di (altissimo) pubblico interesse, con argomentazioni critiche espresse in forma più che corretta.

Il presidente di Libera ha ritenuto di sporgere querela per diffamazione a mezzo stampa, addirittura con l’aggravante dell’attribuzione di fatto determinato, e – in virtù di una non comune fantasia creativa – anche per calunnia (!).

La Prima Tv, piccola testata di periferia, in questo caso non ha scoperto alcun fatto nuovo, né cercato prove su materie controverse, ma semplicemente presentato una lettura della realtà – con i suoi elementi certi e i tanti dubbi – onesta, limpida, priva di pregiudizi, finalizzata alla ricerca della verità.

Per esempio, auspicando che Ciotti, anziché rifiutare per mesi di dare una risposta a Report, chiarisse se le 26 telefonate annotate da Montante nel suo diario segreto nei giorni precedenti la sua nomina ai vertici dell’Agenzia per i beni confiscati alla mafia le avesse effettivamente ricevute o no (e, ovviamente, se sì, quale ne fosse il contenuto).

I dubbi, poi, anche al di là di quanto contenuto in quei due servizi de La Prima Tv, sono tanti e riguardano per esempio i rapporti tra Ciotti e Montante anche quando il primo era già a conoscenza, come nel processo potrà testimoniare Attilio Bolzoni citato come teste, dell’inchiesta per associazione mafiosa aperta dalla procura di Caltanissetta nei confronti di Montante.

Il mio profilo di imputato è duplice.

Innanzitutto sono accusato per omesso controllo in quanto direttore responsabile: ho controllato, eccome! E ho deciso che quell’intervista non solo potesse, ma dovesse, essere trasmessa anche in quelle parti nelle quali Ciotti e la sua vice Rando hanno visto – in un loro fantasioso mondo ribaltato – reati nei loro confronti.

Poi sono anche imputato per avere in un mio commento (leggo nell’atto di citazione) “in chiusura dell’intervista lasciato trasparire un’inquietante vicinanza della predetta associazione all’affaire-Montante, così offendendo la reputazione di Ciotti Pio”.

Siccome le ‘distanze’, e quindi anche le ‘vicinanze’, si rilevano con parametri oggettivi, attendo che il processo proceda a queste ‘misurazioni’.

Non mancheranno fonti documentali e testimoniali a far luce sulla verità delle cose.

Su un punto concordo con i querelanti: definire inquietante quella (vera o presunta) vicinanza. Io personalmente ho vissuto, e vivo, quell’inquietudine. Che certo non ha contribuito a placare l’intervista rilasciata da Ciotti a MeridioNews il 16 marzo 2016 quando Montante è ancora, potentissimo, in libertà, anche se da oltre un anno è noto pubblicamente che sia indagato per mafia: e a Ciotti, informato personalmente da Attilio Bolzoni, lo è ancora da più tempo. Di seguito il link, contenente anche la registrazione audio-video, di quell’intervista (Mi inquieta ancora oggi la risposta di Ciotti: ‘spero che Antonello possa dimostrare la verità’.

Ma – osservo io – quale verità potrebbe ‘dimostrare’ Antonello, se non la ‘sua’? E della verità tout court, che quindi possa non essere la sua, non interessa niente? 

Don Ciotti, Libera ed il sistema Montante: assolto giornalista siciliano.  Da tp24.it il 16/05/2023

 Il giornalista Angelo Di Natale è stato assolto "perché il fatto non costituisce reato" dall’accusa di diffamazione a mezzo stampa nei confronti di ‘Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie’.

La sentenza è stata emessa dal Tribunale di Ragusa a conclusione di un dibattimento durato due anni e originato da una querela presentata a gennaio 2019 da Don Luigi Ciotti.  contro il giornalista, all’epoca direttore responsabile dell’emittente televisiva La Prima Tv, in relazione al contenuto di un’intervista rilasciata all’emittente, a novembre 2018, da Enzo Guidotto, presidente dell'associazione antiracket di Trapani. 

Oggetto del processo sono state le considerazioni di Guidotto (per il quale però la querela era stata ritirata dopo una lettera di "chiarimenti") e di Di Natale sull’atteggiamento di Libera nei confronti di Antonello Montante e del suo ‘sistema’, sui rapporti, i silenzi, le reticenze dell'associazione antimafia.  Qui il comunicato in cui Libera annunciava la querela.  Il giornalista è stato assolto poichè le sue considerazioni sono state espresse nella piena legittimità del diritto di critica. 

Da Libera.it. Libera querela Enzo Guidotto e Angelo Di Natale

In riferimento ad affermazioni al Caso Montante che mirano a tracciare un quadro distorto, diffamatorio e calunnioso nei confronti di Libera e del suo presidente.

Nei giorni scorsi il presidente nazionale di Libera, Luigi Ciotti ha presentato atto di querela per reato di diffamazione a mezzo stampa nei confronti di Enzo Guidotto e di Angelo Di Natale , direttore responsabile della testata online LaPrimaTv.it per affermazioni gravi e diffamatorie, che ben lungi dal costituire la legittima espressione di critica personale, mirano a tracciare un quadro distorto, diffamatorio e calunnioso nei confronti di Libera e del suo presidente. Oggetto della querela è riferito a due interviste rilasciate da Enzo Guidotto e pubblicate sul canale youtube della Testata LaPrimaTv in merito ad un approfondimento giornalistico sui fatti di cronaca giudiziaria riguardanti il Caso Montante in seguito della puntata della trasmissione televisiva “Report” intitolata “L'Apostolo dell' antimafia”. La valenza offensiva , calunniosa e diffamatoria sono eloquenti sin dai titoli con cui sono rubricate le due videointerviste condivise sul canale youtube della testata sia nel contenuti della stessa intervista. Affermazioni dalla chiara valenza diffamatoria che travisano scientemente la realtà con l'intento di delegittimare in maniera squalificante Libera e il suo Presidente.

Abbiamo sempre rispettato il diritto ad una informazione libera e alla libertà di critica- dichiara Avvocato Enza Rando, vicepresidente nazionale Libera e responsabile dell'ufficio legale- ma non possiamo accettare dichiarazioni false e diffamatorie che ledono la dignità e la storia dell’associazione e del suo presidente. Ben vengano tutte le documentazioni, le analisi e le critiche ma a patto che siano oneste, serie e disinteressate. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia.

L’Inchiesta e il diritto di critica e d’informazione

Cara Libera, con Montante Ciotti ti ha tradita, ma se avrai il coraggio della verità saprai cercare la verginità perduta. Di Angelo Di Natale il 6 Febbraio 2022 su insiciliareport.it

In questi giorni mi è toccato molte volte di dovere in privato rendere report a diversi soggetti – giornalisti, personalità della cultura, delle istituzioni e della politica, in alcuni casi semplici amici o persone comuni che seguono la mia attività giornalistica – sul processo in corso dinanzi al Tribunale di Ragusa che mi vede imputato di diffamazione a mezzo stampa per un’intervista, comprensiva del mio commento, sul tema dei silenzi e della posizione di Libera rispetto al caso Montante, rilasciata da Enzo Guidotto al giornalista Marco Milioni e trasmessa, in due parti, il 21 novembre e il 6 dicembre 2018, da La Prima Tv di cui, all’epoca, ero direttore.

La scelta di intervistare Guidotto su quella vicenda scabrosa, allarmante e inquietante, ovviamente fu mia, quale direttore. Conoscevo Guidotto, personalità di specchiata integrità morale e di riconosciuta competenza sul tema del contrasto culturale e sociale della mafia, protagonista di tante fruttuose esperienze, in oltre cinquant’anni di impegno nella scuola, nella cultura e nelle più alte istituzioni dello Stato impegnate su questo terreno. Peraltro Guidotto, tra i fondatori di Libera, mi sembrava – ed effettivamente risultò – una scelta di alta qualità editoriale per l’analisi e la riflessione critica svolte nel corso dell’intervista su una vicenda che lasciava sgomente decine di migliaia di persone in Italia e suscitava dubbi e disorientamento in quasi tutta l’opinione pubblica per la posizione e l’atteggiamento di Libera sul caso predetto e, soprattutto, per la reticenza dell’organizzazione (il cui nome completo è  “Libera. Associazione, nomi e numeri contro le mafie”) e del suo solitamente loquace presidente Pio Ciotti, da oltre un quarto di secolo simbolo carismatico, per titoli indiscussi acquisiti sul campo, dell’impegno sociale diffuso contro le mafie.

Sgomento, sconcerto e disorientamento dovuti al contrasto stridente tra – da una parte – i meriti straordinari di una persona come Ciotti, prima nella lotta contro le droghe nel gruppo Abele, poi come artefice della nascita di Libera, con quella petizione lanciata nel 1995 la quale, con un milione di firme, diede avvio ad una grande mobilitazione civile, sociale e culturale contro le mafie e – dall’altra – (da quando si è saputo delle accuse mosse ad Antonio Calogero Montante, ‘Antonello’ per gli amici, dall’autorità giudiziaria per concorso in associazione mafiosa, accuse a tutti note certamente dal 9 febbraio 2015), i lunghi silenzi di Ciotti, intermezzati peraltro da dichiarazioni che chi ha potuto ascoltarle ha faticato parecchio – dovendo risentirle e rivedere più e più volte la faccia di chi pronunciava quelle parole – per essere certo di essere sveglio anziché immerso in un sogno-incubo impossibile da credere.

Dichiarazioni audiovideo rese a Messina ad una testata giornalistica il 16 marzo 2016, ovvero quando da oltre un anno tutti – e Ciotti da più tempo – sapevano dell’inchiesta penale nei confronti di Montante, accusato di avere concorso fin dal 1990 a Cosa Nostra, nonostante da un decennio fosse riuscito a cucirsi addosso, quale imprenditore, l’immagine di fiero e sincero avversario della mafia, in virtù di una geniale, abile e colossale impostura che gli ha consentito di scalare i vertici di Confindustria ed è stata sostenuta da una rete vastissima di complicità svariate. Da quelle dolose a quelle meno consapevoli ma oscure e nutrite dagli interessi particolari che Montante illecitamente, con la piena accettazione e la totale gratitudine dei beneficiari, era in grado di soddisfare attraverso una rete (con un cerchio propriamente criminale ed altri contigui e borderline) che lo portava a disporre di collusioni, contiguità e vere e proprie correità in una vasta platea di infedeli servitori dello stato i quali erano a sua totale disposizione: prefetti, questori, alti ufficiali della Polizia di Stato, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, dei vertici dei Servizi segreti, e poi ministri, politici di vario livello, burocrati, giornalisti, magistrati, altri rappresentanti di varie organizzazioni, pubbliche o private ma, in questo caso, con rilevanti funzioni di interesse generale.

Secondo quanto emerso dal processo di primo grado e da quello d’appello che volge al termine, la rete di Montante operava non solo nel senso corruttivo di rendere favori illeciti e ottenerne tutte le controprestazioni possibili – di fedeltà assoluta e incondizionata fino alla commissione di reati – ma anche nel senso aggressivo e violento di minacciare, intimidire, colpire chi non si prestasse ai suoi voleri o ostacolasse i suoi interessi.  Questa duplice modalità operativa dell’associazione criminale capeggiata da Montante è riscontrabile in molti campi ma meglio riconoscibile soprattutto in quello della stampa. Tanti giornalisti ed editori a sua disposizione, prostituendo la loro funzione hanno alimentato la narrazione dell’imprenditore partito dall’entroterra siciliano di Serradifalco e divenuto icona nazionale antimafia, mentre altri giornalisti, onesti e liberi perciò indisponibili alle sue lusignhe corruttive, venivano colpiti, calunniati, fatti bersaglio di dossier fabbricati a comando da uno stuolo di poliziotti, carabinieri e finanzieri della sua cricca.

Ma se milioni di persone che non abbiano mai incontrato Montante, nè parlato con lui e ascoltato il suo privato ‘linguaggio da gangster’ svelato dalle intercettazioni, possono aver creduto in buona fede alla sua colossale impostura, dal 9 febbraio 2015 tutto ciò non era possibile.

Ecco perchè, da quel momento i silenzi di Libera e di Ciotti, ancora di più le attestazioni di stima e di amicizia che si possono cogliere in quelle parole pubbliche del 16 marzo 2016, e poi ancora i nuovi silenzi reiterati fino al 2019, danno scandalo.

Peraltro questa sequenza, da quando Ciotti nel 2014 apprende dell’inchiesta sul sistema Montante, alle prime, deboli, parole che finalmente comincia a pronunciare nel 2019 all’insegna di una, comunque timidissima, presa di distanza, si manifesta in una fase storica in cui sono tante le voci critiche – di figure limpide, forti, autorevoli – che dalla società civile, dalla cultura, dall’associazionismo, dalle istituzioni si levano su errori, limiti, ritardi, disattenzioni, ambiguità, imbarazzi e molto altro, da parte di quella cosiddetta Antimafia sociale di cui Libera è, senza ombra di dubbio, l’espressione più importante.

Solo per dare un’idea e fare un esempio, tra le voci critiche  – voci amiche dell’Antimafia sociale, e quindi di Libera, interessate unicamente al suo bene e al migliore esercizio della sua missione – qui ne citiamo una: Francesco Forgione, politico, scrittore, ex parlamentare di Rifondazione comunista e presidente della Commissione parlamentare antimafia nella legislatura 2006-2008.

Nell’autunno 2016 – oltre un anno e mezzo dopo che una Procura della Repubblica ha smascherato il falso campione antimafia e lo ha accusato di essere, in realtà, un mafioso – Ciotti ancora tace, ed anzi sei mesi prima lo ha chiamato in pubblico affettuosamente ‘Antonello’.

Nell’autunno 2016 Forgione pubblica un saggio dal titolo “I tragediatori, la fine dell’antimafia e il crollo dei suoi miti”. L’editore Rubettino lo propone in vendita, anche con il bonus cultura, sul proprio sito con queste parole esplicative del contenuto dell’opera: <<L’Antimafia dei tragediatori è scoperta. È finita. Chi sono, da dove vengono e perché stanno crollando le icone e i miti dell’Antimafia. Imprenditori, giornalisti, magistrati, associazioni sono travolti>>.

Moltissime le presentazioni pubbliche del libro in varie città d’Italia con eventi e incontri che animano un vivace dibattito. Decine gli articoli pubblicati dalle maggiori testate.

Per esempio Il Fatto quotidiano il 10 novembre 2016 pubblica un ampio servizio dal titolo “I tragediatori, Forgione racconta il lato oscuro del movimento antimafia” nel quale il tema, su una foto di Forgione insieme a Ciotti, è introdotto con grande evidenza, da questo sommario: <<Un ventennio di successi, sconfitte, contraddizioni, faide interne che sono alla fine approdate in quello che verrà ricordato come l’annus horribilis dell’antimafia. Due decenni segnati da scontri aspri, dibattiti al vetriolo e spaccature che adesso non indicano vie di fuga, ma soltanto quale è la strada da abbandonare. È l’inverno del movimento antimafia quello che prova a indagare Francesco Forgione (nella foto con don Ciotti) ne I Tragediatori, il saggio dato alle stampe per Rubbettino dall’ex deputato di Rifondazione comunista>>. Nel testo, tra l’altro,  si legge. Chi sono i tragediatori? Per provare a spiegarlo Forgione cita il pentito Tommaso Buscetta. <<Quando gli uomini d’onore parlano fra loro di fatti che attengono a Cosa nostra – diceva il boss dei due mondi – hanno sempre l’obbligo assoluto di dire la verità. Chi non dice la verità noi lo chiamiamo ‘tragediaturi’. Tragediatore, cioè uomo che dice o finge di essere ciò che non è. Un fenomeno che da tempo si è infiltrato nel mondo dell’antimafia, producendo quel singolare cocktail di slogan e impostura che è alla base dell’ultima indagine della Commissione parlamentare Antimafia: quella sulle contraddizioni dello stesso movimento>>.

La Repubblica, l’8 marzo 2017, dedica un lungo articolo, non è il primo, al libro di Forgione che – si legge – <<racconta come una parte dell’antimafia abbia “tragediato”, per divorare se stessa, in un disegno in cui la lotta alla mafia era spesso solo un pretesto. Un testo trasgressivo che sfida ipocrisie e tabù e racconta un mondo strano e difficile, con ruoli mutevoli e più parti in commedia, con santi ed eroi sempre sull’orlo di un baratro aperto dalle loro stesse mani. Ora – scrive Forgione – è il tempo di rompere il silenzio e l’omertà che, per lungo periodo, hanno avvolto anche il mondo dell’antimafia e lasciato che alcuni suoi paladini ne espropriassero l’intera rappresentanza. Tanti di noi, preoccupati dal nemico che avevamo di fronte, non ci siamo occupati di alcuni compagni di viaggio che avevamo al nostro fianco>>. Il quotidiano osserva come il libro racconti <<con sguardo indagatore, associazioni vere e sigle inventate, fondazioni finanziate solo per la forza evocativa del nome cui sono intitolate, movimenti che per motivare soldi pubblici ricevuti e legittimare la propria esistenza, organizzano ogni anno un convegno più o meno pretestuoso>>. Forgione racconta inoltre anche l’esperienza di presidente della Commissione antimafia , ripercorre tante vicende successive come la rottura con Don Ciotti e su Libera afferma: <<Resto convinto che senza Libera l’antimafia sociale oggi non esisterebbe. Un fatto però è certo: nell’opinione pubblica la verginità di Libera è perduta>>.

E questi sono solo brevi cenni e pochi frammenti di un dibattito molto ampio che ha investito la società italiana, nel silenzio di Libera e di Ciotti. Il quale da parte sua in quel periodo era impegnato invece, per esempio, a cacciare da Libera Franco La Torre il quale non è ‘solo’ il figlio di Pio La Torre – e lo è totalmente e pienamente, anche nella totale identità del sentire e dell’agire etico, sociale e culturale – quel Pio La Torre al cui lascito morale e politico Libera deve la propria stessa esistenza, ma, a prescindere dal cognome che porta, è una figura di altissimo profilo e di cristallina integrità, votata al bene comune e alla causa di Libera di cui è stato fondatore ed attivista. Ciotti lo ha liquidato con un sms subito dopo che – era ottobre 2015 – nel corso di un’assemblea nazionale del movimento, La Torre, peraltro dopo avere espresso su Libera un giudizio altamente positivo, osò osservare che forse su’ Mafia capitale’ e sul ‘sistema Saguto’ c’erano state distrazioni o sottovalutazioni.

Quindi, per oltre quattro anni dopo le prime notizie dell’inchiesta della Procura di Caltanissetta, abbiamo assistito ad un sostanziale silenzio di Libera e di Ciotti sul ‘sistema Montante’, interrotto solo, il 16 marzo 2016, dall’auspicio augurale affettuosamente e pubblicamente espresso all’impostore che da 26 anni stava nel cuore di un boss mafioso e da due era indagato per mafia.

In quello stesso periodo in cui Ciotti taceva – e, quando parlava, più che altro sembrava avere a cuore le sorti personali di ‘Antonello’ – il fronte dell’Antimafia sociale ribolliva e tante figure di primo piano non ci stavano alla consegna del silenzio.

Ecco perché, a novembre 2018, con Montante da sei mesi in carcere, con Ciotti sempre muto e dopo la puntata di Report che prende di petto questi silenzi e affronta il tema dei rapporti di Libera con Montante, ho ritenuto utile ascoltare la voce di Guidotto il quale non ha diffamato nessuno ed ha offerto, in forma pacata, civile e propositiva, un contributo di analisi ed una riflessione critica di grande utilità generale, mosso unicamente da piena sintonia con le ragioni fondative di Libera e dalle anomalie dell’ultimo periodo.

Lo rifarei cento volte, convinto come sono che l’Antimafia sociale sia un grande patrimonio civile, culturale e sociale dell’Italia contro le mafie e che il sentire spontaneo e sincero di tante migliaia di aderenti, sostenitori e attivisti di Libera meriti la limpidezza, la vitalità e la freschezza delle origini.

Ciotti, che di Libera è legale rappresentante, mi ha querelato per diffamazione a mezzo stampa dando vita al processo in corso a Ragusa.

Dovendo riferire dell’ultima udienza ai tanti che mi hanno chiesto, ho finito per determinare senza volerlo un proficuo scambio di idee ed un confronto – con decine di personalità di cui nutro molta stima – non solo nel merito della vicenda, ma anche sulle condizioni allarmanti in cui versano la libertà di manifestazione del pensiero e il dialogo democratico  nella realtà viva della società italiana (con note di indignazione per l’espulsione di La Torre da Libera) nonché, su un altro piano, il pessimo stato di salute della giustizia e dell’informazione libera e critica.

Dalle analisi raccolte, dalla lettura degli eventi, dalle autorevoli opinioni formatesi sulla vicenda e a me rappresentate, un punto centrale che emerge si può esprimere così: cara Libera, con Montante Ciotti ti ha tradita, ma se avrai il coraggio della verità e se saprai tornare alle ragioni autentiche per cui sei nata e hai così bene operato nel primo decennio, potrai rimetterti sulla via della ricerca di quella che Forgione ha definito la <<verginità perduta>>. Ma occorrono verità, rifiuto di ogni tentazione di accomodamento, ipocrisia o compromissione (rischi magari spinti dall’intento di difendere l’esistente e di sopravvivere, ma da scacciare con decisione) onestà intellettuale e umiltà nell’avere la capacità di ammettere pubblicamente errori, omissioni, disattenzioni, sottovalutazioni, silenzi, imprudenze, frequentazioni e rapporti inopportuni, cointeressenze se del caso, condizionamenti o autocondizionamenti, e perfino vere e proprie latitanze come dalla posizione di parte civile nel processo ‘Montante + 22’ dove Libera ha scelto di non essere, al punto che non ha neanche avanzato la richiesta.

I temi emersi dai vari dialoghi sono anche tanti altri e le cose da raccontare innumerevoli.

Ma intanto, dopo avere dovuto assolvere in privato alle richieste di notizie sul processo, ho preso atto che tali notizie, e soprattutto i contributi di analisi e di riflessione che esse hanno suscitato in decine di telefonate e videoconferenze, meritassero anche un minimo di condivisione pubblica.

Cosa che con questo articolo – non potendo a questo punto andare oltre nella lunghezza del testo – comincio a fare.

Pio Luigi Ciotti, Antonio Calogero Montante e …la Verità. Di Angelo Di Natale l'11 Febbraio 2022 su insiciliareport.it

Prima di andare oltre nella trattazione dei rapporti tra Pio Luigi Ciotti e Antonio Calogero Montante, nonché più ampiamente tra Libera e la rete del grande impostore condannato per associazione per delinquere e accusato di essere un mafioso, occorre soffermarsi su un elemento-shock già affrontato nell’articolo precedente: cosa pensa e dice Ciotti di Montante quando questi da tempo è accusato di essere un mafioso. Articolo nel quale però è mancata l’esplicita notazione testuale delle parole usate dal presidente di Libera.

Mi riferisco a quelle pronunciate da Ciotti il 16 marzo 2016 ai microfoni e dinanzi alle telecamere di Meridionews. Nell’articolo precedente ne ho ampiamente argomentato dando per scontato che fossero note a tutti. Non era così e ho dovuto rendermene conto dinanzi alle tante richieste di chiarimento giunte per e-mail, post e commenti social, lettere e telefonate in redazione.

E allora è bene ripartire dalla testualità di quelle parole, ed anzi dal loro ascolto e dalla visione delle immagini di Ciotti mentre le pronuncia (link in basso).

Come si può ascoltare, viene posta una domanda chiara: <<Qual’è la posizione di Libera dopo le accuse mosse a Montante?>>? Infatti tale posizione il 16 marzo 2016 non si conosce ancora, repressa dalla scelta del silenzio, quasi un anno e mezzo dopo l’emersione pubblica di quelle accuse a Montante formulate dall’autorità giudiziaria nella quale Libera ripone sempre piena fiducia.

Ciotti risponde, testualmente: <<Mi auguro che Antonello possa dimostrare la verità. Iil mio augurio è che ognuno di quelli che vengono indagati siano messi in grado di potere dimostrare questo. Io non sono in grado di potere entrare in una storia di questo tipo. Dico solo che oggi sono molti che invece di fare lotta alla mafia la fanno all’antimafia nel nostro paese. Allora qui c’è il dovere di sapere distinguere per non confondere. Bisogna veramente essere molto attenti….>>.

A questo punto Ciotti si ferma, ha un attimo di esitazione, abbassa la voce e riprende: <<Perchè un pochettino … lo vedo anche nei riguardi di Libera che ci sono delle semplificazioni, dei giudizi, del fango che arriva… una manipolazione della verità>>. Poi, a successiva domanda, dirà di avere denunciato per diffamazione e calunnia un magistrato in riferimento, tra le altre cose, all’attribuzione a Libera di una realtà di mille e seicento imprese, <<una falsità assoluta>>  – chiarisce Ciotti – perché <<Libera è un coordinamento di 1600 associazioni, di mondi e contesti diversi, bisogna stare molto attenti …..>>. Per la cronaca il magistrato è Catello Maresca, oggi consigliere comunale di Napoli del centrodestra, in quanto candidato, sconfitto, a sindaco nelle elezioni del 2021. Allora – la querela è di gennaio 2016 per un’intervista a Panorama – sostituto procuratore a Napoli e noto per alcune inchieste contro il clan dei casalesi.

Ma torniamo alla parte che riguarda la posizione di Libera rispetto alle accuse a Montante di concorso in associazione mafiosa sin dal 1990, accuse formulate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta nell’ambito di un’attività – seria, rigorosa, sviluppatasi nel vaglio meticoloso di tutti i riscontri possibili, delle evidenze documentali, delle prove testimoniali – sfociata in un procedimento penale aperto due anni prima: Ciotti ne è a conoscenza da un anno e mezzo, mentre da un anno e due mesi lo è l’intera opinione pubblica.

Limitandoci al primo brano dell’intervista di Ciotti a Meridionews che contiene certamente la risposta alla domanda sulla posizione di Libera, mentre il secondo, almeno in parte forse se ne discosta, Ciotti è chiaro nel volere atteggiarsi pubblicamente come l’amico di ‘Antonello’, anche a costo di apparire come un soggetto totalmente diverso, perfino opposto, alla sua identità e alla sua immagine pubblica di difensore della legalità e della giustizia contro la mafia e i suoi intrecci.

Non esiste infatti una sola dichiarazione dello stesso tenore nei precedenti vent’anni di Libera pur segnati da migliaia di dichiarazioni nelle quali Ciotti è stato sempre pronto e disponibile a esternare in ogni luogo dinanzi a selve di microfoni e telecamere e, in mancanza, ad assumere unilateralmente l’iniziativa di comunicare con comunicati stampa e tutti i mezzi possibili ad ogni operazione di polizia, ad ogni attività inquirente, ad ogni retata con arresti di accusati per mafia, ad ogni condanna di persone imputate di reati di mafia.

In tutti questi casi, senza mai un’eccezione, la posizione di Libera e di Ciotti fino a quel momento è sempre stata uguale a se stessa, quasi un clichè rilanciato ad ogni occasione: soddisfazione per i risultati investigativi o giudiziali, piena fiducia nelle forze dell’ordine e nei magistrati, invito ad andare a fondo per colpire sempre più nettamente gli intrecci e gli affari mafiosi fino a reciderli, ecc…

Questa volta niente di tutto questo. E ciò, se già è grave e inquietante per i dodici e passa mesi nei quali Libera e Ciotti incredibilmente rimangono muti, diventa sconvolgente dinanzi alle parole pronunciate il 16 marzo 2016.

Ciotti questa volta non si schiera – e non schiera Libera – dalla parte delle forze dell’ordine le quali con grande rigore, onestà, professionalità e coraggio stanno conducendo un’investigazione difficile; non si schiera dalla parte dei magistrati i quali, pur nel mirino della rete criminale di Montante (Antonello per gli amici), con competenza, inflessibilità e determinazione portano avanti un’inchiesta difficile.

No, questa volta Ciotti non si schiera affatto dalla loro parte ma, per un verso, si mantiene equidistante tra la mafia e lo Stato (incredibile pensando ai precedenti vent’anni di Libera) e per un altro si dichiara amico di Montante (appellarlo pubblicamente Antonello vale, sul punto, più di ogni indagine psicosociologica). Amico di Montante e interessato alla sua ‘verità’, preoccupato per le sue sorti di ‘indagato’ al quale augura di dimostrare la verità e che sia messo in grado di farlo. Augurio che Ciotti estende a tutti gli indagati, pensiero che non lo ha mai toccato prima e che addirittura può essere interpretato come una preoccupazione per il fatto che gli indagati – ora tutti degni di attenzione grazie all’indagato ‘Antonello’, visto che mai prima un elemento del genere è affiorato nelle sue esternazioni – non siano messi <<in grado di dimostrare la verità>>.

Tornando al cuore delle preoccupazioni di Ciotti, da chi può accadere che Montante non <<sia messo in grado>> di dimostrare la verità? Dallo Stato? Dagli organi inquirenti? Dall’Autorità giudiziaria? Dalla Giustizia? Ovvero da tutti quei soggetti e realtà istituzionali nei quali prima Libera ha sempre espresso piena fiducia?

E perché questa brusca rottura? Ciotti in quel momento ha notizie che lo inducano obiettivamente a credere nell’accusato per mafia anziché nello Stato o, semplicemente, è condizionato? Peraltro se è, o se fosse, condizionato il 16 marzo 2016, lo rimane, o lo rimarrebbe, per ancora tre anni, e anche dopo e tuttora, perché non ha mai recuperato, né assunto le posizioni della Libera delle origini.

E se sì, Ciotti condizionato da cosa?

Prima di vedere se risposte a questa domanda possano essere trovate nelle sue stesse parole o negli atti compiuti successivamente e finora, un’ultima notazione sull’analisi di quella risposta a Meridionews appare utile e opportuna.

L’augurio ad ‘Antonello’ di essere messo in grado di potere dimostrare la verità potrebbe suonare come ammonimento ai magistrati a non infierire, a non fidarsi troppo delle loro investigazioni e quindi della loro stessa capacità di farle, a stare attenti, attenti non si sa a chi, forse anche a qualcosa o qualcuno che li possa portare fuori strada: ma qui siamo ad inevitabili congetture esegetiche, in mancanza di elementi chiatri e univoci. In ogni caso Ciotti, dopo avere formulato tale augurio, mai espresso prima a nessun altro accusato di mafia, e averlo esteso a tutti gli indagati, va oltre e fa chiarezza anche delle proprie stesse parole: <<io non sono in grado di potere entrare in una storia di questo tipo>>.

Se ci fossero dubbi, Ciotti chiarisce e ribadisce la propria equidistanza tra lo Stato e la mafia sotto inchiesta, tra forze dell’ordine e presunti mafiosi, tra accusati di mafia e autorità giudiziaria. Equidistanza misurata dalla sua ‘confessione’ di <<non essere in grado di potere entrare in una storia di questo tipo>>.

Il 16 marzo 2016 Ciotti, come e più dei semplici cittadini, è a conoscenza e si trova dinanzi al lavoro rigoroso di un pool di magistrati capaci, onesti e coraggiosi che certamente per due anni, e probabilmente più, hanno vagliato notizie di reato, fatti, documenti, testimonianze e riscontri.

Oltre tredici mesi prima, il 9 febbraio 2015, il quotidiano la Repubblica con uno storico articolo di Attilio Bolzoni e Francesco Viviano ha svelato l’inchiesta; quattordici mesi prima, il 22 gennaio 2015, l’ha fatto, sia pure con un breve articolo, di Giampiero Casagni, il settimanale siciliano Centonove, una testata indipendente e di grande valore civile che qualche tempo dopo, nel 2017, il sistema Montante, con uno dei suoi colpi di coda, farà chiudere dopo avere fatto arrestare il direttore Enzo Basso.

E due anni prima che Ciotti pronunci in pubblico quelle parole sull’amico ‘Antonello’, il 27 aprile 2014, il periodico I Siciliani Giovani, retaggio ancora vivo della lezione e del lascito morale e civile di Giuseppe Fava, ha pubblicato un documento che attesta fin dagli anni ’80 i rapporti e le frequentazioni di Montante con il boss mafioso Vincenzo Arnone, peraltro suo testimone di nozze.

Eppure per Ciotti tutto ciò è <<una storia di questo tipo>> (che ‘tipo’ ha in mente?) in cui egli <<non è in grado di entrare>>.

Quindi la chiosa finale che rappresenta la continuazione logica di questo punto del suo pensiero, della sua riflessione, del suo ragionamento e della sua analisi: <<Dico solo che oggi sono molti che invece di fare lotta alla mafia la fanno all’antimafia nel nostro paese. Allora qui c’è il dovere di sapere distinguere per non confondere. Bisogna veramente essere molto attenti….>>.

Ciotti, nel momento in cui sta parlando di Montante e, in quanto accusato di mafia, di una <<storia di questo tipo>>, a chi e a cosa si riferisce osservando che oggi molti invece di fare la lotta alla mafia la fanno all’antimafia? Parla, o parla anche, dell’antimafia (sedicente e fasulla) di Montante a cui la procura di Caltanissetta starebbe facendo la guerra o si riferisce solo a Libera? Purtroppo la risposta è no. Non si riferisce a Libera, ammesso che fosse fondata o soggettivamente giustificabile la percezione della lotta a Libera.

In quel passo dell’intervista Ciotti non si riferisce a Libera (bensì, inevitabilmente, a Montante) in quanto, subito dopo avere osservato che molti fanno la lotta all’antimafia anziché alla mafia, e dopo una breve pausa, aggiunge: <<….perchè un pochettino lo vedo anche nei riguardi di Libera che ci sono delle semplificazioni, dei giudizi ….>>. Se ci fossero dubbi interpretativi l’avverbio ‘anche’ viene in soccorso e chiarisce. Dopo avere parlato di Montante e – in questo punto del suo discorso, quindi riferendosi all’inchiesta per mafia nei confronti di Montante – avere detto della strana lotta all’antimafia, Ciotti ne fornisce un successivo e ulteriore (<<un pochettino lo vedo anche nei riguardi di Libera>>) esempio: Libera.

Quindi il concetto da lui espresso è che – o secondo logica appare interpretabile unicamente nel senso che – l’inchiesta della Procura di Caltanissetta nei confronti di Montante per mafia è, o potrebbe essere, un esempio di quella strana lotta che molti nel nostro paese fanno all’antimafia anziché alla mafia. Tant’è che aggiunge: <<Allora qui c’è il dovere di sapere distinguere per non confondere. Bisogna veramente essere molto attenti….>>.

Se ho dovuto prodigarmi in uno sforzo esegetico così articolato è perché queste sono le sole parole pronunciate da Ciotti su Montante per cinque anni: da aprile 2014, quando anche Ciotti ha potuto leggere l’articolo e vedere la foto e il certificato di matrimonio dell’amico ‘Antonello’ pubblicati da I Siciliani Giovani; ai mesi successivi quando apprende dell’inchiesta della Procura di Caltanissetta; a gennaio e febbraio 2015 quando la notizia dell’inchiesta diviene nota a tutti in seguito agli articoli di Centonove e la Repubblica; a tutte le fasi successive nelle quali, mentre il caso deflagra e accende domande e prese di posizione, Ciotti, il presidente di “Libera, Associazioni, nomi e numeri CONTRO LE MAFIE” sta zitto.

Perciò l’esigenza di entrare in queste parole del 2016, le sole pronunciate in cinque anni, alle quali – quando il silenzio nel 2019 finalmente s’interrompe – fanno seguito altre: timide, deboli, incongruenti. Certo diverse da quelle del 2016 ma niente più che un balbettio, che appare mosso più dalla necessità di rompere il silenzio che dalla volontà di comunicare con chiarezza una posizione, tanto meno una posizione degna del passato di Libera. In questa sequenza lunga otto anni perciò, dal 2014 al 2022, Libera si perde. Non c’è più. Non è affatto quella del primo decennio, ne stravolge il Dna fondativo, ne tradisce la natura, ne deturpa la missione.

Tornando ad un punto prima lasciato in sospeso, riprendiamo la domanda: in questo naufragio di Libera, Ciotti condizionato? Se sì, da cosa?

Superfluo rilevare come la certezza della risposta ce l’abbia solo lui, mentre a noi resta la certezza che egli quella risposta se la sia finora tenuta per sé: otto anni di silenzi e di reticenze non lasciano interpretazioni alternative.

Non rimane quindi che analizzare fatti, atti, circostanze, elementi, situazioni per tentare di colmare questo vuoto. Un vuoto di verità.

Il nome di Ciotti nei diari segreti di Montante. L’ombra di favori richiesti sui lunghi silenzi del presidente di Libera. Di Angelo Di Natale il 24 Febbraio 2022 su insiciliareport.it

Pio Luigi Ciotti è il presidente di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”.

Antonio Calogero Montante è imputato in due distinti processi per associazione per delinquere finalizzata a vari reati. E’ indagato inoltre in un terzo procedimento per concorso in associazione mafiosa. Nel primo dei due processi per associazione per delinquere semplice è stato condannato a 14 anni di reclusione in primo grado, con rito abbreviato che comporta la riduzione della pena nella misura di un terzo, per associazione per delinquere, corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio, accesso abusivo al sistema informatico del ministero dell’Interno; nel frattempo volge al termine il giudizio d’appello nel quale la procura generale ha ribadito la richiesta di condanna, con riduzione della pena a 11 anni e 4 mesi. Nel secondo è in corso l’udienza preliminare dopo la richiesta di rinvio a giudizio della Procura per i reati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e ad altri delitti. Il terzo, nel quale Montante è accusato di avere concorso fin dal 1990 all’associazione mafiosa Cosa Nostra, è ancora nella fase delle indagini preliminari.

In attesa e nella speranza che Pio Luigi Ciotti, su Antonio Calogero Montante e sui rapporti con lui e sul giudizio nei suoi confronti, con un taglio netto rispetto al passato possa mettersi alle spalle reticenze, silenzi, imbarazzi, titubanze, balbetii, mancate scelte di campo – per non dire delle parole allarmanti e inquietanti pronunciate, come abbiamo visto, il 16 marzo 2016 – cerchiamo nei fatti le risposte intanto possibili alle numerose domande che lungo gli articoli precedenti abbiamo incontrato. E’ questo un bisogno avvertito, come le tante reazioni al processo per diffamazione intentato da Ciotti contro la libera stampa e in corso dinanzi al Tribunale di Ragusa hanno segnalato, da tantissime persone, sia quelle che si dichiarano osservatori neutri della realtà e sono interessate unicamente a capire, sia quelle schierate pienamente, idealmente e spesso anche con impegno militante, dalla parte delle ragioni per le quali Libera è nata e per le quali così bene ha operato nel primo decennio: persone, soprattutto le seconde, che da diversi anni, in tanta ambiguità e incertezza ritengono quelle ragioni tradite.

Vediamo se e quando il nome di Ciotti compaia nell’ormai famoso file excel scoperto nell’archivio segreto di Montante il quale, come è noto, all’atto dell’arresto il 13 maggio 2018 a Milano, con vari pretesti cercò di tenere il più a lungo possibile i poliziotti fuori dalla porta, nel frattempo tentò di distruggere alcune pen drive e le lanciò poi dalla finestra. Gli investigatori hanno poi cercato di salvare il possibile, recuperare il materiale danneggiato e ripristinarne la memoria.

Montante con cura maniacale annotava ogni cosa: soprattutto i nomi di coloro che frequentava, che incontrava, con cui aveva rapporti, soprattutto i favori chiesti e da lui concessi, con le date, i luoghi e l’oggetto di ogni relazione e corrispondenza, telefonica o per e-mail. Lo faceva per disporre all’occorrenza di ogni elemento utile a far valere il suo potere nei confronti dei beneficiati. Un imponente materiale informativo allestito da Montante per sé, non certo per fornire prove a chi un giorno avrebbe mai potuto accusarlo, convinto com’era di godere di totale impunità.

Per la cronaca, quando – nel processo di Caltanissetta giunto all’imminente sentenza d’appello – fatti e circostanze annotati in tale file excel sono stati sottoposti a verifica, i riscontri forniti dall’istruttoria dibattimentale li hanno sempre confermati. Ma vari elementi, non concretandosi in specifiche ipotesi di reato, rimangono confinati sullo sfondo conoscitivo del processo, privi di rilevanza.

Nell’archivio trovato e sequestrato dalla polizia nella famosa stanza segreta nascosta da un armadio ed acquisito al ‘processo Montante+22’, il nome di Ciotti ricorre una prima volta il 26 aprile 2014 con queste parole: <<ore 12-13 visita in Msa Asti Don Ciotti e prefetto Faloni, Linda ed Antonella (sig. Gatto scorta di Don Ciotti per la figlia Giuliana (Senn). Segue: ore 13.00-14.00 pranzo con Don Ciotti e prefetto Faloni in Msa>>.

Da quando l’archivio segreto viene sequestrato, nel 2016 – e successivamente diventa pubblico perché acquisito agli atti del processo con il rapporto informativo della squadra mobile della Questura di Caltanissetta che compie uno scrupoloso lavoro di verifica, ricostruzione, interpretazione, chiarificazione – Ciotti non dice mai nulla, su questa come su ogni circostanza che lo riguardi, mentre, come abbiamo visto in dettaglio negli articoli precedenti, è sostanzialmente muto sull’intero affaire criminale di Montante comprese le accuse contenute nell’indagine per associazione mafiosa e, quando non lo è, come nel caso dell’intervista rilasciata il 16 marzo 2016, rompe il silenzio solo per atteggiarsi ad amico di ‘Antonello’ e a mostrarsi più che altro preoccupato per le sue sorti di indagato per mafia.

Ci rimangono quindi solo il dato documentale e le indicazioni degli inquirenti che, avendo studiato ogni pagina dell’imponente carteggio, anche attraverso tutti i riscontri operati ne hanno tratto conoscenza ed esperienza interpretativa. In proposito scrive Attilio Bolzoni in ‘Il Padrino dell’Antimafia’, a pag. 201, nel capitolo – dedicato in buona parte a Libera – ‘Una docile Antimafia’: <<Cos’è quel ‘Senn’ riferito a Don Ciotti? Nelle carte di Montante è l’inoltro di una sorta di raccomandazione che sarebbe stata avanzata dal prete risalente al 26 aprile del 2014>>.

Abbiamo quindi solo le carte di Montante (quelle che egli teneva per sé e che ha fatto di tutto perché non venissero trovate) e – anche e proprio sulla circostanza che qui stiamo analizzando – il silenzio di Ciotti.

Per illuminare gli altri elementi documentali di quella circostanza, Pierluigi Faloni è il prefetto di Asti in carica in quel momento, Linda è l’assessore Attività produttive della Regione Siciliana, anche lei in carica in quel momento: Linda Calogera Vancheri, nata a San Cataldo come Montante, piazzata in questo assessorato – strategico per le trame e gli interessi del ‘sistema’ – del governo Crocetta a novembre 2012 e rimasta in carica fino a luglio 2015 quando cede il posto a Mariella lo Bello, altra figura chiave della rete intessuta dalla falsa icona antimafia, come attestano gli atti del processo che con Montante vede imputati, tra gli altri, Crocetta e le due fedelissime. Ben prima della nomina ad assessore nel 2012, Vancheri lavora con Montante in Confindustria Caltanissetta fin dal 2005; è vicinissima ai suoi dossier e di fatto sua dipendente.

Quel giorno, il 26 aprile 2014, stando al diario personale riservato di Montante, Linda è al fianco del suo mentore con Ciotti, il prefetto Faloni e gli altri in Msa, una delle aziende di Montante già care, tra i tantissimi altri, ad un prefetto come Filippo Dispenza, commissario del Comune di Vittoria dal primo agosto 2018 al 27 ottobre ’21 (clicca qui). Cara in quel caso è soprattutto Ksm security, impresa vicina a Montante che nel 2011 assume il figlio nell’ambito di una fitta frequentazione tra i due come documentano i 26 incontri tra Montante e Dispenza, fra il 2009 e il 2014.

Dispenza, a dire il vero, non è il solo prefetto in rapporti di questo tipo con Montante. Sono tantissimi quelli che gli chiedono e ottengono favori. Montante può e, se gli interessa, è pronto a mettere in campo i suoi uffici per elargire nomine, promozioni, avanzamenti, assegnazioni, trasferimenti, incarichi, privilegi. Può tutto perché, come sancito nella sentenza del Tribunale di Caltanissetta, ha a sua disposizione un ministro: non uno qualsiasi, ma il ministro più longevo della storia della Repubblica italiana, Angelino Alfano <<il ministro che mai a Montante avrebbe potuto dire di no>> (cfr sentenza Tribunale di Caltanissetta), a lungo a capo del Viminale: la stanza dei bottoni in cui nascono, crescono, fanno carriera (o vengono puniti ed emarginati se così vuole chi decide) i prefetti. Tra le tante vicende che chiamano in causa figure istituzionali di questo ruolo, basterebbe leggere le carte giudiziarie del processo ‘Girgenti Acque’ che proprio ieri ha visto la richiesta di rinvio a giudizio per 47 imputati (su 58 indagati) tra i quali proprio l’ex prefetto di Agrigento Nicola Diomede insieme a figure anche di grande rilievo delle istituzioni, della politica, della pubblica amministrazione, delle professioni e delle imprese.

Ecco perché, tornando a Ciotti e al processo di Ragusa, mi ha fatto tenerezza, poiché a mio avviso tra l’altro anche in buona fede, la sua dichiarazione in udienza <<io sono andato con il prefetto ad incontrare questo signore>>, come se la semplice presenza di un prefetto – uno qualsiasi e non uno di cui siano vagliate e riconosciute anche le qualità etiche e morali – possa bastare da sola a servire una ‘patente’ di piena liceità, in un sistema inquinato e così affollato proprio di prefetti. Peraltro non conosco Faloni, oggi prefetto di Modena (la città in cui vive ed opera Vincenza Rando, vice presidente di Libera, nonché responsabile Affari legali dell’associazione: casualità che ha portato Faloni dalla regione d’elezione di Ciotti alla città d’elezione dell’avvocata nissena numero due di Libera) e non so che prefetto sia stato e sia, a parte la circostanza di avere scelto in quell’occasione di rendere visita ad un imprenditore privato nella sua azienda, Montante appunto, nei confronti del quale – evidenziamo per dovere di cronaca – pubblicamente non si conoscevano ancora le accuse per mafia.

Ma ciò che qui rileva è che Ciotti non fa il nome di un prefetto del quale risultino – a lui o alla pubblica opinione tutta – qualità esemplari, ma si limita ad indicare genericamente il prefetto in carica ad Asti in quel periodo: ecco perché, proprio in riferimento ai prefetti che frequentavano Montante nei suoi domicili privati (e non so se Faloni lo abbia incontrato solo in quell’occasione o anche in altre) il dato, nella migliore delle ipotesi, è irrilevante.

Per altro verso, a proposito della frase pronunciata dal presidente di Libera dinanzi al Tribunale, vanno evidenziate le parole ‘questo signore’ con cui appella quello che cinque anni prima in pubblico chiamava confidenzialmente ‘Antonello’ e gli augurava di dimostrare la verità.

Se Ciotti abbia chiesto o meno a Montante un favore, magari un posto di lavoro per la figlia dell’addetto alla propria scorta personale nessuno lo ha accertato, né lo farà mai perché non sarebbe comunque reato, né da parte di Ciotti, né di Montante.

Rimane il fatto che Ciotti non ha mai sentito il bisogno di confermare o smentire pubblicamente la circostanza, dopo la divulgazione di quel dossier investigativo che contro alcuni ha supportato vere e proprie notitiae criminis, per tanti altri ha avuto l’effetto di sfregiarne la credibilità (è il caso di tanti prefetti, dirigenti di organi di polizia, funzionari pubblici, giornalisti), di comprometterla o, come nel caso di Ciotti e di Libera, di gettare un’ombra che avrebbe richiesto un atto immediato, netto e perentorio, di verità e di chiarimento. E non perché, se avanzata, la richiesta di segnalazione per la figlia del proprio collaboratore fosse reato. Bensì perché, se avanzata (in questo caso con estrema inopportunità e imprudenza), avrebbe scaraventato Pio Luigi Ciotti, e soprattutto l’intera realtà di Libera da lui rappresentata, nella rete dei favori resi da quell’impostore potente e influente che con essi costruiva la sua tela, quella tela svelata dal processo sul ‘sistema Montante’ e fortemente intessuta, secondo quanto finora accertato e vagliato processualmente, di anelli e trame criminali.

Qualcuno potrebbe cogliere nel gesto di Ciotti il tratto moralmente nobile del moto di generosità nei confronti del beneficiato, l’addetto alla propria scorta personale. Questo sentimento merita rispetto ma qui non è in dubbio il ‘movente’ di quel gesto, se compiuto. Bensì la sua totale inopportunità e grave imprudenza, con tutto il suo carico di ripercussione negativa, non sulla coscienza individuale di Ciotti ma sul patrimonio etico e sociale di Libera, prostrata, almeno nella percezione di Montante, a livello di merce di scambio.

Per Montante Ciotti non è un uomo comune, né un sacerdote semplice. E’ il capo carismatico di Libera come egli annota nei suoi diari in altra occasione (per esempio la donazione delle sue biciclette) e per lui quello a Ciotti è un favore come i tanti altri resi a svariati personaggi potenti o nel loro campo influenti, tutti – tanto più doviziosamente, quanto più influenti –  rigorosamente annotati per farlo presente all’occorrenza ai beneficiari e, se del caso, pretenderne la contropartita, quale che essa fosse.

Come abbiamo rilevato, può esservi chi trovi umanamente apprezzabile il fatto che Ciotti, sempre che l’abbia fatto effettivamente, cercasse di sistemare attraverso i servizi di Montante la figlia del carabiniere o poliziotto addetto alla sua sicurezza, anche se, su questo terreno della riflessione, rimarrebbe da chiedersi che relazione vi possa essere tra l’attività svolta da quel pubblico ufficiale  o incaricato di pubblico servizio – stipendiato in quanto tale dai cittadini-contribuenti – e il vantaggio a lui concesso per l’opportunità fatta attribuire alla figlia, a prescindere da ogni merito intrinseco. Proviamo allora a confrontare quell’uomo in divisa con tanti altri colleghi omologhi i quali, per coscienza etica e tutela dell’integrità della pubblica funzione esercitata, rinuncino radicalmente anche solo a considerare l’ipotesi di chiedere un favore a qualche potente per appagare i propri pur legittimi bisogni.

A parte il fatto che non v’è persona onesta, anche intellettualmente onesta, che non abbia un moto di inclinazione e apprezzamento per i secondi e non per il primo, c’è poi il dato abnorme e scioccante che a distorcere la limpida realtà dei doveri e delle responsabilità, delicate e sensibili in quanto connesse a pubbliche funzioni, non è o non sarebbe stato (se il diario di Montante racconta il vero) un cialtrone qualsiasi in cerca di scorciatoie come il vasto archivio Montante documenta, ma una figura di altissima considerazione morale e di eccellente reputazione sociale come Ciotti, non solo in quanto se stesso, ma, anche e soprattutto, nell’esercizio del potere di disposizione dell’ingente patrimonio immateriale di Libera. Ridotta perciò, almeno potenzialmente (se no perché l’annotazione nel diario da parte di Montante?) a volgare merce di scambio.

E se anche, qualora le situazioni avessero mai indotto Montante a riscuotere quel ‘credito’, Ciotti fosse riuscito a negare con sdegno e reazione di pubblica denuncia l’eventuale prestazione o condotta che Montante pretendesse o semplicemente sperasse, rimarrebbe il fatto, irreversibilmente lesivo della natura e dell’identità di Libera, costituito dalla sola richiesta di quel favore, nel senso che si coglie pienamente attraverso la casistica documentativa dei diari di Montante, e ciò a prescindere dai fatti realmente avvenuti.

Solo una cosa avrebbe potuto sventare questo danno grave a Libera. L’immediato intervento pubblico di Ciotti, appena si seppe del contenuto dei diari, per negare nel modo assoluto il favore, ottenuto o semplicemente richiesto. Ciotti non lo ha fatto, avendo scelto di non dire una sola parola, né su questa circostanza – grave e inquietante per gli effetti sulla credibilità di Libera – né su altre, né, come abbiamo visto, su Montante e sul suo sistema, ad eccezione di quelle parole – la sola cosa peggiore del silenzio – di affettuosa vicinanza personale pronunciate nel 2016 per l’amico ‘Antonello’.

Questi e solo questi sono, sul punto, i dati di cui disponiamo per capire meglio l’intera vicenda. Se Ciotti chiese quel favore compì un atto gravemente lesivo dell’immagine, dell’integrità e dell’indipendenza di Libera nel suo dovere-potere di essere sempre all’altezza della sua missione, cioè totalmente al di sopra e fuori dalla portata di tiro di chiunque potesse condizionarla o piegarla ad interessi estranei.

Ciotti ha comunque arrecato, a Libera e all’intera società degli onesti schierata con la sua missione e non con la mafia o con chi traffica con quest’ultima, un danno grave per mezzo del suo silenzio, dopo la divulgazione pubblica di quella circostanza.

E tale danno, in questi termini, sussiste e permane anche se Ciotti quel favore non l’abbia mai chiesto: e in questo caso bisognerebbe capire perché Montante se lo sia inventato, perché lo abbia scritto nel suo diario con le modalità che sappiamo e perché abbia abbinato l’annotazione, con tanto di sigla ‘Senn’, ad una visita di Ciotti nella fabbrica di Montante effettivamente avvenuta e al successivo pranzo sempre nei locali dell’azienda.

Dopo anni di silenzio, nel processo in corso a Ragusa Ciotti ha rievocato la circostanza, confermando la visita e il pranzo nell’azienda di Montante, sia pure in modo generico e per dire di avere <<incontrato questo signore insieme al prefetto>>. Era l’esame dibattimentale della parte civile nell’udienza del 14 luglio 2021 e Montante era diventato ‘questo signore’ nelle parole di Ciotti che nel 2016 lo trattava da amico appellandolo in pubblico affabilmente ‘Antonello’. A fronte di questo brusco cambiamento tra il 2016 e il 2021, non sappiamo quali fossero i rapporti tra i due, né come Ciotti si rivolgesse a Montante, nel 2014, al tempo di quell’incontro.

In una successiva udienza, la difesa di Ciotti, esercitata in giudizio da Vincenza Rando, ha chiesto di depositare una dichiarazione scritta rilasciata dall’addetto alla sua protezione, Gatto, nella quale questi, presumibilmente, nega o chiarisce la circostanza della richiesta di ‘raccomandazione’ di Ciotti a Montante per la figlia.

Ma non servono, ora come allora, le parole – probabilmente scritte a richiesta, su carta libera – del padre di famiglia sig. Gatto, legato inevitabilmente, per le mansioni svolte, da rapporto fiduciario al capo di Libera che l’operatore di pubblica sicurezza senza volerlo può avere trascinato – almeno questa potrebbe essere la propria percezione soggettiva – nell’imbarazzo che sappiamo.

Sarebbero servite subito, o il più presto possibile, le parole di Ciotti: chiare e convincenti, sì da superare l’eventuale contrasto con l’annotazione di Montante.

Tanto, doverosamente, per la verità dei fatti sulla prima delle annotazioni del nome di Ciotti nel diario segreto di Montante, fino agli sviluppi recenti che si devono al processo di Ragusa.

Processo cui devo richiamarmi anche per la seconda delle annotazioni contenenti il nome del presidente di Libera nel file excel di Montante.

Ciotti e le 26 telefonate di Montante: un silenzio scabroso e pieno d’ombre, interrotto nel processo in corso a Ragusa. Di Angelo Di Natale l'8 Marzo 2022 su insiciliareport.it.

Nell’articolo precedente abbiamo documentato, analizzato e cercato di chiarire in ogni aspetto, utilizzando tutti gli elementi conoscitivi disponibili, la prima annotazione del nome del presidente di Libera Pio Luigi Ciotti nel diario segreto di Antonio Calogero Montante, quell’ingegnoso impostore riuscito per un decennio a spacciarsi, ai suoi tanti entusiasti ‘consumatori’, come icona antimafia mentre da trent’anni era nel cuore di un boss mafioso ed è, dal 2014 e tuttora, accusato di concorso in associazione mafiosa dal 1990.

Nelle carte che custodiva in un armadio segreto Montante conservava ogni cosa – soprattutto corrispondenza, incontri e favori resi – per poi pretendere controprestazioni, a volte anche minacciando, ricattando e, all’occorrenza, commissionando – ai capi delle forze dell’ordine e dei servizi segreti facenti parte della sua cricca criminale – falsi dossier contro i nemici da colpire: ‘colpevoli’ di essere persone oneste, estranee e impermeabili ai suoi traffici.

Per comprendere bene il valore e i limiti di questo imponente materiale, possiamo rileggere quanto scritto da Angelo Venti e Claudio Abruzzo il 24 agosto 2018 su Site.it, il sito che per primo ha svelato il contenuto dell’armadio segreto, nascosto da una parete, in una delle ville di Montante.

<<Si tratta di un corposo file excel con annotati nomi, date, appunti di lavoro e incontri che, quando il 22 gennaio 2016 gli inquirenti perquisiscono una ventina di case e uffici di Montante, la sua collaboratrice tenta di distruggere. Il diario – si legge – viene sequestrato nella villa di Serradifalco, dove viene scoperto un bunker contenente un corposo archivio cartaceo ed elettronico in cui trovano di tutto: telegrammi, e-mail, sms, regali e contributi concessi, foto con ministri, politici e capi della polizia, oltre a circa 40 dossier su politici, magistrati, giornalisti e un memoriale di più di mille pagine. Un bunker che nelle intercettazioni Montante chiama così: “La stanza – diciamo – della legalità”. Nel suo diario Montante annota con scrupolo quasi maniacale incontri, telefonate, pranzi, colazioni, cene, segnalazioni, richieste di favori e regalie varie ai personaggi più disparati, anche di peso: una sorta di agenda personale che parte con un appunto del 6 agosto 1848, data della nascita del suo trisavolo Calogero Montante, e arriva fino al 26 ottobre 2015.Quella che svelano le circa 250 pagine del documento è la fitta ragnatela di relazioni di alto livello intrattenute da Antonello Montante con politici, imprenditori, prefetti, alti funzionari dello Stato, dirigenti dei servizi segreti, magistrati, giornalisti, personaggi pubblici ed esponenti dell’antimafia>>.

Qui ci interessano i rapporti di Montante con Ciotti e, dopo avere esaminato nell’articolo precedente la prima delle annotazioni (la visita e il pranzo in azienda ad Asti il 26 aprile 2014), passiamo alla seconda che ci porta al 27 gennaio 2015: <<al 05-02-15 ho tel Don Ciotti 26 tel. Senn>> si legge nel diario di Montante. Come già chiarito in occasione della notazione precedente ‘Senn’, nell’interpretazione degli inquirenti che hanno decriptato un imponente materiale documentale, sta per segnalazione.

Nella riga immediatamente sottostante quella relativa al 27-01-15, ce n’è una il giorno successivo, 28-01-2015, avente questo contenuto: <<il Ministero degli Interni con prot. n. 11001/113/15 mi comunica l’avvenuta nomina a componente del Consiglio Direttivo dell’Agenzia dei Beni Confiscati-ANBCS, in riferimento al DPCM dell’01-12-14 a firma del capo di gabinetto Luciana Lamorgese>>.

Per la cronaca quello stesso giorno ci sono altre annotazioni come quella riguardante un incontro dalle ore 18 alle ore 19 con Arturo Esposito, allora capo di Stato maggiore dell’Arma dei carabinieri e direttore dell’Aise, l’Agenzia informazione e sicurezza interna, la struttura di vertice dei servizi segreti italiani con cui Montante coltiva un intreccio maniacale e spericolato a copertura dei suoi affari e delle sue scorribande di ogni tipo. Esposito è accusato di associazione per delinquere ed altri reati in un processo in corso con rito ordinario, scaturito dalla stessa inchiesta ‘Double face’ che ha già visto con rito abbreviato la condanna di Montante e di altri imputati.

Le date sono importanti perché forniscono indizi sul perché e sul fine di quegli appunti quando esse non contengono elementi più espliciti inseriti dallo scrivente.

Montante quindi fissa un dato: in dieci giorni, dal 27 gennaio al 5 febbraio 2015, telefona 26 volte a Ciotti. E se vi fossero dubbi sul perché di quest’annotazione, è lo stesso Montante a spiegarlo facendo riferimento alla sua nomina nel consiglio direttivo dell’Anbsc, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Null’altro rivela il documento, neanche se Ciotti abbia risposto alle telefonate, ma tutto lascia credere che non lo abbia fatto perché la nota di Montante si esaurisce nel dato delle 26 telefonate fatte.

Il problema è che per oltre sei anni Ciotti – il presidente di Libera, ‘Associazioni, nomi e numeri contro le mafie’ la quale nella trasparenza, nella verità, nella giustizia e nella lotta alla mafia e al crimine ha la sua ragion d’essere – è stato in silenzio. E, incredibilmente, non ha mai avvertito il bisogno di confermare, o se del caso smentire – ed eventualmente chiarire e spiegare – quelle 26 telefonate di Montante.

In pubblico non risulta ancora alcuna sua dichiarazione sul punto. Tale non si può ritenere l’affermazione fatta il 5 gennaio 2019 a Catania, dove si commemora Pippo Fava nel 35° anniversario del suo assassinio per mano della mafia: «Prima che uscisse l’articolo di Repubblica – racconta Ciotti nell’occasione dinanzi a microfoni e telecamere – avevamo segnalato a palazzo Chigi le perplessità sul ruolo di Montante nell’Agenzia dei beni confiscati, ma il governo non ci prese in considerazione». Come si può ben vedere, nessun riferimento alle 26 telefonate.

Il silenzio cade nel processo in corso dinanzi al Tribunale di Ragusa, da lui intentato contro la libera stampa ‘colpevole’ di analizzare fatti, porre domande, suscitare dubbi, stimolare la riflessione ed esprimere un pensiero critico: processo nel quale, come riferito negli articoli precedenti, imputato sono io.  Durante l’esame testimoniale del 14 luglio 2021 Ciotti per la prima volta si esprime sul punto, confermando la veridicità di quell’annotazione, ovvero le 26 telefonate ricevute, e precisando di non avere risposto.

Per l’esattezza in udienza, rispondendo alle domande del pubblico ministero, si esprime così (testuale, come da verbali): <<… In realtà lui avrà una serie di telefonate a cui io non rispondo e grazie a Dio ci sono ancora nei telefonini no? Quando restano le tracce, io non rispondo, non rispondo, non rispondo e non ritengo di dover rispondere a questo signore no? Ecco queste pressioni, ma l’insinuazione e quindi questo falso sostenere quanto dice Guidotto, questa insistente pressione di quest’ultimo abbia contribuito a fare nominare Montante membro del Consiglio Direttivo dell’Agenzia Nazionale dei beni confiscati ma immaginate voi se io devo andare a fare no, che non ci appartiene. Non solo, non solo, ma esattamente devo dire che il 10 dicembre del 2014 alle sette e trenta io sono a Palazzo Chigi a chiedere al Presidente del Consiglio dei Ministri la cortesia perché l’Agenzia Nazionale portata avanti in quel momento da un Prefetto, io non voglio giudicare nessuno ma non funzionava, non era efficace, non faceva quello che doveva fare, era sotto organico, mancavano delle figure competenti e in quella sede il Presidente Consiglio mi dice “Ma qui insistono che il signor Montante diventi membro di quest’Agenzia, tu cosa ne pensi?”, io dirò che per quello che mi riguarda non era compito mio, era inadeguata (inc.) quella professione, non c’è bisogno, l’Agenzia aveva bisogno di ben altro, ciò che poi abbiamo insistito anche dopo. Quindi se c’è qualcuno che ha preso posizione per dire “Guardate che non va bene tutto questo, lì c’è bisogno di altro”, tanto è vero che due giorni dopo l’ufficio legale chiamiamolo così, legislativo di Palazzo Chigi chiama il referente di Libera, a Davide Patti che si occupa di beni confiscati ai fini della rinascita e che gli viene chiesto ancora un parere dice “No noi di Libera primo non abbiamo titolo per intervenire, secondo è inadeguato fare tutto questo”, se c’è una realtà che ha preso posizione, lo dico con rispetto e anche con umiltà, sentirsi dire che noi abbiamo fatto affari con questo signore mi sembra molto e molto scorretto>>.

Rispondendo poi alla domanda della parte civile <<Ha mai avuto finanziamenti per progetti particolari che ha fatto Libera da parte diciamo della Confindustria, di Montante in particolare?>> Ciotti risponde: << Di Montante mai, non abbiamo mai usato quei canali, ripeto parliamo di un prima … ma era sufficiente quello per cogliere quello che mi son permesso di dire, che era inadeguato a far parte (inc.) a che titolo di un’agenzia nazionale quando fa 53 mila cose e lì c’era bisogno, perché in quel momento era una situazione grave dell’agenzia, bloccata, bloccata di una spinta in avanti e questa è la ragione perché siamo andati a Palazzo Chigi a chiedere per piacere che intervenissero, che intervenissero>>.

A ben vedere sono molteplici gli elementi utili a illuminare finalmente una vicenda troppo a lungo rimasta oscura, elementi concentrati soprattutto nelle sue parole dei mesi scorsi, ma anche – per oltre sei anni prima – nel suo assordante silenzio.

Ovviamente non si può non partire da quest’ultimo, l’incredibile silenzio che egli ‘oppone’, dal 2014 e per diversi anni, a tutto quanto riguardi Montante: il giudizio su di lui da quando da icona antimafia diventa ai suoi occhi nel 2014, e poi agli occhi di tutti tra gennaio e febbraio 2015, accusato di essere un mafioso; i suoi rapporti e i rapporti di Libera con lui e tanto altro.

Abbiamo già visto come più sorprendente del silenzio, e inquietante, è la sua unica esternazione su Montante del 16 marzo 2016 nella quale Ciotti si presenta come l’amico dell’indagato per mafia, interessato più alle sue sorti e alla sua ‘verità’ di parte che alla verità oggettiva alla quale, nell’interesse della giustizia, sta lavorando la magistratura.

Con quest’unica eccezione che abbiamo già ampiamente analizzato, il silenzio di Ciotti per molti anni e – su tanti aspetti, tuttora – è totale. Riguarda quindi svariati elementi tra i quali quelli rinvenuti a febbraio 2016 dagli inquirenti nel diario segreto di Montante il cui contenuto da agosto 2018 diventa pubblico.

Quindi silenzio sull’incontro ad Asti il 26 aprile 2014 e sulla segnalazione annotata da Montante e ampiamente illustrata nell’articolo precedente; silenzio sulle 26 telefonate che Montante gli fa in serie, in dieci giorni – quindi quasi tre al giorno di media, ogni giorno – tra fine gennaio e inizi febbraio 2015.

Di recente, nel processo di Ragusa, Ciotti decide liberamente, senza che gli sia posta una domanda specifica sulla circostanza – quindi al solo fine di sostenere la tesi che egli sia stato diffamato dalle considerazioni di Vincenzo Guidotto sul silenzio intorno a quelle telefonate – di rompere quel silenzio, con le parole che abbiamo riferito e che costituiscono un elemento nuovo rispetto al passato.

Ancora una volta risulta vero e pienamente confermato quanto scritto da Montante nel suo diario, come sempre finora, tutte le volte che se ne è determinata l’esigenza o semplicemente ne è capitata l’occasione. Del resto, come abbiamo già osservato, Montante scriveva per sè stesso e ha fatto di tutto perché il suo archivio segreto non venisse trovato: perché allora avrebbe dovuto distorcere i dati sui quali regolava i suoi interessi?

E infatti Ciotti conferma l’annotazione, peraltro nel senso logicamente corrispondente alle parole di Montante: telefonate compiute e rimaste senza risposta. E le conferma rivendicando la perentorietà della sua scelta di non rispondere: <<una serie di telefonate a cui io non rispondo (e dinanzi al tribunale lo ripete tre volte) e non ritengo di dovere rispondere a questo signore, no?>>.

Nel 2021, come già rilevato nel precedente articolo, Montante è per Ciotti ‘questo signore’, termine denotante una quasi spregiativa presa di distanza. Eppure abbiamo visto come ‘questo signore’ a marzo 2016 – ancorché sia pubblica da oltre un anno la sua condizione di persona sottoposta dall’autorità giudiziaria ad indagini per associazione mafiosa – per il presidente di Libera è ancora l’amico Antonello al quale augura di dimostrare la sua verità, contro quella formulata dai magistrati.

Ma qui preme rilevare la strana distonia tra la mancata risposta alle 26 telefonate a gennaio e febbraio 2015 e le parole pubbliche pronunciate da Ciotti su Montante a marzo 2016. Non rispondere a 26 telefonate potrebbe significare una chiusura totale al dialogo da parte di Ciotti, se, almeno, nello stesso periodo non vi sono state altre forme di comunicazione e/o di relazione tra i due, cosa che noi non sappiamo: del resto delle 26 telefonate abbiamo saputo accidentalmente e solamente grazie al rinvenimento dell’armadio segreto, non certo perché le abbiano rivelate, spontaneamente, gli interessati, Montante e Ciotti.  Per riprendere la considerazione precedente, non rispondere ‘potrebbe’ in astratto significare chiusura totale; molto meno potrebbe significarlo in concreto, proprio alla luce delle parole affettuose dedicate 14 mesi dopo dal presidente di Libera all’amico ‘Antonello’.

Quindi, se volessimo comprendere la vera natura dei rapporti tra Montante e Ciotti e la loro evoluzione nella fase in cui il primo, da simbolo antimafia, anche nella percezione pubblica diventa un indagato per mafia, le – più che tardive – parole di Ciotti nel processo di Ragusa ci dicono ben poco. Intanto perché non hanno la genuinità della tempestività, doverosa per un personaggio pubblico come il presidente di Libera; poi perché sono fortemente segnate dal fine di sostenere in giudizio la valenza diffamatoria delle considerazioni di Guidotto sui silenzi del sacerdote antimafia;  e poi perché quelle parole risultano contradditorie ed anzi totalmente contraddette da qualcosa che è molto più credibile, per immediatezza, spontaneità, pienezza di messaggio grazie al documento audiovideo: l’intervista di marzo 2016.

Se la ragione della mancata risposta a 26 telefonate fosse quella che Ciotti ha deciso di rivelare solo pochi mesi fa, ovvero sei anni e mezzo dopo, peraltro riservando a Montante lo sprezzante appellativo ‘quel signore’ e pronunciando in chiusura di frase quell’interrogativo ‘no?’ dal chiaro sapore retorico, per evidenziare l’impossibilità di degnarlo già allora di una risposta, dovremmo chiederci: perché oltre un anno dopo quel tranciante stop al dialogo, Ciotti parla affabilmente di Montante indagato per mafia come dell’amico ‘Antonello’?

Peraltro a questi due elementi che ci raccontano ognuno una verità diversa e quasi opposta, non possiamo attribuire stesso grado di certezza e stessa credibilità.

Di assolutamente certo abbiamo solo le 26 telefonate e la mancata risposta. Ma, se vogliamo andare oltre, abbiamo anche l’evidenza pubblica e immediata delle parole di Ciotti dedicate all’amico Antonello a marzo 2016 e il vuoto assoluto sulla valenza di quel silenzio fino a pochi mesi fa, quando Ciotti fornisce, in un’aula di tribunale, una spiegazione ampiamente contraddetta dall’intervista di marzo 2016 che, per forza di cose, la rende non credibile o quanto meno ne limita l’attendibilità al tempo presente, magari per una possibile intervenuta modificazione dei rapporti tra i due e del giudizio su Montante di Ciotti il quale potrebbe, sia pure con anni e anni di ritardo, essersi finalmente convinto che Montante sia ciò che egli, pur sapendolo fin dal 2014, per anni non ha voluto credere o, quanto meno, si è comportato come chi decida di voltarsi dall’altra parte e di ignorare quanto attestato dalla magistratura inquirente e giudicante, con le indagini prima e il processo poi: la prima inchiesta parte a giugno 2014, l’arresto di Montante viene eseguito a maggio 2018, la condanna pronunciata a maggio 2019.

Poiché quindi Ciotti – per sette anni sospeso tra silenzi, ritardi e dichiarazioni d’amore per l’indagato per mafia Montante – non ci aiuta a capire, rimaniamo fermi al punto di partenza, ovvero il diario di Montante. Infatti il prolungato mutismo di Ciotti prima e le parole pronunciate in tribunale nel 2021, queste ultime per la distonia logica poc’anzi rilevata, chiariscono ben poco. Ed anzi logicamente soccombono rispetto al vero sentire di Ciotti quale emerge chiaramente nell’intervista di marzo 2016.

Andando oltre, nelle dichiarazioni rese al Tribunale di Ragusa ci sono altre parole di Ciotti che sulla circostanza oggetto delle 26 telefonate meritano attenzione.

Il presidente di Libera racconta al Tribunale che il 10 dicembre 2014 è <<a palazzo Chigi a chiedere al presidente del Consiglio dei ministri la cortesia … perché l’agenzia portata avanti da un prefetto non funzionava … e il presidente dice “qui insistono che il sig. Montante diventi membro, tu cosa ne pensi?”… Non era compito mio … l’agenzia aveva bisogno di ben altro>>.

In questo passo Ciotti rivendica il merito, e se lo attribuisce attraverso la versione dei fatti che rievoca, così come egli stesso a sua personale memoria li ricostruisce e li riferisce, di non essere stato favorevole all’ingresso di Montante nel consiglio dell’Anbsc e racconta di averlo fatto presente al governo allora in carica e ciò al fine di respingere l’interpretazione che qualcuno potesse avere dato di quelle 26 telefonate come finalizzate ad una richiesta di sostegno – e, a maggior ragione, ad un sostegno effettivamente dato –  a quella nomina.

Ma tutto ciò è totalmente al di fuori dei dati di realtà. E non perché qualcuno abbia contraddetto quella narrazione, come il difensore di Montante Carlo Taormina il quale il 12 giugno 2021, un mese prima della deposizione di Ciotti nel processo di Ragusa, al termine della seconda udienza del processo d’appello a Caltanissetta racconta ai giornalisti: <<c’era uno schema di don Ciotti sulle modalità di gestione dei beni confiscati nell’ambito dell’agricoltura. Ciotti e Montante ne avevano parlato e Ciotti – sottolinea Taormina – aveva invogliato Montante a diventare componente dell’Agenzia. Si tratta della gestione di patrimoni incredibili e quindi le convergenze degli interessi sono facilmente immaginabili. Ci sono aspetti relativi alla gestione in ambito giudiziario cui la vicenda Saguto (la giudice condannata per corruzione ad otto anni di reclusione ndr) credo l’abbia detta lunga per molto tempo. Ci sono delle sacche di corruttela che tutti conosciamo in quel settore>>.

Per la cronaca, in questo caso Ciotti non rimane in silenzio, interviene tempestivamente, smentendo già il giorno dopo l’assunto di Taormina ed anzi annunciando querela, sicchè per quanto ci riguarda la dichiarazione del legale di Montante non fa testo.

Se il racconto di Ciotti dinanzi al Tribunale di Ragusa non può condurre alla tesi da lui sostenuta, non è quindi per le parole di Taormina, ma per quelle dello stesso Ciotti: <<… il 10 dicembre 2014 io sono a palazzo Chigi a chiedere al presidente del Consiglio dei ministri la cortesia … perché l’Agenzia … portata avanti da un prefetto non funzionava e il presidente dice ‘qui insistono che il sig. Montante diventi membro, … tu cosa ne pensi?’ .. Non era compito mio – prosegue Ciotti – l’Agenzia aveva bisogno di ben altro>>.

Nelle parole di Ciotti, non in quelle di Taormina, c’è ben altro che un’opposizione all’ingresso di Montante in Agenzia. C’è invece una critica, e un’opposizione se vogliamo, ad un modello che – a prescindere da Montante – non funzionava. Infatti, qual è secondo Ciotti il modello che non funzionava? Quello di <<un’Agenzia portata avanti da un prefetto>>. Come si può rilevare semplicemente attenendosi alla lettera delle sue parole, la posizione critica espressa da Ciotti verso l’Agenzia non è verso Montante che non è un prefetto, ma verso il modello statutario che non solo allora, ma finora ha sempre insediato un prefetto nel ruolo di direttore il quale peraltro presiede il consiglio direttivo di cui  fanno parte i vari membri nominati su designazione del procuratore nazionale antimafia (uno), del ministro di giustizia (uno), del ministro dell’interno (uno), del presidente del consiglio dei ministri o del ministro per le politiche di coesione (uno), infine – di concerto – dal ministro dell’interno e dell’economia (due).

Quindi, se dobbiamo prestar fede alle parole di Ciotti, Libera non prende posizione contro, né si dice sfavorevole alla nomina di Montante, bensì al modello che vede a capo dell’Agenzia un prefetto, mentre, richiesto di un parere sulla designazione di Montante nel consiglio direttivo, Ciotti – sempre stando al suo stesso racconto – dice che <<non è compito mio, l’Agenzia aveva bisogno di ben altro>>. Quindi nessun no, e nessun parere, su Montante come nome designato o da designare nel consiglio direttivo; no deciso invece al modello di un’Agenzia portata avanti da un prefetto: un no peraltro forse neanche dichiarato al presidente del consiglio o a chi per lui, in quanto le parole, recenti, di Ciotti sembrano esprimere il proprio pensiero più che la comunicazione data il 10 dicembre 2014 a palazzo Chigi dove tutto sembra risolversi nell’astensione di Libera da ogni parere.

Per completezza di analisi, rimane quell’ultimo cenno di Ciotti a Montante quando risponde al difensore di parte civile, Vincenza Rando vice presidente di Libera e responsabile dell’ufficio legale dell’associazione, la quale gli chiede: <<Ha mai avuto finanziamenti per progetti particolari che ha fatto Libera da parte diciamo della Confindustria, di Montante in particolare?>>. Ciotti risponde: << Di Montante mai, non abbiamo mai usato quei canali, ripeto parliamo di un prima … ma era sufficiente quello per cogliere quello che mi son permesso di dire, che era inadeguato a far parte (inc.) a che titolo di un’agenzia nazionale quando fa 53 mila cose e lì c’era bisogno, perché in quel momento era una situazione grave dell’agenzia, bloccata, bloccata di una spinta in avanti e questa è la ragione perché siamo andati a Palazzo Chigi a chiedere per piacere che intervenissero, che intervenissero>>.

Quindi quando Ciotti racconta del suo incontro a palazzo Chigi e della successiva interlocuzione tra il governo e Libera, ci fa sapere che non ci fu un no a Montante. Quando, in un secondo momento, rispondendo alla domanda su finanziamenti o contributi presi da Montante, sembra volere tornare sull’argomento, richiama una presunta inadeguatezza di Montante perché troppo impegnato (<<fa 53 mila cose>>) e perché l’Agenzia è <<bloccata>>: e qui siamo ancora una volta alla critica al modello gestionale.

E’ lo stesso Ciotti a minare logicamente, perciò a cancellare, l’argomento addotto contro la tesi del sostegno alla nomina.

Quel sostegno – se non ci fu – non ci fu perché … non ci fu, ma non certo perché Ciotti avesse espresso quella posizione, totalmente neutra sul punto, al presidente del consiglio dei ministri; posizione peraltro concretatasi in un’astensione da ogni parere per difetto di titolo e di competenza.  Circostanza che chiarisce ancora lo stesso Ciotti quando racconta che due giorni dopo, quindi il 12 dicembre 2014, palazzo Chigi chiama il referente di Libera Davide Pati il quale – ricostruisce Ciotti – risponde “noi non abbiamo titolo per intervenire, è inadeguato tutto questo”. Laddove, in tali termini testuali, il ‘tutto questo’ è, e rimane, il “modello di Anbsc portata avanti da un prefetto” e nient’altro. Quale sarebbe dunque la posizione contraria o non favorevole alla designazione di Montante, che, certo, non è un prefetto?

Incomprensibile, per difetto di connessione logica, appare pertanto la chiusura della frase di Ciotti <<sentirsi dire che noi abbiamo fatto affari con questo signore mi sembra molto scorretto>>, frase che in ogni caso non ha alcuna rilevanza, nè pertinenza con i fatti narrati.

E comunque ciò che manca totalmente nell’atteggiamento di Ciotti rispetto a Montante e alla sua nomina nell’Agenzia è ogni riserva sul suo profilo morale, soprattutto da quando sa che egli è accusato di essere un mafioso.

Tornando agli elementi di cui disponiamo, cerchiamo ora di datare i fatti e di collocarli temporalmente nella vita dell’Anbsc.

L’Anbsc, istituita nel 2010, operativa dall’anno dopo, è un ente con personalità giuridica di diritto pubblico, dotato di autonomia organizzativa e contabile e posto sotto la vigilanza del ministero dell’Interno. La sua mission è quella di provvedere all’amministrazione e alla destinazione dei beni sequestrati e confiscati alle mafie, non solo tramite la loro gestione diretta, possibile dopo l’emissione del decreto di confisca di secondo grado, ma anche coadiuvando l’attività dell’amministratore e dell’Autorità giudiziaria già nella fase del sequestro.

Dall’ultima relazione presa in considerazione dalla Commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana nel momento della sua inchiesta sul ‘Sistema Montante’ si apprende che al 31 dicembre 2019, l’intero patrimonio immobiliare in gestione all’ente è pari a 16.473 unità, oltre un terzo delle quali in Sicilia, nel territorio di 190 comuni.

L’altro asset portante dell’Agenzia è quello della gestione e  destinazione dei beni aziendali. Nel 2019 sono 2.587 (poco meno di un terzo in Sicilia) le aziende gestite, la maggior parte nel settore delle costruzioni, del commercio all’ingrosso e al dettaglio, delle attività immobiliari, nonché dei servizi pubblici, sociali e personali.

La missione cui è chiamata l’Agenzia è un affare da 15 miliardi di euro.

Primo direttore ne è stato Giuseppe Caruso in carica dal 20 giugno 2011 al 18 giugno 2014, quando gli subentra Umberto Postiglione. Pertanto, a dicembre 2014, quando Ciotti va a palazzo Chigi a <<chiedere la cortesia>> consistente – secondo quanto egli stesso racconta – nel far presente l’inadeguatezza del modello di governance, il prefetto Postiglione si è insediato da sei mesi appena e sarà in carica per altri due anni e mezzo. A dicembre 2014 pertanto non c’è all’ordine del giorno la nomina della figura di vertice, né la discussione di un progetto di riforma del modello di governance. L’unico elemento d’attualità è riconducibile alla designazione di componenti nel consiglio direttivo. Tuttavia degli altri neanche si discute: due magistrati designati rispettivamente dal ministro della Giustizia e dal procuratore nazionale Antimafia, un rappresentante del ministero dell’Interno, due esperti designati di concerto dal ministro dell’Interno e dell’Economia e un altro esperto dal presidente del Consiglio dei ministri o dal ministro per le Politiche di coesione.

Che di nessuno, eccetto Montante, si discuta lo conferma Ciotti quando riferisce di essere stato richiesto di un parere sulla sua designazione e non su quella di altri nomi; e lo conferma altresì l’assenza nelle cronache del tempo di ogni elemento relativo agli altri nomi inseriti nello stesso decreto: i magistrati Mariella De Masellis e Valentina Gemignani, l’allora procuratore nazionale antimafia Franco Roberti.

E su tale unico elemento di dibattito – la designazione di Montante – sappiamo da Ciotti che egli non espresse il suo favore ma, sempre da lui, sappiamo anche che non espresse nessuna contrarietà, riferendosi quest’ultima unicamente al modello avente un prefetto al vertice, tema che in quel momento non era e non poteva essere in discussione.

Ma in discussione, a parte la designazione di Montante, non c’era nient’altro che riguardasse l’Anbsc, anche perché, oltre alle due ragioni già dette, le altre figure designate per l’occasione in quello stesso consiglio direttivo hanno un profilo tecnico-scientifico ben delineato rispetto al quale è molto più ristretto l’ambito discrezionale della scelta. Ambito che, nel caso della designazione di Montante da parte del Viminale, è invece amplissimo, come amaramente rileva Attilio Bolzoni nel suo libro ‘Il padrino dell’Antimafia’ quando prende atto che su sessanta milioni di italiani il ministro dell’interno va a nominare nel direttivo dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia un indagato per mafia.

Peraltro quando Ciotti è a palazzo Chigi, il 10 dicembre 2014, la nomina dei vari componenti, Montante compreso, è già decisa, tant’è vero che il decreto è del primo dicembre 2014 anche se il timbro del segretario generale di palazzo Chigi, che si aggiunge alle firme del ministro dell’Interno Angelino Alfano e del sottosegretario alla presidenza del consiglio a ciò delegato Graziano del Rio, è del 15 dicembre. Quindi quado Ciotti va a palazzo Chigi, le decisioni sono state tutte prese e i provvedimenti sono formalmente sul tavolo, anche se l’iter non è ancora del tutto concluso.

Quindi, a parte tutto quanto abbiamo già osservato, non c’era alcun sostegno che con quelle 26 telefonate compiute tra il 27 gennaio e il 5 febbraio 2015 Montante potesse chiedere a Ciotti, né che questi potesse dare. Il primo dicembre era già stato tutto deciso e il 15 l’intero iter concluso, come rivelano gli atti già allora pubblici perché leggibili sul sito dell’Anbsc. Ovviamente ciò non esclude che la vicenda avrebbe potuto essere oggetto di discussione di Montante con Ciotti, quanto meno nelle intenzioni del primo, ma il presidente di Libera non volle rispondere.

Solo lui sa perché. Ma di certo le vere ragioni per le quali egli non risponde non sono quelle dette e lasciate intendere nel processo di Ragusa: Montante agli occhi di Ciotti rimane un amico ancora nel 2016 e forse anche, ben più a lungo, dopo.

Solo Ciotti conosce quel perchè. A tutti gli altri, noi compresi, rimangono solo ipotesi e congetture. E una di queste, basata su un dato certo, è che egli, a gennaio e febbraio 2015, sapeva bene da tempo che Montante fosse indagato (quindi controllato?) per concorso in associazione mafiosa.

Ripercorrendo la sequenza temporale degli eventi alcuni elementi fanno impressione.

Premettiamo che Montante è designato dal ministero dell’Interno quale proprio rappresentante. E’ l’unica figura per la quale la legge non prevede requisiti. E a nominarlo è Alfano (il ministro che – ha sancito la sentenza di un Tribunale – a Montante non può dire di no) con tanto di firma del suo capo di gabinetto, Luciana Lamorgese, da settembre 2019 suo successore – scherzi del destino! – a capo del Viminale.

Quando viene nominato nel consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati alla mafia, Montante da sette mesi è indagato per concorso in associazione mafiosa. Che il governo incorra in un infortunio di questa gravità è un fatto che, ovviamente, suscita ancora dopo molto tempo reazioni e congetture di ogni tipo. Ma se per Alfano, e quindi per il capo di gabinetto di allora Lamorgese, vale – che gli si creda o no, pur alla luce del suo essere a disposizione di Montante come accertato dal Tribunale di Calatanissetta – quanto da lui dichiarato alla Commissione antimafia dell’Assemblea regionale siciliana (<<non lo sapevo assolutamente, altrimenti non lo avrei designato>>) diversa è la situazione di Ciotti il quale già allora con ogni probabilità sapeva che Montante fosse indagato per mafia. Purtroppo il silenzio dell’interessato non ci aiuta. Ciotti non ha mai voluto far sapere quando, cioè in quale data, sia venuto a conoscenza dell’inchiesta della procura di Caltanissetta nei confronti di Montante per associazione mafiosa. Incrociando i dati documentali e le testimonianze disponibili emergono due elementi: la certezza che Ciotti ne fu informato ben prima che la notizia venisse pubblicata dalla stampa; la datazione più verosimile di tale informazione ad un tempo precedente alla data del 10 dicembre 2014. Ma su questo punto, se Ciotti decidesse finalmente di parlare, non potremmo che prendere atto della sua verità. Proseguiamo quindi il ragionamento tenendo presente il dato, più che probabile, che in quella data sapesse dell’inchiesta.

Sia chiaro, il presidente di Libera non ha alcuna responsabilità di governo, né potere di nomina, ma egli proprio per la sua identità di presidente di Libera che si batte contro le mafie viene ricevuto a palazzo Chigi. Ed è singolare, se anche fosse stato un semplice cittadino non investito della grande responsabilità morale della rappresentanza di Libera, che egli non dia alcun rilievo alla condizione scabrosa in cui si trova il nuovo membro del direttivo dell’Anbsc. E non gli dà alcun rilievo non solo nel tacere la circostanza (se dobbiamo credere ad Alfano) a chi altrimenti non lo avrebbe nominato, ma non gli dà rilievo neanche nella propria stessa coscienza, visto che sul punto non si esprime: tutto ciò che fa è dichiararsi insoddisfatto del modello di governance portato avanti da un prefetto e quando si pone dinanzi alla designazione di Montante, tutto ciò che lo interessa è che non sia adeguato <<perché fa 53 mila cose>>, giudizio che comunque tiene per sè visto che a palazzo Chigi si limita a rispondere che non è di sua competenza esprimere un parere.

Del resto ha poco senso analizzare l’atteggiamento e il comportamento di Ciotti in quei giorni in cui egli è ancora tra i pochi a sapere dell’inchiesta per mafia su Montante, visto che quando in Italia già tutti lo sanno da oltre un anno, per Ciotti – che lo sa da molto prima – quell’indagato per mafia è ancora l’amico ‘Antonello’.

A capo dell’Anbsc finora ci sono stati, sempre e solo, prefetti.  Abbiamo detto di Caruso e Postiglione. Dopo, dal 15 luglio 2017 è toccato a Ennio Sodano, dal 28 febbraio 2019 a Bruno Frattari, dal 17 agosto 2020 a Bruino Corda, tuttora in carica.

Ma su Domenico Postiglione, il prefetto a capo dell’Agenzia quando a dicembre 2014 arriva Montante, qualche dato in più è necessario.

La notizia che Montante sia già da mesi indagato per mafia, che certo non dovrebbe sfuggire al Viminale, diventa pubblica il 22 gennaio 2015 (articolo pubblicato dal settimanale siciliano Centonove) e, molto più ampiamente, il 9 febbraio 2015 (articolo pubblicato dal quotidiano la Repubblica), per la colossale figuraccia del governo-Renzi e, soprattutto, del suo plenipotenziario ministro dell’Interno Angelino Alfano. Per il clamore del caso Montante il 25 febbraio si ‘autosospende’ dalla carica ma ciò, addirittura quattro mesi dopo, a giugno, non impedisce al direttore dell’Agenzia, Postiglione appunto, di invitarlo ad una riunione. Un’interpretazione del suo gesto potrebbe essere questa: per me, prefetto che dirige l’Anbsc, l’autosospensione di Montante non vale, è fumo negli occhi, furbizia per gli allocchi, Montante è vivo e vegeto e, da indagato per mafia, può disporre dell’Agenzia per i beni confiscati alla mafia.

Del resto, ecco cosa Postiglione risponde in quel periodo ai giornalisti che gli chiedono se non basti l’autosospensione e se a suo avviso Montante debba dimettersi: <<Non lo so, dipende da una sua valutazione. Non ho la possibilità né di chiedere né di proporre ma solo di esprimere solidarietà a Montante, che ho conosciuto come persona che si batte per la legalità. Sta vivendo momenti difficili per le dichiarazioni di alcuni pentiti, nessuno è colpevole finché non viene condannato e nessuno è tenuto a dimettersi se viene accusato da qualcun altro. In Sicilia – aggiunge Postiglione – possono essere messe in atto architetture diffamatorie, magari c’è qualcuno che nell’ombra ha bisogno di vendicarsi e potrebbe cercare forme di ritorsione. Quando ero prefetto ad Agrigento mi dicevano spesso di non dimenticare che ero nella terra di Pirandello e io rispondevo che in confronto a loro Pirandello era un dilettante… Credo che Montante abbia i modi per dimostrare la sua estraneità>>.

Impressionante l’idem sentire di Postiglione con quello di Ciotti, con la differenza che questi lo esprime ancora un anno dopo, nella famosa intervista del 16 marzo 2016, dopo che gli inquirenti hanno sequestrato l’archivio segreto di Montante il quale proprio in quel periodo è impegnatissimo con ogni mezzo a scoprire e ad ostacolare l’inchiesta nei suoi confronti attraverso le sue talpe nella Procura nazionale antimafia e i suoi ‘uomini a L’Avana’ ed anche a tentare la spallata contro la procura nissena finalmente impermeabile, grazie ad un gruppo di pubblici ministeri capaci e inflessibili, ai suoi metodi e ai suoi interessi.

Nonostante tanta ‘sensibilità’ da parte del prefetto Postiglione, Montante comunque, dopo avere cercato invano di fermare, depistare e inquinare le indagini (il che gli costerà le altre inchieste e l’arresto), il 22 luglio 2015 si vede costretto a dimettersi.

Ma Postiglione, che dirige l’Anbsc fino alla pensione, nel 2017, quando a giugno 2015 invita Montante – autosospeso dall’incarico – ad una riunione istituzionale dell’Agenzia è convinto di non potere per nulla rinunciare al contributo prezioso dell’indagato per mafia? O è un tipo ‘sbadato’ che si dimentica dell’autosospensione? O ha altri buoni motivi per doverlo invitare?

La risposta va cercata, come sempre, nei fatti. Quindi, innanzitutto, nella sua biografia.

Postiglione è prefetto di Agrigento dal 10 gennaio 2008 al 17 agosto 2010, quindi negli anni in cui nasce il patto di ferro Alfano-Montante. E quando è prefetto nella Vale dei Templi, accade, per esempio che, se un sindaco, come Salvatore Petrotto di Racalmuto, vada da lui a denunciare gli intrecci perversi e il malaffare nel business dell’acqua e dei rifiuti di Montante e del suo alter ego Giuseppe Catanzaro – titolare della mega discarica dei veleni a Siculiana – egli non muova un dito. O, almeno, non nella direzione giusta.

Postiglione lascia l’incarico il 17 agosto 2010 e quando Petrotto, a febbraio 2011, denuncia all’autorità giudiziaria i traffici del ras delle discariche i quali, con la rete di complicità diffuse, impongono ai cittadini di respirare veleni e di pagare caramente il ‘servizio’, la reazione non si fa attendere. Il Comune di Racalmuto l’anno dopo è sciolto con il pretesto fantasioso di infiltrazioni mafiose (infiltrazioni che tutte le inchieste giudiziarie rivelano inesistenti) dal ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri la quale, quando si insediano i commissari, va personalmente in Comune dove si presenta – letteralmente e fisicamente – a braccetto con Giuseppe Catanzaro.

E’ il 10 aprile 2012 e, otto giorni prima, il 2 aprile, Catanzaro e Montante – sodali e soci in affari – hanno messo le mani su Confindustria Sicilia: il primo come numero due vicario e il secondo come capo assoluto, dopo essere stato fino a quel momento vice di Ivan-Lo Bello, in carica per sei anni, dal 2006 al 2012.

A Racalmuto, a compiere l’accesso prefettizio nel Comune, per poi – con decisione già presa – scioglierlo, è Nicola Diomede, funzionario della prefettura di Agrigento fin dal ’90; quindi, nel 2013, nella segreteria tecnica del ministro Alfano al Viminale dalla quale spicca il volo verso la carica di prefetto: ad Agrigento ovviamente, dove c’è bisogno di lui, come svela, per esempio, a gennaio 2018 lo scandalo di ‘Girgenti Acque’: e così, solo così, Diomede finalmente viene rimosso. E oggi è uno dei 47 imputati per i quali la magistratura inquirente ha chiesto il giudizio. Tra di loro i vertici di Girgenti acque che Diomede è accusato di avere protetto dall’interdittiva antimafia e nomi di un certo peso come il presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè, l’ex presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella, attualmente avvocato generale presso la Corte di Giustizia dell’Unione europea.

La maxi inchiesta giudiziaria che travolge Diomede vede all’origine 73 indagati, poi saliti a 81, tra i quali, oltre ai nomi già visti, figurano – in attesa che il Gup si pronunci – Angelo Alfano, padre dell’ex ministro Angelino, l’ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa Raffaele de Lipsis, due ex presidenti della Regione, Raffaele Lombardo e Angelo Capodicasa, un ex presidente di Provincia, Eugenio D’Orsi, parlamentari ed ex, politici, consiglieri comunali, dirigenti pubblici, ex magistrati, figure delle istituzioni, i vertici del gestore idrico, manager, imprenditori, carabinieri, burocrati, commercialisti, avvocati, giornalisti.

Un’associazione per delinquere, nell’ipotesi d’accusa, fondata sul patto scellerato dello scambio tra assunzioni e favori inconfessabili, con tante imputazioni che vanno dalla corruzione alla truffa, dal riciclaggio alle false comunicazioni sociali, all’inquinamento ambientale, al finanziamento illecito ai partiti. Tra le carte sequestrate le sentenze del Cga firmate da De Lipsis in favore di ‘Girgenti Acque’ prima di essere nominato nell’organo di vigilanza di … ‘Girgenti Acque’.

Ci vorrà quindi un altro prefetto, Dario Caputo, dopo lo scandalo-Diomede, per firmare finalmente l’interdittiva antimafia invano chiesta diversi anni prima dall’allora sindaco di Racalmuto Salvatore Petrotto: che per questa sua richiesta e per le sue denunce viene falsamente accusato: perciò il Comune – ‘colpevole’ di vera …. antimafia – viene sciolto, per volere della finta antimafia che in effetti, come chiarito dal Tribunale nella sentenza di condanna di Montante, è mafia: mafia vera, anche se trasparente e invisibile a chi non la vuole vedere.

L’interdittiva colpisce finalmente Marco Campione, presidente di ‘Girgenti Acque spa’, la società privata che dal 2007 (l’anno della svolta di Confindustria appena presa in mano dal duo Lo Bello-Montante) gestisce le risorse idriche pubbliche in 27 dei 43 comuni della provincia agrigentina.  E nell’interdittiva sono elencate le operazioni societarie fittizie che smascherano il sistema del ‘tavolino’, non dissimile da quello collaudato nei decenni precedenti da ‘Cosa Nostra’ e dal suo famoso ‘ministro dei lavori pubblici’ Angelo Siino.

Alla luce degli sviluppi risulta difficile comprendere secondo quali criteri e per quali accertate qualità, vengano nominati non pochi prefetti.

A Diomede la carica è assegnata dal consiglio dei ministri il 17 dicembre 2013, la stessa seduta che si rivela ‘fortunata’ per Filippo Dispenza, altro pupillo di Montante, promosso quella stessa data dirigente generale della Polizia di Stato e posto a capo della questura di Cagliari. Non molto tempo dopo sarà sempre il concittadino Alfano a farlo nominare prefetto, titolo con il quale, appena andato in pensione, Dispenza gestisce in via straordinaria il Comune di Vittoria: un mandato durato 39 mesi, mentre la legge lo prevede per 18 e, in casi eccezionali, per 24 mesi al massimo.

Tornando al filo del tema di questo articolo, ci siamo imbattuti in Postiglione, direttore dell’Agenzia per i beni confiscati alla mafia fino ad aprile 2017 quando va in pensione. Se, da prefetto di Agrigento, avesse ascoltato Petrotto, non avremmo avuto il tragico squallore degli atti, dei gesti e degli intrecci del successore Diomede e sarebbero stati fermati prima i traffici criminali con i quali da anni la cricca Montante fa il bello e il cattivo tempo.

Postiglione viene posto nel 2014 da Alfano, ministro del governo-Renzi, alla direzione dell’Anbsc: lo stesso parto che dà alla luce la nomina di Montante (Postiglione però si insedia a giugno, Montante è nominato a  dicembre).

Nel suo curriculum di prefetto non c’è solo Agrigento. Il 30 giugno 2011 Postiglione è nominato prefetto di Palermo: al Viminale c’è Roberto Maroni, ma Alfano è potente ras berlusconiano oltre che Guardasigilli e Montante vive la sua lunga stagione di massimo fulgore. Tanto che Postiglione, mentre è prefetto di Palermo in carica, a dicembre 2012 riesce a farsi nominare anche commissario straordinario della Provincia di Roma, dopo le dimissioni di Nicola Zingaretti che vira verso la Regione. Un doppio incarico, a mille chilometri di distanza, a capo di due istituzioni di primissimo livello e di alta responsabilità come la Prefettura di Palermo e la Provincia di Roma. Che spirito di abnegazione!

Chiusa la parentesi sul prefetto Postiglione, apriamone una brevissima su un altro prefetto, Luciana Lamorgese, da due anni e mezzo ministro dell’Interno in carica, dopo Alfano, Minniti e Salvini, dato utile per riannodare i fili dal 2014 ad oggi. Ma ne parliamo solo in quanto, allora prefetto in quiescenza e capo di gabinetto di Alfano al Viminale, Lamorgese firma gli atti che porteranno un indagato per mafia a sedere nel direttivo dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia.

Lamorgese il 30 luglio 2014 scrive una lettera al ‘dott. Montante’: così lo apostrofa, nonostante l’imprenditore di Serradifalco non abbia neanche un diploma liceale e non abbia mai conseguito alcuna laurea, né per corso di studi, né ‘ad honorem’, come millanta scrivendo il falso in atto pubblico e arrivando a dichiarare di averla ricevuta dal presidente della Repubblica Ciampi che lo sconfessa.

Nella lettera Lamorgese chiede a Montante il curriculum vitae sulla base del quale predispone e firma il decreto di indicazione che poi palazzo Chigi perfeziona nel provvedimento di nomina, il primo dicembre 2014. Con tutte le conseguenze del caso.

Un caso – la nomina di Montante nell’Anbsc – questo sì, pirandelliano.

Per Postiglione invece – il prefetto che vola in carriera quando sono in auge Alfano&Montante – pirandelliana era la narrazione dell’accusa all’impostore di Serradifalco.  Ma qui personaggi come Mattia Pascal o Vitangelo Moscarda c’entrano ben poco e il lavoro di magistrati onesti, capaci e coraggiosi ha consentito alla Vita di smascherare la Forma.

Estratto dell’articolo di Valerio Papadia per fanpage.it giovedì 27 luglio 2023.  

A distanza di 19 anni dal delitto, sono stati arrestati i presunti esecutori materiali dell'omicidio di Gelsomina Verde, 22 anni, vittima innocente della camorra, sequestrata, torturata e uccisa a Napoli il 21 novembre del 2004, nel pieno della cosiddetta Prima Faida di Scampia. La Polizia di Stato, su delega della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, ha difatti arrestato Luigi De Lucia e Pasquale Rinaldi (conosciuto come O' Vichingo) […] 

Per l'omicidio di Gelsomina Verde sono già stati condannati Pietro Esposito, che aveva condotto la ragazza all'appuntamento con i suoi assassini, e Ugo De Lucia, considerato l'ideatore dell'omicidio, al quale sarebbe stato presente.

Operaia in una fabbrica di pelletteria, Gelsomina Verde era del tutto estranea alla criminalità organizzata. La ragazza, però, aveva avuto una relazione sentimentale con Gennaro Notturno, entrato a far parte dei cosiddetti Scissionisti, contrapposti nella Prima Faida di Scampia al clan Di Lauro. Per questo, il 21 novembre del 2004, la 22enne venne sequestrata, torturata per ore e poi uccisa con tre colpi di pistola alla testa. Il cadavere della ragazza venne adagiato nella sua auto, che poi venne data alle fiamme, […]

 Giancarlo Tommasone per stylo24.it giovedì 27 luglio 2023.

Il fuoco, nella religione nera della camorra perde la sua funzione catartica per diventare elemento che distrugge, cancella, avvisa. Il corpo della 22enne Gelsomina Verde passò per le fiamme, si ipotizza anche per nascondere le tracce di quanto di inenarrabile subì prima della sua esecuzione. Concretizzatasi con tre colpi di pistola alla nuca. 

I resti furono lasciati nella vettura della giovane, una Fiat 600. Poi il rogo. Del corpo straziato, il fuoco risparmiò soltanto una gamba. Così finì la storia terrena di Mina, come tutti la chiamavano; la scoperta fu effettuata nella notte del 21 novembre del 2004, a Secondigliano.

Vittima innocente della prima faida di Scampia, guerra combattuta tra i Di Lauro e gli Scissionisti. La regia di quella esecuzione, dissero le indagini, portò la firma dei Di Lauro. A guidare la batteria per il barbaro omicidio della 22enne, c’era Ugo De Lucia, Ugariello per gli amici, il «mostro» per i sodali di morte. All’epoca aveva da poco compiuto 26 anni, adesso si avvia a tagliare il traguardo dei 40. E’ recluso a Padova.

Sulle spalle l’ergastolo, ma nonostante ciò almeno dal 2015, usufruisce di permessi premio. Facciamo un po’ di conti: De Lucia fu arrestato il 23 febbraio del 2005, lo scovarono in Slovacchia, dove si era rifugiato alla fine di dicembre del 2004. Era protetto da una rete di magliari, a «tradirlo» le cento rose rosse inviate alla moglie per il giorno di San Valentino. Da allora finisce in carcere, viene processato, condannato. Gira diversi penitenziari, poi nel 2012 approda a Padova. I permessi, da quanto accertato da Stylo24, vengono accordati dai magistrati di sorveglianza, per non meglio specificati motivi familiari. 

Ugo De Lucia, alla fine del 2016 è stato baciato dalla grazia con una nuova paternità: un figlio maschio. Prima dell’arresto aveva avuto un altro maschio e una femmina. L’ultimo rampollo è stato concepito, evidentemente, proprio durante uno dei permessi premio accordati al detenuto condannato all’ergastolo. Permessi dalla durata media di cinque giorni.

Saviano ricorda Gelsomina Verde: «Vidi il corpo di Mina: quel delitto un incubo che ancora mi tormenta». Storia di Roberto Saviano Corriere della Sera giovedì 28 luglio 2023.  

Quando mi chiamano per avvertirmi che hanno arrestato due camorristi del gruppo che uccise Gelsomina Verde rispondo che non è possibile. Dico che è una storia troppo vecchia, che di certo si stanno sbagliando perché sono passati quasi vent’anni. E invece è tutto vero: sono stati arrestati Luigi De Lucia e O’Vikingo, Pasquale Rinaldi. Da tempo si sapeva del loro ruolo nell’omicidio, quei nomi erano emersi dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, ma soltanto ora si è riusciti a trovare l’impegno, la volontà e l’operatività per poterli fermare. L’omicidio di Mina Verde mi torna tutto in corpo non come un rigurgito ma come un ricordo che sono stato costretto — per troppe volte — a ripercorrere.

Quella scena indimenticabile

Era il 2004 e giravo con la mia vespa nera nei territori della . Avevo 25 anni, ci si muoveva all’epoca da un luogo di un omicidio all’altro. Arrivò un passaparola. Fu segnalato un omicidio vicino a una masseria che ora ricordo disabitata, ma potrebbe essere semplicemente che i proprietari si fossero rinchiusi dentro. Cose che accadevano spesso. Arrivai che già c’era la scientifica, la scena era recintata dal nastro segnaletico bicolore. Non ricordo vigili del fuoco, le fiamme forse si erano spente da sole o forse i pompieri erano arrivati prima del nostro arrivo. Ricordo che il muso dell’auto conservava ancora la vernice rossa. Era un’utilitaria, forse una Seicento nuovo modello, tutta mangiata dalle fiamme. Poi nel sedile posteriore lato passeggiero c’era questo corpo completamente carbonizzato. Era stato messo in un sacco e dato alle fiamme insieme all’auto.

I segni della tortura e i tre proiettili

In questura ore dopo fu detto ai cronisti che quei resti non erano di un camorrista ma erano di una donna. Si chiamava Gelsomina Verde, aveva 22 anni. Cadde il silenzio quando iniziò a girare il suo nome. La faida era arrivata anche a questo. Il referto necroscopico dei medici legali parò di segni di tortura e tre proiettili sparati alla testa. Gelsomina Verde era un’operaia che lavorava in una delle fabbriche di pelletteria dell’area nord. Mina — come tutti la chiamavano — faceva anche volontariato. Era volontaria sia in un doposcuola per i bambini che in carcere. È proprio qui che conosce Pietro Esposito detto . È lui ad adescarla. Le dice che devono parlare, le lascia intendere probabilmente che è qualcosa di importante che riguarda la sua famiglia.

La ricerca di «O’Sarracino»

Lei arriva con la sua Seicento, Kojak la affianca (anche lui in macchina) e mentre le sta parlando per prendere tempo arrivano secondo quanto lui stesso ha raccontato «Ugo De Lucia , Pasquale Rinaldi e Luigi De Lucia». I tre scendono da un motorino e le dicono con fare perentorio di spostarsi dal posto di guida. Cosa vogliono da Mina? Cosa vuole questa paranza di fuoco al servizio di Cosimino, che si presenta in gruppo da una ragazzina inerme? Vogliono informazioni su O’Sarracino, un ragazzo che lei ha frequentato tempo prima. Questo ragazzo, al secolo Gennaro Notturno, è il killer più temuto degli spagnoli. Devono scovarlo, devono trovarlo, devono identificarlo, ha ucciso — secondo quando loro sostengono — loro amici, continua a colpire, va fermato. Mina l’ha frequentato molto prima che si trasformasse in un killer.

Un killer temuto

Ma cosa lo rende così temuto O’Sarracino? È che non conoscono la sua faccia. Non hanno fotografie. Non riescono a entrargli in casa, il quartiere dove vive è blindato ai Di Lauro. I clan quando hanno necessità di identificare qualche loro nemico cercano una foto, oggi setacciano i profili social e se non trovano nulla provano a fare un’inchiesta che coinvolge parenti e amici. La diffusione di foto sui telefoni ha reso tutto più facile, ma nel 2004 si usava ancora la pratica degli anni 60 e 70, si andava in comune e si cercava la carta d’identità depositata. In questo caso gli uomini del clan non riescono a trovare niente, negli archivi il loro contatto non trova nulla. Altre volte si va dai fotografi di comunione o matrimoni, che hanno in archivio vecchie foto ma non trovano abbastanza informazioni su Notturno per battere questa strada. Così trovano Mina che l’aveva frequentato, trovano una ex fidanzata e chiedono a lei delle fotografie.

Le paure di Mina

Temono O’Sarracino perché è un killer puntuale, preciso, veloce, prudente e sa essere invisibile. Cosimo è convinto che abbia ucciso il suo migliore amico Fulvio Montanino. Vuole a tuti i costi identificare Notturno. Mina non ha foto. Non solo, non le vuole nemmeno cercare, non vuole collaborando in qualsiasi modo mettersi nelle dinamiche della faida. Sa che una volta entrata in queste sintassi a pagare sono tutti: ogni tuo parente può essere usato come sacco di carne per la vendetta o per inviare un messaggio.

Il martirio di una innocente

Non c’entra e non vuole ci vuole entrare. Anche solo una parola condannerebbe a morte i suoi familiari, i suoi amici, ogni persona che ha un rapporto con lei. In più non ha più contatti con O’Sarracino da tempo. Da molto tempo. E così la pestano, le rompono il naso, le torturano i lobi delle orecchie, la gonfiano di botte e — prima di spararle e bruciarla — altro ancora su cui dovrei soffermarmi ma non riesco. L’incubo della morte di Mina non smetterà mai di tormentarmi.

Le nuove indagini. Omicidio di Gelsomina Verde, 19 anni dopo arrestati i killer: fu torturata e uccisa durante la faida di Scampia. Carmine Di Niro su L'Unità il 27 Luglio 2023

Sono Luigi De Lucia e Pasquale Rinaldi, alias “ò Vichingo”, i due killer di Gelsomina Verde, la giovane 21enne uccisa brutalmente il 21 novembre del 2004 mentre infiammava a Napoli la faida di camorra tra il clan Di Lauro e gli “scissionisti” degli Amato-Pagano.

Ne sono convinti gli inquirenti, che li hanno tratti in arresto 19 anni dopo perché gravemente indiziato del femminicidio della 21enne, contestando ai due l’aggravante della premeditazione e del metodo mafioso in quanto commesso allo scopo di favorire l’organizzazione camorristica Di Lauro.

Quello di Gelsomina Verde fu un omicidio che colpì l’opinione pubblica: la ragazza, che lavorava come operaia in una pelletteria e che nel tempo libero faceva volontariato, fu torturata, uccisa con tre colpi di pistola alla testa, quindi bruciata all’interno di un’auto.

La 21enne era estranea agli ambienti criminali ma “pagava” il suo legame sentimentale con Gennaro Notturno alias “o Saracino”, esponente di spicco degli “scissionisti”, storia che però al momento dell’omicidio era già terminata.

Per l’omicidio di Gelsomina sono già stati condannati Pietro Esposito, che aveva portato la giovane all’appuntamento con i suoi assassini, e Ugo De Lucia, ideatore e partecipe dell’omicidio perché ai vertici di uno dei gruppi di fuoco del clan Di Lauro.

Le indagini condotte dalla Squadra Mobile sono state riavviate nel 2020, grazie alle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia. Dopo i riscontri degli investigatori, il Gip del Tribunale di Napoli su su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli ha emesso il provvedimento restrittivo questa mattina.

Rinaldi è stato rintracciato e arrestato presso il suo domicilio a Castel Volturno, nota località sul litorale della provincia di Caserta, De Lucia invece è stato arrestato a Massa Carrara, dove era già agli arresti domiciliari per altri reati.

La prima faida di Scampia, ricorda LaPresse, contrappose il clan Di Lauro, il cui vertice Cosimo Di Lauro, figlio maggiore del boss Paolo Di Lauro detto Ciruzzo ‘o Milionario, e agli scissionisti (o gli spagnoli per la base ‘operativa’ in Spagna) Amato-Pagano, capeggiati da Raffaele Amato, nati da una costola dello stesso clan, per il controllo criminale dei quartieri di Secondigliano e Scampia e i comuni dell’hinterland partenopeo Melito di Napoli, Mugnano, Casavatore e Arzano. La guerra tra i due clan ha provocato oltre 60 omicidi tra il 2004 e il 2005. Carmine Di Niro 27 Luglio 2023

In manette dopo 19 anni. Chi sono le due persone arrestate per la morte di Gelsomina Verde, il ruolo dei pentiti e la cattura: come è scattato il blitz. Luigi De Lucia e Pasquale Rinaldi si aggiungono a Ugo De Lucia (cugino di Luigi) e Pietro Esposito come presunti autori del brutale omicidio della 24enne. Ugo De Lucia ed Esposito sono stati già condannati. Gelsomina Verde fu sequestrata, torturata, uccisa e data alle fiamme dentro un'automobile per non aver fatto il nome di Gennaro Notturno, suo amante e attualmente collaboratore di giustizia. Andrea Aversa su L'Unità il 27 Luglio 2023

È stata uccisa perché frequentava l’uomo sbagliato. Gelsomina Verde, 22 anni, è stata una delle tante vittime mietute dalla faida di Scampia. Una guerra di camorra combattuta agli inizi degli anni 2000 e che ha visto scontrarsi i clan di Secondigliano. Da una parte il sodalizio storico dei Di Lauro guidato da Paolo, alias Ciruzzo ‘o Milionario, dall’altra gli scissionisti con a capo gli Amato – Pagano. Uno scontro che ha insanguinato le strade di Napoli, sul quale ancora oggi vi sono molte indagini in corso. L’obiettivo degli inquirenti è quello di ricostruire l’intero scenario di allora, trovando mandanti ed esecutori dei tanti omicidi commessi e ancora irrisolti. E tra questi c’era quello di Gelsomina, la cui triste vicenda pare finalmente chiarita.

Chi sono le due persone arrestate per la morte di Gelsomina Verde

Stamattina la Questura di Napoli ha annunciato che gli agenti della Squadra Mobile, diretta dal Dottor Alfredo Fabbrocini, hanno stretto le manette ai polsi di due uomini coinvolti nel brutale assassinio della giovane. Ma chi sono le due persone arrestate per la morte di Gelsomina Verde? Si tratta di Luigi De Lucia e Pasquale Rinaldi, entrambi ritenuti i presunti sequestratori e assassini della 22enne. I due avrebbero agito insieme ai già condannati Ugo De Lucia (cugino di Luigi) e Pietro Esposito. Fondamentali per le indagini le dichiarazioni di tre collaboratori di giustizia: Salvatore Tamburrino, Gennaro Notturno e Pasquale Riccio. Il primo è stato arrestato nel 2019 quando i Carabinieri scovarono Marco Di Lauro mettendo fine alla sua latitanza. Il secondo, era un affiliato di spicco degli scissionisti nonché amante di Gelsomina. Era proprio lui l’uomo che i killer della ragazza volevano trovare ma lei non lo tradì. E pagò con la vita.

De Lucia è al momento detenuto presso il carcere di Massa Carrara. Rinaldi è stato trovato e preso nella sua abitazione a Castel Volturno (in provincia di Caserta), dalla quale aveva anche tentato di fuggire. Quel maledetto 21 novembre del 2004, Gelsomina fu rapita e poi torturata. Alla fine fu uccisa a colpi d’arma da fuoco e il suo cadavere fu abbandonato in un’automobile poi data alle fiamme. “Per l’omicidio di una ragazza di 22 anni – ha dichiarato Fabbrocini in occasione di un breve incontro con la stampa avvenuto questa mattina – è responsabile l’intero gruppo criminale dei Di Lauro. Penalmente ci saranno sicuramente altre posizioni da definire, moralmente sono tutti colpevoli”.

Il Capo della Mobile partenopea ha anche dichiarato: “Al momento anche se attivo, il clan Di Lauro – per fortuna – non è più quello di un tempo“. Infine, ha concluso i dirigente, in merito alle singole e specifiche responsabilità dei quattro coinvolti nel brutale omicidio, “non sono ancora chiare ma continueremo a lavorare per individuare i comportamenti di ogni persona coinvolta tra chi è stata condannata e chi si trova, come nel caso dei due soggetti arrestati oggi, ancora in fase indagini preliminari: cercheremo di fare luce anche su questo“.

 La storia anche in Gomorra. Chi era Gelsomina Verde, torturata uccisa da 21 anni: alzò la testa e disse no alla camorra. Rossella Grasso su L'Unità il 27 Luglio 2023 

Aveva solo 21 anni Gelsomina Verde quando fu brutalmente torturata, uccisa e poi bruciata all’interno della sua auto. Era il 21 novembre 2004, Gelsomina, che tutti conoscevano come Mina, fu uccisa a Scampia, periferia di Napoli. Impazzava in quegli anni la cruenta prima faida di camorra. Una vera e propria guerra quotidiana che lasciò a terra molti morti, a tutte le ore del giorno e della notte. Una guerra che vedeva da una parte gli eredi di Paolo Di Lauro, boss indiscusso di Secondigliano; dall’altro gli ‘scissionisti’, ex alleati dei Di Lauro, divenuti poi loro acerrimi nemici. I due gruppi si contendevano con ogni mezzo gli affari criminali sul territorio, legati in particolare al traffico di droga. Gelsomina era completamente estranea a tutto questo. L’unica cosa che condivideva con queste tremende storie criminali era il quartiere: anche lei era nata e viveva a Scampia, all’ombra delle vele.

La storia di Gelsomina Verde è balzata alle cronache perché il 27 luglio 2023, 19 anni dopo il terribile episodio, sono stati arrestati due presunti assassini, Luigi De Lucia e Pasquale Rinaldi, alias “ò Vichingo”, gravemente indiziati del femminicidio, con l’aggravante della premeditazione e del metodo mafioso in quanto commesso allo scopo di favorire l’organizzazione camorristica Di Lauro. Per il medesimo episodio sono stati già condannati Pietro Esposito, che aveva condotto la giovane all’appuntamento con i suoi assassini, e Ugo De Lucia, ideatore e partecipe alla esecuzione materiale dell’agguato in qualità di responsabile di uno dei gruppi di fuoco attivi durante la faida per conto dei Di Lauro.

“Per l’omicidio di una ragazza di 22 anni è il responsabile intero gruppo criminale (il clan Di Lauro, ndr), penalmente ci saranno sicuramente altre posizioni da definire, moralmente sono tutti colpevoli“. Lo ha detto il capo della squadra Mobile di Napoli Alfredo Fabbrocini, nel corso di una conferenza stampa in Questura indetta dopo l’arresto di due presunti appartenenti al commando del clan Di Lauro che uccise barbaramente Gelsomina Verde, come riportato dall’Ansa.

Mina lavorava come operaia in una fabbrica di pelletteria e nel tempo libero si occupava di volontariato: la sua unica “colpa” era quella di essere stata legata sentimentalmente per un breve periodo a un ragazzo, Gennaro Notturno, entrato in seguito a far parte del cosiddetto cartello degli scissionisti di Secondigliano; tale relazione si era peraltro conclusa almeno tre anni prima del suo barbaro assassinio.

Mina conosceva Gennaro e altri ragazzi della zona, conosceva i loro volti ed è proprio per questo che il commando dei Di Lauro aveva deciso di prelevarla e interrogarla. Lei non volle dare informazioni a nessuna delle due fazioni, nemmeno le fotografie che erano state richieste. “Io non sono come voi, non vi darò mai quelle foto, dovete solo uccidermi”, disse, come ha raccontato il fratello Francesco Verde all’Unità. Il commando non accettò che la ragazza potesse ribellarsi e la torturò pensando di ottenere le risposte che voleva. Poi fu colpita alla testa e il suo corpo dato alle fiamme nella sua auto che poco prima gli aveva regalato il suo papà facendo tanti sacrifici. Il fatto destò grande clamore per l’incredibile brutalità con cui quegli aguzzini si accanirono sulla ragazza che era totalmente estranea a quel contesto.

La storia di Gelsomina Verde è stata raccontata nel romanzo Gomorra di Roberto Saviano, mentre nella prima stagione della serie televisiva omonima è presente un personaggio, Manu (interpretato da Denise Perna), a lei ispirato, che appare nel nono episodio intitolato per l’appunto Gelsomina Verde. Gennaro Notturno, uno degli ‘scissionisti’, l’uomo ‘sbagliato’ che Gelsomina aveva frequentato, è oggi tra i collaboratori di giustizia che hanno fornito il loro apporto per l’arresto delle altre due persone ritenute responsabili dell’omicidio della 22enne. Rossella Grasso 27 Luglio 2023

Padova. Omicidio di Matteo Toffanin, il killer della mafia lo scambiò per un altro. A distanza di 31 anni riaperte le indagini. Al posto di Matteo doveva morire un sodale di Felice Maniero: era nel mirino di un'organizzazione di trafficanti di stupefacenti. La fidanzata di Toffanin chiede giustizia da 31 anni. Marina Lucchin su ilgazzettino.it Sabato 18 Febbraio 2023.

Nuove prove, nuove tecnologie, nuovi esami. E così, dopo 31 anni la Procura riapre il caso di Matteo Toffanin, ucciso dalla mafia, per sbaglio, nel 1992. È il più misterioso tra i "cold case", i casi irrisolti, del Padovano se non d'Italia e ora sembra che la Squadra Mobile abbia dei nuovi elementi in mano che possano finalmente aiutare a scoprire chi ha assassinato quel ragazzo di soli 23 anni il 3 maggio 1992. Un omicidio per cui la fidanzata di Mattero, Cristina Marcadella - rimasta ferita nello stesso agguato - chiede giustizia da 31 anni.

L'omicidio

Quel che è certo è che, a seguito di alcuni elementi di novità di recente emersi, che hanno portato ad una rilettura degli atti già presenti al fascicolo di indagine dell'epoca, la procura di Padova, attraverso il pubblico ministero Roberto D'Angelo, ha iscritto un nuovo procedimento penale e delegato alla Squadra Mobile del primo dirigente Carlo Pagano ulteriori approfondimenti investigativi sull'omicidio irrisolto. Quella sera di 31 anni fa, verso le 21 Matteo Toffanin, 23 anni, parcheggia la Mercedes davanti al condominio della fidanzata al civico 4 di via Tassoni alla Guizza. L'auto gli è stata prestata dallo zio, la sua utilitaria infatti era in panne, ed è dello stesso tipo, stesso colore, persino tre numeri di targa uguali, a quella di Bonaldo, allora 39enne che abita all'11. Matteo ha appena spento il motore quando dal nulla escono i killer che crivellano la vettura. Lui muore sul colpo, Cristina, la fidanzata resta ferita alla gamba.

Lo scambio di persona

Al posto di Matteo dunque doveva morire Bonaldo, già in affari con Felice Maniero, una sfilza di precedenti lunga un chilometro tra traffico di droga, per il quale fu fermato nel 2010, e rapine, ultime arresto nel 2013. Bonaldo doveva essere eliminato da un'organizzazione di trafficanti di stupefacenti perchè avrebbe acquistato una grossa partita di droga senza pagarla. Questa è la conclusione cui era giunta la Squadra Mobile nel 1995, nel corso delle prime indagini sull'omicidio di Toffanin, coordinate all'epoca dal sostituto procuratore Antonino Cappelleri. Sempre secondo quanto ricostruito dalla Mobile padovana, Bonaldo avrebbe acquistato lo stupefacente assieme a un altro personaggio, un quarantunenne di Piazzola sul Brenta, che secondo gli investigatori si sarebbe occupato della distribuzione, a Padova, di eroina e cocaina proveniente da Milano. Dopo le prime minacce da parte dell'organizzazione, però, il «socio» di Bonaldo avrebbe pagato la droga, mentre questi avrebbe cercato di temporeggiare, benchè fosse stato portato a forza a Milano, dove aveva subito una finta «fucilazione», e il suo negozio di pelletterie fosse stato fatto segno a colpi di pistola. L'uccisione di Bonaldo fu decisa per il 3 maggio, ma gli esecutori scambiarono la Mercedes bianca che Toffanin aveva avuto in prestito da uno zio, per la vettura, identica, di Bonaldo. Il vero bersaglio, che abitava nel condominio di fronte alla casa della fidanzata di Toffanin, quella sera rincasò due ore dopo l'omicidio. Nel dicembre 1993 divenne latitante, quando fu emesso nei suoi confronti, dal gip padovano Maurizio Gianesini, un ordine di custodia cautelare per associazione per delinquere finalizzata al traffico di armi ed esplosivi. Successivamente fu arrestato a Milano. Furono iscritti nel registro degli indagati alcuni pregiudicati siciliani, ma nel 1997, non avendo raggiunto i necessari elementi idonei al rinvio a giudizio, la posizione degli stessi venne archiviata. Ora dopo 26 anni, ci sono delle "novità" e si riapre l'indagine. 

Matteo Toffanin, ucciso per errore dalla mafia: 30 anni dopo riaperta l'inchiesta. Andrea Priante e Roberta Polese su Il Corriere della Sera il 18 febbraio 2023

Padova, tornava al mare con la fidanzata, ma aveva un'auto identica a quella di un uomo di Maniero

Era la sera del 3 maggio 1992, una domenica. Matteo e Cristina, due giovani fidanzati, tornavano in auto a Padova dopo una giornata al mare. Quando arrivarono sotto l’abitazione di lei, in via Tassoni, nel quartiere Guizza, saranno state le dieci di sera. Il tempo di un bacio, poi lui sarebbe tornato a casa, a Ponte San Nicolò. Invece, quella sera Matteo Toffanin morì a 22 anni, crivellato di proiettili, e Cristina Marcadella sopravvisse per miracolo, ferita alla gambe dai killer che subito dopo svanirono nel nulla. Di loro, degli autori di quell’esecuzione portata avanti a colpi di lupara e di pistola, non s’è mai saputo nulla. «Erano dei mafiosi» si disse all’epoca. Il che probabilmente qualificherebbe l’omicidio come il primo delitto di mafia in Veneto. Ora, a trent’anni di distanza, la procura ha riaperto l’indagine. Il pm Roberto D’Angelo ha incaricato la squadra Mobile di seguire una nuova pista, definita da fonti investigative «più che verosimile». È stato anche richiesto alla Scientifica di rivedere i reperti (pochi, a dire il vero) raccolti all’epoca.

Un bravo ragazzo, faceva il rappresentante

Matteo era un bravo ragazzo, lavorava come rappresentante per una ditta di computer. Nessun precedente penale, nulla che potesse collegarlo agli ambienti malavitosi. E lo stesso vale per Cristina, che nel 1992 aveva 25 anni e faceva l’impiegata. Anche per questo le indagini si rivelarono subito complicate. L’ipotesi più probabile - si disse - è che la coppia di fidanzatini fosse rimasta vittima di uno scambio di persona: la vendetta di alcuni mafiosi siciliani nei confronti di Marino Bonaldo, uno degli uomini di Felice Maniero, il boss della Mala del Brenta. Bonaldo, infatti, abitava proprio vicino a Cristina e aveva una macchina identica a quella che Matteo guidava la sera del 3 maggio: una Mercedes 190 bianca prestatagli dallo zio, perché la sua Lancia Delta aveva avuto dei problemi. Perfino le prime tre cifre della targa erano identiche a quella dell’auto del pregiudicato. Una serie di coincidenze, coi sicari – sarebbero stati in due - convinti di aver ammazzato Bonaldo e invece avevano colpito due ragazzi innocenti. 

Gli amici e la fidanzata non hanno dimenticato

Le indagini vennero da subito indirizzate su un gruppo che gravitava nel Milanese e che aveva avuto degli affari in comune con Bonaldo. Si ipotizzò che tra loro ci fosse un debito in sospeso e che quindi gli assassini volessero fargli pagare lo sgarro. Furono iscritti sul registro degli indagati dei pregiudicati siciliani ma nel 1997, non avendo trovato prove solide, la loro posizione fu archiviata. La speranza è che la nuova inchiesta permetta finalmente di scoprire chi ha ammazzato il padovano, segnando per sempre la vita di Cristina. Da allora, e per trent’anni, il 3 maggio la fidanzata e gli amici si ritrovano per ricordare Matteo, morto di ritorno da una domenica al mare. «A maggio di quest’anno saranno 31 anni da quel giorno, non mi faccio illusioni ma è davvero giunto il momento di fare giustizia». Cristina Marcadella ha continuato, per tutti questi anni, a tenere viva la memoria di Matteo. Il volto di Matteo è diventato un libro, un fumetto, è perfino diventato una canzone. Cristina, insieme all’associazione Libera, porta avanti l’esercizio della memoria nelle manifestazioni e nelle scuole. Ora si apre un varco di speranza. «Ho rivissuto quella notte dilatata nel tempo per moltissimi anni. Non so nulla di queste nuove indagini ma è giusto che non si smetta di cercare».

Omicidio Matteo Toffanin a Padova, riaperto il caso dopo 31 anni. Omicidio del 23enne per uno scambio di persona in via Tassoni: i sicari volevano colpire un vicino di casa che aveva una Mercedes 190 simile. Da mattinopadova.gelocal.it il 18 Febbraio 2023

A seguito di alcuni elementi di novità di recente emersi che hanno portato ad una rilettura degli atti già presenti al fascicolo di indagine dell'epoca, la procura di Padova ha iscritto un nuovo procedimento penale e delegato alla Squadra Mobile della questura ulteriori approfondimenti investigativi sull'omicidio irrisolto del 23enne padovano Matteo Toffanin, freddato la sera del 3 maggio 1992 da numerosi colpi d'arma da fuoco esplosi da ignoti sicari, nel mentre si trovava in compagnia della sua fidanzata a bordo di un'autovettura Mercedes 190 di colore bianco.

Il giovane stava riaccompagnando la fidanzata sotto casa, in via Tassoni, quando all'improvviso subiva un agguato da soggetti armati di fucile e pistola. La ragazza, pur riportando alcune ferite, riusciva per fortuna a salvarsi. Pressoché da subito si comprese che si era trattato di un fatidico scambio di persona e che il vero bersaglio dei killer avrebbe dovuto essere probabilmente un altro soggetto, abitante nella medesima via ed in possesso di un'auto identica per modello e colore a quella in uso quella sera al giovane Matteo (ricevuta solo in prestito per l'occasione).

Le indagini furono da subito indirizzate nei confronti di un gruppo di soggetti originari del sud Italia dimoranti nell'hinterland milanese, coi quali era in rapporti colui che si riteneva fosse appunto il vero bersaglio dei killer.

L'ipotesi era che costui aveva contratto un debito di diverse decine di milioni di lire, debito rimasto insoluto e che sarebbe stato dunque alla base della programmata esecuzione, sfociata tuttavia nel tragico scambio di persona. Furono iscritti nel registro degli indagati alcuni pregiudicati siciliani, ma nel 1997, non avendo raggiunto i necessari elementi idonei al rinvio a giudizio, la posizione degli stessi venne archiviata.

L’inchiesta finì presto in archivio

C’erano le migliori professionalità in tema di polizia giudiziaria, sul caso di

Matteo Toffanin. Ma nonostante questo, non c’è stata giustizia per il giovane giustiziato alla Guizza per uno scambio di persona.

La Squadra mobile della polizia era guidata da Carmine Damiano e in Procura il caso venne affidato al migliore dei magistrati, Antonino Cappelleri.

Ma nonostante questo, il caso venne archiviato dopo circa un anno. Di fatto gli investigatori si trovarono in un vicolo cieco. Subito le indagini si concentrarono su Marino Bonaldo, una persona con una marea di precedenti penali e con alcune aderenze alla Mala del Brenta.

Abitava lì, a poche decine di metri di distanza. Aveva una Mercedes identica a quella che usò Matteo Toffanin e addirittura alcune cifre della targa coincidevano. Gli investigatori interrogarono a lungo Bonaldo, scoprendo cosa aveva fatto quella sera e facendo luce su alcuni suoi affari.

Marino Bonaldo trascorse la serata di domenica 3 maggio 1992 a casa di amici, in compagnia di una donna. Poco prima delle 22 si misero in viaggio verso Padova, per tornare, ma vennero fermati da una pattuglia dei carabinieri per un normale controllo stradale.

Altra coincidenza che andrà a determinare il micidiale scambio di persona. Quanto ai suoi affari, si parla di armi, droga e usura. In quel periodo, poi, il suo nome compare in un “bidone” da 200 milioni di lire, rifilato a una società milanese gestita da alcuni siciliani. La polizia mandò i suoi uomini migliori anche in Sicilia, nel tentativo di avere qualche risposta. Ma risposte non ne arrivarono. Dopo un anno, furono chiuse le indagini “contro ignoti”.

Dunque ancora oggi non si conoscono i nomi degli esecutori materiali e non è mai stato fatto un processo. Cristina Marcadella e i genitori di Matteo Toffanin non si rivolsero mai a un avvocato e non chiesero mai la riapertura delle indagini. Fu una scelta la loro, per provare ad andare oltre.  

I favoreggiatori della “mafia. Disse no alla mafia, la madre del medico ucciso: “Messina Denaro 30 anni nel suo paese, quale trionfo dello Stato?” Attilio Manca è morto a 34 anni nel 2004 in circostanze misteriose. La Commissione parlamentare antimafia ha ricostruito la sua vicenda, legata a quella del capomafia Bernardo Provenzano. Pubblicato:31-01-2023 Autore: Silvia Mari su Dire.

I poster, le calamite, le amanti, i selfie con i medici nella clinica. Sono le puntate, quasi cinematografiche ormai, in cui vengono raccontati l’arresto del padrino Matteo Messina Denaro e la sua vita ‘normale’ nei covi da cui traslocava mandando messaggi audio su WhatsApp alle ditte. “Io ho la nausea, sto rivedendo lo stesso film che c’è stato per Bernardo Provenzano. Tutto questo trionfalismo per la cattura di Messina Denaro non ci deve essere, sono convinta che si sia consegnato: è gravemente malato. Non è una vittoria, anzi è una sconfitta: trenta anni di latitanza nel paese natio la dicono lunga, fa ridere”. Angela Gentile, la mamma di Attilio Manca, l’urologo ucciso dalla mafia dopo aver detto no a Provenzano – come ha stabilito la Commissione parlamentare – all’agenzia Dire racconta l’amarezza di questi giorni, la fatica di accendere la tv. “Sto leggendo pochissimo” aggiunge.

IL BOSS ORDINÒ: AL MEDICO VA FATTA UNA DOCCIA

Attilio Manca, urologo dell’ospedale viterbese di Belcolle, originario di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, pur se giovanissimo, era considerato un luminare, un medico talentuoso nelle tecniche chirurgiche allora innovative in laparoscopia. Venne trovato morto nel 2004 nella sua casa di Viterbo a 34 anni. Tutto fu frettolosamente spiegato come un suicidio: nel corpo vennero trovati eroina, barbiturici, alcol. Una tesi a cui la famiglia non ha mai creduto. “Uno dei casi che si sono verificati nel nostro Paese che non sono stati chiariti dall’Autorità giudiziaria“, ha scritto nero su bianco la Commissione parlamentare Antimafia.

Mio figlio era una persona onesta, perbene – ricorda la signora Angela che insieme al marito ha combattuto quasi venti anni per la verità, isolati, non creduti e lasciati soli dallo Stato come lei stessa racconta nell’intervista – e non ha accettato compromessi: mai sarebbe diventato il medico della mafia. Avrà detto ‘lasciatemi fuori’ e non l’avranno lasciato fuori. Ha preferito morire pur di non diventare il medico del boss e sono fiera di aver avuto un figlio così onesto e superiore a uomini meschini come politici e magistrati che fanno sentenze non in nome del popolo, ma in nome della mafia, un marciume…”.

Attilio invece era un uomo puro. Io penso che mio figlio – continua la madre di Manca nel suo racconto – all’inizio quando è andato a visitarlo non sapesse che si trattava di Provenzano. Gli sarà stato raccomandato da parenti o da personaggi di Barcellona, ma quando l’ha capito comprendo lo sdegno che avrà avuto e la paura. I colleghi hanno detto che era impaurito – racconta ancora la signora Angela – uno di loro gli ha detto: parla con i tuoi genitori e lui ha risposto che non poteva darci queste preoccupazioni, era molto protettivo con noi, era come un genitore. Negli ultimi tempi lo sentivo chiuso, abbattuto e lo addebitavo alla nostalgia. Doveva scendere il 20 febbraio, l’hanno ucciso l’11”.

La storia di questo brillante medico si intreccia infatti, come tante dichiarazioni di pentiti hanno permesso poi di ricostruire, con quella del boss Provenzano operato alla prostata in una clinica di Marsiglia che avrebbe fatto chiamare proprio lui, il giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, stesso posto dove il capo di Cosa Nostra trascorrerà un po’ della sua latitanza nascosto in un convento. “Ad ottobre 2003 Attilio ci chiamò da Marsiglia e a mio marito – ricorda la mamma del medico – disse che doveva assistere a un intervento chirurgico. In quel periodo veniva chiamato da molti ospedali d’Italia e la notizia che si trovasse in Francia non ci sorprese. Quella telefonata dopo la sua morte sparì dai tabulati telefonici”.

Ci sarebbe poi un buco nelle 48 ore precedenti alla morte. Lo hanno portato in Sicilia per visitare Provenzano come qualcuno dice? Attilio ‘sa troppo’ o ‘ha visto troppo’ e potrebbe svelare informazioni sulla latitanza del capomafia, Attilio dice ‘no’ a diventare il medico del boss? Le risposte arrivano anche da un’intercettazione ambientale di fine 2003: a quel medico “gli andava fatta una doccia” e il puzzle tra la morte dell’urologo e il boss Provenzano si ricompone pian piano nonostante Attilio Manca venga dipinto come il medico morto di overdose.

DA MAGISTRATURA VITERBESE E PROCURA ROMA MAI INDAGINI”

Lo Stato ci ha abbandonato e tradito – continua nella sua testimonianza la mamma di Attilio – tutte le prove venivano disattese, ma soprattutto ci hanno ostacolato la magistratura e le forze dell’ordine, non solo i politici, ad eccezione dei Carabinieri che hanno creduto dal primo momento alla nostra versione e non ci hanno mai abbandonato. La magistratura viterbese e la Procura di Roma non hanno fatto indagini, hanno provato ad affossare la verità. Il pm di Viterbo sostenne che Attilio era morto per droga, non ci ha nemmeno mai auditi in 18 anni. Ha continuato a dire che mio figlio era morto nel suo letto… e le dichiarazioni dei pentiti, domandavo? Diciamo che forse non era capace di affrontare un delitto di mafia”, dichiara la signora Angela con ironia.

Oggi dopo che la Commissione parlamentare ha scritto nero su bianco che il giovane urologo è stato ucciso dalla mafia, mamma Angela si aspetta “che si apra l’indagine dopo ben 19 anni, che non frappongano altri ostacoli. Vogliamo la verità e un processo serio e chiediamo che chi ha sbagliato paghi, anche i magistrati che ci hanno negato la verità. Per non parlare dell’autopsia farsa che non ha descritto il volto tumefatto, ecchimosi di calci e pugni ai testicoli, che non ha parlato del cadavere”. Attilio era mancino e i buchi degli aghi, come risulta, si trovavano sul polso e nel gomito sinistri, altro particolare emerso.

Mamma Angela parla chiaro: “Il procuratore generale Antimafia disse in un’intervista: ‘Portino le prove’, ma allora lui che ci sta a fare, mi domando? 19 anni per avere le prove… Un valido sostegno lo abbiamo avuto dall’avvocato Fabio Repici che conosce a fondo la mafia di Barcellona”.

LE VERITÀ DELLA COMMISSIONE ANTIMAFIA

L’attività della Commissione Antimafia – dichiara alla Dire la deputata del Movimento 5 Stelle Stefania Ascari che ne fa parte – ha consentito di approfondire la vicenda sulla morte del medico Attilio Manca a partire dall’individuazione di nuovi elementi. Particolarmente importanti sono state le dichiarazioni ritenute credibili dei collaboratori di giustizia, che, se confrontate con le circostanze ricostruite, ci portano a sostenere l’ipotesi dell’omicidio di mafia e non del suicidio né tantomeno dell’overdose di eroina. Spetta ora alla magistratura chiarire il ruolo di mandante, organizzatore o esecutore. L’obiettivo è che questa relazione sia il punto di inizio per accertare la verità dei fatti e i nomi dei colpevoli e che si possa rivalutare l’immagine che negli anni è stata data del dottor Attilio Manca. Lo dobbiamo a lui, alla sua famiglia, a tutti noi”, sottolinea.

ORA SI APRANO INDAGINI, SIAMO STATI LASCIATI SOLI”

Denuncia la mamma di Attilio: “C’è già pronto il sostituto di Messina Denaro. La mafia non finirà finché i politici si affideranno alla mafia. Ma io mi auguro che finalmente si aprano le indagini sulla morte di mio figlio – conclude – siamo stati lasciati soli. Abbiamo lottato tra mille difficoltà. Non passino tutti per eroi adesso”.

Le notizie del sito Dire sono utilizzabili e riproducibili, a condizione di citare espressamente la fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo dire.it

La commissione parlamentare: "Morte Attilio Manca fu omicidio di mafia legato a contatti con Provenzano". Palermo Today il 21 gennaio 2023. Fonte: ViterboToday il 18 Febbraio 2023.

La relazione dei deputati dell'Antimafia sul caso dell'urologo che avrebbe negato le cure al superboss e che, a 34 anni, venne trovato privo di vita in casa nel 2004

"La morte di Attilio Manca è legata a probabili contatti avuti con Bernardo Provenzano". Una "ipotesi assai verosimile" per la Commissione parlamentare antimafia che, dopo averla approvata sul finire della scorsa legislatura, ha reso pubblica la relazione su "Nuovi elementi emersi circa la morte di Attilio Manca". Ben 136 pagine incentrate sul caso dell'urologo dell'ospedale di Belcolle, originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), trovato morto nel 2004 nella sua casa di Viterbo a 34 anni, che avrebbe negato le cure al superboss corleonese.

"Uno dei casi che si sono verificati nel nostro paese - scrive la Commissione - che non sono stati chiariti dall’autorità giudiziaria". Un caso ritenuto un'overdose da eroina. Ma la famiglia Manca da sempre sostiene la tesi secondo cui sarebbe stato ucciso per coprire un intervento subito da Provenzano a Marsiglia, in Francia. Per la Commissione, però, "non è stato possibile determinare il momento esatto in cui le vite del medico e del latitante si siano incrociate".  Secondo i membri della Commissione, "nonostante i media abbiano rilanciato, come ipotetico momento di contatto tra Attilio Manca e Bernardo Provenzano, l’operazione chirurgica avvenuta in Francia, le ipotesi non si esauriscono certamente con l’intervento di prostatectomia. Il medico avrebbe potuto, su richiesta della famiglia mafiosa barcellonese, provvedere all’individuazione del chirurgo francese (avendo egli studiato e lavorato in Francia per diverso tempo). Potrebbe essere stato il medico scelto inizialmente dal latitante per eseguire l'intervento e ciò giustificherebbe il rientro di Provenzano in Italia a seguito della biopsia. Potrebbe essere stato il medico a cui si rivolsero esponenti e referenti dell’articolazione barcellonese di Cosa Nostra per effettuare la visita di controllo a tre mesi dall’intervento. Potrebbe essere stato, infine, il medico che, nella situazione d’urgenza in cui venne a trovarsi il boss mafioso, descritta dal collaborante Stefano Lo Verso, ebbe a prestargli le cure d’emergenza.  

"È evidente, pertanto - ritiene la Commissione -, che il fatto per cui il nome e/o la presenza di Attilio Manca non siano emersi dalle indagini condotte dall’autorità giudiziaria di Palermo sulla trasferta francese di Bernardo Provenzano non solo non è dirimente, ma risulta insufficiente per affermare che il medico e il latitante non ebbero mai contatti".  

La relazione della Commissione antimafia è un elemento in più a sostegno della tesi della famiglia. Una ricostruzione che, però, finora non ha mai trovato riscontro nelle varie indagini fatte sul caso.  La Commissione scrive che la morte di Manca è "imputabile a un omicidio di mafia" e "l’associazione mafiosa che ne ha preso parte (non è chiaro se nel ruolo di mandante o organizzatrice o esecutrice)" è "da individuarsi in quella facente capo alla famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto".

Per la Commissione antimafia l'omicidio è "l'unica ipotesi ragionevole e priva di contraddizioni con i dati obiettivi delle modalità della morte di Manca, le informazioni fornite dai collaboratori di giustizia, gli elementi raccolti sui contatti fra la latitanza di Provenzano e il territorio di Barcellona Pozzo di Gotto e della provincia di Messina e, infine, le considerevoli opacità su aspetti rilevantissimi riguardanti le cure sanitarie in favore del latitante corleonese". Fonte: ViterboToday

La relazione sul 34enne morto nel 2004. Attilio Manca ucciso dai clan di Cosa Nostra, l’Antimafia smonta la pista suicidio per l’urologo: “Morte legata ai contatti con Provenzano”. Redazione su Il Riformista il 20 Gennaio 2023

C’era la mafia dietro la morte, il 12 febbraio 2004, di Attilio Manca. È la conclusione della relazione finale sui “nuovi elementi emersi” sul caso approvata dalla Commissione parlamentare antimafia della XVIII legislatura.

Un testo di 136 pagine in cui si nega che la morte dell’urologo 34enne di Barcellona Pozzo di Gotto, trovato cadavere il 12 febbraio 2004 nella sua casa di Viterbo, sia dovuta ad un suicidio o ad overdose.

La morte di Manca, che lavorava da poco meno di due anni all’ospedale Belcolle, è “imputabile ad un omicidio di mafia”, si legge infatti nel documento, e “l’associazione ne ha preso parte (non è chiaro se nel ruolo di mandante o organizzatrice o esecutrice) è da individuarsi in quella facente capo alla famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto”.

A sostegno di questa tesi, scrive la Commissione parlamentare antimafia della scorsa legislatura, ci sono anche le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, “rese da soggetti che sono stati ritenuti credibili da parte delle diverse autorità giudiziarie che se ne sono occupati e che non risulta siano stati mai neppure indagati per i reati di calunnia e di false dichiarazioni al pm”, si legge nel documento riportato dall’agenzia Agi.

Nel giugno dello scorso anno il portale web Antimafiaduemila aveva riportato un’intercettazione ambientale di fine 2003 di uomini vicini al capoclan di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, al tempo ancora latitante. Questi dissero che era necessario “fare una doccia” a un medico per aver negato le cure al boss, ossia avrebbero dovuto eliminarlo. Quel medico, sebbene non venga nominato, sarebbe appunto Attilio Manca.

Anche secondo l’Antimafia, che ha approvato la relazione sul finire della scorsa legislatura e che ora è stata resa pubblica, l’ipotesi “assai verosimile” è quella “per la quale la morte di Attilio Manca sia legata ai probabili contatti da questi avuti con Bernardo Provenzano. Non è stato possibile, però, determinare il momento esatto in cui le vite del medico e del latitante si siano incrociate“.

Per la Commissione Antimafia l’omicidio è “l’unica ipotesi ragionevole e priva di contraddizioni con i dati obiettivi delle modalità della morte di Manca, le informazioni fornite dai collaboratori di giustizia, gli elementi raccolti sui contatti fra la latitanza di Provenzano e il territorio di Barcellona Pozzo di Gotto e della provincia di Messina e, infine, le considerevoli opacità su aspetti rilevantissimi riguardanti le cure sanitarie in favore del latitante corleonese”.

La famiglia del giovane urologo morto 18 anni non aveva mai creduto alla tesi dell’overdose o del suicidio e la risultanze emerse dalla relazione dell’Antimafia confermano quanto sempre denunciato dai familiari di Attilio Manca.

In particolare la scena del ‘delitto’ non è compatibile con un suicidio per overdose: tra gli elementi descritti nella relazione dell’Antimafia “la copiosa quantità di sangue trovata sulla scena del delitto; i segni delle punture di eroina rinvenute nel braccio sinistro, incompatibili con il mancinismo puro del Manca e con la sua pessima abilità con la mano destra; le siringhe trovate perfettamente chiuse, con il tappo di protezione; l’assenza di propositi suicidari in capo al Manca; l’assenza di materiale per la preparazione dell’eroina e del laccio emostatico per l’iniezione endovena; l’assenza di pantaloni e di biancheria intima sul corpo della vittima nonostante il mese invernale; la totale assenza di impronte su una delle siringhe usate per iniettare l’eroina e il microscopico frammento, non utilizzabile per comparazioni dattiloscopiche, ritrovato sulla seconda”.

"Fategli la doccia": la morte del medico che negò le cure a Provenzano, intercettazione riapre il caso. Palermo Today il 4 giugno 2022.

Potrebbe essere a una svolta la vicenda della tragica fine di Attilio Manca, trovato senza vita il 12 febbraio del 2004. L'allora boss latitante si trovava in Francia per essere operato alla prostata ma avrebbe ricevuto un secco "no" dal professionista

Potrebbe essere a una svolta la vicenda della morte dell'urologo di fama nazionale Attilio Manca, trovato morto il 12 febbraio del 2004. Secondo quanto riporta Antimafiaduemila pochi giorni prima del viaggio in Francia, dove si trovava l'allora boss latitante Bernardo Provenzano per essere operato alla prostata, il capomafia avrebbe ricevuto un secco no da un medico a cui i suoi uomini si erano rivolti per prestargli le cure di cui aveva bisogno. Quel medico sarebbe stato Attilio Manca. "Per questo, i gregari del boss decisero: a quel dottore, macchiatosi di una colpa imperdonabile a causa del suo rifiuto, "andava fatta una doccia". In altre parole, doveva essere eliminato", scrive il sito.

Queste informazioni - finora inedite - sono contenute in un'intercettazione ambientale risalente gli ultimi mesi del 2003. Ai tempi la procura di Roma aveva aperto un fascicolo per la ricerca latitanti e aveva piazzato le sue microspie in una masseria dove, insieme a Provenzano (la cui voce venne registrata per la prima volta dall'inizio della sua latitanza), c'erano sei o sette uomini. "Quegli uomini, per varie volte nel corso della giornata, ripeterono la loro condanna a morte senza, tuttavia, pronunciare mai il nome del medico. Ora, però, l'esistenza di questa intercettazione potrebbe contribuire alla riapertura delle indagini sulla morte di Attilio Manca, giovane e brillante urologo siciliano, morto nella notte tra l'11 e il 12 febbraio 2004 a Viterbo, la città in cui lavorava da meno di due anni all'ospedale Belcolle", scrive Antimafiaduemila.

Parla Ingroia, legale della famiglia Manca

"Intanto bisogna verificare se questa intercettazione esiste, se così fosse e se fosse vera anche la collocazione temporale di questa intercettazione, che è antecedente alla morte dell'urologo Attilio Manca. Se fosse così, la prima domanda che mi faccio è: questa intercettazione chi l'ha fatta? E cosa ne è stato fatto?"dice all'Adnkronos l'avvocato Antonio Ingroia, ex Procuratore aggiunto di Palermo, e oggi legale della famiglia di Attilio Manca, l'urologo trovato senza vita nel 2004. Secondo la famiglia il medico non si sarebbe suicidato, ma sarebbe stato ucciso dagli uomini di Provenzano perché si sarebbe rifiutato di operare il boss a Marsiglia, dove era latitante. Fu trovato con dei fori di siringa nel braccio sinistro e una iniezione letale di droga. Per la famiglia e il legale una messinscena.

Nel corso degli anni, cinque collaboratori di giustizia - Giuseppe Setola, Carmelo D'Amico, Stefano Lo Verso, Giuseppe Campo e Antonino Lo Giudice - hanno detto ai magistrati che quello di Manca era un omicidio. Adesso l'avvocato Ingroia chiede chiarezza: "Mi chiedo, gli ufficiali di Polizia giudiziaria che avrebbero fatto questa intercettazione l'hanno consegnata alla Procura di Palermo? Su quale scrivania l'hanno consegnata? E che sorte ha avuto? Se fosse vero, sarebbe una notizia enorme. Significa anche che Attilio Manca poteva essere salvato, se si fosse intervenuti tempestivamente". "La famiglia ha subito parlato di fatti strani, collegati a Marsiglia e a Provenzano - dice Ingroia - avremmo certamente risparmiato 20 anni di indagini a vuoto, se qualcuno le avesse tempestivamente segnalato. Il primo a cui chiedere qualcosa sarebbe l'allora Procuratore capo di Palermo Pietro Grasso, che seguiva da vicino questa vicenda. Io c'ero in quel periodo in procura e mi chiedo sulla scrivania di quale pm è andata questa intercettazione?". fonte Adnkronos

Omicidio Attilio Manca: annunciata istanza della famiglia alla procura di Roma. Luca Grossi il 17 Febbraio 2023 su antimafiaduemila.com

Avv. Fabio Repici: accertamento sulla sua morte "scompaginerebbe gli equilibri del potere"

La relazione della Commissione parlamentare antimafia della scorsa legislatura sulla morte del giovane urologo siciliano Attilio Manca parla chiaro: è stato un omicidio maturato in contesto mafioso "tra la cosca mafiosa barcellonese e soggetti istituzionali estranei a Cosa Nostra".

Sulla base delle conclusioni dei parlamentari e delle indagini difensive, l’avvocato della famiglia, Fabio Repici, chiederà nei prossimi giorni alla Direzione distrettuale antimafia di Roma di riaprire le indagini.

Una decisione, questa, annunciata ieri alla conferenza tenutasi alla Sala Stampa della Camera dei Deputati ‘Nuovi elementi sulla morte del medico Attilio Manca’ in cui sono stati presenti la onorevole Stefania Ascari e l'ex deputata Piera Aiello, prime firmatarie della relazione, il legale Repici e la dottoressa nonché consulente della commissione antimafia Federica Fabretti.

Di fatto nella relazione "approvata all'unanimità" ha detto Ascari, vi sono dichiarazioni di "collaboratori di giustizia che di fatto dicevano che si era trattato di omicidio, non di suicidio, e con collegamenti con la mafia barcellonese e addirittura anche con elementi esterni alla mafia".

Collaboratori come Francesco Pastoia, (boss di Belmonte Mezzagno morto in carcere a Modena ufficialmente per suicidio e il cui corpo è stato poi bruciato dopo essere stato trafugato dalla tomba), Biagio Grasso, Carmelo D'Amico e Stefano Lo Verso.

"In tutti questi casi - ha continuato la parlamentare - si parla di omicidio. Noi ci siamo chiesti come sia stato possibile che collaboratori di giustizia, che si sono autoaccusati di delitti gravissimi" e che "sono stati ritenuti credibili e affidabili”, siano stati in seguito non ritenuti credibili in relazione alle dichiarazioni su Attilio Manca.

La commissione nel corso della sua attività ha anche acquisito una quantità notevole di documenti, un compito assai difficile: "Non è stato facile" - ha detto Piera Aiello - "speriamo che la procura riapra il caso. Noi siamo pronti a testimoniare su questo caso, che lo abbiamo vissuto in prima persona, e ci mettiamo a disposizione ulteriormente".

Certamente l'accertamento della verità sulla morte di Attilio Manca "sarebbe già di per sé un risultato così rivoluzionario che comunque scompaginerebbe gli equilibri del potere, gli equilibri giudiziari e qualunque altra cosa" ha detto Fabio Repici. "Naturalmente l'accertamento sull'omicidio di Attilio Manca porterebbe con sé fisiologicamente ricadute nella ricostruzione della storia in relazione alla latitanza di Bernardo Provenzano, sulla quale sappiamo molto ma non sappiamo tutto", ha continuato. "Magari con la verità e la giustizia completa sull'omicidio di Attilio Manca non dico che arriveremo a sapere tutto, ma probabilmente e sicuramente ne sapremo di più e probabilmente sapremo almeno quasi tutto" ha concluso.

Fabio Repici: "La gestione della latitanza di Bernardo Provenzano era nelle mani dei mafiosi di Villabate e di Bagheria"

Nella relazione, come riportato dall'avvocato Fabio Repici, non vi è stata una "separatezza fra la mafia palermitana, il circuito mafioso palermitano che aveva la responsabilità della latitanza di Bernardo Provenzano, e le entità mafiose della provincia di Messina. Con grande acutezza vengono rilevate le connessioni che da ben prima dell'omicidio di Attilio Manca esistevano fra la mafia della provincia di Messina e la mafia provenzaniana 'doc'. Vengono rilevati degli elementi che la magistratura non aveva per nulla preso in considerazione", come ad esempio, "il fatto che nel 2004 e inizio 2005, ci fu un imprenditore messinese che collaborò con la giustizia e che riferì alla magistratura di aver incontrato personalmente Bernardo Provenzano a casa non di un mafioso qualunque, ma del capo di Cosa Nostra della città di Messina che si chiamava Michelangelo Alfano, e che non a caso era originario di Bagheria, cioè della culla mafiosa che ha visto la crescita di Bernardo Provenzano dalla fine degli anni settanta fino a quando si impossessò del comando di Cosa Nostra. Questo elemento è importantissimo perché in realtà si abbina in maniera davvero impressionante con le risultanze che poi vengono fuori anche dagli atti del processo Grande Mandamento. Lì c'è la prova che nel periodo dei problemi di salute di Bernardo Provenzano e nel periodo dell'omicidio di Attilio Manca la gestione della latitanza di Bernardo Provenzano era nelle mani dei mafiosi di Villabate e di Bagheria e di alcuni capi mafia in particolare, fra cui Onofrio Monreale".

"Nella relazione della commissione antimafia - ha continuato il legale - ci sono gli spunti che fanno comprendere come quel circuito provenzaniano in realtà avesse sponde ufficialmente accertate a Barcellona e in provincia di Messina".

Fabio Repici ha sottolineato anche "un dato ufficiale, un dato oggettivo, documentale, che si abbina a quanto già detto. Attilio Manca era uno dei massimi esperti di tumore alla prostata in Italia, nonostante la giovane età; Attilio Manca aveva svolto a lungo la sua attività professionale in Francia; Attilio Manca fra il 18 e il 21 giugno del 2003 fu in Francia in una zona non distante dalle cliniche nelle quali a luglio e a ottobre del 2003 fu ricoverato Bernardo Provenzano. E aggiungo: c'è una strabiliante connessione cronologica fra il rientro di Attilio Manca il 21 giugno del 2003 in Italia, dopo tre giorni di trasferta in Francia indicati da un collega di lavoro che ne aveva avuto notizia" e "l'avvio della pratica amministrativa a nome di Gaspare Troia, la falsa identità con cui Bernardo Provenzano viaggiò verso la Provenza", avviata presso l'ASL di Palermo il 23 giugno, "cioè due giorni dopo il rientro in Italia di Attilio Manca".

Federica Fabretti: “Omicidio è altamente probabile essere collegato con la figura del boss Bernardo Provenzano”

"Gli elementi che sono emersi a seguito dell'inchiesta hanno consentito di ribaltare le conclusioni della relazione di maggioranza della relazione precedente" - ha detto la dottoressa Fabretti - perché la morte è "imputabile ad un omicidio di mafia". Non è stato possibile - ha precisato - chiarire se l'organizzazione mafiosa che ne ha preso parte ha avuto il ruolo di "mandante o di organizzatrice o di esecutrice o più di uno".

Sicuramente, però, si è trattata della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto e "l'omicidio è altamente probabile essere collegato con la figura del boss Bernardo Provenzano in particole alla protezione della sua latitanza".

Quella latitanza che la sentenza di Appello del processo trattativa stato - mafia dice essere stata favorita in modo 'soft'.

Tutto avvenne, si legge nelle motivazioni della sentenza, non perché ci fossero collusioni o "patti" (promesse e benefici) da onorare ma perché i carabinieri del Ros ritenevano che la leadership di Provenzano "avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato".

Un altro elemento che è stato oggetto di profonda indagine dei commissari è stata la figura di Monica Mileti che, secondo la procura di Viterbo avrebbe venduto l'eroina ad Attilio Manca. La donna, ricordiamo, è stata assolta dal Tribunale di Roma "perché il fatto non sussiste".

"Abbiamo posto l'attenzione sulle due utenze cellulari di Monica Mileti che erano intestate ad altre persone - ha continuato - la prima delle quali aveva avuto contatti telefonici con Attilio Manca ed è casualmente sparita tra il primo verbale e il secondo verbale in cui è stata sentita dalla squadra mobile di Viterbo".

Un'altra cosa su cui è stata posta l'attenzione sono stati gli "amici" di Attilio Manca: “Hanno messo a verbale dichiarazioni che suggerivano una tossicodipendenza di Attilio. Queste persone, due in particolare, Ugo Manca e Lelio Coppolino sentiti a verbale dall'autorità giudiziaria all'inizio, subito dopo la morte di Attilio Manca avevano negato la circostanza che il dottore Manca fosse tossicodipendente per fare un'inversione di centottanta gradi nel momento in cui la famiglia Manca anche con delle denunce all'autorità giudiziaria ha iniziato a ipotizzare il coinvolgimento della mafia nella morte del figlio". I commissari hanno anche recuperato una relazione del Ros che riferiva di una "ipotetica permanenza del boss latitante (Provenzano, ndr) in quel momento in un convento di frati minori di Sant'Antonio da Padova di Barcellona Pozzo di Gotto". Una fonte avrebbe rivelato inoltre ad "un carabiniere del Ros di Messina che la latitanza sarebbe stata protetta all'interno di questo convento da un frate" che si chiamava "Salvatore Massimo Ferro”, uno dei “figli di Antonio Ferro capomafia di Canicattì e nipote di Salvatore Ferro, un altro personaggio che era stato individuato come uno dei partecipanti all'incontro che tenne Provenzano nel casolare di Mezzojuso. Quello che poi venne trattato nel processo a carico di Mario Mori e Mauro Obinu", quel famoso processo "per la mancata cattura di Provenzano".

Altro dato di particolare rilevanza è l'esistenza di una intercettazione ambientale del 2003 pubblicata per la prima volta da ANTIMAFIADuemila: i gregari del boss avevano deciso che a quel dottore, "andava fatta una doccia". In altre parole, doveva essere eliminato.

Ma ci fu chi lo uccise una seconda volta, bollandolo dopo la sua morte come un tossicodipendente.

Anche questa menzogna è stata smentita dalla commissione antimafia.

E forse molte altre verranno diradate dalle indagini della Procura di Roma, se e quando ci saranno.

Da "Oggi" il 19 maggio 2021. In un’intervista esclusiva al settimanale OGGI, in edicola da domani, la signora Angela, madre di Attilio Manca, il medico siciliano morto per overdose il 10 febbraio del 2004, spiega perché è sempre più convinta che suo figlio sia stato ucciso dalla mafia: «La pretesa pusher di Attilio è stata scagionata perché il fatto non sussiste. Quindi mio figlio non ha acquistato l’eroina da nessuno. Si tratta semmai di scoprire chi gliel’ha iniettata brutalmente… un dato è certo: ora il caso si riapre». Manca era un urologo all’avanguardia, fu costretto a operare in Francia il boss Provenzano, durante la sua latitanza. Era un testimone scomodo. «È stato un omicidio mascherato, non l’hanno saputa neppure architettare bene la loro messinscena», racconta Angela, che da 17 anni lotta per conoscere la verità sulla fine di Attilio. Sono tanti i particolari che non quadrano: «Mio figlio non si drogava. Inoltre i segni delle punture di eroina nel braccio sinistro sono incompatibili con il fatto che era mancino. Ho fiducia nella giustizia. Finché avrò vita combatterò».

Attilio Manca avrebbe operato il boss Bernardo Provenzano e per questo doveva morire. L’urologo, 34 anni, di Barcellona Pozzo di Gotto fu trovato morto l’11 febbraio 2004 nella sua casa di Viterbo. Luciana De Luca su Il Quotidiano del Sud il 12 aprile 2021. Depistaggi, insabbiamenti, pentiti non ritenuti attendibili o morti dopo aver parlato. La storia di Attilio Manca, il giovane urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, trovato senza vita il 11 febbraio del 2004 nel suo appartamento di Viterbo, apparentemente ucciso da una overdose, è un vero e proprio mistero che, probabilmente, non si vuole risolvere. Ma la sua famiglia, con la madre Angela Gentile in testa, vuole capire cosa è successo veramente ad Attilio, ucciso due volte dice, perché oltre ad avergli rubato la vita, hanno anche tentato di macchiare la sua immagine. Dietro la tragica morte del brillante medico c’è l’ombra del boss Bernardo Provenzano e di un intervento chirurgico alla prostata eseguito nella clinica “La Ciotat” di Marsiglia al quale, probabilmente, avrebbe partecipato. «Attilio era come si vede nelle foto: gioioso, solare, allegro, molto intelligente ed ironico – spiega Angela -. Quando veniva a casa e ci intratteneva con qualche barzelletta, iniziava a ridere già prima di finire di raccontarla. Mio figlio era un ragazzo profondamente sensibile e i suoi occhi rivelavano tutti i suoi sentimenti, erano di un’espressività unica oltre che essere bellissimi, cangianti: andavano dall’azzurro al verde e qualche volta diventavano persino grigi. Io sono sempre stata il suo punto di riferimento fin da piccolino, mi raccontava tutto, avevamo una grande complicità: gioivo dei suoi successi e mi rattristavo quando gli capitava qualcosa di negativo. Anche da adulto, quando tornava da Roma, la mattina diceva al padre di preparare il caffè mentre lui si metteva con me nel letto per poter chiacchierare. Attilio mi telefonava anche due volte al giorno e addirittura lo faceva anche durante l’intervallo tra un paziente e l’altro». Angela ricorda di quando andava a parlare con gli insegnanti di Attilio e si trovava in fila con gli altri genitori. Lei si sentiva sempre in imbarazzo per ciò che si sentiva dire: il suo ragazzo, da alcuni professori, veniva indicato come il miglior studente avuto nella loro intera carriera scolastica e una di loro, con grande franchezza, ammise di avere quasi timore delle domande di Attilio. “Lui aveva una grande sete di conoscenza e coltivava molti interessi – continua Angela -. La sua cultura spaziava dalla letteratura alla chimica, era bravo in tutto. A 18 anni entrò all’università Cattolica di Roma e dopo essersi laureato in medicina entro al Policlinico Gemelli di Roma per specializzarsi in Urologia e l’ultimo anno lo fece a Parigi dove apprese quella maledetta tecnica chirurgica della laparoscopia”. Attilio, dopo la licenza liceale, era indeciso se frequentare la facoltà di ingegneria informatica o quella di medicina. Se non fosse riuscito ad entrare alla Cattolica, nei suoi piani c’era già l’idea di iscriversi all’università di Pisa. Ma, senza alcuna raccomandazione, fu preso al Sacro Cuore. Anche l’Urologia non era mai stata nei suoi pensieri, lui avrebbe voluto fare il neurochirurgo, ma quando presentò la domanda per la specializzazione, c’erano già molti colleghi in lista di attesa e avrebbe dovuto aspettare almeno tre anni per entrare. In Urologia, invece, c’era subito la disponibilità sia a Padova che a Roma, e Attilio scelse la sede più vicina a casa. “Quando Attilio fece il primo intervento con la nuova tecnica chirurgica acquisita a Parigi – continua Angela – aveva appena trent’anni. Lui era felicissimo del fatto che aveva portato la laparoscopia in Italia. E lavorò al Gemelli fino a due anni prima di essere ucciso. Mio marito e io andavamo a trovarlo spesso a Roma e un pomeriggio mi disse che c’erano dei concorsi per entrare in ospedale sia a Viterbo che a Collegno, in provincia di Torino, e che li avrebbe fatti entrambi. Anche questa volta risultò vincitore nelle due sedi e dovendo scegliere, purtroppo, decise per quella di Viterbo”. Angela parla di un tragico destino, di tanti pezzi che compongono un puzzle e che lentamente, sia per scelte fatte che per decisioni apparentemente banali, portano Attilio ad incrociare il destino di altre persone. Come quello di Bernardo Provenzano. “Nessuno di noi aveva mai saputo niente di Provenzano – spiega Angela -ma ricordo perfettamente che nel mese di ottobre del 2003 Attilio ci chiamò da Marsiglia e a mio marito disse che doveva assistere a un intervento chirurgico. Il padre, allora, visto che si trovava in Francia, lo invitò a visitare la Costa Azzurra ma lui rispose che era stato impegnato a lungo e che stava già tornando a casa. Attilio in quel periodo veniva chiamato da molti ospedali d’Italia per interventi chirurgici e la notizia che si trovasse in Francia, in noi non destò nessuna sorpresa. Quella telefonata, però, dopo la sua morte, sparì dai tabulati telefonici. Un altro elemento importante è questo: Attilio per la ricorrenza dei morti, scendeva sempre in Sicilia. Quell’anno non lo fece perché ci riferì che era tornato da poco da Marsiglia ed era ancora stanco. Infatti, venne da noi soltanto il 5 novembre. Su questo passaggio, di cui siamo certi, è stato detto il falso da parte di chi avrebbe dovuto indagare. Mio figlio in quei giorni risultava assente dall’ospedale e non il contrario, come è stato affermato”.

Le verità dei pentiti: Giuseppe Setola. Il primo che parlò dell’omicidio di Attilio Manca fu il casalese Giuseppe Setola. “Setola – si legge nella relazione della Commissione Antimafia – “riferì ai magistrati di aver appreso in carcere dal boss barcellonese Giuseppe Gullotti che il medico era stato assassinato dalla mafia dopo che era stato coinvolto nelle cure all’allora latitante Bernardo Provenzano”. Quando Attilio ritornò in Sicilia per le vacanze di Natale, ad Angela apparve strano, non usciva più di casa e preferiva passare le giornate a leggere nella sua stanza. Quando la madre gli chiese come mai non trascorreva del tempo con i suoi amici abituali, lui le rispose che con quelle persone non si trovava più bene e che non vedeva l’ora di ritornare a Viterbo per stare con i suoi colleghi. Angela vide del disagio in suo figlio ma lui non andò mai oltre queste affermazioni. Nella tragica fine di Attilio Manca, secondo quanto riferito da alcuni pentiti, gioca un ruolo importante anche un parente del giovane medico in odore di mafia, che nonostante si sia dichiarato sempre estraneo ai fatti, sembra, invece, abbia giocato un ruolo determinante nel creare un contatto con il boss dei boss. Attilio potrebbe essere stato ammazzato nel timore che rivelasse dettagli sulla latitanza di Provenzano che sarà arrestato due anni dopo. Le palesi contraddizioni in questo caso di presunto suicidio sono molte. Il primo riguarda un elemento mai preso in considerazione dagli investigatori ma che per i colleghi di Attilio e i suoi genitori Angela e Gioacchino è determinante: Attilio era mancino eppure i buchi degli aghi si trovavano sul polso e nel gomito sinistri. Il medico non usava mai la destra, come avrebbe, dunque, potuto iniettarsi l’eroina? Inoltre, sulla siringa non fu mai trovata nessuna impronta e l’immagine post mortem del giovane chirurgo, evidenzia con grande chiarezza che fu sottoposto a un pesante pestaggio che gli procurò persino la deviazione del setto nasale. “Io ed Attilio eravamo molto amici e ci frequentavamo anche fuori dall’ambiente ospedaliero – confermò il collega Massimo Fattorini – lui era mancino e nel suo lavoro utilizzava solo la sinistra, sia per scrivere che per svolgere ogni altra attività. A differenza di altri dottori mancini, che riescono ad utilizzare anche la destra, lui non poteva farlo perché era un mancino puro e quindi con la destra escludo che potesse fare dei movimenti precisi come quelli di farsi un’iniezione”.

Le verità dei pentiti: Lo Verso e D’Amico. Il pentito bagherese Stefano Lo Verso e il collaboratore di giustizia barcellonese Carmelo D’Amico che sentito sul conto di Rosario Pio Cattafi, ha dichiarato che Attilio Manca è stato assassinato dopo che, per interessamento di Cattafi e di un generale legato al circolo barcellonese Corda Fratres, era stato coinvolto nelle cure dell’allora latitante Provenzano. Manca era stato poi assassinato, con la subdola messinscena della morte per overdose, da esponenti dei servizi segreti e in particolare da un killer operante per conto di apparati deviati, le cui caratteristiche erano la mostruosità dell’aspetto e la provenienza calabrese. “I primi ad essere avvisati della morte di nostro figlio furono Ugo Manca e suo padre – spiega Angela -. Ugo, in particolare, riferì di aver avuto la notizia dal dottor Rizzotto, il primario di mio figlio. È lecito chiedersi come faceva Rizzotto ad avere il numero di Ugo Manca. E come mai non chiamò noi che eravamo i suoi genitori? Quando vennero a dirci che Attilio era morto si presentarono già con le prenotazioni aeree fatte. Io ero stata finanche estromessa dal viaggio. Il giorno dopo riuscirono anche a convincerci a non vedere il corpo di Attilio perché era meglio ricordarlo da vivo. E io da 17 anni vivo con il rimorso di non aver fatto l’ultima carezza a mio figlio. Io da madre avrei capito tante cose guardando il suo corpo”. Nella casa di Attilio Manca venne trovata una sola impronta, in bagno, ed era del cugino di Attilio, Ugo Manca, ospite pochi mesi prima. Alla famiglia venne detto che il medico era morto per un aneurisma e che la deviazione del setto nasale era stata determinata dalla caduta improvvisa di Attilio sul telecomando che si trovava sul letto. L’autopsia sul corpo di Attilio fu eseguita dalla dottoressa Ranalletta, moglie del primario dell’ospedale dove lavorava il giovane urologo e secondo la Commissione antimafia presieduta di Rosi Bindi, oltre ad essere lacunosa non avrebbe neanche verbalizzato i presenti. Le indagini imboccarono immediatamente la pista del suicidio per overdose perseguita in tre richieste di archiviazione e magistrati non si allontanarono da quell’ipotesi neanche dopo le dichiarazioni di sei pentiti di mafia che rivelarono il viaggio a Marsiglia di Provenzano e di un urologo siciliano che lo avrebbe operato. Un altro indizio strano riguarda il giorno prima della morte di Attilio. Il medico telefonò a sua madre per chiederle con urgenza, di far revisionare la sua motocicletta che si trovava a Barcellona, nella villa del mare. Angela si stupì di questa richiesta visto che ancora mancavano molti mesi per le vacanze estive e solo a posteriori si chiese se il figlio avesse voluto darle qualche messaggio. In effetti, tempo dopo si parlò di una presunta permanenza post operatoria di Provenzano a Tonnarella.

Le verità dei pentiti: Antonino Lo Giudice. Nella relazione Antimafia si legge: “Il collaboratore di giustizia calabrese Antonino Lo Giudice, il quale ha spiegato ai magistrati di aver appreso dall’ex poliziotto Giovanni Aiello che costui si era occupato, insieme ad altri delitti, anche dell’uccisione dell’urologo barcellonese Attilio Manca su incarico di tale “avvocato Potaffio” identificabile in Rosario Pio Cattafi”. Anche questa telefonata pare sia scomparsa dai tabulati telefonici. “Nell’ultimo giorno di vita di mio figlio c’è un vuoto di 28 ore – conclude Angela -. L’ultima telefonata l’avrebbe fatta alle 8 del 10 febbraio e poi di lui non si è più saputo nulla. Cosa ha fatto? Lo hanno portato in Sicilia per visitare Provenzano come qualcuno dice? Chissà se sapremo mai la verità. Ma finché sarò in vita non smetterò di cercarla”. Nel febbraio scorso è stata assolta Monica Mileti, l’infermiera amica di Attilio Manca accusata di aver ceduto la dose fatale di eroina all’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto. Cade così, definitivamente, la falsa pista della droga e della menzogna. La famiglia Manca da molti anni si batte per sapere la verità sulla morte del figlio. Accanto a loro gli avvocati Antonio Ingroia, Fabio Repici e tante associazioni e movimenti che chiedono venga fatta luce su questa pagina nera di storia italiana.

Le verità dei pentiti: chi è Faccia da mostro. L’ex poliziotto Giovanni Aiello, in servizio alla squadra mobile di Palermo fino al 1977, fu in seguito messo a riposo per motivi fisici. Molti collaboratori di giustizia lo accusarono di essere stato un vero e proprio killer di Stato, al servizio di apparati deviati e di organizzazioni mafiose palermitane, catanesi e calabresi. Sulla sua appartenenza al mondo dei servizi segreti, è stato lo stesso Aiello a fornire conferma nel corso di alcune conversazioni intercettate dall’autorità giudiziaria. Aiello è deceduto per un improvviso infarto sulla spiaggia di Montauro, nei pressi di Catanzaro, il 21 agosto 2017, mentre era indagato dalla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria nel procedimento “’ndrangheta stragista”.

Attilio Manca, un'assoluzione rafforza la pista mafiosa: “Overdose indotta perché operò Provenzano”. Le iene News il 18 febbraio 2021. Assolta dopo la condanna in primo grado l’amica che gli avrebbe dato la dose fatale. Si rafforza 17 anni dopo l’ipotesi del delitto di mafia e dell’“overdose indotta” per la morte di Attilio Manca nel 2004. Il giovane e affermato medico avrebbe operato il capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano durante la sua latitanza e sarebbe stato ucciso perché sapeva troppe cose. L’assoluzione di una donna, condannata in primo grado per la cessione della droga che l’avrebbe ucciso, rafforza la pista dell’omicidio di mafia per la morte di Attilio Manca. Parliamo del giovane e affermato medico che avrebbe operato il capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano durante la sua latitanza e che è stato trovato morto misteriosamente nella sua casa a Viterbo nel 2004 per overdose di eroina. Noi de Le Iene ci siamo occupati di questo caso con Gaetano Pecoraro nel servizio che vedete qui sopra concentrandoci proprio sull’ipotesi di un’“overdose indotta” per coprire l’omicidio di mafia di un uomo che avrebbe saputo troppe cose sulla latitanza del boss. A Roma ora è stata appena assolta in Appello, perché “il fatto non sussiste”, Monica Mileti, la donna accusata della cessione dell’eroina che l’avrebbe ucciso. Si tratta di un’amica infermiera che era stata condannata in primo grado a 5 anni e 4 mesi. “Sono soddisfatto. La mia assistita era rimasta schiacciata in una storia in cui non c’entrava nulla”, ha dichiarato il suo avvocato Cesare Placanica. E il ribaltamento della sentenza, assieme al fatto che non è stato mai dimostrato che il medico si drogasse, rafforza, 17 anni dopo, l’ipotesi dell’omicidio per cui si sono battuti da sempre la famiglia di Manca e importanti esponenti della società civile che avevano portato il caso nel 2018 anche in commissione antimafia. Torniamo allora al febbraio 2004: Attilio Manca, noto urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), viene ritrovato morto a 34 anni in casa sua a Viterbo. Finora le inchieste hanno parlato di overdose di eroina unita a un mix di alcool e farmaci e il caso è stato archiviato come suicidio. “È stata un’overdose indotta, mio figlio è morto perché è stato ammazzato”, dice la madre Angelina a Gaetano Pecoraro. Secondo la versione della famiglia, Attilio è il medico italiano che nell’ottobre 2003 ha curato mentre era latitante il capo della Cupola Bernardo Provenzano (arrestato nel 2006 e morto nel 2016), quando si sarebbe operato alla prostata in un ospedale di Marsiglia. “Mio figlio in una telefonata mi disse che era a Marsiglia per un intervento”, racconta la madre alla Iena. Manca potrebbe anche aver operato Provenzano senza sapere che fosse il capo dei capi. Comunque sia, sarebbe stato un testimone scomodo di cui liberarsi. A legare la morte di Manca a quell’operazione sono state le testimonianze di alcuni pentiti ritenuti credibili, come quella di Giuseppe Campo: “A fine febbraio mi dissero che il medico era già stato ucciso e perciò non era più necessario il mio aiuto. Lo avevano eseguito ‘senza fare rumore’”. “Carmelo D’Amico ha detto che quello di Attilio Manca fu un omicidio”, ci ha spiegato il legale della famiglia. “Perché si era occupato delle cure a Bernardo Provenzano”. Secondo Giuseppe Campo, della morte di Manca si erano occupati il cugino Ugo Manca, a cui appartiene l’unica impronta palmare trovata in casa del medico, il mafioso Carmelo De Pasquale e una terza persona di cui diceva di non ricordare il nome. Ugo Manca ha detto di essere stato a casa del cugino qualche mese prima per essere curato dichiarando e allo stesso tempo di sapere che il cugino fosse eroinomane. Perché allora sarebbe andato a farsi curare da lui? Ci sono poi numerosi dubbi che avvolgono la scena in cui è stato trovato morto l’urologo siciliano, già molto noto nonostante la sua giovane età. Lo trovano una collega e una vicina di casa, disteso sul letto a pancia in giù con indosso la sola maglietta. Gli operatori del 118 intervenuti si accorgono anche che un testicolo era esageratamente gonfio e di lividi sul volto. I buchi attraverso cui Attilio si sarebbe iniettato la droga sono entrambi sul braccio sinistro. Sia i familiari che i colleghi però sostengono che Attilio fosse un mancino puro, che si sarebbe iniettato la droga dunque nell’altro braccio, nel caso. Inoltre, nella casa non c'erano gli strumenti usati di solito dai tossicodipendenti. “Non ho mai visto un’overdose così”, ci ha detto l’esperto tossicologo Salvatore Giancane. “Vogliamo verità e giustizia per la memoria di mio figlio”, chiede da 17 anni, e oggi con ancora più forza, mamma Angelina.

Fabrizio Peronaci per il "Corriere della Sera - Edizione Roma" il 17 febbraio 2021. Un medico affermato già a 34 anni, destinato a un luminoso avvenire nel campo dell'urologia, ma diventato tragicamente famoso per la sua fine: una morte avvolta nel mistero, con due aghi conficcati nel polso e nel gomito, il viso tumefatto e l'atroce sospetto di essere rimasto vittima di un'esecuzione di mafia. Il giallo di Attilio Manca, l'urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) trovato morto 17 anni fa a Viterbo, torna in primo piano: il Tribunale di Roma ha assolto in appello, perché «il fatto non sussiste», la donna accusata della cessione di eroina, Monica Mileti, che in primo grado era stata condannata a 5 anni e 4 mesi dai giudici del capoluogo della Tuscia. Un verdetto ribaltato, che rafforza lo scenario più agghiacciante, al quale hanno sempre creduto non solo la famiglia ma pezzi importanti della società civile, tanto che il caso Manca nel 2018 è stato affrontato dalla commissione Antimafia. Cosa accadde quella maledetta mattina dell'11 febbraio 2004 nell'abitazione viterbese del medico, che viveva da solo? L'ipotesi è quella di un omicidio compiuto tramite un'«overdose indotta», seguita da una messinscena, perché pochi mesi prima, come rivelato da alcuni pentiti, il dottore era stato segretamente in Francia per operare per un tumore alla prostata il boss Bernardo Provenzano, «Binnu 'u Tratturi». Una trasferta nata in seguito a contatti nella sua terra d'origine: in base a tale scenario, il dottor Manca (noto in Italia nonostante la giovane età per aver eseguito il primo intervento per via laparoscopica) potrebbe essere ammazzato nel timore che rivelasse dettagli sulla latitanza del boss (che sarà arrestato due anni più tardi). La più classica delle «tacitazioni testimoniali». Adesso, con l'assoluzione della donna accusata di aver procurato l'eroina, un'amica infermiera della vittima, il giallo riprende quindi quota, anche perché non è mai stato dimostrato che il chirurgo si drogasse. I suoi colleghi non avevano notato ematomi sulle braccia né lui aveva evidenziato segni di squilibrio. «Sono soddisfatto. La mia assistita era rimasta schiacciata in una storia in cui non c'entrava nulla», ha commentato l'avvocato Cesare Placanica, difensore dell'imputata. «La decisione di oggi ha sconfessato l'ipotesi della procura di Viterbo», ha sottolineato l'avvocato Fabio Repici, che rappresenta la famiglia, non ammessa come parte civile. I punti oscuri di questo inquietante cold case italiano sono numerosi, ma tre in particolare hanno suscitato perplessità. Il primo riguarda un elemento ritenuto ininfluente dagli investigatori, fin dall'inizio propensi per l'overdose solitaria in casa, e al contrario considerato centrale sia dai genitori Angela e Gioacchino sia dagli amici dell'urologo: Attilio era mancino ma i buchi degli aghi si trovavano sul polso e nel gomito sinistri. Possibile? Lo sventurato urologo come aveva potuto iniettarsi, con la mano destra che non utilizzava né per scrivere né per qualsiasi altra attività, le dosi mortali di eroina? Altro elemento alquanto enigmatico, la mancanza di impronte sulle siringhe repertate, una delle quali presentava persino il tappo «salta-stantuffo». E ancora, qualche settimana fa, hanno fatto discutere le rivelazioni all'Agi dell'avvocato Placanica, che ha difeso con passione la donna ora assolta: «La procura di Viterbo mi aveva detto: Falla confessare perché noi poi lo qualifichiamo quinto comma ed il quinto comma si prescrive a breve. Senonché io l'ho spiegato alla mia assistita e lei ha detto: Ma io posso confessare una cosa che non ho fatto?». Un quadro mai controverso, insomma. Sul quale si erano già a suo tempo innestate le dichiarazioni di almeno cinque pentiti, ascoltati in vari contesti giudiziari, tutti concordi, secondo quanto riportato nella relazione dell'Antimafia del febbraio 2018, nel dire che «Attilio Manca era stato assassinato dopo essere stato coinvolto nelle cure del latitante Provenzano in Francia». Giulia Sarti, deputata M5S della commissione Giustizia della Camera, ha così commentato la sentenza: «Cade la falsa pista della droga. Attilio Manca non si è mai drogato e non si è suicidato: è una vittima di mafia». E barlumi di sorrisi, finalmente, anche in famiglia. «Vogliamo verità e giustizia, non possiamo consentire che la memoria di mio figlio venga infangata in modo così indecente», va dicendo da oltre tre lustri la mamma dell'urologo, che da ieri è tornata a sperare.

Le Metastasi.

Il Riciclaggio.

Gli Appalti.

Le Holding mafiose.

Gli influencer.

Gli eco-affari.

Le Metastasi.

Ndrangheta domina il crimine, la Camorra si evolve: clan come imprese mafiose. By adnkronos su L'Identità il 14 Settembre 2023

La 'ndragheta si conferma assoluta dominatrice della scena criminale, mentre i gradi clan della camorra si evolvono in 'imprese mafiose' e la mafia in Sicilia mantiene saldo il controllo del territorio, rappresentando una 'attrattiva' per i giovani. E in Puglia il 'trend' si conferma in crescita. Questi alcuni dei dati emersi dalla Relazione semestrale della Dia sui fenomeni di criminalità organizzata di tipo mafioso del II semestre del 2022. Ecco cosa dice il report. "In ragione della coesa struttura, delle sue capacità 'militari' e del forte radicamento nel territorio, la ‘ndrangheta si conferma oggi l’assoluta dominatrice della scena criminale anche al di fuori dei tradizionali territori d’influenza con mire che interessano quasi tutte le Regioni (Lazio, Piemonte e Valle D’Aosta, Liguria, Lombardia, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo e Sardegna). Proiezioni che si spingono anche oltre confine e che coinvolgono molti Paesi europei (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Austria, Repubblica Slovacca, Albania e Romania), il continente australiano e quello americano (Canada, USA, Messico, Colombia, Brasile, Perù, Argentina, Australia, Turchia ed Ecuador)". "La situazione della criminalità organizzata in Calabria permarrebbe sostanzialmente immutata rispetto al precedente periodo dell’anno. Sul piano strutturale la ‘ndrangheta si conferma un’organizzazione a struttura unitaria, governata da un organismo di vertice, cd. 'provincia' o 'crimine', sovraordinato a quelli che vengono indicati come 'mandamenti' che insistono in 3 macroaree geografiche (il mandamento centro, quello jonico e quello tirrenico) e al cui interno operano le locali e le ‘ndrine, assetto ribadito anche dalle pronunce definitive emesse all’esito del noto processo 'Crimine'. – continua la relazione – Tuttavia, gli elementi emersi dalle inchieste concluse nel periodo in esame, nel prosieguo, hanno mostrato taluni aspetti d’interesse che, da un’attenta analisi, potrebbero rivelare possibili evoluzioni dei gruppi ‘ndranghetisti avvenute nei vari contesti di riferimento". "Fuori dalla regione d’origine, le cosche calabresi, oltre ad infiltrare significativamente i principali settori economici e produttivi, replicano i modelli mafiosi basati sui tradizionali valori identitari, con 'proiezioni' che fanno sempre riferimento al Crimine, quale organo unitario di vertice, che adotta ed impone le principali strategie, dirime le controversie e stabilisce la soppressione ovvero la costituzione di nuove locali. – evidenzia la relazione – Le inchieste ad oggi concluse hanno, infatti, permesso di individuare nel Nord Italia 46 locali, di cui 25 in Lombardia, 16 in Piemonte, 3 in Liguria, 1 in Veneto, 1 in Valle d’Aosta ed 1 in Trentino Alto Adige. Più di recente, anche in Emilia Romagna le attività d’indagine hanno gradualmente disvelato una ragguardevole incisività della ‘ndrangheta". "Le province di Napoli e Caserta rimangono i territori a più alta e qualificata densità mafiosa. È qui, infatti, che si registra la presenza dei grandi cartelli camorristici e dei sodalizi più strutturati i quali, oltre ad aver assunto la gestione di tutte le attività illecite, si sono gradualmente evoluti nella forma delle così dette 'imprese mafiose' divenendo nel tempo competitivi e fortemente attrattivi anche nei diversi settori dell’economia legale. Ne consegue, pertanto, la crescente tendenza dei clan più evoluti a 'delocalizzare' le attività economiche anche all’estero per fini di riciclaggio e di reinvestimento con l’obiettivo di trasferire le ricchezze in aree geografiche ritenute più sicure e più remunerative". La relazione evidenzia poi "un’ulteriore e insidiosa minaccia è costituita dalle strategie più subdole e raffinate adottate dalle organizzazioni camorristiche più strutturate ed orientate all’infiltrazione dell’economia e della finanza anche tramite pratiche collusive e corruttive. I consistenti capitali illeciti di cui dispongono tali organizzazioni, derivanti soprattutto dal traffico di stupefacenti, non appena reimpiegati nell’economia legale alterano, talvolta irreversibilmente, le normali regole di mercato e della libertà di impresa, consentendo ad esse di acquisire posizioni dominanti, o addirittura monopolistiche, in interi comparti economici".  "Frequenti risultano i casi di pervasiva ingerenza all’interno della pubblica amministrazione campana volti a condizionarne i regolari processi decisionali per l’affidamento degli appalti pubblici, altro settore di prioritario interesse criminale – sottolinea la relazione – Grazie alla rete di relazioni intessuta tra taluni esponenti delle Amministrazioni locali e delle imprese, i clan riescono ad aggiudicarsi importanti commesse pubbliche sia con affidamenti diretti in favore di aziende ad essi collegate, sia tramite i sub-appalti". "L’andamento del fenomeno mafioso nella Regione Siciliana non ha subìto complessivi mutamenti sostanziali rispetto al semestre precedente, in cui cosa nostra manterrebbe ancora il controllo del territorio in un contesto socio-economico tuttora fortemente cedevole alla pressione mafiosa. Nonostante le numerose attività di contrasto eseguite nel tempo cosa nostra continuerebbe a manifestare spiccate capacità di adattamento e di rinnovamento per il raggiungimento dei propri scopi illeciti. Essa, infatti, continua ad evidenziare l’operatività delle sue articolazioni in quasi tutto il territorio dell’Isola con consolidate proiezioni in altre regioni italiane e anche oltreoceano tramite i rapporti intrattenuti con esponenti di famiglie radicate da tempo all’estero". "Anche nel secondo semestre 2022 la criminalità organizzata siciliana risulterebbe esercitare una 'capacità attrattiva' sulle giovani generazioni, – evidenzia la relazione – coinvolgendo non solo la diretta discendenza delle famiglie mafiose ma, anche e soprattutto, un bacino di utenza più esteso al fine di ampliare la necessaria manovalanza criminale".  "In cosa nostra palermitana, come nelle consorterie mafiose attive nelle province occidentali e orientali della Sicilia, la prolungata assenza al vertice di una autorevole e riconosciuta leadership starebbe favorendo l’affermazione a capo di mandamenti e famiglie di nuovi esponenti che vantano un’origine familiare mafiosa. – prosegue la relazione – Non mancherebbero, tuttavia, i tentativi da parte di anziani uomini d’onore, recentemente ritornati in libertà, di riaccreditarsi all’interno dei sodalizi di appartenenza".  "Nel territorio siciliano si registra altresì la presenza di altre organizzazioni mafiose sia autoctone, sia straniere, che riescono a coesistere con cosa nostra in ragione di un’ampia varietà di rapporti e di mutevoli equilibri. Ad Agrigento continua a registrarsi l’operatività anche della stidda e di altri sodalizi para-mafiosi, come paracchi e famigghiedde. In provincia di Catania e, più in generale nella Sicilia Orientale, risultano ancora attive importanti famiglie mafiose riconducibili a cosa nostra che al suo modello fanno riferimento sotto gli aspetti organizzativo, funzionale e criminale. – si legge nella relazione – In tale contesto territoriale operano, inoltre, altri sodalizi di tipo mafioso non ricompresi in cosa nostra che possiedono la medesima articolazione delle famiglie di Catania e, in altri casi, alternano ad una matrice banditesca schemi organizzativi adattivi e fluidi tipici dei quartieri in cui i tali gruppi insistono. Evidente, inoltre, è la propensione dei sodalizi catanesi ad espandere la loro zona di influenza nei contesti circostanti. Difatti, nelle province di Siracusa e Ragusa risultano tangibili le influenze di cosa nostra catanese e, in misura più ridotta, anche della stidda gelese". "L’ormai consolidata strategia di 'sommersione' dettata dalle organizzazioni siciliane prevede il minimale ricorso alla violenza al fine di evitare allarme sociale e garantire, nel contempo, un “sereno” arricchimento economico tramite l’acquisizione di maggiori e nuove posizioni di potere. – continua la relazione – Nel periodo di riferimento vengono confermati quali principali interessi criminali delle mafie siciliane, il traffico di stupefacenti, le estorsioni, l’infiltrazione nei comparti della pubblica amministrazione, nell’economia legale, nel gioco e nelle scommesse online, settore quest’ultimo che garantisce una singolare modalità di controllo del territorio, strumentale anche per il riciclaggio dei capitali illecitamente accumulati.  "Nel traffico degli stupefacenti si conferma la capacità di cosa nostra di instaurare relazioni commerciali e di stringere alleanze o forme di cooperazione con altre matrici mafiose, quali ‘ndrangheta e camorra, per l’acquisto di ingenti quantitativi su larga scala. Dalle attività investigative concluse nel periodo di riferimento è emerso come cosa nostra, per l’approvvigionamento di cocaina, abbia mantenuto un privilegiato canale di negoziazione soprattutto con le cosche calabresi. Tuttavia non può escludersi che cosa nostra riesca, nel tempo, a riattivare i vecchi flussi con i fornitori del continente americano e riacquisire lo storico ruolo di player internazionale nell’ambito del narcotraffico. Con riferimento allo spaccio al minuto, le organizzazioni criminali ricercherebbero manovalanza anche tra i più giovani nelle periferiche e più degradate aree urbane. – prosegue la relazione – L’interesse delle consorterie mafiose siciliane fuori regione si rivolge prevalentemente (con riferimento alle presenze in Lazio, Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Marche e Toscana) all’infiltrazione nell’economia con la commissione di frodi fiscali e riciclaggio di capitali. All’estero, tra i Paesi più interessati al fenomeno si segnalano Spagna, Belgio, Germania, Austria, Romania, Malta, Canada, USA". "La parcellizzazione e il dinamismo dei fenomeni associativi continuano a caratterizzare l’intero scenario mafioso pugliese in cui le diverse costellazioni di clan e di sodalizi, tra loro in altalenanti rapporti di conflittualità ed alleanze, proseguono il loro percorso in ascesa verso l’acquisizione di forme imprenditoriali sempre più complesse e strutturate. Le organizzazioni criminali della Regione, infatti, benché continuino ad esercitare variegate modalità di controllo militare del territorio, sembrerebbero orientarsi verso l’attuazione di un mirato ed evoluto modello di mafia degli affari". "I dati contenuti nelle Relazioni sull’Amministrazione della Giustizia, presentate in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2023 presso le Corti di Appello di Bari e Lecce, confermano il trend in crescita delle mafie pugliesi nella tradizionale distinzione tra mafie foggiane, camorra barese e sacra corona unita. – continua la relazione – Le attività di analisi e di indagine del semestre documentano anche come il polimorfismo mafioso non pregiudichi forme di simbiosi e sinergiche strategie, funzionali al soddisfacimento di comuni interessi illeciti ed altamente remunerativi". "I percorsi di infiltrazione mafiosa nei circuiti economico-imprenditoriali traggono origine dal considerevole afflusso di capitali illeciti derivanti dal traffico, anche internazionale, di stupefacenti e dagli ingenti profitti discendenti dalla recrudescenza del fenomeno estorsivo, attuate con prevaricanti strategie intimidatorie dalle organizzazioni criminali pugliesi ai danni di attività imprenditoriali e commerciali. – prosegue la relazione – Le accennate interazioni con le mafie storiche interessano, ad esempio, i clan della provincia di Barletta Andria Trani (BAT) che sembrerebbero interloquire non solo con le realtà criminali del territorio dauno e barese, ma anche con quelle di origine calabrese e campana".   

Il Riciclaggio.

Riciclaggio, record di segnalazioni: di 40 miliardi il business dei clan. Angelo Vitolo su L'Identità il 10 Settembre 2023

Riciclaggio, nel 2022 il numero di operazioni sospette (Sos) pervenute all’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia ha toccato il record storico di 155.426 segnalazioni. Una su quattro, inoltre, è stata considerata ad alto rischio, il 99,8 per cento del flusso totale è riconducibile all’ ipotesi di riciclaggio e nel 90 per cento circa dei casi le comunicazioni sono giunte dalle banche, dalle Poste e dagli intermediari finanziari (Imel, Sim, assicurazioni, fiduciarie, etc.). A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia che lancia l’allarme: il pericolo che la criminalità economica stia incuneandosi nel nostro mondo produttivo è sempre più elevato. Non solo. Se la combinazione tra l’aumento dei tassi di interesse e la diminuzione dei prestiti bancari alle Pmi verificatosi in questo ultimo anno dovesse continuare, non è da escludere che il numero delle imprese a rischio infiltrazione mafiosa sia destinato a crescere ulteriormente.

Va altresì segnalato, indica la Cgia, che tra le principali forme tecniche delle operazioni segnalate alla Uif spiccano le transazioni con bonifici nazionali (31,3 per cento del totale), con carte di pagamento e moneta elettronica (28,5 per cento) e con i money transfer (21,3 per cento). Le operazioni segnalate a seguito di una transazione sospetta eseguita con denaro contante sono state solo il 5 per cento del totale.

Oltre a banche e Poste e intermediari finanziari, per legge anche i liberi professionisti (notai, commercialisti, avvocati, revisori dei conti, etc.), gli operatori non finanziari, i prestatori di servizi di gioco (case da gioco, operatori gioco on line e su sede fissa, etc.) e la Pubblica Amministrazione hanno l’obbligo di segnalare alla UIF ipotesi di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo sospetti. Una volta valutati gli alert acquisiti, gli stessi vengono trasmessi al Nucleo Speciale Polizia Valutaria della Guardia di Finanza (NSPV) e alla Direzione Investigativa Antimafia (Dia) per i successivi accertamenti investigativi. Queste segnalazioni sono inoltre inviate anche all’Autorità Giudiziaria (AG), nel caso emergano notizie di reato ovvero su richiesta della stessa AG.

Secondo una stima prudenziale redatta della Banca d’Italia, il giro d’affari della criminalità organizzata in Italia ammonterebbe a circa 40 miliardi di euro l’anno (praticamente 2 punti di Pil). Va tenuto conto, in base alle definizioni stabilite a livello internazionale, che questo importo non include i proventi economici ascrivibili ai reati violenti – come furti, rapine, usura, ed estorsioni – ma solo quelli originati dalle transazioni illecite caratterizzate dall’accordo tra un venditore e un acquirente. Come, ad esempio, il contrabbando, il traffico di armi, le scommesse clandestine, lo smaltimento illegale dei rifiuti, il gioco d’azzardo, la ricettazione, la prostituzione e la vendita di sostanze stupefacenti.

Negli ultimi 10 anni, le segnalazioni alla UIF sono aumentate di oltre il 130 per cento. Se nel 2012 erano poco più di 67 mila, nel 2022, come abbiamo riportato più sopra, hanno raggiunto la quota record di 155.426. Insomma, questa esplosione delle comunicazioni ci indicano che i gruppi criminali sentono sempre più la necessità di reinvestire i proventi delle loro attività nell’economia legale, anche per consolidare il proprio consenso sociale.

E a seguito della crisi pandemica, le mafie hanno modificato il modo di approcciarsi al mondo delle imprese. Sono meno propense a usare metodi violenti, come le intimidazioni o le estorsioni, per contro privilegiano un approccio più “commerciale”, attraverso il finanziamento e/o l’acquisizione della proprietà delle aziende, sfruttandone la vulnerabilità economico finanziaria di queste ultime. In altre parole, le mafie si offrono sempre più spesso come vere e proprie agenzie di servizi alle imprese (forniture materiali, consulenze amministrative/fiscali, manodopera, etc.); così facendo cominciano a infiltrarsi nell’economia legale e non da ultimo hanno la possibilità di reinvestire i proventi delle ricchezze illecitamente accumulate.

A livello regionale il Lazio (336,9 segnalazioni ogni 100mia abitanti), la Campania (325,5) e la Lombardia (278,1) sono le realtà che nel 2022 hanno fatto pervenire il più alto numero di segnalazioni.  Su base provinciale, invece, le situazioni più a rischio si sono verificate a Milano (472,9 segnalazioni ogni 100mila abitanti), Roma (404,8), Prato (388,2), Napoli (386,9), Crotone (371,7), Siena (366), Imperia (335,5), Trieste (328,6), Caserta (303,4) e Bolzano (298,7). In linea di massima possiamo affermare che le realtà più a rischio a livello nazionale sono le grandi aree metropolitane (Milano, Roma, Napoli e Firenze) a cui si affiancano le province di confine (Imperia, Trieste, Bolzano, Aosta) e i territori con livelli di criminalità organizzata molto preoccupanti (Crotone, Caserta e Reggio Calabria). A queste tendenze spiccano poi le specificità di Prato (forte presenza della comunità cinese), Rimini (cuore del turismo balneare) e Venezia (città portuale, alta vocazione turistica e in cui è presente il Casinò municipale).

Al 25 giugno scorso, l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei Beni Sequestrati e Confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC), segnalava che, in Italia, come previsto dall’Art. 48 comma 8 del Codice antimafia, le aziende confiscate definitivamente alle associazioni criminali hanno sfiorato le 3 mila unità. Oltre due su tre avevano la sede legale nel Mezzogiorno. Le regioni più colpite da questo provvedimento sono state la Sicilia (888 casi), la Campania (521), il Lazio (439), la Calabria (359) e la Lombardia (248). Il 40,4 per cento delle aziende confiscate era attivo, il 26,3 per cento cessato, il 23,2 per cento con procedure concorsuali in corso e il 9,9 per cento era inattivo. I settori più interessati hanno riguardato le costruzioni (22,6 per cento del totale), il commercio (20,7 per cento), gli alloggi e ristorazione (9,7 per cento) e le attività immobiliari (7,9 per cento).

Gli Appalti.

Via D’Amelio, il dossier voluto da Falcone arriva in Commissione. Ora l’Antimafia inizia a indagare su “Mafia e appalti”. Ma i grillini (e Il Fatto) non ci stanno e protestano. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 26 settembre 2023

Lucia Borsellino e suo marito, Fabio Trizzino, avvocato dei figli del giudice assassinato in Via D'Amelio, saranno ascoltati mercoledì 27 settembre, dalla Commissione Antimafia Nazionale presieduta da Chiara Colosimo. A contrapporsi a loro è il Movimento Cinque Stelle, il quale sta generando un vero e proprio isterismo tra i parlamentari grillini. Questo atteggiamento è del tutto incomprensibile, considerando che l'obiettivo comune dovrebbe essere la ricerca della verità nei fatti. La teoria secondo cui il dossier mafia appalti potrebbe essere il movente delle stragi di Capaci e Via D'Amelio non è un capriccio dei figli di Borsellino, e in particolare dell'avvocato Trizzino. Si tratta di un movente confermato in tutte le sentenze riguardanti le stragi di Falcone e Borsellino. Movente confermato perfino dalla sentenza definitiva sulla (non) trattativa Stato Mafia, anche se non è di sua competenza. È il tribunale di Caltanissetta il luogo naturale ed è lì che in tutte le sentenze, la strage di Via D’Amelio è legata all’interessamento di Borsellino nei confronti del dossier redatto dagli allora ros Giuseppe De Donno e Mario Mori.

Sorprende l'opposizione così accesa dei parlamentari grillini, considerando che hanno avuto a disposizione per cinque anni la precedente commissione presieduta da Nicola Morra. Quest'ultima ha già esaminato le stesse teorie che ora i grillini vogliono riproporre alla Presidente Chiara Colosimo, come Gladio, P2 e il coinvolgimento delle "donne amazzoni bionde", generando una serie di suggestioni, alcune delle quali persino divertenti. Ad esempio, si può citare l'audizione del pentito Gaspare Spatuzza, che è stato interrogato sulla presunta partecipazione delle misteriose donne bionde alle esecuzioni delle stragi continentali.

L'ex consulente e magistrato Gianfranco Donadio ha chiesto al povero Spatuzza: «Lei ha mai percepito il problema dell’esistenza di una donna in questo scenario stragista?». Ebbene sì. Chiede al collaboratore della giustizia se ha avuto una “percezione” di qualche donna. Spatuzza risponde di no. Ma il magistrato non si arrende. Insiste. «In tutto lo scenario stragista ha avuto mai un sintomo?». Spatuzza risponde: «Non ho avuto mai né direttamente né indirettamente che ci fosse una donna un po' in secondo o terzo piano in quello che era il gruppo operativo». Niente da fare. Nessuna percezione, nessun sintomo. Il prossimo passo sarà lo studio delle entità asintomatiche.

Ora, con la convocazione di Lucia Borsellino e Fabio Trizzino da parte di Chiara Colosimo, si sta scatenando un inspiegabile isterismo. Forse i grillini pretendono che si ritorni ai siparietti imbarazzanti come quelli appena descritti? Forse sì. Si apprende che vogliono, con l’ex magistrato e ora onorevole grilli, Roberto Scarpinato, in prima fila, un approfondimento sulla pista nera. Evidentemente la trattativa Stato mafia, teorema completamente smantellato, non va più di moda. Si riesuma la non dimostrata presenza del nero Stefano Delle Chiaie a Capaci il giorno della strage. Si fa fede a un documento che riporta un de relato (in particolar modo l’ex compagna di Lo Cicero, completamente risultata inattendibile), quindi nullo, come se fosse una prova inconfutabile.

È incredibile che si stia cercando di rispolverare teorie del genere, mentre si cerca di minimizzare l'unica pista supportata da prove documentali solidamente ancorate. È difficile comprendere questa ostilità. Questa audizione rappresenta la prima volta che si ascolterà una voce diversa, che contribuirà a rompere la narrazione univoca. In particolare, l'intervento dell'avvocato Trizzino, fonte di conoscenza significativa, e di Lucia Borsellino, persona di grande spessore umano e intellettuale, sarà estremamente interessante.

La questione del dossier mafia appalti è complessa, e questa audizione rappresenta forse la prima occasione in cui verrà affrontata con dettaglio di fronte alla Commissione Antimafia. La sua complessità potrebbe non piacere a tutti, ma è essenziale esplorarla. Tuttavia, sembra che qualcuno preferisca puntare su teorie cospiratorie per evitare di affrontare la verità in modo obiettivo. Come disse Pier Paolo Pasolini: "Il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità”. È possibile che qualcuno stia cercando di evitare il confronto con la verità, preferendo concentrarsi su teorie senza fondamento. Chi teme l'audizione di Lucia Borsellino e Fabio Trizzino?

Le Holding mafiose.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 22 giugno 2023. 

«Le indagini evidenziano che i reati fiscali sono ormai lo strumento di lavoro di holding mafiose a livello internazionale», dice Antonio Quintavalle Cecere, comandante del Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata della Guardia di finanza. 

Che cosa emerge dalle vostre indagini più recenti?

«Oggi ci troviamo di fronte a una criminalità organizzata come una holding, con vari rami d’azienda.

Quello militare è relegato ai gruppi minori, spesso in conflitto tra loro per interessi legati alla droga, come la gestione delle piazze di spaccio. I gruppi più strutturati, invece, cercano l’inabissamento. Vogliono rendersi invisibili per non attirare l’attenzione investigativa […] Questo processo si è sviluppato parallelamente all’evoluzione tecnologica in campo economico-finanziario. […] Oggi dobbiamo contrastare una struttura estremamente moderna». «[…] La frontiera più avanzata riguarda le frodi fiscali». 

In che modo?

«Attualmente la criminalità organizzata si infiltra nell’economia legale acquisendo vere e proprie imprese, con vari metodi. Quello più invasivo parte dall’estorsione. Quando l’imprenditore non è più in grado di pagare, accetta l’ingresso diretto del sodalizio criminale nella compagine societaria». 

Ci sono sistemi meno invasivi?

«Con operazioni finanziarie e reati fiscali. Per esempio fornendo agli imprenditori che dispongono di ingenti proventi in nero, frutto di evasione fiscale, i servizi dedicati per riciclarli facendo perdere le tracce». 

Come?

«Il sistema mafioso italiano dispone all’estero di una società A, che stipula un contratto con un’altra impresa B, sempre dell’organizzazione e ubicata in un terzo Paese. Il contratto prevede che l’impresa A paghi alla B una somma in cambio di merce. In realtà la merce non esiste, ma l’impresa B emette fattura». 

Quindi una transazione fittizia?

«Non del tutto. Il passaggio di denaro c’è. La società A effettua un bonifico sul conto dell’impresa B. La provvista di questo bonifico deriva dall’imprenditore estraneo all’organizzazione, frutto di evasione fiscale. Ora quei soldi sono “ripuliti” su un conto corrente di una società apparentemente normale in Belgio o Germania. Ma restano poco. L’impresa B fa decine di queste operazioni, finché non trasferisce il denaro in banche collocate in Paesi poco collaborativi». 

Che cosa vuol dire poco collaborativi?

«Mentre ai Paesi europei noi possiamo chiedere di fare sopralluoghi e verifiche su queste imprese, che talvolta esistono solo sulla carta, alla frontiera dei paradisi fiscali o della Cina dobbiamo fermarci». 

Quindi seguire il denaro non basta?

«Dobbiamo farlo, ma in altro modo. Con le segnalazioni di operazioni sospette, l’incrocio delle banche dati per le anomalie patrimoniali e soprattutto con le intercettazioni […] ». 

[…] Quando i soldi vanno nei Paesi non collaborativi, siete disarmati?

«L’obiettivo del sequestro è vanificato. Allora proviamo a rivalerci sui beni in Italia. Società, beni immobili e mobili». 

Le famose Ferrari e Lamborghini dei boss.

«Non più. Ormai hanno preso contromisure. Le detengono in leasing, il che ci impedisce il sequestro». 

In quali settori i sistemi da holding finanziarie e fiscali si diffondono più velocemente?

«Diversi settori. Con diverse variabili. Nell’indagine Petrolmafie il passaggio di carburante c’era. Ma intermediato da società filtro mafiose intestate a prestanome nullatenenti, che non versando l’Iva rivendevano la benzina a prezzo scontato, mettendo fuori mercato i concorrenti».

[…] In quali settori l’evoluzione tecnologica è più evidente?

«Nei giochi, per esempio. La mafia insedia una società di scommesse in un Paese privo di controlli severi come i nostri. Poi si appoggia in modo capillare sul territorio italiano a punti scommesse con regolare licenza. Gli incassi vengono trasferiti all’estero con meccanismi anonimizzati. Bastano un computer e un server da duemila euro». 

Ma i clan hanno queste competenze?

«Ingegneri e informatici lavorano per diverse organizzazioni, in diversi territori». 

C’è differenza tra Nord e Sud?

«Questione superata. Sono holding mondiali». 

Come rientrano i soldi in Italia?

«Nei modi più impensabili. In Sicilia abbiamo scoperto un’azienda di noleggio auto usata per ricevere pagamenti dall’estero, con fatture false a fronte di contratti fittizi per auto inesistenti. Queste “cartiere”, quando non servono più, le ritroviamo nei reati fallimentari, legati a quelli fiscali perché sono imprese che oltre i fornitori non pagano le tasse». […]

Gli influencer.

La generazione Z dei clan e delle paranze. Mafia, boss influencer reclutano sui social: dalla trap alle emoticon. I nuovi simboli della malavita online. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista il 9 Maggio 2023 

Da boss a influencer il passo è breve. I social vengono utilizzati per creare nuove narrazioni e per brandizzare la reputazione dell’organizzazione. Ma anche per ottenere consenso e sfidare i nemici. Sono solo alcuni dei risultati emersi dal rapporto “Le mafie nell’era digitale”, stilato dalla Fondazione Magna Grecia e presentato nella sala stampa della Camera dei Deputati.

I nuovi boss – E’ in corso una sorta di darwinismo criminale: chi non si adegua alle nuove tecnologie e all’uso dello spazio digitale, rischia di scomparire. “La modalità operativa delle mafie è sempre più ibrida, ormai la criminalità organizzata agisce sia online sia offline.” si legge nel rapporto – “Raccontano i nuovi linguaggi della criminalità organizzata sui social e confermano la capacità delle mafie di reinventarsi continuamente in base alle esigenze del presente. E di progredire, man mano che il digitale prende la scena facendo cadere i confini tra il reale e il virtuale”.

“Dopo una prima fase in cui la le mafie usano i social in modo quasi ludico, anche nel mondo criminale subentra una maggiore consapevolezza del mezzo. Che diventa luogo di sponsorizzazione e comunicazione con gli affiliati così come con i nemici. Fino ad arrivare, con lo sbarco in Rete della nuova generazione criminale, alla creazione dell”interreale mafioso”.

La generazione Z dei clan e delle paranze – Sta cambiando il volto delle organizzazioni criminali, mostrando quanto sia necessario saper gestire, come veri e propri influencer, la scena digitale per ottenere consenso ed essere riconoscibili in quanto mafiosi all’interno di una società in cui informazione e consumi rendono tutti uguali. “Solo attraverso una reale presa di coscienza di questa situazione e ad una conoscenza approfondita e strutturata di questo contesto è possibile costruire risposte che si radichino nella cultura comune”, afferma il presidente della Fondazione Magna Grecia, Foti.

Dalla trap al neomelodico – Dal rapporto, che ha processato 20mila commenti a video YouTube, 90 GB di video TikTok – per un totale di 11.500 video – e 2 milioni e mezzo di tweet, emergono diversi dettagli estrapolati dai social sul linguaggio delle mafie. Dalla musica trap al neomelodico, dalle macchine extra-lusso ai gioielli kitch, dalla “presta libertà” dedicata a chi è in galera affinché veda presto la luce del sole, alla mitizzazione dei grandi boss del passato, dagli emoticon a forma di cuore o di leone, di fiamma o di lucchetto per dimostrare sentimento, coraggio, e omertà, agli hashtag per inserirsi nella scia dei contenuti virali su social network come Facebook, Instagram, Twitter e oggi soprattutto Tik tok. Giulio Pinco Caracciolo

Gli eco-affari.

Gli eco-affari della mafia da miliardi di euro. Linda Di Benedetto su Panorama il 7 Febbraio 2023.

Le operazione della forze dell'ordine nel 2022 raccontano come la criminalità organizzata sia riuscita ad inserirsi in un nuovo settore sempre più centrale, e ricco

Con l’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro si torna a parlare dell’interesse della mafia per le energie rinnovabili. Un business da 24 miliardi l’anno che nel 2012 ha portato all’arresto di Salvatore Angelo che avrebbe gestito per conto del "fantasma di Castelvetrano", numerose attività nel settore delle energie rinnovabili. Il settore ambientale infatti rappresenta un’area privilegiata di interesse della criminalità per fare business con manovre speculative sulle cosiddette “energie rinnovabili” quali fotovoltaico, eolico e biomasse. Un settore incentivato dall’Unione Europea per promuovere la sostenibilità ambientale. In questo contesto, la criminalità organizzata, che da sempre ha sfruttato il territorio e l’ambiente per i suoi affari illeciti, vede oggi nello sviluppo della green economy l’opportunità di riciclarsi e invadere sempre di più il tessuto dell’economia legale. Il collegamento tra criminalità organizzata e settore energetico è stato accertato più volte, nel corso degli anni, grazie all’azione di contrasto e vigilanza attuata da forze dell’ordine e dalla magistratura. Il modus operandi della mafia

Da un’attenta analisi delle dinamiche che interessano il settore delle energie rinnovabili è emersa l’importanza di una figura professionale che nel corso degli anni è diventata indispensabile per gli investitori ossia quella dell’intermediario (project developer), al quale è demandato il compito di gestire le relazioni con gli stakeholders locali, direttamente interessati dalla costruzione di un impianto che genera “energia pulita” e di seguire la relativa procedura di autorizzazione. Un ruolo chiave in quanto le imprese reputano più vantaggioso pagare un intermediario, in grado di consegnare “chiavi in mano” le c.d. wind farm, anziché scontrarsi in prima persona con lentezza e l’incertezza dell’iter di autorizzazione senza essere sicuri della riuscita del progetto. L’importanza di questa figura è stata percepita anche dai sodalizi criminali, che si avvalgono degli intermediari per “pilotare” e di conseguenza gestire illecitamente il business delle “energie rinnovabili” , senza peraltro figurare in prima linea nelle varie fasi di avanzamento del progetto. L’intermediario è, difatti, capace di operare su più fronti, gestendo i rapporti con le organizzazioni criminali, che concedono una sorta di “protezione” al progetto in tutte le sue fasi e con funzionari pubblici e burocrati collusi che consentono, in contrapposizione con i doveri del proprio ufficio, la perpetrazione di gravi irregolarità al fine di ottenere un ingiusto vantaggio per sé o per altri. Tuttavia, la presenza della figura dell’intermediario nel settore delle energie rinnovabili in Italia non rappresenta la sola criticità esistente. Il quadro normativo favorisce l’infiltrazione mafiosa Il quadro normativo di riferimento sulle energie rinnovabili è incerto e frammentario e favorisce comportamenti illegali proprio nei territori dove vi è una forte presenza della criminalità organizzata capace di esercitare direttamente o indirettamente il controllo del territorio. I sodalizi criminali possono agevolare la costruzione di un impianto che produce “energia pulita” , interfacciandosi con gli enti preposti al rilascio delle varie autorizzazioni e/o certificazioni secondo il classico agire mafioso basato sull’intimidazione e sulla corruzione. Venendo poi all’analisi delle diverse forme di criminalità operanti nel settore delle fonti energetiche rinnovabili. La filiera della mafia eco-criminale L’imprenditoria eco-criminale è caratterizzata dalla propensione all’utilizzo di approcci e metodi di stampo mafioso, soprattutto in termini di accettazione della possibilità di ricorrere alla corruzione e alla frode, nonché dalla capacità di utilizzare anche strumenti leciti per dissimulare finalità illegali. Per perseguire i propri obiettivi illeciti, così si avvale della consulenza qualificata dei cosiddetti colletti bianchi e professionisti compiacenti, nonché di progettisti e mediatori che sempre più si sostituiscono agli imprenditori nei rapporti con le istituzioni. Le modalità di attuazione del piano criminoso messo in atto dagli “imprenditori” seguono che prevede la costituzione di una società principale in forma semplice incardinata in un sistema di scatole cinesi costituite ad hoc al fine di garantire la capacità finanziaria richiesta a garanzia dell’esecuzione dell’impianto. In questo modo si tenta di sfruttare una attività economica legale, quali quella delle energie rinnovabili, asservendola, in modo strumentale, ad una finalità illecita come il riciclaggio di denaro sporco, l’evasione fiscale o l’appropriazione indebita di finanziamenti pubblici. In alcuni casi questo avviene in ambito internazionale, in modo da poter usufruire delle opportunità determinate dalle normative finanziarie e fiscali dei cosiddetti “paradisi fiscali”. In questa prospettiva, la creazione di impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili consente di realizzare una filiera economico-finanziaria che facilita la commissione di reati (es. riciclaggio nella fase di finanziamento dell’investimento necessario per la realizzazione delle infrastrutture) e permette di godere della rendita pluriennale legata agli incentivi statali per la produzione di energia. Proprio quest’ultima opportunità, rappresentando una sorta di avallo pubblico, diventa uno strumento di garanzia per accedere al mercato finanziario internazionale. Le operazioni della Scico (Servizio Centrale di Investigazione sulla Criminalità Organizzata della Guardia di Finanza) di contrasto delle infiltrazioni mafiose nel settore delle energie rinnovabili nel periodo 2018-2022. Il primo Ottobre 2021, il Nucleo P.E.F. di Crotone, nell’ambito dell’operazione denominata “TURÒS” , ha dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare (2 in carcere e 3 ai domiciliari), emessa dal GIP del Tribunale di Catanzaro, nei confronti di 5 soggetti responsabili, a vario titolo, anche in concorso, dei reati di cui agli artt. 644 (usura), anche aggravata dall’art. 416-bis1 e 629 (estorsione), aggravata dall’art. 61 c. 2., c.p., sottoponendo a sequestro preventivo, per sproporzione, beni per oltre 100 mila euro. La citata indagine, che ha visto indagati ulteriori 7 soggetti, responsabili, a vario titolo, dei reati di cui agli artt. 640-bis (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche), 323 c.p. (abuso d’ufficio) e 132 (abusiva attività finanziaria) D.Lgs. n. 385/1993 (TUB), ha preso le mosse da una precedente attività investigativa, nell’ambito di un procedimento penale acceso presso la Procura della Repubblica di Crotone, nella quale erano emersi indizi di reità in ordine a prestiti usurai, in favore di un imprenditore edile, concessi da uno dei due soggetti tratti in arresto, ritenuto vicino alla locale di ‘ndrangheta di Cutro (KR).Le investigazioni, nell’ambito delle quali sono stati accertati 5 episodi di usura, hanno inoltre permesso di accertare il coinvolgimento di ulteriori due soggetti intranei alla medesima cosca “GRANDE ARACRI” di Cutro, nell’illecita attività di recupero credito, attraverso minacce e pressioni psicologiche alle vittime. E’ altresì emersa una truffa in danno del Gestore dei Servizi Energetici (GSE), finalizzata all’ottenimento di incentivi nel settore dell’energia eolica, che ha visto coinvolto anche un dirigente del Comune di Crotone. La condotta fraudolenta ha riguardato la fase di realizzazione di due pale eoliche a Crotone, in relazione alla quale sono state rilasciate false attestazioni utili a collocare i tempi di realizzazione dell’opera entro i termini imposti dalla normativa di settore, condizione necessaria per poter accedere al meccanismo di incentivazione.

Il 2 Giugno 2022, il Nucleo P.E.F. di Bologna, nell’ambito dell’operazione “BLACK FOG” , ha dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare degli arresti domiciliari, emessa dal G.I.P. presso il Tribunale di Bologna, nei confronti di 1 soggetto, principale indagato, in relazione al reato di cui all’art. 512-bis C.P., aggravato dal “metodo mafioso” di cui all’art. 416-bis 1 c.p., in ragione della vicinanza dello stesso alla ‘ndrina “IAMONTE” di Melito di Porto Salvo (RC), della quale curava personalmente gli interessi economici. Contestualmente è stato eseguito un decreto di sequestro preventivo emesso dalla medesima A.G. fino alla concorrenza del valore di 15 milioni di euro. Tra i beni sottoposti a sequestro figura il 100% della partecipazione a due imprese di diritto rumeno, responsabili della gestione di due centrali idroelettriche situate in Romania, amministrate dal principale indagato a mezzo prestanome. L’attività ha avuto spunto dalla precedente operazione denominata “Nebbia Calabra” , nel corso della quale era stata rinvenuta copiosa documentazione, anche informatica, relativa a consistenti investimenti effettuati all’estero dal principale indagato, grazie alla connivenza e al supporto di numerosi “colletti bianchi” legati al mondo della finanza e dell’imprenditoria.

Cosa Nostra.

Operazione antimafia Polizia di Stato-FBI a Palermo e New York. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Novembre 2023

L’operazione si inserisce in più vasto contesto investigativo ed esecutivo che ha visto il coinvolgimento di investigatori della Polizia di Stato e del FBI- Federal Bureau of Investigation in una complessa ed articolata indagine avviata sui componenti della famiglia Gambino di New York ed alcuni referenti italiani del medesimo sodalizio ancora attivi in Sicilia.

La Polizia di Stato, su delega della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica di Palermo, ha dato esecuzione al provvedimento di fermo di indiziato di delitto disposto nei confronti di 7  indagati, attivi nei territori palermitani di Partinico, Borgetto e Torretta e ritenuti responsabili, a diverso titolo, dei delitti di  associazione mafiosa ed altri reati connessi. L’operazione si inserisce in più vasto contesto investigativo ed esecutivo che ha visto il coinvolgimento di investigatori della Polizia di Stato e del FBI- Federal Bureau of Investigation in una complessa ed articolata indagine avviata sui componenti della famiglia Gambino di New York ed alcuni referenti italiani del medesimo sodalizio ancora attivi in Sicilia.

In tale contesto operativo, contestualmente all’esecuzione del provvedimento di fermo a carico dei 7 indagati in provincia di Palermo, la competente struttura FBI di New York ha eseguito analoghe misure restrittive a carico di ulteriori 10 soggetti, indagati per associazione per delinquere, estorsione, incendio doloso, cospirazione e turbativa d’asta. L’operazione congiunta ha visto in campo agenti speciali dell’ F.B.I. ed investigatori dello S.CO. il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato , della Squadra Mobile di Palermo e della locale SISCO, coadiuvati da personale specializzato dei Reparti Prevenzione Crimine, delle unità cinofile e del reparto volo.

Le congiunte indagini, avviate nell’aprile 2021 e supportate dal consolidato rapporto di collaborazione tra lo S.C.O. e l’ F.B.I., sono state progressivamente corroborate da un costante scambio info-investigativo e da una serie di servizi di osservazione transfrontaliera implementati sull’asse Palermo-Roma-New York.Nel menzionato contesto, le risultanze investigative hanno dimostrato l’ultrattività del  mandamento mafioso di Partinico, storicamente legato al boss Vito Vitale, la cui ascesa al vertice, risalente agli anni ‘90, venne supportata dai “corleonesi” che facevano capo a Totò Riina.

Le indagini hanno documentato, in particolare, la cifra criminale di alcuni anziani maggiorenti della famiglia mafiosa di “Torretta” già emersi sullo sfondo delle storiche inchieste meglio conosciute come “Pizza Connection” e “Iron Tower”, facendo rilevare, sul fronte americano, anche il ruolo di taluni esponenti di spicco de “La Cosa Nostra Americana” (LCA) legati al noto boss Frank Calì, assassinato per futili motivi nel marzo 2019.

In tale ambito, è stata accertata la solidità dei rapporti esistenti tra le due consorterie sull’asse USA-Italia, emergendo l’interessamento americano per le vicende organizzative di Cosa Nostra siciliana e venendo in rilievo anche una serie di dinamiche legate alla reggenza del mandamento mafioso di Partinico. Collateralmente, le risultanze sviluppate sul fronte estero dagli investigatori dell’ F.B.I. hanno documentato una variegata serie di condotte estorsive attuate nel settore dei cantieri edili della Grande Mela dagli odierni destinatari delle misure restrittive disposte in U.S.A., giovandosi anche della manovalanza delle gangs metropolitane locali.

E’ in detto contesto che alcuni degli indagati di origine italiana hanno peraltro evocato pregressi episodi di estorsione in danno di ristoratori di origini siciliane insediati a New York, richiamando, a tal proposito, l’azione di impulso e di intermediazione assicurata in Sicilia dai maggiorenti mafiosi locali, in grado di esercitare pressioni nei confronti dei familiari delle stesse vittime tuttora residenti nell’area del mandamento di Partinico.

Il collegamento tra LCA e “Cosa Nostra” siciliana si è quindi sostanziato anche della trasposizione negli U.S.A. del “metodo” estorsivo suggerito da un anziano boss partinicese, laddove gli indagati americani si convincevano dell’opportunità di accontentarsi di somme più esigue e di abbandonare le azioni cruente demandate alle menzionate gangs, allo scopo di fidelizzare gli estorti nella vantaggiosa prospettiva di un più “morbido” e duraturo assoggettamento. Nell’area territoriale di riferimento, gli odierni indagati hanno dimostrato di mantenere un’accentuata capacità di controllo del territorio, disvelando anche una serie di dinamiche connesse alla gestione di un fiorente traffico di stupefacenti ed alla conduzione di reati predatori “autorizzati” dal reggente locale.

In occasione dell’esecuzione congiunta delle previste misure restrittive – avvenuta in simultanea a New York e Palermo a partire dalle prime ore odierne (ore 4.00 di New York e ore 10.00 in Italia) – è stato previsto anche il reciproco impiego di investigatori italiani ed americani, intervenuti in qualità di “osservatori” sugli opposti scenari operativi. Il provvedimento di fermo di indiziato di delitto adottato dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo a carico dei 7 indagati si basa sui gravi indizi di colpevolezza e su un quadro indiziario emerso nel corso delle attuali indagini, significando che le piene responsabilità penali per i fatti indicati saranno accertate in sede di giudizio. Redazione CdG 1947

Il ritorno dei Padrini e la Nyc connection. Rita Cavallaro su L'Identità il 9 Novembre 2023

La New York di don Vito Corleone, di quella mafia dei Gambino che aveva allungato i suoi tentacoli dalla Sicilia agli Stati Uniti, resa celebre da Il Padrino di Francis Ford Coppola. E che sembrava una storia del passato, ormai rimasta impressa su una vecchia pellicola che vinse l’Oscar nel 1973. Cinquant’anni dopo, quella storia diventa di nuovo presente, con i suoi protagonisti ancora pericolosi. Evoluti, perché cambiano i tempi e le infiltrazioni sono così profonde nel tessuto sociale e aziendale che i metodi non prevedono più i regolamenti di conti a colpi di pistola per strada.

Ma le estorsioni e le minacce sono quelle di una volta, una forma capillare di controllo del territorio sulla quale hanno stretto il cerchio gli investigatori della Direzione distrettuale Antimafia di Palermo, che ieri hanno arrestato 17 persone. Il Servizio centrale operativo della Polizia di Stato e l’Fbi hanno eseguito sette provvedimenti di custodia cautelare in Sicilia e dieci nella Grande Mela, per associazione per delinquere, estorsione, incendio doloso, cospirazione e turbativa d’asta. L’inchiesta conferma l’esistenza di un asse tra la famiglia della mafia newyorkese dei Gambino e i clan palermitani di Partinico, Borgetto e Torretta, già al centro della madre di tutte le operazioni antimafia, quella Pizza Connection condotta dal giudice Giovanni Falcone negli anni Ottanta, che aveva fatto luce sui rapporti tra mafie di vecchio e nuovo continente. E che dai cugini siciliani avevano tratto ispirazione sulle modalità con cui portare avanti gli affari. Primo tra tutti il pizzo, con le decine di taglieggiamenti che l’Fbi ha accertato a danno di imprese edili della Grande Mela. Con i capi che ordinavano e gli affiliati che si occupavano delle riscossioni, facendosi aiutare dalle gang locali nel prelievo “coatto” del denaro alle vittime. Le quali non denunciavano le estorsioni perché la paura di ritorsioni era più grande delle somme che i mafiosi chiedevano. Il modus operandi della famiglia Gambino, infatti, era stato importato da Palermo e prevedeva di non pretendere somme ingenti, per non inimicarsi gli imprenditori taglieggiati e assicurarsi che avrebbero sempre pagato. Era l’insegnamento di Francesco Rappa, detto Ciccio, storico capomafia di Borgetto, condannato definitivamente per tre volte per associazione mafiosa. È lui il fulcro delle indagini.

Dagli anni Settanta, infatti, Rappa era inserito nei traffici internazionali di droga tra Sicilia e New York, certificati dalle diverse operazioni di polizia, tra cui quelle del vicequestore Boris Giuliano, il super poliziotto con una formazione alla scuola di Quantico dell’Fbi, ucciso dalla mafia. E suo figlio Alessandro, alla guida della Direzione centrale anticrimine, ha coordinato le indagini con gli Usa, che hanno portato ancora alla luce il filo rosso tra Palermo e New York. Hanno accertato che Rappa aveva stretto così tanto i legami con i Gambino da diventare un interlocutore privilegiato soprattutto dopo la morte di Frank Calì, detto “u Franki”, elemento di massimo spicco della famiglia ucciso nel 2019 davanti alla sua villa di Staten Island da un sicario che l’aveva crivellato di colpi per poi travolgerlo con l’auto durante la fuga. Rappa, a capo del clan Borgetto, aveva dunque avviato rapporti personali con Gabriele Gambino, figlio dello storico boss newyorkese, tanto da conquistarsi un ruolo di “privilegiato e autorevole interlocutore degli affiliati del sodalizio mafioso attivo negli Usa, perpetuando così la sua delicatissima funzione di collegamento tra la consorteria mafiosa siciliana e quella statunitense”, scrivono gli inquirenti. In una collaborazione fattiva, come hanno dimostrato le intercettazioni dell’inchiesta. I siciliani intervenivano costantemente nelle estorsioni. Quando i Gambino avevano difficoltà a riscuotere il pizzo dai ristoratori siciliani che vivevano a New York chiedevano aiuto ai “cugini” di Palermo i quali, tramite ricatti e minacce, consentivano alla famiglia di incassare immediatamente le somme di denaro 

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per “la Repubblica” giovedì 9 novembre 2023.

[…] dalle viscere della provincia di Palermo era riemersa la voce di un vecchio padrino, Francesco Rappa, nato a Borgetto il 2 settembre 1942.

[…] Il nome di Francesco Rappa è in uno di quei rapporti giudiziari firmati da Boris Giuliano. Il 7 maggio 1979, l’investigatore delineava una mappa dei rapporti fra la mafia siciliana e quella americana, sottolineando che Rappa era stato arrestato a New York mentre prendeva in consegna una Cadillac imbarcata a Genova con 82 chili di eroina.

Così, le indagini di Boris Giuliano sono tornate di grande attualità. Ed è toccato a suo figlio Alessandro, oggi poliziotto pure lui, capo della direzione centrale anticrimine, coordinare con il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia le indagini del Servizio centrale operativo e della squadra mobile: ieri mattina, è scattato un blitz fra Palermo e New York. 

In Italia, sono stati fermati Rappa e altri cinque presunti mafiosi, negli Stati Uniti il figlio del vecchio boss — Vito Gabriele — e altre nove persone accusate di far parte del clan Gambino e di avere imposto estorsioni ad alcuni ristoratori italo americani. La storia di un altro padre e di un altro figlio, su un versante del tutto diverso. Mentre passato e presente continuano a intrecciarsi a Palermo […]

In una città ormai cambiata, senza più i killer di Totò Riina per le strade, stanno però tornando alcuni vecchi mafiosi dall’esilio americano che i Corleonesi avevano imposto durante la guerra di mafia del 1981. Tornano con i loro capitali mai sequestrati, tornano con la voglia di riprendersi Palermo attraverso nuovi investimenti.

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" giovedì 9 novembre 2023. 

Cinquantatré anni fa, nel 1971, fu arrestato a New York mentre trasportava 81 chili di eroina a bordo della sua auto; e su di lui indagò Boris Giuliano, il capo della Squadra mobile di Palermo che per primo accese la luce su un traffico di droga fra Italia e Stati Uniti, assassinato nel luglio 1979.

Poi fu indicato come «uomo d’onore» dal pentito Tommaso Buscetta, e si trovò coinvolto nel maxi-processo alla mafia istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi nelle stragi del 1992. In totale ha collezionato tre condanne definitive per associazione mafiosa, finite di scontare a novembre 2014. Senza mai smettere di essere un boss, nemmeno dopo la scarcerazione. E così ieri, a ottantuno anni d’età, Francesco Rappa è stato riportato in cella dagli agenti della Mobile e del Servizio centrale operativo della polizia, con l’accusa di essere il capo della famiglia mafiosa di Borgetto, periferia occidentale di Palermo.

Una vita intera al servizio di Cosa nostra in Sicilia e in America, ricostruita nel provvedimento con cui la Procura di Palermo ha arrestato sette persone mentre negli Stati Uniti l’Fbi ne prendeva altre dieci fra i quali Vito Rappa, figlio di Francesco, anche lui già incriminato nel 2007 dalla Procura di Brooklyn in una retata contro il clan Gambino. 

Lo stesso che ritorna nell’operazione congiunta ribattezzata New Tower , con esplicito riferimento alla Iron Tower datata 1988: all’epoca Fbi e Criminalpol avevano svelato l’alleanza tra i clan di Torretta, Borgetto e Partinico nel commercio di stupefacenti; oggi invece dai mafiosi siciliani arrivano a quelli americani istruzioni su come gestire le estorsioni a imprenditori e commercianti secondo modalità poco cruente ma ugualmente efficaci. 

Cosa nostra non può fare a meno neanche negli Usa, perché è il segno del controllo del territorio, ma si accontenta di poco da parte di tutti [...]

Gli agenti federali statunitensi hanno trasmesso alcune conversazioni tra Vito Rappa e Francesco «Franky» Vicari (un altro degli arrestati negli Usa), in cui i due discutevano in uno strano slang siculo-inglese proprio delle tangenti da riscuotere: «Non si può cugg ... (prendere in giro, ndr ) … ti sei messo tu... non è che si cugg ... con te Fra!», diceva Rappa, e Franky Vicari replicava: «Lui ha voluta a sicuranza (la protezione, ndr ) e io gli ho dato a sicuranza , e basta!...».

In un altro dialogo intercettato dall’Fbi Vicari spiegava a Rappa — secondo l’interpretazione di investigatori e inquirenti — che per un’altra estorsione era risultato decisivo l’intervento di un intermediario inviato da suo padre Francesco. «Quella cosa di tuo pa’... Lo sai che non si faceva niente...», raccontava Franky, e Vito Rappa confermava: «E non lo so!?... Non ne può vedere paesani soffrire, Fra!». Ancora Franky Vicari: «La parola di tuo padre è stata... è stata giusta, vediamo per darci una mano di aiuto».

Nella ricostruzione della polizia e dei magistrati il vecchio Rappa s’è continuato a muovere come capomafia soprattutto attraverso un paio di luogotenenti. Uno di questi, il sessantanovenne di Torretta Giovan Battista Badalamenti, risiede abitualmente negli Usa, e in alcune intercettazioni del 2019 commentava con Francesco Puglisi (condannato per estorsioni aggravate dal metodo mafioso) l’omicidio di Frank Calì, chiamato «Franky boy» negli Usa e «’u Franky» in Sicilia, uno degli italo-americani a capo della famiglia Gambino assassinato a Staten Island pochi mesi prima. […] 

La mafia americana e quella siciliana sono ancora in affari. Stefano Baudino su L'Indipendente giovedì 9 novembre 2023.

Cosa Nostra palermitana e mafia americana unite dagli affari, attraverso un solido ponte che collega Palermo a New York, alle cui fondamenta ci sono il traffico di droga e lo scambio di informazioni strategiche. Sembra una cronaca degli anni Settanta, quando tra le “capitali” mafiose imperversava l’azione di Salvatore Inzerillo, braccio destro del super boss palermitano di Cosa Nostra Stefano Bontate e, contemporaneamente, parente dei membri dei Gambino, la più importante tra le “cinque famiglie newyorkesi. Invece si tratta di quanto scoperto negli ultimi giorni dagli agenti della polizia italiana e dell’Fbi americana, che hanno arrestato rispettivamente sette persone per associazione mafiosa e reati connessi e dieci persone per associazione a delinquere, estorsione, incendio doloso, cospirazione e turbativa d’asta. L’inchiesta, tra le altre cose, ha appurato l’esistenza di un fruttuoso traffico di droga che vedeva coinvolte le due organizzazioni mafiose – per quanto riguarda la sponda americana, sotto la lente d’ingrandimento degli inquirenti c’è ancora la famiglia Gambino, mentre i palermitani fermati appartengono al mandamento di Partinico – nonché la condivisione “del metodo estorsivo adottato dalla mafia palermitana” con la controparte newyorkese.

L’Fbi, da parte sua, da alcuni anni ha registrato la pervasività dell’azione estorsiva perpetrata dai mafiosi americani nei cantieri edili della Grande Mela. Per svolgere il “lavoro sporco” sul territorio, la criminalità organizzata statunitense si è servita della bassa manovalanza delle gangs metropolitane locali; le recenti indagini hanno però documentato come gli “americani” abbiano cominciato a chiedere agli imprenditori quote di pizzo più basse e a utilizzare sempre meno lo strumento della violenza per consumare le estorsioni: a suggerire questa strategia sarebbe l’anziano boss palermitano Francesco Rappa, identificato come il nuovo principale trait d’union tra le due associazioni criminali, che è stato fermato dalle forze dell’ordine. Tra i nomi degli arrestati americani c’è invece anche quello del nuovo presunto capo della famiglia Gambino Joseph Lanni, detto “Joe Brooklyn”. L’operazione dell’Fbi si inserisce infatti nella cornice di un’indagine aperta nel 2021 sulla potente famiglia, in cui è stata attestata anche “l’attività del mandamento mafioso di Partinico legato al boss Vito Vitale, la cui ascesa al vertice venne supportata, negli anni Novanta, dai corleonesi guidati da Riina”, allora numero uno di Cosa Nostra. Il lavoro degli investigatori ha fatto emergere, in particolare, la “cifra criminale di alcuni anziani della famiglia mafiosa di Torretta” già registrata “sullo sfondo delle storiche inchieste meglio conosciute come ‘Pizza Connection’ e ‘Iron Tower’, facendo rilevare sul fronte americano anche il ruolo di taluni esponenti di spicco della mafia americana legati al noto boss Frank Calì, assassinato per futili motivi nel marzo 2019″.

L’operazione rappresenta l’ultimo tassello del fisiologico proseguo della famosa inchiesta “Pizza Connection”, coordinata negli anni Ottanta da Giovanni Falcone. Nel quadro della storica indagine, il giudice palermitano – grande protagonista del Maxiprocesso a Cosa Nostra, ucciso dalla mafia il 23 maggio 1992 mentre ricopriva il ruolo di direttore degli affari penali al ministero della giustizia – si avvalse della collaborazione del procuratore distrettuale di New York Rudolph Giuliani e dell’Fbi. Una partnership grazie a cui si poté appurare l’esistenza di un traffico di stupefacenti tra Palermo e New York, che vide tra i principali protagonisti i boss Leonardo Greco e Gaetano Badalamenti, legatissimi ai Gambino. Corsi e ricorsi della storia della lotta al crimine organizzato. [di Stefano Baudino]

Estratto dell’articolo di Miriam Colaleo per corriere.it domenica 15 ottobre 2023.

«Mio padre era un genio, aveva detto a mia madre di comprare una tavola di compensato e aveva costruito, da solo, il suo nascondiglio». A parlare è Lidia Arena, TikToker 37enne di Catania, mentre in live sul social racconta dell’arresto di suo padre, Giovanni Arena, boss legato al clan Santapaola e per 18 anni latitante. «Era sempre stato a casa, con noi, non usciva mai se non sul balcone, per una sigaretta, ma senza farsi vedere». 

Il boss, oggi condannato a due ergastoli e in regime di 41bis a L’Aquila, era riuscito a sfuggire all’arresto durante l’operazione “Orsa Maggiore” nel 1993 e per questo inserito tra i 30 latitanti più pericolosi d’Italia. Nella diretta social Lidia Arena ripercorre il giorno dell’arresto, avvenuto solo nel 2011: «Io pensavo che mio padre sarebbe stato a casa in eterno, invece quel giorno, quando ho capito che sapevano dove cercarlo, mi è crollato il mondo».

Arena, ricercato per associazione mafiosa, detenzione di armi, traffico di droga e per l’omicidio di Maurizio Romeo esponente di un clan rivale, fu arrestato proprio nella sua casa di Librino, a pochi passi dal centro dello spaccio, fortezza della sua famiglia. 

Nella diretta - con migliaia di persone collegate che fanno domande, si appassionano alla storia, vogliono dettagli - Lidia è un fiume in piena, «sono arrivati in 50 o 60 e io all’inizio parlavo con tutti, ero tranquilla, tanto era successo molte volte». Qualcuno, tra i commenti, chiede a Lidia Arena se qualcuno «aveva fatto la spia», lei risponde laconica «e tu che dici?». «Non posso essere arrabbiata con mio padre, mi dispiace per le sue scelte, ma è il mio eroe» continua a spiegare la “creator”, che tra risate e applausi registrati, a un certo punto si commuove parlando dell’ultimo abbraccio con il padre […]

Perché in effetti Lidia Arena non sta raccontando una storia segreta, la storia della sua famiglia è ben nota: anche i fratelli e la madre - considerata «la zarina del palazzo di cemento» - sono stati arrestati in questi anni con vari capi d’accusa: dall’omicidio all’associazione mafiosa. La stessa Lidia Arena, che nella live si lascia andare dicendo «neanche io sono stata brava in passato», per poi aggiungere una risata registrata, è stata arrestata nel 2012 per detenzione di armi e munizioni comuni e da guerra, ricettazione e detenzione di stupefacenti. […]

Unità del 17 marzo 1948. Placido Rizzotto, il trentacinquesimo assassinio. «“Dov’è Rizzotto?” Questo grido, scandito a pieni polmoni dal segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio a Palermo, in Piazza Politeama gremita, me lo ricordo con un brivido. Gridava scandendo “Do-vè Ri-zzo-tto” tante e tante volte, come se aspettasse risposta, e l’eco rimbombava passava girava si perdeva nella piazza raggelata, con decine di migliaia di persone che trattenevano il fiato e le lacrime», racconta un testimone a Giuliana Saladino nel suo libro Terra di rapina, uscito nel 1977 e che tanto fece discutere. Paolo Persichetti su L'Unità il 23 Maggio 2023 

«“Dov’è Rizzotto?” Questo grido, scandito a pieni polmoni dal segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio a Palermo, in Piazza Politeama gremita, me lo ricordo con un brivido. Gridava scandendo “Do-vè Ri-zzo-tto” tante e tante volte, come se aspettasse risposta, e l’eco rimbombava passava girava si perdeva nella piazza raggelata, con decine di migliaia di persone che trattenevano il fiato e le lacrime», racconta un testimone a Giuliana Saladino nel suo libro Terra di rapina, uscito nel 1977 e che tanto fece discutere.

Il paesaggio agrario della Sicilia nel secondo dopoguerra era ancora dominato dalla presenza del grande latifondo. Il movimento contadino, incentivato dal decreto del 19 ottobre 1944 varato dal ministro dell’agricoltura, il comunista Fausto Gullo, che distribuiva i terreni incolti a cooperative di contadini, si oppose a questo sistema attraverso l’occupazione dei latifondi. Sulle lotte contadine si abbatté una fortissima repressione giudiziaria e poliziesca. Oltre tremila furono i braccianti denunciati, solo 386 quelli assolti. In tutto furono processati 2.323 contadini, condannati complessivamente a 293 anni e 36 mesi di reclusione. Alla durissima repressione contro le lotte bracciantili contribuì la saldatura di un blocco agrario-mafioso appoggiato dalla Democrazia cristiana. Il ruolo giocato nello sbarco angloamericano in Sicilia diede nuova linfa alle famiglie mafiose incaricate dagli agrari di gestire e proteggere i latifondi, vessando la manodopera bracciantile col «gabellotto», l’imposta mafiosa, e il caporalato. Sui dirigenti del movimento contadino si abbatté la rappresaglia mafiosa. Le sparizioni e le uccisioni seguiranno nei decenni successivi, anche quando la vecchia mafia agraria divenne metropolitana arricchendosi con il traffico dell’eroina, il racket e gli appalti pubblici, fino all’omicidio, nell’aprile del 1982, del segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, e del suo autista, Rosario Di Salvo.

Nel corso della campagna elettorale del 1948 nella provincia di Palermo furono compiuti alcuni dei più efferati delitti: Placido Rizzotto a Corleone, Epifanio Li Puma a Petralia e Cangelosi a Camporeale. Non a caso tutti e tre socialisti. Nonostante la scissione della componente socialdemocratica in Sicilia i socialisti erano rimasti uniti. Il blocco agrario-mafioso non colpiva solo per difendere i propri interessi economici ma ragionava anche di politica. Placido Rizzotto aveva ventisei anni, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 lasciò la sua unità militare e si unì alle Brigate partigiane Garibaldi. Tornato in Sicilia fu eletto presidente dell’Anpi di Palermo e segretario della Camera del lavoro di Corleone, dove prese la direzione delle lotte per l’occupazione delle terre che permise alla cooperativa “Bernardino Verro” di Corleone la gestione di un intero feudo. Una sfida diretta al potere mafioso locale tenuto da Michele Navarra e dal boss emergente Luciano Liggio, autore materiale del delitto, insieme a Vincenzo Collura e Pasquale Criscione. Tutti e tre vennero poi assolti per insufficienza di prove, dopo aver ritrattato la loro confessione in sede processuale.

Rizzotto fu rapito la sera 10 marzo 1948, ucciso e gettato in una “ciacca” (fenditura) profonda cinquanta metri alle doline di Rocca Busambra. Diversi testimoni assistettero al rapimento e un giovane pastore di 10 anni, Giuseppe Letizia, al riparo di una roccia vide la sua esecuzione, per questo venne ucciso dal Michele Navarra.

Nel 2009 vennero finalmente ritrovati nella fenditura della Rocca alcuni resti ossei, oltre ad una cintura e una moneta in corso di validità nel 1948, ma solamente nel marzo 2012 grazie all’esame del dna giunse la conferma che quelle ossa appartenevano a Rizzotto. Il 24 marzo del 2012 si tennero i funerali di Stato in sua memoria. «Non si nasce schiavi o padroni, chi ci vuole diventare ci diventa. Noi dobbiamo restare uniti, compagni, perché da soli non si cambiano le cose» (Placido Rizzotto).

Questo articolo, firmato da uno Girolamo Li Causi, dei maggiori dirigenti del Pci dell’epoca, è stato pubblicato sull’Unità del 17 marzo 1948 con il titolo “Il trentacinquesimo assassinio”.

Il 2 marzo a Petralia Soprana in provincia di Palermo, comune al centro di una decina di borghi contadini, disseminati in una zona in cui impera sovrano il latifondo, mentre zappava il suo spezzone di terra, presente il figlio undicenne, veniva trucidato il vecchio compagno Epifanio Li Puma capo contadino che da 30 anni lottava contro i baroni, contro gli Sgadari, i Mocciari, i Pottino. Il delitto, per ammissione stessa delle autorità, è politico; tutti sanno chi lo ha premeditato, organizzato ed eseguito. Anche la polizia lo sa. Li Puma veniva freddamente atterrato da due briganti della banda di Dino, banda che vive grazie alla complicità dei baroni che le assicurano ospitalità, sussistenza, protezione. Niente giustifica l’efferato delitto. Li Puma, padre di nove figli, contadino poverissimo, aveva trascorso tutta la sua esistenza lavorando la terra, dirigendo la lega contadina di Petralia, organizzando la cooperativa “La madre terra” che da tre anni è in lotta con i signori feudali per il possesso meno precario della terra, per più umane condizioni di esistenza. Dal Marchese proprietario, al campiere che indica ai banditi la vittima perché non sbaglino, ai sicari rotti ad ogni delitto, la catena è limpida. Ma la polizia come già per altre decine di contadini capilega trucidati in questi ultimi mesi archivia le pratiche. Lo spaventoso è che le autorità hanno rinunziato persino a scoprire chi sono stati gli assassini dell’avv. Campo, vice segretario regionale della Democrazia cristiana ucciso mentre in macchina si recava da Alcamo in provincia di Trapani ad Agrigento. Scelba ha mandato già un suo ispettore centrale; ma questi dopo poche ore di permanenza a Palermo, ha fatto ritorno a Roma senza aver concluso nulla. La Democrazia cristiana non ha interesse a scoprire gli assassini dell’avv. Campo, perché, come si ammette dall’opinione pubblica siciliana, specialmente da quegli strati che più sono qualificati per esprimere opinioni e giudizi su tali misfatti, dovrebbe scoprire i suoi legami con quelle organizzazioni criminose che vanno sotto il generico nome di mafia.

Non erano ancora trascorsi sette giorni dall’assassinio di Li Puma ed ecco che a Corleone, altro grossissimo borgo al centro anch’esso di una delle più caratteristiche zone del latifondo, in provincia di Palermo, sparisce il segretario di quella Camera del Lavoro e presidente di quella sezione reduci e combattenti. Placido Rizzotto, partigiano garibaldino.

Fino a questo momento nulla si sa della sua sorte. Centinaia di contadini divisi in squadre battono la campagna, esasperati, trepidanti, seguiti dall’ansia di tutto un popolo che non sa darsi pace della efferatezza del delitto. Ma si sa che l’ultima persona che il Rizzotto incontrò la sera del mercoledì 10 marzo fu il gabelletto del feudo “Drago” proprietà del barone Alù e della baronessa Cammarata: feudo dal quale, dopo due anni di vana richiesta da parte della cooperativa “Bernardino Verro”, solo nel dicembre scorso i contadini erano riusciti a strappar 50 ettari di terra.

Ebbene fino ad avanti ieri mattina Pacciardi, vice-presidente del consiglio per l’ordine pubblico, ignorava che in Sicilia era stato assassinato Li Puma ed era scomparso Rizzotto. E Scelba? Non sappiamo se anche lui lo ignorasse: però sappiamo che egli si sta dando un gran da fare per occultare le prove della complicità di agenti dello spionaggio americano con il banditismo siciliano. Precisamente egli intima ai suoi organi periferici di consegnargli le copie eventualmente esistenti della lettera del bandito Giuliano al giornalista americano Stern, nella quale il bandito chiede armi. Pesanti per la lotta contro il bolscevismo e da indicazioni pratiche per migliorare i suoi collegamenti con gli agenti americani. A Palermo il governo regionale ricostituitosi con la presidenza dell’avvocato Alessi, ma con la partecipazione dei gruppi di destra che lo avevano prima gettato nel fango per poi averlo più prono ai loro voleri, venerdì scorso si è rifiutato di rispondere ad una interrogazione urgente del Blocco del Popolo che gli chiedeva conto della fine del Rizzo e delle gravissime condizioni della pubblica sicurezza in Sicilia. […] Paolo Persichetti

Il “rapporto dei 161”, l’origine del maxi processo a Cosa nostra. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 26 giugno 2023

Il rapporto dei 161 è la prima pietra di quello che diventerà poi il maxi processo a Cosa nostra. È così - nell'estate del 1982 - che è partita la risposta poliziesca-giudiziaria allo strapotere mafioso

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

È l'origine del maxi processo, un dossier che svela la nuova realtà mafiosa palermitana. È il “rapporto dei 161” firmato dai poliziotti Ninni Cassarà e Francesco Accordino e dal capitano dei carabinieri Angiolo Pellegrini – presentato alla procura di Palermo il 13 luglio 1982 e al giudice istruttore Giovanni Falcone – per delineare «i contorni dei nuovi assestamenti e aggregati mafiosi, la natura degli obiettivi illeciti da loro perseguiti, le responsabilità emerse a carico dell'associazione mafiosa o di ciascuno dei componenti di essa, in ordine ai singoli episodi criminosi succedutisi, sotto il profilo territoriale, ma non solo in ambito siciliano ma anche in ambito nazionale».

Lì dentro troviamo già i nomi di boss e di gregari che hanno fatto la storia di Cosa nostra. Ci sono tutti: non solo i Riina e i Provenzano, ma anche i Brusca e i Badalamenti, i Savoca e i Fidanzati, i Grado e i Vernengo, i Prestifilippo e i Marchese. E ancora Spadaro, Calò, Pullarà, Buscemi. E poi Buscetta e Contorno quando ancora dovevano “fare il salto”, prima di iniziare a collaborare con la giustizia. Soprattutto ci sono loro, i Greco, Michele e Salvatore, l'aristocrazia mafiosa che aveva fatto di Ciaculli e di Croceverde-Giardini i propri feudi privati frequentati da uomini politici, ufficiali dei carabinieri, alti magistrati e perfino cardinali.

Il rapporto dei 161 è la prima pietra di quello che diventerà poi il maxi processo a Cosa Nostra. È così - nell'estate del 1982 - che è partita la risposta poliziesca-giudiziaria allo strapotere mafioso.

Il capo della sezione "investigativa" della squadra mobile di Palermo Ninni Cassarà non riuscirà però a vedere il risultato preziosissimo del suo straordinario lavoro. Sarà ucciso il 6 agosto 1985,sotto casa e sotto le raffiche dei kalashinikov. L'ultimo delitto eccellente nella Palermo che si stava preparando a celebrare il maxiprocesso.

L’indagine che entra nei misteri di mafia e che segna una svolta storica. RAPPORTO DELLA SQUADRA MOBILE DI PALERMO su Il Domani il 26 giugno 2023

Non vi é dubbio che il presente rapporto contenga indiscutibili elementi indizianti che non sono assurti a dignità di prova in termini processuali perché i viscidi tentacoli del terrore, della paura, della sfiducia e della reticenza, hanno avvolto nelle loro spire quanti, in clima di maggiore credibilità e fiducia, avrebbero sottoscritto le dichiarazioni oralmente rese e avrebbero firmato gli anonimi pervenuti negli uffici...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

Per un complesso di motivazioni di natura storica, etnica, economica, politica e geografica sulle quali si ritiene più opportuno si soffermi la attenzione del sociologo e del politico, che non degli organi di polizia, - nella provincia di Palermo in particolare, ma, in generale, nelle provincie della Sicilia occidentale, esiste ed opera da tempo la mafia, fenomeno complesso e poliedrico, dalle molteplici implicazioni e connotazioni, che affondano radici profonde nella storia, nella cultura e nel modo di essere e di sentire siciliano, ma che, in questa sede, intenderemo nella sua superficiale accezione di organizzazione criminale le cui ramificazioni e promanazioni nefande, già tristemente note alla Sicilia e alla nazione, continuano ad incidere, in termini di parassitismo, violenza, sopruso, clientelismo e corruzione, sul tessuto socio  economico - politico italiano alla stregua di un allucinante ed irrefrenabile processo di metastasi cancerogena.

Essa é costituita da un coacervo di aggregati o gruppi criminali di cui, allo stato, appare difficile delineare la precisa struttura, l'esatta consistenza numerica, la circostanziata influenza territoriale ed economica, a causa di profondi mutamenti verificatisi in seno ad essi gruppi dalla primavera dell'anno scorso ad oggi, periodo in cui il quadro generale dell'organizzazione mafiosa palermitana, ma che anche del trapanese e dell'agrigentino, é stato completamente sovvertito a seguito di sanguinose lotte intestine, con la soppressione di esponenti mafiosi di primo piano e ,lo smantellamento di “famiglie” che sino ad allora avevano mantenuto un ruolo indiscusso di cristallizzata supremazia.

Tali considerazioni di carattere generale ancorché pleonastiche in quanto già ampiamente rappresentate in occasione dei gravi fatti criminosi che hanno profondamente turbato le coscienze degli onesti e di quanti credevano nelle istituzioni dello stato - vengono qui ulteriormente ribadite perché strettamente connesse in termini logici e cronologici alle argomentazioni che costituiscono il contenuto del presente rapporto, nel corso del quale gli inquirenti si prodigheranno per far convogliare, in un contesto logico e deduttivo non disgiunto da consistenti note di concretezza, le risultanze del lavoro investigativo svolto, dall'inizio dell'anno 1981 alla data attuale, da Squadra mobile e nucleo operativo dei carabinieri i quali hanno profuso, in tale lunga, tenace, silente attività il massimo degli sforzi e il più generoso impegno.

Finalità precipua del presente rapporto é quella di delineare, attraverso la disaminata accurata dei numerosi fatti di sangue verificatisi durante il periodo sopracitato e, sulla scorta di quanto acclarato nel corso delle indagini, i contorni dei nuovi assestamenti e aggregati mafiosi, la natura degli obiettivi illeciti da loro perseguiti, le responsabilità emerse a carico dell'associazione mafiosa o di ciascuno dei componenti di essa, in ordine ai singoli episodi criminosi succedutisi, sotto il profilo territoriale, ma non solo in ambito siciliano ma anche in ambito nazionale.

In concreto si intende ricostruire, partendo dalle sue origini e dalle cause che l'hanno determinata, la cruenta guerra insorta tra le cosche mafiose della Sicilia occidentale che ha sconvolto i vecchi equilibri faticosamente raggiunti e decretato il nuovo ordine del panorama mafioso.

A tal fine, non potendo in un rapporto di associazione per delinquere mafiosa rintracciarsi prove attraverso interrogatori di imputati e di testimoni, o attraverso riferimenti obiettivi di tracce di reato, - in quanto tutto ciò non consegue - alla tipologia del reato mafioso commesso da soggetti mafiosi - assumono il massimo interesse , per l'acquisizione e l'esaltazione degli indizi probatori, le circostanze emerse da ammissioni di confidenti, gli scritti anonimi, la particolare capacità a delinquere dei soggetti esaminati, il modus operandi tipico nell'esecuzione del crimine l'atteggiamento reticente delle vittime, i rapporti di parentela, di affinità, di affari tra gli associati e, per ultimo, ma non per questo meno importante, il nesso logico che lega i vari episodi delittuosi.

Pare comunque opportuno e necessario evidenziare che il particolarissimo ambito nel quale si svolge la presente indagine, impone il ricorso alle già sperimentate doti di sensibilità, da parte di codesta procura, al fine di valutare con la dovuta perizia circostanze di fatto e rapporti soggettivi che nella considerazione dei fatti di mafia hanno significato preminente.

Non vi é dubbio, per altro, che il presente rapporto - compendio del "maximum" degli sforzi investigativi” che polizia e carabinieri hanno profuso nel corso di oltre quindici mesi di indagini, funestati da omicidi, scomparse, attentati e altri gravi delitti – sorretto, in parte, da inattaccabili architetture probatorie, contenga, nella sua globalità, indiscutibili elementi indizianti che non sono assurti a dignità di prova in termini processuali perché i viscidi tentacoli del terrore, della paura per la propria incolumità, della sfiducia e della reticenza, hanno avvolto nelle loro spire quanti, in clima di maggiore credibilità e fiducia, avrebbero sottoscritto le dichiarazioni oralmente rese e avrebbero firmato gli anonimi pervenuti negli uffici di polizia e carabinieri, dietro ai quali sono stati costretti a nascondersi ed in cui spesso traspare apertamente l'addebito agli organi statuali che rimangono inerti pur dinanzi a situazioni criminali i cui contorni vengono rappresentati con dovizia di particolari, per amore vero di giustizia e non per acrimonie personali.

Allo stato, dunque, l'arduo compito di ridare serenità a quanti la chiedono, fiducia agli scettici, credibilità e vigore alle sue istituzioni che, in questa Palermo dilaniata dalle faide mafiose vengono quotidianamente mortificate, ignorate, vanificate.

RAPPORTO DELLA SQUADRA MOBILE DI PALERMO

E dopo l’omicidio del boss Beppe Di Cristina, un’apparente “pax” mafiosa. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 27 giugno 2023

Dal maggio 1978, epoca dell'omicidio di Giuseppe Di Cristina, all'aprile del 1981, data dell'uccisione di Bontate Stefano, non si é registrato alcun omicidio in pregiudizio di esponenti mafiosi di primo piano. Questo dato inconfutabile ha confortato la tesi secondo la quale, tra le famiglie di mafia più influenti, fosse stato concordato un patto di non belligeranza...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

Da quanto sopra detto, - che si vorrebbe non apparisse espressione di vacua retorica bensì di un problema attuale e angosciante che se non si dovesse risolvere, potrebbe prendere ulteriori, più gravi ed irreversibili patologie sociali, - discende la necessità per gli organi statuali preposti alla difesa delle libertà individuali, dell'ordine e della sicurezza pubblica, nonché alla repressione del delitto, di esaltare al massimo grado gli indizi a carico contenuti nel presente rapporto che, si é convinti, pur nella vaghezza delle acquisizioni probatorie, contiene gli elementi che gli investigatori sommessamente ritengono idonei e suscettibili, da parte di codesto Ufficio, con la collaborazione degli organi di polizia che hanno condotto le indagini, di ulteriori futuri sviluppi e di una più solida impalcatura probatoria.

L'analisi del fenomeno del crimine organizzato in campo mafioso in questa provincia, esaminato retrospettivamente a decorrere dal 1978, ha evidenziato determinate caratteristiche peculiari, che sinteticamente vengono appresso accennate.

ASSENZA DI DELITTI IN DANNO DI MAFIOSI

Dal maggio millenovecentosettantotto, epoca dell'omicidio di Giuseppe Di Cristina, all'aprile del millenovecentonttantuno, data dell'uccisione di Bontate Stefano, non si é registrato alcun omicidio in pregiudizio di esponenti mafiosi di primo piano.

Questo dato inconfutabile ha confortato la tesi secondo la quale, tra le famiglie di mafia più influenti, fosse stato concordato un patto di non belligeranza fondato sulla suddivisione di sfere d'influenza territoriale e di campi di intervento.

Si è infatti osservato che ciascuna cosca aveva espresso la propria sovranità nella propria zona d'influenza, inserendo i propri adepti in tutte le attività commerciali ed imprenditoriali ricadenti nel proprio territorio.

INTERESSI ECONOMICI FINANZIARI E SOCIETARI

E' emerso che tra appartenenti a distinte famiglie di mafia sono state realizzate società d'affari, come meglio sarà evidenziato nel corso del rapporto. In tale periodo si é dunque rilevato che tutto l'apparato mafioso risultava cementato e potenziato da un effettivo ancorché tacito patto d'alleanza stipulato tra le tradizionali e nuove famiglie di mafia, sia nella città che in provincia, sulla base della riconosciuta necessità di coesistenza diretta a realizzare, con larghi margini di sicurezza, più ingenti lucri derivanti dall'illecito traffico degli stupefacenti e dal reinvestimento, in attività apparentemente lecite, del denaro proveniente dal crimine.

TRAFFICO DI SOSTANZE STUPEFACENTI

La constatazione, più volte acclarata, che tutti gli aggregati mafiosi si erano associati per la gestione del traffico internazionale de gli stupefacenti, costituisce un ulteriore elemento che vale a sottolineare l'assunto del sostanziale accordo tra le varie famiglie.

Quella “zona grigia” che sostiene il potere mafioso. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 28 giugno 2023

Essa è costituita da una molteplicità di protettori di mafiosi, favoreggiatori, conniventi, informatori, debitori per denaro o per favori ricevuti; ricattati, intimiditi etc., non soltanto nell'ambito naturale della malavita comune, ma anche in tutti gli altri settori della società...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

Le indagini di polizia giudiziaria e le successive inchieste giudiziarie condotte nel periodo sopra indicato hanno dimostrato in modo inconfutabile che il vero big business del crimine organizzato di stampo mafioso é stato il traffico internazionale degli stupefacenti dal quale ciascuna cosca ha tratto grandi disponibilità finanziare. A riprova di quanto sopra basta accennare:

alla denuncia di Spatola più cinquantaquattro; nel maggio del millenovecentottanta le indagini condotte dalla Squadra Mobile, dal Gruppo Carabinieri e dalla Guardia di Finanza di questa città dirette ad identificare colore che operavano nei settori più remunerativi delle attività illecite, permettevano di acquisire concreti elementi di prova in ordine all'esistenza di: una vasta, ramificata e potente organizzazione criminale - mafiosa - facente capo alle famiglie SPATOLA, INZERILLO, GAMBINO e DI MAGGIO; un traffico di sostanze stupefacenti che parttendo da Palermo venivano smerciate negli U.S.A. ed in altri centri dell'Italia settentrionale; un flusso di denaro proveniente dal commercio della droga, che veniva riciclata nel settore edile; rapporti di natura economica tra le famiglie sopra citate e il noto banchiere Michele Sindona;

alla denuncia di ALBERTI Gerlando più undici, l 25 agosto 1980 le forze di Polizia, a seguito di servizi informativi, di pedinamento e di intercettazione telefonica pervenivano: all'arresto di Gerlando ALBERTI, CITARDA Vincenzo, BOUSQUET André, RANEM Jean Claude, CHAMPOIT Jean Claude, BUCCOLA Matteo, ANDREINI Attilio e VALGUARNERA Giacomo; alla denuncia in stato d'irreperibilità di DORE' Pietro, QUILICHINI Dominique Antonina, VITALE Anna e VITALE Francesco; alla scoperta di due laboratori clandestini per la trasformazione della droga, allestiti rispettivamente in un fabbricato rustico ubicato in contrada S. Onofrio di S. Nicola L'Arena e in un villino sito in località "Giummarra" agro di Carini;

alla denuncia di BADALAMENTI più sedici; in ordine ai delitti di traffico internazionale di sostanze stupefacenti e riciclaggio di ingenti somme di denaro provenienti dalle illecite attività;

alla denuncia di GALLINA Salvatore più nove e al sequestro di chilogrammi 10,272 di eroina; dal dicembre millenovecentottanta al febbraio millenovecentottantuno dal controllo delle utenze telefoniche della rete di Palermo e di Certaldo (FI) emergevano elementi che portavano alla denuncia dei prevenuti e al sequestro rispettivamente a Firenze e a New York di due partite di stupefacenti; giova evidenziare che GALLINA Salvatore, è notoriamente legato alla famiglia di BADALAMENTI Gaetano e che é stato colpito da mandato di cattura emesso dal Giudice Istruttore Dottor FALCONE nell'ambito dell'inchiesta a carico di SPATOLA Rosario ed altri;

alla denuncia di COPPOLA Francesco più dieci; le indagini svolte a Palermo dal dicembre millenovecentottanta al febbraio millenovecentottantuno, su un'organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti consentivano di stabilire evidenti collegamenti tra gli associati palermitani ed elementi operanti nella zona Roma – Pomezia facenti capo al noto boss mafioso COPPOLA Francesco. Nel corso dell'operazione venivano sequestrati chilogrammi 0,500 di eroina;

alla denuncia di CUTAIA più quattordici; dal marzo al maggio millenovecentottantuno, a seguito alla dichiarazioni rese al Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma, Dottor PALMA, da tale OLIVERI Egidio si accertava che l'organizzazione criminale facente capo ai fratelli CUTAIA, aveva il compito di far giungere dal Medio Oriente in Sicilia, notevole quantità di morfina base che trasformata in eroina veniva poi venduta negli U.S.A;

alla denuncia di GILLET Albert, le indagini conseguenti all'arresto del belga GILLET Albert, trovato il 3 maggio 1980 all'aeroporto Leonardo da Vinci di Roma, in possesso di chilogrammi 8 di eroina, portavano all'identificazione di una vasta e potente organizzazione criminale mafiosa dedita al traffico internazionale di stupefacenti, facenti capo in Italia a MAFARA Francesco e in U.S.A. a CEFALU' Richard. L'autorità Giudiziaria di Palermo emetteva mandato di cattura nei confronti di MAFARA Francesco e di altre quattordici persone. E' importante riferire che nel corso delle dichiarazioni rese da Charlier Paul Herich, allo scopo di chiarire il ruolo nella vicenda che aveva condotto GILLET Albert alla incriminazione per traffico di stupefacenti, oltre a confermare il ruolo di MAFARA Francesco nell'ambito dell'organizzazione operante in Palermo, precisava che in questa città esistevano cinque “famiglie” consorziate che gestivano altrettanti laboratori per la fabbricazione dell'eroina.

Gli enormi profitti derivanti dalla raffinazione e dal commercio dell'eroina, concretizzati in un fiume di dollari pervenuti attraverso strade diverse, nella città di Palermo, hanno poi trovato riscontro negli investimenti immobiliari e nell'improvviso sorgere di varie imprese edilizie, come é emerso nel corso degli accertamenti patrimoniali, bancari e finanziari che hanno evidenziato altresì gli incredibili arricchimenti realizzati in tempi assai brevi da mafiosi e da loro congiunti.

Si viene a realizzare, in tal modo, come accade negli Usa per "Cosa nostra" il passaggio dalle “illegittimate activities” alle “1egittimate industries”.

In tale fase di "riciclaggio" delle ricchezze provenienti dal traffico della droga in attività economiche oggettivamente legali, si verifica il coinvolgimento diretto ed indiretto, volontario o coartato, consapevole e non di altri ambienti e strutture sociali, economiche, politiche, amministrative e finanziarie.

Appare opportuno evidenziare, a questo punto, che la potenza dell'organizzazione mafiosa operante in questa città non deriva solo dal numero e dalla qualità dei vari associati, dagli ingenti mezzi economici disponibili o dai legami di mutuo soccorso con altri gruppi criminali anche stranieri, ma soprattutto dalle ramificate commistioni, che essa é riuscita a realizzare col tessuto connettivo sociale ed economico cittadino fondendosi con esso e conseguendo, sulla base di tale "orrido innesto" la disponibilità di una vastissima ed indefinibile "zona grigia".

Essa è costituita da una molteplicità di protettori di mafiosi, favoreggiatori, conniventi, informatori, debitori per denaro o per favori ricevuti; ricattati, intimiditi etc., non soltanto nell'ambito naturale della malavita comune, ma anche in tutti gli altri settori della società: dagli uffici pubblici statali, regionali, provinciali e comunali ai centri di potere politico, alle banche, ai consorzi, ai grandi enti pubblici e privati, alle grosse società private o a partecipazione pubblica.

I gangli vitali della mafia sono costituiti da questa "zona grigia" che la legge non riesce se non epidermicamente a colpire per la sua vastità, ed inesauribilità.

RAPPORTO DEI 161

Delitti “preventivi” e “dimostrativi”, le vittime eccellenti di Palermo. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 29 giugno 2023

I delitti Giuliano, Terranova, Mattarella, Basile e Costa intendevano conseguire il duplice scopo di eliminare fisicamente coloro che avevano intralciato o avrebbero potuto intralciare i piani della consorteria criminale e di ingenerare, altresì, uno smarrimento collettivo tale da porre una remora nella lotta alla mafia

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

Nello stesso periodo si sono invece registrati numerosi delitti che hanno colpito alcuni fra i più validi protagonisti della vita pubblica i quali avevano ostacolato in vario modo a diverso livello ed in varie fasi, le attività mafiose.

Tale ultimo dato dimostra l'intransigenza, la temerarietà e la ferocia con le quali le famiglie di mafia hanno inteso salvaguardare e dimostrare l'intangibilità dei loro traffici e costituisce, quindi, anch'esso elemento di riconoscimento dell'identità di vedute e di interesse.

Gli omicidi di BORIS Giuliano, Cesare TERRANOVA, Piersanti MATTARELLA, Emanuele BASILE, Gaetano COSTA rappresentano la dimostrazione di una comune strategia d'intervento, lucidamente perseguita per la difesa di un'attività lucrosa comune.

Se infatti appare ormai assodato che l'interesse primario delle varie famiglie é il traffico degli stupefacenti; se é stato accertato che per conseguire i loro obiettivi i vari aggregati mafiosi hanno, non solo decretato una tregua, ma anche realizzato un vero e proprio pool negli acquisti di materia prima e nella vendita del prodotto finito; se é vero che i vari GIULIANO, TERRANOVA, MATTARELLA, BASILE, COSTA, ciascuno nel proprio ambito, avevano contrastato e si apprestavano a contrastare le attività illecite delle cosche mafiose; non può che concludersi che la loro morte sia stata decretata e realizzata per poter continuare ad incrementare gli ingenti profitti che il traffico degli stupefacenti consente.

Sarebbe pertanto miope ritenere che ciascuno di essi sia rimasto vittima di un occasionale differente incidente di percorso, e ciò a prescindere dalle considerazioni che uno solo di tali omicidi, se non realizzato con il consenso di tutto il ghota mafioso, avrebbe certamente provocato gravissimi contraccolpi.

Tali delitti invece intendevano conseguire il duplice scopo di eliminare fisicamente coloro che avevano intralciato o avrebbero potuto intralciare i piani della consorteria criminale e di ingenerare, altresì, uno smarrimento collettivo tale da porre una remore nella lotta alla mafia.

La premessa sin qui illustrata, utilizzata per delineare il quadro del fenomeno mafioso stratificatosi nel periodo compreso tra il maggio del 1978 e i primi mesi del 1981, come si è visto, caratterizzato da precipue linee di condotta. RAPPORTO DEI 161

Fra’ Giacinto e il vecchio Giuseppe Panno, così inizia la mattanza. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 30 giugno 2023

Gli omicidi di Stefano Bontate e di Salvatore Inzerillo rappresentano infatti l'estrinsecazione emblematica di una frattura ormai insanabile tra le varie cosche mafiose, anche se si erano registrati o erano stati recepiti alcuni segni premonitori: L'omicidio di frate Giacinto e la sparizione di Giuseppe Panno, ritenuti ambedue vicini alla famiglia Bontate...

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Questa realtà si è certamente modificata, proprio a decorrere dal marzo 1981.

Gli omicidi di Stefano BONTATE e di Salvatore INZERILLO rappresentano infatti l'estrinsecazione emblematica di una frattura ormai insanabile tra le varie cosche mafiose, anche se si erano registrati o erano stati recepiti alcuni segni premonitori.

L'omicidio di frate Giacinto e la sparizione di Giuseppe PANNO, ritenuti ambedue vicini alla famiglia BONTATE, costituiscono le uniche indicazioni obiettive a cui oggi é possibile fare riferimento.

A ciò può aggiungersi, come dato di fatto, la successione di INZERILLO Salvatore al posto del defunto DI MAGGIO Rosario, alla testa di un gruppo di mafia potente, compatto ed omogeneo, particolarmente influente perché direttamente collegato con le grandi famiglie di “Cosa nostra” negli U.S.A.

Nel contesto dei motivi che hanno determinato l'insorgere di contrasti insanabili tra i vari aggregati mafiosi, bisogna pure tenere conto delle conseguenze che, nel periodo considerato, hanno provocato gli interventi spesso decisivi della Polizia Giudiziaria e della Magistratura.

I vari sequestri di ingentissime somme in valuta statunitense e italiana; la perdita di svariate partite di eroina, con i conseguenti mancati profitti; l'arresto di boss mafiosi di spicco quali Gerlando ALBERTI, Rosario SPATOLA, Giovanni BONTATE, Leoluca BAGARELLA ed altri; l'arresto del chimico francese BOUSQUET; la perdita di quattro raffinerie di eroina; le confessioni di alcuni corrieri; la scoperta dei canali di riciclaggio dei dollari; le indagini sul finto sequestro di Michele SINDONA; tutte le indagini istruttorie conseguenti, alcune con esiti devastanti per le varie organizzazioni mafiose, hanno sicuramente contribuito a modificare uno status e a disarticolare il fronte comune che le famiglie mafiose di questa provincia avevano realizzato.

Il 23 aprile 1981 intorno alle ore ventitré, nella via Aloi, veniva assassinato il leader indiscusso della famiglia mafiosa di Villagrazia, Stefano BONTATE.

Il boss, dopo avere festeggiato il suo compleanno con amici e parenti stava dirigendosi presso la sua tenuta, sita in contrada Mazzocco, ove per ragioni di prudenza e di sicurezza, trascorreva la notte.

Al momento dell'intervento da parte delle Forze di Polizia, sul corpo crivellato da numerosi colpi di lupara e di fucile mitragliatore del tipo Kalashnikov venne rinvenuta una pistola calibro sette e sessantacinque parabellum e nei pressi dell'autovettura furono trovate alcune tracce di sangue che si pensò, nell'immediatezza, fossero state lasciate da una persona trasportata dal BONTATE e

rimasta ferita.

Nel corso di successive indagini si accertò, invece, che quella sera il BONTATE era preceduto da un'altra autovettura, che gli faceva da staffetta, condotta da DE GREGORIO Stefano, risultato suo uomo di fiducia guardia spalle e sovraintendente nei suoi agrumeti.

Venne altresì verbalizzato che il DE GREGORIO aveva tentato di soccorrere il BONTATE e, riscontrando che lo stesso era ormai morto, si era allontanato lasciando sull'asfalto) con la scarpa intrisa di sangue/le tracce rinvenute in sede di sopralluogo. RAPPORTO DEI 161

L’eliminazione di Stefano Bontate e poi quella di Salvatore Inzerillo. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani l'01 luglio 2023

Alcune considerazioni di carattere strettamente logico, successivamente avallate da serie notizie confidenziali e riscontrata da precise testimonianze, privilegiavano l'ipotesi che sia Bontate Stefano che Inzerillo Salvatore fossero stati uccisi per identico motivo e dalla stessa mente organizzativa...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

Le indagini non consentirono di trovare una causale specifica che giustificasse un omicidio di così rilevante portata, ma non sfuggì la possibile relazione con l'omicidio e l'occultamento del cadavere di PANNO Giuseppe da Casteldaccia (11 marzo 1981), ed il valore da dare alla circostanza che il BONTATE portava con se un'arma e preferiva dormire fuori casa.

È infatti impensabile che un individuo navigato ed esperto come BONTATE rischiasse una severissima condanna per porto e detenzione abusiva di arma, a meno di non voler ritenere che lo stesso si trovasse in una situazione di pericolo tale da sentirsi necessitato a portare con se la pistola.

Le modalità dell'agguato evidenziano poi una perfetta conoscenza delle abitudini della vittima e si ipotizzo quindi, sin da allora, l'eventualità che tra i promotori dell'uccisione potessero esservi elementi facenti parte della stessa cosca mafiosa capeggiata dall'ucciso.

Il giorno 11 maggio dello stesso anno, all'interno del condominio di via Brunelleschi numero 51, venne ucciso INZERILLO Salvatore, anch'egli a colpi di Kalashnikov e di fucile caricato a lupara. Si riscontrò che l'INZERILLO, boss indiscusso di Passo di Rigano, Uditore, Bellolampo, Bocca di Falco, Borgo Nuovo etc., era in possesso di un'Alfetta2000 blindata e di un revolver 357 magnum.

Si accertò che l'INZERILLO aveva avuto la disponibilità dell'autovettura blindata solo il giorno prima della sua uccisione e che i bossoli del Kalashnikov erano stati sparati dalla stessa arma usata per l'omicidio di BONTATE Stefano.

Dall'esame di alcuni fatti obiettivi e da notizie confidenziali provenienti da fonte di già riscontrata attendibilità, emerse: che la sera del 9 maggio 1981 ignoti avevano esploso numerosi colpi con un fucile mitragliatore Kalaschnikov contro le vetrine blindate della gioielleria CONTINO; che anche tali bossoli erano stati sparati dal medesimo fucile mitragliatore; che l'INZERILLO si era recato nel complesso edilizio di via Brunelleschi, costruito dall'impresa SPATOLA , INZERILLO, GAMBINO, di cui faceva parte, per far visita ad una donna a cui era sentimentalmente legato.

Da quanto sopra si dedusse che gli autori dell'omicidio sapeva già che la vittima sarebbe stata in possesso di un'auto blindata prima che la vettura giungesse a Palermo tanto é che provarono l'efficacia dell'arma sparando contro i vetri blindati della gioielleria CONTINO; che gli stessi autori conoscevano bene, se non addirittura intimamente, le abitudini dell'INZERILLO, tanto da sapere l'esatta ubicazione dell'abitazione della sua amante.

Anche a proposito di tale omicidio si avanzò il sospetto di un tradimento verificatosi all'interno stesso della consorteria mafiosa guidata da INZERILLO Salvatore. E non sfuggiva neppure l'analogia con l'omicidio BONTATE, a proposito della singolare arma usata nei due delitti e della circostanza che anche l'INZERILLO portava con se, illegalmente, un'arma, con tutte le possibili conseguenze penali che ciò avrebbe potuto comportare.

In considerazione della personalità criminale di Salvatore INZERILLO, ricercato per associazione per delinquere dedita al traffico di stupefacenti ed altro, e del breve periodo di tempo intercorso con l'omicidio di Stefano BONTATE sorsero dubbi sull'interpretazione da dare ai due fatti delittuosi e vennero fatte ipotesi contrastanti: se cioè il secondo omicidio fosse stato la reazione del gruppo BONTATE alla soppressione del loro capo o se invece tutti e due gli omicidi promanassero da uno stesso disegno criminoso e quindi da uno stesso gruppo mafioso non ancora ben individuato.

Alcune considerazioni di carattere strettamente logico, successivamente avallate da serie notizie confidenziali e riscontrata da precise testimonianze, privilegiavano però l'ipotesi che sia BONTATE Stefano che INZERILLO Salvatore fossero stati uccisi per identico motivo e dalla stessa mente organizzativa. Infatti appariva inverosimile che INZERILLO Salvatore, avendo decretato la morte di BONTATE Stefano non avesse preliminarmente predisposto una serie di cautele ma, solo a distanza di venti giorni, si fosse premunito con l'acquisto di una macchina blindata.

Che anzi, l'essersela procurata nel breve volgere di venti giorni dall'omicidio BONTATE e l'essere stato trovato in possesso di un'arma, dimostrano che, proprio a causa dell'omicidio BONTATE lo stesso INZERILLO era preoccupato della propria incolumità fisica.

A distanza di pochi giorni veniva acquisita notizia confidenziale, proveniente da persona legata da vincoli di parentela con i BONTATE, secondo cui in una notte immediatamente successiva all'omicidio BONTATE, INZERILLO Santo fratello di Salvatore, anch'egli latitante, si era portato in casa BONTATE per formulare le condoglianze della propria famiglia.

Inoltre nelle dichiarazioni rilasciate da DE GREGORIO Salvatore cugino di DE GREGORIO Stefano, indicate quale guardia spalle di Stefano BONTATE nonché nipote di DE GREGORIO Carlo cognato di Stefano BONTATE, si legge che INZERILLO Santo e BONTATE Stefano viaggiavano sulla medesima auto nella via Aloi e zone limitrofe ed erano stati più volte notati dal teste. A ciò si aggiunge che la comune gestione del finto sequestro di Michele SINDONA e i continui rapporti d'affari che andavano emergendo nel corso dell'istruzione relativa al procedimento a carico di SPATOLA Rosario ed altri, confermavano l'ipotesi e consolidavano la tesi che i gruppi mafiosi BONTATE ed INZERILLO fossero saldamente legati e costituissero un fronte comune. RAPPORTO DEI 161

Tradimenti, sangue e nuove alleanze, così cambia Cosa nostra. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 02 luglio 2023

La convergente attività informativa e le univoche notizie confidenziali succedutesi nel tempo servono proprio a delineare e a convalidare l'ipotesi circa le varie fasi verificatesi, in un anno di lotta, con i conseguenti spostamenti di forza, nonché a ricostruire la nuova mappa della mafia esistente in atto

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

Pur non essendovi, all'epoca, indizi che potessero condurre le indagini sui due omicidi in una ben determinata direzione, veniva preso in considerazione un elemento che successivamente assumeva un valore particolarmente significativo; il furgone usato dai killers per portarsi all'interno del condominio in via Brunelleschi, mezzo nel quale i killers si nascosero e dal quale fecero fuoco, risultò essere stato rubato nella via Rudinì difronte al garage omonimo, ove stranamente nel corso della notte non era stato ricoverato come avrebbe dovuto essere.

La via Rudinì fa angolo con la via Michele Cipolla, strada nella quale hanno la loro residenza i MARCHESE e ricade nella zona di corso Dei Mille.

Il 26 maggio 1981 si registrò l'improvvisa e contemporanea scomparsa di TERESI Girolamo, DI FRANCO Giuseppe, FEDERICO Salvatore e FEDERICO Angelo, tutti legati al defunto BONTATE Stefano e facenti parte del clan mafioso Villagrazia, Falsomiele e Oreto, come successivamente denunciarono i rispettivi congiunti.

Circa l'appartenenza dei quattro scomparsi alla famiglia BONTATE non può esservi dubbio in considerazione dei rapporti di parentela e di affari che legavano TERESI, DI FRANCO Giuseppe e i fratelli FEDERICO a Stefano BONTATE. Girolamo TERESI infatti era cugino dei fratelli BONTATE e cognato di Giovanni BONTATE per avere sposato una CITARDA, sorella della moglie di BONTATE Giovanni. Il TERESI era pure socio di BONTATE Stefano nella Centralgas S.p.A., impresa d'imbottigliamento di gas liquido, con sede in contrada "Randazzo" di Carini.

I fratelli FEDERICO, titolari della Eurplast operante nel settore dei rivestimenti plastici per l'edilizia, erano gli abituali sub appaltatori delle imprese facenti capo ai BONTATE ed al TERESI; infatti erano stati impegnati per la definizione esterna di alcuni edifici costruiti dalla Atlantide, dalla Urania e dalla Teco oltre che dall'impresa IENNA tradizionalmente e notoriamente protetta dal boss Stefano BONTATE.

FEDERICO Salvatore ed il suocero MONDINO Girolamo stavano edificando nella zona di via Valenza una grande villa avendo come socio e progettista l'architetto MOLFETTINI Vittorio, amico di Stefano BONTATE e di GIROLAMO TERESI; per conto di quest'ultimo il MOLFETTINI aveva progettato e dirigeva i lavori di due ville ubicate sul viale Della Regione Siciliana di fronte alla via Aspromonte, ove TERESI risiedeva. Il DI FRANCO era uno degli accompagnatori di BONTATE Stefano e in più occasioni era stato notato fargli da autista.

Attraverso una incessante attività informativa si apprendeva, nei mesi successivi alla scomparsa dei quattro, che costoro erano stati soppressi dopo essersi recati ad un incontro chiarificatore a cui erano stati invitati da persone appartenenti al loro stesso gruppo di mafia.

Tali notizie venivano confermate dalle dichiarazioni rese dal più volte citato DE GREGORIO Salvatore, la cui posizione all'interno della cosca di Villagrazia non può lasciar dubbi circa l'attendibilità della testimonianza.

I positivi risultati della già citata attività informativa e le dichiarazioni testimoniali rese dal DE GREGORIO Salvatore, trovavano definitiva conferma in epoca recente nelle notizie fornite da fonte confidenziale qualificata che, nel riferire compiutamente su tutti i più gravi delitti verificatisi nel quadro della lotta per la supremazia mafiosa nella Sicilia occidentale specificatamente indicava nelle persone di: BONTA' Nino (24), cognato di PRESTIFILIPPO Salvatore; TERESI Giovanni, appaltatore di strade, abitante nel Baglio BONTATE e TERESI inteso “numero uno” gli autori della scomparsa e della soppressione di TERESI Girolamo, DI FRANCO Giuseppe, di FEDERICO Salvatore e di FEDERICO Angelo.

Gli individui indicati dal delatore sono stati identificati, come dalle schede nominative, numerate progressivamente.

Viene sin da ora fatto rilevare che le indagini esperite dal momento in cui si verificarono i primi eventi delittuosi segnalatori di una rottura di equilibri tra le varie famiglie mafiose, nonché le notizie confidenziali fornite in varie epoche e fino ai giorni recenti, sono state sempre concordi nell'indicare che, prima dell'omicidio di BONTATE Stefano, i vari clan vivevano in clima di accordo, (per esempio il territorio di pertinenza delle famiglie di Villagrazia e dei Ciaculli era stato suddiviso, tra BONTATE Stefano e GRECO Michele, lungo la linea di demarcazione segnata dalla via Oreto) e che i vari componenti delle famiglie, in ossequio agli accordi esistenti tra i vari capi, coesistevano in una atmosfera di armonia.

A seguito dei nuovi eventi che venivano a turbare gli accordi esistenti, si verificavano vari spostamenti di forza, per cui gli stessi parenti degli scomparsi, già facenti parte del gruppo BONTATE, si aggregavano al clan emergente incaricandosi di organizzare la soppressione dei congiunti aderenti al clan avversario, sfruttando la situazione di parentela e i legami di amicizia già esistenti al fine di non creare dubbi nelle persone che dovevano essere soppresse e di evitare possibili reazioni. La convergente attività informativa e le univoche notizie confidenziali succedutesi nel tempo servono proprio a delineare e a convalidare l'ipotesi circa le varie fasi verificatesi, in un anno di lotta, con i conseguenti spostamenti di forza, nonché a ricostruire la nuova mappa della mafia esistente in atto. RAPPORTO DEI 161

I vecchi boss di Palermo cadono uno dopo l’altro. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 3 luglio 2023

Che fosse stato predisposto uno sterminio è dimostrato dalla puntuale eliminazione fisica portata a termine nei mesi successivi di quanti erano rimasti fedeli alle due famiglie e potevano rappresentare un pericolo per il nuovo ordine che si andava creando

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

Contemporaneamente alla scomparsa dei quattro sopra menzionati, appartenenti al clan BONTATE, veniva registrata l'irreperibilità, l'allontanamento e la scomparsa di numerosi adepti del gruppo mafioso di Passo di Rigano.

Si accertava infatti che DI MAGGIO Calogero, INZERILLO Salvatore di Pietro, INZERILLO Giuseppe, INZERILLO Salvatore di Francesco e SEVERINO Vincenzo, tutti sottoposti all'obbligo di presentarsi al Commissariato della Polizia di Stato “Zisa” per i rituali visti, non si erano presentati nel citato Ufficio della Polizia di Stato negli ultimi giorni del mese di maggio millenovecentottantuno.

In particolare DI MAGGIO Calogero aveva apposto l'ultimo "visto" il 25 maggio 1981; INZERRILLO Salvatore di Pietro il 29 maggio 1981; INZERILLO Giuseppe il 25 maggio 1981; INZERILLO Salvatore di Francesco il 28 maggio 1981; SEVERINO Vincenzo il 24 Maggio 1981.

Nel corso degli accertamenti relativi all'allontanamento di tutti i predetti si apprendeva via informale che alcuni di costoro erano stati soppressi e che tra gli uccisi vi era INZERILLO Santo di Giuseppe nato a Palermo il 23 aprile 1946, fratello di INZERILLO Salvatore ucciso il giorno 11 maggio 1981. Gli accertamenti svolti in proposito erano per forza di cose particolarmente difficoltose, non solo per la cortina di silenzio che tutti i familiari del gruppo INZERILLO, DI MAGGIO e GAMBINO opponevano ma, soprattutto, perché l'INZERILLO Santo era latitante per gli stessi reati di cui era imputato il fratello Salvatore. Tuttavia l'istintivo atteggiamento di DI MAGGIO Giuseppa, madre di INZERILLO Santo e sorella di DI MAGGIO Calogero, lasciava pochi dubbi sulla sorte del figlio, visto che la donna, oralmente sentita il 1° giugno 1981, non sapeva trattenere le lacrime.

Nel corso delle indagini si accertò che anche INZERILLO Pietro, INZERILLO Francesco e INZERILLO Rosario, germani di INZERILLO Santo e Salvatore si erano allontanati nello stesso periodo da Palermo. Ciò risulta inconfutabilmente dalle dichiarazioni testimoniali rese da DI MAGGIO Giuseppa, madre dei predetti e da SPATOLA Filippa vedova di INZERILLO Salvatore, in data 4 giugno 1981.

Per quanto attiene alla scomparsa di DI MAGGIO Calogero, sulla cui esistenza in vita si nutrono legittimi dubbi, si rimanda alla segnalazione numero 2624/3 di protocollo datata 10 giugno 1981 del Nucleo Operativo del Gruppo Carabinieri di Palermo e a quella della Squadra Mobile.

Per quanto riguarda l'allontanamento di INZERILLO Salvatore di Pietro, INZERILLO Giuseppe ed INZERILLO Salvatore di Francesco é stato riferito con segnalazione datata 5 giugno 1981 di questa Squadra Mobile, diretta per conoscenza a codesta Procura della Repubblica.

In merito alle numerose scomparse verificatesi nel clan dal 25 maggio 1981 al 29 maggio successivo é da ritenere, sulla scorta di notizie confidenziali poi riscontrate, che molti degli aderenti al clan INZERILLO si siano allontanati da Palermo diretti negli Stati Uni ti a seguito della soppressione di DI MAGGIO Calogero e INZERILLO Santo.

Infatti veniva riferito che i due sopra citati avevano partecipato ad un incontro di chiarimento fissato il 26 maggio 1981 all'interno della Calcestruzzi Palermo S.p.A. ed in tal luogo soppressi; i due si erano recati all'appuntamento portando seco una valigia piena di dollari.

La fonte, personaggio particolarmente vicino alla famiglia INZERILLO, indicava tra le persone che avevano ordito l'inganno i BONURA e i BUSCEMI soc i nella Calcestruzzi Palermo S.p.a., nonché il noto latitante MONTALTO Salvatore, tutte persone ritenute vicine al defunto boss INZERILLO Salvatore. La fondatezza di quanto informalmente recepito aveva ulteriore conforto nel corso delle indagini relative all'uccisione di INZERILLO Salvatore; infatti dalle intercettazioni telefoniche disposte in quel contesto, risultò che l'ingegnere LO PRESTI Ignazio, nell'aggiornare sulla grave situazione palermitana tale "Roberto" che telefonava dal Brasile, lasciava intendere che INZERILLO Santo doveva essere stato ucciso. Inoltre l'uccisione negli U.S.A. di INZERILLO Pietro, fratello di Salvatore conferma che gli adepti più in vista del clan INZERILLO trovarono rifugio nel New Jersej.

I recentissimi episodi criminosi nei quali è rimasto casualmente immischiato il costruttore BONURA Francesco, dimostrano come lo stesso abbia ereditato, unitamente al cognato BUSCEMI Salvatore, i l "bastone" della famiglia di Passo di Rigano tanto che ha ritenuto di dover presiedere alla soppressione di DOMINICI e CHIAZZESE rei, tra l'altro, di non avere adempiuto ai suoi ordini. La contemporaneità nella soppressione dei quattro aderenti al clan BONTATE e di quella dei due esponenti del clan INZERILLO nonché l'identico espediente della riunione promossa, in ambedue i casi, da persone di cui le vittime si fidavano perché appartenenti ai rispettivi clan, evidenziano oggi che già allora esisteva un preciso disegno inteso a decapitare le due più potenti famiglie mafiose, grazie anche ai tradimenti già predisposti dagli stessi ideatori dello sterminio.

Che fosse stato predisposto uno sterminio è dimostrato dalla puntuale eliminazione fisica portata a termine nei mesi successivi di quanti erano rimasti fedeli alle due famiglie e potevano rappresentare un pericolo per il nuovo ordine che si andava creando. RAPPORTO DEI 161

Il clan di Bontate viene sterminato, si salva solo Totuccio Contorno. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 04 luglio 2023

Anche quest'agguato, predisposto in piazzetta Dei Signori, centro della zona d'influenza del Contorno, venne attuato con l'uso di quell'arma micidiale usata già per gli omicidi di Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo. Solo la prontezza di riflessi della vittima designata impediva ai killers di portare a termine l'ennesimo omicidio...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

 Frattanto il giorno 8 giugno 1981, si registrava l'allontanamento di CHIAZZESE Filippo, amico e complice, in numerose imprese criminose del noto GRECO Giovanni, inteso “Giovannello”.

In quel periodo non si riusci a valutare la reale portata dell'ennesima “lupara bianca”, poiché si riteneva, sulla scorta di precedenti indagini, che il CHIAZZESE, al pari di GRECO Giovanni ed al cognato di quest'ultimo MARCHESE Pietro, facesse parte di quei gruppi di mafiosi che sino a quel momento non avevano subito alcuna perdita ed anzi incominciavano ad essere sospettati di essere i promotori della guerra.

I motivi dell'eliminazione di CHIAZZESE Filippo incominciarono ad intravedersi nel corso delle indagini relative al sequestro di Hajed Hagida Bent Mohammed, convivente di SPICA Antonio, quest'ultimo figlioccio di MARCHESE Pietro; trovarono ulteriore chiarimento con l'arresto, il 12 giugno 1981, a Zurigo, di MARCHESE Pietro, GRECO Giovanni, SPICA Antonio, GRECO Rosaria e FICANO Francesca; ebbero definitivo riscontro con l'uccisione, nel carcere di Palermo, di MARCHESE Pietro e nella città di Milano di SPICA Antonio. Ma di questi episodi delittuosi si parlerà diffusamente quando verrà ricostruito, nelle sue varie fasi l'evolversi della faida mafiosa.

Intanto, il 15 giugno 1981 , veniva ucciso GNOFFO Ignazio, elemento di spicco della famiglia INZERILLO, gravitante nella zona “Noce”, più volte sospettato di essere l'autore materiale di omicidi commissionati dalla famiglia di Passo di Rigano.

Nello stesso giorno SEVERINO Ignazio denunciàva la scomparsa dei figli Vincenzo Salvatore, asserendo che gli stessi si erano allontanati il 28 o il 29 maggio 1981, senza dare più notizie di loro. Anche i fratelli SEVERINO erano conosciuti dagli organi di Polizia quali killers al servizio del clan INZERILLO - DI MAGGIO e GAMBINO cd erano considerati gli autori di omicidi e di attentati dinamitardi perpetrati su indicazione della citata famiglia mafiosa.

Il fatto che i due fratelli siano scomparsi il 29 maggio, che fossero legati da vincoli di amicizia con GNOFFO Ignazio ed INZERILLO Salvatore come ha recentemente dichiarato il loro padre, che sporse denuncia proprio il giorno dell'uccisione di GNOFFO Ignazio, serve ad avallare ulteriormente la tesi che tutti e tre fossero stati eliminati per completare la decimazione del clan INZERILLO.

Sui motivi della loro morte si tornerà inseguito, quando verranno illustrate l'origine e la motivazione della terribile guerra di mafia scoppiata nel marzo millenovecentottantuno.

L'attuazione del programma di eliminazione dei maggiorenti della famiglia BONTATE proseguiva il 25 giugno 1981 con il tentato omicidio in pregiudizio di CONTORNO Salvatore, considerato il braccio destro operativo della famiglia di Villagrazia.

Anche quest'agguato, predisposto in piazzetta Dei Signori, centro della zona d'influenza del CONTORNO, venne attuato con l'uso di quell'arma micidiale usata già per gli omicidi di Stefano BONTATE e Salvatore INZERILLO. Solo la prontezza di riflessi della vittima designata, che certamente temeva una possibile azione violenta nel suoi confronti, impediva ai killers, muniti del solito Kalashincov, di portare a termine l'ennesimo omicidio.

Il CONTORNO forse leggermente ferito, trovava scampo rifugiandosi in una delle vicine abitazioni e rimanendo nascosto nella zona per un certo periodo presso persone di fiducia e parenti appartenenti allo stesso clan mafioso.

La mancata realizzazione del programma delittuoso e la indiscussa personalità criminale del CONTORNO avrebbero poi provocato, nei mesi - successivi, un'altra serie di omicidi che venivano a colpire quanti potevano essere sospettati di aver dato rifugio al CONTORNO stesso.

Il clima di terrore instaurato nella zona di Brancaccio, via Conte Federico e via Giafar da chi stava lucidamente portando a compimento lo sterminio della cosca di Villagrazia, induceva i sopravvissuti ad allontanarsi precipitosamente da Palermo, spesso con tutto il gruppo familiare e ad abbandonare anche le attività apparentemente lecite.

Ci si intende riferire all'allontanamento dei fratelli GRADO, cugini di Salvatore CONTORNO, i quali abbandonavano il cantiere sito nelle adiacenze di via Oreto Nuova per la costruzione di un edificio di civile abitazione; all'allontanamento di TERESI Pietro cognato dei citati fratelli GRADO e loro socio nell'impresa edilizia, nonché socio di Stefano BONTATE e di Girolamo TERESI nella Centralgas; all'allontanamento di D'AGOSTINO Rosario già denunciato con CONTORNO Salvatore ed a lui particolarmente legato anche da vincoli di parentela per avere il primo sposato una LOMBARDO, cugina della moglie del secondo; all'allontanamento di D'AGOSTINO Emanuele, sulla cui esistenza in vita si nutrono forti dubbi, non potuti immediatamente dissipare in quanto latitante, ma che recentemente voce confidenziale ha riferito essere stato soppresso ad opera del noto boss di Partanna RICCOBONO Rosario; all'allontanamento del costruttore edile CAPITUMMINO Filippo nei cui cantieri, siti nei pressi del corso Dei Mille, non viene più notato dall'estate dello scorso anno, perché ufficialmente portatosi fuori Palermo per cure oculistiche.

A proposito di D'AGOSTINO Emanuele altra fonte ha specificato che il 28 maggio 1981 il predetto era stato prelevato dalla sua abitazione dopo che, per ben due volte, aveva declinato, con scuse varie, l'invito a partecipare a riunioni chiarificatrici, l'ultima delle quali era stata indetta per il 26 maggio 1981 e si era rivelata fatale per GIROLAMO Teresi ed i tre che lo accompagnavano.

Detta ultima fonte, opportunamente richiesta, asseriva che il D'AGOSTINO era il pupillo di Rosario RICCOBONO In perfetta aderenza logica con la motivazione sopra esposta circa la fuga dei superstiti, va evidenziata la puntuale soppressione dei congiunti delle persone sopra citate fuggite da Palermo.

Infatti nel gennaio del corrente anno, tra il giorno 8 e 11, venivano uccisi nella zona di Villagrazia, Bonagia e via Conte Federico, TERESI Francesco Paolo, fratello del già citato TERESI Pietro, GRADO Antonino cugino dei menzionati fratelli GRADO e D'AGOSTINO Ignazio, padre di Rosario. Questi delitti e molti altri di cui si parlerà in seguito evidenziano la ferocia e la determinazione spietata delle famiglie mafiose emergenti, uscite vittoriose dalla lotta per il predominio che non hanno esitato a coinvolgere nella faida persone non direttamente interessate in fatti di mafia, ma responsabili unicamente di essere congiunti di quelli che erano sfuggiti al massacro. Ciò é stato inconfutabilmente evidenziato nel corso di alcune conversazioni telefoniche intercettate tra parenti di D'AGOSTINO Ignazio i quali, commentavano il suo assassinio, asserendo che era stato soppresso per l'allontanamento del figlio da Palermo, specificando che quest'ultimo apparteneva al CONTORNO.

RAPPORTO DEI 161

Omertà, “lupare bianche” e la guerra di mafia da una parte all’altra del mare. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 05 luglio 2023

Filippa Spatola, già provata per l'uccisione del marito Inzerillo Salvatore, al momento in cui veniva interpellata informalmente per quella presunta del figlio Giuseppe, era colta da evidente malore e lasciava intendere che il figlio non si sarebbe mai allontanato da casa per tanto tempo, senza dare alcuna notizia in famiglia

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

A proposito di D'AGOSTINO Emanuele altra fonte ha specificato che il 28 maggio 1981 il predetto era stato prelevato dalla sua abitazione dopo che, per ben due volte, aveva declinato, con scuse varie, l'invito a partecipare a riunioni chiarificatrici, l'ultima delle quali era stata indetta per il 26 maggio 1981 e si era rivelata fatale per GIROLAMO Teresi ed i tre che lo accompagnavano.

Detta ultima fonte, opportunamente richiesta, asseriva che il D'AGOSTINO era il pupillo di Rosario RICCOBONO In perfetta aderenza logica con la motivazione sopra esposta circa la fuga dei superstiti, va evidenziata la puntuale soppressione dei congiunti delle persone sopra citate fuggite da Palermo.

Infatti nel gennaio del corrente anno, tra il giorno 8 e 11, venivano uccisi nella zona di Villagrazia, Bonagia e via Conte Federico, TERESI Francesco Paolo, fratello del già citato TERESI Pietro, GRADO Antonino cugino dei menzionati fratelli GRADO e D'AGOSTINO Ignazio, padre di Rosario. Questi delitti e molti altri di cui si parlerà in seguito evidenziano la ferocia e la determinazione spietata delle famiglie mafiose emergenti, uscite vittoriose dalla lotta per il predominio che non hanno esitato a coinvolgere nella faida persone non direttamente interessate in fatti di mafia, ma responsabili unicamente di essere congiunti di quelli che erano sfuggiti al massacro. Ciò é stato inconfutabilmente evidenziato nel corso di alcune conversazioni telefoniche intercettate tra parenti di D'AGOSTINO Ignazio i quali, commentavano il suo assassinio, asserendo che era stato soppresso per l'allontanamento del figlio da Palermo, specificando che quest'ultimo apparteneva al CONTORNO.

Ma é altresi riscontrato da recenti omicidi in pregiudizio di CORSINO Salvatore verificatosi il 17 aprile 1982, ucciso per avere dato ospitalità a LOMBARDO Carmela, moglie di CONTORNO prossima al parto. Che la ferocia sia una costante insita nel modus operandi dell'aggregazione mafiosa emergente veniva ulteriormente riscontrato nel corso degli accertamenti esperiti sulla scomparsa di INZERILLO Giuseppe, figlio di Salvatore.

Infatti la solita fonte vicina alla famiglia INZERILLO, comunicava verso la fine di agosto millenovecentottantuno che il figlio di Salvatore INZERILLO, mentre unitamente al cognato PECORELLA Stefano stava spiando una riunione di mafia, veniva intercettato e soppresso insieme al cognato.

Specificava la fonte che la riunione, alla quale partecipavano i traditori del clan INZERILLO insieme con gli ispiratori ed organizzatori della guerra di mafia, si era svolta nei locali dell'Hotel Zagarella tra gli ultimi giorni del mese di luglio ed i primi giorni del mese di agosto millenovecentottantuno. Anche in relazione a quest'ennesimo caso di lupara bianca, i congiunti degli scomparsi non avevano fatto alcuna denuncia ed anzi, formalmente sentiti, nell'ammettere che i due giovani si erano allontanati da Palermo nei primi giorni del mese di agosto, adducevano inconsistenti motivazioni.

Tuttavia la SPATOLA Filippa, già provata per l'uccisione del marito INZERILLO Salvatore e per quella del figlio INZERILLO Giuseppe, al momento in cui veniva interpellata informalmente, era colta da evidente malore e lasciava intendere che il figlio non si sarebbe mai allontanato da casa per tanto tempo, senza dare alcuna notizia in famiglia. Con ciò avallando la veridicità complessiva della notizia recepita in via confidenziale. La medesima fonte, qualche mese dopo, riferiva che INZERILLO Giuseppe e PECORELLA Stefano erano stati intercettati da alcune vedette nei pressi dell'Hotel "Zagarella", dove era in corso una riunione tra gli esponenti mafiosi che avevano dato inizio alla strage e gli appartenenti alle famiglie BONTATE ed INZERILLO che erano passati dalla parte dei vincitori. Ritenendo che i due giovani si trovassero sul posto per spiare i convenuti, ne venne decisa ed immediatamente attuata l'uccisione.

Nello stesso mese di agosto, come risulterà da successive indagini, si allontanarono cautelativamente da Palermo altri adepti della cosca INZERILLO - DI MAGGIO, come BOSCO Giovanni nato a Palermo il 22 febbraio 1956 e MANNINO Salvatore nato a Palermo il 29 ottobre 1945. Il primo, che aveva acquistato nel gennaio millenovccentottantuno la Edilferro, ubicata alla via Scorzadenaro, in zona Villagrazia, la rivendette nel settembre millenovecentottantuno, tramite un fratello a CASELLA Giuseppe che ne era già comproprietario sin dal gennaio del millenovecentottantuno.

Il fatto che BOSCO Giovanni fosse nipote di DI MAGGIO Rosario che avesse rilevato nel gennaio millenovecentottantuno la ditta costituita da un gruppo di contrabbandieri [...]; che l'avesse rivenduta allontanandosi da Palermo, proprio ad uno dei precedenti proprietari dopo che erano stati uccisi sia BONTATE Stefano che INZERILLO Salvatore; tutto ciò ricalca le fasi dell'ascesa e del declino delle due famiglie facenti capo ai due boss uccisi e dimostra l'inserimento nel gotha mafioso della cosca degli ex contrabbandieri della Kalsa, come sarà evidenziato più avanti.

Il secondo che, grazie alla protezione e al finanziamento di INZERILLO Salvatore, stava realizzando un lussuoso complesso ristorante - sala trattenimenti nel viale Della Regione Siciliana denominato "Il Parco dei Principi", partiva improvvisamente per gli Stati Uniti abbandonando il locale appena aperto e la pizzeria - grill che gestiva da qualche tempo unitamente al cugino GAMBINO Francesco Ignazio classe 1941 originario di Torretta) facendo ritorno a Palermo solo nel marzo del corrente anno. Il predetto MANNINO Salvatore risulterà essere, come comunicato dalla D.E.A. tramite Interpol, uno dei soci in affari di INZERRILLO Pietro ucciso nel New Jersej il 15 gennaio 1982.

RAPPORTO DEI 161

Da Palermo a Trapani, così la famiglia corleonese conquista la Sicilia. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 06 luglio 2023

Attuata prima l'eliminazione delle cosche Bontate e Inzerillo nella città, e successivamente della cosca Badalmenti nella provincia, l'azione era stata proseguita colpendo la famiglia di Rimi di Alcamo, il ché importava il controllo e la gestione di buona parte della Sicilia occidentale

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

Sempre nel mese di agosto, mentre si svolgevano le indagini sulla scomparsa di INZERILLO Giuseppe e di PECORELLA Stefano, il gruppo di mafia che aveva perseguito l'eliminazione del clan INZERILLO e BONTATE, con i risultati sin qui esposti, apriva un t altro fronte, colpendo improvvisamente un'altra grande famiglia di mafia “tradizionale”, il cui potere nella provincia di Palermo era stato indiscusso per vari decenni.

Il 19 agosto 1981 a Villagrazia di Carini veniva ucciso il noto mafioso BADALAMENTI Antonino cugino del boss BADALAMENTI Gaetano, quest'ultimo considerato un uomo di grandissimo prestigio nel panorama mafioso tanto che gli veniva attribuita la carica di presidente del tribunale della mafia.

L'omicidio di BADALAMENTI Antonino, la cui posizione all'interno della famiglia mafiosa di Cinisi era analoga a quella di Girolamo TERESI all'interno della famiglia di Villagrazia e di DI MAGGIO Calogero e Santino INZERILLO all'interno della famiglia di Passo di Rigano, stava a dimostrare che il cosiddetto gruppo emergente, dopo aver disarticolato le due più grosse famiglie di mafia della città di Palermo, aveva indirizzato la sua azione verso la zona occidentale della provincia, colpendo duramente il clan BADALAMENTI che sino a quel momento, aveva controllato l'aeroporto di Punta Baisi centro nevralgico necessario a tutte le famiglie per il traffico delle sostanze stupefacenti.

A riprova di quanto sopra il 18 settembre, in Cinisi, veniva teso un agguato contro DI MAGGIO Procopio, DI MAGGIO Giuseppe e IMPASTATO Nicolò (quest'ultimo cognato del succitato BADALAMENTI Antonino, elementi di spicco della stessa famiglia BADALAMENTI, i quali scampavano fortunosamente alla morte. Il successivo 22 settembre, in Palermo, veniva ucciso IMPASTATO Luigi mentre il giorno 1 ottobre, in Carini, cadeva sotto i colpi dei killers GALLINA Stefano, ambedue elementi di spicco della mafia di Carini. La decimazione del clan BADALAMENTI proseguiva nei giorni immediatamente successivi con il con tentato omicidio di MAZZOLA Salvatore, avvenuta in Cinisi il 3 ottobre 1981 e con l'assassinio di MISURACA Calogero perpetrato in Palermo il 7 ottobre 1981.

A proposito di quest'ultimo omicidio giova ricordare che, a seguito delle pubblicazioni delle fotografie degli individui arrestati nella villetta di via Valenza, ove era in corso un summit mafioso, perveniva segnalazione anonima nel corso della quale un ignoto cittadino dichiarava di aver riconosciuto nella effigie di VERNENGO Ruggero, uno degli assassini di MISURACA. L'anonimo specificava che il VERNENGO al momento della consumazione del delitto vestiva con giubbotto di pelle color marrone che, nel corso della successiva perquisizione domiciliare, veniva effettivamente rinvenuto e sequestrato, nonostante l'opposizione della madre.

Era logico dedurre che anche la sequela di omicidi perpetrati nei confronti degli aderenti alla famiglia BADALAMENTI, non avrebbe potuto essere attuata se non vi fosse stato l'accordo di un gruppo mafioso che aveva influenza nella stessa zona, anche se prima subordinato alla stessa famiglia dominante.

L'omicidio di BUCCELLATO Antonino consumato in Castellammare del Golfo in data 30 settembre 1981 e i successivi omicidi perpetrati in Alcamo e Santa Margherita Belice in pregiudizio di personaggi legati alla famiglia RIMI, osservati anche dal punto di vista dei rapporti di parentela che legavano il BUCCELLATO sia a BADALAMENTI Gaetano che a RIMI Natale e Filippo stavano a dimostrare che era stato sovvertito uno status consolidatosi in decenni di egemonia mafiosa e che le cosche appartenenti alla cosiddetta mafia emergente avevano attuato un piano di concreta destabilizzazione delle famiglie più in vista e che più contavano.

Attuata prima l'eliminazione delle cosche BONTATE e INZERILLO nella città, e successivamente della cosca BADALAMENTI nella provincia, l'azione era stata proseguita colpendo la famiglia di RIMI di Alcamo, il ché importava il controllo e la gestione di buona parte della Sicilia occidentale. Dall'esame complessivo degli eventi si cominciava cosi a delineare con una certa chiarezza la nuova mappa delle famiglie che si erano impossessate direttamente della città di Palermo e, tramite opportune alleanze della Sicilia occidentale.

Esse venivano individuate nei GRECO e PRESTIFILIPPO della zona Ciaculli e Croceverde; nei MARCHESE e TINNIRELLO di piazza Torrelunga, corso Dei Mille e Sperone; negli SPADARO e nei SAVOCA della Kalsa; nei RICCOBONO di Partanna Mondello; negli SPINA e ANSELMO della Noce; nei GRECO - GARGANO di Bagheria; nei PIPITONE di Villagrazia di Carini particolarmente legati ai mafiosi di San Lorenzo e Partanna Mandello e nel gruppo corleonese da lungo tempo trapiantato a Palermo e saldamente collegato con le famiglie di Ciaculli, di corso Dei Mille e San Lorenzo.

RAPPORTO DEI 161

La grande caccia a Totuccio Contorno e le vendette trasversali. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 07 luglio 2023

Nei primi giorni dell'ottobre 1981 iniziava, per così dire, un capitolo a parte nella sanguinosa opera di sterminio del clan Bontate, parte dedicata in modo esclusivo alla caccia nei confronti di Contorno Salvatore con l'intento di farlo uscire allo scoperto, visto che era riuscito a sottrarsi alla morte...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

Nei primi giorni dell'ottobre millenovecentottantuno iniziava, per così dire, un capitolo a parte nella sanguinosa opera di sterminio del clan BONTATE, parte dedicata in modo esclusivo alla caccia nei confronti di CONTORNO Salvatore con l'intento di farlo uscire allo scoperto, visto che era riuscito a sottrarsi alla morte sfuggendo all'agguato tesogli il 25 giugno 1981 nella piazza Dei Signori ed allontanandosi da Palermo, come poi verrà accertato nel corso delle indagini successive al suo arresto. Infatti il 3 ottobre 1981 veniva ucciso in via Conte Federico MANDALA' Pietro, figlio di MANDALA' Franco, quest'ultimo cugino di CONTORNO Salvatore poiché il padre del primo e la madre del secondo sono fratelli. (Anche il MANDALA' Franco, come si dirà appresso sarà ucciso) .

Il successivo 5 ottobre, sempre nella via Conte Federico veniva ucciso MAZZOLA Emanuele; anche tale delitto va annoverato tra quelli perpetrati per creare il vuoto attorno a CONTORNO Salvatore come é dimostrato dai successivi omicidi di DI FRESCO Giovanni, suocero del MAZZOLA e del DI FRESCO Francesco, fratello di Giovanni, tutti legati a quello che incominciava ad essere menzionato come “la primula rossa di Brancaccio” e ritenuti suoi favoreggiatori. Nel mentre gli omicidi di MANDALA' e di MAZZOLA chiarivano definitivamente la posizione del CONTORNO nel contesto degli schieramenti che si erano venuti a creare.

Rimaneva il dubbio circa l'identificazione di alcuni mafiosi transitati dalle famiglie decimate alle cosche vincenti ed in particolare sul gruppo dei MAFARA, che, sebbene particolarmente legati ai BONTATE, prima delle ostilità avevano svolto un ruolo della massima importanza, provvedendo alla spedizione di eroina negli Stati Uniti e all'approvigionamento della morfina base utilizzata da tutte le famiglie mafiose, ciascuna delle quali, come risulta da atti istruttori, controllava la propria raffineria.

Ma era proprio la logica dello sterminio attuata dalle famiglie emergenti che rendeva possibile chiarire inconfutabilmente quale posizione avesse assunto nel nuovo schieramento il gruppo dei MAFARA. Infatti il 14 ottobre 1981 un commando di killers irrompeva all'interno della Calcestruzzi Maredolce ed uccideva MAFARA Giovanni, fratello del più noto MAFARA Francesco, quest'ultimo ricercato perché colpito da provvedimento restrittivo in quanto imputato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti.

L'aver esattamente collegato l'omicidio di MAFARA Giovanni nell'ambito della soppressione di elementi rimasti fedeli alla famiglia BONTATE, trovava riscontro in due circostanze accertate da gli organi investigativi: in occasione dei funerali di BONTATE Stefano, PACE Gaetano, ex parroco della chiesa di Villagrazia poi transitato nello stato laicale, fuori dalla chiesa, aveva pronunciato, un colorito elogio funebre, riportato dai quotidiani locali; il medesimo PACE Gaetano, subito dopo l'uccisione di MAFARA Giovanni oltre ad avere presenziato con i familiari dell'ucciso alla autopsia, aveva personalmente provveduto a stilare e a richiedere la pubblicazione di un significativo necrologio apparso sul Giornale di Sicilia; fonte confidenziale vicina alla famiglia BONTATE riferiva che la vedova di BONTATE Stefano aveva sentito la necessità di telefonare alla vedova di MAFARA Giovanni per esprimerle il proprio cordoglio.

Non va trascurato che a distanza di qualche tempo il PACE Gaetano fu vittima di una stranissima, aggressione che lo stesso cercò di contrabbandare quale tentativo di rapina; infatti venne duramente percosso da un gruppo di cinque giovani che lo assalirono a colpi di bastone all'uscita del proprio ufficio, procurandogli lesioni gravissime.

Il singolare trattamento riservato al PACE, può spiegarsi solo alla luce delle iniziative prese nelle due circostanze delittuose sopra citate, nelle quali l'ex prete manifestò pubblicamente l'amicizia e l'attaccamento che lo legavano ai BONTATE e ai MAFARA: l'attività tipicamente “squadrista” vista in una logica strettamente mafiosa, assume valore contemporaneo di punizione e avvertimento verso chi, pur non essendo potenzialmente pericoloso nei confronti dei mandanti, era stato punito con il solo bastone per avere in passato vestito l'abito ecclesiastico.

Che anche la famiglia MAFARA fosse entrata nel mirino di quanti avevano operato il sovvertimento degli equilibri tra le cosche mafiose, veniva successivamente confermato dall'acquisizione di precise segnalazioni confidenziali promananti da fonti diverse.

Da più parti infatti, dall'autunno del millenovecentottantuno al giugno del corrente anno, veniva segnalato che la mattina del 14 ottobre 1982 MAFARA Francesco e GRADO Antonino, quest'ultimo cugino di CONTORNO Salvatore, erano stati convocati in un'abitazione sita in zona Croceverde Giardini da persone presso le quali non potevano rifiutarsi di andare e ivi soppressi.

Il riscontro, quantomeno sulla effettiva soppressione di MAFARA Francesco, si aveva attraverso le indagini svolte in Termini Imerese in occasione del rinvenimento dell'autovettura Fiat 127 targata PA 624386 intestata ad AITA Teresa, risultata suocera di MAFARA Giovanni, quest'ultimo fratello di Francesco.

Le condizioni della macchina, mancante dei sedili, lasciava supporre che fosse stata utilizzata per trasportare più di un cadavere.

I familiari dei fratelli MAFARA si dichiaravano all'oscuro persino della proprietà della Fiat 127 e solo dopo aver svolto personalmente accertamenti presso la concessionaria ove erano soliti comprare autovetture affermarono che il mezzo era stato acquistato da MAFARA Giovanni.

Tale circostanza, sia se risponde al vero sia se scientemente falsa, dimostra con certezza che la Fiat 127 rinvenuta in Termini Imerese era in uso al latitante MAFARA Francesco. Infatti nell'ipotesi in cui i familiari non fossero stati a conoscenza dell'acquisto dell'auto, peraltro di recentissima immatricolazione rispetto al 14 ottobre 1981, si deve dedurre che il latitante non ne avesse mai dato notizia alle donne della sua famiglia; nell'ipotesi in cui i famigliari conoscessero invece che il loro congiunto latitante, aveva acquistato tramite il fratello Giovanni, una nuova macchina, il loro atteggiamento negativo dimostra la volontà di nascondere agli organi investigativi il possesso della Fiat 127 da parte di MAFARA Francesco.

Peraltro, l'eliminazione di MAFARA Giovanni avvenuta all'interno della Calcestruzzi Maredolce ove sono ubicate tutte le abitazioni dei MAFARA, non spiegherebbe come mai un'autovettura a lui intestata possa essere stata abbandonata, nello stato che si é detto, nel paese di Termini.

Cosa che invece si spiega se si assume come vera la segnalazione secondo la quale, la mattina del 14 ottobre 1981, prima vennero soppressi MAFARA Francesco e GRADO Antonino che si trovava a bordo della Fiat 127 più volte citata e poi, con perfetta aderenza alla logica di sterminio nei confronti di coloro che erano rimasti fedeli al clan BONTATE - fu ucciso, probabilmente dalle stesse persone, MAFARA Giovanni impedendo cosi qualsiasi possibilità di reazione da parte della famiglia.

RAPPORTO DEI 161

Patti, tradimenti e nuovi equilibri decisi in un summit di mafia. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani l'08 luglio 2023

Frattanto il 19 ottobre 1981, venivano sorpresi all'interno di un villino nella via Valenza in zona Villagrazia una ventina di individui riuniti in un summit di mafia. Gli stessi, per sottrarsi all'identificazione ed all'arresto, ingaggiavano un violento conflitto a fuoco con personale della Polizia di stato, tanto che, almeno una decina di partecipanti alla riunione, riusciva a dileguarsi

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

Frattanto il 19 ottobre 1981, venivano sorpresi all'interno di un villino nella via Valenza in zona Villagrazia una ventina di individui riuniti in un convegno. Gli stessi, per sottrarsi all'identificazione ed all'arresto, ingaggiavano un violento conflitto a fuoco con personale della Polizia di stato, tanto che, almeno una decina di partecipanti alla riunione, riusciva a dileguarsi.

Venivano però tratti in arresto PROFETA Salvatore, PULLARA' Giovanbattista (ambedue armati di pistola e rivoltella), CAPIZZI Benedetto, VERNENGO Ruggiero, FASCELLA Pietro, LO IACONO Pietro, GAMBINO Giuseppe, DI MICELI Giuseppe e D'URSO Giuseppe mentre venivano identificati tra i fuggiaschi AGLIERI Giorgio, GRECO Carlo, LO VERDE Giovanni, MARCHESE Mario, MOTISI Giovanni e CALASCIBETTA Giuseppe; all' interno della villa e nelle sue immediate vicinanze venivano rinvenute altre otto pistole.

Dalle indagini emerse che la villa in questione era stata acquistata, formalmente, da VERNENGO Ruggiero per la somma di lire centocinquanta milioni, ma che ne aveva l'effettiva disponibilità, giacché ne deteneva le relative chiavi, AGLIERI Giorgio suocero di VERNENGO Pietro.

L'immediata perquisizione domiciliare fatta dai Carabinieri del Nucleo Operativo di Palermo nell'abitazione di AGLIERI Giorgio riportava al rinvenimento della somma di lire centotrenta milioni e di dollari U.S.A. per un totale di centoquarantasettemila e duecento.

Si accertò pure che il VERNENGO Ruggiero, cugino del sopra citato VERNENGO Pietro aveva acquistato l'immobile da VERACE Teresa, quest'ultima cognata del noto mafioso di Partanna Mondello RICCOBONO Rosario.

La contemporanea presenza all'interno di una villa periferica, protetta con sofisticati sistemi audiovisivi, di un così rilevante numero di pregiudicati e mafiosi tutti armati e decisi ad ingaggiare un conflitto a fuoco pur di consentire la fuga ai complici di maggiore spessore criminale, dimostrava che era stato interrotto un summit mafiso di particolare importanza, tenutosi in zona di già incontrastata e specifica influenza del clan BONTATE.

La particolare estrazione mafiosa dei partecipanti arrestati ed identificati e la rispettiva collocazione in seno a ben determinati gruppi criminali, avvalora quanto già acquisito in via confidenziale e dedotto per logica circa l'esistenza di una coalizione tra famiglie di mafia, ma permetteva altresì di individuare, alcune cosche che ne facevano parte; infatti i vari PROFETA, CAPIZZI, FASCELLA, GAMBINO, GRECO, MOTISI e CALASCIBETTA potevano facilmente essere collocati all'interno della famiglia mafiosa di Villagrazia; il LO IACONO e il LO VERDE tra i seguaci di ALBERTI Gerlando; il VERNENGO e l'URSO nel gruppo di contrabbandieri di Ponte Ammiraglio; il PULLARA' Giovanbattista nel gruppo mafioso facente capo al BRUSCA Bernardo di San Cipirrello e San Giuseppe Iato ed ai corleonesi; il DI MICELI e l'AGLIERI nel gruppo dei corleonesi e dci contrabbandieri di piazza Scaffa; i1 MARCHESE Mario nella cosca di Altofonte.

La presenza di vari adepti al clan di Villagrazia assieme ad esponenti del gruppo ALBERTI, VERNENGO, BRUSCA, corleonese e di Altofonte lasciava chiaramente intendere che i primi fossero da annoverare tra coloro che avevano abbandonato il clan di Stefano BONTATE e si fossero alleati con altri gruppi mafiosi che non avevano subito alcuna perdita nel corso della guerra e che quindi necessariamente facevano parte della mafia emergente.

Tra questi era da annoverare certamente la famiglia mafiosa di Partanna Mondello, visto che RICCOBONO Rosario vero proprietario della villa di via Valenza, l'aveva ceduta pochi giorni prima dell'irruzione a VERNENGO Pietro, pur risultando intestatario VERNENGO Ruggiero.

Tale constatazione induceva a ritenere che le due organizzazione criminali facenti capo rispettivamente al RICCOBONO e al VERNENGO, pur se gravanti in zona diametralmente opposta della città mantenevano reciproci legami di interesse e pertanto che la cessione del villino fosse servita a compensare non meglio specificati rapporti di dare e avere.

Inoltre attraverso i collegamenti che era possibile fare, prendendo le mosse dei gruppi mafiosi dei contrabbandieri, di San Cipirrello, del corleonesi e di Altofonte, si arriva immediatamente all'individuazione delle altre famiglie artefici dello sconvolgimento degli squilibri.

Infatti la presenza di PULLARA' Giovanbattista, fratello del latitante PULLARA' Ignazio, riportava immediatamente a LEGGIO Luciano, a seguito della cui cattura il PULLARA' Ignazio e lo zio Giuseppe proprietario della famosa fiaschetteria di Milano, vennero denunciati per favoreggiamento personale.

RAPPORTO DEI 161

Matrimoni e comparaggi per avvicinare le famiglie di Palermo a Corleone. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 09 luglio 2023

Gli stessi legami di parentela, utilizzati nella prassi mafiosa per cementare alleanze e comunanze di interesse, portava ad affiancare i Vernengo con il gruppo dei corleonesi visto che Vernengo Cosimo, padre di Pietro, ha sposato in seconde nozze una sorella del Di Miceli Giuseppe noto favoreggiatore dei luogotenenti di Luciano Leggio, Riina Salvatore e Provenzano Bernardo

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La presenza del clan dei corleonesi tra gli ispiratori della guerra, emergeva pure attraverso la contemporanea presenza del DI MICELI, nativo di Corleone e di MARCHESE Mario, quest'ultimo legato al clan di Altofonte, vassallo, com'è noto, dei corleonesi.

L'arresto di VERNENGO Ruggiero e l'accertata presenza di AGLIERI Giorgio conducevano al clan mafioso dei VERNENGO, implicato varie volte in reati di contrabbando di tabacchi lavorati esteri unitamente a gruppo SPADARO – SAVOCA nonché ai MARCHESE ed ai TINNIRELLO; inoltre gli stessi legami di parentela, utilizzati nella prassi mafiosa per cementare alleanze e comunanze di interesse, portava ad affiancare i VERNENGO con il gruppo dei corleonesi visto che VERNENGO Cosimo, padre di Pietro, ha sposato in Seconde nozze una sorella del DI MICELI Giuseppe noto favoreggiatore dei luogotenenti di Luciano LEGGIO, RIINA Salvatore e PROVENZANO Bernardo.

La più volte dimostrata partecipazione dei corleonesi e dei VERNENGO nella ideazione ed esecuzione della guerra mafiosa implicava, quasi per assioma, anche la presenza di uno dei più agguerriti e sanguinari gruppi criminali e cioè del gruppo facente capo ai fratelli MRCHESE Filippo e MAHCHESE Vincenzo nonché quella del gruppo mafioso di più alto lignaggio e cioè quello dei GRECO - PRESTIFILIPPO di Ciaculli e Croceverde Giardini.

I legami tra Leoluca BAGARELLA, braccio armato della famiglia di Corleone ed i citati MARCHESE, sono stati riscontrati in occasione della scoperta dell'appartamento bunker di via Pecori Giraldi, occupato da BAGARELLA ma di proprietà di MARCHESE Vincenzo, una cui figlia a nome Vincenza é fidanzata con lo stesso.

Giova ricordare che si pervenne alla localizzazione del covo di via Pecori Giraldi a seguito dell'arresto in data 8 luglio 1979 di MARCHESE Antonino, figlio di Vincenzo e fratello di Giuseppe, e di GIOE' Antonio, indiziato d'appartenere alla cosca di Altofonte.

Nei giorni successivi all'irruzione della villa di via Valenza, mentre venivano ulteriormente attivate le fonti informative ai fini dell'identificazione di quanti erano riusciti a sottrarsi all'arresto, perveniva un circostanziato esposto anonimo riguardante proprio la riunione di mafia del 19 ottobre 1981, inviato in più copie alla locale Questura nonché alla Procura della Repubblica ed all'ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.

In tale scritto venivano indicati tra i fuggiaschi della villa SORCI Francesco, TERESI Giovanni inteso "u pacchiuni", PULLARA' Ignazio, fratello di Giovanbattista, MARCHESE Filippo, indicato come "il pericolo numero uno", ZANCA Carmelo, gestore di una pompa di benzina in piazza Scaffa, DI CARLO Francesco, GRECO Giuseppe detto "scarpazzedda", BRUSCA Bernardo di San Cipirrello, i fratelli SPADARO Vincenzo, Giuseppe e Tommaso.

Si specificava che nella villa erano attesi boss corleonesi e che scopo della riunione era quello di “finire di distruggere i MAFARA, i fratelli GRADO e il CONTORNO Salvatore, perché sono rimasti fedeli al clan BONTATE”.

Aggiungeva l'anonimo che autori del tradimento nei confronti dei BONTATE erano TERES1 Giovanni, i fratelli PULLARA' ed i fratelli SPADARO ma che la coalizione comprendeva anche il gruppo di corso Dei Mille capeggiato da MARCHESE Filippo con i suoi seguaci, tra cui il di lui cognato TINNIRELLO Benedetto, ZANCA Carmelo, ARGANO Filippo e D'ANGELO Giuseppe nonché i fratelli PRESTIFILIPPO Giovanni e Salvatore e il gruppo rappresentato da SAVOCA Giuseppe e Vincenzo detto “u siddiato”, quello facente capo a DI PERI Pierino, e il clan LO IACONO.

Specificava che lo ZANCA Carmelo e il gruppo di corso Dei Mille gestivano un laboratorio per la raffinazione della droga nella zona di Acqua dei Corsari; che il medesimo gruppo di corso Dei Mille era responsabile degli omicidi perpetrati nella zona di corso Dei Mille e della via Conte Federico; che scopo della riunione non era quello di verificare le possibilità di una tregua, ma quello di organizzare ulteriormente la strage.

Tutte le persone citate nell'anonimo sono state identificate nella nota numero 3112/3-1981 del giorno 8 aprile 1982 del Nucleo Operativo del Gruppo Carabinieri di Palermo diretto alla Procura della Repubblica e al Giudice Istruttore della Sesta Sezione di Codesto Tribunale, nella quale pure sono stati evidenziati alcuni elementi di indagini già acquisiti sino a quella data dagli organi di Polizia Giudiziaria.

RAPPORTO DEI 161

Esposti anonimi e “imbeccate” ai carabinieri,  l’altra guerra dei boss. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 10 luglio 2023

Nell'agosto 1981 era pervenuto al Comando Gruppo Carabinieri di Palermo un circostanziato esposto anonimo che chiariva i motivi della guerra insorta tra gli aggregati mafiosi con specifico riferimento ai tradimenti avvenuti all'interno del clan Bontate

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Nell'agosto millenovecentottantuno era pervenuto al Comando Gruppo Carabinieri di Palermo un circostanziato esposto anonimo che chiariva i motivi della guerra insorta tra gli aggregati mafiosi con specifico riferimento ai tradimenti avvenuti all'interno del clan BONTATE.

Infatti l'esponente indicava nei fratelli PULLARA' Ignazio e Giovanbattista gli individui che avevano condotto in una villa di campagna della zona di Villagrazia TERESI Girolamo e i fratelli FEDERICO e il DI FRANCO Giuseppe e ivi li avevano massacrati perché i quattro erano intenzionati a vendicare la morte di Stefano BONTATE.

A proposito della villa ove i quattro erano stati uccisi aggiungeva che anche i SORCI e TERESI Giovanni con il figlio “omicida”, gli ultimi due abitanti nei pressi dei BONTATE, avevano fatto aprire “la fusione" con i corleonesi.

Secondo l'anonimo i PULLARA' avevano agito su mandato specifico di Totò RIINA e di Dino PROVENZANO forti della parentela che li lega a BRUSCA Bernardo di San Cipirrello.

Indicava quali collaboratori della strage, ROTOLO Antonino, MADONIA Francesco, Pippo CALO', Ignazio MOTISI e Matteo MOTISI, GRECO Giuseppe di NICOLO' inteso “Pino cetta”, considerato uno dei più pericolosi.

Individuava l'origine della faida nell'opposizione che BONTATE Stefano ed INZERILLO Salvatore avevano dimostrato nell'inserimento del clan dei corleonesi a Palermo, poiché gli stessi avevano sempre operato con sequestri di persona ed estorsioni.

Concludeva incitando ad una azione decisa poiché il gruppo vincente si stava impadronendo di tutta la Sicilia ed avrebbe prose8uito negli omicidi in Palermo. Quasi fosse un post scriptum menzionava FARINELLA Giuseppe di San Mauro Castelverde e SCADUTO Giovanni tra gli appartenenti al gruppo dei corleonesi. Tutti gli individui citati in tale secondo scritto anonimo sono identificati […].

Come si vede i due anonimi scritti ed inviati in tempi diversi, motivati da due fatti specifici differenti (nel primo l'arresto dei partecipanti al summit di mafia/nel secondo il sequestro e la soppressione di TERESI Girolamo, dei fratelli FEDERICO e di DI FRANCO Giuseppe), vergati in stile diverso ed indirizzati ad organi dello Stato differenti, contengono non solo indicazioni comuni relativi ai gruppi mafiosi che avevano scatenato la guerra, ma soprattutto formulano identici indizi di responsabilità a carico delle stesse persone per determinati fatti delittuosi.

Nell'anonimo pervenuto al comando del Gruppo Carabinieri nell'agosto millenovecentottantuno e quindi due mesi prima del “bliz di Via Valenza”, ai fratelli PULLARA' viene attribuita l'eliminazione delle quattro persone rimaste fedeli ai BONTATE e viene specificato che il fatto delittuoso era avvenuto in una villa della zona Villagrazia “di cui i SORCI hanno fatto fusione” e che il TERESI Giovanni con il figlio indicato come “l'omicida” dovevano essere al corrente della soppressione.

Nell'anonimo inviato alla Questura ed alla Magistratura, tra coloro "che hanno fatto il tradimento al BONTATE passando al gruppo dei corleonesi" sono enumerati Giovanni TERESI, i PULLARA' e gli SPADARO.

Inoltre alla pagina venticinque del presente rapporto nella parte nella quale sono riportate le persone indicate da fonte particolarmente qualificata quali responsabili della soppressione di TERESI Girolamo dei FEDERICO e di DI FRANCO, sono stati indicati BONTA' Antonino, TERESI Giovanni e TERESI inteso “il numero uno”.

Pertanto, anche alla luce della riscontrata presenza di PULLARA' Giovanbattista nella villa di VERNENGO, non può esservi dubbio sulla congruenza delle notizie pervenute tramite i due scritti anonimi e la fonte confidenziale.

Accertato che i fratelli PULLARA' sono certamente tra i traditori del clan BONTATE, constatato il legame di parentela con BRUSCA Bernardo nonché la già accertata amicizia con LEGGIO Luciano pare logico dedurre come aderente alla realtà, il loro passaggio con il clan dei corleonesi rappresentato dai latitanti Riina e Provenzano.

RAPPORTO DEI 161

Confidenti e indagini, le contromosse dei poliziotti ai misteri di mafia. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani l'11 luglio 2023

La costante presenza degli organi di polizia in tutta la zona se da una parte si é rilevata utile nel contenimento dell'ondata criminale incentrata nella zona orientale della città, dall'altro evidenziava l'interesse degli organi investigativi nei confronti dei gruppi di mafia

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L'organigramma tracciato nell'anonimo, come si vede, trova piena rispondenza nei fatti delittuosi che si erano succeduti dall'inizio del millenovecentottantuno e corrispondeva, come già é stato detto, al quadro degli organi investigativi sulla scorta delle indagini, informazioni e deduzioni avevano già tracciato.

L'anonimo forniva però numerosi dettagli quali: i nominativi dei mafiosi che erano fuggiti dalla villa di via Valenza; l'identità di quelli che erano attesi; lo scopo per il quale era stato indetto il summit; la localizzazione sia pure sommaria della raffineria; il gruppo che era interessato alla raffinazione della droga.

Offriva pure lo spunto per alcune considerazioni relative alla gerarchia mafiosa instauratasi tra i vari clan, precisando che il clan di corso Dei Mille era affiliato ai PRESTIFILIPPO di Croceverde Giardini ed a Giuseppe GRECO di Ciaculli, ma che tutti erano passati al gruppo corleonese.

Tale ultima affermazione non può certo intendersi nel senso che clan mafiosi quali i GRECO dei Ciaculli, i PRESTIFILIPPO ed i GRECO di Croceverde Giardini possano trovarsi in posizione subordinata nei confronti del clan dei corleonesi, bensì va interpretata come adesione di tutti i clan emergenti al punto di vista o alle ragioni o all'azione di cui si erano fatti promotori i corleonesi nei confronti delle famiglie BONTATE e INZERILLO.

Cosa del resto evidenziata nell'anonimo pervenuto ai Carabinieri, nel quale le cause della guerra sono indicate nell'opposizione dei clan BONTATE e INZERILLO all'ingresso dei corleonesi nel territorio metropolitano.

Vale la pena accennare che sostanzialmente le notizie fornite dai due anonimi, sopra citati, sono state informalmente recepite da Funzionari e Ufflciali della Squadra Mobile e del Nucleo Operativo del Gruppo Carabinieri, che le hanno attinte a seguito di lunga opera di persuasione, da persone risultanti assai vicine ai defunti BONTATE Stefano e INZERILLO Salvatore.

Di tali. notizie confidenziali sarà diffusamente trattato in seguito.

A questo punto occorre fare un'annotazione di carattere statistico che, pur con i comprensibili limiti in tale tipo d'osservazione, offre in ogni caso dati obiettivi e incontrovertibili.

Dal 19 ottobre 1981, data in cui si verificò l'arresto dei partecipanti al summit di Villagrazia, alla fine dell'anno millenovecentottantuno, la cadenza degli omicidi attribuiti alla prosecuzione del piano di sterminio delle famiglie tradizionali, subiva una netta flessione anche se si dovevano registrare taluni delitti di persone legate ai gruppi BONTATE e BADALAMENTI, quali MANDALA' Gaetano ucciso il 13 novembre 1981 in via Conte Federico unitamente a GIANNONE Filippo, e FINAZZO Giuseppe ucciso il 10 dicembre in contrada Gazza di Terrasini.

Il 6 novembre 1981 era stato ucciso il Professore BOSIO Sebastiano; nell'immediatezza del fatto non si comprese il movente, pur risultando lo stesso in contatto con mafiosi di spicco quali MANGANO Vittorio, trafficante di stupefacenti, legato al clan INZERILLO; il movente sarà in seguito chiarito da qualificato confidente.

A proposito dell'omicidio di MANDALA' Gaetano, consumato come quelli in pregiudizio di MANDALA' Pietro e di MAZZOLA Emanuele nella via Conte Federico, va sottolineato che la vittima era cugino in primo grado di CONTORNO Salvatore - perché ambedue figli di fratelli – nonché zio di MANDALA' Pietro e di LOMBARDO Carmela, moglie di CONTORNO.

Pertanto anche tale delitto va inquadrato nell'ambito del disegno persecutorio attuato nei confronti del CONTORNO, la cui esistenza in vita doveva necessariamente costituire una spada di Damocle sospesa sulla testa degli organizzatori e degli esecutori di tanti efferati omicidi.

Questa stasi nel proseguimento del disegno criminoso era ancora in parte riconducibile alla particolare intensità con la quale venivano seguite le indagini successive al bliz di via Valenza e al rinvenimento della enorme somma di denaro in lire e in dollari nell'appartamento di AGLIERI Giorgio; in parte all'intensificazione di specifici servizi preventivi svolti da personale in divisa ed in borghese della Polizia e dei Carabinieri in tutta la zona orientale della città ed in particolare da piazza Scaffa al quartiere Ciaculli.

La costante presenza degli organi di Polizia in tutta la zona se da una parte si é rilevata utile nel contenimento dell'ondata criminale incentrata nella zona orientale della città, dall'altro evidenziava l'interesse degli organi investigativi nei confronti dei gruppi di mafia che proprio in tale comprensorio avevano spadroneggiato.

La strage di Natale e la guerra dei clan per il controllo di Villabate. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 12 luglio 2023

la cosiddetta “strage di Natale” fosse stata perpetrata per scalzare il potere mafioso del Pitarresi e contemporaneamente colpire le attività imprenditoriali condotte dai Di Peri ed assumere il controllo della distribuzione delle acque irrigue, elemento vitale per la sopravvivenza dell'economia agricola di tutta la zona

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Il protrarsi di tali servizi permetteva di acquisire utili risultati anche sul piano investigativo a seguito dell'arresto di FICI Giovanni, avvenuto il 6 gennaio 1982 e di SPADARO Francesco, MARCHESE Giuseppe ed INCHIAPPA Giovanbattista, avvenuto il 15 gennaio 1982.

Di tali operazioni verrà detto seguendo il criterio cronologico e logico.

Il 25 dicembre 1981,in Bagheria, a conclusione di uno spettacolare raid automobilistico costellato dall'esplosione incosciente di grande numero di colpi di arma da fuoco, un commando di killers su due autovetture raggiungeva il mezzo sul quale prendevano posto PITARRESI Biagio, DI PERI Giovanni e PITARRESI Antonino, uccidendo i primi due e sequestrando il terzo che non era stato loro possibile uccidere, per esaurimento di munizioni.

Nello scontro veniva ucciso accidentalmente un passante, VALVOLA Onofrio. Il giorno successivo, in Villabate, veniva pure assassinato, a colpi di arma da fuoco, CARUSO Giuseppe.

La personalità criminale di DI PERI Giovanni, pregiudicato ed indiziato mafioso, indicato quale patriarca del paese di Villabate sin da quando aveva neutralizzato la famiglia dei COTTONE a lui avversa; il potere che gli veniva riconosciuto in ogni settore dell'attività economica imprenditoriale e sociale; la contemporanea presenza di PITARRESI Antonino e PITARRESI Giorgio, impegnati con altri congiunti in varie attività commerciali ed imprenditoriali nel settore edilizio; la successiva uccisione di CARUSO Giuseppe che sotto l'egida del DI PERI controllava la distribuzione dell'acqua irrigua per gli agrumeti della zona; l'immediata fuga dalle rispettive abitazioni di MESSICATE VITALE Pietro, socio dei DI PERI, e di TROIA Gaspare aggregato alla cosca dei PITARRESI; tutto ciò faceva ritenere che la cosiddetta “strage di Natale” fosse stata perpetrata per scalzare il potere mafioso del PITARRESI e contemporaneamente colpire le attività imprenditoriali condotte dai DI PERI ed assumere il controllo della distribuzione delle acque irrigue, elemento vitale per la sopravvivenza dell'economia agricola di tutta la zona.

A conferma dell'intuizione veniva una specifica segnalazione anonima che attribuiva la responsabilità degli omicidi consumati il 25 e 26 dicembre 1981 a MARCHESE Filippo, titolare della Edilbeton Calcestruzzi, proprietario del villino nei pressi della Casa Vinicola "Vini Covo” a Casteldaccia.

Dalle indagini e dalle notizie che informalmente incominciavano a filtrare, si acquisiva che erano insorti gravi contrasti tra i proprietari della citata Edilbeton (MARCHESE Giorgio figlio di Filippo, GUIDA Andrea cognato di TINNIRELLO Gregorio, TINNIRELLO Gregorio figlio di Benedetto, quest 'ultimo cognato di MARCHSE Filippo, LA ROSA Antonino zio di DI GREGORIO Giuseppe di Nicolò e parente di altre famiglie mafiose, - PRESTIFILIPPO e FICI) e quelli della Sicilconcret (PITARRESI Salvatore figlio di Antonino, PICCIURRO Raffaele cugino di PITARRESI, MESSICALTE VITALE Pietro, PIPITONE Antonino e CANNELLA Tommaso). Infatti le due ditte fornitrici di calcestruzzo sono situate a breve distanza l'una dall'altra e quindi hanno, quale loro naturale mercato, la medesima zona che va da Bagheria a corso Dei Mille, territorio nel quale opera pure la Calcestruzzi Maredolce dei fratelli MAFARA. L'attività di quest'ultima impresa era stata praticamente soffocata con l'eliminazione fisica dei titolari MAFARA Francesco e MAFARA Giovanni.

Pertanto, se come successivamente é stato dimostrato, l'ideatore della strage di Natale era il gruppo mafioso facente capo ai MARCHESE, ai TINNIRELLO, ai PRESTIFILIPPO ed ai GRECO, portatori di una logica di sterminio per l'acquisizione di un potere territoriale più esteso, appariva verosimile che l'uccisione del DI PERI dei PITARRESI c del CARUSO, così come quella dei MAFARA , fosse servita per assicurare la necessaria espansione della Edilbeton sul versante di Villabate e Bagheria dalla Sicilconcret e sul versante di Brancaccio, Villagrazia, corso Dei Mille dalla Calcestruzzi Maredolce.

L'esattezza della pista investigativa sopra delineata trova ampia conferma dai due episodi verificatisi nel gennaio millenovecentottantadue di cui si é ampiamente parlato prima.

Infatti il 6 gennaio 1982 a seguito di telefonata anonima, il locale Nucleo Radiomobile Carabinieri interveniva nei pressi dello stabilimento industriale Calcestruzzi Maredolce per intercettare ed identificare gl i occupanti di due autovetture sospette, segnalate dall'anonimo interlocutore.

Le due autovetture, all'approssimarsi dell'autoradio, si davano velocemente alla fuga in direzione di Villabate; all'improvviso, dall'ultima autovettura,. scendeva un individuo che si dileguava nella campagna circostante.

Il predetto veniva, dopo laboriose ricerche , raggiunto ed identificato per FICI Giovanni, cugino di GRECO Giuseppe di Nicolò e di GRECO Giovanni. […] Sul conto di FICI Giovanni erano già emersi concreti elementi di collegamento con il clan dei GRECO di Ciaculli. […] Successivamente, in via confidenziale, si apprendeva che tra gli occupanti delle due autovetture che erano sfuggite al controllo vi era il famigerato Pino GRECO latitante per omicidio e che il motivo della presenza del FICI, del GRECO e degli altri occupanti rimasti sconosciuti davanti alla Calcestruzzi Maredolce, era da individuarsi nell'intenzione di uccidere MAFARA Pietro e Giuseppe ultimi superstiti dell'omonima famiglia.

RAPPORTO DEI 161

I potenti Marchese, la sanguinaria famiglia di Corso dei Mille. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 13 luglio 2023

Marchese Giuseppe é nipote del più volte citato boss di corso Dei Mille, Marchese Filippo e figlio del mafioso Marchese Vincenzo, ambedue ricercati perché implicati nell'associazione ritenuta responsabile degli omicidi di Boris Giuliano ed Emanuele Basile. Inoltre é fratello di quel Marchese Antonino arrestato nel luglio 1979...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

Il 15 gennaio 1982 veniva condotta a termine altra importante operazione di Polizia Giudiziaria che, oltre a fornire in maniera inequivocabile precisi riscontri all'attività investigativa posta in essere a seguito degli omicidi del Natale millenovecentottantuno, confermava inequivocabilmente in linea più generale, le responsabilità assunte nell'ambito della guerra tra le famiglie mafiose, dei gruppi cosiddetti emergenti.

Nel corso dei protratti servizi preventivi effettuati nella zona di Brancaccio, personale della Polizia di Stato intercettava l'autovettura Wolkswaken Golf [...] sulla quale si trovava MARCHESE Giuseppe, SPADARO Francesco e INCHIAPPA Giovanbattista.

I tre giovani venivano trovati in possesso di due rivoltelle calibro trentotto special cariche, con numerosissime munizioni di scorta, e quindi tratti in arresto.

La contemporanea presenza a bordo di una veloce autovettura, le micidiali armi di cui erano in possesso e la nutrita scorta di munizioni dello stesso calibro, la zona nella quale erano stati fermati, l'estrazione mafiosa delle famiglie di rispettiva appartenenza e gli accertati legami tra i clan cui gli stessi appartenevano, non lasciavano dubbi sulle intenzioni reali c sul motivo della loro presenza in un quartiere già teatro di una lunga serie di omicidi.

MARCHESE Giuseppe é nipote del più volte citato boss di corso Dei Mille MARCHESE Filippo e figlio del mafioso MARCHESE Vincenzo, ambedue ricercati perché implicati nell'associazione ritenuta responsabile degli omicidi di BORIS Giuliano ed Emanuele BASILE. Inoltre é fratello di quel MARCHESE Antonino arrestato nel luglio 1979 unitamente a GIOE' Antonino mentre tentava di recuperare, all'interno della zona portuale di Palermo, una rivoltella calibro trentotto special marca Taurus poi risultata essere l'arma con la quale venne ucciso RINICELLA Giovanni di Altofonte. Il GIOE', il MARCHESE Antonino e il BAGARELLA Leoluca sono stati colpiti da mandato di cattura per tale omicidio.

Proprio grazie all'arresto del MARCHESE Antonino e di GIOE' Antonino si pervenne alla localizzazione dell'appartamento di via Pecori Giraldi, nel quale furono rinvenuti quattro chili di eroina e varie armi, usato da BAGARELLA Leoluca risultato essere fidanzato con MARCHESE Vincenza sorella di Antonino.

SPADARO Francesco è figlio del mafioso SPADARO Giuseppe e nipote del più noto Masino SPADARO sino a qualche tempo fa ritenuto il rass incontrastato di tutta l'attività contrabbandiera svolta nella Sicilia occidentale.

Il citato SPADP.RO Francesco il 25 marzo 1978 venne tratto in arresto per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale; con lui, nella circostanza, si trovavano alcuni amici tra i quali VERNENGO Cosimo figlio di VERNENGO Giuseppe e nipote di VERNENGO Pietro ambedue risultati essere gestori della raffineria di morfina trovata il giorno 11 febbraio 1982 in via Messina Marine.

INCHIAPPA Giovanbattista nato e residente in Altofonte, é risultato essere socio con FAZIO Salvatore nell'impresa “La Siciliana S.n.C. Installatrice di impianti elettrici. Detta società é risultata essere fornitrice delle imprese edili operanti nella zona orientale della città di Palermo e facenti capo a vari clan mafiosi tra le quali la Listro & C. di proprietà di SPADARO Tommaso.

Il FAZIO poi si é rivelato uno degli uomini di punta del clan di corso Dei Mille, al quale era affidato il compito di riciclare, attraverso l'attività imprenditoriale sopra citata, la costruzione di villini in Casteldaccia e l'acquisto di un agrumeto per cinquecento milioni di Lire nella stessa Casteldaccia, gli enormi profitti derivanti dal traffico degli stupefacenti.

Che il FAZIO sia un prestanome di Filippo MARCHEE e che sia indiscutibilmente stato a lui é riscontrabile anche nell'occasione della sua identificazione, avvenuta il 23 marzo 1974 in Gaeta, mentre si trovava insieme al citato MARCHESE Filippo ed a MARCHESE Pietro, cognato di Filippo, con i quali aveva accompagnato nella sede di soggiorno MARCHESE Giuseppe di Saverio nato a Palermo il 16 gennaio 1938, fratello di Pietro.

[…] I cenni sui collegamenti e sui rapporti intercorrenti tra i tre arrestati e i gruppi mafiosi di rispettiva provenienza, riportano immediatamente all'organigramma più volte delineato dei gruppi criminali che avevano assunto il potere della città di Palermo.

Soffiate più o meno anonime, ma chi parla di don Michele Greco poi muore. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 14 luglio 2023

Anche Salvatore De Gregorio aveva sentito la necessità, parlando di Michele Greco, di premettere il "don", cosa che non faceva parlando di Bontate Stefano. La morte del De Gregorio é una testimonianza non più confutabile circa l'importanza delle sue rivelazioni, che, per il fatto stesso di avergli causato la morte, assumono valore inequivocabile

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

La scomparsa di DE GREGORIO Salvatore é un evento di primaria importanza nell'ambito della presente indagine. Il predetto, arrestato il 12 agosto 1981 e scarcerato per concessione della libertà provvisoria il 24 dicembre 1981, aveva infatti testimonialmente dichiarato fatti e circostanze assai rilevanti e certamente doveva essere a conoscenza di altri eventi relativi ai contrasti tra le cosche mafiose.

La modalità dell'uccisione di BONTATE Stefano, la soppressione di TERESI Girolamo e delle altre che lo accompagnavano ad opera di non meglio precisati traditori, l'individuazione delle famiglie vicine ai BONTATE, i continui contatti tra Stefano BONTATE e Santo INZERILLO, elementi poi riscontrati in sede di indagini o attraverso segnalazioni confidenziali ed anonime, dimostravano che il DE GREGORIO aveva una conoscenza ed una visione approfondita della situazione anteriore all'inizio delle ostilità.

Ma il fatto più rilevante tra quelli riferiti, era che Michele GRECO fosse un boss mafioso di rango molto elevato, tanto che il DE GREGORlO gli attribuiva il “don”, e che estendesse la sua influenza sino alla via Oreto.

Tale dichiarazione per coloro che da anni seguono le vicende di mafia é da ritenere determinante giacché l'impenetrabilità e il grandissimo prestigio che circondano GRECO Michele e le persone a lui più vicine, hanno impedito da venti anni a questa parte, non solo di raccogliere elementi di responsabilità in ordine agli illeciti da lui perpetrati, ma persino di recepire notizie confidenziali specifiche e riscontrabili.

Basti considerare che GRECO Michele ha vissuto per anni come se si trovasse in stato di latitanza, limitando al massimo i suoi contatti con l'esterno e le sue apparizioni in pubblico.

Infatti nel febbraio del corrente anno si è riscontrato che persino il dottor Sebastiano MUSUMECI-CARBONE, odontoiatra, si é recato nella sua abitazione per curarlo; il 16 febbraio 1982 AIELLO Michelangelo già assessore e sindaco di Bagheria, nonché titolare delle S.p.A. Saic ed Ida, con sede in Bagheria, importanti aziende nel settore alimentare, si era portato con il proprio autista, nell'abitazione del GRECO per conferire con lui.

Per illustrare compiutamente la posizione che GRECO Michele riveste nella ristrettissima cerchia di boss mafiosi, é sufficiente dire che é inteso come "il papa" a differenza dello stesso BONTATE Stefano chiamato "il Principe di Villagrazia".

Questi brevi cenni sulla personalità di GRECO Michele servono per sottolineare ulteriormente il valore reale delle indicazioni fornite dal DE GREGORIO.

L'avere soltanto profferito il nome di GRECO Michele ed averlo poi indicato come un boss del rango di Stefano BONTATE, ha segnata il destino di DE GREGORIO Salvatore.

Questi infatti, dopo aver trascorso i primi giorni di libertà in casa, é stato sequestrato alla prima favorevole occasione; considerato il tempo trascorso dal 4 gennaio 1982, é da ritenere che sia stato soppresso e il suo cadavere occultato secondo il rituale ormai consolidato della soppressione di altri elementi della famiglia BONTATE quali: Girolamo TERESI, i fratelli FEDERICO, Giuseppe DI FRANCO, D'AGOSTINO Emanuele, MAFARA Francesco e GRADO Antonino.

Secondo quanto riferito in via strettamente riservata il DE GREGORIO, sequestrato da individui già facenti parte della cosca di Villagrazia, era stato sottoposto ad un interrogatorio nel corso del quale gli veniva contestato quanto dichiarato alla Squadra Mobile, e quindi ucciso. Ma di ciò si riferirà più avanti.

E' pertinente a questo punto illustrare il contenuto di uno scritto anonimo giunto alla Questura di Palermo intorno al 15 gennaio 1982. In esso si da una spiegazione dell'origine della faida attribuendola ad una lite avvenuta tra Salvatore CONTORNO e GRECO Giuseppe detto “scarpazzedda”, a seguito della quale il capo mafia di Croceverde Giardini PRESTIFILIPPO Giovanni avrebbe dato ordine di ucciddere CONTORNO, nonostante l'opposizione di BONTATE Stefano.

Successivamente in occasione dell'agguato teso a CONTORNO Salvatore costui ebbe la meglio ed uccise uno dei figli del PRESTIFILIPPO.

Pertanto si era scatenata la persecuzione nei confronti di tutti quelli che avevano aiutato Salvatore CONTORNO. L'anonimo individuava i killers nei figli del PRESTIFILIPPO, in GRECO Giuseppe, in ZARCONE e MAZZOLA della zona di Belmonte Chiavelli, nei cugini MARCHESE e nei fratelli ZANCA di Corso dei Mille, questi ultimi con l'appoggio dei Corleonesi.

Terminava affermando che il capo mafia di tutta Palermo era “don Michele GRECO”, il quale si avvaleva di consigli di alcuni avvocati e della protezione di un magistrato.

A parere di chi scrive l'anonimo presenta un grado di attendibilità sufficiente se si intende nel senso che molti degli omicidi nella zona di via Giafar, via Conte Federico e limitrofe sono stati determinati dagli aiuti delle vittime avrebbero offerto al CONTORNO.

Anche la ricostruzione dell' aggressione subita dal CONTORNO e dalla sua reazione potrebbero essere aderenti alla realtà se l'anonimo intendeva riferirsi al tentato omicidio in pregiudizio di CONTORNO Salvatore: infatti in sede di Sopralluogo si riscontravano segni di colpi d'arma da fuoco che furono attribuiti alla reazione della vittima designata.

Non è stato possibile accertarsi dell'esistenza in vita dei due figli di PRESTIFILIPO Giovanni perché anche costoro, da un certo periodo di tempo, volontariamente si sono resi irreperibili.

Solo di PRESTIFILIPPO Giuseppe Francesco si ha certezza dell'esistenza in vita, in quanto identificato il 22 maggio 1981 unitamente a TINNIRELLO Lorenzo, ZASA Giuseppe e GRECO Giuseppe di Salvatore, in questo corso Dei Mille e notato il 6 febbraio 1982 transitare con GRECO Giuseppe di Salvatore ed un altro giovane che si nascondeva il volto a bordo di una Renault nella via Ciaculli.

Sembra invece precisa ed attendibile l'identificazione de i killers responsabili di numerosissimi omicidi poiché PRESTI FILIPPO Mario Giovanni, PRESTIFILIPPO Giuseppe Francesco, Pino GRECO, i cugini MARCHESE figli di Filippo e Vincenzo MARCHESE, i fratelli Pietro, Carmelo, Giovanni, Onofrio ZANCA, ZARCONE Salvatore e MAZZOLA, sono tutti appartenenti alle famiglie coalizzatesi contro i clan BON'I'ATE, INZERILLO e BADALAMENTI e molti di loro sono stati sospettati e denunciati per vari omicidi.

L'individuazione poi di Michele GRECO quale capo mafia di tutta Palermo trova ampio ri scontro nelle confidenze di persone assai bene informate che, solo dopo diversi incontri e dopo essersi accertate dell'assoluta riservatezza dell'Ufficiale di Polizia Giudiziaria, hanno consentito a svelare il nome del boss di tutti i boss.

Che si tratti di un "primus" anche tra i capi delle varie famiglie mafiose, si evince dall'identificazione dei pregiudicati SAVOCA Salvatore e CASELLA Antonino notati sostare davanti alla sua abitazione. La indubbia collocazione dei due nell'organizazione contrabbandiera della Kalsa diretta da Masino SPADARO e Pino SAVOCA non lascia alcun dubbio circa la loro presenza davanti alla villa di GRECO Michele: evidentemente erano in attesa che uno dei due capi, più probabilmente il SAVOCA, uscisse dall'abitazione del GRECO ove era recato come impone lo status del boss di Ciaculli. Le incredibili giustificazioni rappresentate nella circostanza dal SAVOCA e dal CASELLA sono, in proposito, quanto meno indicative.

Vale qui la pena di ricordare che anche DE GREGORIO Salvatore aveva sentito la necessità, parlando di Michele GRECO, di premettere il "don", cosa che non faceva parlando di BONTATE Stefano, che pure rappresentava per lui il capo indiscusso della famiglia, inteso il Principe di Villagrazia.

La morte del DE GREGORIO é una testimonianza non più confutabile circa l'importanza delle sue rivelazioni, che per il fatto stesso di avergli causato la morte, assumono valore inequivocabile.

RAPPORTO DEI 161

Sangue e vendette, gli “scappati” si riorganizzano nel Nord Italia. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 15 luglio 2023

il D'Agostino Rosario ed i fratelli Grado erano riusciti a sottrarsi alla morte rifugiandosi nel nord Italia ed ivi mantenevano regolari rapporti con altri fuoriusciti del clan Bontate, nonché con Contorno Salvatore e Badalamenti Gaetano. Anche di questo sarà detto in modo più diffusso appresso

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Nei primi giorni del mese di gennaio e precisamente il 7 gennaio 1982, rimanevano vittime della “lupara bianca”, anche i fratelli LUPO Benedetto e Luigi. Di costoro, a distanza di un mese e mezzo fu rinvenuta l'autovettura sulla quale, personale del gabinetto regionale di Polizia Scientifica, trovò pochi grammi. di sostanza stupefacente, presumibilmente eroina.

I precedenti specifici dei fratelli LUPO avevano, nella medesima casa, il suocero e il cognato LUPO Luigi. già arrestati nel maggio del millenovecentosettantacinque unitamente a MARCIANO' Francesco Paolo a seguito del rinvenimento nell'abitazione dei LUPO di un laboratorio artigianale per la produzione e il taglio degli stupefacenti, la loro estrazione della zona di Villagrazia, i legami di affinità contratti da LUPO Benedetto con i SORCI, l'improvvisa ricchezza riscontrabile dall'avere edificato due ville con piscina nella zona Olio di Lino, lasciavano supporre che la loro scomparsa fosse dovuta a contrasti insorti fra trafficanti di stupefacenti, visto che nella loro macchina era stata rinvenuta droga.

Solo dopo l'uccisione di MARCHESE Pietro avvenuta all'Ucciardone il 25 febbraio 1982, la soppressione dei LUPO é stata considerata sotto un altro profilo.

Infatti, dagli accertamenti esperiti sugli appunti trovati in possesso del MARCHESE al momento del suo arresto a Zurigo (12 giugno 1981), si accertava che il predetto aveva portato con se un biglietto da visita del ragioniere MALFATTORE Nicolò. Quest'ultimo é cugino di MARCHESE Pietro - la madre del primo é sorella del padre del secondo - nonché cognato dei fratelli LUPO per avere sposato una loro sorella; inoltre dai primi mesi del millenovecentottantuno il MALFATTORE era andato ad abitare in una villa di via Olio di Lino, ove era installata l'utenza stampata sul biglietto da visita, e con lui convivevano, nella medesima casa, il suocero e il cognato LUPO Luigi. È stato altresì riscontrato che il giorno in cui il cadavere del MARCHESE era stato restituito alla famiglia, il MALFATTORE si era recato, sia pure notte tempo, in casa dei GRECO, parenti della moglie del defunto, ove si trovava il feretro.

Quanto sopra dimostra che tra MARCHESE Pietro, LUPO Luigi (188) e MALFATTORE Nicolò vi erano frequenti contatti tanto che il primo, pur dovendo recarsi in Brasile, aveva sentito la necessità di portare con sé, insieme a pochissimi altri appunti, il recapito telefonico del cugino, attraverso il quale poteva contattare il LUPO Luigi.

Orbene se i fratelli LUPO erano trafficanti e produttori di stupefacenti, già orbitanti nel gruppo mafioso di Villagrazia, come si evince dai precedenti giudiziari specifici, dello stupefacente trovato nella loro auto e dall'elevato tenore di vita, se intrattenevano rapporti di affari e di materia illecita con MARCHESE Pietro, se questo ultimo - come sarà dimostrato più avanti - é stato ucciso per aver tradito i gruppi mafiosi facenti capo ai GRECO di Croceverde, ai GRECO dei Ciaculli ed ai MARCHESE di corso Dei Mille, ben può dedursi che anche l'eliminazione dei fratelli LUPO vada attribuita alla stessa farniglia emergente, pur senza poter escludere che sia stata occasionalmente deterrminata da uno sgarbo per motivo di traffico di stupefacenti.

In merito agli omicidi di, TERESI Francesco Paolo e IENNA Michele, va sottolineato che erano stati portati a termine con l'uso di una medesima p6stola calibro sette e sessantacinque, il che non lascia dubbi circa la medesima identità degli esecutori e dei mandanti; ma non sorgono dubbi neppure circa l'identità dei mandanti degli omicidi GRADO, DI FRESCO Giovanni e D'AGOSTINO, ove si consideri che TERESI Francesco Paolo era fratello di quel TERESI Pietro, socio della Centralgars dei BONTATE, allontanatosi da Palermo sin dal 1 agosto del 1981; lo stesso é coniugato con GRADO Rosalia sorella dei noti GRADO Antonino, Salvatore, Gaetano, Vincenzo, etc. cugini, questi ultimi, di CONTORNO Salvatore; IENNA Michele, macellaio con esercizio ubicato nella via Belmonte Chiavelli era stato socio di CONTORNO Salvatore nell'allevamento di bovini tenuti nelle sue stalle ed era stato indicato tra coloro che aveva nascosto Salvatore CONTORNO; GRADO Antonino era cugino dei sopra citati fratelli GRADO; DI FRESCO Giovanni era genero di MAZZOLA Emanuele ucciso il 5 ottobre 1981 e fratello di DI FRESCO Francesco che sarà ucciso il 12 marzo 1982, tutti confidenzialmente indicati quali favoreggiatori di CONTORNO Salvatore; D'AGOSTINO Ignazio era padre di quel D'AGOSTINO Rosario complice di CONTORNO Salvatore in varie imprese criminose e coniugato con LOMBARDO Maria Carmela cugina in primo grado di LOMBARDO Carmela, moglie di CONTORNO Salvatore.

Ulteriore riprova che l'unico movente dei delitti citati sia l'eliminazione di quanti, rimasti fedeli al gruppo mafioso di originaria estrazione, avrebbero potuto intraprendere una controffensiva, (in particolar modo i cugini CONTORNO GRADO), si evince dal contenuto delle già citate conversazioni telefoniche intercettate nell'utenza numero 237143 intestata ad ANSELMO Salvatore.

Come poi é stato riferito confidenzialmente e accertato dalle indagini, il D'AGOSTINO Rosario ed i fratelli GRADO erano riusciti a sottrarsi alla morte rifugiandosi nel nord Italia ed ivi mantenevano regolari rapporti con altri fuoriusciti del clan BONTATE, nonché con CONTORNO Salvatore e BADALAMENTI Gaetano. Anche di questo sarà detto in modo più diffuso appresso.

RAPPORTO DEI 161

Il declino di Tano Badalamenti e l’ascesa dei nuovi padrini di Palermo. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 16 luglio 2023

Si registrava la prolungata assenza di vari componenti della famiglia Badalamenti, allontanatasi dalle rispettive abitazioni sin dall'omicidio di Antonino, per non parlare dell'assenza del boss Gaetano che, sebbene assolto in fase istruttoria nell'estate del 1981 dall'accusa di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, non rimetteva piede a Cinisi

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Come é stato evidenziato, anche il clan del boss BADALAMENTI Gaetano era stato duramente colpito; contemporaneamente nel territorio prima sottoposto alla sua esclusiva pertinenza, si andava registrando la progressiva influenza dei fratelli mafiosi PIPITONE Angelo Antonino e Giovanbattista di Villagrazia di Carini, la cui manifesta presenza fisica nella zona ha assunto, per occhi esperti il significato di una presa di potere.

Di contra si registrava la prolungata assenza di vari componenti della famiglia BADALAMENTI, allontanatasi dalle rispettive abitazioni sin dall'omicidio di BADALAMENTI Antonino, per non parlare dell'assenza del boss BADALAMENTI Gaetano che, sebbene assolto in fase istruttoria nell'estate del millenovecentottantuno dall'accusa di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, nella quale invece rimaneva imputato BONTATE Giovanni, non rimetteva piede a Cinisi.

Ma l'essere riusciti a scampare alla morte allontanandosi da Palermo, non garantiva di certo la incolumità come era dimostrato dall'uccisione di INZERILLO Pietro (fratello del boss Salvatore ucciso il giorno 11 maggio 1981 e di Santo, scomparso con lo zio DI MAGGIO Calogero il 25 maggio 1981) perpetrata il 15 gennaio 1982 a Mont Laurel nel New Jersej.

Il cadavere, rinvenuto tre giorni dopo all'interno di una autovettura del cugino GAMBINO Erasmo di Rosario, ricercato in Italia, veniva trovato con una banconota da cinque dollari in bocca e un'altra da un dollaro sui genitali alla luce di concordanti notizie, recepite in via informale da più parti, relative ai motivi che avevano scatenato là persecuzione nei confronti delle cosche BONTATE ed INZERILLO, accusate di essersi appropriate di denaro appartenente all'intero sodalizio mafioso, sembra chiaro il senso della macabra sceneggiata: cinque dollari in bocca per placare la sete di denaro, un dollaro sui genitali per indicare che il morto era un uomo da poco.

Sui presunti autori dell'assassinio, fonte vicina alla famiglia INZERILLO indicava LI VOTI John Richard, specificando che lo stesso aveva agito su mandato di BUSCEMI Salvatore e MONTALTO Salvatore segnalati come i traditori del boss INZERILLO Salvatore.

Il giorno 11 febbraio del corrente anno si concretizzava il paziente lavoro investigativo iniziato all'indomani dell'irruzione nella villa di via Valenza; quel giorno infatti, seguendo gli spostamenti dell'autovettura usata da VERNENGO Pietro, militari del locale Gruppo Carabinieri localizzavano nella via Messina Marine numero 66/H il laboratorio per la raffinazione della morfina base, indicato già il 30 ottobre 1981 nell'anonimo pervenuto alla Questura e al Tribunale di Palermo.

Nel corso del sopralluogo riuscivano a sottrarsi all'arresto DI SALVO Nicola, proprietario dell'immobile ove era stata impiantata la raffineria ed ALFANO Paolo Giuseppe, proprietario della villa attigua al primo.

Gli accertamenti tecnico scientifici consentivano di acclarare che il laboratorio aveva una notevole capacità di raffinazione (circa cinquanta chili di eroina alla settimana) e che il prodotto finale aveva elevatissimo grado di purezza (dallo 84 al 92 %); lo stesso procedimento di raffinazione, singolare ma ingegnoso, lasciava dedurre una buona capacità professionale.

Dalle indagini immediatamente esperite si concretizzarono elementi di responsabilità in testa a DI SALVO Nicola e la moglie […], visto che i due abitavano al piano terra ed il laboratorio era stato impiantato al primo piano del medesimo villino; ad ALFANO Paolo che era stato visto passare, al momento dell'intervento dei Carabinieri, da un immobile all'altro con il chiaro intento di avvertire il DI SALVO di darsi alla fuga; a VERNENGO Pietro, notato a bordo della Renault mentre usciva dalla villa del DI SALVO; a VERNENGO Giuseppe per gli accertati rapporti che intratteneva con il DI SALVO; ad AGLIERI Giorgio per i legami di parentela con il VERNENGO Pietro e per le riscontrate mansioni di cassiere dell'or8anizzazione. […].

Nel corso della perquisizione domiciliare effettuata all'interno della villa di via Messina Marine, venivano rinvenute una rivoltella calibro trecentocinquantasette magnum con matricola abrasa, una polizza di assicurazione ed altro a nome di VERNENGO Giuseppe e numero tre cambiali da lire duecentomila ciascuna a firma di PULLARA' Ignazio emesse a favore di DI SALVO Nicola. […] Si accertava cosi che il DI SALVO aveva sempre orbitato nell'organizzazione contrabbandiera dei VERNENGO, TINNIRELLO, LO NARDO, SAVOCA e SPADARO, subendo anche una condanna a tre anni di reclusione per contrabbando di tabacchi lavorati esteri, da parte del Tribunale di Castrovillari (CS), zona della Calabria nella quale i VERNENGO hanno da sempre operato ed anche risieduto. Risultava altresì che il DI SALVO era stato identificato sull'autovettura di VERNENGO Antonino fu Cosimo, unitamente a VERNENGO Pietro (che aveva documenti falsificati intestati a LANZETTA Alfonso), a LO NARDO Carlo e ad altro latitante che si nascondeva sotto le false generalità di GAMBINO Andrea.

In altra circostanza veniva identificato unitamente al GRAVIANO Michele, ucciso il 7 gennaio 1982 in questo centro, ritenuto uno dei finanziatori dell'attività contrabbandiera e dell'attività edile di vari gruppi mafiosi. […] Risultava invece dalle indagini successive al rinvenimento del laboratorio che il DI SALVO aveva acquistato da due anni la villa intestandola ai figli e, sin dall'ottobre millenovecentottantuno, aveva iniziato i lavori per la ristrutturazione della Villa per i quali aveva, fino al febbraio millenovecentottantadue, sborsato la somma di lire trenta-trentacinque milioni in parte in contanti ed in parte in assegni. […] Pertanto si deve ritenere che, già nel novembre del millenovecentottantuno, esistesse il disegno di impiantare il laboratorio nella villa di via Messina Marine o che già in quell'epoca il laboratorio vi fosse impiantato, visto che il DI SALVO disponeva di altra abitazione sito nel corso Dei Mille. […] Vale la pena di aggiungere che a seguito di un recente processo sono stati condannati, per associazione per delinquere, ricettazione, falso in titoli di credito e possesso ingiustificato di valuta estera i componenti del clan MARINO MANNOIA. Orbene uno dei condannati, MARINO MANNOIA Francesco é coniugato con VERNENGO Rosa, figlia di VERNENGO Giuseppe, la quale é pure proprietaria di un lotto di terreno in via Valenza , attiguo alla villa intestata a VERNENGO Ruggiero. Ciò dimostra che, come nel caso dello AGLIERI, i VERNENGO usano affidare il compito di riciclare la valuta italiana ed i dollari che provengono dal traffico degli stupefacenti alle persone con le quali hanno tessuto rapporti di parentela.

Ritornando invece alla loro collocazione nell'ambito del crimine organizzato di tipo mafioso non può sfuggire di certo il rapporto che intrattengono con il clan dei corleonesi e con RIINA Salvatore in particolare, ove si consideri che il ragioniere MANDALARI Giuseppe, pro- curatore speciale di MONDI' Vincenza, quest'ultima moglie di VERNENGO Giuseppe e socia dell'Agrisicula S.p.A., é azionista di maggioranza della Zoosicula Risa S.p.A. nella cui sede venne tratto in arresto BAGARELLA Leoluca, cognato di RIINA Salvatore.

[…] Va comunque sottolineato che la raffineria di via Messina Marine era ubicata a cinquecento metri dalla piazza Torrelunga fulcro dell'attività criminosa del clan MARCHESE – TINNIRELLO – ZANCA, che la pompa di benzina gestita dagli ZANCA in piazza Scaffa e la loro originaria abitazione di corso Dei Mille si trovano a non più di duecento metri dall'abitazione a dalla fabbrica di ghiaccio dei fratelli VERNENGO, sita in piazza Ponte Ammiraglio.

Del resto il rinvenimento delle cambiali a firma PULLARA' Ignazio in favore del DI SALVO comprova l'esistenza di rapporti di dare - avere poggiati certamente sull'illecito. Circa la posizione dei fratelli PULLARA' ed i loro collegamenti nel contesto delle famiglie emergenti, é stato ampiamente detto a proposito della riunione interrotta nella villa di VERNENGO Ruggiero, alla quale era presente il Giovanbattista, ivi arrestato, mentre Ignazio riuscì a dileguarsi insieme a MARCHESE Filippo, Carmelo ZANCA ed altri. Orbene come é stato dimostrato anche in precedenti indagini, il PULLARA' Ignazio é complice abituale di MARCHESE Filippo e VERNENGO Giuseppe fratello di Pietro, tanté che è stato colpito da mandato di cattura emesso dal Giudice Istruttore dell'ottava sezione del Tribunale di Palermo perché imputato di associazione per delinquere ed altro nell'ambito dell'inchiesta giudiziaria relativa agli omicidi di BORIS Giuliano ed Emanuele BASILE. Anche i rapporti intessuti per anni con il gruppo dei contrabbandieri della Kalsa facenti capo ai fratelli SPADARO ed ai fratelli SAVOCA sono dimostrabili attraverso i riscontrati rapporti che i VERNENGO hanno intrattenuto ed intrattengono con i TINNIRELLO di via Nicolò Cervello.

[…] Ebbene alla luce dei collegamenti che sono stati esposti e della rispondenza tra le notizie fornite con l'anonimo e quelle accertate dalle indagini, si deve dedurre che la raffineria in argomento fosse gestita da una societas sceleris, già sperimentata per la realizzazione della strage, composta dai VERNENCO, dai MARCHESE, dagli ZANCA e dai contrabbandieri della Kalsa facenti capo agli SPADARO ed ai SAVOCA. […] Dal giorno della localizzazione della raffineria di via Messina Marine e sino alla prima decade del mese di marzo del corrente anno si registrava, come era avvenuto con l'irruzione nella villa di via Valenza, una stasi nella prosecuzione del disegno di sterminio del clan BONTATE e dei favoreggiatori di CONTORNO Salvatore.

RAPPORTO DEI 161

L’arresto di Salvatore Contorno e il business della droga dei boss perdenti. RAPPORTO DEI 161 su Il Domani il 17 luglio 2023

Sembra utile riportarne le conclusioni che sebbene non definitive, apportano comunque un contributo di chiarezza  alle tesi ed alle conclusioni contenute nel presente. Si accertava infatti che il Contorno trasferitosi a Roma qualche tempo dopo rispetto al tentativo di uccisione di cui era stato vittima, si era inserito nel traffico degli stupefacenti trattando indifferentemente hashish, eroina e cocaina...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul “rapporto 161” di Ninni Cassarà e Francesco Accordino

Intanto il 15 marzo 1982, nell'attuazione della fronda attorno a CONTORNO Salvatore (54), veniva ucciso SCHIFAUDO Antonino, zio di MANDALA' Pietro, già assassinato il 3 ottobre 1981 e cognato del di lui padre MANDALA' Franco che verrà ucciso il 5 aprile 1982.

Lo SCHIFAUDO inoltre era coniugato con LOMBARDO Rosaria cugina di LOMBARDO Carmela, quest'ultima moglie di CONTORNO Salvatore. Il 23 marzo 1982 la Squadra Mobile di Roma, che indagava sull'omicidio di' un' noto trafficante di stupefacenti a nome FRATONI Duilio, individuava una tenuta sulla braccianese ove dimorava una famiglia di siciliani coinvolta nei traffici

del FRATONI. Fattavi irruzione, arrestava CONTORNO Salvatore ed i componenti del nucleo familiare della moglie, per altro cugini del CONTORNO, rinvenendo in parte nell'abitazione ed in parte sotterrati nella campagna circostante, centoventicinque chilogrammi di hascish, un chilogrammo di eroina, denaro contante per un ammontare di oltre trentadue milioni, pistole, rivoltelle, fucili, munizioni di vario tipo e calibro, documenti di identità in bianco e falsificati.

Nel corso dell'operazione di polizia, si riscontrava che la famiglia CONTORNO - LOMBARDO disponeva di due autovetture blindate e due non e, di queste ultime, di una innocenti Mini 90 intestata a BADALAMENTI Angela Rosa fu Cesare.

Dagli accertamenti esperiti in Cinisi risultava che l'autovettura era in uso a BADALAMENTI Salvatore, fratello di BADALAMENTI Angela, ambe due nipoti di BADALANENTI Antonino ucciso il 19 agosto 1981.

I familiari nel confermare la circostanza, aggiungevano che il loro congiunto era assente da alcuni mesi; in loco si apprendeva che il BADALAMENTI Salvatore si era allontanato da Cinisi sin dall'epoca dell'uccisione dello zio Antonino. Era stato altresì riferito che il predetto era uno degli abituali accompagnatori dello zio BADALAMENTI Gaetano, anch'egli non notato in Cinisi prima, perché latitante poi perché resosi volontariamente irreperibile, sin dall'estate del millenovecentottuntuno epoca in cui venne revocato il mandato di cattura emesso a suo carico, perché imputato di traffico di stupefacenti ed altro.

I risultati conseguiti con l'arresto di CONTORNO Salvatore, latitante perché condannato in primo grado a ventisei anni di reclusione per il sequestro di persona :in pregiudizio di MONTANARI Armando, vanno aldilà dell'operazione di polizia giudiziaria stessa.

Infatti il possesso di notevolissime quantità di stupefacente di vario tipo, di rilevanti somme di denaro e delle autovetture blindate, l'acquisto della tenuta per un ammontare di duecentoventi. milioni di lire, la disponibilità dell'autovettura appartenente ad un nipote di BADALAMENTI Antonino e di BADALANENTI Gaetano, i suoi contatti con un grosso trafficante romano a nome FRATONI Duilio, dimostrano che CONTORNO, pur sentendosi in pericolo per la sua incolumità, tanto d'avere assunto l' identità del cognato LOMBARDO Sebastiano, di essersi premunito con l'acquisto di auto blindate e con il possesso di armi micidiali, operava attivamente nel campo del traffico degli stupefacenti ed aveva rapporti diretti con altri mafiosi fuoriusciti da Palermo come i BADALMENTI.

Il possesso, poi di un considerevole numero di passaporti e carte d'identità in bianco e falsificate, sta a dimostrare che era pronto a lasciare immediatamente l'Italia con i suoi parenti, anche grazie alla notevole liquidità di cui disponeva.

A conclusione della prima fase investigativa, oltre al CONTORNO Salvatore, venivano tratti in arresto anche i suoceri ed i cognati con lui conviventi, risultati concorrenti nei reati attribuitigli, nonché alcuni pregiudicati romani facenti parte dell'organizzazione capeggiata dal FRATONI e dal CONTORNO.

Veniva invece denunciato a piede libero LOMBARDO Carmela, moglie di Salvatore CONTORNO che si trovava al nono mese di gravidanza; il relativo ordine di cattura, emesso dalla Procura della Repubblica di Roma in uso alla sospensione del provvedimento restrittivo, dovuta alle particolari condizioni fisiche, le veniva notificato in Palermo ove la donna si era nel frattempo recata trovando ospitalità nell'abitazione di CORSINO Salvatore, coniugato con MANDALA' Angela, sorella questa di MANDALA' Maria e quindi zia della LOMBARDO Carmela, nonché cugina in primo grado di Salvatore CONTORNO.

Nel mentre le indagini successive all'arresto di CONTORNO si spostavano su Padova ove questo ultimo ed il FRATONI Duilio (249) avevano stretto legami con pregiudicati locali, in Palermo veniva ucciso il 5 aprile 1982 MANDALA' Franco ed il successivo 17 aprile 1982 il CORSINO Salvatore. […] Gli omicidi di Franco MANDALA' e di Salvtore CORSINO, quest'ultimo cugino acquisito di CONTORNO, perpetrati ambedue dopo l' arresto dello stesso, il quale evidentemente nessuna reazione era in grado di poter mettere in atto, dimostra ancora una volta come la strada pervicacemente seguita dalle organizzazioni criminali vincenti, sia stata quella della ferocia più cieca ed indiscriminata diretta, non soltanto a colpire gli avversari ed i traditori, ma anche a creare il terrore tra i parenti e gli amici dei perseguitati.

Questa costante, evidenziata a proposito degli omicidi dei parenti di CONTORITO Salvatore é stata già rilevata trattando dello sterminio della famiglia dello INZERILLO […] della eliminazione dei componenti del clan BONTATE […] della decapitazione della cosca di Gaetano BADALAMENTI.

Viene infine ribadita dalle occasioni nelle quali, pur di conseguire l'obiettivo dell'uccisione della vittima designata, i killers non si sono fatti scrupoli di eliminare anche gli occasionali accompagnatori, come nel caso in cui, per uccidere INZERILLO Giuseppe figlio di Salvatore e conseguire l'impunità, é stato assassinato anche PECORELLA Stefano che si trovava con il ragazzo, ovvero come nell'occasione dell'omicidio di MANDLA' Gaetano (118) che vide soccombere anche GIANNONE Filippo, casualmente in sua compagnia.

Ritornando alle indagini susseguenti all'arresto, sembra utile riportarne le conclusioni che sebbene non definitive, apportano comunque un contributo di chiarezza e di notevole riscontro alle tesi ed alle conclusioni contenute nel presente. Si accertava infatti che il CONTORNO trasferitosi a Roma con la famiglia della moglie sin dall'estate del millenovecentottantuno, e quindi qualche tempo dopo rispetto al tentativo di uccisione di cui era stato vittima, si era inserito tramite il FRATONI Duilio e tramite alcuni pregiudicati padovani, nel traffico degli stupefacenti trattando indifferentemente hashish, eroina e cocaina.

RAPPORTO DEI 161

Addio a Elisabetta Baldi Caponnetto, la moglie del fondatore del pool antimafia di Palermo. La donna si è spenta all'età di 101 anni a Firenze. Per anni si è impegnata a portare avanti il messaggio del marito Antonio, andando a parlare nelle scuole. Federico Garau il 2 Luglio 2023 su Il Giornale.

Ci ha lasciato nella giornata di oggi, domenica 2 luglio, Elisabetta Baldi Caponnetto, moglie del giudice e fondatore del pool antimafia di Palermo Antonino Caponnetto. La donna si è spenta alla veneranda età di 101 a Firenze, capoluogo della Regione che le ha dato i natali.

Cittadina onoraria di vari Comuni

Nata a Pistoia il 1 maggio 1922, la Baldi Caponnetto è stata la moglie del magistrato Antonio Caponnetto, fondatore e capo del pool antimafia di Palermo. Fu la compagna di un uomo che operò per la legalità, guidando dal 1983 al 1990 il pool istituito da Rocco Chinnici. Caponnetto lavorò con personaggi del calibro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Dopo la morte del marito – il giudice Caponnetto morì a Firenze il 6 dicembre 2002 a seguito di una lunga malattia -, Elisabetta Baldi Caponnetto inaugurò insieme a un gruppo di amici fidati la Fondazione Antonino Caponnetto (giugno 2003). Si tratta di una fondazione che ha sede legale a Firenze e che ha fra i suoi obiettivi la lotta contro le mafie e la criminalità organizzata. Un impegno costante portanto avanti con lo studio e la pubblicazione di documenti relativi alle infiltrazioni della malavita in Italia e oltre i confini nazionali. Insieme a Giuseppe Antoci, Elisabetta Baldi Caponnetto è stata presidente ad honorem della fondazione.

Per anni la donna si è spesa per la causa, partecipando anche ad incontri nelle scuole. Appuntamenti a cui non è mai mancata, almeno fino al 2014. Una vita intensa, quella di Elisabetta Baldi Caponnetto, fatta anche di sacrifici, quelli della donna di un magistrato, che conosce bene tutti i rischi. È stata amata e apprezzata nel Paese, tanto da ricevere la cittadinanza onoraria in vari Comuni italiani, tra cui la stessa Palermo.

Elisabetta Baldi Caponnetto è morta oggi all'età di 101 anni, lasciando tre figli e cinque nipoti.

Il cordoglio

"La Fondazione Caponnetto ricorda la nostra Maestra di vita Nonna Betta Caponnetto. Sarà un esempio per tutti noi", si legge nel messaggio del presidente della fondazione Salvatore Calleri riportato da Agi.

"Una grande perdita. Condividere con Elisabetta Baldi Caponnetto la presidenza onoraria della Fondazione è stato per me un grande onore ma da oggi, ancora di più, una grande responsabilità. Il mio cordoglio e il mio abbraccio alla famiglia. Antoci nel suo incarico di presidente onorario ha affiancato, in questi anni, proprio la moglie del giudice che ne ricopriva il ruolo dalla costituzione della Fondazione stessa", ha dichiarato Giuseppe Antoci, presidente onorario della fondazione. 

Magistratura. "Davigo come Falcone", l'oltraggio del "Fatto" per salvare il pm che ha profanato la sua toga. Felice Manti il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.

Padellaro scivola su un paragone ardito: la storia dei due pm è antitetica

Noli miscere sacra prophanis, non si mescola il sacro col profano. Nel commovente tentativo del Fatto quotidiano di salvare il soldato Piercamillo Davigo dall'onta di una condanna, l'ex direttore Antonio Padellaro l'altro giorno ha infranto l'ennesimo tabù antimafia, paragonando le tristi vicende giudiziarie dell'ex magistrato simbolo di Mani Pulite a quelle di Giovanni Falcone. Una bestemmia anche per i più accaniti fan di Davigo, se si pensa che a Falcone un Csm condizionato dalla sinistra sbarrò prima la strada della Procura di Palermo poi quella Antimafia. Anzi, fu proprio una toga rossa come Alessandro Pizzorusso che sull'Unità giudicò unfit il magistrato morto a Capaci, incapace di guidare una creatura figlia della sua intuizione perché «come principale collaboratore del ministro della Giustizia Claudio Martelli non dà più garanzie di indipendenza».

Tra loro c'è una differenza gigantesca: Falcone è stato vittima dell'odio politico della sinistra, Davigo - che della stessa cultura si è abbeverato in questi anni - si è beccato una condanna per violazione del segreto. Al Csm Falcone non fu votato perché controcorrente, Davigo non potè correre perché pensionato. Una bella differenza. E il fatto che oggi a Palazzo de' Marescialli in quota Pd ci sia il delfino di Pizzorusso - al secolo Roberto Romboli, sulla cui eleggibilità si è discusso non poco - ne è la più straziante conferma.

L'idea che Davigo fosse un magistrato scomodo è un cliché sbagliato. Nessuno ne ha ostacolato i disegni, nessuno ha tentato di minare il suo percorso, la sua carriera è rimasta immacolata fino al pasticciaccio Eni-Amara-Storari. Le sue affermazioni («Non esistono innocenti, ma colpevoli che l'hanno fatta franca», «i politici non hanno smesso di rubare ma hanno smesso di vergognarsi», «Non vanno aspettate le sentenze») sono antitetiche ai dogmi di Falcone, che ha sempre criticato il khomeinismo, l'anticamera del sospetto come religione giudiziaria, il teorizzare matrici politiche e disegni scomodi come alibi per dimostrare l'infondatezza delle proprie tesi. Falcone non avrebbe mai ricevuto brevi manu dossier su altri colleghi come fece Davigo, mascariando il povero Sebastiano Ardita con cui fino a qualche mese prima aveva diviso il pane.

Quando Sergio Mattarella dice «la toga non è un abito di scena, va indossata per manifestare appieno la garanzia di imparzialità» parlava alla stampa perché Davigo e i pm protagonisti più sui giornali che in tribunale intendessero. Pensare a un Davigo bersagliato da vivo in un talk show, come avvenne per Falcone, è puro esercizio di fantasia, vista la pletora di cortigiani che ancora oggi ne magnifica le gesta nonostante tutto. «Le toghe celebrano i caduti ma non sempre fanno autocritica», disse Davigo. Ma Falcone non avrebbe mai inscenato una «obiezione di coscienza» a favore di telecamere come fece il pool di fronte a una legge del Parlamento nel 1994, lamentando per contro «un'aggressione mediatica senza precedenti», come se sfidare il potere legislativo fosse una forma di «resistenza».

L'azzardo su Davigo, salvato sacrificando l'icona Falcone, è segno dei tempi. D'altronde, i guai del Pd calabrese a braccetto coi boss (Nicola Gratteri dixit) interessano poco i giornalisti ciclostile delle Procure, accucciati e scodinzolanti di fronte alle carte che svolazzano dalle Procure, sia che riguardino fantomatiche trattative, sia foto fantasma che ritrarrebbero Silvio Berlusconi con i fratelli Graviano, giallo su cui è stato interrogato l'altro giorno a Firenze l'editore del Corriere Urbano Cairo. Inseguire i fantasmi evocati dal sedicente pentito Salvatore Baiardo anziché cercare la verità dentro la magistratura è il peggior segnale da dare alla mafia, a un pugno di giorni dall'anniversario della morte di Paolo Borsellino in via D'Amelio, il cui destino grida vendetta. Segno che la vera Antimafia è morta in quella torrida estate del 1992.

Dagospia il 29 giugno 2023. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, come tu avevi già notato la presidente Meloni ha recuperato Luciano Violante a Palazzo Chigi con un incarico gratuito come presidente del comitato per gli anniversari nazionali, la valorizzazione dei luoghi della memoria e gli eventi sportivi di interesse nazionale ed internazionali. 

Una scelta giusta per il galateo istituzionale quella di nominare un rappresentante della opposizione(!?!) ma una scelta che mi ha lasciato sbigottito. Non solo perché in parlamento c’è un altro ex presidente della Camera membro della opposizione ma per la storia di Violante. 

Io non ho alcuna antipatia o risentimento verso Violante (grazie a Dio non conosco quel sentimento come sa di Pietro) ma ragiono sempre di politica. Violante è quello che nel 1989 portò il vecchio PCI a votare contro il decreto Andreotti-Vassalli che raddoppiava la custodia cautelare per gli imputati di mafia, sostenendo l’uscita dei boss mafiosi arrestati da Falcone e Borsellino (bisognerebbe leggere gli stampati parlamentari dell’epoca).

Ma Violante è lo stesso che fece una guerra a Falcone facendo votare il PCI contro la istituzione della direzione nazionale antimafia e poi, con la sinistra giudiziaria, impedì che a guidarla fosse proprio Falcone. E tanto per completare fece votare il PCI contro la estensione del 41 bis (il carcere duro), nato per i brigatisti, agli imputati di mafia. 

Per brevità mi fermo qui (se questo atteggiamento l’avesse avuto la DC sarebbe stato definito il partito della mafia). Mi chiamo Paolo e apprezzo la strada di Damasco ma il pentimento, quello vero, presuppone una confessione che non ho mai letto. Ed allora resto basito e mi domando il perché di quella banale ma simbolica nomina. 

Quali saranno i luoghi della memoria e gli eventi da valorizzare? La procura di Milano, gli arresti, i suicidi o forse la destrutturazione del sistema politico italiano con i guasti dell’ultimo trentennio? E se fosse proprio quest’ultimo avvenimento a spingere la presidente del consiglio a questa simbolica nomina perché la destra di oggi deve essere grata a Luciano Violante, uomo di grande intelligenza?  Come si sa, però, l’intelligenza può essere un’aggravante perché anche il male si può fare bene.

Paolo Cirino Pomicino

Dagospia l'11 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo:

Da diversi mesi il linguaggio e le opinioni di Luciano Violante sono musica per le orecchie delle persone per bene e rispettose della costituzione. Un linguaggio che fa a pugni con il Violante di 30 anni fa quando era presidente dell’antimafia. Ma ogni tanto dalla musicalità del linguaggio odierno scappa il “mostro” antico. 

Nell’intervista al Corriere della sera di ieri alla domanda che cosa volesse dire “andare alla radice” dello scontro tra politica e magistratura visto il suo passato politico il Violante di oggi risponde “ieri la politica aveva delegato alla magistratura la lotta alla mafia e alla corruzione e quindi la magistratura compartecipava alla sovranità parlamentare”. 

Oggi è di moda dire che qualcuno non conosce la vergogna e Violante è un campione su questo terreno. Tutti devono ricordare che Violante porto il suo PCI a votare contro il decreto Andreotti-Vassalli che raddoppiava i termini della custodia cautelare per evitare che uscissero dal carcere i boss mafiosi intrappolati da Falcone e Borsellino.

Bisognerebbe rileggere gli stampati parlamentari per leggere che Violante diceva che i mafiosi si potevano controllare anche fuori dal carcere! Violante portò il PCI a votare contro la istituzione della direzione nazionale antimafia voluta da Falcone contro il quale lo stesso Violante fece una lotta durissima e senza esclusione di colpi per evitare che fosse proprio Falcone a guidarla. Oggi lo elogia senza neanche abbassare lo sguardo!! 

Ci fermiamo qui nei ricordi (potremmo riempire pagine intere) perché quelli citati già spiegano da soli la falsa musicalità di ciò che oggi Violante dice senza fare ammenda del disastro politico che determinò insieme ad Occhetto scegliendo l’opzione giudiziaria per giungere al governo del paese come ci avvertì  per tempo Gerardo Chiaromonte, un comunista napoletano cresciuto all’ombra di Benedetto Croce.

Dovremmo prima o poi dire anche i nomi dei democristiani che lo seguirono per non avere neanche un avviso di garanzia. Se il ricordo non ci tradisce Dante mise i falsari nell’ottavo cerchio dell’inferno mentre noi speriamo sempre che Violante è i DC che lo seguirono trovino il coraggio di pentirsi per davvero perché questa Repubblica ha davvero bisogno di tutti.

 Paolo Cirino Pomicino

Aberrazione penale. Il coraggioso Falcone, il maxi processo e il concetto missionario della giustizia. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 24 Maggio 2023

Il leggendario magistrato si è dedicato al costo della vita a smantellare la mafia, ma in buona fede ha partecipato a una cultura e a una pratica della giurisdizione dannosa per i decenni successivi

La morte terribile di Giovanni Falcone e l’altezza leggendaria della vicenda di quel magistrato impediscono ancora dopo trent’anni di discutere serenamente della sua partecipazione a una cultura e pratica della giurisdizione che ha arrecato grave danno a questo Paese.

Un processo con settecento indagati, il “maxiprocesso” giustamente associato all’opera del magistrato ucciso, sospinto da ottomila pagine di istanze dell’accusa pubblica, celebrato in un bunker, descriveva autonomamente, e cioè anche a prescindere dalla fondatezza delle imputazioni, la perversione di un sistema giurisdizionale trasfigurato in missione sociale, l’aberrazione dell’azione penale che esporta l’ordine costituzionale e la legalità andando a strascico nel territorio-canaglia.

Il vizio stava già lì, tutto intero e pronto per contaminare non solo la giurisdizione ma anche la normativa dei decenni successivi: con la mafia fatta entrare nelle leggi e nei processi, e cioè fatta esistere, nel convincimento forsennato di combattere il negazionismo che voleva inesistente la mafia nella storia e nella società. Una parte rilevantissima dell’ingiustizia italiana si è prodotta esattamente in forza della caratura antimafia delle nostre leggi e dei poteri affidati a chi doveva applicarla; e i processi-bufala come quello sulla trattativa Stato-Mafia o come quello su Mafia-Capitale non erano gli incidenti di erroneità in un sistema altrimenti impeccabile, ma i frutti naturali di quell’innesto perverso, lo stesso che obbliga la giustizia a scrutinare la coloritura mafiosa di una testata data a un giornalista e a investigare secondo protocollo esorcistico i sentimenti della figlia verso il padre mafioso.

Rende anche più difficile continuare questo discorso il fatto che quella eminente vittima dell’atrocità mafiosa sia retoricamente celebrata da ampie fasce del potere politico e giudiziario che dimostrarono inimicizia al famoso magistrato: ed è vergognoso che, tra i più fieri officianti del ricordo, tanti siano quelli che mafiosamente lavoravano per screditare il lavoro e l’immagine di Giovanni Falcone. Ma resta che pur in perfetta buona fede, e pur dedicandovisi al costo della vita, quel coraggioso funzionario, come molti altri, ebbe del proprio ruolo un’idea molto discutibile: e della giustizia in generale un concetto missionario in nome del quale magari si è fatto male alla mafia, ma sicuramente non si è fatto bene a quel che si dice lo Stato di diritto.

Il maxi processo, il capolavoro di ingegneria giudiziaria di Falcone. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 19 maggio 2023

È il febbraio del 1986. Dopo 349 udienze, 1314 interrogatori, 635 arringhe difensive e 35 giorni di camera di consiglio, nel dicembre del 1987 per la prima volta la mafia siciliana è condannata

In Italia, è la svolta storica nella lotta contro le mafie. Il maxi processo, un capolavoro di ingegneria giudiziaria firmato da Giovanni Falcone. L'indagine comincia con il rapporto "Greco Michele +160”, uno spaccato sulla guerra fra le famiglie siciliane e le due anime di Cosa nostra, i palermitani e i corleonesi. Poi si aprono i cancelli dell'aula bunker costruita a tempo di record accanto all'Ucciardone. È il febbraio del 1986.

Dopo 349 udienze, 1314 interrogatori, 635 arringhe difensive e 35 giorni di camera di consiglio, nel dicembre del 1987 per la prima volta la mafia siciliana è condannata. Gli anni di carcere sono 2665, gli ergastoli 19. Tutto il gotha dell'organizzazione criminale più potente del mondo - da Totò Riina a Gaetano Badalamenti, da Giovanni Bontate a Leoluca Bagarella, da Michele Greco a Mariano Agate - è marchiato per sempre.

Dopo le stagioni dei dibattimenti che si concludevano implacabilmente con assoluzioni «per insufficienza di prove», il pool antimafia dell'ufficio istruzione di Palermo (oltre a Falcone, il consigliere Antonino Caponnetto, i giudici Paolo Borsellino e Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello) è arrivato un processo che certifica che la mafia esiste.

Tanta euforia, anche troppa. «La mafia è stata sconfitta», dichiarano i ministri di Roma. «Lo stato ha vinto», dicono tutti i commentatori più filogovernativi. Proprio come fanno oggi, trentasei anni dopo. È soltanto Giovanni Falcone a spegnere gli entusiasmi, ad avvertire che è solo l'inizio «perché la strada è ancora molto lunga». Ma, come sempre, la retorica e la propaganda, prendono il sopravvento. Cinque anni dopo la sentenza nell'aula bunker, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengono assassinati

Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci. È una celebrazione molto particolare. Giovanni Falcone è diventato un santino, fondazioni e associazioni antimafia sono più attente a spremere finanziamenti per mantenere in vita se stesse che a “leggere” e capire le trasformazioni delle organizzazioni criminali, il clima generale che si respira in Italia è di restaurazione totale. Una docente di Giurisprudenza dell’università di Palermo, qualche mese fa, in un pubblico dibattito ha definito il maxi processo di Falcone “un obbrobrio”. È l'aria che tira in questi mesi.

ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA

Attilio Bolzoni è un giornalista che, da quarant'anni, racconta storie in fondo all'Italia. Francesco Trotta è un blogger e direttore dell'associazione Cosa Vostra.

Il rapporto “Greco Michele più 160”, l’indagine all’inizio di tutto. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 19 maggio 2023

Con rapporto congiunto del 13 luglio 1982 la Squadra Mobile di Palermo ed il Nucleo Operativo Carabinieri di Palermo denunciavano al Procuratore della Repubblica di Palermo Greco Michele ed altre 160 persone, quali responsabili di vari reati di associazione per delinquere, di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, nonche' di numerosi omicidi...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Con rapporto congiunto del 13 luglio 1982 la squadra mobile di Palermo ed il Nucleo operativo carabinieri di Palermo denunciavano al procuratore della Repubblica di Palermo Greco Michele ed altre 160 persone, quali responsabili di vari reati di associazione per delinquere, di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, nonché di numerosi omicidi cronologicamente compresi tra l'omicidio di Bontate Stefano, avvenuto il 23 aprile 1981, e l'omicidio di Corsino Salvatore, avvenuto il 17 aprile 1982.

In tale rapporto la mafia veniva descritta come un'organizzazione criminale costituita da un coacervo di aggregati o gruppi criminali, di cui si tenta di delineare la precisa struttura, la consistenza numerica, la circostanziata influenza territoriale ed economica a seguito delle lotte intestine che ne hanno sconvolto i vecchi equilibri.

Il rapporto delineava, attraverso la disamina accurata e particolareggiata dei numerosi fatti di sangue verificatisi dall'inizio del 1981 alla primavera del 1982, un'attendibile ricostruzione della cruenta guerra insorta tra le cosche mafiose, muovendo dalla constatazione che dal 30 maggio 1978, data dell'omicidio di Di Cristina Giuseppe, al 24 aprile 1981, data dell'omicidio di Bontate Stefano, non essendosi registrato alcun omicidio in pregiudizio di esponenti mafiosi di primo piano, era evidentemente intervenuto un patto di non belligeranza tra le cosche mafiose, fondato sulla suddivisione di sfere di influenza territoriale, di campi di intervento con inserimento di adepti nelle attività commerciali ed imprenditoriali ricadenti nel rispettivo territorio, pur con la possibilità di società di affari tra appartenenti a distinte famiglie di mafia.

Tale tacito patto di alleanza era motivato dalla riconosciuta necessità di coesistenza pacifica, diretta a realizzare con larghi margini di sicurezza il maggior lucro possibile, derivante dall'illecito traffico di stupefacenti, da reinvestire, poi, in attività apparentemente lecite.

Di contro, a dimostrazione di una comune strategia di intervento, venivano commessi gli omicidi Giuliano, Terranova, Mattarella, Basile, Costa, cioè gli omicidi di persone investite di cariche e funzioni pubbliche, che in vario modo, a diverso livello ed in varie fasi, avevano tentato di ostacolare l'attività mafiosa.

Secondo gli autori del citato rapporto, l'uccisione di due capi della levatura di Bontate Stefano e di Inzerillo Salvatore, avvenuta rispettivamente il 23 aprile 1981 e l'Il maggio dello stesso anno, preceduta dalla scomparsa in data Il marzo 1981 di Panno Giuseppe da Casteldaccia, costituivano segni evidenti di una frattura grave ed ormai insanabile tra i gruppi mafiosi.

I successivi eventi delittuosi, costituiti dalla contemporanea scomparsa di Teresi Girolamo, cugino dei fratelli Bontate, di Di Franco Giuseppe, autista di Stefano Bontate, di Federico Salvatore e Federico Angelo, subappaltatori delle imprese Bontate-Teresi; dalla scomparsa di tutti i parenti Inzerillo Salvatore ed in particolare dello zio Maggio Calogero, dei fratelli Santo, Francesco, Rosario e Pietro, del padre Inzerillo Giuseppe, dei due cugini omonimi Inzerillo Salvatore di Pietro e di Francesco, ed infine del figlio diciassettenne Inzerillo Giuseppe e del futuro cognato Pecorella Stefano; nonché dal tentato omicidio nei confronti di Contorno Salvatore e dal successivo allontanamento da Palermo dei fratelli Grado, cugini del predetto Contorno, e di D'agostino Rosario; dalla scomparsa di D'agostino Emanuele; dalla spietata caccia a parenti ed amici di Contorno Salvatore; dalla scomparsa di Mafara Francesco e Grado Antonino e dall'uccisione di Mafara Giovanni, confermavano in maniera evidente che si era operata la sistematica decimazione di tutti i componenti delle famiglie mafiose facenti capo a Bontate ed Inzerillo.

Il rapporto giudiziario poneva, altresì, in risalto che un nuovo fronte della "guerra di mafia" si  era aperto con l'omicidio di Badalamenti Antonino, cugino di Badalamenti Gaetano, avvenuto in Cinisi il 19 agosto 1981, cui seguivano numerosi altri omicidi di componenti del clan Badalamenti.

A completamento del quadro degli omicidi connessi con la "guerra di mafia", gli inquirenti ponevano l'uccisione all'interno dell'Ucciardone, in data 25 febbraio 1982, di Marchese Pietro, cognato di Marchese Filippo, e l'omicidio di Spica Antonino, avvenuto in Milano il 15 aprile 1982.

I due erano precipitosamente fuggiti, unitamente a Greco Giovanni ed alle loro donne, immediatamente dopo la scomparsa del loro amico e complice in imprese delittuose, Chiazzese Filippo, avvenuta 1'8 giugno 1981.

Dall'esame approfondito, sia sotto il profilo cronologico che logico, di tali fatti delittuosi ed a seguito delle indagini conseguenti a brillanti operazioni di polizia, quali:

- il cosiddetto "Blitz di Villagrazia", nel corso del quale in data 19 ottobre 1981, venivano arrestati gli esponenti di diverse famiglie mafiose;

- la scoperta del laboratorio per la raffinazione di eroina sito in Via Messina Marine;

- l'arresto di Fici Giovanni in data 6 gennaio 1982, di Spadaro Francesco, Marchese Giuseppe ed Inchiappa Giovan Battista il 15 gennaio 1982;

- l'accertata frequenza di rapporti tra varie società di capitali e l'intreccio di affari tra persone aventi un'estrazione territoriale diversa;

- le dichiarazioni rese alla squadra Mobile il 12 agosto 1981 da Di Gregorio Salvatore, successivamente scomparso;

- le intercettazioni telefoniche sull'utenza intestata ad Anselmo Salvatore;

- le dichiarazioni fornite da Zerbetto Alessandro, da Totta Gennaro e da numerose altre persone che, per paura e per sfiducia nella giustizia, preferivano rimanere anonime;

gli investigatori riuscivano a tracciare con una certa chiarezza la nuova mappa delle famiglie mafiose, individuate nei Greco e Prestifilippo per la zona di Ciaculli e Croce Verde Giardini, nei Marchese e Tinnirello per la zona di Corso dei Mille, negli Spadaro e Savoca per la zona della Kalsa, nei Riccobono per la zona di Partanna-Mondello, negli Spina ed Anselmo per la zona della Noce, nei Greco nella zona di Bagheria, nei Pipitone per la zona di Villagrazia di Carini, e nel gruppo dei "Corleonesi", da lungo tempo operante in Palermo, tramite le "famiglie" di Resuttana e San Lorenzo, a loro volta intimamente collegate con le "famiglie" di Ciaculli e Corso dei Mille.

Nel menzionato rapporto le cause della guerra di mafia venivano indicate nelle accuse rivolte a Bontate e ad Inzerillo di essersi appropriati di danaro appartenente all'intero sodalizio criminoso.

Di contro, i suddetti Bontate ed Inzerillo, con l'avallo di Badalamenti Gaetano e con l'appoggio di Marchese Pietro e Greco Giovanni, facenti parte rispettivamente delle "famiglie" di Corso dei Mille e di Ciaculli, avrebbero predisposto un piano per l'eliminazione dei capi delle altre famiglie avverse, i quali, scoperto il complotto, davano luogo a quella lunga catena di omicidi contro gli esponenti delle famiglie Bontate, Inzerillo, Badalamenti, nonché nei confronti di Marchese Pietro, del figlioccio Spica Antonino e degli amici e parenti di Greco Giovanni, tutti rei di avere tradito le loro "famiglie" di origine.

Con l'ausilio anche degli elementi emersi dai numerosi anonimi pervenuti a Polizia e Carabinieri e dalle propalazioni di numerose fonti confidenziali, indicate con gli pseudonimi di "Bianco Fiore", "Prima Luce" , "Ambrosiano", "Auro" e "Finale", nonché dalle indagini su rapporti di parentele, affinita' ed affari tra gli associati, gli inquirenti ritenevano sussistenti degli indizi - suscettibili di ulteriori verifiche e riscontri nel prosieguo delle indagini istruttorie - nei confronti degli appartenenti alla pericolosa associazione criminale, che denunciavano come raggruppati in singole cosche mafiose, mentre ai rispettivi capi ed a coloro che avevano funzioni direttive, unitamente agli esecutori materiali, venivano attribuiti i fatti di sangue, connessi alla "guerra di mafia", avvenuti nel palermitano fino al 17 aprile 1982, data dell'omicidio di Corsino Salvatore.

Veniva, altresì, identificata una seconda associazione per delinquere, anch'essa finalizzata anche al traffico di stupefacenti, costituita da Buscetta Tommaso, Contorno Salvatore, Greco Giovanni, Totta Gennaro, Zerbetto Alessandro e dai componenti superstiti delle famiglie facenti capo a Badalamenti Gaetano ed ai fratelli Grado.

Valutata positivamente la sussistenza di indizi soltanto a carico di taluni dei denunciati, la Procura della Repubblica di Palermo, seguendo la prospettata tesi accusatoria della suddivisione in distinte organizzazioni criminali alleate tra di loro e contrapposte ad altra associazione formata dai superstiti delle famiglie Bontate, Inzerillo e Badalamenti, emetteva in data 26 luglio 1982 l'ordine di cattura n.169-82 nei confronti di Badalamenti Gaetano + 14, tra i quali Contorno Salvatore, Buscetta Tommaso ed i fratelli Grado, e l'ordine di cattura n.170/82 nei confronti di Greco Michele + 67 cui si aggiungeva in data 28 luglio 1982 altro ordine di cattura n.172-82 nei confronti di Vernengo Ruggero, Aglieri Giorgio, Di Miceli Giuseppe e Vernengo Cosimo, con i quali si contestavano a tutti gli imputati i reati di associazione per delinquere aggravata (art.416, comma C.P.) e di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (Art.75, 2°, 4°, 5°, comma L.n.685 del 1975).

Dopo gli interrogatori di rito degli arrestati, gli atti venivano trasmessi, con richiesta di procedere a formale istruzione, al Giudice Istruttore di Palermo che emetteva nei confronti dei medesimi imputati il mandato di cattura n.343-82 del 17 agosto 1982 e considerava come indiziati tutti gli altri denunciati nel rapporto del 13 luglio 1982. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Il traffico di stupefacenti e il primo “pentito” che poi non parla più. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 20 maggio 2023

Si verificava un fatto nuovo che imprimeva alle indagini una svolta decisiva e del tutto inaspettata dato che fino a poco tempo prima non si pensava possibile che qualcuno potesse rompere la barriera dell'omerta'. [...] Infatti, 1'11 marzo 1983 Calzetta Stefano, presentatosi al posto di Pronto Soccorso di Via Roma, faceva presente all'agente di servizio di avere importanti rivelazioni da fare

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Il giudice istruttore disponeva, quindi, indagini bancarie e patrimoniali sul conto dei predetti imputati ed indiziati ed ordinava la riunione dei procedimenti già instaurati contro gli ignoti, imputati dei fatti delittuosi citati nel menzionato rapporto, nonché l'acquisizione dei rapporti giudiziari concernenti tutte quelle indagini, anche di pertinenza di altri giudici, che in vario modo potessero fornire elementi circa collegamenti, rapporti o interconnessioni di interessi e di affari tra gli associati, come, ad esempio, gli atti di polizia giudiziaria concernenti la scoperta di un laboratorio per la produzione di stupefacenti in Via Messine Marine e gli atti del procedimento contro Profeta Salvatore + 13, relativi alla riunione di presunti mafiosi in una villa di Via Valenza (cosiddetto "Blitz di Villagrazia").

Con successivi rapporti del 14 settembre, dell'11 e 23 ottobre 1982 e del 24 marzo 1983, la squadra mobile di Palermo, a seguito di una intensificata azione di controllo sul territorio, che portava tra l'altro all'arresto anche di taluni latitanti, riferiva ulteriormente sugli accertati rapporti tra i componenti delle organizzazioni criminali operanti nelle borgate di Ciaculli, di Corso dei Mille e della Kalsa.

Il giudice Istruttore acquisiva, quindi, rispettivamente in date 7 e 22 marzo, gli atti relativi alla relazione di servizio del Commissario Capo di P.S. dotto La Corte, del Servizio Centrale Antidroga, concernente le dichiarazioni rilasciate da Hamis Ahmed circa l'esistenza a Palermo di un laboratorio clandestino per la trasformazione della morfina base in eroina, e gli atti relativi al procedimento contro i fratelli Grado, i fratelli Fidanzati e Totta Gennaro, imputati di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e di fatti concreti di traffico di stupefacenti, trasmessi dal giudice Istruttore presso il Tribunale di Trento per competenza a seguito di sentenza del 20 gennaio 1983.

Di notevole rilevanza probatoria tra gli atti di tale procedimento apparivano le dichiarazioni rese da Totta Gennaro in data 16 settembre 1982 e dai trafficanti turchi Sami Saleh e Wakkas Salah Al Din, quali riferivano circa i traffici di stupefacenti operati nella piazza di Milano negli anni '79 e '80 dai componenti delle famiglie Fidanzati e Grado, questi ultimi acquirenti presso i fornitori turchi i della famiglia Cil di morfina base, che poi provvedevano a trasportare in Sicilia per la trasformazione in eroina.

Venivano, altresì, acquisiti al presente procedimento gli atti relativi ad un rapporto del Centro Interprovinciale Criminalpol del Nucleo regionale di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Trieste in data 19 giugno 1981, concernenti la denuncia a carico di Abdel Fatah Yaber Souleiman ed altre persone e contenenti, fra l'altro, le dichiarazioni di Bach Mamhoud, il quale ammetteva che insieme al cognato Hacmed Awad Aziz aveva consegnato a Palermo, accompagnato da un gruppo di quattro o cinque persone di Catania, una partita di morfina base ritirata da due uomini nell'autorimessa di una villa vicina al mare a 10-15 minuti dall'uscita dell'autostrada di Villabate.

Il giudice Istruttore acquisiva, altresì, copia degli atti concernenti il procedimento penale contro Mura Antonino + 16, contenenti tra l'altro indagini bancarie, risultanze di intercettazioni telefoniche, nonché il rapporto giudiziario del Nucleo operativo carabinieri di Palermo del 25 agosto 1978 di denuncia nei confronti di Riina Salvatore + 25 per i reati di associazione per delinquere, omicidio e altro, redatto principalmente sulla scorta delle confidenze fatte da Di Cristina Giuseppe, prima della sua uccisione, al Capitano Pettinato Alfio, comandante della Compagnia Carabinieri di Gela.

Del pari, venivano acquisiti gli esiti degli accertamenti fiscali e patrimoniali disposti nei confronti di imprese facenti capo al gruppo dei Greco, di Aiello Michelangelo e al gruppo di Bonura, Buscemi, Piazza, di cui ai rapporti della Guardia di Finanza del 23 ottobre 1982, del 10 e del 22 marzo 1983.

Frattanto, si verificava un fatto nuovo che imprimeva alle indagini una svolta decisiva e del tutto inaspettata dato che fino a poco tempo prima non si pensava possibile che qualcuno potesse rompere la barriera dell'omertà, che costituiva un limite, sino ad allora ritenuto insormontabile, alla conoscenza della struttura, delle dinamiche interne e delle regole dell'associazione.

Infatti, 1'11 marzo 1983 Calzetta Stefano, presentatosi al posto di Pronto Soccorso di Via Roma, faceva presente all'agente di servizio di avere importanti rivelazioni da fare.

Condotto in Questura e sommariamente sentito, si otteneva un primo immediato riscontro della sua attendibilità, dato che lo stesso forniva agli organi di Polizia una serie di indicazioni, che consentivano, la stessa sera dell'Il marzo, l'arresto di Alfano Paolo, latitante fin dal febbraio 1982, allorché era stato sorpreso nella raffineria di droga di Via Messina Marine, riuscendo in tale circostanza a sottrarsi alla cattura.

Nelle successive dichiarazioni, rese dapprima alla stessa squadra mobile di Palermo e successivamente a magistrati della procura della Repubblica di Palermo, dimostrando una perfetta conoscenza anche delle abitudini di vita delle persone accusate, il Calzetta, in data 5 aprile 1983, propiziava, altresì, l'arresto del latitante Rotolo Salvatore, la cui presenza indicava agli inquirenti in Piazza Sant'Erasmo, mentre egli trovavasi occultato dentro un furgone della polizia.

Nei suoi lunghi interrogatori il Calzetta riferiva fatti riguardanti prevalentemente il gruppo mafioso degli Zanca, cui egli era particolarmente vicino, nonché le attività illecite delle famiglie Vernengo, Tinnirello, Marchese e di numerosi altri esponenti di altre cosche collegate.

Egli narrava fatti da lui direttamente vissuti o caduti sotto la sua percezione o appresi dagli stessi Zanca, ai quali era solito accompagnarsi e per conto dei quali eseguiva spesso incarichi di poco conto.

Le indagini conseguenti alle dichiarazioni del Calzetta, espletate dal Nucleo Operativo dei Carabinieri e dalla squadra mobile di Palermo, che riferivano con rapporti del 2, del 3, e del 4 maggio 1983, portavano al rinvenimento di armi e munizioni celate in apposito nascondiglio presso lo stabilimento dei bagni Virzì, indicato come centro di spaccio di droga ed occultamento di armi, nonché al ritrovamento nel giardino del Calzetta di un sacchetto contenente circa 55 gr. di polvere bianca.

Mentre il giudice istruttore, cui erano stati rimessi gli atti dalla procura per la formale istruzione, stava compiendo l'interrogatorio di Calzetta Stefano presso la Casa Circondariale di Termini Imerese, nel pomeriggio del 6 maggio '83, la fabbrica di blocchetti di pomi-cemento gestita dai fratelli di Calzetta Stefano veniva fatta oggetto di un grave attentato dinamitardo, che causava un danno di circa 200 milioni di lire, cancellando l'esistenza dell'impresa e, dopo poco tempo, anche la voglia di Calzetta Stefano di continuare a collaborare lucidamente, cosi' come fino allora aveva fatto, con la Giustizia.

Il “triangolo d’oro” e le banche dei soldi sporchi di Cosa nostra. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 21 maggio 2023

Le indagini svolte in Spagna consentivano di accertare che erano stati effettuati numerosi versamenti dell'ordine di diverse centinaia di milioni di pesetas su ordine di varie banche svizzere di Lugano, Berna e Zurigo, ed, inoltre, che era stato effettuato l'acquisto di vari immobili...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

A conclusione delle dichiarazioni del Calzetta Stefano, che spiegava l'attentato in termini di vendetta da parte dei fratelli Zanca per le accuse fatte contro di loro, il Giudice Istruttore emetteva il mandato di cattura n. 237/83 del 31 maggio 1983 contro Greco Michele + 124, dando loro carico dei reati di associazione per delinquere aggravata e del reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, commessi in Palermo ed in varie località del territorio nazionale in epoca anteriore e fino al 5 maggio 1983.

Dopo ulteriori accertamenti istruttori, venivano emessi in data 8 agosto 1983 i mandati di cattura nn. 372/83 e 373/83, con i quali si dava carico a tutti i soggetti indicati da Calzetta Stefano degli omicidi e dei fatti delittuosi oggetto delle sue dichiarazioni.

Le indagini, intanto, proseguivano anche su altri fronti.

Veniva, infatti, acquisito il rapporto della Squadra Mobile di Palermo del 4 luglio 1983, relativo all'arresto di Testa Giuseppe, trovato in possesso a Bangkok di una valigia contenente Kg. 1,700 di eroina.

Successivi accertamenti inquadravano tale episodio in un più vasto traffico di stupefacenti, da parte della famiglia mafiosa dei Marchese e dei fratelli Lupo Benedetto e Luigi, scomparsi il 7 gennaio 1982 e sostituiti dal cognato Malfattore Nicolò, che era anche cugino di Marchese Pietro.

Di estremo interesse si rivelavano, inoltre, le indagini conseguenti all'arresto di Fici Giovanni, avvenuto in Villabate l'11 novembre 1983.

In un appunto manoscritto, trovato nel suo borsello, erano infatti annotati taluni numeri telefonici con cifre invertite, all'evidente scopo di impedire che si risalisse con facilita' ai loro intestatari.

Tra essi, numerosi residenti nella zona di Ciaculli e Gibilrossa, come Galati Benedetto, La Rosa Giovanni, poi identificato come favoreggiatore del Fici, e Buonaccorso Domenico, una delle persone destinatarie delle minacce e dei danneggiamenti, destinati a fare allontanare dalla zona talune famiglie non gradite.

Nel medesimo borsello veniva rinvenuto un mazzo di chiavi con varie etichette, che risultavano aprire vari cancelli d'ingresso in proprieta' della zona di Ciaculli tra loro collegate con stradelle interpoderali.

Nel corso dei sopralluoghi si accertava che tutta la zona di Ciaculli era percorsa da una fitta rete di vie interne e che nei punti di congiunzione delle varie strade interpoderali si trovavano installati cancelli per consentire l'accesso soltanto ai possessori delle chiavi delle relative serrature.

Tale sistema era stato creato allo scopo di rendere sicuri gli spostamenti ai latitanti e difficili le ricerche da parte della Polizia.

Al medesimo scopo apparivano finalizzati sistematici danneggiamenti verificatisi nella zona di Ciaculli ai danni delle proprietà di quelle famiglie considerate non fidate dalle cosche dominanti, come quelle facenti capo a Marchese Pietro, a Greco Salvatore, padre di Greco Giovanni, a Greco Salvatore, inteso "Cicchiteddu", e a Greco Giuseppe detto "Pine'", nonché gli altri episodi di violenza e di minaccia posti in essere nei confronti di talune famiglie costrette ad allontanarsi fisicamente dalla zona di Ciaculli, come risulta dai rapporti della Squadra Mobile di Palermo del 3 novembre e del 10 dicembre 1983.

Frattanto, in Spagna veniva arrestato Azzoli Rodolfo, il quale, interrogato in sede di commissione rogatoria internazionale a Madrid, in data 17 novembre 1983, forniva precisi riscontri a quanto già dichiarato da Totta Gennaro, circa i traffici di rilevante quantità di sostanze stupefacenti, posti in essere dai componenti della famiglia Grado, i quali, oltre a smerciare nella zona di Milano tali sostanze, si rifornivano di morfina base, di origine turca, destinata alla trasformazione in eroina presso laboratori esistenti in Palermo, dove veniva fatta pervenire, occultandola nelle ruote di scorta di autovetture.

Le successive indagini svolte in Spagna, consistenti principalmente in accertamenti bancari, compiuti presso l'agenzia del Banco di Bilbao di Benidorm, e nell'audizione di numerosi testi spagnoli, consentivano di accertare che a partire dal mese di ottobre 1980 sul conto corrente intrattenuto presso la citata agenzia, erano stati effettuati numerosi versamenti dell'ordine di diverse centinaia di milioni di pesetas su ordine di varie banche svizzere di Lugano, Berna e Zurigo, ed, inoltre, che era stato effettuato l'acquisto di vari immobili, da parte dello Azzoli, a partire dal novembre 1981.

Veniva, altresì, riscontrata la presenza a Benidorm, insieme ai fratelli Grado, di Zarcone Giovanni, di Vitale Gregorio e di Matranga Gioacchino. L'Azzoli Rodolfo confermava, altresi', che fratelli Grado si erano allontanati assieme ai loro familiari dall'Italia e si erano rifugiàti in Spagna, perche' avevano saputo dai fratelli Fidanzati che le altre famiglie legate al traffico della droga volevano sterminarli.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Sulle tracce del misterioso “Roberto”, al secolo Tommaso Buscetta. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 22 maggio 2023

Dal foglio di un taccuino, sequestrato a Colizzì Anna, ove risultava annotato il nome del Buscetta, il soprannome Roberto, sotto il quale costui si celava, ed il nome del dì lui suocero Guìmares...

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Venìvano, altresì, acquisiti gli atti del procedimento contro Santagatì Filippo ed altri, istruito dal G.I. di Torino, dai quali si evidenziavano gli intercorsi rapporti tra Buscetta Tommaso, allora in stato di semi-liberta' a Torino, e Faraone Nicola, documentati dal foglio di un taccuino, sequestrato alla convivente di quest'ultimo, Colizzì Anna, ove risultava annotato il nome del Buscetta, il soprannome Roberto, sotto il quale costui si celava, ed il nome del dì lui suocero Guìmares.

Quest'ultimo elemento si rilevava senz'altro una traccia molto interessante e decisiva per lo sviluppo delle indagini del presente procedimento, tant’è che a seguito di una serie di accertamenti esperiti in Brasile, come riferito con rapporto della Criminalpol del 15 dicembre 1983, veniva tratto in arresto Buscetta Tommaso e con lui Badalamenti Leonardo, Sansone Fabrizio Noberto ed altri.

Ulteriori elementi sulla presenza di Buscetta a Torino nel 1980 erano forniti da Fragomeni Armando, il quale, interrogato dal G.I. di Palermo il 19 dicembre 1983, nella qualità di imputato di reati connessi, nell'ammettere di essere uno spacciatore di droga operante sulla piazza di Torino e Milano, riferiva di avere conosciuto il gestore di un maneggio a Moncalieri a nome Vessichelli Antonio, che gli aveva presentato Buscetta Tommaso, vantandone la potenza nell'ambito delle organizzazioni mafiose.

Il Vessichelli si era offerto di rifornirlo stabilmente di cocaina e ne aveva, in effetti, ceduto una partita, presentandogli, successivamente, Procida Salvatore e Faraone Nicola, con i quali aveva poi intensificato i suoi rapporti di approvvigionamento di sostanze stupefacenti, soprattutto dopo un significativo episodio avvenuto in Palermo nel mese di agosto 1980.

A seguito di tale dichiarazione veniva emesso il mandato di cattura n.32/84 del 2 febbraio 1984, del G.I. del Tribunale di Palermo, nei confronti di Procida Salvatore e Vessichelli Antonio, contestando loro i reati di associazione per delinquere aggravata e di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti.

Nel corso dell'istruttoria venivano poi acquisite numerose dichiarazioni di soggetti appartenenti alla "camorra" napoletana, che avevano deciso di collaborare con la Giustizia, ed, in particolare, gli interrogatori resi il 17 novembre 1983 al G.I. di Milano da parte di Barra Pasquale, Incarnato Mario e D'Amico Pasquale.

Costoro, interrogati particolarggiatamente dal G.I. del Tribunale di Palermo, riferivano poi sui rapporti esistenti tra la mafia palermitana e le famiglie napoletane dei Nuvoletta, Zaza e Bardellino, soprattutto nell'ambito del contrabbando dei tabacchi lavorati esteri e del traffico di droga.

L'esistenza di tali organici rapporti veniva confermata, altresì, da Melluso Giovanni, il quale, così come avevano già fatto Incarnato Mario e D'Amico Pasquale, forniva interessanti elementi sui comportamenti tenuti e sulle dichiarazioni fatte da soggetti ritenuti appartenenti alle organizzazioni mafiose palermitane nel corso della comune detenzione ed in particolare da parte di Fidanzati Gaetano.

Sulle voci correnti nell'ambito carcerario nei confronti di personaggi aventi spessore mafioso, veniva sentito dal G.I. di Palermo, in data 24 febbraio 1984, anche Maltese Salvatore e, sulle indagini concernenti il traffico di stupefacenti organizzato dai fratelli Grado, venivano sentiti, in data 15 marzo '84, nella qualità di indiziato, Perina Giovanni e nella qualità di imputati di reati connessi (ex art.348 bis C.P.P.), D'Arcangelo Romolo e Crespiatico Agostina.

Tutti i procedimenti riuniti in uno solo, la guerra giudiziaria ai boss. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 23 maggio 2023

Mentre il consigliere Istruttore, il compianto dottor Chinnici Rocco, procedeva nell'inchiesta principale, nella quale profuse a prezzo della sua stessa vita tutto il suo impegno civile e di magistrato, altri giudici Istruttori acquisivano contemporaneamente, ulteriori elementi sia a carico di imputati del procedimento originario sia a carico di persone precedentemente non implicate nelle indagini sul contesto associativo

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A questo punto occorre fare una precisazione. La ricostruzione dell'evolversi delle indagini istruttorie risulta alquanto complessa e difficoltosa, poiché, mentre il Consigliere Istruttore, il compianto dottor Chinnici Rocco, procedeva nell'inchiesta principale, nella quale profuse a prezzo della sua stessa vita tutto il suo impegno civile e di magistrato, altri Giudici Istruttori acquisivano contemporaneamente, nel corso di altre indagini delegate dallo stesso Consigliere Istruttore, o conseguenti a procedimenti specificamente assegnati, ulteriori elementi sia a carico di imputati del procedimento originario sia a carico di persone precedentemente non implicate nelle indagini sul contesto associativo.

Pertanto, proseguendo nell'esposizione dello svolgimento della presente istruttoria, il criterio cronologico fin qui seguito sarà integrato dal criterio logico-sistematico riferibile allo stato degli atti dei singoli procedimenti alla data della riunione al procedimento principale.

Venivano, quindi, riuniti taluni atti, contrassegnati poi con la lettera B), del procedimento penale n.67/81, pendente presso la sezione 6 dell'Ufficio Istruzione contro Macaluso Giuseppe, Sindona Michele, Lo Presti Ignazio ed altri, imputati di associazione per delinquere, processo venutosi a creare a seguito di stralcio dal procedimento contro Spatola Rosario ed altri, [...].

Alcuni dei documenti riuniti risultavano già legati all'istruttoria originale, come ad esempio gli interrogatori resi da Zerbetto Alessandro, da Totta Gennaro, il rapporto contro Mura Antonino ed altri, ma ulteriori e rilevanti acquisizioni probatorie erano costituite dagli interrogatori di Pastura Alfonso del 29 settembre 1982, di D'Aloisio Michele del 30 settembre 1982, dagli atti relativi all'esito delle indagini svolte in Spagna per la localizzazione di imputati latitanti che avevano portato all'arresto di Azzoli Rodolfo e, soprattutto, dalle indagini bancarie corredate da prove documentali a carico di diversi soggetti vicini alla famiglia Grado, già imputati di associazione per delinquere e di traffico di stupefacenti nel procedimento principale.

Tali indagini concernevano i conti correnti ed i libretti di deposito a risparmio di pertinenza di Grado Giacomo, presso la succursale N.16 della Sicilcassa di Palermo, nei quali erano state accreditate somme ammontanti a circa 25 miliardi di lire, di sospetta provenienza illecita ricollegabile al traffico di sostanze stupefacenti.

Su richiesta del P.M., venivano quindi riuniti procedimenti trasmessi per la formale istruzione contro Greco Michele + 12, imputati degli omicidi nei confronti di Zucchetto Calogero, Ficano Gaspare e Ficano Michele, Lo Nigro Francesco, Mafara Giovanni, Scalici Gaetano, Genova Giuseppe, D'Amico Antonio, D'Amico Orazio, Buscetta Vincenzo, Buscetta Benedetto, Amodeo Paolo, Amodeo Giovanni ed Amodeo Vincenzo.

Venivano, altresì, riuniti il procedimento contro Greco Michele + 12, concernente l'attentato dinamitardo patito da Calzetta Vincenzo, il procedimento penale contro ignoti imputati di sequestro di persona nei confronti di Inzerillo Giuseppe fu Salvatore, Inzerillo Salvatore di Pietro ed Inzerillo Salvatore di Francesco, tutti scomparsi in Palermo a far data dal 5 giugno 1981, nonche' i procedimenti penali contro ignoti imputati degli omicidi nei confronti di Grado Antonino, consumato in Palermo il 9 gennaio 1982, di Corsino Salvatore, consumato in Palermo il 17 aprile 1982, di Di Fresco Giovanni, consumato in Palermo il 9 gennaio 1982, di Spitalieri Salvatore, consumato in Palermo il 15 aprile 1982, di D'Agostino Ignazio, consumato in Palermo l'1l gennaio 1982, di Di Noto Francesco, consumato in Palermo il 9 giugno 1981, di Mineo Filippo, consumato in Palermo il 4 ottobre 1982, di Lisciardelli Giulio, consumato in Palermo il 24 agosto 1982, di Benfante Giovanni, consumato in Palermo il 15 febbraio 1983, di Sorci Antonino e Sorci Carlo, consumati in Palermo il 12 aprile 1983, di Marchese Giuseppe, consumato in Palermo il 22 agosto 1983, di Randazzo Salvatore, consumato in Casteldaccia il 14 settembre 1982, di Gnoffo Ignazio e tentato omicidio di Pillitteri Carmela, consumati in Palermo il 15 giugno 1981, di Severino Vincenzo e Severino Salvatore, consumato in Palermo il 29 maggio 1981, di Calabria Agostino, consumato in Palermo il 9 ottobre 1981, di Mazzola Emanuele, consumato in Palermo il 5 ottobre 1981, di Teresi Francesco Paolo, consumato in Palermo 1'8 gennaio 1982, di Di Fresco Francesco, consumato in Palermo il 12 marzo 1982, di Cina' Giacomo, consumato in Palermo il 24 luglio 1982.

Veniva, altresì, riunita copia del procedimento contro Fiumefreddo Ignazio, imputato di omicidio di Ambrogio Giovanni consumato in Palermo l'11 marzo 1981 , nonché del procedimento penale contro Gambino Gaspare ed altri, concernente la rapina commessa in danno di vagoni postali presso lo scalo Villabate-Ficarazzelli e gli omicidi in persona di Mandala' Pietro, di Vitale Antonino, nonché copia del procedimento penale contro Briolotta Antonino + 6 imputati di associazione per delinquere e del procedimento penale contro ignoti, imputati di omicidio in persona di Costanzo Giovanni, consumato in Palermo il 9 ottobre 1981.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Gli orrori di Palermo, la scoperta della “camera della morte”. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 24 maggio 2023

Il Sinagra, interrogato più volte dai magistrati, riferiva di essere stato "arruolato" dal cugino omonimo, soprannominato "Tempesta", come manovale del crimine per le esigenze della "guerra di mafia" in corso, nella "famiglia" di Marchese Filippo, del quale metteva in evidenza la particolare ferocia nelle modalità di esecuzione degli omicidi e nello scempio dei cadaveri

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Con ordinanza del 21 marzo 1984, veniva, altresì, riunito il procedimento n.4330/83 A.P.M. contro Marchese Filippo + 36, imputati dei reati di associazione per delinquere, omicidi ed altro, a seguito delle dichiarazioni rese da Sinagra Vincenzo, nato nel 1956.

Questi, tratto in arresto il 12 agosto 1982, insieme ai cugini Sinagra Vincenzo cl.1952 e Sinagra Antonino nella flagranza dell'omicidio di Di Fatta Diego, inizialmente si fingeva pazzo, unitamente ai suoi congiunti, sperando di evitare una pena adeguata alla gravità del delitto commesso.

Sebbene spinto con minacce da altri consociati a proseguire in questa sua finzione, il Sinagra, allorché era ristretto nel manicomio di Montelupo Fiorentino, decideva di confessare al G.I. Dottor Miccichè, in data 12 novembre 1983, la propria responsabilità sia per l'appartenenza alla cosca mafiosa di Corso dei Mille, sia per gli altri omicidi commessi per ordine di Marchese Filippo.

La sua collaborazione con l'autorità giudiziaria si rilevava preziosa e permetteva di far luce su una serie di omicidi, lupare bianche, estorsioni, danneggiamenti, rapine e furti che avevano funestato la zona di Corso dei Mille.

Il Sinagra, interrogato più volte dai magistrati della procura della Repubblica, in data 30 novembre 1983, l, 28, e 29 dicembre 1983, l e 15 gennaio 1984, riferiva di essere stato "arruolato" dal cugino omonimo, soprannominato "Tempesta", come manovale del crimine per le esigenze della "guerra di mafia" in corso, nella "famiglia" di Marchese Filippo, del quale metteva in evidenza la particolare ferocia nelle modalità di esecuzione degli omicidi e nello scempio dei cadaveri.

Su sua precisa indicazione, veniva scoperta la cosiddetta "camera della morte", sita nei locali di Piazza Sant'Erasmo, Via Ponte di Mare, ove componenti della cosca si riunivano per interrogare e quindi sopprimere mediante strangolamento le loro vittime.

In detto covo, oltre alle armi, munizioni, esplosivi e circa 900 gr. di eroina, venivano rinvenute delle corde con cappi ed un bastone, sui quali una successiva perizia avrebbe rivelato la presenza di sostanze pilifere appartenenti a diversi soggetti.

In sede poi di ispezioni giudiziali compiute sia alla presenza di magistrati della procura della Repubblica di Palermo, che del G.I. di Palermo, cui gli atti venivano trasmessi per la formale istruzione, il Sinagra riconosceva con estrema precisione luoghi e persone legati alle sue dichiarazioni accusatorie, che venivano successivamente confermate dalle dichiarazioni del coimputato Di Marco Salvatore, il quale interrogato dal G.I. il 28 febbraio 1984, ammetteva la propria responsabilità e quella dei suoi complici, in ordine a numerose rapine di cui aveva parlato il Sinagra Vincenzo cl.1956.

Questi indicava, tra gli altri, in Chiaracane Salvatore, avvocato del Foro di Palermo, uno dei più stretti collaboratori di Marchese Filippo e colui il quale, aldilà dei semplici doveri professionali di assistenza legale, faceva anche da tramite per le comunicazioni da far pervenire agli affiliati entro il carcere dell'Ucciardone.

Nei confronti del Chiaracane Salvatore e degli altri correi indicati dal Sinagra Vincenzo cl.1956, venivano emessi numerosi provvedimenti restrittivi da parte della procura della Repubblica di Palermo in data 2 gennaio 1984 ed effettuati gli interrogatori di rito, gli atti venivano trasmessi per la formale istruzione al G.l., il quale, dopo avere proceduto all'interrogatorio di Sinagra Vincenzo cl.1956 in data 15 gennaio 1984, a conferma dei precedenti interrogatori, emetteva il mandato di cattura n.33-84 del 25 gennaio 1984, contro Spadaro Francesco + 18, disponendo, altresì, la riunione del procedimento penale contro Marchese Filippo, Rotolo Salvatore e Baiamonte Angelo, imputati dell'omicidio del prof. Giaccone Paolo, commesso in Palermo l'Il agosto 1982, nonché di tutti i procedimenti contro ignoti, imputati dei fatti delittuosi narrati da Sinagra Vincenzo cl.1952, ed in particolare: rapina in danno di Pecoraro Giorgio, rapine in danno di Balsamo Vincenzo e Giuseppe, furto gioielleria Bracco Salvatore, rapina in danno di Quadrini Luigi, rapina in danno di Marabeti Gaetano, furto di preziosi in danno di Pisano Francesco, furto di preziosi in danno di Barrale Gaspare, furto di vini in danno di Piraino Edoardo, attentati dinamitardi ed incendiari a scopo di estorsione in danno di imprese e negozi siti nella zona di Brancaccio, omicidi in pregiudizio di Peri Antonino, di Rugnetta Antonino, di Buscemi Salvatore, di Ingrassia Domenico, di Finocchiaro Giuseppe, di Patricola Francesco, di Fallucca Giovanni e Lo Verso Maurizio, di Ragona Pietro, di Migliore Antonino, di Lo Iacono Carmelo, di Buscemi Rodolfo e Rizzuto Matteo, di Tagliavia Gioacchino, di Gioia Antonino e Filiberto Giuseppe, furto di motociclette rinvenute in via Ponte di Mare di proprieta' di Di Fede Giorgio.

Il G.I., in data 28 febbraio 1984, procedeva all'interrogatorio di Di Marco Salvatore, il quale, come già accennato, decideva anch'egli di collaborare con la Giustizia, chiarendo le proprie responsabilità e quelle dei suoi correi in ordine a numerose rapine cui aveva personalmente partecipato. Il giorno successivo il G.I. emetteva il mandato di cattura n.71-84 contro Sinagra Vincenzo + 23, dando carico a vario titolo a tutti gli imputati dei reati corrispondenti ai fatti delittuosi narrati dal Sinagra Vincenzo cl.1956.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

L’eroina in America, Gaetano Badalamenti e la “Pizza Connection”. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 25 maggio 2023

Nuovi filoni investigativi si andavano sviluppando e negli Stati Uniti erano state da tempo avviate quelle indagini poi sfociate nella nota operazione "Pizza Connection", che forniva un importante contributo probatorio all'accertamento delle responsabilità legate ai traffici di sostanze stupefacenti tra la Sicilia e gli Stati Uniti D'America

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Confluiti tutti gli atti del procedimento penale contro Marchese Filippo + 36 (processo denominato "Sinagra" e contrassegnato con la lettera F) nel procedimento principale contro Greco Michele ed altri, le indagini istruttorie proseguivano nell'ambito di tale procedimento con l'interrogatorio degli imputati detenuti, con numerosi confronti tra gli imputati collaboratori Calzetta e Sinagra e taluni imputati, tra i quali di rilievo quello tra Sinagra Vincenzo e Chiaracane Salvatore, in data 30 marzo 1984, con ricognizioni di persona e fotografiche, con ispezioni giudiziali dei luoghi, (in data 2 aprile 1984), con accertamenti bancari e patrimoniali, con perizie su reperti sequestrati a Calzetta Stefano in Via Ponte di Mare, con perizie psichiatriche su Sinagra Vincenzo cl.1952, Sinagra Antonino e Marchese Antonino, con intercettazioni telefoniche sull'utenza di Chiaracane Salvatore ed altri imputati e, infine, con l'esame delle persone offese e dei testi di vari episodi delittuosi.

Seguendo altri filoni delle indagini connesse alla perdurante "guerra di mafia", il G.I., su richiesta del P.M., emetteva, in data 2 aprile 1984, il mandato di cattura N.111/84 contro Greco Michele + 12, imputati degli omicidi di Genova Giuseppe, D'Amico Antonio e D'Amico Orazio, Buscetta Vincenzo, Buscetta Benedetto, Amodeo Paolo ed Amodeo Giovanni, omicidi tutti commessi nell'arco di tempo tra il Natale 1982 ed il 16 marzo 1983 ed inquadrati nel piano di sistematiche eliminazioni degli amici, dei parenti, delle persone comunque vicine a Buscetta Tommaso e a Greco Giovanni, detto "Giovannello".

Le indagini si arricchivano di ulteriori elementi anche nei confronti di Salvo Antonino, che veniva indiziato di reato e sentito in tale qualità dal G.I. il 19 aprile 1984.

A seguito di concessione dell'estradizione da parte delle autorità spagnole, in data 13 maggio 1984, e 31 maggio 1984, veniva nuovamente interrogato Azzoli Rodolfo, il quale confermava sostanzialmente quanto già dichiarato in sede di rogatoria il 17 novembre 1983. Veniva, quindi, assunto come teste, in data 17 maggio 1984, Federico Antonino, il quale, oltre a confermare le dichiarazioni precedentemente rese al P.M. di Torino, dotto Marabotto, tra il 17 gennaio ed il 7 aprile 1984, riferiva in particolare di una serie di interventi, da parte di taluni imputati considerati personaggi di un certo rilievo nell'ambito dell'organizzazione mafiosa, a favore di Fiumefreddo Ignazio ingiustamente accusato dell'omicidio del fratello Federico Domenico, ucciso in Palermo il 6 settembre 1971, ed in epoca più recente in favore di Zanca Giuseppe, ritenuto responsabile di avere provocato, con una "soffiata" ai Carabinieri, la morte di Vaglica Enzo, ucciso dai militari dell'Arma durante l'esecuzione di una rapina.

Frattanto, nuovi filoni investigativi si andavano sviluppando ed in Usa erano state da tempo avviate quelle indagini poi sfociate nella nota operazione, ormai comunemente intesa, anche nell'ambito giudiziario di altri paesi, come "Pizza Connection", che forniva un importante contributo probatorio all'accertamento delle responsabilita' legate ai traffici di sostanze stupefacenti tra la Sicilia e gli Stati Uniti D'America.

Il 9 aprile 1984, a coronamento di tali minuziose indagini, scattava, contemporaneamente in Italia e negli Usa., un'operazione di Polizia diretta all'arresto di personaggi di presurita estrazione mafiosa, coinvolti in un colossale traffico internazionale di eroina.

Il giorno prima, 1'8 aprile 1984, erano stati già arrestati a Madrid Badalamenti Gaetano, il figlio Badalamenti Vito ed il nipote Alfano Pietro, anch'essi coinvolti nel traffico tra la Sicilia e gli Stati Uniti D'America.

Il contributo della Polizia Giudiziaria Italiana si estrinsecava sia mediante un'opera di collaborazione per l'identificazione dei soggetti coinvolti nel traffico, sia nella decifrazione delle numerose telefonate intercettate, svoltesi principalmente in dialetto siciliano, sia mediante pedinamenti dei trafficanti venuti in territorio italiano, sia, infine, operando l'arresto in Italia di taluni membri dell'organizzazione e precisamente di Castronovo Antonino, Soresi Natale, Nania Filippo, Leone Vincenzo e Ferrante Erasmo.

L'esito di tali indagini veniva riferito con rapporto della Criminalpol di Palermo del 10 aprile

1984 al Procuratore della Repubblica di Palermo, che il successivo 16 aprile emetteva ordine di cattura nn.1045/84 A.P.M. e 90/84 R.O.C. contro le persone denunciate, molte delle quali di origine siciliana anche se residenti in Usa, considerate elementi di spicco dell'organizzazione mafiosa.

Dopo gli interrogatori di rito, gli atti venivano trasmessi al G.I. di Palermo, che, dispostane, in data 22 maggio 1984, la riunione al procedimento principale contro Greco Michele ed altri, emetteva in pari data mandato di cattura contro medesimi imputati per i delitti di associazione mafiosa ed associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.

Tale processo, pur riunito, manteneva una propria autonomia e, contrassegnato con la lettera G, veniva via via arricchito del materiale probatorio proveniente dalla fruttuosa collaborazione con organismi di polizie di vari Stati. Tale materiale era costituito, principalmente, da rapporti concernenti attività investigativa, come pedinamenti, rilievi fotografici, intercettazioni telefoniche ed ambientali, sequestri di eroina, di documentazione varia, svolta da organismi di Polizia Giudiziaria Statunitense, talvolta anche con la utilizzazione di agenti provocatori infiltrati nell'organizzazione.

Detti rapporti, denominati "Affidavit", sono costituiti dalle risultanze delle indagini, asseverate dal giuramento degli agenti che le hanno compiute.

Il quadro di tali indagini, risulta delineato dagli "Affidavit" dell'agente speciale del F.B.I. Rooney Charles, posti a base dell'atto di accusa formulato, il 4 aprile 1984, dal Grand Jury della Corte Federale del distretto sud di New York contro 38 imputati, numero davvero inusitato per un procedimento penale negli Stati Uniti D'America.

Altro materiale probatorio era costituito da atti giudiziari veri e propri riguardanti il processo in corso di svolgimento negli Usa., come gli interrogatori dinanzi al Grand Jury di New York di Amendolito Salvatore e Matassa Filippo, nonchè da atti istruttori assunti dai G.I. di Palermo, Roma e Milano, direttamente in territorio statunitense con l'espresso consenso delle autorità federali, come, ad esempio, l'interrogatorio del 12 maggio 1984 di Amendolito Salvatore, il quale forniva importanti dichiarazioni circa le modalità e gli autori del riciclaggio del danaro proveniente dal traffico di stupefacenti intercorso tra l'Italia e gli Usa.

La cattura in Brasile, il veleno e il pentimento di don Masino. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 26 maggio 2023

Il 14 luglio 1984 rientrava in Italia, estradato dal Brasile dopo un lungo iter procedurale, Buscetta Tommaso, indicato per decenni dagli organismi di polizia di tutto il mondo come un mafioso di rango e un trafficante di stupefacenti...

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In data 28 maggio 1984, venivano, altresì, riuniti al procedimento principale gli atti provenienti dallo stralcio, effettuato, limitatamente all'imputazione di associazione per delinquere, dal procedimento penale contro Marchese Filippo ed altri, imputati della così detta "Strage di Natale" e contrassegnato con la lettera H.

L'episodio risale al 25 dicembre 1981, allorché a Bagheria, a conclusione di uno spettacolare inseguimento automobilistico, nel corso del quale venivano esplosi numerosissimi colpi d'arma da fuoco, venivano uccisi, oltre ad un ignaro passante (tale Valvola Onofrio), Pitarresi Biagio e Di Peri Giovanni, mentre un terzo uomo, Pitarresi Antonino, veniva sequestrato e poi fatto scomparire dagli assalitori, che avevano esaurite le munizioni.

Una successiva operazione di Polizia portava all'arresto, in data 15 gennaio 1982, nella borgata di Brancaccio, di Marchese Giuseppe, Spadaro Francesco ed Inchiappa Giovan Battista a bordo di un'autovettura, nella quale venivano rinvenute e sequestrate due rivoltelle calibro 38 special e numerosissime munizioni.

Le impronte digitali rilevate a Marchese Giuseppe al momento dell'arresto, coincidevano con quelle rilevate sull'autovettura Fiat 128 targ. PA 395807, usata dagli assassini per la consumazione della "Strage di Natale" e poi abbandonata sui luoghi del delitto.

Tali conclusioni venivano confermate dalla perizia dattiloscopica collegiale depositata dai periti Giaccone, Miranda e Sammarco, il 14 maggio 1982. Intanto, nel prosieguo dell'istruttoria del procedimento principale, veniva sentito dal G.I. Come teste, dapprima in data 5 e 6 aprile 1984 e poi il 21 giugno 1984, Melluso Giovanni, un "camorrista" che, avendo deciso di collaborare,

riferiva intorno a fatti e circostanze appresi nel corso della sua lunga detenzione, riguardanti principalmente Fidanzati Gaetano, le confidenze da questi ricevute ed i suoi collegamenti con altri componenti dell'organizzazione mafiosa.

In data 13 aprile 1984, veniva, altresì, sentito Bruno Felice, detenuto a Genova per episodi di traffico di stupefacenti, il quale si dichiarava a conoscenza di diverse vicende concernenti le organizzazioni mafiose siciliane e disposto a collaborare.

Egli giustificava il versamento in un conto corrente nella sua disponibilità, anche se formalmente intestato a Gatto Luigi, di assegni per 21 milioni, come parte del maggior prezzo di 120 milioni, versatigli da Vernengo Antonino per la costruzione di una villa.

Affermava, altresì, di conoscere Vernengo Pietro e Vernengo Giuseppe. Per le condizioni di salute del teste, sottoposto di recente ad un intervento di colecistectomia, l'interrogatorio veniva interrotto e ripreso dopo la traduzione del Bruno Felice nel carcere dell'Ucciardone di Palermo, in data 17 luglio 1984. In tale occasione, il teste effettuava dei riconoscimenti fotografici che pero' non voleva inizialmente registrare a verbale, perche' preoccupato per la sua fisica incolumita' in relazione alle dichiarazioni rese. Successivamente, dopo che il giudice dava atto a verbale delle dichiarazioni comunque rese, finiva per confermare tutto quanto precedentemente detto.

A questo punto dell'istruttoria, si verificava un fatto nuovo che imprimeva un decisivo ed ulteriore impulso alle indagini.

Il 14 luglio 1984 rientrava in Italia, estradato dal Brasile dopo un lungo iter procedurale, Buscetta Tommaso, indicato per decenni dagli organismi di Polizia di tutto il mondo come un mafioso di rango e un trafficante di stupefacenti.

Questi, ormai isolato all'interno dell'organizzazione e ricercato dagli avversari, che, peraltro, gli avevano ucciso numerosi congiunti, violando taluni dei principi cardine dell'organizzazione di cui faceva parte, quali l'omertà, la segretezza, il rifiuto dell'autorità dello stato, decideva di collaborare con l'Autorità Giudiziaria, offrendo una chiave di lettura, dall'interno, del fenomeno mafioso, delle vicende dell'organizzazione, delle sue strutture, degli appartenenti ad essa e delle loro principali attività criminose.

Tale collaborazione, iniziata con l'interrogatorio del 16 luglio 1984, proseguiva pressocché ininterrottamente sino al settembre dello stesso anno.

Durante tale periodo, si acquisivano agli atti il procedimento penale contro ignoti imputati dell'omicidio di Spica Antonino e Romano Pietro, nonché la copia degli atti del procedimento penale contro Lo Presti Gaetano + Il, imputati dell'omicidio di Marchese Pietro.

Inoltre, a conclusione di approfondite indagini bancarie, venivano sentiti Trombetta Guido, sulla negoziazione di titoli per 600 milioni circa ad opera di impiegati della SATRIS S.P.A., e Di Pace Giuseppe, in relazione al riciclaggio di ingenti quantitativi di dollari statunitensi.

Veniva, quindi, nuovamente interrogato dal G.I., in data 31 agosto 1984, Perina Giovanni, il quale, dopo iniziali resistenze, finiva con l'ammettere di essere chiamato "Ciccio" e decideva di collaborare con l'Autorità Giudiziaria, confermando quanto già dichiarato da Azzoli Rodolfo e cioè che per un periodo di tre-cinque mesi, a partire dal 1978, aveva ricevuto dallo stesso alcune partite di eroina come intermediario nei traffici di stupefacenti della "famiglia" Grado.

Venivano, altresì, acquisite in copia le dichiarazioni rese al P.M. da Coniglio Salvatore il 10, 14, 17 e 27 luglio 1984 ed il 5 settembre 1984, che avevano consentito l'instaurazione del procedimento penale contro Anselmo Vincenzo + 46 (processo cosi' detto di "Nonna eroina"), per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti.

Il Coniglio Salvatore, interrogato poi direttamente dal G.l., in data 21 settembre 84, nel confermare le precedenti dichiarazioni, forniva importanti elementi di prova circa un'imponente attività di approvvigionamento, distribuzione e spaccio di eroina e cocaina tra Palermo ed altre città del Nord, tra cui principalmente Milano, da parte di una organizzazione che presentava tra i suoi elementi di spicco personaggi collegati all'organizzazione mafiosa.

A seguito, poi, delle dichiarazioni di Buscetta Tommaso, che aveva posto in risalto l'unitarietà dell'organizzazione e la riconducibilità ad essa ed ai suoi capi di tutti i delitti connessi alla "guerra di mafia", con provvedimento del 28 settembre 1984, veniva ordinata la riunione di vari procedimenti la cui istruzione si era svolta separatamente, ed in particolare: il procedimento contro ignoti imputati dell'omicidio in persona di Ienna Michele ed i relativi accertamenti balistici, secondo cui tale omicidio e quelli di Teresi Francesco Paolo e Di Fresco Francesco, erano stati commessi con la stessa arma; il procedimento contro. ignoti imputati di minacce a Procaccianti Paolo perito dell'Istituto di Medicina Legale dell'università di Palermo; il procedimento contro ignoti imputati di omicidio in persona di Badalamenti Agostino, figlio di Badalamenti Natale; il procedimento contro ignoti imputati di omicidio in persona di Badalamenti Silvio, nipote di Badalamenti Gaetano; infine, i procedimenti contro ignoti imputati degli omicidi di Mineo Giuseppe e Mineo Antonino, di Mazzola Paolo, di Buscetta Benedetto e Buscetta Antonino, di Pesco Vincenzo, di La Mattina Nunzio, di Badalamenti Salvatore, di Bellini Calogero, nonché di tutti gli ulteriori omicidi ricollegabili alla "guerra di mafia".

Delitti eccellenti e droga, da Palermo a Catania sino al Medioriente. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 27 maggio 2023

Il Nucleo centrale di polizia tributaria della guardia di finanza di Roma aveva ampiamente riferito sul clan dei Ferrera, appartenenti alla organizzazione catanese di Santapaola Benedetto, operanti in Roma ed inseriti in un più vasto traffico di stupefacenti con funzioni di approvvigionamento dal Medioriente e in collegamento con elementi palermitani

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Veniva, inoltre, allegato il procedimento, che sarà contrassegnato con la lettera L, contro Marchese Filippo ed altri, per l'omicidio del vice-questore Giuliano Boris, al quale, in data 7 marzo 1984, era stato riunito il procedimento contro Mondello Girolamo ed altri, nonché il processo contro Bonanno Armando ed altri.

Con il provvedimento del 28 settembre 1984, per le medesime ragioni di connessione oggettiva, soggettiva e probatoria, venivano riuniti al procedimento principale numerosi altri procedimenti istruiti separatamente e da Giudici Istruttori diversi tra cui: quello portante il numero 866/79 R.G. Contro Riina Salvatore + 7, contrassegnato con la lettera M, contenente, tra l'altro, il rapporto dei Carabinieri di Palermo del 25 agosto 1978, relativo alle indagini conseguenti alle rivelazioni di Di Cristina Giuseppe, successivamente ucciso in Palermo il 30 Maggio 1978; quello contro Arcoleo Vincenzo ed altri contrassegnato con la lettera N; quello contro Marchese Antonino ed altri; quello contro Macaluso Giuseppe ed altri, procedimento instaurato a seguito dello stralcio di taluni atti dell'istruttoria contro Spatola Rosario, al quale era stato allegato anche il ponderoso rapporto giudiziario di denuncia e i numerosi allegati a carico di Bono Giuseppe ed altri correi, per associazione mafiosa ed altri gravi delitti tra cui il traffico di sostanze stupefacenti, presentato il 7 febbraio 1983 al Procuratore della Repubblica di Milano, a quello di Roma e per conoscenza a quello di Palermo; quello contro Mutolo Gaspare ed altri, procedimento al quale erano stati, precedentemente, riuniti gli atti istruttori assunti a seguito degli omicidi Dalla Chiesa, Ferlito, Bontate e Inzerillo, del danneggiamento della gioielleria Contino e del tentato omicidio di due guardie giurate e di Contorno Salvatore; e ciò per evidenti ragioni di connessione probatoria, evidenziati, soprattutto, dalla perizia balistica sulle armi usate per tali episodi delittuosi.

Inoltre, al procedimento contro Mutolo era stato riunito, con ordinanza del 2 giugno 1984, trasmesso per competenza dal G.I. del Tribunale di Roma contro Abbenante Michele, un corriere al servizio dell'organizzazione di Mutolo Gaspare, arrestato presso l'aeroporto di Fiumicino il 21 ottobre 1982, con un carico di Kg.9,500 di eroina di provenienza thailandese.

Altro procedimento, trasmesso per competenza dall'Autorità Giudiziaria di Roma e riunito con ordinanza del 2 maggio 1984 per ragione di connessione a quello contro Mutolo Gaspare (Lettera R), è quello contro Bellia Giuseppe ed altri contrassegnato con le lettere RA ed instaurato a conclusione di approfondite indagini svolte dal Nucleo Centrale di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Roma.

Il suddetto Nucleo, difatti, con rapporto del 17 novembre 1983, aveva ampiamente riferito a carico del clan dei Ferrera, appartenenti alla organizzazione catanese di Santapaola Benedetto, operanti in Roma ed inseriti sia in un traffico di stupefacenti a carattere locale, sia in un più vasto traffico di stupefacenti con funzioni di approvvigionamento dal Medioriente di ingenti quantitativi di hashish, morfina, eroina, in collegamento, questa volta, con elementi appartenenti ad organizzazioni mafiose del palermitano.

Tali collegamenti, già emersi a seguito della fattiva collaborazione di Gasparini Francesco (interrogatorio del 3 febbraio 1983 e seguenti), arrestato all'aeroporto di Orly di Parigi il 10 novembre 1981 in possesso di Kg.4,500 di eroina purissima; di Koh Bak Kin, grosso fornitore di eroina di origine tailandese; di Thomas Alan, organizzatore di una rete di corrieri; di De Riz Pietro (interrogatorio del 20 ottobre 1983 e seguenti); nonché a seguito di pedinamenti, intercettazioni telefoniche ed altre indagini eseguite nel corso dell'istruzione del procedimento contro Mutolo Gaspare (Lettera R), assumevano maggior rilievo sotto il profilo operativo in conseguenza delle dichiarazioni di Dattilo Sebastiano, detto "Nano" (interrogatorio del 28 novembre 1983 e seguenti), raccolte nel riunito procedimento contro Bellia Giuseppe.

Per evidenti ragioni di connessione oggettiva, soggettiva e probatoria, con ordinanza del 2 luglio 1984, al più volte citato procedimento contro Mutolo Gaspare, era stato riunito anche il procedimento n.924/83 R.G. contro Riccobono Rosario ed altri, concernente le indagini sulla organizzazione mafiosa operante in Partanna Mondello, processo contrassegnato con le lettere RB.

Per completare il quadro del traffico di stupefacenti e documentarne una delle fasi, cioè quella della produzione dell'eroina, al procedimento principale contro Greco Michele, veniva riunito, con la già citata ordinanza del 28 settembre 1984, anche il procedimento penale contro Di Salvo Nicola ed altri (n.1589/82) contrassegnato con la lettera S, riguardante le indagini successive alla scoperta da parte delle Forze dell'Ordine, in data 11 febbraio 1982, di un laboratorio per la trasformazione della morfina base in eroina. A tale procedimento era stato precedentemente riunito quello portante il numero 731/83 R.G. Contro Amato Federico ed altri, contrassegnato con le lettere SA, concernente le indagini sull'attivita' di reimpiego di capitali, asseritamente provenienti dal traffico di stupefacenti, nella costruzione dello stabilimento della Enologica Galeazzo S.P.A., da parte della famiglia dei Vernengo. Sempre al procedimento principale contro Greco Michele, con la piu' volte citata ordinanza del 28 settembre 1984, veniva riunito anche il procedimento contro Provenzano Bernardo ed altri, contrassegnato con la lettera T, al quale erano stati precedentemente riuniti, con ordinanze rispettivamente del 9 e del 20 aprile 1984, il procedimento contro Di Maggio Antonino ed il procedimento contro Gariffo Carmelo ed altri.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

E dopo Buscetta, salta il fosso anche “Coriolano della Foresta”. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 28 maggio 2023

Si verificava un altro avvenimento di eccezionale importanza per le indagini istruttorie: l'inizio, dopo anni di travaglio, della collaborazione con l'Autorità Giudiziaria anche di Contorno Salvatore, membro di spicco della "famiglia" di Santa Maria di Gesù, detenuto sin dal 23 marzo 1982...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

L'acquisizione al processo principale di tutti gli elementi di prova raccolti nei sopra citati procedimenti, istruiti in una prima fase separatamente, si rendeva necessaria a seguito delle dichiarazioni di Buscetta Tommaso, il quale, consentendo di ricostruire la struttura dell'organizzazione mafiosa, di conoscerne le regole e le dinamiche interne, di cogliere i moventi e i nessi causali e temporali di numerosissimi omicidi, indicandone anche i responsabili, conferiva organicità ad una serie di elementi emersi "aliunde", che, presi e valutati singolarmente, non potevano che offrire degli interessanti squarci sull'attività dell'organizzazione e dei suoi adepti, ma certamente non consentivano di comprendere la complessità del fenomeno criminale su cui si indagava.

Dalle dichiarazioni di Buscetta su "Cosa nostra" (così verrebbe denominata l'organizzazione mafiosa) emergeva, infatti, una struttura estremamente articolata ma sostanzialmente unitaria ed a carattere verticistico, del tutto diversa da quella intuitivamente descritta nell'iniziale rapporto del 13 luglio 1982 (cosiddetto rapporto dei 162).

Pertanto, il mandato di cattura n.323-84 del 29 settembre 1984, emesso dai G.l. del Tribunale di Palermo contro Abbate Giovanni + 365, ai quali si dava carico dei reati di associazione per delinquere, associazione di stampo mafioso ed associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, nonché di altri delitti descritti nei 321 capi di imputazione (originale al Vol.100 fogli 118-292),

mentre per alcuni fatti delittuosi già contestati agli imputati assumeva una funzione meramente ripetitiva, per quanto concerneva i reati associativi, come può chiaramente rilevarsi dalle estese ed approfondite motivazioni, costituiva la contestazione di una nuova realtà associativa molto più ampia, articolata e complessa sia sotto il profilo spaziale che temporale, oltre che per il numero e per i ruoli dei singoli associati.

A distanza di un breve lasso di tempo, si verificava un altro avvenimento di eccezionale importanza per le indagini istruttorie: l'inizio, dopo anni di travaglio, della collaborazione con l'Autorità Giudiziaria anche di Contorno Salvatore (interrogatorio del 16 ottobre 1984 Vol.125).

Membro di spicco della "famiglia" di Santa Maria di Gesù, detenuto sin dal 23 marzo 1982, il Contorno, oltre a confermare in aderenza alle informazioni di Buscetta Tommaso, la struttura, le regole ed il funzionamento di "Cosa nostra", indicava gli autori del tentato omicidio consumato nei suoi confronti il 25 giugno 1981, narrava le fasi più salienti della "guerra di mafia", nel corso della quale aveva subito una serie impressionante di uccisioni di parenti ed amici e faceva i nomi di altri membri dell'associazione mafiosa.

Sulla scorta di tali dichiarazioni, i G.r. emettevano il mandato di cattura n.361-84 del 24 ottobre 1984 contro Adelfio Giovanni + 126. Le dichiarazioni di Buscetta e Contorno, fornivano, inoltre, ulteriori elementi in ordine ad un'altra complessa istruttoria da tempo in fase di svolgimento nei confronti di Salvo Antonino e Salvo Ignazio, già indiziati, sulla scorta di intercettazioni telefoniche, di indagini bancarie, di dichiarazioni di altri testi, quali Bono Benedetta, e di prove documentali, di costituire un preciso tramite tra gli interessi mafiosi, di cui apparivano portatori a seguito degli accertati collegamenti con taluni esponenti di rilievo dell'organizzazione "Cosa nostra", ed i centri di potere politico-affaristici.

Pertanto, nei loro confronti veniva emesso dai G.I. il mandato di cattura n.390-84 del 12 novembre

1984, con il quale si contestavano loro i delitti di associazione per delinquere semplice e di stampo mafioso, nonchè il delitto di favoreggiamento per l'ospitalità prestata al latitante Buscetta Tommaso. Successivamente, veniva emesso dai G.I. mandato di cattura n.418/84 del 4 dicembre 1984, contro Baiamonte Angelo + 22, con il quale, oltre a riparare a taluni errori ed omissioni dei precedenti provvedimenti restrittivi, si estendevano a Motisi Ignazio, Greco Leonardo e Di Carlo Andrea, indicati da Contorno Salvatore come membri della "Commissione", le contestazioni dei numerosi omicidi attribuiti a tale organismo di vertice dell'organizzazione mafiosa, cui si facevano risalire le relative decisioni.

Anche l'omicidio nei confronti del professore Giaccone Paolo, già attribuito a Rotolo Salvatore, quale autore materiale, ed a Marchese Filippo ed al suo vice Baiamonte Angelo quali mandanti, veniva ritenuto, per l'importanza del personaggio, come deciso dalla medesima "Commissione" di "Cosa nostra", per cui anche ai componenti della stessa si dava carico di tale delitto con mandato di cattura n.58/8S del 16 febbraio 1985.

Ulteriori dichiarazioni rese da Contorno Salvatore, in riferimento ad altri gruppi di associati, tra cui quelli appartenenti alla famiglia di Belmonte Mezzagno, provocavano l'emissione del mandato di cattura n.76-85 del 28 febbraio 1985 contro Bonaccorso Domenico + 24, ai quali venivano contestati i medesimi reati associativi di cui al precedente mandato di cattura n.361-84. Pregresse ed approfondite indagini, svolte dalla Squadra Mobile di Palermo, avevano, intanto, accertato numerose devastazioni e danneggiamenti di abitazioni e di autovetture appartenenti a persone residenti nella borgata di Ciaculli, ritenute dalla cosca dominante ostili e comunque non pienamente fidate, tanto da causarne con atti di intimidazioni, poste in essere anche con scritti anonimi, l'esodo da Ciaculli. Pertanto, veniva emesso contro Greco Michele + 6, cioè contro coloro che avevano assunto una posizione di preminenza nell'ambito della famiglia mafiosa di Ciaculli, il mandato di cattura n.79-85 del 4 marzo 1985, con il quale si contestavano i reati di violenza privata continuata e di danneggiamento seguito da incendio.

Le indagini proseguivano con l'acquisizione agli atti del procedimento delle dichiarazioni di Anselmo Salvatore il quale, chiamato in correità da Coniglio Salvatore, aveva fornito importanti conferme alle dichiarazioni di quest'ultimo su episodi e persone gravitanti nello stesso ambiente di fornitori e spacciatori di stupefacenti, operanti tra Palermo, Milano ed altre città del Nord.

Proprio per aver reso tali dichiarazioni, l'Anselmo Salvatore era stato ucciso, dinanzi la propria abitazione, ove si trovava agli arresti domiciliari, e la medesima sorte sarebbe toccata a Coniglio Mario, fratello di Coniglio Salvatore. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

La scoperta di Nitto Santapaola e la guerra di mafia a Catania. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 29 maggio 2023

Alcuni imputati a Milano e Torino, in particolare Epaminonda Angelo, Parisi Salvatore, Saia Antonin e Miano Roberto concordemente indicavano in Santapaola Benedetto il capo indiscusso della famiglia mafiosa di Catania, l'ispiratore, se non l'autore materiale, dell'omicidio di Ferlito Alfio...

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Venivano, quindi, acquisite le dichiarazioni di alcuni imputati di gravissimi delitti in procedimenti penali pendenti davanti alle Autorità Giudiziarie di Milano e Torino ed in particolare quelle di Epaminonda Angelo (Vol.172-181), Parisi Salvatore, Saia Antonino, Miano Roberto, i quali concordemente indicavano in Santapaola Benedetto il capo indiscusso della famiglia mafiosa di Catania, l'ispiratore, se non l'autore materiale, dell'omicidio di Ferlito Alfio e riferivano sulla sua strettissima alleanza con numerosi esponenti di spicco delle corrispondenti organizzazioni operanti in Palermo e facenti parte del gruppo emergente, nonché sul suo ruolo nella fase di approvvigionamento di grossi quantitativi di stupefacenti.

Ulteriori indagini istruttorie che prendevano le mosse dalle dichiarazioni di Bono Benedetta, di Colletti Vincenzo, rispettivamente amante e figlio del defunto rappresentante della "famiglia" di Ribera, Colletti Carmelo, nonché da intercettazioni telefoniche disposte dalla procura della Repubblica di Agrigento, confermavano gli accertati collegamenti di Santapaola Benedetto con altri membri di spicco delle organizzazioni mafiose della Sicilia Occidentale, quali il predetto Colletti Carmelo, indicato, nelle interessantissime registrazioni ambientali effettuate in Canada presso la latteria di Violi Paul, anche come "capo-mandamento" facente parte della "Commissione" di Agrigento, nonché Ferro Antonio, presunto "rappresentante" della "famiglia" di Canicattì (Agrigento).

Altro collegamento, del resto, era precedentemente emerso tra il Santapaola ed Agate Mariano, accusato da Contorno Salvatore di essere il "rappresentante" della famiglia di Mazara del Vallo, allorché gli stessi erano stati fermati insieme in territorio di Campobello di Mazara il 13 agosto 1980, cioè il giorno immediatamente successivo all'omicidio di Lipari Vito, sindaco di Castelvetrano.

Per evidenti ragioni di connessione, venivano, quindi, riuniti al procedimento principale: quello contro Bruno Francesco, imputato dell'omicidio di Gallina Stefano e dei reati connessi, contrassegnato con la lettera V, già definito in istruzione con la richiesta da parte del pm di rinvio a giudizio presso la Corte d'Assise di Palermo; il procedimento contro Profeta Salvatore ed altri (cosiddetto Blitz di Villagrazia), contrassegnato con la lettera W; il procedimento contro Mondino Girolamo ed altri, contrassegnato con la lettera Z; infine, il procedimento contro Biancorosso

Antonino ed altri, instaurato a seguito delle dichiarazioni di Marsala Vincenzo, figlio di Marsala Mariano, "rappresentante" della "famiglia" di Vicari, il quale, dopo l'uccisione del padre, si era deciso a collaborare, rivelando tutte le sue conoscenze sull'organizzazione mafiosa e sulle persone che ne facevano parte e tratteggiando con notizie dense di particolari la struttura della mafia a carattere rurale operante nei piccoli centri delle province siciliane.

In data 24 aprile 1985, gli atti venivano depositati, dandone avviso al Procuratore della Repubblica, il quale, dopo aver preso visione di ulteriori atti istruttori, frattanto acquisiti, il 28 giugno 1985 depositava le sue requisitorie.

In pari data, il G.I., aderendo parzialmente a talune richieste del P.M., ordinava la separazione di vari procedimenti precedentemente riuniti, di atti, documenti e singole posizioni processuali di imputati per le quali si riteneva necessaria un'ulteriore attività istruttoria, costituendo, con gli atti così stralciati e con la fotocopia di tutti gli atti del procedimento principale, un nuovo procedimento cui era assegnato il N.1817-85 R.G.U.I. Ai sensi de11'art.372 C.P.P. veniva, quindi, disposto il deposito in cancelleria di tutti gli atti processuali in fotocopia, attesa l'esigenza che gli originali venissero custoditi in appositi locali, convenientemente attrezzati, per motivi di sicurezza e per potere procedere senza interruzione alle operazioni di microfilmatura, fatta salva la facoltà dei difensori di prendere visione, a richiesta, anche degli originali entro il previsto termine di 5 giorni, poi prorogato, stante la complessità del procedimento e la quantità degli atti e dei documenti, sino al 31 luglio 1985.

Decorso tale termine, il Consigliere Istruttore dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, 1'8 novembre 1985, depositava la monumentale ordinanza sentenza di rinvio a giudizio, cui si fa espresso rinvio per quanto concerne i provvedimenti in essa contenuti, ed emetteva, contestualmente il mandato di cattura n.315-85, nei confronti di Abbate Mario + 61 cioè di coloro che erano stati scarcerati per decorrenza dei termini di custodia cautelare previsti per la fase istruttoria. Il presidente della Corte di Assise, sezione 1, cui il processo veniva assegnato, emetteva decreto di citazione per l'udienza del 10 febbraio 1986 e, in tale data, esperite le modalità per la formazione del collegio giudicante, premesso l'appello delle parti presenti e svolti gli accertamenti relativi alla costituzione dei 475 imputati citati, venivano dalla Corte risolte, con ordinanza, talune questioni incidentali sollevate dai difensori.

Veniva, così, disposta la separazione del giudizio nei confronti di Martello Ugo, perché non tradotto per mancata concessione del relativo nulla osta da parte del Tribunale di Milano, e nei confronti di Badalamenti Gaetano, Baldinucci Giuseppe, Randazzo Vincenzo, Palestrini Fioravante, Papastavru Stravos e Karakonstantis Micail, per legittimo impedimento a comparire a causa della detenzione all'estero. Alle ore 23, l'udienza veniva sospesa e rinviata alle 9,30 del giorno successivo, allorché si procedeva alla costituzione delle parti civili, fase che si protraeva fino all'udienza del 12 febbraio 1986. Fatta dare lettura delle imputazioni, il presidente concludeva le formalità di apertura ed all'udienza del 14 febbraio 1986 dichiarava aperto il dibattimento.

I difensori degli imputati proponevano numerosissime questioni preliminari concernenti la costituzione di talune parti civili, la nullità degli atti istruttori, dell'ordinanza di rinvio a giudizio, del decreto di citazione a giudizio, la competenza per territorio.

Tali questioni trattate con unica discussione, venivano decise dalla Corte con ordinanze del 24 e del 28 febbraio 1986. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

E il boss Luciano Liggio rompe il silenzio e racconta di un golpe. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 30 maggio 2023

Il 23 maggio 1986, il Presidente procedeva all'interrogatorio dell’imputato Leggio Luciano, il quale contrariamente a quanto aveva fatto in istruttoria, ove si era avvalso della facolta' di non rispondere, ammetteva di avere conosciuto altri coimputati quali Riina Salvatore, Greco Salvatore, inteso "Cicchiteddu", e tra gli altri anche Buscetta Tommaso in occasione della preparazione di un colpo di stato negli anni 70, cui però non aveva dato la sua adesione

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Il primo marzo successivo, il Presidente dava inizio alla fase degli interrogatori degli imputati, i quali in massima parte si riportavano alle dichiarazioni rese in istruttoria, ribadendo la loro estraneità ai fatti contestati, come si evince dalle trascrizioni integrali allegate ai verbali di dibattimento, cui si fa espresso rinvio. All'udienza del 3 aprile 1986, revocando la precedente rinunzia a comparire, si presentava l'imputato Buscetta Tommaso, in consegna temporanea all'autorità giudiziaria degli Stati Uniti d'America, il quale si dichiarava disposto a rendere il proprio interrogatorio.

Tale atto istruttorio si protraeva fino all'udienza del 10 aprile successivo, allorché la Corte, rigettando le altre istanze, disponeva il confronto del medesimo con l'imputato Calò Giuseppe.

Alla successiva udienza dell'11 aprile 1986, anche Contorno Salvatore, l'altro imputato in consegna temporanea agli Usa per motivi di giustizia, rendeva il proprio interrogatorio, che proseguiva nel corso delle udienze del 14, del 15, del 16, del 17 e del 18 aprile 1986.

Su istanza della difesa, la Corte, all'udienza del 17 aprile 1986, aveva precedentemente disposto la ricognizione degli imputati Prestifilippo Girolamo, Prestifilippo Santo e Spadaro Francesco da parte di Contorno Salvatore, il quale aveva riconosciuto con sicurezza le persone indicate, anche se non era stato in grado di distinguere tra i due Prestifilippo quello a nome Girolamo e quello a nome Santo. Al fine di consentire la celebrazione da parte di altro giudice di un processo a carico di taluni degli imputati, il dibattimento veniva sospeso e rinviato all'udienza del 5 maggio 1986.

Nel susseguirsi degli interrogatori degli imputati, i quali pedissequamente rimanevano ancorati alle loro posizioni di completa innocenza, all'udienza del 15 maggio 1986, Di Marco Salvatore, il quale in istruttoria aveva collaborato efficacemente con l'autorità procedente, ammettendo la propria responsabilità e palesando quella dei correi nella perpetrazione di numerose rapine e reati connessi, finiva con il tenere un atteggiamento ambiguo, rifiutandosi di rispondere e, a specifica richiesta, sia di confermare che di ritrattare le precedenti dichiarazioni.

Atteso tale comportamento processuale, la Corte rigettava le richieste, avanzate dalla difesa di altri coimputati, di ulteriori atti di istruzione dibattimentale (confronti e ricognizioni) che richiedevano la necessaria collaborazione del Di Marco Salvatore.

All'udienza successiva il pm produceva: certificato di morte dell'imputato Ganci Giuseppe, copia di una nota della Polizia Tributaria con allegata fotocopia di un assegno di L.6.000.000 tratto dall'imputato Lipari Giuseppe a favore di Caltagirone Silvio; copia in lingua italiana del controinterrogatorio di Buscetta Tommaso effettuato, nel corso del processo cosiddetto della "Pizza Connection" che coevamente si celebrava a New York, dall'avvocato Kennedy difensore di Badalamenti Gaetano; copia della sentenza ordinanza emessa dal Giudice Istruttore di Firenze il 21 dicembre 1985 contro Spadaro Tommaso ed altri.

La Corte ammetteva tale produzione con ordinanza emessa all'udienza del 21 maggio 1986, con la quale si disponeva, altresì, perizia grafica su di un assegno emesso da Barbarossa Nunzio all'ordine di Lombardo Giovanni, per accertare se la firma ivi apposta fosse opera grafica di quest'ultimo.

Le conclusioni peritali, favorevoli all'assunto difensivo, in quanto escludevano tale corrispondenza, venivano poi depositate all'udienza del 6 giugno 1986.

Il 23 maggio 1986, il Presidente procedeva all'interrogatorio dell’imputato Leggio Luciano, il quale contrariamente a quanto aveva fatto in istruttoria, ove si era avvalso della facoltà di non rispondere, ammetteva di avere conosciuto altri coimputati quali Riina Salvatore, Greco Salvatore, inteso "Cicchiteddu", e tra gli altri anche Buscetta Tommaso in occasione della preparazione di un colpo di stato negli anni 70, cui però non aveva dato la sua adesione.

Nella medesima udienza, perveniva, altresì, notizia da parte del nucleo operativo dei Carabinieri di Palermo, della morte dell'imputato Ingrassia Andrea, ed inoltre il pm produceva una relazione di servizio, redatta dal Carabiniere Mangogna Marco, in servizio nell'aula di udienza, il quale aveva riferito intorno al contenuto di una conversazione avvenuta da una cella all'altra tra il citato Leggio e Greco Michele, da poco tratto in arresto dopo una lunga latitanza.

Quest'ultimo veniva poi interrogato all'udienza dell'Il giugno 1986 e protestava la propria innocenza in ordine ai numerosissimi gravi delitti contestatigli, sostenendo, tra l'altro, l'erronea individuazione, da parte dei chiamanti in correità, nella sua persona di un componente della famigerata famiglia Greco dei Ciaculli, sostenendo di appartenere alla distinta famiglia dei Greco di Croceverde-Giardini. Nel corso della stessa udienza si dava inizio all'interrogatorio di Sinagra Vincenzo, nato nel 1956, il quale, nel ribadire punto per punto, anche nelle udienze successive, le dichiarazioni rese in istruttoria, rievocava, tra l'altro, le raccapriccianti scene di uccisioni, distruzioni ed occultamenti di cadavere, a cui aveva partecipato o di cui comunque aveva avuto conoscenza.

Il Sinagra confermava anche, nel corso dei confronti (richiesti dalla difesa ed ammessi dalla

Corte all'udienza del 17 giugno 1986) con Rotolo Salvatore e con Alfano Paolo, le accuse loro rivolte e procedeva, altresì, alla ricognizione dell'imputato Guttadauro Giuseppe, richiesta dal P.M. nel corso dell'udienza del 18 giugno 1986.

La Corte, quindi, al solo fine di allegare agli atti una versione degli interrogatori dell'imputato Contorno Salvatore in integrale lingua italiana (e quindi di più facile e spedita lettura rispetto alle

trascrizioni originali spesso in linguaggio dialettale), effettuati con ordinanza dibattimentale del 19 giugno 1986 nominava come interprete il professore Correnti Santi, il quale depositava poi l'elaborato scritto all'udienza del 4 settembre 1986. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

La strage di Via Carini e i documenti scomparsi da Villa Whitaker. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE Il Domani il 31 maggio 2023

Non si riusciva ad accertare compiutamente quanto era successo nella villa del Prefetto la notte della sua uccisione, soprattutto per il fatto che Termini Pasquale, l'uomo di fiducia del Prefetto, era deceduto il 17 ottobre 1982. Si richiedeva quindi al Comune l'atto integrale di morte, per verificarne, anche attraverso le allegate certificazioni mediche, le cause

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L'udienza del 20 giugno 1986 era pressocché interamente dedicata all'interrogatorio di Salvo Ignazio, il quale, nel ribadire le posizioni difensive già articolate in istruttoria, produceva, tramite i suoi difensori, documentazione relativa ad un'asserita vacanza fuori l'Italia nel periodo natalizio compreso tra la fine dell'anno 1980 e gli inizi del 1981 ed, inoltre, chiedeva che venisse sentito l'imputato di reato connesso D'Anna Girolamo. Nel prosieguo del dibattimento, l'imputato Calzetta Stefano, presentatosi all'udienza del 9 luglio 1986 per rendere l'interrogatorio, confermava pienamente le precedenti dichiarazioni e forniva con assoluta chiarezza ulteriori particolari sulle circostanze e sui fatti precedentemente rappresentati, ma, senza un'apparente e plausibile spiegazione, il giorno successivo il Calzetta cambiava improvvisamente il proprio comportamento, trincerandosi dietro monotoni “non ricordo” alle ripetute domande fatte dal Presidente e dai difensori dei coimputati.

Con ordinanza dibattimentale del l0 luglio 1986, la Corte, accogliendo l'istanza del pm, dichiarava l'urgenza del processo ai sensi dell'art.2 della legge 22 maggio 1975 n.152. Con altra ordinanza dibattimentale di pari data la Corte rigettava le istanze di perizia psichiatrica sull'imputato Calzetta Stefano e, il giorno successivo, mantenendo questi il medesimo comportamento, anche le numerose istanze di confronti con altri coimputati.

All'udienza del 14 luglio 1986, l'imputato Koh Bak Kin persisteva, invece, nell'atteggiamento di collaborazione con l'Autorità Giudiziaria e confermava anche nei minimi particolari le dichiarazioni precedentemente rese. Su istanza del difensore di Mutolo Gaspare, la Corte disponeva il confronto tra questi e Koh Bak kin, ma l'atto istruttorio non produceva alcun mutamento sostanziale nelle posizioni rispettivamente assunte dai due imputati nella fase istruttoria e dibattimentale.

Per ovvie ragioni di ordine e speditezza processuale, il Presidente aveva, via via, disposto la lettura degli interrogatori resi in istruttoria da quegli imputati che, per indisponibilità loro o dei loro difensori, non avevano rispettato, nel corso delle udienze, il giorno fissato per tale incombenza ovvero altro giorno appositamente concordato, naturalmente restando salva la facolta' degli imputati stessi di rendere, in qualsiasi momento del dibattimento, qualsivoglia dichiarazione.

Pertanto, ultimata la fase degli interrogatori degli imputati, tra le udienze del 16 e del 29 luglio 1986, si procedeva all'esame delle dichiarazioni rese dalle parti offese e dalle parti civili costituite.

All'udienza del 30 luglio 1986, iniziava l'escussione dei testi indicati nella lista del pm e, nelle udienze successive, si approfondiva e completava l'istruzione dibattimentale relativa all'omicidio del Prefetto Dalla Chiesa, escutendo testi Tricarico Giuseppe, Bubbeo Francesco, Calo' Luigi, Sorge Roberto, Cialona Francesco, Barraco Nicolò, Maccarrone Enrico, Mancuso Franco, Gorgone Michele, Gorgone Vittorio, Campagnuolo Pietro.

Ciò nonostante, non si riusciva ad accertare compiutamente quanto era successo nella villa del Prefetto la notte della sua uccisione, soprattutto per il fatto che Termini Pasquale, l'uomo di fiducia del Prefetto, era deceduto il 17 ottobre 1982. Si richiedeva quindi al Comune l'atto integrale di morte, per verificarne, anche attraverso le allegate certificazioni mediche, le cause.

Contestualmente si dava lettura della deposizione resa dallo stesso in istruttoria.

Perché nulla rimanesse d'intentato, la Corte disponeva, altresì, l'esibizione del registro del servizio giornaliero prestato dagli agenti di PS dinanzi a villa Pajno, residenza del Prefetto, e, dopo avere estratto copia delle pagine che interessavano, detti documenti venivano restituiti all'amministrazione di competenza.

Il libanese Bou Chebel Ghassan, citato come imputato di reato connesso per l'udienza del l’agosto 1986, faceva pervenire una lettera al Presidente con la quale manifestava la propria volontà di non rispondere alle domande. Identico rifiuto opponeva l'imprenditore di Catania Costanzo Carmelo, citato per l'udienza dell’agosto 1986 e pertanto si dava lettura delle dichiarazioni rese da costoro in istruzione.

Nel corso della medesima udienza, l'imputato Calò Giuseppe si dichiarava disponibile a rendere il proprio interrogatorio e si protestava completamente estraneo a tutte le accuse mossegli, pur ammettendo di conoscere e di avere incontrato a Roma Buscetta Tommaso.

All'udienza del 4 settembre 1986, il Presidente dava atto dell'avvenuto deposito di accertamento medico-sanitario disposto a seguito delle manifestazioni, apparentemente comiziali, tenute nel corso di talune udienze da Sinagra Vincenzo cl.1952, ed affidato al professore Traina Francesco, il quale concludeva per la piena capacità' di intendere e di volere del predetto imputato.

Nel corso della successiva udienza del 5 settembre 1986, veniva sentita dapprima Corleo Maria, la quale riferiva principalmente sui rapporti tra il marito Lo Presti Ignazio e gli imputati Salvo Antonino e Salvo Ignazio, nonché Bono Benedetta, che confermava le dichiarazioni precedentemente rese a seguito dell'uccisione del suo amante Colletti Carmelo, personaggio di prestigio della mafia dell'agrigentino, ribadendo anche nei particolari le circostanze, i fatti a sua conoscenza, nonché i rapporti tenuti dal Colletti con taluni degli imputati

Dichiarazioni di un certo rilievo, per l'omicidio del Capitano Basile Emanuele, forniva il teste Vallone Pietro all'udienza del l0 settembre 1986.

Nel corso della medesima udienza, veniva sentito, nella qualità di imputato di reato connesso, Marsala Vincenzo, il quale, persistendo nella collaborazione con l'Autorità Giudiziaria, anche di fronte alle contestazioni dei difensori degli imputati, rimaneva fermo nelle dichiarazioni già rese in istruttoria. Su istanza del pm, veniva poi ammessa copia della sentenza emessa dal tribunale di Napoli l'l luglio 1986 contro Liccardo Pasquale, del quale si disponeva altresì la citazione.

All'udienza dell'Il settembre 1986, il teste Alan Thomas ammetteva di avere importato in Italia, avvalendosi dell'opera di una rete di corrieri, numerose partite di eroina provenienti dall'imputato Koh Bak Kin, destinate sia ad esponenti della malavita romana che catanese, col sistema di consegnare scontrini di valigie, contenenti la sostanza stupefacente, depositate presso le stazioni ferroviarie di Roma e di Firenze.

La Corte ammetteva, quindi, su istanza dell'imputato Rapisarda Giovanni, il confronto di questi con il predetto teste, il quale non solo confermava l'avvenuto riconoscimento in istruzione del Rapisarda, ma aggiungeva che era stato proprio lui a condurre la Polizia in casa del medesimo.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Minacce e ritrattazioni, così i boss intimidivano i testimoni dal carcere. SENTENZA MAXIPROCESSO . CORTE D'ASSISE su Il Domani l'01 giugno 2023

I testi Buonaccorso Pietro, Fanale Giuseppe, Faraone Salvatore, Merlino Rosa, negavano di essere stati costretti ad abbandonare le loro abitazioni site nella borgata di Ciaculli a seguito delle minacce e dei danneggiamenti subiti, nonostante le precise contestazioni circa il rinvenimento di lettere anonime di minaccia sequestrate nell'abitazione di Merlino Rosa

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Nelle successive udienze tra gli atti istruttori di maggior rilievo processuale facevano spicco gli interrogatori di numerosi collaboratori con l'Autorità giudiziaria, sentiti nella qualità di imputati di reati connessi, come, ad esempio: D'Aloisio Michele, Parisi Salvatore, Miano Roberto e Federico Antonino, Ferri Luciano, Tasso Gabriella, Fragomeni Armando e Colletti Vincenzo, Saia Antonino e Maltese Salvatore, Gaeta Carmelo, Wakkas Salah Al Din, Melluso Giovanni, D'Amico Pasquale, Coniglio Salvatore e Pastura Alfonso, D'Anna Girolamo, Incarnato Mario, Epaminonda Angelo.

Di costoro, Colletti Vincenzo, Wakkas, D'Aloisio Michele, Federico Antonino, Coniglio Salvatore ed Epaminonda Angelo si avvalevano della facoltà di non rispondere, per cui veniva data lettura, ai sensi dell'art.144 bis c.p.p., delle dichiarazioni dagli stessi rese in istruttoria.

All'udienza del 17 settembre 1986, l'imputato Di Marco Salvatore, modificando il precedente comportamento processuale, secondo cui si era rifiutato di rendere l'interrogatorio dibattimentale, ritrattava, sostanzialmente, le proprie ammissioni e le chiamate in correità, compiendo poi una ricognizione, con esito negativo, sulle persone ristrette nelle celle nn.14, 15, 16 e 17, tra le quali si trovavano taluni dei coimputati prima accusati.

Nel corso della medesima udienza, anche Foglietta Giuseppe, ferito all'eta' di anni 11 circa unitamente al Contorno Salvatore nel corso dell'attentato alla vita di quest'ultimo verificatosi il 25 giugno 1981, tentava di modificare le scarne dichiarazioni rese nell'immediatezza del fatto, affermando, addirittura, di essere stato attinto da un proiettile vagante, mentre si trovava a passare per la strada, teatro dell'episodio delittuoso.

Dopo essere stato appartato per meglio riflettere sulle conseguenze del suo comportamento, il ragazzo finiva, quanto meno, per confermare il precedente verbale e cioè di essere stato invitato in macchina da tale Totuccio Lombardo, nome allora usato da Contorno nello stato di latitanza.

All'udienza del l ottobre 1986, la Corte, su istanza della difesa, disponeva un accertamento tecnico tendente a verificare la distanza tra la casa di abitazione dell'imputato Pipitone Angelo Antonino e il luogo ove precedentemente era stato scoperto un laboratorio per la raffinazione dell'eroina.

L'esito di tale accertamento veniva depositato dal perito all'udienza del 15 ottobre successivo.

Su istanza della difesa dell'imputato Leggio Luciano, veniva acquisito agli atti copia dell'interrogatorio reso al G.T. da Buscetta Tommaso il 4 dicembre 1984, inizialmente non depositato fra gli atti istruttori per motivi di segretezza inerenti alle successive indagini; esigenze venute meno a seguito delle dichiarazioni del Leggio su un tentativo di colpo di stato che sarebbe avvenuto intorno al 1970.

Nell'udienza dell'8 ottobre, a seguito di produzione di consulenza tecnica di parte, su istanza della difesa di Bruno Francesco, imputato dell'omicidio di Gallina Stefano, veniva sentito il perito Ribaudo Ennio a chiarimento di una relazione di perizia tecnica a sua firma, già depositata in istruttoria. […] Nel corso di tale udienza, si affidavano al medesimo perito ulteriori accertamenti peritali, al fine di accertare la compatibilità tra le tracce di striature rilevate sull'autovettura dell'ucciso e quelle eventualmente rilevabili sull'autovettura Giulietta Alfa Romeo, abbandonata e poi incendiata dopo la fuga dal luogo dell'omicidio.

L'esito di tale indagine veniva poi depositato all'udienza del 13 febbraio 1987. Un nuovo elemento di giudizio veniva portato dalla testimonianza, richiesta dal P.M. ed ammessa dalla Corte, di Leo Antonella, segretaria giudiziaria già in servizio presso l'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, sui rapporti tra gli imputati Greco Michele e Chiaracane Salvatore.

La Corte all'udienza del 18 settembre 1986, dopo avere sentito Fragomeni Armando, ne ammetteva il confronto con Fidanzati Gaetano e con Procida Salvatore.

All'udienza del 2 ottobre 1986, Melluso Giovanni, oltre a confermare le precedenti dichiarazioni, effettuava ricognizioni personali nei confronti di Senapa Pietro, Ciulla Salvatore; Ciulla Cesare e Ciulla Antonino, riconoscendo soltanto primi due.

I testi Buonaccorso Pietro, Fanale Giuseppe, Faraone Salvatore, Merlino Rosa, negavano di essere stati costretti ad abbandonare le loro abitazioni site nella borgata di Ciaculli a seguito delle minacce e dei danneggiamenti subiti, nonostante le precise contestazioni circa il rinvenimento di lettere anonime di minaccia sequestrate nell'abitazione di Merlino Rosa.

Il P.M. introduceva, quindi, un nuovo tema dibattimentale producendo, all'udienza del 1 ottobre 1986, una dichiarazione resa, al Pretore di Barcellona Pozzo di Gotto, dal detenuto Scaletta Giuseppe ed una lettera da questi inviata all'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo.

Datasi lettura di tali documenti, lo Scaletta Giuseppe, unitamente al fratello Scaletta Rosario, veniva citato per l'udienza del 17 ottobre 1986 e contestualmente veniva disposta, nel caso di accoglimento delle istanze di confronto avanzate dalla difesa, la traduzione dell'imputato Di Marco Salvatore per lo stesso giorno. Nel corso della suddetta udienza, il teste Scaletta Giuseppe affermava che il Di Marco era stato costretto dagli imputati del "Maxi Processo" non solo a ritrattare le proprie dichiarazioni, ma anche a smentire Sinagra Vincenzo, cosa che era puntualmente avvenuta all'udienza del 19 settembre 1986.

Ciò gli sarebbe stato confidato dallo stesso Di Marco nel carcere di Termini Imerese, tra il 2 ed il 3 agosto 1986, ed egli non appena possibile e comunque prima che il Di Marco mettesse in atto il suo proposito, aveva riferito quanto a sua conoscenza all'Autoritaà Giudiziaria. Nel corso dei successivi confronti disposti dalla Corte con il Di Marco Salvatore e con il fratello Rosario, lo Scaletta Giuseppe insisteva nella propria posizione, contestando ulteriormente al Di Marco che egli stesso gli aveva confidato i particolari delle azioni delittuose (che poi al dibattimento avrebbe negato di avere commesso) e che altri componenti dell'associazione, come Sinagra Vincenzo cl.1952, detto Tempesta, e taluni condetenuti a Termini Imerese, rinviati a giudizio nel processo contro Aziz Afifi (cosiddetto Maxi Bis), come Di Maggio Procopio, Pravatà Michelangelo, Umina Salvatore ed altri, gli avevano imposto di rispettare il Di Marco, dato che questi al processo sarebbe stato utile per le sue ritrattazioni.

All'udienza del 22 ottobre 1986, il Presidente ordinava darsi lettura di tutti i verbali di ispezione, dei rapporti ed in genere di tutti quegli atti la cui lettura non era espressamente vietata ai sensi dell'art.466 C.P.P., disponendo, altresì, che gli elenchi di tutti questi atti venissero allegati al verbale di udienza.

A questo punto, i difensori degli imputati si opponevano al "dar per letto" e facevano istanza perche' si desse lettura integrale di tutti gli atti processuali per i quali tale lettura era consentita. E' il caso di sottolineare che tali richieste difensive costituivano, data la mole eccezionalmente rilevante degli atti processuali, una peculiare insidia sulle sorti del processo, che si sarebbe definitivamente arenato nel disinteresse generale, tra interminabili letture in udienze pressocchè deserte, così consentendo, peraltro, il sicuro decorso dei termini di custodia cautelare per tutti gli imputati detenuti.

Tale pericolo verrà, poi, scongiurato dal deciso intervento del Ministro di Grazia e Giustizia e del Parlamento, che con la legge n.29 del 17 febbraio 1987 introducevano diverse modalità di computo dei termini di custodia cautelare previsti per il dibattimento e sostituivano alla disciplina delle letture quella dell'indicazione di utilizzabilità degli atti. SENTENZA MAXIPROCESSO CORTE D'ASSISE

Le indagini dei poliziotti, poi la sfilata dei ministri testimoni. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il domani il 02 giugno 2023

Dal 30 marzo 1987 al 16 aprile successivo, i rappresentanti della pubblica accusa presentavano le loro requisitorie. La discussione dei difensori degli imputati, iniziata in data 22 aprile 1987, interrotta il 15 maggio si protraeva fino all'11 novembre dello stesso anno. Il 16 dicembre 1987, il Presidente dava lettura del dispositivo della sentenza

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Comunque, prima che ciò si verificasse, la Corte dava inizio alla lettura dei numerosissimi rapporti a firma di Cassarà Antonino, Montana Giuseppe, Giuliano Boris, Basile Emanuele, Zucchetto Calogero, tutti fedeli servitori dello Stato uccisi nell'adempimento del loro dovere. Contestualmente si aveva cura di disporre la escussione di numerosissimi verbalizzanti, non compresi nelle liste del pm, i quali venendo a confermare specificatamente i rapporti o le relazioni di servizio a loro firma, avrebbero consentito di ridurre la necessità di procedere alle letture richieste dalle difese. Frattanto, l'istruzione dibattimentale veniva ripresa e si procedeva alla separazione delle posizioni processuali degli imputati Baiamonte Angelo, per impedimento legittimo a comparire in udienza, e Salvo Antonino, Ganci Giuseppe, Ingrassia Andrea, Mazzara Gaetano, Saccone Orazio, Salamone Nicolò, Vitamia Paolo, perché deceduti nella fase del giudizio. Nel prosieguo dell'istruzione, chiedeva di essere interrogato l'imputato De Riz Pietro, il quale, all'udienza del 7 novembre 1986, sostanzialmente confermava le dichiarazioni già rese in istruttoria.

In adempimento di apposita delega ricevuta dalla Corte di Assise, il giudice a latere procedeva, in data 10 novembre 1986, all’esame in Oristano (Sardegna) della teste Pajewski Margaret, legittimamente impedita a comparire in udienza, mentre il presidente provvedeva in Roma l'Il ed 12 novembre 1986 presso l'Aula Magna della Corte di Cassazione, luogo indicato ai sensi dell'art.356 C.P.P., all'esame testimoniale dei Ministri Spadolini Giovanni, Rognoni Virginio, ed Andreotti Giulio. Inoltre, previa rogatoria internazionale all’autorità giudiziaria elvetica ed a seguito di apposita delega della Corte di Assise di Palermo, il giudice a latere, unitamente al pm ed ai difensori interessati, assisteva presso il Palazzo di Giustizia di Lugano, in data 25 e 26 novembre 1986, all'assunzione del teste Donada Remo ed all'interrogatorio degli imputati di reato connesso

Palazzolo Roberto Vito, Della Torre Franco, e Waridel Paul.

Su istanza del pm, veniva citato Vanaria Francesco, il quale. con una lettera del 24 ottobre 1987 diretta al Presidente della Corte di Assise, aveva preannunciato importanti rivelazioni sugli omicidi Ferlito e Dalla Chiesa. Il predetto, all'udienza del 29 novembre 1986, sosteneva che tali fatti delittuosi erano stati commessi da componenti di famiglie mafiose catanesi e palermitane, di cui faceva i nomi, appresi ascoltando delle conversazioni svoltesi nella infermeria della Casa Circondariale di Catania, tra i condetenuti Campanella Calogero, braccio destro di Santapaola Benedetto, e tale Ercolano Gaetano ivi ricoverato. Aggiungeva che anche tale Finocchiaro Sebastiano, conosciuto presso la Casa Agricola di Mamone in Sardegna, aveva detto che l'ispiratore dell'omicidio di Ferlito Alfio era stato il Santapaola Benedetto.

Tali affermazioni, a suo dire, erano contenute anche in una lettera inviatagli dal Finocchiaro, che probabilmente era rimasta tra i suoi effetti personali presso la Casa Mandamentale di Noto, dalla quale era evaso. Con ordinanza dibattimentale, la Corte disponeva una serie di accertamenti, idonei a fornire dei riscontri obiettivi alle accuse del teste, tra cui il richiamo dalla Pretura di Noto del reperto contenente la sua corrispondenza. Tuttavia, l'attento esame effettuato all'udienza del lO dicembre 1986 di tutte lettere del Vanaria, per lo piu' a contenuto amoroso, non consentiva di rinvenire la citata missiva asseritamente pervenutagli dal Finocchiaro Sebastiano.

Nel corso della medesima udienza, si procedeva all'apertura di un reperto trasmesso dall'Ufficio corpi di reato del tribunale di Palermo, consistente in un plico contenente 5 bustine con all'interno della sostanza bianca ed un foglio di carta riportante un procedimento chimico, asseritamente relativo alla trasformazione della morfina in eroina, materiale oggetto di sequestro presso gli Uffici della D.a.s società agrumicola di pertinenza dei fratelli Greco Michele e Greco Salvatore.

Di tanto in tanto, le udienze, durante le quali proseguivano, stancamente e nel disinteresse delle parti che le avevano richieste, le letture di perizie, ispezioni giudiziarie, confronti, ricognizioni, verbali e perizie di trascrizioni delle intercettazioni telefoniche, si ravvivavano con il compimento di atti di una certa rilevanza, quali l'interrogatorio dell'imputato Vernengo Pietro, dell'imputato De Caro Carlo, il quale ammetteva le proprie responsabilita' e veniva posto a confronto con l'imputato Mutolo Gaspare, nonche' con l'esame del teste Rooney Charles.

Stante l'indisponibilità manifestata dall’autorità giudiziaria statunitense a consentire, da parte della Corte di Assise, il disposto interrogatorio in Usa di Badalamenti Gaetano, stante il perdurare del processo cosiddetto della "Pizza Connection" celebrato a New York, su istanza del pm e sulla non opposizione delle altre parti, nel corso delle udienze del 7, 14 e 15 gennaio 1987, si procedeva alla lettura, previa ammissione, del testo italiano dell'interrogatorio reso dal Badalamenti in quella sede. Attesa la loro provata irreperibilità, si dava altresì lettura delle dichiarazioni rese in istruttoria da Amendolito Salvatore, Sansone Fabrizio Norberto, Matassa Philip, Hopson Steven, Ayed Hafidha. Inoltre, la Corte si dava carico di citare d'ufficio, a partire dall'udienza del 20 gennaio 1986, i terzi intestatari dei beni sottoposti a sequestro da parte dei Giudici Istruttori, sulla base della legge 13 settembre 1982 n.646.

L'istruttoria veniva, quindi, completata con l'ascolto in aula delle bobine originali su cui erano registrate le telefonate piu' significative sotto il profilo probatorio e con la contestazione all'imputato Salamone Antonino del contenuto di talune telefonate, all'udienza del 19 febbraio 1987.

Il Presidente, concesso un congruo termine alle parti, dopo avere indicato, con ordinanze dibattimentali del 6 e del 7 marzo 1987, gli atti utilizzabili ai fini della decisione, a norma dell'art.3 della legge 17 febbraio 1987 n.29 entrata in vigore il giorno precedente, dichiarava chiusa l'istruzione dibattimentale e disponeva per l'inizio della discussione delle parti civili, che si postergava al 16 marzo 1987 per una settimana di astensione dalle udienze da parte di tutti i difensori degli imputati.

Dal 30 marzo 1987 al 16 aprile successivo, i rappresentanti della pubblica accusa presentavano le loro requisitorie, come da verbali in atti. La discussione dei difensori degli imputati, iniziata in data 22 aprile 1987, interrotta il 15 maggio per consentire all'imputato Salamone Antonio di apprestare le sue difese in relazione alle contestazioni circa il contenuto di talune telefonate in atti, si protraeva fino all'11 novembre dello stesso anno, data in cui la Corte di Assise, nella sua composizione effettiva, si ritirava in camera di Consiglio per la deliberazione della sentenza.

Il 16 dicembre 1987, il Presidente dava lettura del dispositivo della sentenza in atti allegato.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Tutti i segreti di Cosa nostra e la “lettura dall’interno” di don Masino. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 03 giugno 2023

Una attenta verifica delle risultanze processuali consente, tuttavia, di affermare che l'equazione mafioso= trafficante di droga non può accettarsi. Soccorrono, al riguardo, le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, il quale ha consentito una "lettura dall'interno" della struttura e del funzionamento di "Cosa Nostra" anche in relazione al traffico di stupefacenti

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Il traffico internazionale di stupefacenti (soprattutto di eroina) è in atto, senza dubbio, l'affare più lucroso della organizzazione mafiosa siciliana. È sorto come naturale evoluzione del contrabbando di tabacchi, del quale utilizza sempre più integralmente le strutture, e lo ha gradatamente sostituito quasi per intero.

Dal complesso delle risultanze probatorie acquisite nel presente procedimento, si può trarre la conclusione che nel traffico di stupefacenti vi sono membri di "Cosa nostra" impegnati operativamente, che si organizzano, associandosi, entro determinati limiti, anche con persone non appartenenti all'associazione, e che tutta "Cosa nostra" partecipa finanziariamente al traffico, nei modi stabiliti dalla "commissione" e dai "capi famiglia".

Sulla base della constatata gestione unitaria del traffico dell'eroina da parte della associazione mafiosa, appare indispensabile, ai fini delle conseguenze giuridiche da trarre in ordine ai delitti di associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti e di traffico di droga, per i quali sono stati condannati taluni imputati, innanzitutto stabilire come sia strutturato tale traffico.

A prima vista, sembrerebbe ovvio che, essendo il traffico di stupefacenti tra le finalità primarie di "Cosa nostra", chiunque appartenga a tale associazione mafiosa debba rispondere, per ciò stesso, anche dei reati concernenti gli stupefacenti, a prescindere da qualsiasi suo accertato e specifico coinvolgimento nel traffico stesso.

Una attenta verifica delle risultanze processuali consente, tuttavia, di affermare che l'equazione mafioso= trafficante di droga non può accettarsi. Soccorrono, al riguardo, le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, il quale ha consentito una "lettura dall'interno" della struttura e del funzionamento di "Cosa nostra" anche in relazione al traffico di stupefacenti.

Ha, infatti, riferito testualmente il Buscetta: "La S.V. mi chiede di quali notizie io sia in possesso in ordine al traffico di stupefacenti e di eroina in particolare. Al riguardo, mi risulta quanto segue.

Ritornato a Palermo, nel giugno 1980, mi accorsi che un grande benessere investiva un pò tutti i membri di Cosa nostra. Stefano Bontate mi spiegò che ciò era la conseguenza del traffico di stupefacenti. Egli che concordava con me nel ritenere che il traffico di stupefacenti avrebbe portato alla rovina Cosa nostra mi disse che all'origine vi era stata l'iniziativa di Nunzio La Mattina. Il contrabbando di tabacchi cominciò ad essere abbandonato da Cosa nostra all'incirca verso il 1978, sia per gli aumentati rischi sia per le beghe interne che spesso mandavano a monte affari importanti. Il La Mattina che, quale contrabbandiere, aveva avuto modo di avvicinarsi alle fonti di produzione e di approvvigionamento della materia prima per la produzione dell'eroina, ritenne di tentare la sorte e riuscì a convincere gli esponenti più autorevoli di Cosa nostra.

Ad un certo punto, avvenne che l'approvvigionamento della materia prima era riservato all'attività di Tommaso Spadaro, Nunzio La Mattina e Pino Savoca, i quali, però, lavoravano ognuno per conto proprio, mantenendo gelosamente segreti i propri canali.

Gli altri partecipavano solo finanziariamente a tale lucrosissima attività nel senso che si quotavano per finanziare l'acquisto e la raffinazione dell'eroina, ritirando, poi, dai laboratori palermitani il prodotto finito. Ed è da rilevare che in questo settore, come già del resto nel contrabbando, le divisioni delle varie famiglie non operavano più, nel senso che ognuno si poteva associare con chi voleva. lo, forse, sono stato l'unico uomo d'onore di Palermo a non avere mai avuto alcuna parte in tali traffici, sia perché, come ho già detto, ne vedevo l'estrema pericolosità per la stessa sopravvivenza di Cosa nostra, sia perché, anche per effetto della mia carcerazione, ero stato tenuto in disparte.

Stefano Bontate sosteneva anche egli di essere estraneo, ma, per amore di verità, non saprei se quanto egli diceva corrispondeva al vero, poiché, nella materia, ognuno si teneva per sè quanto faceva. Vero è che l'uomo d'onore ha l'obbligo di dire sempre la verità ma solo per la materia attinente a Cosa nostra; gli affari, invece, non riguardavano la mafia ed ognuno può associarsi con chi vuole. Va da sè, però, che se ci si associa fra uomini di onore, si ha l'obbligo di comportarsi correttamente e di dire sempre la verità anche nei rapporti di affari che riguardino tali uomini di onore.

Ricordo, in proposito, che Pippo Calò tolse a Masino Spadaro la qualifica di vice capo di Porta Nuova perché lo Spadaro si era comportato scorrettamente in affari di contrabbando di tabacchi che riguardavano anche altri uomini d'onore e, precisamente, lo stesso Pippo Calò. Se, invece, lo Spadaro avesse frodato persone non mafiose, nessun uomo d'onore avrebbe potuto chiedergli nulla e, soprattutto, lo Spadaro non avrebbe avuto l'obbligo di dire la verità.

Altro uomo d'onore che non avrebbe potuto partecipare al traffico di stupefacenti era Gaetano Badalamenti, il quale, per altro, mi ha sempre detto di essersi mantenuto estraneo.

E ciò, non perchè il Badalamenti non volesse partecipare, ma perchè, essendo stato "posato", non avrebbe potuto in alcun modo prendere contatti con gli uomini d'onore che gestivano il traffico. Tuttavia, proprio per le considerazioni testè fatte, non so dire se quanto riferitomi dal Badalamenti risponde al vero. C'è da dire, però, che se ha partecipato clandestinamente a tale attività, prendendo contatti con uomini d'onore che nemmeno avrebbero dovuto avvicinarlo, ciò significa che veramente il danaro ha corrotto tutto e tutti, poichè sarebbe stata commessa una gravissima violazione. C'è da dire, ancora, che, per le esigenze del traffico, è stato necessario ricorrere anche ad uomini non mafiosi e ciò è stata causa non ultima della confusione che si è venuta a creare.

In buona sostanza, quando sono arrivato a Palermo ho trovato, accanto ad una incredibile ricchezza, una altrettanto grave confusione nei rapporti fra le varie famiglie e gli uomini d'onore, tanto che mi sono reso subito conto che i principi ispiratori di Cosa nostra erano definitivamente tramontati ed era meglio per me che me ne andassi via da Palermo al più presto, non riconoscendomi più in quella organizzazione cui avevo creduto da ragazzo. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

I boss di Palermo e i “cugini” americani, eroina e i fiumi di soldi. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 04 giugno 2023

Circa l'esportazione negli Usa dell'eroina prodotta in Sicilia, ho appreso dal Bontate che Pippo Bono, in quel Paese, era uno dei massimi acquirenti della droga, ma non ne curava il trasporto dalla Sicilia negli Stati Uniti. Nel passato, invece, e cioè quando io conobbi i Cuntrera ed i Caruana in Canada, il Bono curava la consegna a costoro, in Europa, della droga...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Avevo trascurato di riferire, parlando del traffico di stupefacenti, che un altro personaggio che curava l'approvvigionamento della morfina per laboratori siciliani era, secondo quanto ho appreso da Stefano Bontate, Antonino Rotolo, inteso "Roberto". A specifica domanda della S.V., preciso che Bontate non mi ha mai parlato dei fratelli Grado come fornitori di morfina per i laboratori.

In buona sostanza, vorrei precisare, una volta per tutte, che Stefano Bontate mi rendeva partecipe di quei segreti che lo affliggevano e, cioè, dei torti subiti ad opera dei Corleonesi e dei loro alleati; tutti i discorsi che mi faceva erano impostati su questo tema, poichè il mio interlocutore voleva convincermi che era giUsato farla finita finalmente con Totò Riina. Ovviamente, però, il Bontate non mi diceva nulla sulle attività di cui si occupava e quello che so ed ho riferito sul suo conto, l'ho appreso da altri. Ecco perchè nulla mi risulta sui Grado nè su altri membri della famiglia di Bontate in ordine al traffico di stupefacenti, anche se, come la S.V. mi informa, vi sono coinvolti come e più degli altri.

Circa l'esportazione negli Usa dell'eroina prodotta in Sicilia, ho appreso dal Bontate che Pippo Bono, in quel Paese, era uno dei massimi acquirenti della droga, ma non ne curava il trasporto dalla Sicilia negli Stati Uniti. Nel passato, invece, e cioè quando io conobbi i Cuntrera ed i Caruana ·in Canada, il Bono curava la consegna a costoro, in Europa, della droga e non già negli Usa

Quindi, il Bono non si è mai occupato del trasporto della droga; tuttavia mentre prima era un semplice intermediario nel traffico di stupefacenti, successivamente è divenuto uno dei maggiori punti di arrivo negli Usa dell'eroina prodotta in Sicilia. I Cuntrera e i Caruana pensavano, poi, al trasporto della eroina consegnata ad essi in Europa da Pippo Bono.

Tutte le famiglie palermitane, come ho già detto, sono coinvolte nel traffico degli stupefacenti.

è chiaro, però, che ogni capo famiglia stabilisce se ed in qual misura gli uomini d'onore della famiglia stessa possano partecipare a tale traffico. Ne consegue che, in tale partecipazione agli utili del traffico, vengono favoriti quelli maggiormente vicini al capo che sono ritenuti da quest'ultimo maggiormente utili ai suoi fini. In pratica, i più anziani ed i meno intraprendenti partecipano in misura irrisoria o addirittura vengono esclUsai dai benefici del traffico di stupefacenti.

So con certezza, perchè riferitomi da Stefano Bontate e dallo stesso Salvatore Inzerillo, che i più attivi nel traffico di eroina sono Giovanni Bontate ("l'avvocato"), Michele Greco, Pino Greco "scarpazzedda", Tommaso Spadaro, i Vernengo, GiUsaeppe Calò, Antonino Salamone, Bernardo BrUsaca, Salvatore Riina, Rosario Riccobono, Salvatore Inzerillo, Nino Pipitone, Pasquale Cuntrera, Pietro Lo Iacono, i Pullarà, Salvatore Scaglione, Gnoffo Ignazio, Salvatore Cucuzza, i Madonia, i D'Anna. Ma, ripeto, tutte le famiglie sono coinvolte e i nomi che ho detto sono quelli che maggiormente ricorrevano nei discorsi di Bontate ed Inzeril1o; ovviamente, tutti quanti partecipavano al traffico.

Un'altra particolarità del traffico di eroina era, sulla base dei discorsi di Bontate ed Inzerillo, che chi aveva partecipato al finanziamento dell'acquisto di una partita di morfina, poteva scegliere: o ritirare l'eroina dai laboratori e, poi, provvedere per proprio conto alla sua commercializzazione; oppure, attendere che i soliti canali l'esportassero negli Usa o altrove. La seconda ipotesi consentiva un maggior guadagno ma comportava la sottoposizione al rischio finanziario del sequestro della droga durante il trasporto.

LA COSA NOSTRA AMERICANA

Circa il coinvolgimento della mafia statunitense nel traffico di stupefacenti, posso riferire quella che è la mia esperienza, alla stregua di quanto ho potuto personalmente constatare durante la mia permanenza negli Usadal 1963 al 1970. Quando ero a Palermo, avevo appreso dai discorsi (generici) che si facevano su "Cosa nostra" americana, che tale organizzazione, di struttura analoga a quella siciliana, nel passato era stata collegata con quest'ultima, ma che i rapporti si erano troncati.

Ogni nuovo membro di Cosa nostra siciliana apprendeva questi concetti dai più anziani, dopo l'iniziazione.

E sapevo anche che, quando erano in vita tali collegamenti, era possibile per un uomo d'onore siciliano emigrato negli Usa divenire subito, in virtù di tale sua qualifica, membro di "Cosa nostra" americana. Negli Usa, invece, ho potuto notare che un uomo d'onore, ad esempio come me, non ha alcuna possibilità di intrattenere rapporti ufficiali con "Cosa nostra" americana. Di questa organizzazione fanno parte meridionali (e non soltanto siciliani) che sono già americani almeno di seconda generazione.

Trattasi di un'organizzazione molto efficiente e l'unica cortesia che ho ricevuta, è stata la segnalazione, da parte però di un estraneo alla organizzazione, della ditta presso la quale avrei potuto lavorare come manovale. E questa mia esperienza vale per tutti coloro che si sono trovati nella mia stessa condizione. In sostanza, accade che "Cosa nostra" prende informazioni sul nuovo arrivato e, se lo ritiene meritevole di aiuto, gli fa sapere il modo con cui può provvedere al proprio sostentamento. è assolutamente da escludere, quindi, che l'uomo d'onore siciliano, adesso, possa entrare a far parte di "Cosa nostra" americana. Ritengo che, ormai, sia troppo grande il divario culturale e di interessi fra le due organizzazioni perchè possa persistere un qualsiasi collegamento fra esse.

Per quanto attiene, in particolare, al traffico di stupefacenti, posso dire che, almeno nel periodo in cui ho vissuto negli Usa, vi era assoluto divieto per "Cosa nostra" americana di occuparsi di tale attività. Tutti coloro che negli Usa so essere coinvolti nel traffico della droga sono uomini d'onore di Cosa nostra siciliana, come, ad esempio, GiUsaeppe Ganci, Gaetano Mazzara, Salvatore Catalano, GiUsaeppe Bono e così via.

La S.V. mi ha mostrato le fotografie delle nozze di GiUsaeppe Bono, celebratesi negli Usa. Ho notato che nessuno degli invitati era indiziato di appartenenza a "Cosa nostra" americana e questo è estremamente significativo. Ovviamente, non sono in grado di escludere che, adesso, possa essere mutato l'atteggiamento ed il giudizio negativo di Cosa nostra americana nei confronti del traffico di stupefacenti, ma, fino a prova contraria, sarei portato a ritenere che l'antico divieto permanga tuttora".

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Il fiuto e l’intelligenza investigativa di Boris Giuliano. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 05 giugno 2023

Nell'ormai lontano 1979, il dottor Giuliano aveva scritto che "[...] è emerso, per come da tempo sospettato, che la mafia siciliana è rientrata nel traffico internazionale di stupefacenti con larga disponibilità di uomini e di mezzi, sfruttando, soprattutto, i canali delle grandi reti contrabbandiere di tabacchi lavorati esteri che operano nel sud-Italia e nelle isole sotto la ferrea guida di grossi nomi della mafia"

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Secondo le dichiarazioni di Buscetta, che sono da considerarsi pienamente attendibili, perchè riscontrate in generale da Contorno Salvatore e, in particolare, dalle numerose indagini sulla droga, fra i traffici più lucrosi di "Cosa nostra" vi era all'inizio, il contrabbando di tabacchi (anch'egli vi è stato coinvolto, con Giuseppe Savoca e Gaetano Scavone nel 1959. Ai vertici del contrabbando erano Nunzio La Mattina, Tommaso Spadaro e il napoletano Michele Zaza (Michele "o pazzo"), i quali agivano con proprie e distinte organizzazioni. In seguito, anche per i contrasti insorti tra costoro, e col pretesto di disciplinare il contrabbando di tabacchi in maniera più razionale, "Cosa nostra" si era praticamente impossessata del controllo del contrabbando di tabacchi, tanto che sia il La Mattina che Lo Spadaro erano divenuti "uomini d'onore" della "famiglia" di Pippo Calò (Porta Nuova), la stessa, cioè, del Buscetta in un secondo tempo, anche lo Zaza era divenuto "uomo d'onore", alle dirette dipendenze di Michele Greco, capo della "commissione" di Palermo.

Nel contrabbando erano interessate tutte le "famiglie", ivi compresa quella di Stefano Bontate, e quest'ultimo soleva ricordare al Buscetta, sorridendo, le astuzie dello Zaza al fine di eludere le regole dettate dalla "Commissione" per disciplinare il contrabbando, e, in particolare, lo sbarco nelle coste italiane.

Anche "Cosa nostra", per altro, al pari degli organi statuali, aveva sottovalutato il fenomeno del contrabbando di tabacchi, non considerando cioè, che lo stesso avrebbe portato i germi per lo snaturamento di alcune caratteristiche essenziali di questa organizzazione.

E difatti, la possibilità per ciascun "uomo d'onore" di allearsi con chiunque, ivi compresi gli estranei a "Cosa nostra", e gli ingenti guadagni derivanti dal contrabbando di tabacchi avevano prodotto, da un lato, il progressivo venir meno della rigida compartimentazione a livello gerarchico e della segretezza, che caratterizzavano la struttura delle "famiglie" sia pure coordinate tra loro attraverso la "commissione", dall'altro, avevano determinato un'accentuata disponibilità di mezzi finanziari, che, unitamente a quelli provenienti da altre illecite attività, aveva spianato la strada per l'ingresso in grande stile nel mercato dell'eroina.

Entrambe queste conseguenze, a giudizio di Buscetta, hanno creato i presupposti per lo snaturamento di "Cosa nostra", e sarebbero state ulteriormente aggravate dalla gestione del traffico di stupefacenti che aveva, sì, inondato la mafia di danaro, ma ne avrebbe, prima o poi, determinato la dissoluzione.

Quanto riferito da Buscetta, per averlo personalmente constatato nel periodo (secondo semestre 1980) trascorso a Palermo prima di espatriare nuovamente per il Brasile, si è rivelato estremamente preciso. Secondo il Buscetta, l'ingresso massiccio della organizzazione mafiosa nel mercato dell'eroina, in concomitanza col progressivo declino del contrabbando di tabacchi, sarebbe avvenuto nel 1978 e sarebbe stato propiziato, soprattutto, da Nunzio La Mattina, in virtù dei suoi contatti, determinati proprio dal contrabbando, con le fonti di produzione della droga.

In seguito, l'approvvigionamento della morfina-base per i laboratori siciliani era divenuto appannaggio esclusivo, oltre che del La Mattina, di Tommaso Spadaro e di Giuseppe Savoca, i quali, però, lavoravano ognuno per conto proprio e mantenevano gelosamente custodito il segreto sulle proprie organizzazioni. Successivamente, anche Antonino Rotolo era divenuto, secondo quanto riferitogli dal Bontate, un elemento-cardine per l'acquisizione della morfina-base.

Accanto ai soggetti che gestivano l'approvvigionamento della droga, altri ve n'erano che curavano la trasformazione della morfina base in laboratori clandestini, mentre altri ancora si occupavano del trasporto e dello smercio dell'eroina nei paesi consumatori.

Al riguardo, Buscetta ha fatto i nomi delle famiglie dei Cuntrera e dei Caruana per il Canada e, quale massimo esportatore di eroina per gli Usa, di Giuseppe Bono, il quale, mentre in un primo tempo curava direttamente anche il trasferimento dell'eroina, successivamente, divenuto il terminale negli Usa della droga esportata da "Cosa nostra", ne curava la vendita in quel Paese tramite Ganci Filippo. In buona sostanza, dunque, all'interno di "Cosa nostra", si sono create strutture autonome, ma funzionalmente collegate, addette alle varie fasi in cui si articola il complesso traffico di stupefacenti, mentre, gli "uomini d'onore" che non hanno responsabilità operative nel traffico, possono contribuirvi finanziariamente, condividendone, in varia misura, gli utili ed i rischi. Si è riprodotta, in sostanza, la stessa situazione del contrabbando di tabacchi, ma in misura molto maggiore e con profitti enormemente più alti.

Anzi, secondo il Buscetta, per chi partecipa solo finanziariamente al traffico di stupefacenti, vi è una duplice possibilità: o ritirare la propria quota del prodotto finito (eroina) e provvedere con i propri mezzi allo smercio della droga; o attendere che la stessa sia esportata negli Usa ed ottenere, quindi, un maggiore utile, partecipando, però, ai rischi di perdita del prodotto per effetto di sequestri da parte della Polizia.

Queste affermazioni del Buscetta hanno trovato riscontri notevolissimi e ricalcano quanto un fedele e sventurato servitore dello Stato ( il dirigente della Squadra Mobile di Palermo, dottor Giorgio Boris Giuliano) aveva già scritto diversi anni addietro.

Nell'ormai lontano 1979, il dottor Giuliano, in esito ad indagini accurate e fruttuose, aveva scritto, proprio in un rapporto di denunzia per traffico internazionale di stupefacenti contro Giuseppe Savoca ed altri, che "dal lavoro investigativo da cui è scaturito il presente rapporto è emerso, per come da tempo sospettato, che la mafia siciliana è rientrata nel traffico internazionale di stupefacenti con larga disponibilità di uomini e di mezzi, sfruttando, soprattutto, i canali delle grandi reti contrabbandiere di tabacchi lavorati esteri che operano nel sud-Italia e nelle isole sotto la ferrea guida di grossi nomi della mafia".

Nel procedimento sorto a seguito del rapporto di denunzia del dottor Giuliano, sono stati condannati da questo Tribunale, 1'11.6.1985, perché colpevoli di traffico di stupefacenti, Savoca Giuseppe, Savoca Rosolino, Pirrone Giacomo ed alcuni greci, mentre Scavone Gaetano è stato assolto per insufficienza di prove.

Deve dunque ascriversi ad ennesimo riconoscimento dell'abilità investigativa di Boris Giuliano, se quanto è emerso faticosamente solo adesso, a seguito di indagini istruttorie complesse e defatiganti, era già stato da lui esattamente intuito ed inquadrato diversi anni prima.

L'indicazione, dunque, di Giuseppe Savoca trova riscontro nelle indagini di Boris Giuliano, da cui è emerso, appunto, un ruolo del Savoca nel traffico degli stupefacenti corrispondente a quello riferito dal Buscetta. Ma anche in ordine agli altri personaggi indicati da quest'ultimo, l'istruttoria consente di affermare che gli stessi sono coinvolti nel traffico di stupefacenti, nei termini riferiti dal loro accusatore.

Una parte di questa sentenza è dedicata al ruolo di Tommaso Spadaro nel contrabbando di tabacchi, prima, e nel traffico di stupefacenti, poi; e la fondatezza delle conclusioni raggiunte è stata autorevolmente riconosciuta dal Tribunale di Firenze, che ha condannato lo Spadaro per un episodio della fase di distribuzione, costituente soltanto un aspetto del più vasto traffico emerso nel corso del presente procedimento.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

E Salvatore Contorno spiffera tutto sui traffici di eroina di Palermo. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 06 giugno 2023

Il sequestro dell'ingente quantitativo di droga è stato propiziato dalla collaborazione dell'italo-americano Frank Rolli, il quale aveva informato la Dea che i fratelli Adamita si sarebbero occupati, col suo aiuto, di spedire negli Usa un grosso quantitativo di eroina diretto ai fratelli Gambino e ad altri. Il Rolli aveva, poi, informato la Dea…

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Su Antonino Rotolo e su Nunzio La Mattina basta richiamare, poi, quanto è già stato riferito in ordine alle risultanze emerse dalle indagini conseguenti alle dichiarazioni di Paul Waridel, che confermano come il La Mattina e, dopo, il Rotolo, siano stati tra i maggiori acquirenti di morfina base per i laboratori siciliani.

Al riguardo, sembra a chi scrive che, forse, non si sarebbe potuta avere conferma più puntuale delle dichiarazioni di Buscetta. E ciò, senza tenere conto del ritrovamento di 6,5 chilogrammi di eroina, che una perizia tossicologica ha accertato provenire da un laboratorio di Alcamo (TP),rinvenuti 1'11.5.1983 nella villa, sita a Poggio S.Lorenzo (Rieti), nella disponibilità di Cercola Guido, collegato con Rotolo, Pippo Calò e Lorenzo Di Gesù.

E va rilevato, a sicura conferma dell'attendibilità di Buscetta, che, quando quest'ultimo ha parlato del ruolo di Rotolo e di La Mattina nel traffico di stupefacenti, ben poco era emerso, almeno a livello giudiziario, sull'importanza del ruolo dei predetti nel traffico di stupefacenti. A parte un procedimento penale in corso contro il La Mattina, in cui appariva che lo stesso si fosse reso responsabile di contrabbando di tabacchi piuttosto che di traffico di stupefacenti, nulla ancora di processualmente utilizzabile era stato accertato a carico del Rotolo.

Ma, nei confronti di quest'ultimo, il Buscetta, ha riferito anche che era "uomo d’onore” della "famiglia" di Brancaccio e che era inviso a Stefano Bontate perché cognato di un vigile urbano e perché troppo "vicino" a Giuseppe Calò. Ebbene, il Rotolo è effettivamente cognato del vigile urbano Monteleone Salvatore ed è stato arrestato a Roma insieme con Giuseppe Calò.

Di fondamentale rilievo probatorio, sia autonomamente, sia perchè costituiscono una puntuale conferma di quelle di Buscetta, sono anche le dichiarazioni di Contorno Salvatore.

Quest'ultimo, arrestato a Roma il 24.3.1982, ha già subito una condanna dal Tribunale di Roma per traffico di stupefacenti; sono stati rinvenuti, infatti, dalla Polizia, nella sua tenuta sulla Braccianese, circa 150 Kg. di hashish ed un chilogrammo di eroina, pura al 21t, oltre ad armi. Il Contorno, come si è visto, dopo un lungo travaglio, ha deciso di seguire la via di Tommaso Buscetta, collaborando con la Giustizia.

Egli, essendo un fedelissimo di Stefano Bontate, ha potuto conoscere fatti di cui altrimenti non sarebbe mai venuto a conoscenza; ed anzi in alcuni punti le notizie da lui fornite sono maggiormente precise e più ricche di particolari di quelle del Buscetta, fondandosi su esperienze personali.

Ne consegue che, se pur Contorno non ha la capacità di sintesi e l'intuito per trarre conclusioni di carattere generale su quanto da lui appreso, è comunque a conoscenza di fatti e circostanze utilissimi per le indagini, da cui è possibile trarre ugualmente conclusioni certe sul funzionamento del traffico di stupefacenti.

Un primo fatto rilevante riferito dal Contorno, riguarda il sequestro di quaranta chilogrammi di eroina avvenuto a Cedrate di Gallarate (Milano) il 18 marzo 1980. Tale episodio che è stato oggetto di indagini nel procedimento penale contro Spatola Rosario ed altri conclusosi con severe condanne, sostanzialmente confermate in grado di appello è stato ribadito ed arricchito di ulteriori particolari, nel presente procedimento, dallo stesso Contorno all'udienza del 15 aprile 1986.

Giova premettere che, come risulta dagli atti processuali, il sequestro dell'ingente quantitativo di droga è stato propiziato dalla collaborazione dell'italo-americano Frank Rolli, il quale aveva informato la Dea (organismo di polizia statunitense con funzioni antidroga) che i fratelli Adamita si sarebbero occupati, col suo aiuto, di spedire negli Usa un grosso quantitativo di eroina diretto ai fratelli Gambino e ad altri. Il Rolli aveva, poi, informato la Dea della presenza della droga negli scatoloni consegnati dagli Adamita all’Agenzia di spedizioni Jumbo di Cedrate di Gallarate e, quindi, era intervenuta la polizia, che aveva proceduto al sequestro.

Dalle indagini era emerso che la droga era pervenuta nell'abitazione di Adamita Antonio, sita a Vanzaghello (Milano), nascosta in scatole di cartone con ortaggi, e la moglie dell'Adamita, Tarello Marina, aveva dichiarato che la consegna era stata effettuata da un giovane siciliano alla guida di un furgoncino. Va rilevato che già allora vi era la sicurezza che la droga provenisse da Bagheria, essendo stati sequestrati a casa di Antonio Adamita gli scatoloni nei quali era contenuta l'eroina, recanti la stampigliatura della ditta Giuseppe Graziano di Bagheria; inoltre, all'interno di uno degli scatoloni, era stato rinvenuto un foglio del Giornale di Sicilia del 10.3.1980.

Di questo episodio occorrerà riparlare tra breve; intanto, giova osservare che le dichiarazioni del Contorno hanno confermato il luogo di provenienza dell'eroina, fornendo altri importanti riscontri circa l'organizzazione cui l'eroina era diretta. Il Contorno ha dichiarato, al riguardo, quanto segue: «Nei primi mesi del 1980, D'Agostino Emanuele, che in quel periodo era latitante, mi invitò ad andare con lui, guidando la mia autovettura.

Lo accompagnai, prima al deposito di ferro, sito all'uscita dell'autostrada per Bagheria, cui è interessato Leonardo Greco, poichè il D'Agostino aveva un appuntamento con quest'ultimo; quindi, poichè Leonardo Greco non era lì, accompagnai il D'Agostino, seguendo le sue indicazioni, in una casa di campagna sita nei pressi di Bagheria, che sarei in grado di indicare. Ivi il D'Agostino mi presentò, come "uomo d'onore", una persona che mi disse essere il fratello di Leonardo Greco abitante negli Usa.; mi precisò che tutti i Greco, fratelli di Leonardo, erano "la stessa cosa".

L'incontro, come ho avuto modo di notare, aveva come scopo la spedizione di una partita di eroina di circa 40 chili, negli Usa Vi erano, infatti, altri uomini, che mi sembrarono stranieri, che non mi furono presentati e che, forse, sarei in grado di riconoscere. Costoro accertarono se la droga fosse di buona qualità.

Non capii bene il procedimento usato, ma vidi pacchi di cellophane contenenti una sostanza bianca, qualcosa che bolliva su un fornello e una puzza intensa di acido, nonchè dei piccoli contenitori di vetro. Io, per discrezione, mi appartai, andandomene fuori in macchina, anche perchè l'aria era divenuta irrespirabile.

Dopo un pò, D'Agostino uscì e andammo via insieme. Lungo il tragitto egli mi spiegò che quelli da me visti erano gli acquirenti americani della droga. Mi spiegò anche che si trattava di merce appartenente a diverse persone e che si stava preparando la spedizione in un'unica volta.

Mi disse che, per distinguere le varie partite, poichè non veniva provata la qualità di tutti i pacchi di cellophane contenenti l'eroina, si apponevano dei segnali convenzionali sui pacchi stessi (segni di matita, tagli di estremità dei pacchi e così via), in modo che si potesse distinguere se e quale partita non fosse buona. Se mal non ricordo, ogni pacco era di circa cinquecento grammi. Dopo un paio di giorni, fu data grande pubblicità sui giornali al sequestro di una partita di 40 Kg. di eroina, avvenuto presso Milano, e il D'Agostino mi informò dell'accaduto e mi disse che si trattava proprio di quella partita di droga di cui ho parlato».

In successive dichiarazioni, il Contorno ha precisato che, a Bagheria, egli e il D'Agostino, dopo di essersi recati nel magazzino di Leonardo Greco, non avendolo trovato, lo avevano incontrato nella piazza principale di Bagheria.

Greco era in compagnia (ovviamente non casuale) di Orazio Saccone ("uomo d'onore", come il Contorno e il D'Agostino, della "famiglia" di S.Maria di Gesù) e li aveva fatti accompagnare, da un suo uomo (rimasto non identificato), nella casa di campagna di cui si è detto. Ebbene, l'ispezione dei pacchi di eroina sequestrati agli Adamita il 18 marzo 1980, tuttora custoditi nell'ufficio corpi di Reato del Tribunale di Milano, ha consentito di accertare che sui sacchetti di cellophane contenenti la droga erano stati apposti quei segni convenzionali (numeri di vario colore, segni di X, tagli alle estremità) minuziosamente descritti dall'imputato.

Questo obiettivo ed indiscutibile riscontro delle dichiarazioni del Contorno ne conferma appieno l'attendibilità ed è suscettibile di adeguata valorizzazione anche ai fini della ricostruzione delle modalità e della unitarietà del traffico degli stupefacenti. Ove poi si aggiunga che, su richiesta del pm, all'udienza del 3 dicembre 1986 è stato acquisito il fascicolo fotografico, allegato ad un rapporto della Criminalpol del 26 settembre 1966, in cui è ritratta la casa di "Torre Chieranda" di D'Amico Antonino, riconosciuta dal Contorno come quella in cui si svolge il descritto episodio, si ha la precisa sensazione che il Contorno ha riferito i fatti a sua conoscenza con assoluta aderenza alla realtà. Occorre ora richiamare che il Contorno ha fornito la conferma di quanto riferito dal Buscetta circa una particolarità del traffico degli stupefacenti con gli Usa: quella, cioè, della unicità di trasporto di partite di droga appartenenti a diversi proprietari.

Il segnale di riconoscimento sui pacchi di cellophane aveva, infatti, l'unica finalità di stabilire la provenienza dei pacchi e, con ciò stesso, è dimostrato che si trattava di partite di droga di diversa provenienza, ma spedite contestualmente.

Inoltre, le esalazioni fastidiose che avevano indotto il Contorno ad abbandonare la stanza, sono la dimostrazione che la qualità della droga veniva controllata pacco per pacco prima della spedizione, e ciò per evitare il ripetersi di numerosi casi in cui, (vedi episodio processo Mafara di corriere arrestato con droga proveniente dagli Usa) all'arrivo veniva contestata la qualità e la percentuale di raffinazione dell'eroina. Il sistema adottato serviva a scoraggiare eventuali tentativi truffaldini e, comunque, ad individuare le responsabilità dei singoli produttori.

Al dibattimento (udienza 15.4.1986), il Contorno ha ulteriormente precisato che a compiere tali operazioni erano, oltre a persone sconosciute dall'accento americano, Ganci Giuseppe ("famiglia" di S. Giuseppe Jato), Mazzara Gaetano ("famiglia" di Ciminna), Castronovo Francesco e Greco Salvatore cl.1933 ("famiglia" di Bagheria).

Ciò a conferma della partecipazione di "uomini d'onore" di più "famiglie".

Altre utilissime precisazioni sono state fornite da Salvatore Contorno sulle modalità del traffico di stupefacenti, in piena aderenza con quanto dichiarato dal Buscetta e in gran parte riscontrate da pregresse indagini giudiziarie. Da tali dichiarazioni emerge, ancora una volta, che la gestione del traffico di eroina coinvolge "Cosa nostra" nella sua globalità.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Così la mafia siciliana passò dal contrabbando di bionde alla droga. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSIE su Il Domani il 07 giugno 2023

Nel corso del dibattimento, il Contorno ha aggiunto ulteriori ed interessanti particolari, ha chiarito con quali sistemi e con quali tecniche si occultava la droga durante i trasporti (es: sotto le pedane di legno usate negli autocarri per accatastare le mattonelle). Ha, poi, precisato che il traffico degli stupefacenti era saldamente sotto il pieno controllo di "Cosa nostra" palermitana e che tutte le "famiglie" di "Cosa nostra" e gli "uomini d'onore" vi partecipavano...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Tralasciando quanto riferito dal Contorno sui singoli personaggi coinvolti nel traffico di stupefacenti (di cui si terrà conto nell'esaminare la posizione processuale degli imputati), e soffermandoci sugli aspetti generali del traffico degli stessi, le sue dichiarazioni sull'argomento possono così riassumersi: a Palermo operavano almeno tre laboratori di eroina, mentre ve n'era un altro in territorio di Mazara del Vallo, gestito dalla "famiglia" di Mariano Agate, intimo amico di Francesco Mafara e conosciuto personalmente dal Contorno perché entrambi, come tanti altri, frequentavano assiduamente Michele Greco.

Un'altra raffineria era installata nel baglio "Favarella" di Michele Greco e nalla stessa il Contorno vide lavorare i fratelli Giuseppe e Rocco Marsalone. Successivamente, Michele Greco, preoccupato del viavai di persone che frequentavano il baglio Favarella, aveva fatto spostare il laboratorio presso il primo piano di una casa di Salvatore Prestifilippo a Croce Verde Giardini, che è stata identificata e riconosciuta dal Contorno in via Ciaculli n.280/A, 282/A e 284/A.

Marchese Mariano gestiva nei suoi fondi, a Villa Ciambra, per conto di Bernardo Brusca, un laboratorio di eroina. I Vernengo sicuramente gestivano un laboratorio d'eroina, anche se il Contorno non ne aveva mai conosciuto l'ubicazione. Anzi, Antonino Vernengo, inteso "u dutturi", aveva fama di provetto chimico ed aveva addestrato, per la trasformazione della morfina-base in eroina, Francesco Marino Mannoia, Vernengo Luigi, Vernengo Cosimo, De Simone Antonino, Costantino Antonino, Vernengo Giuseppe fu Giovanni, Vernengo Ruggero.

Anche Pietro Vernengo ed il genero Urso Giuseppe erano stati addestrati da Antonino Vernengo, divenendo esperti "chimici"; Antonino Vernengo, a sua volta, era stato istruito da un italiano, del quale però il Contorno non ricordava più il nome.

I Savoca non gestivano un proprio laboratorio, ma si occupavano, in collegamento con Nunzio La Mattina, dell'importazione di morfina-base, che veniva poi trasformata nel laboratorio dei Vernengo.

Anche Tommaso Spadaro si occupava dell'importazione di morfina base ed anche di esportazione dell'eroina, ma non aveva un proprio laboratorio, come, del resto, Salvatore Inzerillo.

La "famiglia" di Mazara del Vallo (Mariano Agate) e quella di San Giuseppe Jato (Bernardo Brusca) sono strettamente collegate coi corleonesi anche nel traffico di stupefacenti; uomo di punta è Giuseppe Ganci, fedelissimo di Giuseppe Bono. Orazio Saccone lo aveva informato che Oliviero Tognoli era "nelle mani" di Leonardo Greco, il quale lo utilizzava per le sue finalità.

Nel corso del dibattimento, il Contorno, oltre a reiterare tali dichiarazioni, aggiungendo ulteriori ed interessanti particolari, ha chiarito con quali sistemi ed usando quali tecniche si occultava la droga durante i trasporti (es: sotto le pedane di legno usate negli autocarri per accatastare le mattonelle).

Ha, poi, precisato che il traffico degli stupefacenti era saldamente sotto il pieno controllo di "Cosa Nostra" palermitana e che tutte le "famiglie" di "Cosa Nostra" e gli "uomini d'onore" vi partecipavano, tranne Panno Giuseppe, "rappresentante" della "famiglia" di Casteldaccia e Bontate Stefano, "rappresentante" di quella di S. Maria di Gesù.

Costoro, dati gli ingenti profitti che la droga procurava, non potevano, tuttavia, evitare che i loro adepti, ai quali non erano in grado di garantire i medesimi guadagni con altre attività illecite, si inserissero nel traffico. Inoltre, Contorno ha confermato che l'organizzazione si serviva anche di estranei, dato che l'ansia di arricchirsi aveva sconvolto le menti di tutti e, pur di guadagnare miliardi, non si stava più attenti se tal uno, impostosi come pedina importante e necessaria di una determinata fase del traffico, non fosse "uomo d'onore".

I canali del traffico per far pervenire la morfina-base, l'eroina o l'hashish in grosse quantità, rimanevano quelli tradizionali del contrabbando di sigarette (Turchia, Bulgaria) ed erano conosciuti e utilizzati, anche secondo Contorno, le cui dichiarazioni riscontrano in pieno quelli di Buscetta, da La Mattina Nunzio, Spadaro Tommaso, Savoca Giuseppe, Agate Mariano e Rotolo Antonino.

L'enorme vantaggio rispetto alle sigarette di contrabbando, afferma Contorno, era anche costituito dal volume della merce in relazione al suo valore e dalla conseguente possibilità di effettuare sbarchi della sostanza stupefacente in qualsiasi momento ed in qualsiasi luogo, tramite velocissimi motoscafi d'alto mare, difficilmente intercettabili dagli organi di vigilanza navale.

Gli ingenti capitali per finanziare il traffico, venivano poi approntati, anche qui secondo il collaudato sistema del contrabbando di tabacchi, "a caratura", cioè a quota-parte cui avrebbe in seguito corrisposto un guadagno in percentuale.

In genere, a fornire tali mezzi finanziari erano chiamati dai capi, con necessarie funzioni di coordinamento e di direzione, gli "uomini d'onore" delle rispettive "famiglie", scelti tra i più validi e meritevoli, però, afferma Contorno, qualche affiliato avrebbe potuto ricevere segretamente ed in via del tutto personale danaro da parenti ed amici ed incrementare la propria quota di partecipazione.

In relazione ad ogni carico di sostanza stupefacente vi era una precisa divisione di compiti, per cui taluni provvedevano ad importarla, altri a raffinarla ed altri ancora a spedirla, preferibilmente negli Usa, perchè era quello il mercato che garantiva i più lauti guadagni, anche se aumentavano rischi. Tra coloro che avevano creato canali privilegiati per la spedizione negli Usa, Contorno ha citato parecchi nomi tra cui anche Spadaro Tommaso, Savoca Giuseppe, Ganci Filippo e Milano Nicolò, entrambi collegati con i fratelli Bono, Catalano Salvatore, Mazzara Gaetano, Castronovo Francesco, Greco Salvatore cl.1933, Greco Leonardo, Inzerillo Salvatore ed altri.

Circa i rapporti con gli associati campani e catanesi, Contorno ha riferito che, di volta in volta, costoro si inserivano nella fase più conveniente per entrambe la parti, sia ai fini dell'approvvigionamento, sia ai fini della spedizione che, però, effettuavano a loro rischio e pericolo. Mentre la raffinazione, lascia intendere il Contorno, rimaneva sempre appannaggio delle "famiglie" palermitane.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSIE

La morfina, i chimici marsigliesi e l’omicidio dell’innocente Carmelo Iannì. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani l'08 giugno 2023

Nel 1980 in località Rovetto del Comune di Trabia è stato individuato un laboratorio di eroina, collegato ad un deposito sito in contrada Giummarra del Comune di Carini. Nella complessa operazione è stato coinvolto Gerlando Alberti; fra gli arrestati vi erano diversi francesi, che sicuramente avevano il ruolo di "chimici". Dopo pochissimi giorni da tale operazione, l'albergatore Iannì, che aveva collaborato con gli inquirenti, era stato spietatamente ucciso nell'hotel "Riva Esmeralda"

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Queste dichiarazioni del Contorno sono il frutto di conoscenze acquisite nell'ambito di "Cosa nostra", per avere egli personalmente partecipato, come del resto ha esplicitamente ammesso, al traffico di stupefacenti. Si tratta di affermazioni che completano e confermano le dichiarazioni di Buscetta e che trovano riscontro sia in precedenti indagini giudiziarie, sia, del resto, in quelle svolte nel presente procedimento.

Basti ricordare, al riguardo, quanto segue:

Il 25.8.1980, in località Rovetto del Comune di Trabia (Palermo), in un appartamento di proprietà di Vitale Anna, è stato individuato un laboratorio di eroina, collegato ad un deposito sito in contrada Giummarra del Comune di Carini, appartenente a Buccola Matteo. Nella complessa operazione è stato coinvolto Gerlando Alberti, elemento di spicco della "famiglia" di Giuseppe Calò (Porta Nuova); fra gli arrestati vi erano diversi francesi, che sicuramente avevano il ruolo di "chimici" (Bousquet Andrè, Ranem Jean Claude, Champion Jean Claude).

Dopo pochissimi giorni da tale operazione, l'albergatore Jannì, che aveva collaborato con gli inquirenti, era stato spietatamente ucciso nell'hotel "Riva Esmeralda". Per il traffico di stupefacenti e per l'omicidio dello Jannì, Gerlando Alberti ha riportato severe sentenze di condanna davanti al Tribunale ed alla Corte di Assise di Palermo. Recentemente, è stato condannato anche dal Tribunale di Venezia per i suoi collegamenti coi fornitori della morfina base.

Il 15.9.1980, nella via Villagrazia di Palermo, a seguito di un incendio, è stato scoperto un laboratorio di eroina; per tale episodio, sono già stati rinviati a giudizio Mondino Michele e la sorella Mondino Gaetana, ma le indagini sono ancora in corso. Della scoperta del laboratorio di via Messina Marine, avvenuta 1'11.2.1982, e della sua appartenenza ai Vernengo si tratterà ampiamente in seguito.

Il 30.4.1985, è stato scoperto, in contrada "Virgini" di Alcamo, un laboratorio e, fra gli altri, è stato arrestato Milazzo Vincenzo, indicato da Salvatore Contorno come "uomo d'onore" della "famiglia" di Alcamo.

Nel procedimento penale contro Mafara Francesco ed altri, instauratosi a seguito dell'arresto, a Roma, del belga Albert Gillet, il quale portava con sè quasi dieci chilogrammi di eroina, sono emersi chiarissimi collegamenti fra Francesco Mafara, "uomo d'onore" della "famiglia" di Brancaccio, e Mariano Agate, "rappresentante" di quella di Mazara del Vallo.

Il Gillet, che ha ampiamente collaborato con la Giustizia, ha dichiarato di aver conosciuto l'Agate a casa del Mafara, sostenendo che anche il primo era coinvolto nel traffico di stupefacenti; fra l'altro, sono stati acquisiti riscontri documentali delle dichiarazioni del Gillet (una lettera inviata a quest'ultimo da Mariano Agate).

Il Gillet, inoltre, ha fornito indicazioni sulla provenienza dell'eroina che, pur non consentendo la localizzazione del laboratorio, già allora inducevano a ritenere che fosse ubicato in territorio di Mazara del Vallo. Deve soggiungersi che, sia in primo grado, sia in grado di appello, è stata riconosciuta la colpevolezza dell'Agate.

Del ruolo di Spadaro Tommaso, Savoca Giuseppe e La Mattina Nunzio nel traffico di stupefacenti si è già ampiamente trattato e si è detto, del pari, che gli stessi non gestivano propri laboratori.

Per quanto riguarda Salvatore Inzerillo, nel procedimento penale contro Spatola Rosario ed altri, è emerso, appunto, che quest'ultimo si occupava soprattutto dell'esportazione dell'eroina negli Usa., in stretto collegamento coi suoi potenti cugini, abitanti a New York, John, Rosario e Gambino Giuseppe.

Anche Mafara Francesco, del resto, come è emerso dal procedimento penale a suo carico, non disponeva di propri laboratori ed era addetto all'esportazione negli Usa. dell'eroina; ciò, conferma ancora di più l'attendibilità dell'accusa del Contorno circa i collegamenti fra il Mafara e Mariano Agate, produttore di droga, per la fornitura e le spedizioni dell'eroina in Usa.

Inoltre, nell'ambito delle indagini svolte in collaborazione con tale paese, inerenti al traffico di stupefacenti, i rapporti tra il Tognoli e Greco Leonardo risultano confermati dal fatto che entrambi sono stati controllati, il 10.7.1981, al valico di Ponte Chiasso, diretti in Svizzera.

Quanto si è detto finora è la rapidissima sintesi di anni di indagini e di investigazioni istruttorie e dibattimentali. Dovrebbe, comunque, essere ormai chiarissimo che singoli episodi e distinti procedimenti penali, alcuni dei quali ormai definiti, concernenti il traffico internazionale di stupefacenti, sono tante tessere di un unico mosaico e rappresentano, sotto angolature volta a volta diverse, ma sempre parziali, un'unica realtà: che è quella della gestione del traffico da parte di "Cosa nostra" palermitana.

Il che, a prima vista, sembrerebbe in contrasto con la premessa da cui si era partiti, e, cioè, della inapplicabilità del delitto di cui all'art. 75 Legge stupefacenti a tutti gli appartenenti a "Cosa nostra" in quanto tali. Ma non è così.

Proprio dalle dichiarazioni di Buscetta e di Contorno è emerso, infatti, che, sotto il controllo della "Commissione", le aggregazioni per il traffico di stupefacenti si realizzano fra uomini d'onore appartenenti a "famiglie" diverse, ed anche con soggetti che non sono mafiosi e che prestano la loro opera unicamente per il traffico stesso.

Inoltre, i vari capi-famiglia, nello stabilire la partecipazione al traffico dei propri "soldati", determinano le modalità, anche finanziarie, di partecipazione di ciascuno di essi, potendo perfino escluderli. Infatti, i più anziani e meno validi "uomini d'onore" generalmente non vengono coinvolti nel traffico, e non è nemmeno da escludere che alcuni, per libera scelta, come nel caso di Bontate Stefano e Panno Giuseppe, preferiscano non parteciparvi.

Infine, è emerso che alcune "famiglie" dell'entroterra siciliano risultano estranee a queste attività, come accertato attraverso le dichiarazioni di Marsala Vincenzo. Costui ha fornito un interessante elemento di ulteriore riscontro circa la gestione del traffico a livello di organi direttivi e la compartecipazione "a caratura" al contrabbando di tabacchi.

Racconta il Marsala, che il capo-mandamento Gigino Pizzuto aveva offerto a suo padre la possibilità di guadagnare qualcosa nell'ambito appunto, del contrabbando di tabacchi e lo aveva invitato ad avvertire tutti gli affiliati e ad incassare le somme che costoro volevano· investire, promettendone la restituzione nel giro di tre mesi con un interesse del 40 per cento.

Poichè nessuno volle aderire, soltanto il padre del Marsala consegnò al Pizzuto L.5.000.000, ricevendone dopo qualche mese 5.800.000, con un guadagno inferiore al previsto.

Aggiunge il Marsala che il padre avrebbe voluto reinvestire tutta la somma, ma il Pizzuto gli rispose che in quel momento non c'era possibilità di ulteriori affari. Successivamente, il Marsala, nel confermare l'episodio dinanzi al giudice, accomunava il traffico di stupefacenti al contrabbando di tabacchi, precisando che l'organizzazione "Cosa nostra" consentiva di investire danaro in tali affari illeciti, che, però, venivano gestiti direttamente soltanto da un determinato gruppo di "famiglie".

A questo punto, si deve convenire che - ferma la conclusione che "Cosa nostra" controlla il traffico dell'eroina - occorre stabilire, volta per volta, se ogni singolo "uomo d'onore" vi sia coinvolto.

Indubbiamente, sarebbe molto più agevole ritenere l'equazione "mafioso uguale trafficante di stupefacenti"; ma la realtà non è in questi termini e bisogna, ovviamente, tenerne conto, in rigoroso ossequio al principio della personalità della responsabilità penale. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

I fratelli Grado, i trafficanti turchi e la grande mattanza di mafia. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 09 giugno 2023

Nel corso delle indagini sul traffico di stupefacenti, si è accertato che fino alla primavera del 1981 il ruolo di importatori era ricoperto dai fratelli Grado (Gaetano, Antonino, Vincenzo, Salvatore e Giacomo), che, coinvolti nella "guerra di mafia" che seguì l'omicidio di Bontate Stefano ed al tentato omicidio di Contorno Salvatore, loro cugino, dovettero abbandonare l'Italia per evitare di essere uccisi...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Nel corso delle indagini sul traffico di stupefacenti, si è accertato che l'organizzazione mafiosa "Cosa nostra" dal 1978 al 1983, pressocchè senza soluzione di continuità , si è rifornita di morfina base proveniente dalla Turchia.

Fino alla primavera del 1981 tale ruolo di importatori per conto delle "famiglie" mafiose era ricoperto dai fratelli Grado (Gaetano, Antonino, Vincenzo, Salvatore e Giacomo), i quali, coinvolti nella c.d. "guerra di mafia" che seguì all'omicidio di Bontate Stefano ed al tentato omicidio di Contorno Salvatore, loro cugino, dovettero abbandonare l'Italia per evitare di essere uccisi, lasciando il campo ad altri "uomini d'onore".

Da quel momento, il compito di rifornire i laboratori clandestini siciliani per la trasformazione della morfina in eroina, venne affidato a La Mattina Nunzio, che poteva sfruttare i suoi canali già collaudati per il contrabbando di tabacchi, facendosi coadiuvare dal genero Priolo Salvatore, che risiedeva stabilmente in Svizzera.

Dopo l'arresto del La Mattina, avvenuto a Roma il 27 novembre 1981, il Priolo, che continuava a mantenere i contatti con i trafficanti turchi, venne affiancato da Rotolo Antonino. Il riscontro a tali attività d'importazione di stupefacenti, è fornito dal notevole afflusso di dollari statunitensi che veniva utilizzato anche per pagamenti delle ulteriori forniture, nonchè dall'esito delle indagini bancarie svolte in Svizzera.

In tutto questo periodo, la quantità di morfina base importata (400 kg. per volta), le masse di capitali investiti, il coinvolgimento di personaggi di primo piano dell'associazioni mafiosa, quali i Grado, il La Mattina, il Rotolo, Greco Leonardo, confermano che le descritte operazioni rientrano nella gestione unitaria del traffico di stupefacenti controllato e diretto da "Cosa nostra".

A carico dei fratelli Grado (Gaetano, Antonino, Vincenzo, Salvatore e Giacomo) sono state acquisite prove certe del loro coinvolgimento in un traffico di stupefacenti (morfina base ed eroina) di notevoli proporzioni. Le indagini, particolarmente complesse, costituiscono il proseguimento dell'istruttoria, condotta dal Giudice Istruttore di Trento, in ordine ad un imponente traffico di morfina base proveniente dalla Turchia e dal medioriente e destinata ai laboratori clandestini siciliani per la trasformazione in eroina.

Tale istruttoria ha evidenziato, attraverso le ammissioni di diversi imputati e testi, il ruolo di Vincenzo Grado e dei suoi fratelli quali acquirenti, dal 1978 ai primi mesi del 1981, di enormi quantità di morfina base nonché quali grossi fornitori di eroina per il mercato dell'Italia Settentrionale e di Milano in particolare, in collegamento con le famiglie dei Ciulla e dei Fidanzati.

Nel presente procedimento, le indagini hanno ricevuto un primo, notevole impulso dalla collaborazione di Alessandro Zerbetto e, ancor di più, di Totta Gennaro, che ha consentito di localizzare ed arrestare Vincenzo Grado, nascosto con D'Agostino Rosario nella sua splendida villa di Besano, e individuare i più stretti collaboratori dei Grado nel traffico di stupefacenti e, cioè, Rodolfo Azzoli, Gioacchino Matranga, Zarcone Giovanni. Rodolfo Azzoli, in particolare, individuato in Spagna ed estradato in Italia, ha anch'egli ammesso le sue responsabilità e, con la sua collaborazione, ha consentito ulteriori importanti passi avanti nelle indagini istruttorie.

Le sue affermazioni, in ordine alla provenienza della droga dai Grado, hanno trovato sostanziale conferma nelle dichiarazioni di Arcangeli Romolo e Crespiatico Agostina, già condannati per traffico di stupefacenti.

è stato altresì possibile, grazie alla fattiva collaborazione, anche a livello giudiziario, delle Autorità Spagnole, accertare che numerosi immobili sono stati acquistati a Benidorm (Alicante) dai Grado sotto falsi nomi e con danaro proveniente da conti svizzeri, acquisendo così un significativo riscontro circa la disponibilità di ingenti mezzi finanziari da parte dei medesimi e circa l'illiceità della origine della loro ricchezza.

Anche tale Giovanni Perina di Verona (inteso "Ciccio"), uno dei maggiori acquirenti di eroina dai Grado, ha ammesso, seppur parzialmente, i fatti, consentendo di riscontrare, ancora una volta, la validità dei risultati probatori raggiunti.

Attraverso le indagini bancarie, poi, è stato possibile dimostrare che dall'Italia Settentrionale sono affluiti, in conti correnti e libretti di deposito a risparmio costituiti presso banche palermitane e manovrati soprattutto da Giacomo Grado, danaro contante e assegni per un importo complessivo veramente ingente, somme utilizzate in gran parte per acquistare immobili e per finanziare imprese edilizie, nelle quali era interessato Pietro Teresi, cognato dei fratelli Grado.

Proprio le acquisizioni istruttorie su questo traffico di stupefacenti, come si vedrà meglio in seguito, offriranno un notevole contributo per una migliore comprensione del fenomeno mafioso e delle strutture e dinamiche di "Cosa nostra", evidenziandosi una precisa convergenza tra i destinatari dei titoli di credito e la loro appartenenza all'associazione.

Le risultanze delle indagini istruttorie del G.I. di Trento, sono state riunite al presente procedimento a seguito di sentenza di incompetenza emessa da quel G.I. il 20.1.1983, nei confronti di Grado Antonino, Grado Salvatore, Grado Vincenzo, Fidanzati Antonino, Fidanzati Carlo, Fidanzati Gaetano e Totta Gennaro, imputati di associazione per delinquere ed associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.

Di notevole rilevanza appaiono, anzitutto, in quella istruttoria, le dichiarazioni del siriano Wakkas Salah Al Din, uno dei maggiori fornitori dei Grado. Secondo il Wakkas, la famiglia turca dei Cil, già intorno al 1976, aveva iniziato un vasto traffico di stupefacenti con l'Italia, utilizzando come uomo di fiducia il turco Zaki Kirgul, il quale aveva posto in contatto, a Milano, Wakkas con Salvatore Grado ("Totuccio") e con "Giovanni" (Giovanni Zarcone, come si vedrà appresso).

Tale Ozkan gli aveva poi spiegato che da tempo la famiglia Cil forniva morfina base al Totuccio tramite Avni, Bairan e Zaki. Il Wakkas, che aveva avuto diversi incontri con Salvatore Grado e con "Giovanni" per concordare le modalità di fornitura della morfina e del pagamento della droga, si è così espresso testualmente: ... Appresi che la merce veniva trasportata su autocarri TIR provenienti dalla Turchia, che portavano merci per l'Europa,..... frutta o pelli, quantitativi trasportati erano al minimo di 50 kg di morfina base. I viaggi avvenivano ogni due-tre settimane. Tale morfina veniva poi consegnata a Milano al Totuccio e di là trasportata in Sicilia, a Palermo. Sentii che tale merce veniva poi inoltrata negli Stati Uniti.

Il Wakkas riferiva, ancora, di avere partecipato nel gennaio 1981, ad un incontro tempestoso, avvenuto fra i turchi e "Totuccio", il quale, essendo debitore di una somma superiore al miliardo di lire, adduceva difficoltà di pagamento; riferiva, poi, di un secondo incontro, nel marzo 1981, nel quale il Totuccio ed il Giovanni avevano comunicato l'intenzione di uscire dal giro perchè nell'impossibilità di pagare i debiti.

Successivamente, il Wakkas aveva appreso da tale Galip che quest'ultimo si era messo in contatto con un napoletano il quale, dopo avere promesso di pagare vecchi debiti dei siciliani, lo aveva condotto a Palermo, dove un personaggio, conoscente della famiglia Grado, nel garantire il pagamento dei debiti di questi ultimi, aveva concordato la prosecuzione delle forniture di droga e gli aveva dato un acconto di 150.000 dollari.

In seguito, il Galip, gli aveva riferito di avere già fornito ai nuovi clienti 50 kg. di eroina che però non andava bene per il mercato americano. Il Wakkas ha confermato tali dichiarazioni, il 28.2.1983 al P.M. di Palermo, precisando che il "napoletano" era un contrabbandiere molto noto e che i 50 kg. di eroina erano stati consegnati a Roma.

Ancora più significative sono le dichiarazioni dell'egiziano Sami Saleh; questi, oltre a confermare testualmente quanto dichiarato dal Wakkas, ha riferito che quest'ultimo era abituale fornitore dei fratelli Grado, e cioè di Salvatore, di Vincenzo e di un terzo mancante di alcune dita di una mano (Grado Antonino); egli stesso, nel 1979, aveva accompagnato a Palermo un autista turco di Wakkas, per consegnare ai tre fratelli Grado un carico di 11/12 kg di morfina-base.

Ha soggiunto che uno dei fornitori di Wakkas era Al Awad e che, nell'estate 1979, era stato a Catania con quest'ultimo e, in altra occasione, con Canoun per incontrarsi con i siciliani per motivi inerenti al traffico di stupefacenti. […] Il contenuto delle dichiarazioni sopra riportate è sostanzialmente rispondente a quanto confermato da altri imputati coinvolti a vario titolo nello smercio di stupefacenti nell' Italia Settentrionale.

Costoro hanno reso ampie confessioni, fornendo indicazioni sulla rete di spacciatori nell'Italia Settentrionale e, soprattutto, a Milano, sulla provenienza della eroina (laboratori siciliani) e sui personaggi che gestivano il traffico di stupefacenti (famiglie dei Ciulla, dei Fidanzati, dei Grado). Tali dichiarazioni appaiono precise ed attendibili, anche perchè riscontrate in punti di non secondaria importanza.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Gli affari molto sporchi del signor “Carlo”, al secolo Antonino Rotolo. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 10 giugno 2023

Arrestato La Mattina, Waridel aveva ripreso la sua funzione di interprete su incarico del Musullulu per i suoi contatti cogli acquirenti siciliani della droga; aveva, così, conosciuto Priolo Salvatore e tale "Carlo" identificato in fotografia per Rotolo Antonino; il Rotolo si era presentato agli incontri come il fiduciario dei "siciliani che stavano dietro al La Mattina"...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Venuta meno la fonte di approvvigionamento dei fratelli Grado per le note vicende della c.d. "guerra di mafia", "Cosa nostra" si rivolse per il rifornimento della materia prima da trasformare negli attivissimi laboratori siciliani di produzione dell'eroina e La Mattina Nunzio, "uomo d'onore" della "famiglia" di Porta Nuova, che aveva dei canali privilegiati e dei collegamenti con il medio Oriente già collaudati per il contrabbando di tabacchi.

Le fonti processuali di questa fase del traffico di stupefacenti sono costituite dalle rogatorie internazionali esistenti in atti e da quelle espletate direttamente da questa Corte e allegate all'udienza del 5 dicembre 1986 che riguardano Waridel Paul Edward, Palazzolo Roberto Vito e Donada Remo. Va innanzitutto precisato che il Waridel per una forma di protesta, susseguente probabilmente al mancato ottenimento di concreti benefici dopo anni di detenzione, non ha inteso continuare nella collaborazione prestata, rifiutandosi di rispondere dinanzi a questa Corte.

Tuttavia, si ritiene che le sue precedenti dichiarazioni validamente acquisite agli atti, pur con i limiti di utlizzabilità previsti dalla riserva di specialità fatta valere dal governo elvetico, e di cui si è data lettura all'udienza del 12 dicembre 1986, ai sensi dell'art.344 bis, appaiono perfettamente attendibili in quanto riscontrate nei punti essenziali da numerosi elementi processuali.

Alla stregua delle precise e dettagliate dichiarazioni rese dal predetto imputato di reato connesso sia ai giudici italiani, che svizzeri e statunitensi, in periodo compreso dal 29 aprile al 26 novembre 1985, è stato possibile individuare in Musullulu Yasar Avni, un turco residente in Zurigo il fornitore di ingenti quantitativi di morfina Base di produzione turca, in un primo momento, dalla primavera al novembre 1981, a La Mattina Nunzio ed al genero Priolo Salvatore, e successivamente allo stesso Priolo ed a Rotolo Antonino.

Si è potuto accertare che la morfina base veniva trasportata dalla Turchia con una nave di Musullulu, battente bandiera panamense e trasbordata al largo delle coste siciliane su pescherecci dell'organizzazione acquirente.

Il Waridel ha fatto una cronistoria dei fatti precisa, ricca di particolari e attendibile, di cui si mettono in rilievo alcuni punti essenziali: aveva conosciuto nel carcere di Roma dove era stato detenuto dal 1978 al 1979 per traffico di sostanze stupefacenti Ferrera Giuseppe, boss mafioso catanese che godeva notevole prestigio all'interno delle strutture carcerarie; aveva, poi, rivisto il Ferrera a Zurigo nel 1983 ed aveva appreso che era in contatto con turco Musullulu Yasar Avni, per l'acquisto della nave Dusk; il Musullulu, nonostante avesse ricevuto dai Ferrera, in più riprese, 800.000 dollari per l'acquisto della nave in questione, si era eclissato senza venderla (Rotolo Antonino, incontratosi con Waridel a Roma nel 1984, si era lamentato della truffa subita ad opera dei Ferrera); in carcere, a Roma, aveva conosciuto anche Lo Nigro Francesco e La Mattina Nunzio, dal quale ultimo aveva appreso che si riforniva da tempo, presso il suddetto Musullulu, di morfina base per i laboratori siciliani, dove veniva trasformata in eroina per essere spedita, soprattutto, negli Usa; su richiesta del La Mattina - che assumeva di avere dei conti in sospeso col Musullulu - il Waridel aveva incontrato quest'ultimo a Zurigo nella primavera- estate del 1981, da lui apprendendo che era creditore di circa 10 milioni di dollari per forniture di droga

non ancora pagate; nel corso dei successivi incontri, cui egli partecipava come interprete per la sua conoscenza delle lingue, aveva appreso che il debito del La Mattina si era ridotto ad 1,3 milioni di dollari; il La Mattina, per i pagamenti, utilizzava, in Svizzera, i conti del noto contrabbaniere genovese Dapueto Luigi; arrestato La Mattina, esso Waridel aveva ripreso la sua funzione di interprete su incarico del Musullulu per i suoi contatti cogli acquirenti siciliani della droga; egli aveva, così, conosciuto Priolo Salvatore e tale "Carlo" identificato in fotografia per Rotolo Antonino; il Rotolo si era presentato agli incontri come il fiduciario dei "siciliani che stavano dietro al La Mattina", poichè quest'ultimo non aveva più pagato le forniture di morfina-base ed il Musullulu aveva bloccato le forniture stesse; nel corso degli incontri si era accorto che il Priolo il quale aveva svolto funzioni di interprete prima di lui per il Rotolo - aveva tradotto falsamente le parole del Musullulu, di guisa che il Rotolo, in un primo momento, aveva erroneamente ritenuto che il La Mattina avesse interamente estinto il debito nei confronti del Musullulu; nell'aprile 1982 e comunque pochi mesi dopo l'arresto del La Mattina a Roma (27 novembre 1981) era stato raggiunto un accordo in base al quale il Musullulu avrebbe fornito 400 chilogrammi di morfina-base ed il Rotolo gli avrebbe consegnato, come in effetti era avvenuto, 6,5 milioni di dollari, così pagando l'ulteriore fornitura di droga (13.000 dollari al chilogrammo) ed estinguendo il residuo debito di 1,3 milioni del La Mattina; il pagamento anticipato della somma era avvenuto il venerdì santo del 1982, in Lugano, negli uffici di Rossini Enrico, occupati all'epoca anche da Palazzolo Vito e Della Torre Franco; al momento del pagamento erano presenti, oltre allo stesso Waridel ed un certo Soleiman, anche Rotolo Antonino, Greco Leonardo, Tognoli Oliviero, Palazzolo Vito Roberto, Della Torre Franco, Salamone Filippo, Ventimiglia Antonio e Rossini Enrico; successivamente, nel corso del 1982, erano state richieste altre forniture ed i pagamenti erano stati effettuati, alcune volte, negli uffici della Pageko di Palazzolo Vito ed altre volte in quelli di Musullulu, entrambi siti in Zurigo; nella primavera del 1982, in due occasioni, Rotolo, Palazzolo, Della Torre e Ventimiglia avevano consegnato a Waridel e Musullulu, per strada e sotto gli uffici della Pageko, valigie contenenti, entrambe le volte, tre milioni di dollari; in tre occasioni, successivamente, il Rotolo aveva consegnato al Musullulu, una volta, 1,7 milioni di dollari in contanti, un'altra volta un milione di dollari e, una terza volta, 1,5 milioni di dollari, con provvista prelevata da un conto di Colmegna Delfino e su richiesta di Kastl George; il Rotolo aveva complessivamente pagato, per le forniture di morfina-base da parte del Musullulu, circa 17 milioni di dollari, ivi compreso il residuo debito del La Mattina, ed i pagamenti erano avvenuti, una volta, a Lugano e le altre volte a Zurigo; la prima consegna del denaro, per un importo di 5 milioni di dollari, era avvenuta in un ufficio di Lugano nella disponibilità di Palazzolo Vito Roberto, che era presente e che era sempre in compagnia di Rotolo Antonino, il quale lo utilizzava per i movimenti di danaro; nel 1983, a Zurigo, vi era stato un incontro dei siciliani con Musullulu e con due dei turchi fornitori della morfina-base e, cioè, Korkmaz, genero del Musullulu, e Kanturk, entrambi, adesso, detenuti in Turchia per traffico di stupefacenti; Musullulu aveva complessivamente fornito al La Mattina morfina-base per circa 40 milioni di dollari; egli (Waridel) aveva fatto da tramite nei pagamenti di denaro, che versava nei suoi conti e, quindi, consegnava al Musullulu che, man mano, gliene faceva richiesta; le forniture di morfina-base erano cessate nel 1983, poichè il Musullulu, dopo avere ad arte creato un'enorme confusione nella contabilità dei suoi rapporti cogli acquirenti e coi fornitori della droga, si era eclissato, rifugiandosi in Bulgaria e rimanendo debitore, nei confronti dei siciliani, di circa due milioni di dollari per forniture di droga non effettuate; egli (Waridel) conosceva il greco Tsagaris Panagiotis, il quale, alla fine del 1981 o ai primi del 1982, gli aveva presentato, all'hotel Hilton di Milano, un libanese a nome Rey, fornitore anch'egli nel passato di morfina-base al La Mattina, il quale avrebbe voluto consorziarsi col Musullulu per le forniture di droga ai siciliani; il Rotolo, in Svizzera, era in compagnia di un siciliano nei cui confronti mostrava rispetto e deferenza.

Le dichiarazioni del Waridel, puntuali e fornite, di numerosi riscontri, danno un quadro esauriente della enormità e complessità del traffico di stupefacenti, e del ruolo di centralità assunto da La Mattina Nunzio, prima, nonchè in secondo momento da Priolo Salvatore, Rotolo Antonino e Greco Leonardo, nel sanare i milioni di debiti accumulati dal La Mattina, che avevano bloccato la continuità delle forniture e la produttività dei laboratori per la raffinazione dell'eroina.

Le precedenti forniture al La Mattina per 40 milioni di dollari, al prezzo di 13.000 dollari al Kg., il pagamento da parte del Rotolo di 17 milioni di dollari sono cifre da capogiro, che non possono far pensare che ad una somma di finanziamenti singoli apportati da una moltitudine di "uomini d'onore", coordinati dai vertici di "Cosa nostra".

Il Priolo, secondo Waridel, prima era attivamente inserito nel traffico di stupefacenti, gestito dal suocero La Mattina Nunzio, dopo l'arresto di quest'ultimo aveva proseguito l'attività sotto la direzione di Rotolo Antonino. Qualora si consideri che il Rotolo era particolarmente legato al Calò sin dai tempi di Vitale Leonardo (i due sono stati arrestati insieme, a Roma, nell'aprile 1985) e che il La Mattina, faceva parte della "famiglia" di Porta Nuova, il cui "rappresentante" era il Calò e che l'attività di direzione era sempre dei capi che rispondevano degli uomini impiegati di fronte all'organizzazione, è agevole arguire che alle spalle, prima, del La Mattina e, poi, del Rotolo vi era sempre il Calò e che il Rotolo aveva assunto la direzione dei rapporti coi fornitori turchi della droga su ordine del Calò, dopo che il La Mattina, come risulta dalle dichiarazioni di Waridel, si era appropriato di somme di pertinenza dell'organizzazione mafiosa.

Ritenuta, questa, una attendibile causa della eliminazione del La Mattina, vi è da dire che, comunque, il Priolo, essendo stato lasciato in vita, è stato ritenuto estraneo al comportamento infedele del suocero (anche se, come riferito dal Waridel, cercava di non farne emergere le responsabilità), tanto che, dopo l'intervento risolutore del Rotolo, ha proseguito i contatti coi turchi sotto la direzione di quest'ultimo. Le dichiarazioni del Waridel hanno trovato numerosi riscontri. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

La rotta thailandese e “il cinese di Singapore”, il misterioso Koh Bak Kin. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani l'11 giugno 2023

Il fornitore asiatico delle sostanze stupefacenti era il cinese di Singapore Koh Bak Kin, il quale, inizialmente tramite una rete di corrieri che trasportavano solo quantità limitate a pochi chilogrammi, riforniva con continuità sia le "famiglie" mafiose siciliane, ed, in particolare, quella di Partanna Mondello, capeggiata da Riccobono Rosario e quella catanese di Santapaola Benedetto...

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Alla stregua delle risultanze processuali si può affermare che oltre al canale di approvvigionamento di morfina-base dalla Turchia per il rifornimento dei laboratori siciliani di produzione dell'eroina, contemporaneamente, l'organizzazione mafiosa siciliana importava ingenti quantitativi di eroina purissima di origine thailandese anch'essa diretta al mercato statunitense.

Il fornitore asiatico delle sostanze stupefacenti era il cinese di Singapore Koh Bak Kin, il quale, inizialmente tramite una rete di corrieri che trasportavano solo quantità limitate a pochi chilogrammi, riforniva con continuità sia le "famiglie" mafiose siciliane, ed, in particolare, quella di Partanna Mondello, capeggiata da Riccobono Rosario e quella catanese di Santapaola Benedetto, trapiantata e rappresentata a Roma dai cugini Ferrera e Cannizzaro, sia taluni malavitosi romani (Masciarelli, Grazioli, Proietti ed altri), che incrementavano il mercato locale della capitale.

In un secondo momento il canale thailandese è stato messo a disposizione dei livelli direttivi centrali dell'organizzazione mafiosa siciliana (i centri operativi sono rimasti però in mano agli stessi elementi palermitani e catanesi che già avevano collaudato tale via di rifornimento) per un traffico molto più vasto, esteso ad ingenti quantitativi di stupefacenti da trasportare via mare e consegnare a navi di pertinenza dell'organizzazione acquirente al largo delle coste siciliane.

Le altre nazioni interessate a tale traffico erano la Grecia, che forniva navi ed equipaggi ed organizzava i trasporti, la Svizzera, luogo ove avvenivano tutti i movimenti finanziari e di passaggio obbligato dell'enorme massa di capitali, provento della vendita degli stupefacenti, e gli Stati Uniti d'America, luogo finale di destinazione per lo smercio di tutte le sostanze.

Il 10 novembre 1981, all'Aeroporto Orly di Parigi, veniva arrestato tale Gasparini Francesco, perchè trovato in possesso di Kg. 4,500 circa di eroina purissima; il predetto, proveniente da Bangkok, era in procinto di imbarcarsi sull'aereo diretto a Roma, sua città di residenza; fra i documenti sequestratigli vi erano una carta di identità falsa, intestata a Pavoni Pier Luigi, ed un passaporto, parimenti falso, intestato a Ciceroni Ernesto, dal quale risultava effettuato un altro viaggio a Bangkok dal 15 al 30.9.1981.

Da tale arresto prendevano avvio complesse e laboriose indagini che hanno consentito l'acquisizione di prove molto importanti sul traffico internazionale di eroina e sulle organizzazioni che lo gestiscono. Il Gasparini rendeva inizialmente alla Polizia francese dichiarazioni completamente mendaci sull'origine e la destinazione dell'eroina, dalle quali, comunque, emergeva che la stessa gli era stata affidata a Bangkok.

Veniva accertato attraverso le dichiarazioni di Zannini Mirella, un'amica del Gasparini che lo aveva aiutato a procurarsi documenti falsi per l'espatrio, che quest'ultimo, in libertà provvisoria in relazione ad un procedimento penale per truffa aggravata pendente davanti alla Autorità Giudiziaria di Palermo, aveva fatto conoscenza, durante la detenzione nel carcere dell'Ucciardone, con appartenenti a cosche mafiose con cui aveva mantenuto i contatti anche dopo la sua scarcerazione; il Gasparini, in particolare, le aveva detto di essere un corriere di valuta e di conoscere personalmente Buscetta Tommaso, il quale si era fatto "rifare" il viso da un esperto di chirurgia plastica. Anche Chionne Otello - che aveva corrotto alcuni agenti di Polizia perchè falsificassero la firma del Gasparini, obbligato alla presentazione periodica al Commissariato di Polizia di Porta Maggiore, durante la sua assenza dall'Italia - confermava di avere appreso dallo stesso Gasparini che era collegato coi siciliani.

Dall'esame, poi, degli appunti e delle fotografie rinvenute nel posto di lavoro del Gasparini (Automobile Club di Roma), emergeva che quest'ultimo era sicuramente in contatto con Mutolo Gaspare, noto pregiudicato palermitano indiziato di appartenenza alla mafia.

Inoltre, veniva rinvenuta fra gli appunti del Gasparini una cartolina postale, a lui diretta, di un non meglio identificato "Kin", inviatagli dalla Thailandia.

Si accertava, quindi, che, durante la sua permanenza nel carcere di Teramo, in regime di semilibertà, il Mutolo aveva preso in affitto stabilmente una stanza del lussuoso hotel Michelangelo di quella città, il cui numero di telefono era stato trovato addosso a Gasparini Francesco all'atto del suo arresto in Francia; all'hotel Michelangelo avevano alloggiato anche il nipote del Mutolo, De Caro Carlo, appositamente venuto da Palermo, ed il catanese Liotta Salvatore.

Dalla camera di albergo del Mutolo, inoltre, risultavano effettuate numerose telefonate internazionali, in Australia, in Brasile, in Venezuela ed in Canada. Si accertava, altresì, che, il 2 febbraio 1982, Gaspare Mutolo, durante un permesso concessogli dal magistrato di sorveglianza per recarsi a Palermo, era stato fermato a Catania, dalla Polizia, mentre era in compagnia del catanese Condorelli Domenico, indiziato di appartenenza al clan di Santapaola Benedetto, e dei pregiudicati palermitani, indiziati di appartenenza alla mafia, Cusimano Giovanni e Pedone Michelangelo.

I tre palermitani, che erano andati a Catania a bordo di una Ferrari e di una BMW, dichiaravano di avere incontrato casualmente e di non conoscere Condorelli Domenico, ma nell'abitazione di quest'ultimo veniva trovato il nipote del Mutolo, De Caro Carlo, che non sapeva giustificare la sua presenza in quel luogo.

Inoltre, nel corso di una perquisizione effettuata nella sala biliardi gestita dal Condorelli, i cani antidroga manifestavano chiari segni di impazienza, pur non consentendo di trovare stupefacenti.

Di notevole utilità si rivelavano, poi, una perquisizione domiciliare effettuata, a Palermo, il 22 aprile 1982 nella abitazione del Mutolo e le intercettazioni telefoniche effettuate sulle utenze palermitane in uso al predetto, rientrato a Palermo dopo avere interamente espiato la pena detentiva.

Quanto alla prima, venivano rinvenute nell'abitazione del Mutolo:

A) una cartolina di "Kin" del 27 febbraio 1982, proveniente dalla Cina, con cui quest'ultimo avvertiva il Mutolo che da lì a poco sarebbe andato a Bangkok;

B) una lettera di Castorani Jole, madre di Gasparini Francesco, con cui la stessa chiedeva aiuto finanziario al Mutolo in relazione alla situazione del figlio, detenuto in Francia;

C) numerose lettere di pregiudicati catanesi, fra cui Cristaldi Venerando ed il noto Faro Antonino, spietato "Killer" delle carceri, con le quali gli stessi professavano al Mutolo profondissimi rispetto ed amicizia.

Inoltre, all'atto della perquisizione, veniva identificato, nell'abitazione del Mutolo, tale Palestini Fioravante, di Giulianova (Teramo). Il 28 aprile 1982, iniziavano le intercettazioni telefoniche, autorizzate dalla procura della Repubblica di Palermo, sulla utenza 464991, in uso a Mutolo Gaspare, e le stesse subito confermavano i collegamenti di quest'ultimo con noti pregiudicati catanesi, appartenenti al clan Santapaola.

Venivano registrate, infatti, numerose telefonate fra il Mutolo e Condorelli Domenico (quello stesso che, alla Polizia di Catania, il Mutolo e gli altri palermitani avevano dichiarato di non conoscere), nel corso delle quali i due, che parlavano tra loro con grande familiarità ed amicizia, si esprimevano con un liguaggio criptico facendo sicuro riferimento a traffico di stupefacenti.

Dalle telefonate, poi, emergeva che il Condorelli si era incaricato di procurare un alloggio a Catania a Mutolo Giovanni, fratello di Gaspare, cui era stato imposta la misura di prevenzione del divieto di soggiorno a Palermo.

Particolare interesse rivestivano, infine, le telefonate tra Mutolo e Condorelli in cui il primo chiedeva al secondo di salutargli "Carletto" e quelle in cui si faceva riferimento ad un incontro tra vertici delle rispettive organizzazioni, poi non effettuato, e si parlava espressamente di "Nitto".

Per mezzo di queste intercettazioni, si apprendeva che due "amici" di Condorelli si sarebbero recati a Palermo per incontrarsi con Gaspare Mutolo, che avrebbe dovuto dare ad essi qualcosa: veniva eseguito, pertanto, un servizio di pedinamento e si accertava che i due venivano ricevuti al Motel Agip di Palermo dal Mutolo con grande circospezione e, quindi, da lui accompagnati nella sua abitazione.

Un successivo controllo dei due, effettuato lungo la strada di ritorno per Catania, consentiva di identificarli per Maugeri Nicolò e Cristaldi Salvatore, entrambi indiziati di appartenenza al clan Santapaola ed il secondo dei quali fratello di quel Cristaldi Venerando le cui lettere erano state trovate nell'abitazione di Mutolo Gaspare.

L'accertato collegamento del Mutolo con elementi della criminalità organizzata catanese induceva il P.M. ad autorizzare l'ascolto telefonico delle utenze in uso a Condorelli Domenico, a Cristaldi Salvatore e a Licciardello Giuseppe.

Tale ascolto forniva risultati di notevole interesse circa l'appartenenza degli stessi alla medesima organizzazione criminosa ed anche in ordine all'omicidio di Ferlito Alfio.

Fra l'altro, emergeva che nella abitazione del Cristaldi trovava sicuro rifugio Campanella Calogero inteso "Carlo" o "Carletto", braccio destro di Santapaola Benedetto; costretto a nascondersi a causa della faida sanguinosa tra i clan Santapaola e Ferlito, nel timore di essere individuato ed ucciso dai suoi avversari.

Le intercettazioni sull'utenza del Mutolo consentivano di accertare, inoltre, che il medesimo era in contatto con un individuo dall'accento straniero - e più precisamente orientale - per motivi sicuramente attinenti al traffico di stupefacenti e che il nipote del Mutolo, De Caro Carlo, si recava in Roma per incontrarsi con lo straniero.

Veniva eseguito un pedinamento del De Caro, il quale era anche fotografato all'Aeroporto di Roma, e si accertava che il predetto si recava a casa di Ianni Anna, moglie separata di Francesco Gasparini, e si incontrava con un individuo dagli aspetti somatici sicuramente orientali, facendo, però, ad un certo punto, perdere le sue tracce.

Essendo ormai chiaro che l'eroina sequestrata al Gasparini era di pertinenza delle organizzazioni mafiose palermitane, il procuratore della Repubblica di Roma, disponeva la trasmissione degli atti alla procura della Repubblica di Palermo. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Le confidenze su Gaspare Mutolo, mafioso con qualche amico nei servizi. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 12 giugno 2023

Dall'esame del dottor Fabbri Mario, funzionario del Sisde, emergeva, infatti, che era stato proprio Gasparini a porlo in contatto col Mutolo, In proposito, va ricordata una circostanza significativa, riferita dal Fabbri: Mutolo, nel confidargli che un estremista di destra gli aveva chiesto un mitra, aveva proposto al Fabbri di farlo arrestare con un Kalashnikov, che avrebbe procurato lo stesso Mutolo

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Sulla scorta degli elementi di prova acquisiti, riferiti dalla Criminalpol di Palermo con Rapporto del giugno 1982, questo procuratore della Repubblica emetteva, il 18 giugno 1982 (due giorni dopo l'uccisione di Alfio Ferlito, capo della fazione catanese avversaria al Santapaola Benedetto), ordine di cattura, per i delitti di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti e di commercio di dette

sostanze, contro Gasparini Francesco, Mutolo Gaspare, De Caro Carlo, Iannì Anna e Condorelli Domenico. Tutti gli imputati, ad eccezione del Gasparini, detenuto in Francia, venivano arrestati e, nei loro interrogatori, si protestavano innocenti, non riuscendo, comunque, a dare alcuna seria giustificazione in ordine agli elementi di prova raccolti nei loro confronti. Il Mutolo, anzi, già fin dal primo interrogatorio, manifestava segni di squilibrio mentale.

Il Gasparini, interrogato dal G.I. di Creteil il 3 Febbraio 1983, in esecuzione di commissione rogatoria internazionale, rendeva, questa volta, ampia confessione, confermando le intuizioni e le ipotesi di lavoro degli inquirenti e fornendo importanti indicazioni sulle organizzazioni mafiose coinvolte nel traffico di stupefacenti.

Il prevenuto, probabilmente perché ritenutosi abbandonato dalla organizzazione per cui aveva lavorato ed era stato arrestato, rivelava che era stato uomo di fiducia di Mutolo Gaspare nel traffico di stupefacenti e che quest'ultimo era elemento di spicco della cosca mafiosa di Riccobono Rosario.

Premetteva che la mafia siciliana era stata duramente colpita dalla individuazione, nel Palermitano, di diversi laboratori di eroina e che era stato ritenuto più opportuno, per continuare ad alimentare il traffico verso gli Usa, acquistare direttamente in Estremo Oriente grosse partite di eroina purissima.

Riconosceva, quindi, nella fotografia dell'odierno imputato Koh Bak Kin (un cinese di Singapore già arrestato all'Aeroporto di Roma nel 1976 perchè trovato in possesso di 20 chilogrammi di eroina), il personaggio col quale aveva preso contatti per conto di Mutolo Gaspare al fine di importare grosse partite di eroina dall'Estremo Oriente.

Precisava, al riguardo, che dopo i primi contatti col Kin a Roma, lo aveva fatto incontrare con Mutolo Gaspare a Giulianova e, quindi, era partito per Bangkok per discutere con Kin circa la fornitura di eroina e di morfina base.

In questo primo viaggio, non aveva portato con sè droga ma, al suo ritorno, Kin, a Roma, gli aveva consegnato una partita di Kg. 3,750 di morfina base trasportata in Italia da corriere del Kin attraverso Copenaghen o Stoccolma; egli, in aereo, aveva trasportato la droga a Palermo, dove, secondo quanto aveva appreso, era stata portata in un laboratorio nei pressi di Bagheria.

All'Aeroporto era stato rilevato, a bordo di una BMW, dai fratelli Micalizzi Salvatore e Micalizzi Michele, i quali l'avevano accompagnato in una villa sita in una borgata di Palermo appartenente a Riccobono Rosario ("Saro") e posta alle pendici di una collina, in una località denominata "Tommaso Natale". Ivi gli avevano dato la somma di lire 200 milioni che aveva portato a Roma e consegnata a Kin dopo averla cambiata in dollari, avvalendosi di un cambiavalute clandestino a nome Michele, di cui forniva il numero di telefono. Successivamente, egli e Kin erano andati in aereo a Palermo e si erano recati in via Ammiraglio Cagni, 5 e, cioè, nell'abitazione del Mutolo, dove avevano fatto la conoscenza di Riccobono, di Santapaola ed altri elementi di spicco della mafia ed avevano discusso circa l'acquisto di una partita di 500 chilogrammi di eroina, che sarebbe stata trasportata dalla Thailandia a Palermo per mezzo di una nave procurata dal Santapaola; il pagamento della partita di eroina sarebbe stato effettuato con danaro proveniente dagli Usa

Per organizzare l'operazione, egli si era recato nuovamente a Bangkok ed ivi il Kin gli aveva comunicato che si sarebbe recato direttamente negli Usa, a Los Angeles, per incontrarsi con gli esponenti della mafia siculo-americana, destinatari finali dell'ingente partita di eroina, con cui avrebbe concordato le modalità di pagamento del prezzo.

Dal canto suo, il Gasparini non aveva potuto incontrare il fornitore della droga, poichè quest'ultimo aveva avuto paura nell'apprendere che l'eroina era destinata alla mafia siciliana.

Tuttavia, su istruzione del Mutolo datagli per telefono, aveva acquistato quattro chili d'eroina che avrebbe dovuto portare con sè fino a Palermo; a Parigi, però, era stato arrestato essendo stata trovata la droga nel suo bagaglio. Infine, il Gasparini forniva il numero di telefono (2864295) usato da Kin a Bangkok, riconosceva fotograficamente Riccobono Rosario e Gerlando Alberti, definito dal Gasparini grandissimo amico del Riccobono, indicava, altresì, il numero di telefono di un bar di Palermo (259421), che sosteneva essere gestito da un certo "Enzo" appartenente alla "famiglia" di Riccobono, ma di proprietà effettiva di Micalizzi Michele.

Il Gasparini, infine, precisava che il Mutolo era in contatto con funzionari del Sisde.

La dichiarazione del Gasparini appare pienamente attendibile perchè obiettivamente riscontrata dalle successive indagini in punti di decisiva importanza.

Il Gasperini aveva parlato dei fratelli Micalizzi, il cui nome non avrebbe potuto conoscere se in qualche modo non fosse stato in contatto con essi e, soprattutto, aveva indicato il numero di telefono di un bar di Palermo (259421) e di un certo "Enzo", legato ai Micalizzi. Ebbene, l'utenza in questione, intestata a Lo Piccolo Giuseppa, moglie di tale Puccio Ciro, è risultata installata nella portineria di uno stabile sito in questa via La Marmora 82, e, cioè, a pochi metri del bar Singapore TWO, nel quale, come accertato da appostamenti eseguiti dalla Polizia, era stata notata la continua presenza di Micalizzi Giuseppe e dei figli Michele e Salvatore.

In questo bar, formalmente intestato a Cannella Vincenzo, erano stati assassinati, il pomeriggio del 30 Novembre 1982, il fratello Cannella Domenico e Di Giovanni Filippo, indiziati di appartenenza alla "famiglia" di Riccobono Rosario; inoltre, quello stesso pomeriggio, era scomparso proprio Cannella Vincenzo. Ma anche su altri punti di non secondaria importanza veniva riscontrata l'attendibilità del Gasparini. Veniva accertato, infatti, che il cambiavalute a nome "Michele", indicato dal Gasparini, si identificava, appunto, per Minesi Michele, il cui numero telefonico corrispondeva esattamente a quello indicato dal prevenuto.

Anche sul punto dei rapporti del Mutolo con funzionari del Sisde, la dichiarazione del Gasperini trovava testuale conferma.

Dall'esame testimoniale del dotto Fabbri Mario, funzionario del Sisde, emergeva, infatti, che era stato proprio Gasparini a porlo in contatto col Mutolo, presentatogli come grosso esponente della mafia siciliana, che egli avrebbe voluto utilizzare per contattare estremisti. Anzi, in proposito, va ricordata una circostanza significativa, riferita dal Fabbri: Mutolo, nel confidargli che un estremista di destra gli aveva chiesto un mitra, aveva proposto al Fabbri di farlo arrestare con un Kalashnikov, che avrebbe procurato lo stesso Mutolo ("Iu ciu dugnu e poi nu sucamu" e, cioè, io glielo consegno e, poi, lo arrestiamo).

Il disegno, poi, non era stato attuato e non è detto nè che il Mutolo realmente avesse avuto contatti col terrorista nè che fosse realmente intenzionato a fornirgli l'arma; ma è importante che proprio il Mutolo abbia fatto il nome del tipo di arma e, cioè, del Kalashnikov; infatti, come si vedrà in seguito, le armi usate per uccidere Ferlito Alfio, in territorio controllato dalla "famiglia" di Riccobono Rosario, sono state, anche, dei Kalashnikov.

Essendo opportuno un ulteriore approfondimento della dichiarazione del Gasparini, il medesimo veniva nuovamente interrogato a Creteil, alla presenza dei Magistrati italiani e in esecuzione di commissione rogatoria internazionale, il 14 ed il 15 aprile 1983. Anche stavolta l'interrogatorio del Gasperini si rivelava proficuo.

L'imputato, in sintesi, dichiarava che: aveva conosciuto Buscetta Tommaso in carcere, a Palermo, nel 1979 ed aveva notato che lo stesso godeva di posizione di supremazia rispetto agli altri detenuti; lo stesso Buscetta gli aveva detto che era buon amico di Leggio ed era nolurio che in seno alla mafia i due avessero la stessa importanza; Mutolo Gaspare era buon amico di Buscetta Tommaso, tanto che la moglie ed i figli di quest'ultimo erano stati ospitati a casa del Mutolo durante la detenzione del primo a Palermo: successivamente, peraltro, rapporti si erano guastati per motivi a lui ignoti e Mutolo gli aveva detto di lasciar perdere Buscetta, mentre in un primo momento aveva intenzione di farli incontrare per motivi inerenti al traffico di stupefacenti; il 30 aprile 1981, cioè dopo pochi giorni dall'omicidio di Bontate, aveva partecipato, a Palermo, nella villa di Riccobono Rosario, con Mutolo e con altri mafiosi, ad un banchetto, nel corso del quale aveva potuto afferrare brani di frasi pronunziate dagli altri invitati, i quali parlavano molto riservatamente fra di loro, del seguente tenore: "...il falco, uno è fatto, pensiamo all'altro"; ed egli si era reso confusamente conto che si stava per organizzare qualcosa contro qualcuno "per prendere in mano la situazione"; la moglie di Mutolo, al ritorno da Sulmona, dove era andata a visitare il marito detenuto, aveva subito un furto di gioielli a Napoli; ed egli, su incarico del Mutolo ricevuto per lettera, era andato a trovare, a Roma, tale Brusca Giovanbattista (che, poi, sarebbe stato ucciso, nell'ottobre 1981, ad opera di ignoti) per cercare di recuperare i gioielli; il Brusca lo aveva condotto in un negozio sito nei pressi del Provveditorato agli Studi, gestito da un siciliano che aveva tre o quattro fratelli, il quale, a sua volta, lo aveva accompagnato in un altro negozio, denominato "OrientaI Shop" e gestito da un napoletano a nome Nunzio, il quale si era assunto l'incarico di avvertire Gerlando Alberti, che in quel momento si trovava a Napoli; conosceva Bellavia Giovanni e sapeva che lo stesso era coinvolto nel traffico degli stupefacenti; [...] insieme con Brusca grande amico di Puccio e Bonanno, due degli assassini del capitano Basile avrebbe dovuto incontrarsi con un certo Cino di Ladispoli per organizzare un traffico di cocaina, al quale avrebbero dovuto partecipare pure i catanesi fratelli Ferrera e Cannizzaro Umberto (parenti di Santapaola Benedetto); Zannini Mirella faceva parte di un'organizzazione di ladri e aveva procurato a dei falsi passaporti con il visto di ingresso negli Usa a Koh Bak Kin, che usava per la sua corrispondenza, a Bangkok, la casella postale P.O. Box 2081; […].

Infine, esibitegli numerose fotografie, il Gasparini riconosceva quelle di: Cannella Vincenzo, il gestore del bar dei Micalizzi; Riccobono Rosario, Micalizzi Michele e Micalizzi Salvatore; Cancelliere Domenico, come una delle persone che avevano partecipato al banchetto nella villa di Riccobono Rosario, e che era stato coi Micalizzi e con esso Gasparini, in un ristorante palermitano stile Liberty, ad una cena, nel corso della quale si era parlato liberamente di traffico di stupefacenti; Cusimano Giovanni, come l'autista ed uomo di fiducia di Riccobono Rosario, che aveva il compito di controllare la zona durante l'incontro di Kin con Santapaola, Riccobono ed un'altra persona a lui sconosciuta; Di Giacomo Giovanni e Romano Giovanbattista come persone che aveva notato nel bar Singapore Two.

[…] Anche le dichiarazioni rese in questo secondo interrogatorio dal Gasperini sono attendibili per una serie di considerazioni logiche per le risultanze dei successivi accertamenti.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Il Triangolo d’Oro e la rete internazionale dei narcos di Cosa nostra. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 13 giugno 2023

Koh Bak Kin, circa la provenienza dell'eroina, ha riferito che la stessa gli veniva fornita da un cino thailandese a nome Tan Song. Tan Song, a sua volta, si riforniva direttamente di eroina nel "Triangolo d'Oro" (Golden Triangle). Il "capo dei capi" e, cioè, quello che controlla tutta la zona del triangolo d'oro, sarebbe "Kun Sa" (signore della guerra), il cui vero nome e Chang Chi Fu, un cinese di Taiwan

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Le precise indicazioni del Gasparini circa il fornitore asiatico dell'eroina ne hanno consentito agevolmente l'identificazione in Koh Bak Kin, nato a Singapore il 25 ottobre 1945, tratto in arresto, all’aeroporto di Roma, il 6 novembre 1976 per detenzione di oltre venti chilogrammi di eroina, condannato, a seguito di sentenza della Corte di Appello di Roma del 15 Marzo 1978, alla pena di anni sei di reclusione, e rimesso in libertà nel 1980 per effetto di provvedimenti legislativi di clemenza. […] Nei confronti di Koh Bak Kin, quindi, veniva emesso, il 24 Maggio 1983, mandato di cattura per gli stessi reati contestati agli altri imputati.

Con rapporto del 29 6 1983, la Squadra Narcotici della Questura di Roma ed il Nucleo Centrale di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza, esprimevano il fondato convincimento che diversi episodi di traffico di stupefacenti avessero una matrice comune, nel senso che il fornitore dell'eroina non poteva essere altri che Koh Bak Kin.

Già si è visto come fosse assolutamente certa la provenienza della droga per quanto riguarda: il sequestro di kg. 4,600 di eroina a Francesco Gasparini, avvenuto a Parigi il 10 11 1981; il sequestro di kg. 9,430 di eroina ad Abbenante Michele, avvenuto a Roma il 21 10 1982; il sequestro di 233 kg. di eroina, nel canale di Suez, il 24 5 1983 (vicenda Palestini).

Altri episodi, a giudizio degli inquirenti erano da ricollegare a Koh Bak Kin e, cioè: il sequestro di kg. 1,295 di eroina e l'arresto di Colamaria Michele, avvenuti, il 21 10 1982, all'aeroporto Heathrow di Londra (il Colamaria aveva viaggiato sullo stesso aereo di Abbenante ed era di origine italiana, ma aveva acquisito la cittadinanza australiana); i1 sequestro di kg. 1 di eroina e l'arresto dello inglese Cottage Michael, avvenuti a Zurigo nel marzo 1983; il sequestro di kg. 2,500 di eroina e l'arresto dello statunitense Czebiniak Ronald William, avvenuti a Francoforte il 7 4 1983; il sequestro di kg. 1,670 e kg. 1,990 di eroina e l'arresto dei cittadini statunitensi Johnson Thomas Anthony e Bowman David Richard, avvenuti contemporaneamente all'aeroporto Fiumicino di Roma il 22 5 1983. Che tali episodi fossero tra loro collegati e che l'eroina fosse stata fornita da Koh Bak Kin risultava da una molteplicità di elementi, che possono così riassumersi: un informatore della squadra narcotici della questura di Roma aveva già segnalato l'esistenza di un'organizzazione di orientali, con a capo un cinese a nome "Kin", che forniva di droga l'Italia e che si avvaleva anche di un cittadino inglese a nome Thomas Alan.

L'informatore aveva anche fornito l'indirizzo, il numero di telefono e la casella postale di Bangkok utilizzati dal Kin e tali dati corrispondevano esattamente a quelli già forniti da Francesco Gasparini.

Durante una sua permanenza a Roma, nell'ottobre 1982, prima che venise emesso nei suoi confronti mandato di cattura, il Kin era stato pedinato da agenti della Squadra Narcotici e fotografato mentre effettuava una visita a Gianfranco Urbani, noto malavitoso della Capitale, dedito al traffico di stupefacenti. Il Johnson ed il Bowman, dopo il loro arresto, avevano iniziato a collaborare e, sulla scorta delle loro indicazioni, era stato rintracciato ed arrestato proprio quel Thomas Alan, […].

Appariva, dunque, essenziale acquisire maggiori notizie in loco sul cinese a nome "Kim"; per tale motivo, il colonnello Paolo Meccariello del nucleo centrale di polizia tributaria ed il dottor Giovanni De Gennaro, dirigente della squadra narcotici della questura di Roma, si erano recati in Thailandia, dove avevano acquisito una serie di preziose notizie, soprattutto in ordine al "Kim" che veniva identificato ancora una volta in Koh Bak Kin.

A parte quanto si è riferito sulle presenze alberghiere a Bangkok di Palestini Fioravante, Michele Abbenante, De Angelis Luana, La Molinara Guerino e Francesco Gasparini, si constatava, attraverso la documentazione esistente presso l'Ufficio immigrazione, la presenza a Bangkok anche di Thomas Alan (sette volte dal 1981 al 1982), Cottage Michael (quattro volte), Colamaria Michele (otto volte).

Per quanto attiene alle indagini dirette all'individuazione e localizzazione del "Kim", va rilevato che la casella postale P.O. Box 2081 (indicata dall'informatore e dal Gasparini) risultava effettivamente intestata all'odierno imputato Koh Bak Kin, mentre l'utenza telefonica, seppure intestata a persona diversa, era ubicata ad un indirizzo identico a quello fornito dal Kin all'atto della sottoscrizione del contratto per la casella postale; […] e mediante una capillare indagine investigativa, il Kin veniva localizzato a Bangkok.

Appare chiaro che tutti i soggetti di cui si è parlato facevano parte di una medesima organizzazione dedita al traffico internazionale di stupefacenti collegata col clan mafioso di Rosario Riccobono. Koh Bak Kin veniva tratto in arresto dalle Autorità Thailandesi e di notevole interesse si presentava la documentazione sequestratagli, che forniva obiettivo riscontro a tutte le precedenti indagini ed ai suoi collegamenti con "Cosa nostra".

Il Kin, senza attendere l'esito della domanda di estradizione formulata dal Governo Italiano, dichiarava spontaneamente e per iscritto di voler venire in Italia e di voler collaborare con la Giustizia e, giunto in Italia, ha reso ampie ammissioni e particolareggiate chiamate in correità che possono così sintetizzarsi: Anzitutto, circa la provenienza dell'eroina, ha riferito che la stessa gli veniva fornita da un cino thailandese a nome Tan Song, quello stesso che, nel 1976, gli aveva consegnato i venti chili di eroina sequestrati all'aeroporto di Fiumicino.

Del Tan Song, il Kin ha detto solamente che trattasi di un individuo alto m. 1,68, di circa quarant'anni, abitante a Bangkok o a Chang Mai, che utilizzava un'autovettura Volvo; ha precisato che trattavasi di importante intermediario, che aveva, oltre ad esso Kin, diversi altri canali per la commercializzazione della droga. Tan Song, a sua volta, si riforniva direttamente di eroina nel "Triangolo d'Oro" (Golden Triangle) e, cioè, nella zona a nord della Thailandia nella quale sono ubicate estese piantagioni d'oppio e vengono prodotte, in numerosi laboratori ad alta potenzialità produttiva, ingentissime quantità di eroina.

Il "capo dei capi" e, cioè, quello che controlla tutta la zona del triangolo d'oro, sarebbe "Kun Sa" (signore della guerra), il cui vero nome e Chang Chi Fu, un cinese di Taiwan.

Ha riferito, poi, che aveva conosciuto Gaspare Mutolo e Alan Thomas nel carcere di Sulmona, durante la sua detenzione per traffico di stupefacenti; scarcerato nel 1979 (dopo appena tre anni) per effetto del condono, aveva fornito ai due il numero della sua casella postale di Bangkok, dove aveva ricevuto numerosissime lettere del Thomas e del Mutolo.

Il primo invio di eroina in Italia da parte sua era avvenuto all'incirca nel settembre 1981; la droga era diretta a Gianfranco Urbani di Roma, detto "er Pantera", da lui conosciuto per il tramite di un certo "Pietro", a sua volta conosciuto per il tramite di Alan Thomas. Corrieri di Tan Song avevano portato la droga, in aereo, fino a Copenaghen, dove era stata prelevata e portata a Roma da Alan Thomas e da un italiano di cui non ricordava il nome. […] Egli, per altro, su indicazione del Mutolo, nel frattempo ammesso al regime di semilibertà, aveva già fatto la conoscenza di Francesco Gasparini, […]. In questo periodo e prima dell'arresto del Gasparini, egli era andato a Palermo con quest'ultimo e, a casa del Mutolo, aveva fatto la conoscenza di numerose persone, fra cui i fratelli Salvatore e Michele Micalizzi, un certo "Pino" e "Roberto"; quest'ultimo era un siciliano di circa quarant'anni, bruno, senza barba nè baffi, di corporatura robusta, che appariva come un personaggio molto autorevole del gruppo; aveva fatto la conoscenza, altresì, di un siciliano ancora più autorevole di "Roberto", cui anche questo ultimo si rivolgeva con deferenza e rispetto.

Nella riunione, si era discusso della fornitura di ingenti quantitativi di eroina da inviare in Italia per mezzo di navi procurate dai siciliani.

Dopo l'arresto del Gasparini, il posto di quest'ultimo era stato preso da Palestini Fioravante (noto a Kin come "Gabriele"), fattogli conoscere dal Mutolo a Roma; con Gabriele egli era andato a Palermo diverse volte, anche dopo l'arresto di Gaspare Mutolo e sempre a casa di quest'ultimo.

Lo scopo dei viaggi era quello di precisare l'accordo per la fornitura di eroina da trasportare via mare; agli incontri partecipavano "Roberto", i due fratelli Micalizzi e diversi altri siciliani; ma, l'ultima volta, "Roberto" gli aveva detto che Micalizzi erano partiti.

Il Kin ha precisato che generalmente all'aeroporto di Palermo veniva rilevato da un uomo bassino, titolare di un bar che, poi, aveva appreso essere stato ucciso (trattasi di Vincenzo Cannella). Inoltre, in questo periodo egli aveva fornito ad un corriere di "Gabriele", una prima volta (all'incirca nella estate 1982), quattro chili e mezzo e, una seconda volta, nell'ottobre 1982, nove chili e mezzo di eroina; non conosceva detto corriere, perchè non lo aveva incontrato, avendo egli consegnato la droga a "Gabriele", da cui era stato pagato. […] Il Kin ammetteva che, nella sua attività di trafficante di stupefacenti, era stato aiutato dai cinesi Chaing Wing Kenug e Ton Bock San, il cui vero nome, come ammetteva in seguito, era Lam Sing Choy. Verso la fine del 1982, "Pietro" lo aveva fatto incontrare con Gianfranco Urbani, al quale egli aveva contestato che era ancora creditore di cento milioni di lire in relazione alla partita di droga di tre chili, sequestrata a quel giovane ucciso. [...] Per quanto riguarda specificamente l’eroina sequestrata a Suez, il Kin ha fornito una ricostruzione dei fatti abbastanza dettagliata.

In diversi incontri, sempre a Palermo, nella casa di Gaspare Mutolo (nonostante l'arresto di quest'ultimo), si erano discussi tutti i particolari dell'operazione, con riferimento al percorso che la nave avrebbe seguito, al quantitativo di droga da consegnare, al prezzo da pagare ed alle modalità di pagamento dello stesso.

Si era convenuto che i siciliani avrebbero pagato in anticipo 150 chilogrammi di eroina ed altri 50 chilogrammi all'atto della ricezione della merce; inoltre, a titolo di regalo, non avrebbero pagato i nove chili e mezzo di eroina sequestrati a Roma (quella di Abbenante) e avrebbero acquistato un altro quantitativo di droga da distribuire ai membri dell'equipaggio.

Egli era andato due volte a Zurigo con Tan Song e si era incontrato con Gabriele, "Roberto" ed altri siciliani; una prima volta, aveva ricevuto circa 750.000 dollari e, una seconda volta, 500-600.000 dollari che aveva immediatamente consegnato a Tan Song, il quale, però, non si era incontrato coi siciliani.

Era sicuro che il danaro provenisse da banche di Lugano, perché, da un lato, era legato in mazzette con le fascette tipiche di Istituti di Credito; dall'altro, i siciliani, avevano chiesto che l'incontro avvenisse a Lugano ma egli aveva scelto Zurigo perché conosceva questa città, a differenza della prima. Era previsto, infine, che, dopo la ricezione della droga, sarebbe stato pagato il residuo prezzo, pari a 750.000 dollari.

Dopo la consegna del danaro, il "Gabriele" si era recato in Grecia e da lì gli aveva comunicato telefonicamente la partenza della nave, preannunziandone l'arrivo in Thailandia dopo 24/25 giorni.

Quindi Gabriele era giunto in Thailandia ed aveva alloggiato all'hotel Ambassador di Bangkok, poi in un albergo di Pattaya e, infine, all'hotel Dusyt Thani di Bangkok; in questo periodo aveva telefonato giornalmente in Grecia per avere notizie sul viaggio della nave.

Quando gli era stato comunicato che la nave stava per arrivare, egli ed il Gabriele, a bordo di un'autovettura procurata da Tan Song e guidata da un uomo di fiducia di quest'ultimo, si erano recati nel sud della Thailandia per raggiungere un'isola al largo di Pukhet; durante il viaggio si erano incontrati, in un villaggio chiamato Kotopa, con Tan Song e avevano proseguito insieme.

A Pukhet, egli, Tan Song ed il Gabriele si erano imbarcati su un peschereccio, mentre l'eroina era stata caricata su un altro peschereccio; in entrambi natanti vi erano numerosi uomini armati.

Raggiunta la nave, Gabriele vi era salito a bordo ed egli e Tan Song si erano allontanati rapidamente col loro peschereccio, non senza aver controllato che gli uomini dell'altro peschereccio stavano effettuando il carico dell'eroina.

Kin ha soggiunto di ignorare la provenienza delle armi trovate dalla polizia egiziana a bordo della nave, ma ha riferito che Tan Song aveva procurato una rivoltella a Gabriele, il quale temeva di essere ucciso durante la sua permanenza a bordo della nave. L'intesa era che egli sarebbe stato avvertito telefonicamente dell'arrivo della nave a destinazione; invece, aveva appreso dai giornali del sequestro della droga a Suez. […].

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Ampolle e bilance, il laboratorio per produrre eroina sul mare di Palermo. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 14 giugno 2023

L'accurata perquisizione effettuata dava la certezza che era stato individuato un laboratorio per la produzione dell'eroina in pieno esercizio e consentiva di rinvenire nei locali al piano terra una rivoltella calibro 357 Magnum con matricola abrasa, carica con proiettili ad espansione, e 17 cartucce per pistola calibro 38, nonché una polizza di assicurazione auto rilasciata a favore di Vernengo Giuseppe...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

La scoperta del laboratorio di via Messina Marine è stata del tutto casuale, nel senso che è avvenuta nel corso di un’operazione di polizia volta esclusivamente alla cattura dei latitanti. Per meglio comprendere la vicenda occorre prendere le mosse dal c.d. blitz di Villagrazia, una brillante operazione di Polizia di cui soltanto in un secondo tempo si è apprezzato il valore.

Il 19.10.1981 (in un periodo in cui gli omicidi di marca mafiosa a Palermo avevano raggiunto una cadenza impressionante) la Polizia faceva irruzione in una villa sita in questa via Valenza (Villagrazia di Palermo) nel bel mezzo di un summit mafioso e traeva in arresto, dopo un conflitto a fuoco, Profeta Salvatore, Pullarà Giovanbattista, Capizzi Benedetto, Vernengo Ruggero, Fascella Pietro, Lo Jacono Pietro, Gambino Giuseppe, Di Miceli Giuseppe, Urso Giuseppe. Di questo episodio si parlerà più diffusamente in seguito, ma in questa sede è opportuno evidenziare taluni elementi processuali riferibili ai citati imputati che vanno attentamente vagliati e coordinati tra di loro:

- Capizzi Benedetto ha emesso un assegno di lit. 32.000.000 a favore di Giacomo Grado ed ha dichiarato di non ricordare nulla in proposito;

- Gambino Giuseppe, pochi mesi dopo l'arresto (25.2.1982), ha consumato con spietata ferocia, insieme con altri, l'omicidio di Pietro Marchese nel Carcere dell'Ucciardone;

- Urso Giuseppe, spacciatosi nella circostanza per un elettricista chiamato ad effettuare delle riparazioni, è stato nuovamente arrestato, il 25 marzo 1985, a Crotone insieme con Di Fresco Onofrio e con Cosimo Vernengo, con i quali trascorreva la latitanza e verosimilmente stava per impiantare in quel centro un laboratorio per la produzione di eroina.

L'Urso sarebbe in seguito divenuto genero di Pietro Vernengo, avendone sposato la figlia Rosa. Di Miceli Giuseppe, qualificatosi come giardiniere della villa, è in realtà un corleonese definito "liggiano di ferro". Le indagini sulla villa hanno dato risultati di estremo interesse.

L'immobile, che sorge su terreno venduto da Antonino Sorci ("rappresentante" della famiglia di Villagrazia ed ucciso il 12.4.1983), è circondato da altre ville, tutte appartenenti a personaggi di spicco della mafia (Marchese Rosario e Salvino Mondino Girolamo - Greco Tommaso, padre di Greco Carlo – Sorci Carlo figlio di Antonino ucciso il 12.4.1983, Di Maggio Ippolito, zio dei fratelli Mafara e fratello di Giuseppe Di Maggio, rappresentante della famiglia di Brancaccio e ucciso il 19.10.1982) ed è dotato di un impianto televisivo a circuito chiuso, che consente di tenere sotto controllo per centinaia di metri la strada di accesso.

Per quanto attiene, poi, al titolare della villa, giova rilevare che lo stesso Di Miceli Giuseppe, pur dichiarando di non conoscerne il nome, essendo semplicemente il giardiniere, ne ha indicato il domicilio in Via Sacco e Vanzetti, n 36, piano quarto, ossia nello stesso pianerottolo del proprio appartamento. Questa ammissione ha grandissimo significato, perchè, a parte la palese inattendibilità del fatto che il Di Miceli non conoscesse il nome del suo dirimpettaio, l'intestatario dell'appartamento indicato dal Di Miceli è Giorgio Aglieri, suocero di Pietro Vernengo, mentre il proprietario della villa di via Valenza risulta formalmente Ruggero Vernengo, cugino del Pietro ed arrestato nel citato blitz di Villagrazia.

Va, inoltre, rilevato che una immediata perquisizione domiciliare eseguita nell'appartamento dell'Aglieri ha consentito di sequestrare, in contanti, la somma di lit. 130.000.000 e quella di $ Usa 147.200, fatto questo estremamente sintomatico del coinvolgimento dell'Aglieri, nonchè di Pietro Vernengo, nel traffico di eroina cogli Usa.

Va ricordato, inoltre, che il padre di Pietro Vernengo, Cosimo, già sposato con Nuccio Rosa (deceduta 1'1.3.1967), ha contratto seconde nozze con Di Miceli Maria, sorella proprio Di Miceli Giuseppe. Queste nozze sono il segno evidente della saldezza dei vincoli fra i Vernengo ed i Corleonesi. E, in proposito, sembra opportuno richiamare che l'Agrosicula S.p.A., di cui erano azionisti Vernengo Giuseppe e Mondì Vincenza (fratello e cognata di Vernengo Pietro), era affidata alle cure del rag. Giuseppe Mandalari, azionista di maggioranza della “zoosicula RI.SA”, nella cui sede venne tratto in arresto Leoluca Bagarella, cognato di Salvatore Riina.

Ma le sorprese per gli inquirenti, indagando sulla titolarità della villa di via Valenza, non finivano qui. Si accertava, infatti, che la villa era appartenuta a Verace Teresa (vedova di Riccobono Giuseppe, ucciso a Palermo il 27.7.1961, e cognata di Rosario Riccobono, "rappresentante" della "famiglia" di Partanna Mondello) la quale l'aveva successivamente venduta a Vernengo Ruggero, mentre l'utenza telefonica, installata nella villa, era intestata a Palmeri Maddalena, moglie di Vitamia Paolo, cognato, quest'ultimo, di Rosario Riccobono, che ne ha sposato la sorella, Vitamia Rosalia.

Le assurde, assolutamente inattendibili, dichiarazioni di Verace Teresa e di Vitamia Paolo per giustificare, rispettivamente, la titolarità della villa e dell'utenza telefonica, sono la migliore dimostrazione, ove ve ne fosse stato bisogno, che la villa era in realtà appartenuta a Rosario Riccobono il quale, con tali artifizi, aveva tentato di occultarne la effettiva titolarità e l'aveva poi ceduta a Pietro Vernengo.

Del resto, quando ci si occuperà approfonditamente del ruolo e delle attività di Rosario Riccobono in seno alla mafia, si vedrà che non è questo il solo caso in cui il Riccobono ha cercato di occultare i suoi investimenti immobiliari, ben consapevole dell'illiceità della provenienza della sua ricchezza.

La "storia" della villa di via Valenza, quindi, ha svelato l'esistenza degli stretti legami tra Rosario Riccobono e la famiglia di S.Maria di Gesù cui appartengono i Vernengo, offrendo un inoppugnabile riscontro alle rivelazioni fatte al riguardo da Tommaso Buscetta.

Se si ferma, poi, l'attenzione sull'identità delle persone tratte in arresto nell'operazione in esame si trova una ulteriore conferma degli schieramenti nella c.d. guerra di mafia che, al contrario di quella esplosa negli anni 1962-63, non si è concretata in uno scontro tra "famiglie", bensì in un'alleanza, realizzatasi orizzontalmente, fra "uomini d'onore" appartenenti alle diverse famiglie e che è servita ai Corleonesi per distruggere, in seno ai clan più disparati, tutti coloro che per la loro personalità e per la propria potenza si potevano opporre alle loro mire egemoniche.

Fra i partecipanti alla riunione di via Valenza, infatti, vi erano Lo Jacono Pietro, Pullarà G. Battista, Urso Giuseppe, Aglieri Giorgio, facenti capo alla "famiglia" di S.Maria di Gesù (quella stessa di Stefano Bontate), Gambino Giuseppe, appartenente alla "famiglia" di Michele Greco (Ciaculli Croce Verde Giardini) e Di Miceli Giuseppe (certamente legato ai Corleonesi), rappresentanti, tutti di famiglie diverse.

Le successive indagini svolte hanno consentito di acquisire prove sempre più certe ed univoche delle responsabilità di Vernengo Pietro e dei suoi correi. Fra queste, la più significativa è certamente la scoperta del laboratorio di eroina di via Messina Marine, insieme col rinvenimento di 147.200 dollari  Usa. nell'appartamento di Giorgio Aglieri.

Era ben noto alla Polizia che l'autovettura R18, targata CS 260418, era in uso eslusivo della famiglia di Pietro Vernengo: infatti, il 7.12.1981 alle ore 9.45 ed il 3.2.1982, alle ore Il,00, l'autovettura era stata controllata dai cc. proprio in via Sacco e Vanzetti ed alla guida era stata sempre trovata Aglieri Provvidenza, moglie del Vernengo.

La circostanza sarebbe stata confermata, in seguito, dalla stessa Aglieri Provvidenza, la quale dichiarava ai verbalizzanti (che la interrogavano il giorno in cui era stato scoperto il laboratorio di eroina di Via Messina Marine) di essere la sola ad usare quella vettura.

L'autovettura in oggetto risultava intestata a Di Caccamo Benedetto, un palermitano residente a Castrovillari del quale Stefano Calzetta ha parlato in questi termini: "conosco i due Di Caccamo che hanno tutti e due lo stesso nome, Benedetto. Uno dei due esegue trasporti per conto dei miei fratelli, ma entrambi appartengono al gruppo di mafia di Pietro Vernengo".

Ebbene, la mattina del 9.2.1982, alle ore 8,45, il m.llo CC. Pietro Giordano ed il brigo CC. Spezia Salvatore, nel percorrere la via Messina Marine, notavano che l'autovettura predetta era ferma davanti alla villetta in costruzione contrassegnata col n.66JH e che, proprio al loro passaggio, un uomo vi saliva a bordo allontanandosi rapidamente.

Il pomeriggio di quello stesso giorno la medesima autovettura veniva notata parcheggiata in uno spiazzale di fronte alla villetta di cui sopra. è da notare che sia la villetta in questione sia quella finitima apparivano dall'esterno in fase di ristrutturazione e che, in particolare, era stato innalzato un ponteggio, intorno alle due ville, in maniera tale che era possibile accedere, attraverso le impalcature, da una villa all'altra, mentre il retro dei villini, invece, prospettava sul lido del mare. Sospettando fondatamente che l'uomo da essi notato potesse essere Pietro Vernengo o Giorgio Aglieri, i cc decidevano di effettuare una perquisizione domiciliare nella villetta, allo scopo di catturare uno od entrambi i ricercati e comunque di accertare i motivi della loro presenza in quel luogo.

E così 1'11.2.1982, e, cioè, due giorni dopo avere notato la vettura del Vernengo, i cc. intervenivano e si introducevano nella villa adiacente col pretesto di controllare la regolarità della costruzione.

Il C.re D'Antoni Pietro, rimasto davanti all'ingresso delle ville per sorvegliare gli automezzi militari, poteva notare che, mentre i muratori presenti davano ai cc. le solite risposte evasive sui lavori in corso, un giovane sui trent'anni con un giubbotto scuro usciva dal piano superiore del fabbricato e si immetteva nell'impalcatura per passare nell'attigua villetta (quella sospetta), al cui interno si dileguava; dopo pochi minuti, da quest'ultima costruzione non ancora oggetto d'ispezione da parte dei CC. - usciva un uomo che, con fare indifferente, si intratteneva nel giardino antistante.

Il C.re D'Antoni immediatamente avvertiva i commilitoni i quali, passati nella villetta sospetta, identificavano l'uomo nel proprietario della villa, Di Salvo Nicola.

Questi tentava di convincere il m.llo cc. Giordano a desistere dall'ispezione, impegnandosi ad esibire il giorno dopo in caserma tutti i documenti richiesti, ma i carabinieri decidevano egualmente di controllare la villa e, portatisi al primo piano, ove avvertivano un odore acre e soffocante, scoprivano un complesso di apparecchiature.

Frattanto il Di Salvo, approfittando del trambusto determinatosi per effetto dell'inaspettata scoperta, riusciva a dileguarsi dalla parte posteriore del villino.

L'accurata perquisizione effettuata dava la certezza che era stato individuato un laboratorio per la produzione dell'eroina in pieno esercizio e consentiva di rinvenire nei locali al piano terra una rivoltella calibro 357 Magnum con matricola abrasa, carica con proiettili ad espansione, e 17 cartucce per pistola calibro 38, nonchè una polizza di assicurazione auto rilasciata a favore di Vernengo Giuseppe, cugino di Pietro e fratello di quel Vernengo Ruggero al quale, come si è visto, era formalmente intestata la villa di via Valenza; venivano altresì rinvenute tre tazzine con tracce di caffè.

Si accertava, ancora, che il contatore della energia elettrica era stato disinserito e che la energia veniva prelevata direttamente dalla rete esterna attraverso cavetti e conduttori appositamente allacciati.

Dalle successive indagini emergeva che i lavori edilizi nella villa attigua a quella di Di Salvo Nicola erano stati commissionati da Alfano Pietro, padre di Alfano Paolo, il quale ultimo veniva riconosciuto fotograficamente dal C.re D'Antoni per l'uomo che era passato da una villetta all'altra attraverso i ponteggi esterni. [...].

Giova a questo punto sottolineare che il laboratorio di via Messina Marine è ,finora, l'unico scoperto mentre era in corso di svolgimento il processo chimico di trasformazione della morfina base in eroina, tanto che i Carabinieri si sono trovati in presenza di pentole in ebollizione, beccucci che distillavano e di un'aria resa irrespirabile dai vapori emanati dalle sostanze chimiche in trasformazione.

Ciò induceva logicamente a ritenere che al momento dell'irruzione dei cc. doveva essere presente un chimico, riuscito però a sfuggire all'arresto essendo stato tempestivamente avvertito da Paolo Alfano. La presenza di una terza persona, del resto, è confermata dal rinvenimento, al pianterreno della villa del Di Salvo, di tre tazze di caffè usate.

In ordine, poi, all'allacciamento abusivo dell'impianto elettrico della villa dei Di Salvo con la rete esterna giova rilevare che, come è stato puntualizzato da Lopez Antonio, tecnico dell'Enel, ciò corrispondeva ad una necessità, in quanto che, se non fosse stato disattivato il contatore dell'energia elettrica, il gran numero e la quantità degli apparecchi elettrici impiegati nel laboratorio avrebbero posto fuori uso il contatore stesso e ciò avrebbe determinato sicuramente un intervento di personale dell'Enel, con ovvii rischi.

è di tutta evidenza che un laboratorio del genere richiede un'organizzazione complessa ed articolata che, oltre a curare l'approvvigionamento della morfina e la produzione dell'eroina, si occupi della commercializzazione del prodotto finito, attraverso canali collaudati e costituisce, quindi, un obiettivo riscontro dell'esistenza e del controllo di tutte le altre fasi in cui si articola il traffico di stupefacenti.

Nell'ambito delle indagini tendenti ad individuare i canali attraverso i quali pervenivano alle organizzazioni mafiose siciliane i prodotti chimici e le attrezzature necessarie per il funzionamento dei laboratori clandestini da alcuni adesivi applicati ai sacchi contenenti Soda Solvay leggera, è stato possibile rilevare che la ditta fornitrice era quella di Mangini Giuseppe, sita in questa via A.Di Rudinì (zona di Corso dei Mille).

Il Mangini ha ammesso di conoscere Nicola Di Salvo, precisando anzi che quest'ultimo una decina di anni prima era stato arrestato quale autore di un furto di tabacchi in danno di esso Mangini, ma ha negato di avergli mai venduto prodotti chimici. è stato, però, accertato che il Mangini ha acquistato, come risulta dalle relative fatture,

nell'anno 1981, kg.2560 di anidride acetica e, nei primi sei mesi del 1982, ben kg.4299 della medesima sostanza, che, come si è accennato, è indispensabile per il procedimento di raffinazione.

Egli naturalmente si è giustificato dichiarando di averla rivenduta al minuto e di non ricordare il nome di nessuno degli acquirenti. è risultato, inoltre, che tale Michele Ditta, titolare di una farmacia in via Armando Diaz (e, quindi, nello stesso quartiere "Sperone" della villa del Di Salvo), ha acquistato, dal 15.12.1980 al 30.11.1981, ben kg.1707 di anidride acetica.

Interrogato, il Ditta ha dichiarato di avere rivenduto la sostanza a persona a lui sconosciuta che, volta per volta, gli commissionava il prodotto e di ignorare, benché laureato in farmacia, che l'anidride acetica è indispensabile per la produzione di eroina.

Trattasi di due esempi che fanno comprendere di quali e quante connivenze e complicità si giovano le organizzazioni mafiose nelle loro illecite attività. Anche le testimonianze degli operai addetti alla ricostruzione delle ville del Di Salvo e dell'Alfano sentiti anche al dibattimento, hanno destato molte perplessità.

Canale Paolo ha dichiarato che eseguiva per conto di Nicola Di Salvo, da circa quattro mesi (e, quindi, dall'ottobre 1981), i lavori di sopraelevazione della villa e che quest'ultimo gli aveva corrisposto finora, con assegni e con danaro contante, circa 35 milioni mentre era ancora debitore di circa dieci milioni; che la famiglia del Di Salvo non abitava regolarmente nella villa, perchè, quando la mattina si recava al lavoro con gli operai, talvolta vi trovava qualcuno dei Di Salvo e talaltra no; che l'impianto elettrico della villa era stato eseguito da un elettricista che egli non aveva mai incontrato; che, per sue esigenze, aveva sospeso i lavori nella villa del Di Salvo qualche giorno prima dell'irruzione da parte dei Carabinieri.

Mastrogiovanni Domenico ha dichiarato che i lavori di costruzione della villa attigua a quella del Di Salvo gli erano stati commissionati dal suo amico Alfano Pietro e che erano iniziati verso la metà del gennaio 1982 (e, quindi, meno di un mese prima della scoperta del laboratorio); che l'Alfano, per la paga agli operai, gli corrispondeva, in contanti, circa un milione alla settimana; che i lavori nell'attigua villa del Di Salvo erano completamente distinti dai suoi.

Naturalmente, nessuno si era curato della mancanza delle licenze edilizie nei due immobili; nessuno si era accorto dell'allacciamento abusivo alla rete esterna dell'Enel; nessuno ha chiarito chi avesse autorizzato gli operai della villa dell'Alfano a prelevare dal Di Salvo l'acqua occorrente per la costruzione; nessuno ha saputo spiegare perchè nelle due ville fosse stata innalzata una impalcatura contigua.

Al riguardo, è bene premettere che la stessa ubicazione del laboratorio, in una zona controllata dalla famiglia di Corso dei Mille, di cui è "reggente" Filippo Marchese, da un lato, non può far meraviglia circa l'omertà imperante, come frutto dell'intimadazione diffusa nell'ambiente, dall'altro è indicativa della non estraneità del Marchese a tale iniziativa, essendo impensabile che i Vernengo i quali, come si dimostrerà tra breve, sono gli effettivi titolari del laboratorio - potessero impiantarlo senza il preventivo consenso di Filippo Marchese.

E comunque il fatto che i Vernengo avessero installato la raffineria in zona non controllata dalla loro "famiglia" di appartenenza è eloquentemente dimostrativo degli ottimi rapporti esistenti fra predetti e Filippo Marchese.

Tali considerazioni sui collegamenti tra gli imputati sono approfondite in altra parte di questa sentenza-ordinanza, ma va qui ricordato quanto ha testualmente riferito Stefano Calzetta: «La raffineria riguardava senza meno il gruppo dei Vernengo, ma è impossibile che alla stessa non fossero interessate anche tutte le altre famiglie mafiose Ritengo che il chimico della raffineria fosse Nino Vernengo; anzi, ciò mi fu detto esplicitamente dagli Zanca, i quali mi spiegarono che non si fidavano dell'opera di persone estranee al loro ambiente».

Deve essere puntualizzato, poi, che il Di Salvo, se è certamente un fidatissimo elemento dell'organizzazione (altrimenti, non sarebbe stato impiantato un laboratorio nella sua villa) è, comunque, una figura di secondo piano; è significativo al riguardo, che, all'atto dell'irruzione dei cc., proprio lui apparve nel giardino, cercando di far desistere i militari dall'ispezionare la villetta, in modo da consentire all'Alfano ed al chimico di fuggire.

Infatti, è dimostrato da altri episodi che in situazioni di emergenza, sono sempre i gregari a sacrificarsi per coprire la fuga degli elementi più importanti dell'organizzazione.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Dopo i chimici marsigliesi ecco i Vernengo, boss della droga di Sant’Erasmo. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 15 giugno 2023

Oltre a Vernengo Pietro ed al cugino Vernengo Giuseppe, anche Vernengo Antonino, fratello di Pietro, è coinvolto nel traffico di stupefacenti. Antonino Vernengo, soprannominato "u dutturi", è, secondo Stefano Calzetta, il chimico della famiglia, che si occupa della produzione dell'eroina, utilizzando un metodo imparato dai chimici francesi

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Le risultanze processuali hanno confermato che la titolarità del laboratorio di eroina è del gruppo che ruota attorno ai Vernengo ed a Filippo Marchese. Si è già detto della constatata presenza, dinanzi alla villa di Nicola Di Salvo, della autovettura in uso a Pietro Vernengo, appena due giorni prima della scoperta del laboratorio, nonchè del rinvenimento nell'appartamento del suocero, Giorgio Aglieri, della somma di $ 147.200 in contanti, sicuramente proveniente dalla vendita di stupefacenti negli Usa

In proposito Stefano Calzetta ha riferito: «Ho personalmente raccolto le sarcastiche e sfottenti confidenze di Pietro Vernengo, il quale mi riferì che il danaro sequestrato non aveva assolutamente scalfito la disponibilità economica del gruppo, disponendo le famiglie di mafia cui l'Aglieri e il Vernengo appartenevano di notevolissime somme di danaro derivanti soprattutto dal traffico della droga».

Nella villa del Di Salvo è stato inoltre rinvenuto, fra gli altri documenti, l'atto di precetto diretto a Pietro Vernengo e notificato il 23.8.1977 al nipote, Vernengo Luigi, concernente il pagamento della somma di lit. 162.907.446, a titolo di pena pecuniaria e spese di giustizia cui era stato condannato dal Tribunale di Castrovillari con sentenza del 14.11.1972 per contrabbando di tabacchi, dal quale si desume che già in quel procedimento il Di Salvo era coimputato del Vernengo.

Nella villa è stata altresì rinvenuta una polizza di assicurazione per la responsabilità civile relativa ad un automezzo targato PA 445338 intestato a Vernengo Giuseppe (nato il 22.11.1949) cugino di Vernengo Pietro. Successivi controlli della zona consentivano di accertare che, quasi di fronte alla villa, era posteggiato l'automezzo in questione, con gli sportelli non chiusi a chiave.

A ciò si aggiunga che, attraverso gli accertamenti bancari, è stato individuato un assegno di Nicola Di Salvo riferibile direttamente a Giuseppe Vernengo (nato il 22.11.1940).

Il Di Salvo, infatti, ha tratto sulla Cassa Rurale ed Artigiana di Monreale, il 28.4.1980, un assegno di lit. 3.500.000, negoziato da Cottone Tommaso, quale amministratore della S.r.I. "Ass. A. Com." e, secondo quanto risulta dalle dichiarazioni del Cottone, l'assegno era stato consegnato al Cottone medesimo da Vernengo Giuseppe per l'acquisto della autovettura R Renault Alpine targata PA 590955, intestata a De Luca Vita, madre del Vernengo. Debbono essere ricordate, poi, altre significative circostanze sintomatiche dello strettissimo rapporto esistente fra il Di Salvo e tutto il gruppo dei Vernengo :

1) Il Di Salvo, ufficialmente commerciante di detersivi e titolare di un negozio di frutta e verdura, ha operato da anni nel contrabbando dei tabacchi ed è stato condannato alla pena di tre anni di reclusione dal tribunale di Castrovillari (si ricordi che anche Di Caccamo Benedetto, apparente titolare dell'autovettura usata da Pietro Vernengo, è residente a Castrovillari.

2) Il 16.4.1976, al Casello di Taranto dell'Autostrada A14, il Di Salvo è stato identificato a bordo di un'autovettura BMW 2002, intestata a Vernengo Antonino (nato a Palermo il 4.2.1937), mentre era in compagnia di altri fra cui Pietro Vernengo fratello di Antonino, il quale esibiva falsi documenti di identità intestati a Lanzetta Alfonso. La certezza che il sedicente Lanzetta Alfonso fosse Pietro Vernengo si deduce dal fatto che 1'8.11.1978, a bordo di un'autovettura intestata a Di Caccamo Domenico, venivano fermati e controllati due individui, uno dei quali era Vernengo Giuseppe (nato a Palermo il 29.11.1940), mentre l'altro, qualificatosi per Lanzetta Alfonso, veniva invece riconosciuto per Vernengo Pietro fu Cosimo e veniva tratto in arresto, essendo ricercato sia per la esecuzione di una condanna ad anni sette di reclusione per sequestro di persona, sia perchè colpito da mandato di cattura emesso dalla Autorità Giudiziaria di Napoli per associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti.

In quel procedimento Pietro Vernengo è stato denunciato in concorso con personaggi di rilievo e precisamente con i fratelli Vernengo Antonino e Giuseppe, con il cognato Antonino Di Simone, nonché, fra gli altri, con Angelo Nicolini e Riccardo Cozzolino, collegati con Francesco Mafara ed in atto detenuti per traffico di stupefacenti.

Va ricordato, inoltre, che Vernengo Cosimo, nipote di Pietro, al momento del suo recente arresto, avvenuto a Crotone il 25 marzo 1985, ha indicato in "Lanzetta Alfonso" il nome del proprietario del villino, che egli intendeva prendere in locazione; ed è stato accertato che un altro complice, quasi sicuramente Pietro Vernengo, è sfuggito all'arresto.

3) Il 13.11.1981, Nicola Di Salvo è stato fermato e controllato dalla polizia a Palermo mentre si trovava a bordo di un'autovettura insieme con Pietro Vernengo e col cugino di quest'ultimo, Vernengo Giuseppe (nato il 20.11.1940), gli stessi due soggetti, cioè, che risultano direttamente collegati col laboratorio di via Messina Marine.

Nella circostanza Vernengo Giuseppe dichiarava alla Squadra Mobile che il Di Salvo lavorava alle sue dipendenze come autotrasportatore con la paga di lire 20.000 giornaliere.

Evidentemente, al Di Salvo non bastavano proventi del suo negozio di detersivi e di generi ortofrutticoli, se, per arrotondare le entrate, aveva bisogno anche della misera paga offertagli dal Vernengo!

Il riscontrato coinvolgimento di Pietro Vernengo e del suo gruppo familiare nel laboratorio di eroina di cui trattasi rende estremamente attendibile quanto riferito sul conto del Vernengo e dei suoi familiari da Stefano Calzetta: "Nel 1978 .... tornando a Palermo dal lido di Ficarazzi dove i Vernengo posseggono due villini, manifestai al citato Pietro, mio accompagnatore, il proposito di trasferirmi negli Stati Uniti d'America dove speravo di fare fortuna e verso cui ero attratto per interessi turistici.

Nell'occasione il Vernengo cercò di dissuadermi dal proposito e alle mie insistenze mi propose esplicitamente di portare meco in quel Paese qualche chilo di eroina, nel contempo facendomi odorare la sua mano, come per indicarmi che aveva appena finito di maneggiare tale sostanza stupefacente. Nonostante l'invito, io non aderii alla proposta del Vernengo".

Oltre a Vernengo Pietro ed al cugino Vernengo Giuseppe, anche Vernengo Antonino, fratello di Pietro, è coinvolto nel traffico di stupefacenti. Antonino Vernengo, soprannominato "u dutturi", è, secondo Stefano Calzetta, il chimico della famiglia, che si occupa della produzione dell'eroina, utilizzando un metodo imparato dai chimici francesi.

La propalazione di Calzetta trova riscontro nelle dichiarazioni di alcuni siriani, imputati di traffico di stupefacenti in un procedimento pendente davanti alla Autorità Giudiziaria di Trieste. Infatti, il siriano Bach Mahmoud ha dichiarato al pm di Trieste che suo cognato Awad Aziz era in contatto con un gruppo di quattro o cinque persone di Catania, tra cui Mimmo Zappalà, le quali acquistavano la morfina base e che egli, unitamente al cognato Awad ed ai catanesi, si era recato a Palermo per consegnare una partita di droga.

La merce era stata ritirata da due uomini nell'autorimessa di una villa sita vicino al mare, a dieci quindici minuti dall'uscita autostradale di

Villabate. La dichiarazione del Bach è stata confermata da Awad ed entrambi hanno indicato, in sede di ispezione (una delle quali effettuata dal pm di Palermo) nella villa di Ficarazzi di proprietà di Vernengo Antonino, quella in cui era avvenuta la consegna della morfina.

Le dichiarazioni dei siriani rivelano per la prima volta l'esistenza di collegamenti fra trafficanti palermitani e catanesi e convalidano l'attendibilità di quanto, qualche anno dopo, Stefano Calzetta ha riferito sull'argomento, e cioè di avere assistito ad un incontro molto affettuoso tra Pippo Ferrera ("Cavadduzzu") e Pietro Vernengo, alla presenza di Nicola Di Salvo, il quale soleva chiamare "compare" Pietro Vernengo. In ordine a questo incontro, poi, le parole del Calzetta sono ulteriormente riscontrate.

Ha riferito infatti Stefano Calzetta che in quell'occasione, su suggerimento di Pietro Vernengo che voleva fare uno scherzo al Di Salvo, aveva detto a quest'ultimo di sapere che il suo cavallo "Vallongo" era un brocco. Il Di Salvo però non aveva gradito affatto lo scherzo tanto che era sbiancato in volto per l'ira.

Ebbene, vi è in atti la prova certa che il Di Salvo era effettivamente proprietario di un cavallo chiamato, appunto, Vallongo, pagato con un assegno di lit. 4.000.000 del 9.9.1981. […] Tale riscontro, fra l'altro, consente di datare l'incontro tra Pippo Ferrera e Pietro Vernengo in epoca successiva al 9.9.1981, data dell'acquisto del cavallo da parte del Di Salvo.

Gli stretti legami esistenti tra Vernengo Giuseppe e il cugino Vernengo Pietro sono emersi anche in altro procedimento penale. Ed invero, la Guardia di finanza di Siracusa, in una brillante operazione anticontrabbando che portava al sequestro di quasi sedici tonnellate di tabacchi

lavorati esteri, traeva in arresto il 15.2.1983 Vernengo Giuseppe nonché Aglieri Giuseppe, cognato di Pietro Vernengo. Vernengo Giuseppe, all'atto dell'arresto, si accompagnava ad altro uomo, riuscito a sfuggire alla cattura e identificato dal Cap. Rabuazzo in Vernengo Pietro.

Si aggiunga che le intercettazioni telefoniche sull'utenza di Falbo Antonio, noto contrabbandiere di Avola arrestato anch'egli nell'operazione, hanno consentito di accertare che quest'ultimo era collegato con un'organizzazione di contrabbandieri palermitani il cui capo era un uomo a nome "Pietro", il quale in una telefonata veniva qualificato anche come "il fratello del dottore".

Di fronte a questa mole di elementi di prova, univoci e concordanti, Vernengo Giuseppe e Antonino, nei loro interrogatori, hanno negato qualsiasi responsabilità, rendendo dichiarazioni assolutamente contrastanti con gli accertamenti effettuati.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

I viaggi andata-ritorno della mafia: eroina a New York e dollari in Sicilia. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 16 giugno 2023

Il denaro pervenuto sul conto Stefania veniva immediatamente trasferito sul conto Wall Street 651, che era il conto del Cavalleri sul quale pervenivano anche le somme trasferite dal Corti e che venivano poi consegnate al Bosco. Si tratta, pertanto, dello stesso circuito di denaro proveniente dal gruppo Ganci Catalano e destinato al gruppo Bono. Circa la provenienza, non vi sono dubbi che lo stesso proveniva dal citato gruppo e fosse attinente al traffico di stupefacenti

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Si è già detto che le minuziose e dettagliate indagini che sfociarono nel processo cosiddetto della "Pizza Connection", con ramificazioni in Usa, in Svizzera e in Italia, presero l'avvio dalla scoperta da parte del Fbi. di spostamenti di ingenti masse di dollari da New York alla Svizzera da parte di persone collegate alla "Catalano Faction". Si verrà così a scoprire che i dollari sono ricevuti dalle stesse persone che sempre in Svizzera procedono all'approvvigionamento della morfina-base di origine turca. Si viene così a chiudere il cerchio del traffico di stupefacenti con risultati veramente sorprendenti sul piano probatorio e processuale.

Infatti, come si è già esposto nella parte II del presente capitolo, l'acquisto della morfina-base avveniva tramite La Mattina - Priolo - Rotolo Antonino e Greco Leonardo e talune ordinazioni di successive forniture venivano pagate proprio con i soldi che, tramite istituti bancari o corrieri, provenivano dalla vendita al dettaglio dell'eroina in Usa da parte del gruppo Ganci Catalano.

La Corte, ai fini della ricostruzione di tale parte del traffico di stupefacenti, ha utilizzato come fonti probatorie le dichiarazioni, allegate in atti, di Matassa Philip, Amendolito Salvatore, di Miniati Salvatore, di CavalIeri Antonio, di Della Torre Franco, di cui si è data lettura stante l'irreperibilità degli stessi. Inoltre, tramite commissione rogatoria internazionale, un giudice delegato dalla Corte ha partecipato a Lugano, in Svizzera, all'assunzione degli interrogatori di Waridel Paul, Palazzolo Roberto Vito, Donada Remo e Della Torre franco. Essendosi il Waridel rifiutato di rispondere, si è data lettura delle dichiarazioni precedentemente rese in data 29 e 30 aprile, 2 e 17 maggio, 18 luglio e 26 novembre dell'anno 1985.

Va, innanzitutto, posto in risalto quanto ha riferito Amendolito circa il ruolo di primo piano assunto da Greco Leonardo nell'intera vicenda, unitamente a Tognoli Oliviero: che egli aveva avuto contatti a New York (per la fornitura di pesce) con Paolo Guarino, Mario Di Pasquale e Giorgio Muratore (coinvolti nella vicenda Adamita); la spiegazione iniziale addotta da Salvatore Miniati e da Oliviero Tognoli, in ordine alla provenienza e alla destinazione del danaro da far pervenire in Svizzera, era stata che trattavasi di danaro appartenente a proprietari di pizzeria di New York che intendevano farlo pervenire in Sicilia, ove alcuni costruttori siciliani avevano bisogno di finanziamento per la realizzazione di attività edilizia; il denaro consegnatogli era di pertinenza di Castronovo Frank; che egli aveva il compito di far pervenire il denaro in Svizzera ma ignorava le ulteriori modalità per farlo arrivare in Sicilia; in Sicilia aveva fatto la conoscenza di Greco Leonardo, da lui ritenuto membro di spicco della mafia e interessato al trasferimento del danaro in Sicilia; Greco Leonardo era intimo amico di Tognoli Oliviero. Tali dichiarazioni oltre che, come si è visto, nelle indagini svolte in V.S.A., in Svizzera ed in Italia - hanno trovato indiretta, ma significativa, conferma nel controllo, alla frontiera di Ponte Chiasso in data 10.7.1981, di Greco Leonardo ed Tognoli Oliviero, i quali stavano recandosi, insieme, in Svizzera, a bordo di un'autovettura intestata ad una società di pertinenza del Tognoli, con sede in Brescia. Il Matassa, cugino della moglie di Tognoli Oliviero, ha confermato di essersi rivolto a Castronovo frank su segnalazione del Tognoli, di aver avuto contatti col Castronovo e con Catalano Onofrio, e di avere portato ad Amendolito Salvatore e ad altre persone non ancora identificate, in più riprese, somme certamente superiori al milione di dollari, prelevate dalla pasticceria "Casamento" o dal "Roma Restaurant" di Castronovo Frank.

Aggiungasi che come è stato accertato dal G.I. di Roma Della Torre franco, il quale ha riciclato danaro del gruppo Catalano, proveniente da traffico di stupefacenti, per complessivi 18,3 milioni di dollari, ha fatto affluire presso il Credito Svizzero di Chiasso circa 8,5 milioni di dollari. Ebbene, circa 1,8 milioni di dollari sono stati trasferiti sul conto 631770, costituito, presso l'Unione delle banche svizzere di Bellinzona, da Aiello Michelangelo di Bagheria. Tutto ciò è estremamente importante, poichè – al di là delle giustificazioni (in verità, risibili) fornite dai soggetti coinvolti in questa vicenda – è agevole rilevare che: attraverso i canali del riciclaggio si perviene, ancora una volta, ad uno dei capisaldi della mafia vincente, e cioè a Bagheria, quello stesso centro, da cui sono partiti i quaranta chilogrammi di eroina sequestrati nel marzo 1980 agli Adamita, ed in cui, come si è visto, si è recato Mazzara Gaetano nel suo viaggio siciliano del dicembre 1983. Dalla Svizzera il danaro, già versato nel conto di Aiello Michelangelo, è affluito in banche palermitane a copertura di fatture emesse dallo stesso Aiello Michelangelo per esportazione di prodotti agricoli nell'ambito europeo. Ciò appare indice dell'esistenza di qualcosa di poco chiaro nel settore del commercio con l'Estero dei prodotti agricoli originari dal Palermitano e, quindi, della necessità di approfondire attentamente la complessa materia. Tutti i soggetti coinvolti in queste indagini sono stati indicati come uomini d'onore da Buscetta Tommaso e da Contorno Salvatore. Ciò dovrebbe far riflettere sull'elevato grado di attendibilità delle loro dichiarazioni, ove si consideri che nè l'uno nè l'altro erano in alcun modo a conoscenza di queste risultanze, autonomamente acquisite, sul traffico internazionale di stupefacenti. è da sottolineare che di Aiello Michelangelo, il Contorno, pur non conoscendolo personalmente, sapeva trattarsi, per averlo appreso da Scaduto Tommaso ("uomo d'onore" della "famiglia" di Bagheria), di membro autorevole della famiglia di Bagheria, sostenuto da Greco Leonardo e gradito a Greco Michele, capo della "commissione", con cui si scambiava "favori" nel settore della produzione e commercio degli agrumi. Per comprendere appieno i complessi meccanismi finanziari posti in movimento per il trasferimento dei capitali attraverso rapporti bancari internazionali, appare opportuno trascrivere la minuziosa, puntuale e chiarissima ricostruzione di tutto il movimento dei dollari, operata dal G.I. Galasso in due mirabili ordinanze-sentenze di rinvio a giudizio, quella del 20/12/1984 contro Amendolito + 54 e quella contro Aiello + 32 entrambe in atti, frutto di un notevole approfondimento istruttorio oltre che di una rara competenza specifica.

Dalla prima si riportano integralmente i seguenti brani:.

"Il primo nucleo di indagini si svolge nei Stati Uniti a seguito dei sospetti destati da alcuni grossi trasferimenti di somme dagli Stati Uniti alla Svizzera. Vengono individuati alcuni personaggi, quali Castronovo, Catalano Onofrio Matassa Philip, Ganci Giuseppe, Corti Adriano, i quali vengono sottoposti a pedinamenti ed altre forme di sorveglianza. Successivamente a questo primo nucleo di indagini si aggiungeranno le ampie e dettagliate dichiarazioni di Amendolito Salvatore, che si salderanno con le cospicue risultanze delle rogatorie internazionali svolte in Zurigo e Lugano, riguardanti deposizioni testimoniali, interrogatori di imputati e acquisizione di documentazione bancaria.

“Alla stregua degli elementi raccolti i fatti vanno ricostruiti nel seguente modo. Nel corso del 1980-81 vengono individuati due diversi canali di trasferimento di dollari da New York alla Svizzera e di qui in Italia. Gli stessi hanno però lo stesso punto di partenza (gruppo Catalano-Castronovo-Ganci) e lo stesso punto di arrivo (gruppo Bono). Il primo, che passa attraverso la Chemical Bank di New York e la Handels Bank di Zurigo, viene ricostruito sulla base delle concordi dichiarazioni dei testi (Schaller e Buzzolini) e degli imputati (Corti, CavalIeri e Giussani) e sulla documentazione dagli stessi fornita. Dette operazioni si svolgono nello ottobre-novembre 80 e riguardano circa due milioni di dollari. è Bosco Emanuele Costantino, detto Maurizio (v. riconoscimenti fotografici del CavalIeri e del Giussani), uomo di fiducia di Bono Giuseppe, per cui funge da autista e per conto del quale gestisce il ristorante Gallo Rosso, che si rivolge al CavalIeri per trovare una canale di trasferimento di dollari dagli Usa alla "Svizzera.

In precedenza, il Bosco teneva contatti con Giussani Renato, socio del CavalIeri e del Corti, che aveva già svolto per lui analoghe operazioni (dichiarazioni CavalIeri). In quel periodo il Giussani, però, si trovava in Inghilterra e quindi la questione venne trattata direttamente dal Cavalieri. Quest'ultimo si rivolse a Corti Adriano, il quale a sua volta si rivolse a Gershon Schtekel, un operatore finanziario di Zurigo. Allo Schtekel il Corti disse che si trattava di danaro proveniente da una ditta di pavimentazione stradale di New York. Il Corti, invece, ha dichiarato che il CavalIeri gli avrebbe detto che il denaro era costituito da fondi da sovrafatturazione di una acciaieria in New York. Si vedrà più avanti come del tutto inattendibile sia da ritenersi la dichiarazione del Corti.

Le operazioni procedevano nel seguente modo, dettagliatamente descritte dal CavalIeri: il Maurizio (Bosco) telefonava a CavalIeri dicendogli che all' Hotel South Gate di New York era pronta una tranche di denaro, il CavalIeri avvisava lo Schtekel. Questi si metteva in contatto con il suo corrispondente di New York; "tale Alan Eshrine, il quale mandava qualcuno a ritirare il denaro. Il denaro veniva versato presso la Chemical Bank di New York e di qui trasferito presso la Handels Bank di Zurigo, conto Glandor Lmtd, donde proseguiva presso il Credito Svizzero di Bellinzona sul conto Wall Street 651, conto che il CavalIeri asserisce essere a lui intestato, o comunque nella sua piena disponibilità. Il CavalIeri precisa che a volte qualcuno chiamava direttamente dagli Stati Uniti, presentandosi come amico di Maurizio, a volte Maurizio si presentava personalmente al CavalIeri con valige piene di dollari, a volte era lo stesso CavalIeri che mandava persone di sua fiducia a New York, le quali si presentavano nel posto indicato pronunciando una parola d'ordine (ad es. "Cavallo"). Tutte le operazioni, ammontanti a 1.783.101 dollari, sono provate documentalmente. Il denaro pervenuto sul conto Wall Strett 651 veniva poi prelevato dallo stesso CavalIeri e consegnato al Bosco, dopo essere stato cambiato in franchi svizzeri.

"Da quanto sopra esposto non possono sussistere dubbi circa la provenienza e la destinazione del denaro. Per quanto riguarda questo ultimo profilo, va osservato che le dichiarazioni del CavalIeri trovano un preciso riscontro in alcune telefonate intercettate a Milano sull'utenza della CITAM. La CITAM era una delle società-schermo dietro la quale si celavano i loschi atfari del sodalizio criminoso, frequentata abitualmente dal Bosco, da Tanino Martello, da Conte Romano, da Alfredo Bono ed altri. In alcune telefonate ricorrono i nomi di CavalIeri (9.5.1980) e Giussani (8.5.80 20.5.80 21.S.80). In particolare risulta che quest'ultimo ha la funzione di procurare e cambiare dollari. Nella telefonata dell'8.S.I980 Federico D'Agata dice a Ferri Luciano che Nicola Capuano ha bisogno di 5.000 dollari ("quelli verdi") e l'utente risponde che proprio quel giorno doveva venire Renato (Giussani), il quale, s'intende, li avrebbe procurati. Nella telefonata del 20.5.80 l'utente dice al D'Agata che Giussani ha 300 (probabilmente 300.000) dollari e che nel giro di un'ora sarebbero "andati a prenderli Conte Romano ed il Bosco. Nella telefonata del 21.5.1980 il Martello impone al Giussani un cambio svantaggioso, mentre in altra telefonata dello stesso giorno il Giussani parla col D'Agata e gli dice che deve dare 177.600 (verosimilmente dollari). è bene osservare che proprio nel periodo in cui avvengono dette telefonate il Giussani ed il CavalIeri operavano in società ed il CavalIeri afferma che era il Giussani che si occupava dei trasferimenti di dollari per conto di Maurizio (Bosco). Il Giussani ha poi ammesso di aver frequentato in Milano l'Hotel Plaza ed i ristoranti Conte Ugolino e Mancini, luoghi frequentati dai membri dell'associazione, e di aver conosciuto, anche se sotto altro nome, Giuseppe ed Alfredo Bono. Circa la provenienza del denaro dal Gruppo Catalano Ganci Castronovo non possono esservi dubbi in proposito per le seguenti considerazioni: nel periodo in cui avvengono i suddetti trasferimenti di somme, Corti Adriano si reca due volte a New York, 1'11.10.80 e 1'8.1.81. La prima volta alloggia presso -l'Hotel Sheraton, la seconda volta presso il Waldorf Astoria Hotel. In base alle registrazioni fatte presso i due alberghi risulta che in entrambe le occasioni Corti ha chiamato più volte il ristorante Roma di Franck Castronovo; le modalità con cui avvenivano le consegne dei dollari sono le medesime di quelle descritte da Amendolito, il quale riceveva per certo il denaro da Castronovo e Matassa; il denaro confluiva in Svizzera sullo stesso conto (Wall Street 651) su cui confluiva il denaro trasferito da Amendolito; risultano stretti contatti tra Catalano, Ganci e Castronovo e Bono Giuseppe e Bosco Emanuele Costantino (v. servizi fotografici ed intercettazioni telefoniche); infine, ulteriore circostanza che conferma l'unicità del circuito finanziario, il 19.11.1980 Onofrio Catalano e Giuseppe Ganci vengono visti entrare nello Hotel Al Rae di New York, ove proprio in quel giorno alloggiavano Antonio Virgilio, Luigi Monti e Tanino Martello, sotto il falso nome di Eugenio Apicella, personaggi strettamente legati ai fratelli Bono.

"La seconda operazione, parallela alla prima, si svolge in due fasi: giugno-agosto 80 e ottobre 10 gennaio 81. Nella prima fase vengono trasferiti globalmente 3.490.000 dollari, nella seconda 6.319.000 dollari. La ricostruzione di questo secondo gruppo di trasferimenti è stata resa possibile fin nei minimi particolari dalle più ampie e dettagliate dichiarazioni rilasciate da Amendolito Salvatore, sia al Grand Jury di New York (e regolarmente acquisite a mezzo rogatoria internazionale), sia ai G.l. di Roma, Milano e Palermo in sede di rogatoria internazionale svolta a New York. Le dichiarazioni di Amendolito hanno trovato sostanziale conferma in quelle del Miniati e del teste Binaghi. Alla stregua delle citate fonti di prova, i fatti si sono svolti nel modo seguente: il Miniati, per conto del Tognoli, si rivolse all'Amendolito per chiedergli se fosse in grado di operare trasferimenti dagli Stati Uniti alla Svizzera per conto di alcuni italo-americani. Il Miniati precisò che si trattava di soldi provenienti dall'attività di alcune pizzerie, sottratti al fisco, che dovevano essere investiti in Italia in attività edilizie (per l'esattezza si parlò della costruzione di un grande albergo in Sicilia). Amendolito ebbe contatti diretti con Frank Castronovo, detto Ciccio l'Americano, dal quale ricevette direttamente i pacchi e le borse contenenti tranche da 200-300.000 dollari. Le modalità con cui avveniva il trasferimento sono esposte dettagliatamente dall'Amendolito in un primo momento i trasferimenti avevano luogo direttamente a mezzo banca da New York in alcuni conti svizzeri indicati dal Miniati o dal Tognoli, tra i quali i seguenti: conto 106804 Società Banca Svizzera di Chiasso conto 817 Smart Credito Svizzero di Bellinzona conto 27971 Stefania Banca Svizzera Italiana di Mendrisio.

Successivamente, invece, l'Amendolito trasportava direttamente il denaro, a mezzo aereo privato, a Nassau e lo depositava presso la filiale di Nassau della Banca di Svizzera e d'Italia e di qui a mezzo assegni circolari al portatore il denaro veniva trasmesso sui conti svizzeri sopra indicati.

"è interessante osservare che taluni dei conti svizzeri erano dei conti di mero transito. Infatti, secondo quanto riferisce il Binaghi, il denaro pervenuto sul conto Stefania veniva immediatamente trasferito sul conto Wall Street 651, che era il conto del CavalIeri sul quale pervenivano anche le somme trasferite dal Corti e che venivano poi consegnate al Bosco.

Si tratta, pertanto, dello stesso circuito di denaro proveniente dal gruppo Ganci Catalano e destinato al gruppo Bono. Circa la provenienza, non vi sono dubbi che lo stesso proveniva dal citato gruppo e fosse attinente al traffico di stupefacenti. In proposito si deve osservare che l'Amendolito ricevette parte delle somme direttamente dal Castronovo e parte dal Matassa; che le modalità stesse delle consegne fecero nascere sospetti nell'Amendolito circa la liceità del denaro, e che la composizione stessa delle somme, costituite per lo più di pezzi di piccolo taglio e molto rovinati, aveva indotto l'Amendolito a sospettare che provenissero da commercio di droga (in proposito si osservi l'interrogatorio dell'Amendolito, allorchè egli "riferisce che il suo collaboratore Friscia gli fece notare che i biglietti da due dollari circolavano quasi esclusivamente nell'ambiente dello spaccio di droga). SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Imperi criminali, Vito Roberto Palazzolo e la famiglia Cuntrera-Caruana. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 17 giugno 2023

La partecipazione del Palazzolo alle operazioni di trasferimento si desume, oltre che dalla sua costante presenza nei locali della Traex e della P.G.K. e dalle dichiarazioni del Rossini secondo cui il Palazzolo era uno dei clienti del Della Torre che voleva trasferire denaro dagli Stati Uniti alla Svizzera, anche dalla circostanza che è il Palazzolo, che mette in contatto il Della Torre con Philip Salamone, colui che consegnera' materialmente in piu' occasioni il denaro...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Nel 1982 vengono accertati altri trasferimenti di ingenti somme di dollari, attraverso un nuovo canale di intermediazione. Questa volta sono Della Torre, Rossini e Palazzolo che operano per il trasferimento di dollari. Si osservi che, secondo quanto dichiarato dall'Amendolito, il Tognoli ed il Miniati per conto del gruppo americano si erano già rivolti al Della Torre nel 1980-81 per operare detti trasferimenti, ma non avevano raggiunto l'accordo per la tangente troppo elevata richiesta dal Della Torre. Del resto pregressi contatti tra il Miniati ed il Della Torre si desumono dalla circostanza che entrambi hanno lavorato presso la Finagest. Il Rossini è il titolare della S.a. Traex, società finanziaria di Lugano, operante soprattutto nel campo delle operazioni su merci. Il Della Torre si rivolge al Rossini affinchè questi gli consenta di operare attraverso "i conti della Traex aperti presso due società di brokeraggio di New York, la Merryl Lynch e la Hutton. Il Rossini afferma che il Della Torre gli disse che operava per conto di ricchi clienti americani; in particolare gli precisò che le grosse somme con cui voleva compiere operazioni su merci sulla borsa di New York provenivano dalla vendita di stabili negli Stati Uniti, il cui ricavato non era stato dichiarato fiscalmente. Uno dei grossi clienti del Della Torre secondo le dichiarazioni del Rossini era il Palazzolo. Il Della Torre operava a mezzo della società P.G.K. Holding, che aveva sede negli stessi locali della Traex. Detta sede, e di conseguenza anche i locali della Traex, era abitualmente frequentata anche dal Palazzolo.

La partecipazione del Palazzolo alle operazioni di trasferimento si desume, oltre che dalla sua costante presenza nei locali della Traex e della P.G.K. e dalle dichiarazioni del Rossini secondo cui il Palazzolo era uno dei clienti del Della Torre che voleva trasferire denaro dagli Stati Uniti alla Svizzera, anche dalla circostanza che è il Palazzolo, che mette in contatto il Della Torre con Philip Salamone, colui che consegnerà materialmente in più occasioni il denaro "al Della Torre in New York, e uomo del gruppo Catalano-Ganci-Castronovo, ed inoltre il Palazzolo terrà continui contatti telefonici col medesimo Salamone. I trasferimenti di dollari ad opera del Della Torre iniziano nel marzo 1982. Il Della Torre si reca personalmente a New York, alloggia sempre in alberghi diversi, si muove quasi sempre con Philip Salamone, ed opera ingenti versamenti in contanti prima sul conto Traex presso la Merril Lynch, poi successivamente sul conto Traex presso la Hutton di New YorK. Durante tutti i soggiorni a New York il Della Torre è stato sotto osservazione della polizia americana, che ne riferisce al Giudice distrettuale con la postilla alla richiesta di mandati di cattura e con la clausola aggiunta ai mandati di perquisizione.

L'FBI ha accertato che i l Della Torre dal 24.3.1982 al 23.4.1982 ha effettuato diversi versamenti per la somma complessiva di 4,9 milioni di dollari presso la Merril Lynch e dal 27.4.1982 al 2.7.1982 versamenti per 5,2 milioni di dollari presso la Hutton per un totale di 10,1 milioni di dollari. Dal 6.7.82 al 27.9.1982 il Della Torre ha "effettuato ben undici versamenti per 8,25 milioni di dollari sul conto della "Acacias Development Corporation" presso la Hutton di New York. Si osservi che la Acacias era una società del Palazzolo, ovvero di fatto gestita dal medesimo. In totale quindi il Della Torre ha versato 18,3 milioni di dollari. Una parte di queste somme fu poi trasferita sul conto P.G.R. presso la Hutton.

Queste operazioni trovano in gran parte riscontro documentale nella documentazione della Traex prodotta dallo stesso Rossini. Da questa documentazione (v. fasc.commissione rogatoria al G.l. di Lugano del 13.12.1983 acquisizione documenti) risulta un flusso di accrediti in dollari per circa 8,5 milioni, in gran parte transitati dal Credito Svizzero di Chiasso. Di tali somme circa 3,4 milioni vengono trasferiti sul conto "Graziano" presso il Credito Svizzero di Chiasso di Della Torre Franco, circa 1,8 milioni vengono trasferiti sul conto 631770 presso la Unione Banche Svizzere di Bellinzona, intestato a tale Ajello Michelangelo; infine circa tre milioni di dollari risultano prelevati in contanti. Non è stato possibile effettuare il riscontro documentale per quanto riguarda i trasferimenti operati sui conti "della P.G.R. e della Acacias, in quanto la relativa documentazione, benchè sequestrata su richiesta di questo G.I., è tuttora giacente presso l'A.G. elvetica in attesa di definizione della pratica estradizionale di Palazzolo Vito.

Durante il periodo di osservazione del Della Torre è stato rilevato che ad ogni viaggio a New York mutava alloggio e ciò evidentemente per sfuggire ad eventuale sorveglianza. Il Della Torre era in stretto contatto con Philip Salamone. Questi, a sua volta, risultava in continuo contatto telefonico con Giuseppe Ganci e Salvatore Salamone. Successive investigazioni ed appostamenti consentiranno all'F.B.I. di accertare contatti diretti di Philip Salamone con Salvatore Grec~;(fratello di Leonardo Greco n.d.r.); un incontro con Castronovo e Mazzara presso la Sal's Pizza di Eptune City ed un incontro con persona sconosciuta presso la Pronto Demolition (soc. di Mazzurco, Bono e Ligammari).

Non vi possono essere dubbi, pertanto, circa la provenienza del denaro dal gruppo Ganci-Catalano-Castronovo, mentre la fantasiosa storia dei misteriosi clienti arabi narrata "dal Della Torre in accordo con il Palazzolo (peraltro priva di ogni riscontro) deve ritenersi un mero espediente difensivo privo di ogni fondamento. Tale versione, inoltre, è in contrasto con quanto dichiarato dal Rossini secondo cui il Della Torre gli avrebbe riferito che lui operava per clienti americani e per conto del Palazzolo. E tale circostanza trova una indiretta conferma in quanto dichiarato dal Palazzolo, secondo cui sarebbe stato il Della Torre a riferirgli che Ganci, Catalano e Castronovo erano personaggi, che avevano contatti vecchi da anni in certi ambienti finanziari del luganese. Qui il Palazzolo riferisce una circostanza vera, risultando la stessa aliunde, ma mente quando afferma di averla appresa dal Della Torre, in quanto, come risulta dalle indagini dell'F.B.I., egli era in continuo contatto telefonico con Philip Salamone, che era appunto un semplice galoppino del gruppo Ganci-Castronovo-Catalano. Allo stesso modo dalle dichiarazioni del Palazzolo risulta che anche il Rossini conosceva "don Peppino Ganci", proprietario di una catena di ristoranti in America, e lo stesso Rossini riferisce al Palazzolo che già in "precedenza in certi ambienti finanziari luganesi si era operato per trasferire capitali dagli Stati Uniti alla Svizzera.

La provenienza del denaro, le analoghe modalità di trasferimento, gli accertati rapporti del Della Torre con il Miniati, l'Amendolito ed il Tognoli, inducono a ritenere fondatamente che anche queste somme fossero destinate al medesimo gruppo mafioso, che era il gruppo Bono – Salamone, corrispondente in Italia del gruppo Catalano-Ganci-Castronovo.

In conclusione, alla stregua di quanto sopra esposto, risulta accertato documentalmente negli anni 80-81 e 82 un movimento di circa 30 milioni di dollari, proveniente dal gruppo Catalano-Ganci-Castronovo, transitante attraverso banche svizzere e destinato all'organizzazione criminosa operante in Milano, Roma e Sicilia, provento del traffico di stupefacenti.

Da elementi acquisiti a seguito di altre investigazioni sono emersi poi altri movimenti di denaro in Svizzera ed in Italia ricollegabili all'attività dell'organizzazione e relativi, verosimilmente, attesa l'elevatezza delle cifre, a riciclaggio di danaro proveniente da traffico di stupefacenti.

"In data 20 e 21 luglio 1982 vengono registrate sull'utenza palermitana intestata a Masi Adalgisa ed in uso a Salamone Nicolò due telefonate: la prima tra Nicolò Salamone e Renato Giussani, la seconda tra il medesimo Nicolò ed Alfonso Caruana. Il Salamone dice al Giussani che effettuerà un versamento su di un conto di questi in Svizzera, quindi il Giussani dovrà dare la somma ad una persona di cui fornisce l'utenza svizzera, utenza risultata intestata ad Alfonso Caruana. Nell'altra, il Salamone parla direttamente con Alfonso Caruana e gli annuncia che riceverà una telefonata del Giussani relativa alla somma da consegnare. Informazioni della polizia americana rendevano noto che proprio il 21.7.1982 veniva effettuato un versamento di 60.000 dollari sul conto Agape 220-168 del Credito Svizzero di Chiasso. La circostanza troverà, poi, conferma documentale a seguito dell'acquisizione della relativa documentazione bancaria a mezzo rogatoria internazionale. Il Giussani ha ammesso di essere il titolare del suddetto conto, di aver ricevuto il bonifico dal Salamone e di aver consegnato la somma di 60.000 dollari al Caruana, anche se "afferma di non conoscerne l'identità. Si consideri, inoltre, che nello stesso mese di luglio l'utenza del Caruana risulta chiamata da Parigi da tale Rocca, che è il falso nome con cui viaggiava Alfredo Bono.

Si evidenzia dunque la continuità dell'attività di riciclatore del Giussani che va dall'80 fino alla data dell'arresto, attività svolta in diretto contatto con i membri più influenti dell'associazione (Bono, Salamone). Al contempo emerge la presenza ed il ruolo, nell'ambito del riciclaggio, di Alfonso Caruana, membro della famiglia Caruana, strettamente legata alla famiglia Cuntrera di cui risulta il permanere dei contatti con i Salamone. Anche detti contatti risultano dalla documentazione bancaria acquisita (v. assegni di Cutrera A. incassati da Salamone) (rogatoria Zurigo).

Nei giorni del luglio 1982 in cui i fratelli Salamone si trovavano a Zurigo (dal 14.7 al 19.7 il Nicolò e fino al 22.7 Antonino) furono oggetto di sorveglianza da parte di agenti della D.E.A. (all.23 e segg. al rapporto). Gli stessi hanno avuto contatti telefonici con Caruana Alfonso e Giussani Renato, hanno viaggiato su di "un'auto intestata al Caruana, sono stati visti entrare in diverse banche ed incontrarsi personalmente con tale Garbani, impiegato della Sogenal (Banque Societè Alsacienne). Sentito come teste il Garbani ha precìsato che fratelli Salamone erano clienti della Sogenal, presso cui avevano conti e depositi, ed erano (o erano stati) clienti della V.B.S. di Horgen; che gli stessi movimentavano sui loro conti ingenti somme di dollari spesso provenienti da banche svizzere del Ticino, e che, a suo parere, i Salamone intrattenevano rapporti con parecchie grosse banche in Svizzera. La documentazione acquisita a mezzo rogatoria dalla Sogenal nonchè dalla V.B.S. di Horgen confermava quanto dichiarato dal Garbani in ordine alla presenza di conti intestati ai due fratelli ed alla loro movimentazione. In particolare si notavano rimesse per somme ingenti (400.000/500.000 dollari), si notava anche un accredito di 400.000 dollari proveniente dalla Discount Bank di Lugano, banca sulla quale operava abitualmente Nunzio Guida, il quale alla stregua delle dichiarazioni del Garavelli, risulta strettamente legato a Salamone A., nel grosso affare di droga progettato in Brasile.

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

I favolosi conti svizzeri della Pizza Connection. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 18 giugno 2023

Il Palazzolo era già noto al tempo dell'esportazione di valuta dall'Italia alla Svizzera, nel campo del contrabbando e nel riciclaggio di denaro. Aveva rapporti con personaggi di primo piano della mafia siciliana quali i Vernengo, i Savoca, Geraci Nenè, Madonia Antonio. I due (Palazzolo e Della Torre) non tardarono a comprendersi parlando negli affari un linguaggio molto simile...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Dalla seconda ordinanza si stralciano i passi seguenti: «L'ulteriore istruttoria ha consentito di completare il quadro ricostruttivo in quella sede rappresentato, precisandolo meglio nei tempi, nelle modalità, nei personaggi e nei loro ruoli. Fin dall'80 il motore di tutte le operazioni relative ai dollari appare Tognoli Oliviero, detto Pinetto».

Il Tognoli è conosciuto presso gli operatori economici del Ticino come un affermato industriale del ferro ed ha buoni rapporti con banche e società finanziarie. Il Tognoli opera di conserva e per conto di Greco Leonardo, del quale è compare di nozze e con il quale fa ricchi affari in Sicilia. I referenti a Lugano per le operazioni finanziare del Tognoli risultano essere fino dall'80 il CavalIeri, titolare della Coop-Finanz. ove presta la sua opera anche il Donada, ed i sigg. Daffond del Credito Svizzero di Bellinzona e Binaghi della banca della Svizzera Italiana di Mendrisio.

Più volte il Tognoli si reca a Lugano con il Greco (Donada riferisce di almeno tre nvolte) e si incontra con Ganci Giuseppe presso la Coop-Finanz del CavalIeri; il Tognoli presenta anche il Greco al Daffondo in occasione dell'apertura del conto Santa Flavia da parte del Greco, la circostanza è peraltro ammessa dallo stesso Greco. Se il Greco, per la sua posizione di rilievo nella gerarchia di Cosa Nostra e per i suoi contatti diretti con il Ganci ed il Castronovo anche tramite il fratello Greco Salvatore, appare come il dominus della situazione, tuttavia chi direttamente si occupa e gestisce il traffico dei dollari, tiene i contatti, reperisce il personale e dà le disposizioni, è per l'appunto Tognoli Oliviero. Ai primi dell'80 perciò (almeno a tale data si spinge la ricostruzione dei fatti in questo processo) il Tognoli ha necessità di trasferire molto denaro dagli U.S.A. alla Svizzera e si dà da fare per attivare dei canali sicuri di trasferimento.

Si rivolge, dunque, al CavalIeri, noto per aver svolto tale tipo di attività, soprattutto per quanto riguarda l'esportazione di lire dall'Italia alla Svizzera. Il Tognoli si reca per la prima volta nell'ufficio del CavalIeri insieme a Greco "Leonardo e Ganci Giuseppe, vale a dire con colui che inviava l'eroina a New York e con chi la vendeva a New York. Il CavalIeri si muove in diverse direzioni: da un lato si rivolge al Corti, il quale attraverso lo ShetekeI attiva un canale bancario che va dalla Chemical Bank di New York alla Handles Bank di Zurigo e di qui al conto Wall Street presso il Credito Svizzero di Bellinzona. Le modalità e l'entità dei trasferimenti (1.783.101 dollari complessivi) sono ampiamente descritti nelle dichiarazioni di Shetekel e Corti e nella documentazione da loro stessi prodotta.

Circa il conto Wall Street va precisato che lo stesso non è di CavalIeri Antonio, come erroneamente si era ritenuto nell'ordinanza del 20/12/84 alla stregua delle prime dichiarazioni del CavalIeri, bensì del Tognoli, come si deduce dalle successive dichiarazioni del CavalIeri dell'8/8/85 allorchè specifica che il cliente, che aveva il conto Wall Street e di cui non vuole fare il nome, è la stessa persona accompagnata dal Donada alla Traex e che affida al Donada la Porsche ricevuta a Zurigo dal Priolo e cioè il Tognoli Oliviero.

"Il Binaghi viceversa indica esplicitamente il Tognoli quale titolare del conto Wall Street nelle dichiarazioni rese davanti a questo G.I. a Lugano 1'8/8/85 e mai trasmesse dall'Ufficio federale di Berna, senza alcuna motivazione. Questo canale opera solo nell'ottobre-novembre 80 e poi si interrompe perchè lo Shetekel si ritira dall'affare. Il Corti cerca di ricucire le fila di nuovi metodi di trasferimento anche attraverso il Canada ed a tal fine viene organizzato un incontro a Montreal ai primi dell'81. Il Corti parte da Zurigo con Tognoli Oliviero e Greco Leonardo (è il Donada che li accompagna all'aereoporto) mentre da New York partono Amendolito e Castronovo che viaggiano sullo stesso aereo ed alloggiano nello stesso albergo.

Ma evidentemente dall'incontro non sortisce alcun esito, tanto che il Corti esce definitivamente di scena. D'altro lato il CavalIeri si attiva anche per organizzare dei trasporti materiali di valigie piene di dollari dagli Stati Uniti attraverso corrieri. In tal modo tra 1'80 e tutto 1'81 il CavalIeri fa trasferire circa 3 milioni e mezzo di dollari (v. dichiarazione del CavalIeri). Tra i corrieri sono stati individuati lo Scossa, l'Airaldi, il Bignotti e verosimilmente Catalano Onofrio, personaggio presente a diverse consegne di dollari a Matassa a New York è presente anche presso la Coop-Finanz del CavalIeri insieme a Greco Leonardo (v. dichiarazioni Donada), indicato nel rapporto del 7/2/83 come corriere di dollari unitamente a Matassa Philip. Attraverso le dichiarazioni di Scossa, Airaldi e Bignotti si sono potute ricostruire le modalità con cui avvenivano questi trasporti materiali per conto del CavalIeri. è il Rossini che presenta lo Scossa, suo cugino, al CavalIeri, che aveva bisogno di qualcuno che andasse in America a prendere delle valige piene di dollari. Lo Scossa si rivolse al suo socio Airaldi, il quale era amico di Esposito Claudio, steward della Suisse Air. Questi gli assicurò che gli era possibile far uscire dagli U.S.A. pacchi o valigie senza passare per il controllo doganale in uscita di New York, sicchè con la collaborazione dell'Esposito, iniziarono i primi trasporti.

"La prima volta nel marzo dell'81 si recarono a Nex York lo Scossa e l'Airaldi insieme. Il CavalIeri dette loro il numero di telefono della persona da contattare dicendo loro che detta persona era chiamata il "bufalo" o "bufalone". In realtà si trattava di Ganci Giuseppe, come hanno finito per ammettere i due, fornendone una precisa descrizione e riconoscendolo in foto. C'è da osservare che comunque appare assai poco credibile quanto dagli stessi affermato di avere sempre ignorato il vero nome del Ganci, considerato che: il Ganci veniva spesso nel Ticino e frequentava il CavalIeri ed il Rossini; gli stessi hanno avuto contatti telefonici diretti con lui anche dalla Svizzera; nelle telefonate intercettate a New York ed acquisite con l'interrogatorio dello Scossa, l'Esposito si rivolge a Ganci chiamandolo "Pino" e "Giuseppe" e non "Bufalo". Giunti a New York i due contattarono il Ganci e, fissato un appuntamento, ricevettero personalmente dal Ganci due borse piene di denaro.

"Successivamente fu inviato negli U.S.A. Bignotti Mirko, che operò con le stesse modalità in un paio di viaggi ed un altro paio di viaggi effettuò sempre nell'81 l'Airoldi. Complessivamente, come si è detto, attraverso lo Scossa, lo Airaldi, il Bignotti e l'Esposito, il CavalIeri fece trasportare nel 1981 circa 3 milioni e mezzo di dollari, sempre ricevuti con le stesse modalità e dalle stesse persone (Ganci Giuseppe ed un giovane non identificato).

Nello stesso periodo di tempo ('80 '81) il Tognoli era riuscito ad attivare un altro canale di trasferimento. Attraverso Miniati Salvatore, un suo collaboratore, era riuscito ad entrare in contatto con Amendolito Salvatore, uno spregiudicato uomo d'affari italiano residente negli U.S.A. e titolare dell' O. B. S. Attraverso l'Amendolito e con l'aiuto del cugino della moglie Matassa Philip, il Tognoli, riuscì a trasferire dagli U.S.A. in Svizzera circa 10 milioni di dollari.

Le modalità ed i tempi dei trasferimenti sono dettagliatamente descritti nelle dichiarazioni rese dall'Amendolito e dal Matassa dinnanzi al "Grand Jury di New York ed a questo G.l. a New Yorh ed acquisite attraverso rogatoria internazionale; ed hanno trovato puntuale riscontro nella documentazione bancaria alla Svizzera (conti Bahamas, Nassau, Lione, Stefania presso la B.S.I. di Mendrisio). Detta vicenda è stata già oggetto di valutazione da parte di questo G.l. nell'ordinanza 20/12/84 e del Tribunale di Roma nella sentenza dell'8/11/8S, alle cui esposizioni ci si riporta integralmente. Qui basti osservare solo, sinteticamente, che trasferimenti avvennero tutti tramite passaggi bancari o spedizione di "money order" e le somme transitavano su conti presso la B.S.I. di Mendrisio intestati ai fratelli Tognoli Mauro ed Oliviero ed a Miniati Salvatore, per poi confluire sul conto wall Street presso il Credito Svizzero di Bellinzona, sempre dei Tognoli.

Le somme venivano consegnate all'Amendolito da Castronovo frank, presso il quale lo stesso Amendolito si recava, o dal Matassa, il quale le riceveva dal Ganci e dal Catalano Onofrio. Il denaro era quasi tutto in banconote di piccolo taglio, e spesso assai usurate.

"Tra la metà e la fine dell'8I, però, rapporti tra l'organizzazione ed Amendolito da un lato e CavalIeri dall'altro si guastarono e sempre per le stesse ragioni. L'Amendolito, infatti, si era appropriato di circa 500.000 dollari, che aveva impiegato in affari andati male e quindi non era in grado di restituirli. Anche il CavalIeri si trovava in cattive acque e non seppe resistere alla tentazione di appropriarsi di una delle tante valige transitate dal suo ufficio, raccontando al Tognoli che era stata bloccata alla dogana perchè vi era il sospetto che il denaro contenuto provenisse da commercio di droga. In realtà, in seguito, il CavalIeri dovette ammettere che si era appropriato del denaro e si dovette impegnare a restituirlo.

Bruciati i due canali dell'Amendolito e del CavalIeri, il Tognoli, il Ganci, e il Greco dovettero rivolgersi ad altre persone e non tardarono a trovarle nello stesso ambiente di "finanzieri" disinvolti del ticinese. Si trattava di persone con le quali già in precedenza avevano avuto dei contatti, sempre in relazione a vicende di trasferimenti di denaro.

"Il Rossini, infatti, già nell'81 si era interessato per il CavalIeri a reperire dei corrieri da mandare a New York, cosa che fece presentandogli suo cugino Scossa. Inoltre lo stesso Rossini aveva avuto modo di conoscere personalmente, sempre nell'81, Ganci Giuseppe in una cena presso il ristorante Embassy, cui prese parte insieme al CavalIeri. Il CavalIeri, gli spiegò che il Ganci era un grosso cliente del Daffond, che era il funzionario del Credito Svizzero, il quale curava le operazioni sul conto WaIl Street di Tognoli Oliviero.

Sempre tra l'80 e l'81 il Tognoli, insieme al Miniati, si era rivolto al Della Torre franco, che allora lavorava presso la Finagest, per effettuare trasferimenti di dollari, ma non era stato raggiunto l'accordo per l'aggio troppo elevato richiesto dal Della Torre. Il Palazzolo e il Della Torre si conoscono nell'estate dell'81 in Sicilia. Il Palazzolo era già noto al tempo dell'esportazione di valuta dall'Italia alla Svizzera, nel campo del contrabbando e nel riciclaggio di "denaro. Aveva rapporti con personaggi di primo piano della mafia siciliana quali i Vernengo, i Savoca, Geraci Nenè, Madonia Antonio. I due (Palazzolo e Della Torre) non tardarono a comprendersi parlando negli affari un linguaggio molto simile, e costituirono perciò fra la fine dell'81 e i primi dell' 82 Consulfin che fissò la sua sede in una stanza degli uffici della Traex del Rossini. Presso la Consulfin lavorava anche Ventimiglia Antonio, anch'esso esperto corriere di lire dall'Italia alla Svizzera, e già contrabbandiere di sigarette.

DENARO E LINGOTTI D’ORO

I tre, pertanto, lavorando a contatto di gomito, ben presto si trovavano ad operare insieme nel campo dei trasferimenti dei dollari per conto del Tognoli, che da loro si fa chiamare "Orlando".

Adesso accanto al Tognoli emerge con sempre maggiore importanza la figura di Rotolo Antonino, detto "Rudy", che come si è visto era colui che aveva sostituito La Mattina nei rapporti con il Musullulu per conto dell'organizzazione dei siciliani.

"I primi trasferimenti operati dai tre, per conto di Tognoli e Rotolo, vengono organizzati dal Rossini, sempre mediante Scossa ed Airaldi. Vengono effettuati due viaggi a New York nel febbraio e nel marzo dell'82 che hanno per protagonisti lo Scossa e l'Airaldi ed uno in aprile ad opera del Bignotti. Il denaro viene portato direttamente alla Traex ed accreditato sul conto Pageko presso detta società. Di qui confluiscono su due conti del Della Torre (Fratter e Graziano presso il Credito Svizzero di Chiasso), che il Della Torre aveva messo a disposizione del Tognoli per farvi pervenire somme provenienti dagli U.S.A. Le modalità del trasporto sono le stesse già descritte allorchè i corrieri operavano per conto del CavalIeri e cioè i corrieri rilevavano le somme dal Ganci e si avvalevano della collaborazione dell'Esposito per farle uscire dagli U.S.A. L'ultimo trasporto materiale organizzato dal Rossini coincide con la consegna effettuata il venerdì santo dell'82 di 5 milioni di dollari a Varidel in pagamento anticipato dell'acquisto di 400 kg. di morfina-base concordato tra il Rotolo e il Musullulu.

"Dei 5 milioni di dollari, 3 erano giunti materialmente da New York (Ganci) portati dai corrieri del Rossini, e due erano stati reperiti dal Della Torre presso banche di Lugano. Da questa data in poi i tre individuano una tecnica di trasferimento che consente di evitare i pericolosi trasporti materiali di valuta. La Traex, infatti, operava con un conto presso la Merrilyn Lynch, che è una società di brokeraggio di New York. Fu deciso che il denaro venisse versato direttamente in New York presso la Merrilyn Lynch, e di qui operando per compensazione con somme che clienti delle società versavano in Svizzera per operare a New York, si poteva ottenere la disponibilità immediata di somme corrispondenti in Svizzera senza effettuare materialmente il trasferimento.

Questo è il metodo usato prevalentemente dai tre dal marzo al giugno dell'82, e attraverso tale sistema sono stati trasferiti circa 4,9 milioni di dollari. Esaurita questa prima fase di relazioni con la Merrilyn Lynch, verso il giungo dell'82 fu deciso di trasferire le operazioni presso un altro broker di New York, la Hutton, presso cui la Traex aveva un conto. "Pertanto, si operò con lo stesso metodo tramite la Hutton e il conto Traex fino al luglio dell'82, trasferendo complessivamente circa 6,8 milioni di dollari. Nel luglio dell'82 il Palazzolo apprese dal sig. Phelan della Hutton, in un incontro avvenuto a Ginevra all'Hotel di Rhone, presente anche il Della Torre, che la Traex di Rossini percepiva una subcommissione, che poteva essere risparmiata aprendo un conto diretto presso la Hutton. Fu così che venne aperto il conto Acacias, che era una società di Palazzolo e Della Torre, ed allora cessò la collaborazione del Rossini. Attraverso il conto Acacias, dal luglio al settembre '82 vennero trasferiti 8,25 milioni di dollari. La persona che doveva ricevere materialmente il denaro a New York era Salamone Filippo, da anni conoscente del Palazzolo.

Il Salamone a sua volta lo consegnava a Della Torre, che si recava appositamente a New York. Il Della Torre si reca personalmente a New York; alloggia sempre in alberghi diversi, si muove "quasi sempre con Salamone Philip, ed opera ingenti versamenti in contanti prima sul conto Traex presso la Merrylyn Lynch, poi successivamente sul conto Traex presso la Hutton di New York.

Durante tutti i soggiorni a New York il Della Torre è stato sotto osservazione della polizia americana, che ne riferisce al Giudice Distrettuale con la postilla alla richiesta di mandati di cattura e con la clausola aggiunta ai mandati di perquisizione. L'F.B.I. ha accertato che il Della Torre dal 24/3/1982 al 23/4/1982 ha effettuato diversi versamenti per la somma complessiva di 4,9 milioni di dollari presso la Merryl Lynch e dal 27/4/1982 al 2/7/1982 versamenti per 5,2 milioni di dollari presso la Hutton per un totale di 10,1 milioni di dollari. Dal 6/7/1982 al 27/9/1982 il Della Torre ha effettuato ben undici versamenti per 8,25 milioni di dollari sul conto "Acacias Developement Corporation" presso la Hutton di New York. Si osservi che la Acacias era una società del Palazzolo, ovvero di fatto gestita dal medesimo. In totale quindi il Della Torre ha versato 18,3 milioni di dollari. "Una parte di queste somme fu poi trasferita sul conto P.G.R. presso la Hutton.

Queste operazioni trovano in gran parte riscontro documentale nella documentazione della Traex prodotta dallo stesso Rossini. Da questa documentazione risulta un flusso di accrediti di dollari per circa 8,5 milioni, in gran parte transitati dal Credito Svizzero di Chiasso. Di tali somme circa 3,4 milioni vengono trasferiti sul conto "Graziano" presso il Credito Svizzero di Chiasso di Della Torre Franco, circa 1,8 milioni vengono trasferiti sul conto 631770 presso la Unione Banche Svizzere di Bellinzona, intestato ad Ajello Michelangelo; infine circa 3 milioni di dollari risultano prelevati in contanti. Durante il periodo di osservazione del Della Torre è stato rilevato che ad ogni viaggio a New York mutava alloggio e ciò evidentemente per sfuggire ad eventuale sorveglianza.

Il Della Torre era in stretto contatto con Salamone Philip. Questi, a sua volta, risultava in continuo contatto telefonico con Ganci Giuseppe e Salamone Salvatore.

"Successive investigazioni ed appostamenti consentiranno alla F.B.I. di accertare contatti diretti di Salamone Philip con Greco Salvatore; un incontro con Castronovo e Mazzara presso la Sal's Pizza di Neptune City (24/4/83) ed un incontro con persona sconosciuta presso la Pronto Demolition (soc. di Mazzurco, Bono e Ligammari). Il Della Torre ha sostanzialmente ammesso fatti. Il Salamone, invece, si è chiuso in una strenua quanto sterile negativa, limitandosi a dire di avere solo accompagnato in giro il Della Torre e di aver custodito delle valigie nella sua stanza d'albergo.

Ha invece negato di aver ricevuto e custodito scatoloni contenenti dollari, di aver tenuto contatti telefonici con Ganci e Castronovo e di aver incontrato il Castronovo, il Mazzurco, il Polizzi e l'Esposito. Ha solo ammesso di aver frequentato Greco Salvatore, titolare della pizzeria "Sal's Pizza" di Neptune ed il fratello Salamone Salvatore.

Nonostante questo efficace metodo dì trasferimento ideato dai tre imputati, tuttavia "continuavano, anche se molto radi, alcuni trasporti materiali, sempre ad opera dei corrieri del Rossini (Scossa ed altri). Come si è già visto i pagamenti effettuati dal Rotolo a Zurigo al Musullulu nel giugno '82 furono posti in essere con denaro contanto proveniente dagli Stati Uniti e ritirato personalmente dal Della Torre, dallo Scossa presso il ristorante Mowenpick nei pressi di Zurigo.

Sempre nell'82 furono effettuati anche dei trasferimenti materiali attraverso il Canada. Fu Della Torre a recarsi a Toronto insieme al Salamone Filippo, ove prese contatti con Aron Cohen, consulente legale del Palazzolo. Poichè non fu trovato un canale bancario, alcune borse di dollari furono trasportate materialmente dal Canada dal Ventimiglia. Il denaro fu trasportato da New York a Toronto dal Salamone. Si trattava di circa 1,5 milioni di dollari in totale. Secondo quanto afferma il Della Torre il Ventimiglia effettuò anche dei trasporti diretti da New York alla Svizzera.

"Nel settembre '82 il Palazzolo venne informato dal sig. Phelan della Hutton che era in corso una inchiesta dell'F.B.I. relativa ai versamenti per contanti effettuati dal Della Torre a New York. Il Palazzolo ordinò al Della Torre di distruggere la sua agenda e di disfarsi della Porsche avuta in regalo dal Tognoli e già di proprietà del Priolo. Chiese anche al Rossini di distruggere tutta la documentazione contabile relativa ai movimenti di fondi, cosa che il Rossini non fece.

Vi fu un incontro a Zurigo con Rotolo, presenti il Palazzolo, il Della Torre ed il Ventimiglia, in cui il Rotolo pretese il rientro di tutte le somme ancora negli V.S.A., sia sul conto Acacias, che presso il Salamone. Il conto Acacias venne chiuso ed il saldo attivo pari a 4,5 milioni di dollari fu accreditato presso la Hutton di Ginevra. Di questa somma 1,5 milioni in assegno fu consegnata ad intermediari di Rotolo, restanti 3 milioni furono convertiti in 200 kg. di oro in barre da 12 kg. l'una e consegnati dal Della Torre, tramite Ventimiglia, al Tognoli. La consegna avvenne in Italia, verosimilmente a Como.

Restavano ancora circa 3 milioni di dollari, custoditi dal Salamone Filippo, che dovevano essere

trasferiti in Svizzera. Fu trovato un nuovo canale per effettuare i trasporti materiali, visto che quelli bancari e tramite broker erano bruciati e che non era consigliabile che il Della Torre si recasse nuovamente a New York. Questo canale fu l'organizzazione di Frigerio Enrico, altro "finanziere" disinvolto del Ticino, che in quel periodo si trovava a New York per tentare di concludere qualche affare. Dal dicembre '82 al marzo '83 furono trasferiti attraverso corrieri del Frigerio (Frigerio Emiliano, Branly Beniamino, Morandi Giovanni e Palchetti Carmelo) i 3 milioni di dollari ancora custoditi dal Salamone, in quettro o cinque viaggi "Il denaro veniva preso in consegna dal Salamone, che adottava il nome di copertura di Luciano, il quale lo recapitava nell'appartamento di New York, ove abitava il Frigerio. In Svizzera il denaro veniva portato al Della Torre nei suoi uffici di Chiasso, e questi provvedeva alla consegna al Rotolo ed al Tognoli.

Circa 800.000 dollari della complessiva somma trasportata dagli U.S.A. fu consegnata nel dicembre

'82 personalmente dal Della Torre a Tognoli Oliviero a Chiasso in presenza del fratello Mauro, che l'Oliviero indicò come la persona che sarebbe venuta in seguito al suo posto per curare i successivi ritiri di somme. Con la primavera dell' '83 cessarono sostanzialmente i trasferimenti di dollari dagli U.S.A. Restavano solo delle pendenze del Palazzolo nei confronti del Rotolo, in quanto il primo aveva usato delle somme ricevute per operare sulla borsa merci senza la autorizzazione della organizzazione ed aveva subito delle perdite. Il Palazzolo cedette al Rotolo il ricavato della vendita della sua casa di Costanza e pietre preziose. Si è così dimostrato, documentalmente e per dichiarazioni di testi e imputati, come dal 1980 al 1983, sono stati trasferiti, attraverso diversi canali complessivamente circa 50 milioni di dollari provenienti dal gruppo Ganci- Catalano Castronovo e destinati in Svizzera al gruppo Tognoli - Greco - Rotolo. Si è anche provato che tale denaro è il provento della vendita di eroina a New York e nel New Yersey, che viene spedita dalla Sicilia dal gruppo Greco Rotolo, che a sua volta acquista la morfina-base dai turchi".

SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Forzieri strapieni, ecco il patrimonio della mafia siciliana. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE su Il Domani il 19 giugno 2023

Nel corso delle indagini istruttorie sono stati individuati numerosi libretti di deposito a risparmio, tra cui alcuni di pertinenza di Spadaro Tommaso dai quali erano stati prelevati circa 500 milioni di lire, trasformati in un sol giorno in vaglia cambiari di 10 milioni ciascuno su richiesta di Sampino Antonietta, cognata dello Spadaro. I suddetti titoli venivano poi negoziati da persone che, per altre indagini sono risultate appartenenti a "Cosa nostra"

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie del Blog Mafie è dedicata al maxi processo in occasione del trentunesimo anniversario della strage di Capaci

Nel corso delle indagini istruttorie sono stati individuati numerosi libretti di deposito a risparmio, tra cui alcuni di pertinenza di Spadaro Tommaso dai quali erano stati prelevati circa 500 milioni di lire, trasformati in un sol giorno in vaglia cambiari di 10 milioni ciascuno su richiesta di Sampino Antonietta, cognata dello Spadaro. I suddetti titoli venivano poi negoziati da persone che, per altre indagini sono risultate appartenenti a "Cosa Nostra".

Infatti, i vaglia venivano negoziati da Grado Giacomo, Greco Salvatore (cl.1927), fratello di Greco Michele, da Scaduto Giovanni, suo genero, Prestifilippo Giovanni, La Rosa Antonino, Ingrassia Ignazio, Seidita Salvatore, Greco Salvatore, padre di Giovannello, tutti affiliati della "famiglia" di Ciaculli, nonchè da Alfano Pasquale, Argano Carmelo, Greco Leonardo e Caltagirone Francesco Paolo, di Bagheria; da Oliveri Giovanni, Marchese Gregorio e Marchese Pietro della "famiglia" di Corso dei Mille, da Priolo Salvatore genero di La Mattina Nunzio, della "famiglia" di Porta Nuova, per un certo tempo detentori dei canali di fornitura della morfina-base; da Bisconti Pietro, figlio di Bisconti Ludovico, quest'ultimo appartenente alla "famiglia" di Belmonte Mezzagno; da Prestigiacomo Salvatore di S.Giuseppe Jato, socio dei Brusca.

Come si vede, dalle indagini bancarie è emersa la mappa di "Cosa Nostra" e si conferma in pieno quanto si è sostenuto nella parte I del presente capitolo e cioè che la partecipazione ai traffici illeciti ed alla spartizione dei relativi profitti avviene nell'organizzazione "Cosa Nostra" attraverso il finanziamento "a caratura" dei capitali, mentre solo alcuni dei suoi membri, come nella specie Spadaro Tommaso si occupano delle fasi operative, tra cui quella finale è appunto la distribuzione dei profitti illeciti. Un altro lampante esempio di tale assunto è riscontrabile nelle indagini bancarie che seguirono all'omicidio di Di Cristina Giuseppe, ove appunto si desume identica attività di distribuzione di utili provenienti da traffici illeciti.

Per un più approfondito esame dei destinatari di tali spartizioni, che in parte coincidono con quelli sopra citati, si rinvia alla trattazione dell'omicidio Di Cristina (Cap.VII).

IL RICICLAGGIO

Tale termine, divenuto ormai nell'uso comune sinonimo di qualsiasi attività di impiego di danaro "sporco", in realtà nel suo significato tecnico-giuridico (art.648 bis G.P.) va inteso nel senso di condotta diretta a sostituire danaro o valori provenienti da delitto con altro danaro o valori.

Sotto questo profilo il riciclaggio è una condotta tipica del trafficante di stupefacenti, che deve necessariamente rendere "pulite" le ingenti masse di danaro provenienti dalla droga, anche per occultare non altrimenti giustificabili arricchimenti.

Nel corso delle approfondite e minuziose indagini bancarie svolte dal G.I. sono stati individuati diversi episodi di riciclaggio, che sono dettagliatamente descritti, in tutti i loro più minuziosi passaggi, nell'ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio del G.I. di Palermo (Vol.VI), cui si fa espresso rinvio; in questa sede è sufficiente farvi un accenno.

La ricostruzione dei movimenti dei conti correnti dei fratelli Grado, di cui uno presso l'agenzia 16 di Palermo della Sicilcassa, intestato alla madre Contorno Antonina, e gli altri presso l'agenzia 22 del medesimo istituto di credito e l'agenzia 5 di Milano del Banco di Sicilia, entrambi intestati a Grado Giacomo, oltre ai movimenti di denaro nei libretti di deposito a risparmio manovrati da quest'ultimo, costituiscono un interessante spaccato di una delle modalità attraverso cui i componenti di "Cosa Nostra" erano soliti riciclare il denaro di provenienza illecita.

Va evidenziato che nel conto corrente della Contorno, dal febbraio al novembre 1979, è stata versata la somma di lire 900 milioni e nel libretto di deposito a risparmio quella di quasi lire 1.250.000.000, con versamenti soprattutto di titoli di credito tratti su Istituti di Credito dell'Italia Settentrionale. Dalle indagini è emerso che la circolazione di tali titoli è sempre collegata ad una causa illecita, pressochè esclusivamente riferibile alla vendita di stupefacenti.

è interessante rilevare, altresì, che in molti di tali titoli è annotato sul retro, in caratteri minuti, un nome che evidentemente serviva ai Grado per ricordare il nome della persona che aveva materialmente consegnato l'assegno. I nomi annotati sono quelli di "Gennaro" (Totta Gennaro), "Ciccio" (Perina Giovanni), "Gioacchino" (Matranga Gioacchino), "Rodolfo" (Azzoli Rodolfo), "Tano" (Badalamenti Gaetano), "Renato" (Azzoli Renato), "Livio" (Collina Livio), "Giovanni" (Zarcone Giovanni), "Enzo" (Grado Vincenzo), cioè di tutti coloro che, come risulta da altre indagini, risultano inseriti nel traffico di stupefacenti dei fratelli Grado.

Circa le giustificazioni fornite dai soggetti beneficiari o intestatari degli assegni, si pone in risalto che quelle più ricorrenti si riferiscono a somme perse al gioco o a scommesse "clandestine" all'ippodromo. In proposito, si ricorda che Coniglio Salvatore ha riferito che tale Lucchese Andrea di Milano, cui aveva consegnato degli assegni in pagamento di una partita di cocaina, gli aveva raccomandato di attribuire gli assegni, nel caso di interrogatori da parte di inquirenti, al pagamento di scommesse perse all'ippodromo di San Siro. Quindi, nel mondo degli stupefacenti si era già diffuso l'uso preordinato di tale espediente per giustificare i rapporti sottostanti ai titoli, in modo da bloccare il proseguimento delle indagini verso fornitori delle sostanze stupefacenti.

Un altro gruppo di assegni negoziati da Grado Giacomo ha invece attinenza ad un circoscritto e ben individuato traffico di eroina tra il palermitano Nico1ini Angelo (indicato nel processo Mafara come corriere di Mafara Francesco negli scambi Italia-Usa) ed i coniugi romani Fascioni Carmine e Berto1i Silvia, i quali smerciavano la sostanza stupefacente nel mercato romano. Il fatto che gli assegni degli spacciatori romani siano finiti nel conto dei Grado dimostra la provenienza dell'eroina ed i collegamenti tra costoro, il Mafara ed il Nico1ini. Un altro gruppo di assegni provengono da soggetti dichiaratisi apertamente contrabbandieri di tabacchi e, anche se si dovesse prestar fede alle loro affermazioni, si tratterebbe in ogni caso di attività illecite.

Infine, un ultimo gruppo di assegni pone in risalto i rapporti diretti dei Grado con altri appartenenti all'associazione mafiosa, tutti coinvolti nel traffico di stupefacenti, come Inzerillo Rosario, Marino Mannoia Francesco, Federico Salvatore, Mangano Vittorio, Teresi Pietro e Teresi Girolamo. Un ulteriore importante accertamento bancario ha messo in luce la negoziazione da parte di Grado Giacomo di vaglia cambiari dell'importo di lire 50 milioni, emessi il 15 gennaio 1980 dall'agenzia 3 del Banco di Sicilia di Palermo, a richiesta di Sampino Antonietta, cognata di Spadaro Tommaso.

Questa operazione è particolarmente significativa in quanto i titoli in questione fanno parte di un gruppo di vaglia per complessivi 500 milioni, richiesti da congiunti di Spadaro Tommaso e distribuiti fra esponenti di "Cosa Nostra", come si è già chiarito al par.I.

Fanno parte di questa operazione di distribuzione di proventi illeciti anche 13 vaglia per complessivi 130 milioni negoziati da Di Pace Giuseppe, il funzionario del Banco di Roma di cui ci si è già occupati nella parte V del presente capitolo (par.3), a proposito del riciclaggio dei narco-dollari. Dalla particolareggiata ed attenta ricostruzione di tutti i movimenti bancari attraverso l'esame di un'enorme mole di documenti compiuta dal G.I. e descritta minuziosamente nell'ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio (Vol.VIII - par.VII) si evince che il Di Pace ha effettuato contorte operazioni e passaggi di somme attraverso libretti al portatore con nomi di fantasia (di ispirazione venatoria), al solo scopo di occultare la provenienza del denaro nell'interesse di Teresi Girolamo, vice di Bontate Stefano e di Teresi Pietro, cugino del primo e cognato dei fratelli Grado.

IL REIMPIEGO DEI PROFITTI ILLECITI

Quest'ultima fase che completa il ciclo del traffico di stupefacenti si inserisce nel momento di maggior svilupppo delle organizzazioni criminali: quello della dimensione affaristico-imprenditoriale. Storicamente si è sempre assistito al tentativo di tali organizzazioni di trasformare gradatamente le attività illecite in quelle formalmente lecite, in modo da acquisire occultamente sempre maggiori margini di potere reale.

A questa tendenza non sfugge l'associazione mafiosa "Cosa Nostra", che con le ricchezze illegali (oltre ad operare i consueti investimenti in acquisti immobiliari e nell'attività imprenditoriale edilizia), può conquistare posizioni di privilegio, può controllare mezzi d'informazione, può imporre candidati in competizioni elettorali, può, insomma, consolidare il proprio potere.

Nel corso dell'istruttoria formale e dibattimentale sono emersi numerosi episodi dai quali si desume l'utilizzazione di profitti derivanti dal traffico di stupefacenti per finanziare attività economiche formalmente lecite.

Si pensi alle vicende della Enologica Galeazzo S.p.A. e della Simons Vernici S.p.A., società con investimenti di capitali dei Vernengo; ovvero alle attività societarie realizzate con i fondi di Spadaro Tommaso da parte della Liistro Giovanni S.N.C. e della Società Fiduciaria di Certificazioni e Revisionali S.p.A., ovvero agli acquisti immobiliari a Palermo ed in Spagna dei fratelli Grado o a quelli di Geraci Giuseppe tanto per citare taluni degli imputati più rappresentativi nel campo del traffico degli stupefacenti.

In altre parti della presente sentenza (Cap.XII, par.9 e 12 e Cap. III) allorchè si è trattato della finalità del controllo delle attività economiche da parte dell'associazione, dell'aggravante di cui al VI comma dell'art.416 bis, C.P. e delle misure patrimoniali, si sono approfonditi taluni temi, per cui non è il caso di ripeterli in questa sede. Un aspetto diverso del reimpiego dei profitti illeciti è quello non inconsueto del ritorno dei capitali ai mercati illegali dai quali sono venuti, per continuare il ciclo di produzione della ricchezza. Si è già evidenziato che il denaro inviato dagli U.S.A. dal gruppo Geraci-Catalano veniva utilizzato da Rotolo Antonino e da Greco Leonardo per acquistare la morfina-base dal turco Musullulu. Mentre da talune indagini bancarie nei confronti di Spadaro Tommaso è emersa l'esportazione clandestina di capitali provenienti dal contrabbando di tabacchi.

Ci si riferisce, in particolare, all'emissione da parte dell'agenzia n.3 del Banco di Sicilia di Palermo di vaglia cambiari per 500 milioni di lire a richiesta di Sampino Giovanni, cognato dello Spadaro.

Tali titoli risultano negoziati, come può facilmente evincersi dalla dettagliata e minuziosa esposizione dell'ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio del G.I. di Palermo (Vol.VIII f.1485-1498), sono stati negoziati quasi tutti da personaggi coinvolti nell'esportazione illegale di valuta in Svizzera, come l'organizzazione facente capo a Ceroni Armando o a Kastl George.

Salvo a non pensare ad una forma di tesaurizzazione all'estero poco confacente alla vivace e dinamica personalità di Spadaro Tommaso, non vi può essere dubbio che anche in questo caso tale denaro sia stato utilizzato per pagare in Svizzera le forniture di ulteriori partite di sigarette di contrabbando o di stupefacenti.

A conclusione di tale rapido exursus sulle fasi del traffico di stupefacenti, si ribadisce, come si è tentato di dimostrare, il preciso fondato convincimento che il traffico di ingenti quantità di eroina è stato, e forse lo è tuttora, il più lucroso affare dell'organizzazione mafiosa Cosa Nostra, che lo ha controllato e gestito in tutti suoi momenti unitariamente a livello dei propri organi direttivi centrali, avendo come sbocco di mercato quasi esclusivamente gli Stati Uniti d'America. SENTENZA MAXIPROCESSO - CORTE D'ASSISE

Estratto dell’articolo di Rino Giacalone per lastampa.it lunedì 25 settembre 2023. 

[…]

Nel raccontare oggi la mafia trapanese dobbiamo partire dalla lezione che ci hanno lasciato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che con Cosa nostra trapanese avevano fatto bene i conti. […] I due magistrati, Falcone e Borsellino, segnavano una profonda differenza tra la mafia palermitana e quella trapanese: la prima, dicevano, era quella militare, la seconda quella economica.

La prima è stata più facile da colpire, ma non è sconfitta e non finisce nelle tombe come i boss; la seconda ancora primeggia nonostante arresti, condanne e decine di provvedimenti di confisca, che nel trapanese superano il cinque miliardi di euro. A Trapani la mafia economica è rimasta nelle mani di Matteo Messina Denaro, sin da prima di quel 1993, anno dell’inizio della sua latitanza […] mafia non violenta che, sotterrate le armi, usa la corruzione e vende i suoi voti. La mafia delle imprese e delle banche a Trapani ha trovato un humus perfettamente adatto al suo sviluppo.

Trapani la città di certe banche e banchieri. Sulla Banca Sicula della famiglia D’Alì, grandi latifondisti e datori di lavoro dei Messina Denaro, campieri nei loro terreni di contrada Zangara di Castelvetrano, il cui esponente più noto è l'ex senatore e sottosegretario all’Interno dal 2001 al 2006 Antonio D'Alì - in carcere ad Opera da dicembre scorso per scontare una condanna a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa – indagò nel 1991 il vice questore Rino Germanà, due anni dopo scampato a un agguato organizzato da Bagarella, Graviano e Messina Denaro. Più recente il caso della Cassa rurale di Paceco, finita nel 2016 sotto amministrazione giudiziaria per l'ipotesi di collegamenti con la massoneria e alcuni soggetti pregiudicati per reati di mafia.

Trapani, città delle finanziarie dove si sarebbe raccolto denaro sporco che – ripulito – è servito come garanzia per i mafiosi presso le city finanziarie europee. Nei primi anni 2000 la mafia era pronta a lanciare una banca tutta sua, ma l’operazione è stata mandata all’aria da un’indagine della Squadra mobile guidata dall’odierno direttore del Servizio centrale anticrimine, Giuseppe Linares, e coordinata dal pm Andrea Tarondo, una di quelle intelligenze investigative più attente al fenomeno mafioso, di fatto spinto a occuparsi oggi di ben altro, all’estero, lontano dall’Italia. Qui la mafia non è la Cosa nostra dei viddani, ma la mafia dei borghesi. 

[…] Questa mafia ha sempre avuto una precisa capacità della sommersione che funziona ancora oggi. È tanto legata alla massoneria da averne assorbito anche le caratteristiche organizzative. Mafiosi affiliati alla massoneria ne esistono tanti, ma il più importante fu il mazarese Mariano Agate tra gli iscritti alla loggia segreta C creata all’interno del circolo culturale capeggiato da un professore di filosofia, Gianni Grimaudo.

Un circolo ben frequentato, anche da magistrati e giudici, pronti a colpire il lavoro onesto di loro colleghi, alcuni dei quali uccisi da Cosa nostra, come Gian Giacomo Ciaccio Montalto. 

Non c’è indagine ancora oggi condotta dalla procura di Trapani che non si imbatta in personaggi della massoneria. In Tribunale è in corso il processo denominato Artemisia, imputati di aver creato una loggia segreta un pugno di politici di Castelvetrano, capeggiati da un ex deputato Giovanni Lo Sciuto, amico di gioventù di Messina Denaro. E ci sono inchieste che oggi dimostrano come la magistratura continui ad avere un ventre molle che permette pericolose infiltrazioni: non si spara più, ma ancora oggi finiscono nell’occhio del ciclone i magistrati che lavorano correttamente e non i traditori o i corvi. 

[…] A Trapani ci sono i colletti bianchi che parlano di Messina Denaro come di una persona da adorare e venerare. Un boss da far sindaco o addirittura premier. Questa non è una terra normale. Sembra di essere dentro la sceneggiatura della Piovra televisiva , non a caso scritta da un trapanese, Nicola Badalucco.

[…] Gommopoli-Trapani resta il luogo ideale per coltivare equivoci che danno forza alla “nuova” mafia. La città si prospetta non sempre in modo lucido dinanzi a una mafia capace di invadere la politica, la pubblica amministrazione e l’economia. La lotta contro Cosa nostra più che a Palermo si combatte qui, dove si sequestrano e confiscano i beni, dove i politici continuano a non rispettare la "distanza di sicurezza dai mafiosi" e "dalla massoneria", sale della minestra preparata in stanze segrete, servita ai trapanesi come la migliore e invece la più avvelenata

I Clan.

Società foggiana.

La SCU: Sacra Corona Unita.

I Clan.

Criminalità, in Puglia sono attivi 50 clan. A Monte Sant’Angelo presentato il dossier di Avviso pubblico. Oltre 600 atti intimidatori. ROSANNA VOLPE su La Gazzetta del Mezzogiorno  il 6 Maggio 2023

Ci sono cinquanta clan che gestiscono gli affari illeciti nella nostra regione. Cinquanta clan attivi che si sono spartiti fazzoletti di città, province e piccoli paesi. E che oltre a gestire lo spaccio di droga, la ricettazione e l’estorsione, sono entrati - in giacca e cravatta - negli uffici della Pubblica amministrazione. Nel triennio 2019-2021 sono state 195 le interdittive emesse in Puglia che si classifica quarta a livello nazionale, dietro a Calabria, Sicilia e Campania. Sono stati, inoltre 635 gli atti intimidatori compiuti ai danni degli amministratori pubblici pugliesi tra il 2011 e il 31 marzo 2023.

Si registra, in media, almeno un atto intimidatorio a settimana nei confronti di sindaci, assessori, consiglieri e personale. Entrando più nello specifico, dall’inizio dell’anno a fine marzo, sono stati 14 gli atti di minaccia e intimidazione registrati sul territorio. La Puglia è, quindi, al primo posto tra le regioni più colpite nel primo trimestre.

Numeri che costringono a profonde riflessioni quelli elaborati nel Dossier Puglia di Avviso Pubblico e commentati durante l’Assemblea nazionale dell’associazione Avviso Pubblico a Monte Sant’Angelo. Ed è proprio dal piccolo centro, che sorge sul Gargano, che parte un impegno forte e mirato contro la mafia. Un impegno concreto che studenti, mondo della chiesa, associazioni, hanno trascritto su una «Carta».

«Dopo un periodo difficile - ha detto Pierpaolo d’Arienzo, sindaco di Monte Sant’Angelo e coordinatore regionale di Avviso Pubblico - la nostra città è riuscita a costruire una comunità organizzata e a ripartire puntando sulla cultura, come veicolo trainante. Siamo finalisti come città della Cultura italiana per il 2025 e nel 2024, saremo capitale della cultura in Puglia. In questi anni Monte Sant’Angelo ha lavorato con il tavolo permanente sulla legalità, costruendo una comunità di legalità organizzata che contrapponiamo alla criminalità organizzata».

Da una parte l’impegno, quindi, e la costruzione di una nuova cultura condivisa con la comunità e dall’altra un dossier che racconta di una disoccupazione dilagante e che disegna la mappatura dei clan presenti sul territorio, il ranking del rischio criminalità, i comuni sciolti per mafia, le minacce agli amministratori locali e la criminalità giovanile.

«Il dossier Puglia è un lavoro finalizzato a leggere in maniera sistemica i dati economici e sociali tratti dai principali rapporti nazionali incrociandoli con i dati del fenomeno criminale e con un approfondimento specifico su alcune realtà territoriali», spiega il presidente di Avviso Pubblico, Roberto Montà. «Da questa lettura sistemica emerge un quadro su cui noi avanziamo delle proposte finalizzate in qualche modo a rendere gli enti locali e le istituzioni del territorio responsabili nel prevenire mafie, corruzione e nel chiedere, soprattutto alle istituzioni nazionali, un impegno concreto per sostenere il territorio pugliese».

A commentare il contenuto del dossier anche Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci, che spiega: «Il tema dei diritti accanto a quello dell’occupazione, analizzati anche nel Report di Avviso Pubblico, rappresenta lo snodo centrale per sottrarre la nostra terra al giogo delle mafie. I diritti perché sono sinonimo di libertà, di uguaglianza e di giustizia, l’occupazione che è sinonimo di emancipazione, di riscatto sociale e di crescita per i cittadini e per il territorio. Questi sono i due elementi su cui tutti dobbiamo concentrarci: istituzioni, associazioni, magistratura, forze dell’ordine, scuole e cittadini. Il dossier Avviso pubblico – spiega ancora il presidente dell’Anci - ci restituisce purtroppo ancora un quadro drammatico della nostra terra ma questo non deve essere per noi motivo di rassegnazione anzi, dobbiamo continuare a lavorare, anche con associazioni come Avviso pubblico, con tutti gli amministratori che in tanti territori resistono, nel vero senso della parola. ‘Resistono’ alle pressioni della criminalità organizzata, resistono ai vincoli della burocrazia, resistono alla disaffezione dei cittadini alla cosa pubblica, resistono all’astensionismo che rischia di diventare il partito del Paese».

I latitanti della mala pugliese: ecco la sfilza di arresti rocamboleschi: Roberta Grassi Martedì 17 Gennaio 2023 su Il Quotidianodipuglia.it

Incessante la lotta alla mafia, mai conclusa quella alla Sacra corona unita. Guai a pensare che non ci sia più nulla da temere. È vero, lo dicono gli inquirenti, lo si ritrova nelle relazioni degli investigatori, che i pentiti e gli arresti hanno fiaccato le associazioni criminali pugliesi. Ma chi dimentica i Novanta e i primi Duemila. Anni di conflitti roventi. Anni di indagini serrate, di maxi processi e ordini di cattura non sempre eseguiti in real time. Anche nel tacco d'Italia i capi o i fidati collaboratori hanno latitato. Talvolta a lungo, in altre circostanze un po' meno. Ma gli arresti spettacolari caratterizzano la storia della malavita pugliese così come di tutte le altre mafie. Oggi di latitanti ne restano pochi. E si tratta per lo più di personaggi di secondo piano.

Foggia

Per lo meno è così ovunque, in tutte le province, eccezion fatta per Foggia dove la situazione è del tutto differente dal resto dei territori. La criminalità è feroce e organizzatissima. L'antistato continua ad alzare la testa e la sfida, al momento, è tutt'altro che vinta. Mancano all'appello Leonardo Gesualdo, detto il Vavoso, sfuggito al blitz antimafia Decimabis. Gianluigi Troiano, svanito nel nulla a dicembre 2021, considerato il riferimento su Vieste del gruppo criminale Lombardi-Scirpoli. Poi, Olinto Bonalumi, il Lupin di Foggia, ma non c'entra nulla con la mafia: deve scontare 13 anni per rapina. Invece Savino Ariostini, alias Nino 55, elemento di spicco della Società Foggiana, era latitante ma è stato arrestato a ottobre scorso a seguito del conflitto a fuoco con la polizia in Campania, dopo il mancato assalto ad un portavalori. Nella sparatoria morì uno dei rapinatori, Ariostini fu preso il giorno dopo mentre fuggiva con addosso la maglia dell'Audace Cerignola. tendiamo la verità. Non si abbassi la guardia»

Bari 

La provincia di Bari non è caratterizzata da una storia di grandi fughe. Nel 2020 si cercò a lungo Ivan Caldarola, 20 anni, figlio del boss del clan Strisciuglio Lorenzo Caldarola, che era tra coloro che scapparono via nella maxi evasione dal carcere di Foggia. Fu accompagnato dalla madre a costituirsi. Niente di paragonabile alle strategie della vecchia guardia.

Nell'aprile scorso a Bari, in zona San Giorgio si fece incastrare per una debolezza: la videochiamata in carcere con papà: si parla di Nicola Lorusso, 24 anni, figlio di Umberto, considerato il capo del clan omonimo che nei quartieri del litorale nord del capoluogo - San Girolamo, Fesca e San Cataldo - gestisce i traffici illegali. Una cosca in contrapposizione a quella dei Campanale che, in una storica faida, è radicata nello stesso territorio. Storielle di quartiere. Andando indietro nel tempo c'è l'arresto di Orazio Porro, uno dei latitanti pugliesi del periodo del contrabbando. Uno di quelli che avevano trovato rifugio in Montenegro. Nel marzo'98, dopo sei mesi di irreperibilità assoluta, fu beccato dalla Dia al confine con la Jugoslavia.

Brindisi 

Brindisi, con i suoi anni d'oro collegati alle bionde, traffici da cui è scaturita una guerra di mala, ha consegnato agli annali un elenco nutrito di figure criminali di spicco. E di latitanze eccellenti. Nel 2000 a Salonicco fu arrestato Francesco Prudentino, un manager dell'impresa criminale collegata ai tabacchi lavorati esteri. Stava scendendo da un'auto ed entrando in un negozio. Leggenda narra che una volta resosi conto di essere stato scoperto si sia complimentato. Ma anche questo è un aneddoto che si ripete, tanto da caratterizzare il genere letterario dell'arresto del latitante.

Nessuno dimentica il giorno in cui cadde in trappola Vito Di Emidio, detto Bullone. Svanito nel nulla nel 1995, fu catturato nel 2001 dopo un inseguimento in cui furono sparati colpi di pistola. Si pentì subito dopo e confessò 21 delitti sanguinari. Più recenti le operazioni in cui sono stati condotti in cella Andrea Bruno, di Torre Santa Susanna e il mesagnese di vertice, Francesco Campana, mesagnese ritenuto uno dei capi del clan che controllava brindisi città.

Salento

Nel Salento si inizia nell'89 con la cattura di Gianni De Tommasi, di Campi Salentina. Poi c'è Filippo Cerfeda, diventato collaboratore di giustizia e ora autorizzato a cambiare nome. Reo confesso di 15 omicidi, alla guida del clan leccese dal pentimento di Dario Toma fino all'arresto in Olanda a marzo del 2003. Nel 1992 era toccato a Totò Rizzo, ad Andria. Il boss, ora ristretto in regime di 41 bis nel carcere dell'Aquila. In epoca più recente, spicca l'evasione da un ospedale di Fabio Perrone, detto Triglietta. Quando lo presero gli dissero: Triglietta, sei fritto. Taranto pure ha fornito il suo contributo alle varie storie di manette scattate dopo lunghe o brevi ricerche: nel 2021 Cosimo Cesario, capoclan di 61 anni, conosciuto con il soprannome di Giappone fu scovato dalla Mobile. Era ricercato da 4 mesi, lo ritenevano coinvolto nei traffici di droga. R.Gra.

Società foggiana.

«Moderna, imprenditoriale, militare: vi racconto che cos'è la quarta mafia». Storia di Vito Salinaro su

Avvenire sabato 26 agosto 2023.

«La provincia di Foggia per troppi anni è stata avvolta in un cono d’ombra che ha investito ogni livello, a partire da quello mediatico. Una condizione ideale perché una nuova mafia, una quarta mafia, potesse crescere e affermarsi». Preferisce la concretezza alla diplomazia il colonnello Michele Miulli, pugliese di Gioia del Colle, da 11 mesi comandante provinciale dei Carabinieri di una provincia, la Capitanata, tra le più difficili d’Italia. Non una scelta casuale, quella del comando generale dell’Arma, che ha inviato a Foggia, Comune tuttora commissariato per mafia, l’ex comandante del Reparto operativo di Milano. E che, pochi mesi dopo l’insediamento, con i suoi uomini, e sotto il coordinamento della Dda di Bari, ha perfezionato la più imponente operazione antimafia nella storia di questo territorio, denominata “Game over”, conclusa, poche settimane fa, con l’arresto di 82 persone: vertici, soldati e vedette della “Società foggiana”, la quarta mafia appunto.

Colonnello, cosa intende per “cono d’ombra”?

Nella conferenza stampa dell’operazione “Game over”, il procuratore distrettuale Antimafia di Bari, Roberto Rossi, ha parlato di una colpevole sottovalutazione del fenomeno mafioso, in questo territorio, da parte dello Stato. Credo siano parole condivisibili alle quali mi permetto di aggiungere un’altra considerazione. Anche i media nazionali non hanno dato al problema il giusto rilievo. Questa “assenza” non ci semplifica le cose.

Che cos’è la Società foggiana?

È un’organizzazione mafiosa priva di un vertice aggregante ma che ha una struttura interna compatta, basata sul familismo. Funziona su un modello federale, ha equilibri fluidi, utili a tessere alleanze con le altre mafie presenti nel Foggiano, a Cerignola come a Vieste, o a San Severo. È una mafia relativamente giovane, il suo primo riconoscimento risale al 1994 con il famoso maxi-processo Panunzio a 67 imputati. Ma, pur se giovane, è un’organizzazione evoluta, con spiccate capacità imprenditoriali, che fa un uso della forza spregiudicato, persino spettacolare. E che reinveste i profitti in attività imprenditoriali.

Perché “Game over” è una pietra miliare contro la quarta mafia?

Intanto per il numero delle persone coinvolte, poi perché abbiamo preso i capi dell’organizzazione delle tre storiche “batterie” che costituiscono la Società foggiana. Inoltre, perché è stato disvelato un sistema per la gestione monopolistica del traffico di cocaina, in analogia con quanto accade per le estorsioni, i due pilastri della Società foggiana. Ma il curriculum è ricco anche di omicidi, rapine, furti di autovetture finalizzati al riciclaggio, fino agli assalti ai furgoni portavalori che hanno un impatto quasi scenografico.

Cioè?

Sono vere e proprie azioni militari condotte da commando organizzati, esportate pure fuori dalla Puglia.

Perché si arriva a uccidere?

Si arriva ad uccidere quando saltano gli equilibri tra organizzazioni criminali diverse.

A proposito di equilibri, l’operazione “Game over” dimostra proprio che prima delle ambizioni personali vengono gli affari. Non è così?

Confermo. Queste tre batterie della Società foggiana, nonostante fossero in conflitto, hanno raggiunto un accordo con cui è stato costituito un “assetto multipartecipativo” del traffico di droga per condividere e spartire i profitti. È un’assoluta novità rispetto alle altre mafie, perché nessun’altra organizzazione mafiosa gestisce il traffico di stupefacenti in modo unitario. Il controllo del territorio passa quasi in secondo piano a vantaggio di equilibri economici.

Che fine fanno questi sudati “proventi”?

Oltre ai reinvestimenti imprenditoriali, i soldi della cassa comune servono a pagare stipendi e spese legali, e per sostenere le famiglie dei detenuti.

Qual è stato lo spartiacque tra il “cono d’ombra” e la presa di coscienza, almeno a livello istituzionale, di un fenomeno così radicato?

Senza dubbio la strage di San Marco in Lamis del 9 agosto 2017, in cui ci furono 4 morti, tra cui due vittime innocenti, i fratelli Luciani, due agricoltori uccisi perché testimoni di un agguato. Questo accese un faro sulla brutalità della mafia foggiana. Da allora la pressione dello Stato si è fatta serrata. Si sono susseguiti indagini, arresti, condanne, interdittive antimafia, fino allo scioglimento di più consigli comunali.

La “Società” ha collegamenti con altre mafie?

La nascita della mafia foggiana si deve proprio ad un’intesa con il boss camorristico Raffaele Cutolo. Il riferimento è all’incontro del gennaio 1979 all’Hotel Florio, sulla strada che collega Foggia a San Severo, che diede vita alla Nuova camorra pugliese. Poi, dopo una serie di vicissitudini, e dopo la creazione della Sacra corona unita, nata nelle carceri italiane, si registrarono guerre di mafia che hanno portato la Società foggiana ad affrancarsi dai legami con la camorra. Più recentemente sono documentate intese con la ‘ndrangheta e con organizzazioni estere, come la mafia albanese.

Il territorio foggiano come vive questa presa asfissiante e tentacolare della mafia?

Come le dicevo, dal 2017 l’azione dello Stato ha indebolito le strutture mafiose. E con noi hanno lavorato tanti attori della società civile, associazioni antimafia, Terzo settore, scuole, diocesi. Ma è un percorso da completare perché lo strumento repressivo non è risolutivo. C’è bisogno dell’apporto di tutti, ogni cittadino può metterci del suo schierandosi, testimoniando, facendo emergere il valore della presenza negli eventi antimafia. Questa assunzione di coraggio e di consapevolezza richiede un tempo di elaborazione. Ce lo insegna la storia. Abbiamo dovuto attendere le stragi di Capaci e di via D’Amelio di 31 anni fa, in Sicilia, prima che ci fosse un certo sollevamento popolare nei confronti di Cosa nostra. Forse anche qui dovrà trascorrere altro tempo. Non ne so misurare la congruità. Nel frattempo, è fondamentale seminare progetti di cultura della legalità.

Un altro grande problema di questa provincia sono i ghetti dei migranti stagionali dove non esiste lo stato di diritto, e che Avvenire denuncia da anni…

Nel territorio ci sono molti insediamenti abitati da migranti africani (Senegal, Guinea, Gambia, Mali) che vivono in baracche in condizioni di assoluto degrado, prima di tutto igienico-sanitario. È inaccettabile, a vederli così ti si stringe il cuore. Abbiamo arrestato imprenditori che, per poter lucrare, facevano dormire queste persone in edifici diroccati, a rischio crollo. Gli insediamenti più importanti sono il borgo Mezzanone, a Manfredonia, il ghetto di Rignano Garganico, a San Severo, e poi il Borgo Tre Titoli a Cerignola. Parliamo di 6-7.000 braccianti l’anno. Nel Foggiano ci sono 60.000 aziende agricole che operano su circa 5.000 ettari di superficie coltivata, è l’“orto d’Italia”. Un’economia importante, che si deve anche ai braccianti, che però guadagnano 5 euro a cassone, o 4 euro all’ora, per giornate che superano le 8 ore e con temperature anche superiori ai 40 gradi.

Che cosa si fa per aiutarli?

Oggi tutte le istituzioni, a partire dalla prefettura, sono impegnate a realizzare strutture dignitose, foresterie da destinare all’accoglienza temporanea. Uno dei progetti più importanti riguarda Borgo Mezzanone, coinvolge i Comuni di Foggia e Manfredonia, che usufruiranno anche dei fondi del Pnrr per riqualificare una serie di borghi e favorire un’inclusione sociale, affinché queste persone possano anche mandare a scuola i propri figli, accedere all’assistenza sanitaria, essere regolarizzati, un po’ come sta avvenendo nel Salento. Per alcuni progetti di riqualificazione è stato coinvolto anche il Politecnico di Bari. Da poco si è riusciti a trasferire in moderni moduli abitativi dei lavoratori migranti che si trovavano in un piccolo campo, a Stornara, reso celebre, due anni fa, per la morte di due bambini, seguita ad un incendio.

E sul piano della repressione?

Lavoriamo con i carabinieri dell’Ispettorato del lavoro per aggredire lo sfruttamento. Negli ultimi 12 mesi abbiamo raddoppiato le indagini, eseguito 26 misure cautelari e sequestrato 35 aziende, ora in amministrazione controllata.

Quali reati contestate?

Ricorrono con più frequenza l’intermediazione illecita, lo sfruttamento del lavoro, la tentata estorsione, la falsità ideologica. A volte un’indagine parte da un incidente stradale, quando per esempio ci imbattiamo in automezzi con braccianti. Spesso si tratta di veicoli modificati illegalmente per trasportare più persone. Ma il vero problema nella nostra attività è la mancanza di denunce.

Il contesto non aiuta i braccianti…

Nessuno di loro rivela di essere sfruttato. Ma attorno a loro vive un mondo di false autorizzazioni, false attività formative, falsa documentazione delle norme di sicurezza. I migranti non denunciano perché sono costretti a rivolgersi al “caporale” per lavorare e per essere trasportati sul luogo di lavoro. In questo senso, credo possa essere di grande aiuto per loro il supporto delle organizzazioni agricole e sindacali, oltre che degli imprenditori onesti.

Chi sono i caporali?

Spesso sono ex braccianti, in passato a loro volta sfruttati, che conoscono il territorio, la lingua, gli imprenditori, hanno confidenza con le pratiche documentali, e sono riusciti a dotarsi di una flotta di veicoli per trasportare braccianti. Se non ti rivolgi a loro non lavori. Hanno per così dire compiuto il “salto di qualità”. Ma lo ha fatto anche lo Stato.

 Estratto dell’articolo di Vito Salinaro per “Avvenire” domenica 27 agosto 2023.

«La provincia di Foggia per troppi anni è stata avvolta in un cono d’ombra che ha investito ogni livello, a partire da quello mediatico. Una condizione ideale perché una nuova mafia, una quarta mafia, potesse crescere e affermarsi». Preferisce la concretezza alla diplomazia il colonnello Michele Miulli, pugliese di Gioia del Colle, da 11 mesi comandante provinciale dei Carabinieri di una provincia, la Capitanata, tra le più difficili d’Italia. 

[…] pochi mesi dopo l’insediamento, con i suoi uomini, e sotto il coordinamento della Dda di Bari, ha perfezionato la più imponente operazione antimafia nella storia di questo territorio, denominata “Game over”, conclusa, poche settimane fa, con l’arresto di 82 persone: vertici, soldati e vedette della “Società foggiana”, la quarta mafia appunto. 

Colonnello, cosa intende per “cono d’ombra”?

Nella conferenza stampa dell’operazione “Game over”, il procuratore distrettuale Antimafia di Bari, Roberto Rossi, ha parlato di una colpevole sottovalutazione del fenomeno mafioso, in questo territorio, da parte dello Stato. Credo siano parole condivisibili alle quali mi permetto di aggiungere un’altra considerazione. Anche i media nazionali non hanno dato al problema il giusto rilievo. Questa “assenza” non ci semplifica le cose. 

Che cos’è la Società foggiana?

È un’organizzazione mafiosa priva di un vertice aggregante ma che ha una struttura interna compatta, basata sul familismo. Funziona su un modello federale, ha equilibri fluidi, utili a tessere alleanze con le altre mafie presenti nel Foggiano, a Cerignola come a Vieste, o a San Severo.

È una mafia relativamente giovane, il suo primo riconoscimento risale al 1994 con il famoso maxi-processo Panunzio a 67 imputati. Ma, pur se giovane, è un’organizzazione evoluta, con spiccate capacità imprenditoriali, che fa un uso della forza spregiudicato, persino spettacolare. E che reinveste i profitti in attività imprenditoriali. 

Perché “Game over” è una pietra miliare contro la quarta mafia?

Intanto per il numero delle persone coinvolte, poi perché abbiamo preso i capi dell’organizzazione delle tre storiche “batterie” che costituiscono la Società foggiana. Inoltre, perché è stato disvelato un sistema per la gestione monopolistica del traffico di cocaina, in analogia con quanto accade per le estorsioni, i due pilastri della Società foggiana. Ma il curriculum è ricco anche di omicidi, rapine, furti di autovetture finalizzati al riciclaggio, fino agli assalti ai furgoni portavalori che hanno un impatto quasi scenografico. 

Cioè?

Sono vere e proprie azioni militari condotte da commando organizzati, esportate pure fuori dalla Puglia. 

Perché si arriva a uccidere?

Si arriva ad uccidere quando saltano gli equilibri tra organizzazioni criminali diverse. 

A proposito di equilibri, l’operazione “Game over” dimostra proprio che prima delle ambizioni personali vengono gli affari. Non è così?

Confermo. Queste tre batterie della Società foggiana, nonostante fossero in conflitto, hanno raggiunto un accordo con cui è stato costituito un “assetto multipartecipativo” del traffico di droga per condividere e spartire i profitti. È un’assoluta novità rispetto alle altre mafie, perché nessun’altra organizzazione mafiosa gestisce il traffico di stupefacenti in modo unitario. Il controllo del territorio passa quasi in secondo piano a vantaggio di equilibri economici. 

[…] 

Qual è stato lo spartiacque tra il “cono d’ombra” e la presa di coscienza, almeno a livello istituzionale, di un fenomeno così radicato?

Senza dubbio la strage di San Marco in Lamis del 9 agosto 2017, in cui ci furono 4 morti, tra cui due vittime innocenti, i fratelli Luciani, due agricoltori uccisi perché testimoni di un agguato. Questo accese un faro sulla brutalità della mafia foggiana. Da allora la pressione dello Stato si è fatta serrata. Si sono susseguiti indagini, arresti, condanne, interdittive antimafia, fino allo scioglimento di più consigli comunali. 

La “Società” ha collegamenti con altre mafie?

La nascita della mafia foggiana si deve proprio ad un’intesa con il boss camorristico Raffaele Cutolo. Il riferimento è all’incontro del gennaio 1979 all’Hotel Florio, sulla strada che collega Foggia a San Severo, che diede vita alla Nuova camorra pugliese. Poi, dopo una serie di vicissitudini, e dopo la creazione della Sacra corona unita, nata nelle carceri italiane, si registrarono guerre di mafia che hanno portato la Società foggiana ad affrancarsi dai legami con la camorra. Più recentemente sono documentate intese con la ‘ndrangheta e con organizzazioni estere, come la mafia albanese. […]

Game Over”. Maxi operazione antimafia dei Carabinieri a Foggia. I nomi degli arrestati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Luglio 2023 

Le indagini così condotte dal Nucleo Investigativo del Comando Provinciale Carabinieri di Foggia, sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari e con il contributo della Direzione Nazionale Antimafia, che ha applicato un suo magistrato, hanno permesso di conoscere numerosi e dettagliati elementi caratterizzanti le complesse ed articolate dinamiche delittuose dell’organizzazione mafiosa, nonché i rapporti interni, non privi di conflittualità tra gli stessi indagati, l’accurato modus operandi utilizzato, la portata del traffico di stupefacenti commercializzato in regime di monopolio, controllato grazie al ricorso a metodi mafiosi, ed in ultimo anche la ripartizione e destinazione finale dei profitti illecitamente realizzati, per alimentare, senza soluzione di continuità, il “Sistema” della “Società foggiana”.

Dalle prime ore della notte è in corso la più vasta operazione antimafia mai eseguita nella città di Foggia, convenzionalmente denominata “Game Over”. Circa 500 militari dell’Arma dei Carabinieri del Comando Provinciale di Foggia, con il supporto operativo altresì dei militari degli altri Comandi Provinciali dell’Arma della Legione Carabinieri “Puglia”, dello Squadrone Eliportato Cacciatori di “Puglia”, dei Nuclei Cinofili Carabinieri di Modugno (BA), Chieti e Tito (PZ), nonché del Nucleo Elicotteri Carabinieri di Roma e dell’11° Reggimento Carabinieri “Puglia”, hanno eseguito una misura cautelare emessa dal GIP del Tribunale di Bari, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, con il supporto dalla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, nei confronti di svariate decine di soggetti di vertice, affiliati e contigui alla violenta organizzazione criminale di matrice mafiosa nota come “Società Foggiana” costituita dalle tre “batterie”: “Moretti-Pellegrino-Lanza”, “Sinesi-Francavilla” e “Trisciuoglio-Prencipe-Tolonese”. 

Arresti e perquisizioni oltre che in Capitanata, anche in altre province del Territorio Nazionale. I dettagli dell’operazione, sono stati forniti nel corso di una conferenza stampa presso gli uffici della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, alla presenza altresì del Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, dott. Giovanni Melillo, dei Magistrati della DDA di Bari e dei vertici dell’ Arma dei Carabinieri.

L’ indagine antimafia denominata “Game Over”, condotta dal Nucleo Investigativo del Comando Provinciale Carabinieri di Foggia e coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bari, trae origine dal procedimento relativo all’omicidio di matrice mafiosa di Roberto Tizzano e al contestuale ferimento di Roberto Bruno, entrambi esponenti di rilievo della batteria “Moretti-Pellegrino-Lanza”, sotto-articolazione dell’organizzazione mafiosa nota come “Società foggiana”, attinti con colpi d’arma da fuoco il pomeriggio del 29 ottobre 2016. 

Per tale delitto di mafia sono stati condannati, in via definitiva, Patrizio Villani, Cosimo, Damiano e Francesco Sinesi, tutti appartenenti alla batteria antagonista “Sinesi-Francavilla”. Le sentenze hanno accertato che mandante dell’efferata azione era stato Francesco Sinesi, in risposta al tentato omicidio perpetrato, in data 6 settembre 2016, ai danni di suo padre Roberto Sinesi, capo storico dell’omonima batteria mafiosa. Il luogo del delitto, bar “All’H24” di Foggia, si è rilevato, a seguito delle indagini compiute, la base operativa centrale del traffico di sostanze stupefacenti.

Dagli sviluppi investigativi svolti al riguardo, mediante l’uso massivo di attività tecniche , anche di ultima generazione, è stata possibile, nei periodi successivi, l’esecuzione tra le altre di due importanti inchieste antimafia coordinate sempre dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bari e precisamente:

“Decima Azione”: inchiesta giudiziaria conclusasi con l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare a carico dei maggiori 30 esponenti della consorteria mafiosa della “Società Foggiana” , che ha riguardato il contesto criminale delle estorsioni in danno del tessuto imprenditoriale cittadino, praticate “a tappeto” e con criteri di sistematicità nei confronti delle relative vittime; 

“DecimaBis”: inchiesta giudiziaria conclusasi con l’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare a carico di 40 soggetti appartenenti sempre alla predetta consorteria, che ne ha accertato gli ambiti operativi criminali e le infiltrazioni nel tessuto sociale ed economico ed in particolare le estorsioni realizzate con metodo mafioso, la turbata libertà degli incanti ed anche gli agguati compiuti con armi, il tutto al fine di esercitare un violento controllo del territorio, di natura “militare”, espressione tipica di quella forza di intimidazione tipica dell’agire mafioso.

L’operazione eseguita oggi, convenzionalmente denominata “Game Over”, rappresenta la prosecuzione, sul versante investigativo, nell’azione di contrasto nei confronti dell’organizzazione mafiosa “Società Foggiana”. Si è in particolare focalizzata sulle fonti di guadagno illecite di tale struttura criminale che, secondo le indagini, sono derivanti da due canali: le sistematiche estorsioni, compiute ai danni al tessuto imprenditoriale e ricostruite nei dettagli dalle indagini Decimazione e Decimabis, praticate con lo scopo di far confluire i proventi illeciti nella “cassa comune”, utilizzata per il sostentamento, l’assistenza e la sopravvivenza del sodalizio mafioso. 

Un contrasto anche al fiorente traffico di sostanze stupefacenti, perpetrato con aggressivo e minuzioso sistema di regole, che hanno garantito, ai vertici operativi del sodalizio, non a caso coincidenti con i vertici delle “batterie” mafiose, la possibilità di un controllo capillare e di una posizione di monopolio nella vendita della cocaina, attraverso l’imposizione dell’obbligo, a pena di pesanti ritorsioni anche armate, di commercializzare esclusivamente la sostanza stupefacente fornita dal sodalizio stesso. Tale imposizione, attuata con le caratteristiche tipiche delle organizzazioni mafiose, ha assicurato all’associazione consistenti profitti illeciti ed ulteriori 7 Euro per ogni grammo di cocaina venduta a Foggia. Profitti, questi, utilizzati anche per alimentare la “cassa comune”, funzionale al perseguimento degli scopi criminali della “Società Foggiana”.

Secondo quanto emerso e ritenuto dal Gip (fatta sempre salva la valutazione nelle fasi successive), i delitti contestati sarebbero stati perpetrati con metodologie organizzative ed operative che ricalcano fedelmente quelle praticate in materia di estorsioni. Le tre articolazioni componenti l’aggregato mafioso della “Società Foggiana”, infatti, hanno esercitato la loro “pressione mafiosa” per la monopolizzazione del traffico di cocaina sul territorio cittadino. Per tali narcotraffici, infatti, il sodalizio in questione aveva pianificato dettagliatamente l’organizzazione del traffico di cocaina attraverso continue riunioni in cui sono state determinate rigide regole contenute nel “cartello del narcotraffico”. 

Ha imposto il monopolio della vendita di cocaina nella città di Foggia, mediante una forza intimidatrice propria, derivante dal riconosciuto nonché temuto spessore criminale dei soggetti al vertice dell’ organizzazione stessa, direttamente investiti dagli storici capoclan, che si sono avvalsi di una fitta rete informativa, utilizzata per controllare militarmente le “piazze” di spaccio. ed ha immesso sul mercato cittadino considerevoli quantitativi di sostanze stupefacenti, stimati in circa 10 chilogrammi al mese di cocaina, acquistata ad un prezzo di poco inferiore ai 40 euro al grammo, poi rivenduta, a seconda dei casi, a 55 o 60 euro al grammo. I profitti realizzati dalla consorteria mafiosa sono quantificabili in almeno 200.000 euro al mese, e le dosi di cocaina immesse sulle piazze di spaccio corrispondono, invece, a circa 50.000 al mese.

Le tre articolazioni componenti l’aggregato mafioso della “Società Foggiana” hanno usufruito di depositi sorvegliati per la custodia ed il confezionamento della cocaina; ha “governato” le piazze di spaccio con una fitta rete di venditori, tutti pienamente consapevoli di operare illecitamente nell’ambito di contesto associativo asservito a scopi mafiosi attraverso la finalizzazione mafiosa del narcotraffico, inquadrati in vere e proprie “squadre operative” e ripartiti, secondo il livello operativo, nella “lista dei grossi” e nella “lista dei piccoli”, a cui venivano distribuiti con cadenza regolare quantitativi prestabiliti di cocaina, nell’ordine delle centinaia di grammi i primi e delle decine di grammi invece i secondi.

Veniva mantenuta una minuziosa contabilità della droga distribuita alle “squadre di spaccio” e dei

relativi corrispettivi realizzati, riscuotendoli mediante gli “addetti al giro inverso” presso gli spacciatori ed elaborando così vere e proprie “liste della contabilità”, funzionali alla gestione del narcotraffico. Le tre articolazioni componenti l’aggregato mafioso della “Società Foggiana” hanno raccolto i profitti del traffico di droga e, in analogia con la gestione dei profitti delle estorsioni, ha alimentato la “cassa comune”, utilizzata per distribuire i guadagni illeciti, assicurare somme ai sodali, denaro devoluto al mantenimento dei familiari ed accoliti in stato di detenzione, anche al fine di scoraggiare il fenomeno del pentitismo.

Le tecniche investigative utilizzate dagli investigatori dell’ Arma dei Carabinieri hanno portato alla luce l’essenza e la natura dei vincoli che univano a vario titolo tutti i soggetti coinvolti nel core business del “Sistema”, vale a dire l’esercizio in forma “imprenditoriale” della cessione di cocaina. La strategia criminale dei componenti dell’organizzazione presupponeva – come è risultato da talune conversazioni chiare ed esplicite – la sussistenza “a monte” di un “pactum sceleris”, siglato dai capi storici dei clan componenti le batterie mafiose confederate nella “Società Foggiana”. I metodi di gestione del traffico di stupefacenti (a cui gli stessi indagati avevano dato, a loro volta, il nome di “Sistema”), prevedevano l’attribuzione, all’interno del sodalizio, di ruoli ben definiti e per ciascuno dettagliatamente ricostruito agli esiti del vaglio del materiale investigativo raccolto.

I nomi di indagati arrestati

Ciro Albanese nato a Foggia il 10 marzo 1992 detto ‘Pipistrello’

Francesco Battiante nato a Foggia il 17 gennaio 1997

Vincenzo Bevilacqua nato a Foggia il 16 settembre 1993 detto ‘Sgangà’

Angelo Bruno nato a Foggia il 20 settembre 1968 detto ‘Il Pirata’

Angelo Bruno nato a Foggia l’8 novembre 1997 detto ‘La ciotta’

Carmine Bruno nato a Foggia il 5 febbraio 1975 detto ‘Uba Uba’

Giuseppe Bruno nato a Foggia il 1° aprile 1966

Leonardo Bruno nato a Foggia l’8 settembre 1988

Marianna Bruno nata a Foggia il 19 luglio 1977

Roberto Bruno nato a Foggia il 4 ottobre 1995 detto Robertino

Vincenzo Bruno nato a Foggia il 9 agosto 1983 detto ‘Enzuccio il cantante’

Giuseppe Caggiano nato a Foggia il 15 ottobre 1974

Luciano Calabrese nato a Foggia il 10 giugno 1999 detto ‘Cupptil’

Nicola Cannone nato a Foggia il 17 aprile 1990

Ciro Carretta nato a Foggia il 20 ottobre 1985

Francesco Carretta nato a Foggia il 6 dicembre 1973

Anna Catalano nata a Santa Ninfa il 15 settembre 1946 (arresti domiciliari)

Marcello Cavallone nato a Foggia il 23 aprile 1971 detto ‘Il Fornaio’

Filippo Ciavarella nato a Foggia il 28 settembre 1986

Francesco Compierchio nato a Cerignola il 29 agosto 1956 detto ‘Franchin ‘U nerg’

Arnaldo Consalvo nato a Foggia il 16 luglio 1982 detto ‘Nanduccio’

Michele Consalvo nato a Foggia il 1° marzo 1969 detto ‘Mezza lingua’

Michele Consalvo nato a Foggia il 23 novembre 1984 detto ‘Autosalone’

Domenico D’Angelo nato a Foggia il 5 aprile 1982

Fabio Ciro De Leo nato a Foggia il 16 giugno 1976

Michele De Leo nato a Foggia il 6 febbraio 1976 detto ‘La Siccia’

Pietro Del Carmine nato a Foggia il 7 giugno 1986 detto ‘Pierino del lavaggio’

Leonardo Di Noio nato a Foggia il 23 aprile 1984

Rocco Moretti junior nato a Foggia il 29 maggio 1997

Franco Nardino nato a San Severo il 31 agosto 1963

Marzio Padalino nato a Foggia il 20 marzo 1997

Domenico Palmieri nato a Foggia l’11 gennaio 1980 detto ‘Piscitill’

Raffaele Palumbo nato a Foggia il 23 gennaio 1984

Samuele Perdonò nato a Foggia il 1° luglio 1998

Giuseppe Perdonò nato a Foggia il 1° febbraio 1988 detto ‘Scarafone’

Francesco Pesante nato a Foggia il 4 gennaio 1988 detto ‘U sgarr’

Luciano Portante nato a Foggia il 28 giugno 1974

Nicola Portante nato a Foggia il 1° marzo 1976

Pasquale Portante nato a Foggia il 27 settembre 1969

Antonio Prencipe nato a Foggia il 4 novembre 1995 detto ‘Pig-li’

Francesco Ragno nato a Foggia il 7 febbraio 1985

Vincenzo Rendine nato a Foggia il 26 gennaio 1991

Giovanni Rollo nato a Foggia il 18 agosto 1987

Francesco Roma nato a Foggia il 20 giugno 1986

Luciano Russo nato a Foggia il 21 novembre 1990

Antonio Salvatore nato a Foggia il 26 febbraio 1991 detto ‘Lascia lascia’

Arnaldo Sardella nato a San Severo il 10 dicembre 1985

Mario Schioppo nato a Foggia il 17 ottobre 1980 detto ‘Autosalone’

Guido Siani nato a Foggia il 20 dicembre 1991 detto ‘Guiduccio’

Giuseppe Soccio nato a Foggia il 1° gennaio 1983 detto ‘Pinuccio il sammarchese’

Michele Spinelli nato a Foggia il 6 maggio 1967 detto ‘Zio Michele’

Antonio Spiritoso nato a Foggia il 20 novembre 1974

Giuseppe Spiritoso nato a Foggia il 16 novembre 1956 detto ‘Papanonno’

Lorenzo Spiritoso nato a Foggia il 5 gennaio 1981

Francesco Tizzano nato a Foggia il 20 gennaio 1972

Ciro Torraco nato a Foggia il 16 luglio 1975 detto ‘U varvir , il barbiere’

Michele Pio Vacca nato a Foggia il 24 agosto 1987

Pasquale Vacca nato a Foggia il 14 dicembre 1990

Antonio Valentino nato a Cerignola il 24 luglio 1970

Nicola Valletta nato a Cerignola il 3 luglio 1986

Carlo Verderosa nato a Foggia il 18 agosto 1982

Antonio Vincenti nato a Foggia il 13 ottobre 1982 detto ‘Il Nero’

Angelo Antonio Zagaria nato a Cerignola il 30 giugno 1984

Savino Zagaria nato a Cerignola il 3 ottobre 1968 detto ‘Sabino’

Indagati deceduti

Federisco Trisciuoglio nato a Foggia il 20 ottobre 1953 detto ‘Enricuccio U Zoppo’

Alessandro Scopece nato a Foggia il 31 dicembre 1985 detto ‘Il cinghiale’

Roberto Russo nato a Foggia il 5 giugno 1979 detto ‘Il Colombiano’ 

Redazione CdG 1947

Omicidio Salvatore Prencipe a Foggia: era un boss storico della "Società", la quarta mafia. Luca Pernice su Il Corriere della Sera il 21 maggio 2023.

Il boss è stato colpito poco distante da casa. Trovata in fiamme l'auto utilizzata per la fuga 

Due colpi di arma da fuoco, forse un fucile, sparati da un un uuomo poi fuggito con un'auto guidata dai complici: così è stato ucciso Salvatore Prencipe, 59 anni, noto negli ambienti criminali come “piede veloce”, boss della "Società", la mafia foggiana, ritenuto al vertice della batteria Trisciuoglio-Prencipe-Tolonese. L’agguato è avvenuto intorno alle 21 in viale Kennedy, al quartiere Cep, periferia della città. Sul posto sono intervenute pattuglie della polizia, che hanno avviato indagini.  

La dinamica

Secondo una prima ricostruzione, i killer molto probabilmente sono giunti a bordo di una Fiat Grande Punto, trovata in fiamme in via Sprecacenere dall’altra parte della città. L'omicidio è stato compiuto poco distante dall'abitazione della vittima. La pista è quella del regolamento di conti nella criminalità organizzata foggiana, considerata dalla Direzione nazionale antimafia una delle più agguerrite e pericolose d'Italia. 

Sfuggito a un altro agguato

Esponente di uno dei tre clan della mafia foggiana, Prencipe era scampato ad un agguato il 21 settembre del 1999. Quella sera era ai tavolini di un bar in via Fania, a poca distanza dal centro storico di Foggia con Federico Trisciuoglio e Leonardo Piserchia, altri due esponenti della criminalità organizzata quando alcune persone spararono all’impazzata verso i tre. Trisciuoglio e Piserchia vennero leggermente feriti mentre i proiettili uccisero Matteo di Candia un anziano che, quella sera, stava festeggiando il suo onomastico. Nome storico della mafia foggiana, Salvatore Prencipe era stato coinvolto in alcune delle più importanti operazioni antimafia come "Poseidon" e "Double Edge". Nel 2015 era stato scarcerato dopo aver scontato una condanna per associazione mafiosa, traffico e spaccio di sostante stupefacenti.

Le indagini

Sul fronte delle indagini, gli investigatori verificando la possibilità che ci possa essere un testimone dell'agguato. Si trattarebbe di una persona residente nella zona che avrebbe visto un uomo per strada con il fucile. Intanto la polizia ha eseguito sette esami stub e una decina di perquisizioni.

Lo sfogo del procuratore Vaccaro: “Foggia è povera per colpa della mafia”. Il magistrato: «Chi nega la mafia è come chi, di fronte al disastro dell'alluvione, dice che c'è stata una pioggerellina». REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Maggio 2023.

«Foggia si trova nella terribile, degradata condizione in cui versa oggi, per colpa della mafia. E' sporca, è insicura, è pericolosa, è buia, è povera per colpa delle organizzazioni mafiose che si sono infiltrate nell'economia, che si sono infiltrate nell'Amica, che si sono infiltrate nella pubblica amministrazione. Se a Foggia i negozi chiudono è per colpa della mafia».

E' la denuncia del procuratore della Repubblica di Foggia, Ludovico Vaccaro, durante un incontro pubblico per la presentazione del libro “La Società Foggiana e la Quarta Mafia”, del giornalista Luca Pernice. Nell'appuntamento organizzato da Libera sabato sera, Vaccaro ha stigmatizzato il “negazionismo” della mafia e ha invitato i cittadini a mobilitarsi: «Scendete in campo, uscite dalle case, prendete posizione, ribellatevi ciascuno secondo le proprie idee e i propri orientamenti. Ma diffidate dei falsi profeti, state dalla parte di chi ama questa città e vuole liberarla dalla mafia che, credetemi, non è una storia raccontata ma una realtà vera».

La SCU: Sacra Corona Unita.

Sacra Corona Unita, meno omicidi, più agganci con la politica: il nuovo corso della mafia pugliese.La parola d’ordine è sommersione: ai morti ammazzati preferisce l’imprenditoria della terza generazione di boss. È diventata pervasiva e avvicina professionisti compiacenti per ottenere benefici. Pierfrancesco Albanese su L'Espresso il 09 agosto 2023

È silente, ma c’è. Ha abbandonato le pistole fumanti e i morti ammazzati trovati ancora caldi, un giorno sì e l’altro pure, sulle strade asfaltate dei centri e nelle contrade polverose delle campagne salentine, preferendo al gangsterismo degli anni Novanta l’imprenditoria della terza generazione di boss.

Mafiosi, figli e nipoti di mafiosi, che continuano – pur in sordina, ma con la pervasività e le ramificazioni tipiche della criminalità organizzata affarista di nuovo conio – la storia della «quarta mafia». Quella Sacra Corona Unita (Scu) fondata da Pino Rogoli, nata nel maggio 1983 per fermare la proliferazione sul territorio pugliese dei clan napoletani e delle cosche calabresi, da cui gli uomini d’onore salentini hanno finito per mutuare codici e riti d’affiliazione. Caratterizzandosi poi per l’orizzontalità: nessuna cupola, ma una struttura di tipo clanico, molecolare, verticistica all’interno delle singole cosche, ma paritaria verso l’esterno. In grado di fronteggiare, per via del suo tipico camaleontismo, retate e blitz di forze dell’ordine e magistratura. La flessibilità, insomma, garantisce una sopravvivenza rispetto all’attività repressiva dello Stato, che le nuove leve tentano a tutti i costi di evitare e di non destare. Sta in questo la differenza con i gregari e i vecchi capibastone, finiti, proprio a causa delle bramosie sanguinarie, tra le maglie della giustizia. Ma ai quali, pure, i nuovi affiliati non mancano di somigliare, almeno per il marchio di fabbrica: l’appartenenza alla Scu, con tutto il corollario evocativo che ne discende e che serve in chiave intimidatoria e di controllo del territorio.

Nel maggio scorso, l’ultima operazione dei carabinieri del Ros, guidati dalla Direzione distrettuale antimafia di Lecce, ha rischiarato i contorni della nuova generazione di mafiosi. Capace di portare alla propria corte professionisti qualificati, persone arruolate tra le fila di polizia penitenziaria e Guardia di finanza, politici e medici compiacenti, che garantiscono la penetrabilità di ambienti che si vorrebbero impermeabili. Perché così si riescono a ottenere notizie dal contenuto riservato, buone alla causa degli affiliati, e certificazioni mediche posticce, referti che attestano patologie e situazioni d’incompatibilità con la detenzione inesistenti nella realtà, ma sufficienti per far spalancare le porte del carcere. E restituire libertà personale e di manovra soprattutto ai vertici dell’organizzazione.

L’operazione “Filo d’Arianna”, come è stata ribattezzata l’indagine sul clan Politi, tra i più attivi del Salento, ha consentito di documentare la pervasività della frangia monteronese della Scu, attiva nel Nord del Leccese (specie tra Monteroni, Carmiano e Arnesano), facente capo a Saulle Politi, oggi in carcere, e propaggine della storica cosca mafiosa legata ai nomi dei fratelli Mario e Angelo Tornese. L’attività investigativa – che ha portato all’arresto anche di Gabriele Tarantino, considerato il nuovo capoclan dopo che il precedente era finito in manette – ha permesso di rivelare l’ultimo mantra della Scu: devota più all’economia che al sangue, capace di allungare i tentacoli dappertutto, abile ad infilarsi negli interstizi e procurarsi entrature nelle istituzioni. Il tutto grazie ai rapporti con professionisti compiacenti, appunto, a cui i mafiosi danno del tu.

Così accadeva con tre agenti della Penitenziaria (uno contestualmente assessore comunale di un paese del Leccese), individuati dagli inquirenti come le talpe che avrebbero consentito agli affiliati di avere occhi e orecchie tra le mura del carcere. Allo stesso modo con i medici dell’istituto, autori di una raffica di referti in grado di condurre alla scarcerazione delle punte di diamante del clan, e, infine, con un agente della Finanza di stanza a Brindisi, accusato di essere un fiancheggiatore.

Ecco, dunque, profilarsi la strategia della sommersione: cioè un controllo sommesso del territorio, descritto dal procuratore generale Antonio Maruccia come la «cartina di tornasole della mafiosità dei gruppi, dotati ormai di una maturità tale da imporsi sul territorio in maniera silente».

Come nel caso del clan Coluccia, che diceva della propria roccaforte, la frazione di Noha del Comune di Galatina, che fosse simile a Casal di Principe, e dei suoi affiliati, mutatis mutandis, che fossero come i Casalesi. Per il procuratore Maruccia, il clan affianca alle attività illecite quelle imprenditoriali. Nonostante il core business resti il traffico di stupefacenti. A sua volta, però, caratterizzato da un salto di qualità: i padrini leccesi stringono accordi con albanesi e sudamericani. E con la consorteria ’ndranghetista dei Mammoliti “Fischiante”, di San Luca, egemone nel traffico di cocaina, con la quale avrebbero scambiato partite di droga, concordate su telefoni criptati. Testimonianza del nuovo modus operandi della Scu. Che si sostanzia, per gli inquirenti, anche nell’interesse per la politica.

Lo dimostrano le elezioni del 2021 in un paese dell’hinterland salentino: qui, intercettato ai domiciliari, Tarantino dà il proprio placet a una candidata connessa a una lista poi vittoriosa, in vista di un tornaconto che non è dato sapere se si sia o meno concretizzato. Il fatto comunque incarna – come altri casi in cui sono coinvolte persone che a vario titolo gravitano nei Palazzi di Lecce e provincia – il nuovo corso della Scu. Che, sostiene Maruccia, è sempre più incline «a influenzare l’esito delle elezioni locali, soprattutto nei Comuni di piccole dimensioni, al fine di assicurarsi appoggio politico e amministrativo».

Brindisi, ecco come i boss della Scu si spartivano lo spaccio a San Vito. Nei due interrogatori Romano ha rivelato alla Dda i tentativi, poi falliti, tramite lettere e intermediari, di indurre a più miti consigli Lamendola. STEFANIA DE CRISTOFARO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Luglio 2023   

Scambio di lettere secondo le regole della diplomazia in chiave mafiosa con l’obiettivo - poi fallito - di prolungare la pax tra i due gruppi nella gestione del traffico di droga, stabilendo una spartizione del territorio.

A riferire di quel tentativo e delle successive minacce consegnate tramite terze persone, è stato il collaboratore di giustizia Andrea Romano, 37 anni, capo del gruppo di stampo mafioso con base nel quartiere Sant’Elia di Brindisi, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Cosimo Tedesco, avvenuto il primo novembre 2014, a seguito di una lite avvenuta alcune ore prima, durante la festa di Halloween.

Romano ha raccontato ai magistrati della Dda di Lecce, di aver scritto a Gianluca Lamendola, 34 anni, nato a Mesagne, ma residente a Brindisi, per il quale i pm dell’Antimafia salentina avevano chiesto e ottenuto la custodia cautelare in carcere nell’inchiesta «The Wolf», sulla Sacra corona unita e sul gruppo Lamendola-Cantanna. Gruppo ritenuto la diramazione sul territorio di San Vito dei Normanni della vecchia guardia della Scu, avente come referenti Antonio Vitale, alias il Marocchino, Massimo Pasimeni detto Piccolo dente e Daniele Vicentino, chiamato il Professore.

Lamendola, considerato figura di primo piano del gruppo, nipote di Carlo Cantanna, affiliato Scu, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Tommaso Marseglia, avvenuto il 22 luglio 2001 a San Vito Dei Normanni, è accusato di essere «capo, promotore e organizzatore del sodalizio». E a tutt’oggi non è assicurato alla giustizia perché è riuscito a sottrarsi al blitz eseguito il 18 luglio scorso dai carabinieri. È latitante assieme al padre Cosimo, di 51 anni, ed entrambi sono ricercati anche all’estero. Nella richiesta di arresto del pm, riportata a stralci nell’ordinanza di custodia firmata dal gip del tribunale di Lecce, si fa riferimento al contenuto di due interrogatori resi da Romano: il primo il 22 gennaio 2021 e l’altro il 10 marzo successivo, durante i quali ha «narrato l’ evoluzione criminosa avuta da Lamendola». Con la precisazione che il collaboratore, «è stato valutato intrinsecamente credibile, in quanto la posizione verticistica assunta consente al dichiarante di possedere un bagaglio conoscitivo di elevatissimo livello per conoscenza diretta dei fatti». E ancora, il gip evidenzia: «L’esposizione delle dinamiche associative dallo stesso illustrate non può che ritenersi fondata e veritiera, anche in ragione dei numerosi riscontri estrinseci via via assunti nel corso dei procedimenti che lo riguardano».

Il racconto di Romano parte da una lettera che Giuseppe Prete, una delle persone più vicine al brindisino stando ai verbali, gli scrisse «dolendosi del comportamento disinvolto» assunto nel traffico di sostanze stupefacenti da Lamendola. Condotte che «confliggevano con i loro interessi» e per questo Prete avrebbe pregato Romano di intervenire. Romano, a sua volta, ha detto di aver scritto una missiva a Lamendola «avvertendolo che, scarcerato, non poteva pensare di riappropriarsi a suo piacimento del territorio di San Vito che lui ormai aveva occupato con i suoi sodali».

Il 34enne venne scarcerato il 2 novembre 2020, ma secondo quanto contestato dalla Dda avrebbe comunque continuato a gestire dal carcere tutte le attività dell’associazione «come se - sostiene il gip - la limitazione della libertà personale non esistesse o comunque avesse una portata limitante non certo assoluta». La riacquistata libertà indusse Lamendola a rivendicare il ruolo di capo - peraltro mai contestato - pretendendo rispetto assoluto dai sodali, risposta immediata alle proprie direttive e sudditanza totale.

«Per un breve periodo - stando a quanto si legge nel provvedimento di arresto - si creò un equilibrio nella coesistenza dei due clan», quello di Romano da un lato e quello di Lamendola dall’altro. Ma l’equilibrio si rivelò instabile perché Lamendola incrinò la pax a causa della «tendenza ad assumere sempre maggiori spazi di autonomia».

Romano, a questo punto, fece un ulteriore passo e tramite una terza persona, «parlò telefonicamente con Brian Maggi che era in buoni rapporti con Lamendola affinché intervenisse» e questi lo «rassicurò che lo avrebbe fatto, avvisandolo di ridimensionarsi, altrimenti lo avrebbe ucciso». Non furono usate, quindi, mezze parole.

Romano aveva preso tra i suoi affiliati anche Francesco, detto Ciccio, Turrisi, antagonista di Lamendola. Ma «quando Romano lo mise da parte perché inaffidabile in quanto cocainomane, Lamendola lo aggredì per affermare la sua supremazie nello spaccio», ha scritto il gip. «Turrisi, infatti, agiva autonomamente a San Vito, ed era affiliato a Carlo Cantanna. Per tali ragioni, sebbene sullo stesso territorio operasse anche Francesco Campana, Lamendola dichiarò guerra la clan Turrisi, cercando di uccidere due componenti del gruppo il 14 ottobre 2020, ovvero Luciano Tedesco e Domenico Urgese», ha aggiunto il gip. Conflitto culminato con il sequestro di quest’ultimo il 6 maggio dell’anno successivo.

Strage della Grottella, la vita di tre guardie giurate per fuggire con i soldi delle pensioni. Da leccenews24.it il 6 Dicembre 2022

Il 6 dicembre 1999 tre guardie giurate – Luigi Pulli, Rodolfo Patera e Raffaele Arnesano – persero la vita in un assalto armato a pochi passi dal Santuario della Grottella. Tre vite per i soldi delle pensioni 

Era il 6 dicembre 1999, quando il Santuario della Grottella legato da un’antica leggenda a San Giuseppe da Copertino, il Santo dei Voli, fu teatro di una sanguinosa rapina firmata dagli uomini della Sacra Corona Unita. Malviventi spietati e ben organizzati. Il piano architettato per impossessarsi del furgone portavalori ‘carico’ di denaro diretto ai vari uffici postali per il pagamento delle pensioni doveva essere portato a termine a qualsiasi costo. Per i criminali tre miliardi delle vecchie lire valevano qualche vita persa.

Il bilancio dell’assalto fu amaro: tre guardie giurate – Luigi Pulli, Rodolfo Patera e Raffaele Arnesano – persero la vita nell’assalto. Tre sono rimaste ferite. Una strage. La strage della Grottella come è ricordata.

L’assalto

Sono passati più di vent’anni da quella mattina. L’orologio aveva da poco segnato le 7.00, quando sei vigilantes si sono ritrovati, improvvisamente, nell’inferno. Tre erano a bordo del primo furgone ‘spinto’ dai malviventi contro il guard-rail. L’impatto è stato violentissimo e il conducente Luigi Pulli, 52enne di Veglie, muore sul colpo.

Gli altri tre si trovavano nel secondo furgone “attaccato”. Chi si trovava al volante intuisce di essere finito in una trappola e tenta una disperata inversione a U, ma le auto sono tante, troppe e la manovra è inutile.

I malviventi, a quel punto, cercano di aprire il portellone a colpi di kalashnikov, ma i proiettili non bastano e decidono di passare all’esplosivo. Nello scoppio perdono la vita Rodolfo Patera di 32 anni e Raffaele Arnesano, di 37. Resta miracolosamente illeso Giuseppe Quarta, che era con loro. Feriti anche Giovanni Palma e Flavio Matino. Ce la faranno.

Con il campo libero da ‘interferenze’, il commando passa al bottino, ma riescono a portare via solo la cassaforte del primo furgone. L’altra è rimasta incastrata tra le lamiere del portavalori esploso. Probabilmente, la strage sarebbe rimasta senza ‘colpevoli’ se il boss Vito Di Emidio non avesse fatto nomi e cognomi di mandanti e membri del commando. Il pentito “Bullone”, diventato un collaboratore di giustizia, raccontò tutto: a piazzare l’esplosivo fu Pasquale Tanisi, specializzato in bombe artigianali. Antonio Tarantini detto kamikaze guidò il camion che sfondò il furgone. A due sardi il compito di fare da basisti. Il resto della banda, infine, si impossessò del denaro, come avevano pianificato a tavolino. Il gruppo aveva anche fatto le prove generali per non commettere errori.

La cerimonia

Ogni 6 dicembre, i colleghi scampati a quell’agguato ricordano i compagni che non ci sono più.

Omicidi Scu: per Di Emidio dopo la libertà, pena ridotta. Da brindisireport.it il 7 luglio 2017.

Da 27 a 23 anni di reclusione nel processo d’Appello bis in corte d’Assise a Taranto: ha confessato oltre venti esecuzioni: dall’uccisione di don Ciccio Guadalupi a Giuliano Maglie. Assolto Cosimo Poci dall’accusa di aver fatto parte del sodalizio.

Dopo la libertà ottenuta nel processo in cui è imputato per oltre venti omicidi commessi nel Brindisino dal 1982 al 2001, per il pentito Vito Di Emidio è arrivata la riduzione della pena: è stato condannato a 23 anni, a fronte dei 27, nel processo d’Appello bis davanti dalla Corte d’Assise di Taranto, a cui la Cassazione ha rinviato accogliendo il ricorso della difesa.  La stessa Corte ha assolto Cosimo Poci dall’accusa di aver fatto parte della Sacra Corona Unita, aderendo alla richiesta dell’avvocato Fabio Di Bello, azzerando la condanna a quattro anni.

La pronuncia è arrivata nella giornata di giovedì 6 luglio 2017, a distanza di sei anni dalla conclusione del processo a Brindisi, dinanzi ai giudici togati e popolari, sugli omicidi commessi da Di Emidio, quando era Bullone, killer spietato per sua stessa ammissione. In qualità di collaboratore di giustizia ha ottenuto il riconoscimento degli sconti di pena, gli ultimi dei quali definiti con la sentenza relativa al secondo processo d’appello, dopo quello incardinato a Lecce.

Il trattamento sanzionatorio è stato, infatti, ulteriormente rideterminato dalla Corte d’Assise d’Appello di Taranto a cui la Prima sezione penale della Suprema Corte ha rinviato il 28 gennaio 2015. 

I fatti di sangue sono stati ricostruiti con le dichiarazioni rese da Di Emidio, all’indomani dell’arresto, avvenuto il 28 maggio 2001, quando finì fuori strada con l’auto sulla provinciale per San Donaci. Venne soccorso dagli stessi carabinieri che lo stavano inseguendo e portato in ospedale, al Perrino, dove venne sottoposto a intervento chirurgico. Chiamò in correità il cognato Giuseppe Tedesco per gli omicidi di Giuliano Maglie, Giacomo Casale e Leonzio Rosselli, e altre due persone che conosceva, Pasquale Orlando e Daniele Giglio, il primo amico del quartiere Sant’Elia in cui è cresciuto, entrambi riconosciuti colpevoli degli omicidi di Casale e Rosselli. Tutti e tre sono stati condannati in via definitiva al carcere a vita, a fronte della professione di innocenza sostenuta anche nel corso delle udienze. Ergastolo inflitto in primo e secondo grado, ricorsi in Cassazione respinti. Fine pena mai da scontare.

I ricordi di Di Emidio permisero di  ritrovare i resti di Giuliano Maglie, alias Naca-naca, in Montenegro, sotto la cuccia di un cane, all’interno del giardino di una villa che negli anni Novanta era diventata il nascondiglio dei latitanti. Il primo omicidio commesso da Bullone fu quello di don Ciccio Guadalupi, l'allora presidente di Assindustria Brindisi, che fu ucciso in un tentativo di rapina messo in atto l'11 ottobre dell'86 all'interno dello stabilimento di pastorizzazione del latte che aveva sede nel rione Casale. Quel delitto gli è stato contestato in corso con un’altra persona, mai trovata. Il mistero resta da anni.

Bullone confessò di aver ucciso:  Vincenzo Zezza, anno 1991, colpito a bordo di una Citroen Dyane; Michele Lerna ammazzato a San Michele Salentino, nel 1997, in camera da letto dopo che Bullone aveva ripulito la sua abitazione. Il 26 giugno del 1998, fu ucciso Salvatore Luperti, ammazzato sulla litoranea Nord di Brindisi, poi il 22 gennaio del 1992 l'omicidio di Nicola Petrachi, che non aveva voluto pagare la quota che spettava al gruppo per il contrabbando di sigarette. Poco dopo, una decina di giorni più tardi, morì Antonio De Giorgi, sotto una pioggia di proiettili davanti a un bar del rione Paradiso. A seguire, la condanna a morte di Antonio Luperti e il ferimento di Giovanni Lonoce, e quindi anche il sequestro e l'omicidio di Giuseppe Scarcia, il cui corpo fu sotterrato. Ancora gli omicidi di Giacomo Casale e Leonzio Rosselli, al Sant'Elia di Brindisi.

Nello stesso troncone processuale, annullamento con rinvio anche per Cosimo Poci, con successiva assoluzione dopo la condanna a quattro anni: in questo caso, la Cassazione ha accolto il ricorso presentato dall’avvocato Fabio Di Bello, in relazione all’accusa di associazione mafiosa.

Sacra corona unita, pentito pugliese si autoaccusa di due omicidi. Emanuela Carucci il 24 Ottobre 2018 su Il Giornale.

Le dichiarazioni di Tommaso Montedoro durante un processo in corso di svolgimento a Lecce

È diventato collaboratore di giustizia e si è autoaccusato di due omicidi commessi a Brindisi, Tommaso Montedoro, ex boss della Sacra corona unita di Casarano, un Comune in provincia di Lecce.

L'uomo è stato ascoltato in videoconferenza nell’aula della corte d’Assise di Lecce durante un'udienza del processo 'Diarchia'. Il giudizio si celebra con rito abbreviato dinanzi al giudice per le indagini preliminari Cinzia Vergine.

Montedoro ha risposto alle domande del procuratore aggiunto antimafia Guglielmo Cataldi e del sostituto Massimiliano Carducci, facendo nuove rivelazioni. Montedoro ha ribadito di non aver mai fatto parte della Scu e ha confessato due vecchi omicidi avvenuti nel Brindisino quando era luogotenente del boss Vito Di Emidio. Il collaboratore di giustizia si è addossato la responsabilità dell’uccisione di Rosario De Salve, il macellaio di Matino assassinato l’11 marzo 1998, per il quale recentemente è stato condannato in Cassazione a trent'anni di reclusione.

Ha invece negato il suo coinvolgimento nell’omicidio di Augustino Potenza avvenuto a Casarano il 26 ottobre 2016 e nell’agguato a Luigi Spennato, avvenuto un mese dopo e di cui Montedoro è accusato di essere il mandante. Emanuela Carucci

La Sacra corona unita, 37 anni fa il battesimo in cella di Pino Rogoli. Nel Natale del 1981 nel carcere di Trani il (futuro boss) mesagnese pronunciava per la prima volta la parola mafia. PIERO ARGENTIERO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2018

È trascorso quasi mezzo secolo da quando la notte del Natale del 1981 nel carcere di Trani, per la prima volta viene pronunciata la parola mafia da pregiudicato mesagnese Giuseppe Rogoli. Non per una manifestazione di vicinanza ai mafiosi siciliani, calabresi o campani. No. Si stanno gettando le fondamenta per quella che diventerà la quarta mafia, la Sacra Corona unita, la mafia pugliese che nel corso degli anni ha imbrattato di sangue la splendida Puglia.

Giuseppe Rogoli è un piastrellista mesagnese che all’epoca ha 32 anni, scolarizzazione quasi zero (a malapena ha completato le elementari) e sta scontando nel carcere di Trani la pena che gli è stata comminata per avere partecipato nel 1980 ad una sanguinosa rapina in banca a Giovinazzo: un tabaccaio che si trova dinanzi al suo negozio viene ucciso da uno dei colpi che i banditi sparano per coprirsi la fuga.

In carcere Rogoli era entra in contatto con esponenti della ‘ndrangheta. Si affilia a Umberto Bellocco, capobastone della cosca Bellocco, che gli conferisce il grado di santista e gli concede l’autorizzazione a creare la Sacra corona unita.

Con Rogoli partecipano alla creazione della Scu Vincenzo Stranieri di Manduria e Mario Papalia legato a Cosa nostra.

L’ispirazione, come per tutti i criminali mafiosi, è fortemente religiosa. Le tre parole che compongono la quarta mafia in itinere hanno un preciso significato: Sacra perché l’affiliazione è una consacrazione che non si può rompere; Corona perché è il simbolo del Rosario o corona, e Unita perché tutti i membri debbono essere uniti e forti come gli anelli di una catena.

Inizialmente l’affiliato giura di rappresentare sempre, sino alla morte, Giuseppe Rogoli: «Giuro su questa punta di pugnale bagnata di sangue, di essere fedele sempre a questo corpo di società di uomini liberi, attivi e affermativi appartenenti alla Sacra corona unita e di rappresentarne ovunque il fondatore Giuseppe Rogoli». Quando poi Rogoli diverrà solo il Sommo vecchio nella formula di giuramento verrà sostituita la fedeltà a lui con quella a San Michele Arcangelo. 

La Scu è strutturata come la ‘ndrangheta. Il primo grado è il picciotto, quindi viene il camorrista, e poi gli sgarristi, santisti, evangelisti, trequartisti, medaglioni e medaglioni con catena. Otto medaglioni con catena compongono il vertice che comanda la squadra della morte. La Scu si sviluppa velocemente. Fa proseliti soprattutto tra tanti giovani mesagnesi senza lavoro e un po’ scapestrati. Rogoli dal carcere tiene le fila dei suoi ragazzi. Ma ampliandosi cominciano a sorgere i problemi. Antonio Antonica, giovane mesagnese, che è il primo affiliato a Rogoli, riceve dal suo capo la mansione di reggente. Quando rifiuta di trafficare con la droga Rogoli lo fa ammazzare. Per eliminarlo sono necessari bel due tentativi. Nel primo i sicari, che lo hanno atteso mentre rincasa, riescono solo a ferirlo. Non sbagliano invece quando fanno irruzione in ospedale e lo freddano nel letto in cui è ricoverato per le precedenti ferite.

Da questo momento è una scia di sangue. Le cosche più agguerrite e vicine a Rogoli sono quelle di Salvatore Buccarella di Tuturano, di Giovanni Donatiello e Giuseppe Gagliardi, mesagnesi, e di Ciro Bruno di Torre Santa Susanna.

Lo scontro intestino è terribile. Nel 1990 nel Brindisino si contano oltre 50 omicidi e con gli assassinii arrivano anche i primi pentiti e i primi arresti. Cade l’insospettabile Cosimo Screti di Torre Santa Susanna, un politico dalla faccia pulita accusato di essere il cassiere della Scu.

Nasce la Sacra corona libera con i nuovi arrivati: Antonio Vitale, Massimo Pasimeni, Massimo D’Amico. Un breve periodo di tranquillità nella quarta mafia che viene interrotta dal pentimento di D’Amico. Sulle ceneri di questa Scu si inserisce il breve periodo di Giuseppe Leo, un odontotecnico mesagnese, di una ferocia inaudita. Dopo avere ammazzato l’ultimo dei suoi avversari interni, viene denunciato da uno degli uomini dell’ucciso. Subito dopo la cattura si pente.

A questo punto le redini tornano in mano a Massimo Pasimeni e ad Antonio Vitali. Al quale si aggiungono gli emergenti Ercole Penna, marito della nipote della moglie di Rogoli, e Daniele Vicentino, entrambi mesagnesi. Questo nuovo vertice deve fare i conti con quella scheggia impazzita che sono il brindisino Vito Di Emidio e i suoi uomini. Condannato all’ergastolo Di Emidio si dà alla latitanza. Viene catturato nel maggio del 2001 e si pente pure lui, confessando venti omicidi (forse ventuno, non ricorda il numero esatto). 

Penna e vicentino danno una nuova veste alla Scu. Niente più affiliazioni e investimenti nelle attività illecite. La nuova Scu si appoggia su tanti imprenditori insospettabili e investe attraverso loro. Propugna la pace sociale e il consenso tra la popolazione. Penna mantiene basso il profilo e riesce anche a vincere la resistenza di Vicentino che vorrebbe attuare una strategia della tensione. Il 29 settembre del 2010 Penna viene arrestato assieme a tanti altri. Sfugge Vicentino ma sarà catturato dopo qualche mese. Penna il 9 novembre successivo chiede di parlare con il sostituto procuratore antimafia Alberto Santacatterina e inizia la collaborazione.

Il post Penna è ricco di collaboratori di giustizia. Si pentono in tanti. Accusano capi, gregari e anche i loro parenti più stretti, consentendo alla giustizia di entrare in meandri della criminalità molto difficili da individuare. Giuseppe “Gabibbo” Gravina falcidia la sua famiglia con chiamate di correità. Stessa cosa Sandro Campana che praticamente scava la fossa sotto i piedi del fratello Francesco, nuovo capo della frangia mesagnese, che sino ad allora era riuscito ad evitare le accuse di omicidio.

Gli Zingari.

Estratto dell'articolo di Fabio Amendolara per “la Verità” mercoledì 6 dicembre 2023. 

Mammasantissima blasonati sembrano aver accettato l’ingresso di famiglie rom nella stanza dei bottoni della ’ndrangheta: dal santuario di Polsi a San Luca, […] passando per il quartiere Archi di Reggio Calabria […] fino alla capitale economica, Milano, dove interi quartieri vengono invasi dalla cocaina che i grossisti fanno sbarcare a Gioia Tauro. 

Con le nuove generazioni criminali alle prese con grandi operazioni di riciclaggio e investimenti in bitcoin, gli «zingari», come continuano a chiamarli i boss calabresi, sono riusciti a insinuarsi nel mercato della droga, prendendo in mano molte aree dello spaccio. Ma non solo. A Roma, per esempio, un’inchiesta antimafia ha ricostruito che i boss Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo, ottenuta l’autorizzazione di aprire una propaggine ’ndranghetista nella Capitale, avrebbero usato i rom come teste di legno, facendo intestare loro, secondo l’accusa, nuove licenze per ripulire beni aziendali di imprese ormai compromesse ma anche per «sfuggire a eventuali misure di prevenzione patrimoniali».

E addirittura in terra di Calabria ci sarebbe un’area che gli inquirenti ritengono ormai nelle mani dei gruppi criminali rom: la città di Cosenza e il suo hinterland sarebbe ormai appannaggio della famiglia Abbruzzese, ovvero una costola del clan degli zingari. Come a Catanzaro, dove alcuni quartieri sarebbero nelle mani dei Bevilacqua-Passalacqua, «soggetti stanziali di origine nomade», spiegano gli inquirenti, «organizzati con le medesime modalità delle associazioni ’ndranghetistiche». Una serie di inchieste raccontano l’evoluzione della criminalità rom: Maniscalco, Revenge, Ghibli, Rinascita, Garden e Jhonny. […] 

Con il passare del tempo, gli zingari avrebbero «acquisito sempre di più autonomia rispetto alle predette cosche, fino a divenire un gruppo mafioso con un proprio programma criminoso che si inserisce nell’assetto ’ndranghetistico in competizione con le altre associazioni mafiose». […] 

Anche le parole di un collaboratore di giustizia hanno riscontrato ciò che i magistrati già sospettavano. I racconti di Vincenzo Cristiano consegnano a chi indaga il peso specifico della comunità criminale rom così come percepito dai boss della ’ndrangheta. Cristiano, parlando con uno degli uomini di peso nell’ambiente rom, si sarebbe sentito dire: «Io ho cinquecento uomini battezzati di ’ndrangheta [...]». Un esercito, praticamente.

Con tutte le carte in regola per occuparsi di stupefacenti, armi ed estorsioni. Ma con una carta in più rispetto al passato: la forza di intimidazione mafiosa. Che in alcuni casi pare già essere stata messa in campo anche nei confronti di chi fa informazione.  È finito nel mirino, per esempio, Klaus Davi, «reo», è spiegato nell’ordinanza di custodia cautelare dell’indagine ribattezzata Sinopolini, «di aver attirato l’attenzione sulla ’ndrangheta a Roma, avendo progettato di voler affiggere alle fermate della metropolitana i nomi dei boss calabresi» del calibro di Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro, «mettendo in pericolo la loro copertura». 

[…] Qualcuno poi deve aver deciso di alzare il tiro. Anche perché nella documentazione dell’indagine Garden emerge che la Guardia di finanza ritiene che sia stato possibile trovare conferma dei riti di affiliazione proprio grazie agli articoli di Davi.

Cosimo Borghetto, indicato come protagonista di alcune guerre di mafia e punto di riferimento dei gruppi rom, poi, in una intercettazione si lascia scappare a proposito di Davi: «Spero che muoia e gli scoppi la pancia». E Davi a metà ottobre si è trovato nella cassetta della posta una busta con dei proiettili da revolver, ovvero dei calibro 9. Il procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri ha aperto un fascicolo. E il questore Bruno Megale ha subito spiegato: «Per quanto riguarda la sicurezza dei giornalisti qui a Reggio Calabria c’è massima attenzione». Anche perché Davi non è l’unico cronista finito nel mirino delle cosche. È il primo, però, forse, ad aver dato fastidio ai gruppi di estrazione rom. […]

Il Procuratore di Catanzaro parla di “giornata storica”. Gratteri scopre gli zingari, la ‘ndrangheta è roba vecchia…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Aprile 2023 

Non dimentica la battutina contro la riforma del Parlamento, “oggi abbiamo arrestato 62 presunti innocenti”, il Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, prima di annunciare l’ennesima “giornata storica”, quella del suo blitz. Storico, eccezionale, straordinario, unico, come tutto ciò che viene toccato dalle sue mani. E dalle sue manette.

L’evento di martedi mattina all’alba nel capoluogo calabro ha un po’ il sapore di raschiamento del barile, anche se da Roma si è scomodato per la conferenza stampa il Direttore centrale anticrimine della polizia di Stato, Francesco Messina. In che cosa consiste l’evento eccezionale? Nel fatto di aver scoperto che un gruppo di cittadini di etnia rom, stanziali a Catanzaro, stufi di fare la manovalanza agli uomini della ‘ndrangheta nello spaccio di sostanze stupefacenti, avrebbero deciso di mettersi in proprio. Con la conseguenza di beccarsi, insieme alle imputazioni per reati specifici, anche quella di associazione di stampo mafioso.

Un brutto salto di qualità, in un territorio come quello calabrese in cui sarebbe necessario bonificare il tasso di adesione alle cosche, non di andarne a cercare altre, qualificando ogni atto illecito come sintomo di quel “controllo del territorio” e di quella “forza di intimidazione”, indispensabili per l’applicazione dell’articolo 416 bis del codice penale. Sarà un caso il fatto che il giudice per le indagini preliminari Filippo Aragona abbia atteso un anno prima di emettere le ordinanze di custodia cautelare, 38 in carcere e 24 al domicilio? Il procuratore Gratteri, nella consueta conferenza stampa, se ne lamenta, ma attribuisce il ritardo alla “carenza di organico”.

E si rivolge direttamente ai cittadini, che da tempo avevano lamentato l’assenza dello Stato e delle forze dell’ordine in presenza di furti, spaccio ed estorsioni nel centro di Catanzaro e fino alle propaggini del Lido del capoluogo della Calabria. Eccoci qui, dice all’immaginaria platea, abbiamo liberato la città. Un anticipato 25 aprile? Non spiega in che cosa consista la storicità dell’evento, il “salto di qualità” di cui parla anche il Direttore anticrimine Messina, se un gruppo di cittadini di etnia rom che già commetteva una serie di reati, invece di consegnare tutto il ricavato agli uomini di qualche cosca, abbia deciso di lavorare in proprio e di tenersi tutto il malloppo.

Significa che sono diventati mafiosi? Probabilmente vuol dire semplicemente che si sono fatti più furbi. Tanto che, a quanto risulta dalla conferenza stampa, sarebbero scesi a patti con i loro precedenti “datori di lavoro”. E sarebbero anche stati in grado di corrompere un agente di polizia penitenziaria. Come? Lo si ricava da qualche intercettazione: un divano, un profumo, un mazzo di carte, la grappa e cento euro. Cosche di alto livello, a quanto pare. Così è descritto il quadro della situazione dal gip Filippo Aragona nelle ordinanze di custodia cautelare.

«Dopo il 2017 il clan degli zingari ha assunto una sua autonomia strutturale operativa rispetto alle altre cosche di ‘ndrangheta grazie al fatto che le cosche mafiose storiche operanti a Catanzaro, Cutro e Isola di Capo Rizzuto hanno conferito ai capi del clan degli zingari doti di ‘ndrangheta per consentire loro di interagire all’interno delle dinamiche mafiose. Tale apertura ha determinato le condizioni perché gli zingari progressivamente acquisissero l’expertise necessaria per costituire un gruppo indipendente operante nei settori degli stupefacenti, armi, estorsioni e reati contro il patrimonio, avvalendosi della forza di intimidazione mafiosa».

Ora, senza nulla togliere alla brillante prosa del dottor Aragona, bisognerebbe capire bene che cosa siano le “doti di ‘ndrangheta” e anche l’”expertise”, visto che non stiamo parlando di opere d’arte ma di reati. E anche perché, se non si è avuto il coraggio -il procuratore Gratteri per la prima volta nella lunga storia delle sue conferenze stampa e dopo numerosi fallimenti se ne è ben guardato- di mettere sulla torta del blitz la ciliegina delle complicità politiche, tutta l’ordinanza ne è infarcita.

Non ci sono rappresentanti politici o amministrativi di Catanzaro o della Calabria indagati, ma i nomi ci sono, in violazione di quella legge sulla presunzione di innocenza e del diritto alla riservatezza di quella legge voluta dal Parlamento e dall’ex ministra Cartabia che non piace al procuratore Gratteri. Che bisogno c’era di infarcire un documento messo a disposizione delle parti con le deposizioni di una collaboratrice di giustizia che straparla, senza saper dare particolari precisi, di voti comprati e venduti? Ma intanto il nome dell’ex sindaco di Catanzaro e dell’ex presidente del consiglio regionale sono messi lì, nero su bianco, a disposizione di tutti. Anche loro “zingari”?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La ‘Ndrangheta.

La ‘Ndrangheta.

Gli Affari.

Pasquale Bonavota.

Giuseppe Nirta.

Edgardo Greco.

Antonio Strangio.

La ‘Ndrangheta.

Estratto da ansa.it l'11 luglio 2023.

Mezzo secolo fa con la vicenda di Paul Getty, segnata da drammatici colpi di scena e fragili dinamiche familiari, la mafia calabrese lanciò la nascita del suo impero edile. 

La prima pietra per la holding dei sequestri fu posta il 10 luglio 1973 quando a piazza Farnese, nel centro storico di Roma, fu portato via il sedicenne Paul Getty III. 

L'obiettivo del riscatto fu chiaro da subito: il petroliere miliardario americano Jean Paul Getty era suo nonno e secondo i banditi dell'epoca avrebbe potuto pagare qualsiasi cifra. Il nipote era un ragazzino dai capelli rossi e dall'aria hippy che viveva con la madre, la quale aveva una boutique a piazza di Spagna, e si dilettava a fare disegni per strada oltre a condurre una vita da bohemien. 

Il giorno del rapimento venne sedato e portato in una cantina sotterranea vicino alla stazione di Sicignano degli Alburni, in provincia di Salerno. La prima richiesta fu di 17 milioni di dollari in cambio della sua restituzione, con tanto di annuncio che fosse vivo grazie a una lettera disperata del ragazzo alla madre e una telefonata dove si minacciava di tagliare l'orecchio al giovane. 

Jean Paul Getty inizialmente si rifiutò di trattare con i sequestratori: "ho 14 nipoti, se pagassi anche un solo centesimo li rapirebbero tutti", diceva confermando la sua fama di uomo irremovibile e calcolatore. Anche perché tutti speravano che si trattasse di una truffa escogitata dal rampollo per estorcere soldi. 

Quando tre mesi dopo un pezzo dell'orecchio di Paul e una sua ciocca di capelli furono recapitati alla redazione romana del Messaggero si svelò il volto feroce dei suoi aguzzini.

La salute del ragazzo cominciava a peggiorare mentre al Tempo arrivò una lettera dove il ragazzino supplicava di essere liberato. Nel tempo l'intransigenza del nonno crollò e il petroliere fu costretto a scendere a patti: il riscatto, ridotto a tre milioni di dollari, venne pagato in parte dal nonno e in parte dal papà, che s'impegnerà a restituire al capostipite della famiglia un interesse del 4% annuo sulla somma prestatagli. Fu una somma liberamente pagata, visto che soltanto nel 1991 sarà introdotta la legge sul blocco dei beni ai familiari. 

Il 15 dicembre 1973, giorno in cui Jean Paul Getty compiva 81 anni, il sedicenne fu trovato da un camionista sull'autostrada Salerno-Reggio Calabria. Quell'esperienza, durata cinque mesi, segnò inevitabilmente il ragazzo (...)

Maxiprocesso alla ‘ndrangheta: richieste condanne per uomini dello Stato e imprenditori. Stefano Baudino su L'Indipendente il 13 Giugno 2023

Il più grande processo mai celebrato contro la ‘ndrangheta e i colletti bianchi che l’avrebbero fiancheggiata, iniziato nel gennaio 2021, sta vivendo in queste ore la sua fase più calda. Al termine della requisitoria, il pool di magistrati della Dda di Catanzaro, guidati dal Procuratore Nicola Gratteri, hanno infatti invocato le condanne per la maggior parte dei soggetti imputati: 322 su 338, per un ammontare di quasi 5mila anni di carcere. Ed ora, un grosso pezzo di Calabria trema.

Imputati di fronte al Tribunale di Vibo Valentia, infatti, ci sono sì i boss della famiglia mafiosa Mancuso di Limbadi e delle altre cosche del vibonese, ma anche ex parlamentari, ex consiglieri regionali, sindaci, uomini dei servizi segreti e delle forze dell’ordine, professionisti e imprenditori. Sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, usura, riciclaggio, detenzione illegale di armi ed esplosivo, ricettazione, traffico di influenze illecite, trasferimento fraudolento di valori, rivelazione e utilizzazione di segreto d’ufficio, abuso d’ufficio aggravato, traffico di droga.

«Sono le 18:30 del 7 giugno e siamo arrivati alla sintesi di questo processo sul quale molti avevano scommesso sull’impossibilità di celebrarlo, da tanti punti vista. Dal punto di vista del numero degli imputati, dell’istruttoria dibattimentale, della giovane età del collegio, dei pubblici ministeri. C’era una sorta di ‘tifo’ a che questo processo non si celebrasse». Queste le parole di Gratteri, che ha messo il marchio su un procedimento che, dall’altro capo dello Stretto, ha davvero molte somiglianze con il mastodontico “Maxi” istruito negli anni Ottanta dal pool antimafia di Falcone e Borsellino. «Io posso dire, avendo i capelli bianchi e avendo fatto questo lavoro per decenni, che, complessivamente, il processo si è svolto con serenità – ha aggiunto Gratteri -. Se ci sono stati momenti di tensione, in processi di questo tipo sono normali. È il sale del processo. Qualche volta si è andati fuori dalle linee. Ma non è un problema». Il Procuratore ha poi sciolinato le richieste di pena (nonché di 13 assoluzioni e 3 nullità del decreto che dispone il giudizio o prescrizione).

Tra i soggetti alla sbarra di cui la Dda ha richiesto la condanna, accanto ai pezzi da novanta della ‘ndrangheta, ci sono figure politico-istituzionali di grande rilievo. Il nome più altisonante è quello dell’avvocato ed ex deputato e senatore di Forza Italia Giancarlo Pittelli (che del partito berlusconiano fu anche coordinatore in Calabria). I pm hanno chiesto per lui 17 anni di galera per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa: avrebbe favorito gli uomini della potentissima cosca Mancuso di Limbadi, nonché l’imprenditore Rocco Delfino, per il quale sono stati chiesti 12 anni di reclusione. I due sarebbero stati messi in contatto dal boss Luigi Mancuso, per il quale si sta celebrando un processo parallelo. Pittelli è inquadrato dalla Dda come la “cerniera tra i due mondi”, in una “sorta di circolare rapporto ‘a tre’ tra il politico, il professionista e il faccendiere”. Per i magistrati, Pittelli era infatti “l’affarista massone dei boss della ‘ndrangheta calabrese”, con cui si rapportava attraverso “circuiti bancari”, “società straniere”, “università” e “le istituzioni tutte”. Egli sarebbe dunque diventato il legale dei boss “in quanto capace di mettere mano ai processi con le sue ambigue conoscenze e rapporti di ‘amicizia’ con magistrati”.

I pm puntano poi il dito contro l’ex sindaco di Pizzo Calabro, l’ex renziano Gianluca Callipo, il quale è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Per lui sono stati richiesti 17 anni di carcere, tre in meno di quanti, secondo la Dda, ne merita l’ex consigliere regionale, assessore e presidente del consiglio provinciale di Vibo Valentia Pietro Giamborino, considerato intraneo alla cosca di Piscopio, ai cui membri avrebbe promesso lavori e appalti in cambio di voti. Altri nomi “ingombranti” sono quelli dell’ex finanziere della Dda di Catanzaro, poi dipendente della Presidenza del Consiglio a Reggio Calabria, Michele Marinaro (per il quale sono stati chiesti 17 anni di carcere), accusato di concorso esterno per avere fornito, attraverso Pittelli, notizie su investigazioni in atto nei confronti degli ‘ndranghetisti del vibonese, e del tenente colonnello dell’Arma dei Carabinieri Giorgio Naselli (chiesti 8 anni di carcere), che sarebbe stato spinto da Pittelli ad acquisire notizie coperte da segreto al fine di avvantaggiare Delfino. Avrebbe rivelato agli ‘ndranghetisti informazioni coperte da segreto istruttorio anche Antonio Ventura, che fu appuntato scelto in servizio nel Reparto operativo Nucleo Investigativo dei Carabinieri di Vibo Valentia, per il quale vengono richiesti 17 anni di carcere.

Stabilmente colluso con i mafiosi calabresi sarebbe stato poi l’avvocato Francesco Stilo (per cui l’accusa ha chiesto 15 anni): secondo la Dda è responsabile del reato di concorso esterno per avere intrattenuto stabili rapporti di collusione con le cosche Mancuso, Lo Bianco-Barba, Pardea Ranisi, Fiarè-Razionale-Gasparro e Accorinti, comunicando agli ‘ndranghetisti notizie coperte da segreto istruttorio. La famiglia ‘ndranghetista dei Mancuso sarebbe stata, secondo la Dda, il perno attorno a cui ruotava l’attività di imprenditori ritenuti associati alla ‘ndrangheta, come Gianfranco Ferrante (per cui si chiedono 26 anni di galera), Mario Lo Riggio (22 anni), Mario e Umberto Maurizio Artusa (per i quali vengono chiesti rispettivamente 29 e 26 anni di detenzione), che sarebbero stati fedeli ai Mancuso, e Mario Lo Riggio (22 anni), che per l’accusa era inserito nella cosca Fiarè-Gasparro-Razionale di San Gregorio d’Ippona.

Ora saranno i giudici a stabilire se l’impianto accusatorio della Dda di Catanzaro avrà retto al vaglio del dibattimento. Se così sarà, non si potrà che parlare dell’ennesimo terremoto politico-affaristico-mafioso che ha investito, e fortemente indebolito, il nostro Paese. [di Stefano Baudino]

Estratto dell’articolo di Alessia Marani per “il Messaggero” il 18 maggio 2023.

Le staffette del narcotraffico inondano Roma non solo di coca, ma anche di soldi. Da ripulire o da inviare ai narcos sudamericani per pagare i carichi di stupefacente. Per farlo le ndrine utilizzano money-transfer cinesi con base nella Città Eterna. Autentiche banche illegali capaci di muovere milioni di euro al giorno. 

Lo rivelano le intercettazioni del Ros dei carabinieri che hanno sgominato una organizzazione criminale facente capo ad alcune delle più importanti e potenti famiglie dell'area jonica (Pelle, Strangio, Nirta, Giampaolo, Mammoliti, Giorgi) fino a seguire le tracce dei narcoproventi in anonimi capannoni e appartamenti lungo la Casilina, la Tiburtina e la Prenestina.

Sebastiano Mammoliti, classe 2003, dell'omonima famiglia (alias Fischiante) di San Luca nella Locride, intercettato, a un accolito che gli chiedeva se conoscesse persone in grado di far giungere il denaro in Sudamerica spiega il metodo. «Ma te mica hai change...», gli chiede. E lui risponde: «Per mandare i soldi di là fra cioè Brazil Ecuador ..... loro tengono la percentuale.. si usano i change money... fanno i cinesi questi lavori». 

Alle famiglie di Sa Luca, secondo gli inquirenti della Dda, era riconducibile anche la "Caffè in srl" con sede nel quartiere romano di Gregorio VII nella cui sfera c'erano ristoranti e locali, come la storica trattoria "Pallotta" di Ponte Milvio, ora sotto sequestro preventivo e in amministrazione controllata dello Stato.

[…] È qui che, bussando alle porte di capannoni e appartamenti lungo la Tiburtina, la Casilina e la Prenestina i "pick-up money" cinesi incassavano i soldi del narcotraffico dai "corrieri" inviati con le mazzette di denaro. Se tra l'agosto del 2020 e il maggio del 2021 i carabinieri del Ros documentano il trasferimento di complessivi 22,3 milioni di euro dalla Calabria - tramite Belgio e Olanda - verso Panama, Colombia, Brasile e Ecuador, la maggior parte del trasferimento di denaro, circa 14 milioni, avviene attraverso l'ingaggio di organizzazioni criminali cinesi attive nella Capitale, con basi anche in Dubai, specializzate nell'esecuzione di operazioni di "pick-up money" a livello globale. […]

In appena tre giorni, nell'agosto dello scorso anno, per i money transfer cinesi di Roma passano oltre 6 milioni di euro. Perché i Fischiante sono chiari: «I cinesi per meno di un milione di euro non si muovono».

Estratto dell'articolo di Giuseppe Legato per “La Stampa” il 16 maggio 2023.

San Giovanni Apostolo va incontro alla Madonna dopo la Resurrezione di Gesù. È Domenica di Pasqua. La statua corre sulle braccia dei "portatori", fa la spola tra Cristo e Maria. Una volta, due, tre per comunicare che il Signore ha davvero vinto la morte. Seguono inchini. Il velo nero della Madre viene strappato, il lutto va in archivio, il miracolo è servito. 

Eccolo lo storytelling della processione dell'Affruntata, tradotto dal dialetto, l'incontro: una tradizione lunga e rispettabilissima che migliaia di fedeli seguono con trasporto e devozione. Non tutti. Nel 2014 a Sant'Onofrio, 2.792 abitanti a pochi chilometri da Vibo Valentia, la cerimonia fu commissariata per infiltrazioni mafiose.

È uno dei tanti riti che le cosche di ‘ndrangheta hanno cercato di piegare a una logica perversa. Per ostentare il loro potere. Ma con la colonizzazione del Nord Italia e dell'Europa, anche il tentativo di strumentalizzazione di un momento di fede popolare è stata oggetto di transito fuori dai territori di origine. 

Nei video acquisiti dal Gico della Guardia di Finanza di Torino, la corsa tra le statue portate a spalla è accompagnata da una prima fila di mamme santissime che con la Vergine dei cristiani c'entrano nulla. Ed è a Carmagnola, provincia di Torino: Francesco Arone, giacca e cravatta d'ordinanza per l'occasione, accompagna il santo al rendez-vouz con Madre e Figlio.

Nei mesi scorsi è stato condannato dal Tribunale di Asti a 18 anni e 6 mesi. Il suo prossimo parente, Salvatore, detto Turi, ha incassato 17 anni e 9 mesi: è tra i vertici piemontesi della ‘ndrina Bonavota. L'architrave sono tre fratelli, l'ultimo, Pasquale, super ricercato dopo l'arresto di Messina Denaro, è stato arrestato a Genova nei giorni scorsi. 

[…] 

Pochi mesi fa ha parlato così, in aula, al maxi processo Rinascita Scott il collaboratore di giustizia Andrea Mantella: «So che in un paesino qui a Torino dove facevano l'Affruntata c'era un comitato presieduto da Arone Salvatore che organizzava questa festa. Dalla Calabria salivano Nicola, Pasquale e Domenico Bonavota per portare la statua».

Tre boss. «I Bonavota – ha spiegato il pentito - si dividevano i compiti per essere ovunque e trasmettere ai calabresi del posto chi comandava portando la vara». Non pervenuta dal punto di vista giudiziario, ma abbastanza lineare sul fatto storico in se è la vicinanza con pezzi di ‘ndrangheta da parte di alcuni dei fedeli della Madonna di Polsi nella celebrazione parallela che si è svolta per alcuni anni a Ventimiglia. 

L'ultima, nel 2019, ha sollevato un polverone. Si è parlato di inchino della statua trasportata a braccio dai fedeli in favore del fratello (incensurato) di un noto boss della zona: Carmelo Palamara. In molti si sono affrettati a smentire con una motivazione piuttosto articolata: nessun inchino, la statua non si è girata verso nessuno. Di certo, però, c'è una sosta della Santa di fronte alla panchina dove sedeva – insieme alla moglie – il parente del capomafia. 

[…]

Di consuetudini e simboli che vedono la mafia calabrese sconfinare abusivamente nella religione anche al di fuori dal territorio di origine, sono pieni i documenti giudiziari. Il mosaico di San Michele Arcangelo, incastrato nel cotto fiorentino, nella tavernetta di un boss del Canavese (condannato a 13 anni) è storia recente. In quel luogo si tenevano le riunioni tra i capimafia del Piemonte. Sul tavolo i santini che bruciavano per le nuove affiliazioni, sotto i piedi il santo "rubato" dai boss alla polizia di Stato. La statua a grandezza naturale della Madonna di Polsi è stata sequestrata in casa di un membro di spicco della famiglia Giorgi a Duisburg in Germania nel corso del blitz "Platinum". 

E anche al Nord adesso si cominciano a bloccare i funerali pubblici dei boss in chiesa, occasioni di incontro tra affiliati, sullo sfondo di una cerimonia religiosa, finora "fermate" dai questori soltanto a ridosso dell'Aspromonte. [...]

Estratto dell’articolo di Alessia Candito per “la Repubblica” il 7 marzo 2023

Se il suo nome si potesse rivelare, rimarrebbe in cronache e annali. Ma “Paolo” è un infiltrato, il primo italiano che sia riuscito a “bucare” un clan di ’ndrangheta e il suo nome reale deve rimanere segreto. Si sa e si può dire che è un carabiniere del Ros, che ha esperienza in Italia e all’estero e che quella appena conclusa non è la sua prima operazione coperta. […] per anni ha raccolto informazioni su movimenti finanziari, traffici, latitanze «inclusa quella di Rocco Morabito», ma soprattutto su rapporti e contatti.

Imprenditori insospettabili inclusi.

Un tesoro di informazioni divenute essenziali per la maxi inchiesta “Eureka”, che la scorsa settimana ha portato a più di duecento arresti in tutta Europa. […] 

Chi era Paolo? Per quanto tempo è diventato lui?

«Due anni e mezzo circa. Ero un insospettabile legato a contesti criminali, utile a risolvere problemi grazie a rapporti, contatti e ganci in Italia e all’estero. […]». 

Non ha mai ha avuto paura che la copertura saltasse?

«Tutto è stato pianificato, ma bisogna fare attenzione a qualsiasi cosa. I clan ti mettono alla prova, verificano tutto quello che dici o racconti, le persone che sostieni di conoscere, le circostanze». 

Dopo aver indagato per anni sulla ’ndrangheta, che effetto fa trovarsi dentro?

«È molto più pericolosa e ramificata di quanto si possa immaginare». 

Com’è possibile che paesini della Locride di poche migliaia di anime siamo al centro di traffici mondiali e transazioni milionarie?

«Non devono ingannare. Non tutti sono allo stesso livello, ma ci sono soggetti con capacità manageriali inimmaginabili e contatti in tutto il globo. Stanno a Bovalino e quattro giorni dopo te li ritrovi in Sudamerica, poi di nuovo a Bovalino al bar. E muovono milioni».

Lo ha visto con i suoi occhi?

«Ho visto movimentare una trentina di milioni grazie a un circuito criminale cinese, una sorta di money transfer clandestino. I soldi venivano ritirati e cinque minuti dopo erano disponibili in un Paese latino americano». 

Ha mai avuto la sensazione che ci fosse una regia più grande dietro l’azione dei singoli clan?

«La ’ndrangheta è unitaria, c’è sempre una sorta di mutuo soccorso fra le diverse famiglie». […]

 Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “la Stampa” il 5 maggio 2023.

L'intercettazione è un romanzo breve sul potere della ‘ndrangheta nel mondo. Parlando di traffico di cocaina «i calabresi sono più famosi di Pablo Escobar, hanno più soldi loro di lui». Così, l'imprenditore (colluso) Pasquale Bevilacqua – rientrato in un paesino della costa jonica reggina dopo decenni trascorsi a Canberra in Australia – raccontava alle famiglie Nirta e Strangio, enclave di altissimo rango mafioso originarie di San Luca, il suo profilo di emigrante di ritorno: «Calabria hai capito? Non Sicilia se vuoi fare business». 

Calabria come ponte verso il mondo, col ventre gonfio di soldi sporchi, con una mafia geneticamente portata a espandersi in ossequio a una logica darwinistica. Di evoluzione continua. Per conquistare mercati e territori.

Ed effettivamente la dimensione europea della malavita calabrese trasuda in tutte le migliaia di pagine che raccontano i 200 arresti eseguiti l'altroieri dai carabinieri del Ros, dalle procure di Reggio Calabria (guidata dal procuratore Giovanni Bombardieri), Milano e Genova e dagli investigatori belgi e tedeschi. 

Il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, ha introdotto l'immagine «del network internazionale». Con cellule in Portogallo, Olanda, Francia, Belgio, Spagna, Nordreno Vestfalia, Turingia, Saarland in Germania.

E casa madre in Aspromonte (o alle sue pendici). Eccoli gli estremi di una retta criminale che supera i confini, parla una lingua universale, quella dei soldi, vuole scrollarsi di dosso, quasi come un'ossessione «il rischio – si legge agli atti dell'inchiesta, dove un gregario intercettato introduceva il tema dell'infiltrazione nella politica – di rimanere una mafia agricola». 

Lo diceva anni fa un boss di Gioia Tauro a un giovane rampollo sulla strada dell'apprendistato: «Ricordati che il mondo si divide in due: quello che è Calabria e quello che lo diventerà». Una profezia. E allora eccole le tonnellate di cocaina – 20 solo quelle sequestrate, molte di più quelle transitate nei porti – che viaggiano da Ecuador e Brasile verso Olanda e poi Italia.

Le cosche calabresi, moderne e solvibili, hanno rilanciato quando il mondo sembrava crollare intrappolato nella pandemia da Covid. Le hanno comprate a partire da maggio 2020 dal clan del Golfo, formato da ex paramilitari dell'Auc che nel 2004 non accettarono accordi di pacificazione con l governo colombiano e si presero il mondo del narcotraffico partendo dal distretto di Antioquia. O dai membri dell'Oficina de Envigado, erede dello storico cartello di Medellin. O infine da gruppi (sempre paramilitari) di matrice leninista e marxista. Prezzi imbattibili, guadagni immensi.

[…] Cognomi vecchi (Morabito, Giorgi, Bruzzaniti) che richiamano faide in mondovisione (Duisburg) e omicidi brutali, ma capaci di rigenerarsi di continuo per non perdere il monopolio di un traffico che vale ogni anno, decine di miliardi di euro: una manovra finanziaria. […]

In Europa è stata realizzata la più grande operazione di sempre contro la ‘ndrangheta. Stefano Baudino su L'Indipendente il 5 Maggio 2023

150 perquisizioni in 8 Paesi d’Europa, 23 tonnellate di cocaina sequestrate e 200 arresti per associazione mafiosa, concorso esterno e traffico internazionale di droga con l’aggravante di transnazionalità e di ingente quantità, traffico di armi (anche da guerra), riciclaggio, favoreggiamento, trasferimento fraudolento e procurata inosservanza di pena. È questo il bilancio di “Eureka“, la maxioperazione anti-‘ndrangheta appena realizzata dai carabinieri del Ros su mandato della Dda di Reggio Calabria, parallelamente sfociata in numerosi blitz avvenuti in Francia, Germania, Belgio, Spagna, Portogallo, Romania, Slovenia e Australia. Si tratta, senza ombra di dubbio, della più grande operazione di sempre mai portata a termine contro le famiglie calabresi nel territorio europeo.

L’inchiesta, iniziata nel 2019, è incentrata sull’attività di tre grandi associazioni criminali finalizzate al traffico internazionale di droga, che rispondono alle più potenti famiglie di ‘ndrangheta dell’area ionica (le cosche Pelle, Strangio, Nirta, Giampaolo, Mammoliti e Giorgi). Collegata ad altre due inchieste attivate a Milano e Genova, “Eureka” ha visto il lavoro di due squadre investigative comuni: una intercorsa tra la Dda di Reggio Calabria e le Procure tedesche di Monaco I, Coblenza, Saarbrücken e Düsseldorf; l’altra tra la Dda reggina, l’Ufficio del giudice istruttore del Tribunale di Limburg ed il Procuratore federale di Bruxelles. Eurojust ha coordinato le squadre e fornito il massimo supporto operativo.

Tra il maggio 2020 e il gennaio 2022, le famiglie di ‘ndrangheta hanno movimentato sei tonnellate di cocaina, intrattenendo rapporti con esponenti del clan del Golfo, potentissima organizzazione paramilitare colombiana impegnata nel narcotraffico internazionale. I proventi del traffico di droga sono stati impiegati nel riciclaggio, che ha interessato il settore immobiliare, del turismo e della ristorazione. I flussi di denaro riconducibili alle compravendite della droga – oltre 22 milioni di euro, secondo le stime – hanno interessato anche Panama, Colombia, Brasile, Ecuador, Belgio e Olanda.

Il sequestro preventivo di beni disposto dal gip di Reggio Calabria, su richiesta della Dda – eseguito in Italia, Portogallo, Germania e Francia – riguarda società commerciali e beni mobili e immobili. In Belgio, dove sono state svolte decine di perquisizioni, sono stati arrestati 13 soggetti, per sette dei quali è stato spiccato dall’Italia mandato di arresto europeo. Sono stati al contempo sequestrati 20mila euro in contanti, veicoli di lusso e armi proibite. In Germania, un migliaio di agenti hanno svolto decine di perquisizioni in quattro Laender, eseguendo 30 mandati di arresto. «I blitz di oggi sono una delle più grandi operazioni mai compiute nella lotta contro la criminalità organizzata italiana», ha riferito in un comunicato il Ministro dell’Interno tedesco Nancy Faeser.

L’inchiesta ha anche evidenziato il ruolo del boss Rocco Morabito, già latitante di massima pericolosità arrestato dai carabinieri in Brasile nel 2021, che avrebbe offerto un container di armi da guerra a un’organizzazione paramilitare del Brasile in cambio di enormi quantità di droga verso il porto di Gioia Tauro. Come chiarito dal gip nell’ordinanza, le armi provenivano dai paesi dell’ex Unione Sovietica e sarebbero state fornite da un’organizzazione criminale che operava in Italia e in Pakistan.

A fotografare l’incredibile potenza della ‘ndrangheta nel settore del traffico degli stupefacenti era già stata l’ultima Relazione Annuale della Direzione centrale per i Servizi antidroga del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, pubblicata nel giugno 2022. Nel report si inquadra la mafia calabrese come “il primo player mondiale nel traffico di cocaina” e “l’organizzazione mafiosa italiana caratterizzata dalla maggiore espansività” grazie “alla presenza di propri esponenti e broker operativi, stabilitisi nei luoghi di produzione e nelle aree di stoccaggio temporaneo delle droghe non solo sul territorio nazionale, ma anche a livello europeo”. Nella relazione si spiega, inoltre, come la ‘ndrangheta abbia saputo riorganizzarsi a livello logistico per ovviare alla spinta repressiva delle forze dell’ordine ed avvantaggiare le proprie “succursali” a livello locale: “maggiori sequestri di cocaina, registrati negli scorsi anni nei porti di Genova e Livorno, oltre che in quello di Gioia Tauro (RC) indicano che le organizzazioni criminali, dopo aver ritenuto per anni il porto calabrese la porta preferita per l’ingresso della cocaina dal Sud America, hanno interessato, negli ultimi tempi, anche altri scali portuali del Mediterraneo, nell’ottica di diminuire il rischio di sequestro, e favorire, in alcuni casi, gli interessi delle cosche locali”.

L’ultima relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia ha poi chiarito come le cosche calabresi, nel settore del narcotraffico, “continuano a rappresentare gli interlocutori privilegiati per i cartelli sudamericani in ragione degli elevati livelli di affidabilità criminale e finanziaria, garantiti ormai da tempo”. Gli investigatori hanno attestato la forte attività espansiva della ‘ndrangheta, sottolineando come, negli ultimi tempi, “anche l’Africa occidentale, in particolare la Costa d’Avorio, la Guinea-Bissau e il Ghana, è diventata per le cosche di ‘ndrangheta uno snodo logistico sempre più importante per i traffici di droga”. Infatti, “i flussi intercontinentali di stupefacenti non hanno fatto registrare flessioni significative neanche nel periodo di limitazioni alla mobilità imposte a causa della nota crisi pandemica”.

Tra le organizzazioni di stampo mafioso dello stivale, è ormai acclarato come la ‘ndrangheta sia ormai la regina indiscussa nel fruttuosissimo business della droga. Secondo la Procura Nazionale Antimafia, con il solo traffico di cocaina le cosche calabresi guadagnerebbero infatti ogni anno cifre da capogiro: circa 30 miliardi di euro.

[di Stefano Baudino]

Estratto dell'articolo di Alessia Candito per repubblica.it il 3 maggio 2023.

[…] Formalmente non si esclude ancora nessuna pista, ma  gli investigatori sono sicuri: quello di Antonella Lopardo, 49enne uccisa ieri sera attorno le 22 a Cicchitonno, piccolo centro nei pressi di Casano allo Jonio, è un omicidio di ‘Ndrangheta. Ma la vittima predestinata non era lei. 

I sicari probabilmente cercavano il marito, Salvatore Maritato, pedigree giudiziario pesante e per i magistrati uomo del clan Forastefano. In passato era stato travolto dall’indagine antimafia Omnia, ma da allora aveva tenuto un basso profilo. Almeno che si sappia. Non è chiaro, al momento, in che giri e affari sia coinvolto.

Di certo c’è che modalità, dinamica e arma dell’agguato parlano di clan. Ieri sera, a casa dei coniugi hanno suonato alla porta. La donna si è avvicinata alla finestra per sbirciare chi fosse. Ma appena la sagoma si è stagliata contro la finestra, dall’esterno hanno aperto il fuoco. L’arma, un kalashnikov, è una firma. 

Il marito, Salvatore Maritato si è messo subito al riparo, la donna è crollata a terra con ampie ferite al petto e alla testa. Per lei, non c’è stato nulla da fare.  

Sentito dai carabinieri di Cassano e del reparto operativo di Cosenza, l’uomo non è stato in grado di dare alcun contributo significativo. Agli investigatori ha detto di non avere idea di potesse volergli male, né  di chi possa essere l’autore dell’agguato. Eppure, il comportamento prudente della donna, che si è affacciata alla finestra ancor prima di rispondere al citofono sembra mostrare che i due temessero qualcosa. [...]

Estratto dell'articolo di Antonio Palma per fanpage.it il 3 maggio 2023.

Ancora sangue nel Cosentino dove una donna di 49 anni è stata uccisa sull’uscio di casa in quello che appare come un vero e proprio agguato mortale. La vittima dell’omicidio è Antonella Lopardo, freddata da diversi colpi di arma da fuoco dopo aver aperto la porta di casa sua a Cassano allo Ionio, nell’alto Cosentino. 

L’assassinio nella serata di martedì in contrada Ciccotonno, una zona rurale e isolata. Secondo quanto ricostruito finora, erano circa le 22 di martedì 2 maggio e la donna aveva sentito suonare al campanello. Quindi aveva semplicemente aperto la porta di casa quando è stata raggiunta da diversi colpi di arma da fuoco sparati probabilmente da un’arma lunga, forse un fucile o addirittura un kalashnikov.

Nonostante gli immediati soccorsi, per la donna non c’è stato nulla da fare, è morta sul colpo dopo essere stata colpita da proiettili al torace e in volto. Sul luogo dei fatti, presso l’abitazione della vittima, sono intervenuti i carabinieri della Compagnia di Cassano allo Ionio e quelli del Comando provinciale di Cosenza che hanno avviato immediatamente le indagini per ricostruire la dinamica dei fatti e di chiarire quale possa essere la matrice del delitto. 

[…] Al momento gli investigatori non escludono alcuna ipotesi ma la dinamica dei fatti lascia ipotizzare la matrice ‘ndranghetista. […]

Gli Affari.

«I clan calabresi non hanno più il monopolio della cocaina». Storia di Marco Birolini su Avvenire il 15 novembre 2023.

«La ‘ndrangheta mantiene sempre una posizione centrale nel traffico globale di cocaina, ma ha perso il monopolio».

Angela Me, vicentina, dirige le ricerche dell’Unodc, l’agenzia Onu che studia il crimine organizzato e il traffico di droga. Dal suo osservatorio di Vienna, scrutando i mutamenti del commercio illegale più lucroso del pianeta, ha avvistato nuovi temibili protagonisti affacciarsi sulla scena. E per Avvenire traccia le linee del nuovo atlante del narcotraffico.

Quali sono i rivali dei clan calabresi?

Sembra di capire che vada peggio che in passato.

Sì, perché la maggior offerta ha inondato l’Europa. Ormai il Vecchio Continente sta diventando il primo mercato per la cocaina: ha eguagliato quello americano non solo per i prezzi bassi ma anche per il grado di purezza della sostanza. Poi ci sono i nuovi mercati, l’Africa e altri Paesi in Asia. Anche la domanda, insomma, non manca mai: un circolo vizioso difficile da spezzare.

Prova ne è che sia in Italia che in Europa i sequestri hanno raggiunto livelli record nel 2023. Quali sono oggi le dinamiche e gli attori del traffico?

C’è una specializzazione crescente. Ogni gruppo si occupa di un settore specifico della filiera: c’è chi segue la produzione, chi il trasporto, chi la distribuzione. In Sudamerica sono emersi i brasiliani del Pcc (Primeiro comando da capital, ndr), che hanno tentacoli anche in Spagna. I messicani dominano il mercato statunitense, ma hanno messo i piedi in Olanda per assicurarsi gli ingredienti delle droghe sintetiche. Le reti, diciamo così, del retail, sono invece nelle mani di gruppi nigeriani e marocchini. Gran parte della cocaina arriva nei porti dei Paesi Bassi, Rotterdam e Anversa, ma rimane attiva anche la rotta italiana, con destinazione Livorno e soprattutto Gioia Tauro. Dal Sud Italia ultimamente passa anche il traffico del Captagon, potente amfetamina prodotta in Siria e consumata soprattutto nei Paesi del Golfo (già noto come “droga dell’Isis, è stato usato anche dai miliziani di Hamas nel raid del 7 ottobre. Nel 2020 ne furono sequestrate 14 tonnellate a Salerno: le indagini svelarono legami tra i trafficanti e il regime di Assad, ndr).

Secondo il vostro ultimo “Global cocaine report”, ora ‘ndrangheta e camorra si accordano specialmente con i gruppi criminali albanesi per dar vita a network sempre più efficienti, in grado di importare quantitativi sempre maggiori. E la mafia siciliana che fine ha fatto?

Ormai riveste una posizione decisamente più defilata e marginale. Potremmo dire che forse era stata protagonista di un boom troppo grande nei decenni precedenti. Forse ha pagato la sua struttura piramidale: una volta colpiti i vertici non è più riuscita a rinnovarsi. La ‘ndrangheta, invece, con le sue “locali”, ha dimostrato di possedere una forma più flessibile, in grado di adattarsi rapidamente alle nuove situazioni.

Se la Colombia è la fonte principale di cocaina, l’Afghanistan è storicamente il principale esportatore di eroina. Com’è la situazione dopo il ritorno dei talebani al potere?

Come già accadde dopo la messa al bando del 2000, decisa dal mullah Omar, anche ora stiamo riscontrando una drastica diminuzione delle coltivazioni di oppio. Le immagini satellitari parlano chiaro, il divieto effettivamente sta portando risultati.

Dopo l’attacco americano del 2001, nonostante la presenza militare occidentale, la produzione di eroina riprese però a salire fino a toccare livelli mai visti nel 2017. Adesso cosa accadrà?

Non si capisce ancora bene, occorre aspettare. Anche perché il mercato è in evoluzione. Quello che sappiamo è che tutto attorno all’Afghanistan e in Afghanistan, nel frattempo, si è sviluppata la produzione di metamfetamine.

Nel 2024 diventerà operativa l’Agenzia europea per la droga, e si lavora per una futura autorità doganale comune. L’Unione sta facendo abbastanza contro il narcotraffico?

Serve un grande sforzo complessivo, ispirato da un’idea di vera collaborazione. Si sta facendo molto, l’Europol ad esempio svolge bene il suo lavoro. Certamente, restano ostacoli che minano la fiducia reciproca non solo tra le polizie ma anche tra organi giudiziari dei vari Paesi. C’è sempre timore di qualche fuga di notizie che mandi a monte un’operazione. La corruzione purtroppo c’è ovunque e la stessa percezione del fenomeno spesso frena lo scambio di dati e informazioni. E i criminali, che invece non conoscono frontiere, ne approfittano. In generale, anche a livello globale, vanno contrastate le ambiguità. Così come occorre rafforzare la cooperazione giudiziaria. Insomma, ci sono diversi nodi da sciogliere.

Altro grande problema, il riciclaggio.

Anche qui occorre fare chiarezza e colpire chi ricava davvero tanti soldi dal traffico. Non sono certamente i contadini, e nemmeno i venditori al dettaglio. I grossi profitti sono nelle mani di pochi, di quelli che stanno al centro della filiera: potremmo definirli i grossisti. I loro soldi sporchi poi finiscono in vari settori, dall’edilizia alla ristorazione, inquinando l’economia.

Quella mafia dei miliardi che s’è rubata il tuo futuro. Rita Cavallaro su L'Identità il 5 Novembre 2023

“I calabresi sono più famosi di Pablo Escobar in tutto il mondo per il traffico di cocaina. Queste persone che vivono qui, tu pensi che non hanno soldi, ma hanno più soldi delle banche”. È questa una delle intercettazioni più emblematiche sullo smisurato potere della ‘ndrangheta, diventata la più importante organizzazione criminale italiana a carattere transnazionale, l’unica a intrattenere rapporti diretti con i cartelli colombiani e ad avere tentacoli in 30 paesi del mondo.

Un esercito di 60mila uomini, divisi in 400 ‘ndrine, nelle cosche che prendono il nome dalle diverse famiglie e che non si fanno la guerra per la scalata ai vertici, ma operano in maniera orizzontale per generare un giro d’affari stimato intorno ai 60 miliardi di euro l’anno, pari al 3,6 per cento del Pil italiano. Il doppio del fatturato del colosso bancario Deutsche Bank, per corroborare l’intercettazione dell’imprenditore colluso Pasquale Bevilacqua, agli atti dell’inchiesta Eureka, la più consistente operazione di polizia, con duecento arresti in tutta Europa e il sequestro di 20 tonnellate di cocaina. Bevilacqua fu intercettato mentre parlava con alcuni esponenti delle cosche Nirta-Strangio, le famiglie note per la strage di Duisburg del 15 agosto 2007 e a capo di quella che è considerata una delle roccaforti della ‘ndrangheta: San Luca. È da quel territorio della Locride, ai piedi dell’Aspromonte che, negli anni Settanta, prenderà vita un’attività così fiorente da permettere alle cosche di accumulare il capitale da reinvestire nel business milionario della droga e, oggi, nell’assalto alla grande finanza mondiale. Il salto di qualità dell’organizzazione comincia con la stagione dei sequestri di persona. Oltre 400 i rapimenti messi a segno dai calabresi tra gli anni Settanta e il Novanta. Sempre più lunghi, più brutali, con ostaggi mutilati, incatenati in prigioni ricavate in buchi sottoterra, per mesi o anche anni.

Era la stagione del terrore calabrese, che si manifesto a livello globale il 10 luglio 1973, quando la ‘ndrangheta rapì a Roma John Paul Getty III, nipote del magnate americano del petrolio, considerato all’epoca l’uomo più ricco del pianeta. I beni del nonno erano valutati 1000 miliardi di lire mentre il l patrimonio delle sue compagnie ammontava a 3.000 miliardi. La ‘ndrangheta era convinta che John Paul Getty I avrebbe pagato qualsiasi cifra pur di riportare a casa il sedicenne. La richiesta del riscatto fu di 17 milioni di dollari, ma il petroliere si rifiutò di trattare con i rapitori. “Ho 14 nipoti, se pagassi anche un solo centesimo li rapirebbero tutti”, disse. Così al giovane Paul mozzarono un orecchio e lo inviarono alla redazione del Messaggero, insieme a una ciocca di capelli. Lo tennero in ostaggio nei fortini delle ‘ndrine per cinque mesi, finché il magnate dovette cedere alle pressioni del figlio, che lo convinse a contribuire alla metà del riscatto, fissato infine in 3 milioni di dollari.

Nel 1998 la Commissione d’inchiesta antimafia, analizzando il caso Getty, scrisse che “con i proventi dei sequestri furono comprati camion, autocarri, pale meccaniche e si diede vita alla formazione di ditte mafiose nel campo dell’edilizia le quali parteciparono alle gare per gli appalti pubblici”. La ‘ndrangheta era dunque diventata l’industria dei sequestri da centinaia di miliardi, gestita da poche cosche di San Luca e Platì nel più totale spregio per le forze dell’ordine. Anzi, chi tentava di ostacolare la scalata delle famiglie doveva essere eliminato. In quest’ottica è stata emessa la condanna a morte del brigadiere eroe Carmine Tripodi, il comandante della stazione dei carabinieri di San Luca ucciso in un agguato la sera del 6 febbraio 1985. Un commando sbarrò la strada alla sua auto ed esplose sette colpi di lupara. Il militare riuscì a rispondere al fuoco, colpendo uno dei sicari, ma venne trucidato. E oggi, a 38 anni dal suo delitto rimasto senza colpevoli, quattro persone sono indagate. Il loro dna sarà comparato con i campioni di sangue estrapolate dal Ris di Messina su alcuni reperti, durante un accertamento tecnico irripetibile effettuato la settimana scorsa.

Tripodi fu il primo carabiniere ucciso in un agguato dalla criminalità, un simbolo della lotta dello Stato alla ‘ndrangheta, un servitore della patria che, in quel momento, stava sferrando i primi colpi ai criminali. Fu lui a guidare le indagini e ad arrestare i responsabili del rapimento di Giuliano Ravizza, il re delle pellicce Annabella rapito a Pavia il 24 settembre 1981. Sempre Tripodi gestì il caso Carlo De Feo, l’ingegnere napoletano per la cui liberazione fu pagato un riscatto di 4,4 miliardi di lire. Il brigadiere accompagnò De Feo sui luoghi della prigionia e scoprì gli otto rifugi dove era stato tenuto l’ostaggio, individuò le persone e tracciò l’organigramma delle cosche, portando a una quarantina di arresti tra le famiglie. Andava fermato, per poter perpetrare la stagione dei sequestri, archiviata poi con la legge 81 del 1991, il provvedimento che congelava i beni alla persona sequestrata, al coniuge e ai parenti. Così la ‘ndrangheta trasferì i miliardi in Canada e li dirottò in una banca di New York, per reimpiegarli in quello che, ancora oggi, è il business principale: il traffico internazionale di cocaina, un giro da 30 miliardi l’anno. Altri 20 miliardi arrivano dal riciclaggio di denaro sporco, un vero e proprio assalto alle imprese più redditizie, infiltrate dalle ‘ndrine, agli appalti pubblici e alla finanza mondiale, con l’acquisizione di interi pacchetti azionari sul mercato finanziario internazionale.

Estratto dell’articolo di Tonia Mastrobuoni per repubblica.it il 24 giugno 2023.

La pax criminale tra i clan della ‘ndrangheta sta dando frutti e sta consentendo alle cosche di avventurarsi persino in clamorosi colpi di Stato di Paesi lontanissimi come la Guinea-Bissau. L’inchiesta “Gentlemen 2”, frutto di indagini italiane, tedesche e belghe, ha messo in luce una colorita sponda internazionale che dimostra soprattutto quanto robusti siano i tentacoli della ‘ndrangheta in Germania. 

Il fulcro delle indagini è un episodio del 2020, quando gli emissari delle famiglie rappacificate dei Forastefano e degli Abbruzzese intraprendono un viaggio dalla Calabria a Francoforte per organizzare una fornitura di 50 kg di cocaina dal Sudamerica. Da lì comincia un film durato tre anni, una tela criminale ricostruita dagli inquirenti attraverso miriadi di dialoghi catturati attraverso criptofonini o intercettati nelle automobili e in una pizzeria nel quartiere di Bergen-Enkheim. A inizio giugno di quest'anno, arriva il blitz che coinvolge 800 poliziotti in tre Paesi e consegna alla giustizia 31 affiliati e il sequestro di 3,8 milioni di euro.

Il resto sembra tratti da un romanzo di Don Winslow. Dalle carte del coté tedesco, pubblicate dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung e dal canale MDR, emerge che i soci in affari a Francoforte dei clan sono in particolare tre: “l’albanese”, “il bello” e “il politico”.  

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“Il politico” svela di essere nato in Guinea-Bissau, di vivere in Senegal e di avere agganci in Portogallo. I due poi chiacchierano estesamente di “lavori” da organizzare in Sudamerica e in Africa e si rifugiano nella pizzeria di Bergen-Enkheim per chiudere gli accordi. Quando “il politico” torna qualche settimana dopo a Francoforte, la polizia lo ferma e scopre che “il politico” gira con passaporto diplomatico. Colpo di scena: è il figlio di Malam Bacai Sanha, l’ex presidente della Guinea-Bissau.

“Il politico” è noto da tempo anche alla Dea, l’antidroga americana: nel 2016 ha cercato di mediare tra guerriglieri colombiani e hezbollah su un carico di cocaina. Purtroppo per lui, i guerriglieri si sono tenuti l’anticipo e non hanno fornito neanche un grammo della “bianca” ai fondamentalisti islamici. A un’agente sotto copertura della Dea, “il politico” offre persino un’isola davanti alla costa della Guinea. E’ per consentire agli aerei carichi di droga in arrivo dal Sudamerica di fare tappa e rifornirsi di carburante prima di ripartire per l’Europa. Ma la vicenda più inquietante risale a circa un anno fa. 

Il primo febbraio del 2022 ignoti sparano con un bazooka sul palazzo presidenziale di Bissau, capitale della Guinea. Il presidente Umaro Sissoco Embalò è riunito lì con il governo e per ore gli aggressori assediano il palazzo, ammazzando undici guardie presidenziali. Ad oggi non è chiaro da chi sia partito quell’attacco. Embalò accusa la “mafia della droga”, l’opposizione gli risponde che il trafficante è lui. Uno scambio di accuse che sembra confermare la nomea della Guinea-Bissau, ascesa a importante piazza del traffico di droga internazionale.

Un paio di giorni dopo il misterioso tentativo di putsch, “il politico” si vanta con i suoi di aver orchestrato quell’attacco. Scopo dell'operazione: destituire il presidente e candidarsi per instaurare in Guinea-Bissau un regime “narco-friendly”, insomma, prono ai cartelli. Invece, gli agenti della Dea riescono ad attirarlo in Tanzania, dove grazie a un accordo di estradizione con gli Stati Uniti, “il politico” viene spedito dritto dritto a Houston, dove è attualmente sotto processo. Gli altri protagonisti delle ramificazioni tedesche delle ‘ndrine, “l’albanese” e “il bello”, sono finiti al fresco grazie all’inchiesta italo-tedesco-belga “Gentlemen 2”. E con loro, il padrone della loro base logistica, la pizzeria del centro di Francoforte. Ma gli inquirenti ammettono che il numero degli affiliati della ‘ndrangheta in Germania “sta crescendo”.

MAFIE/ GRATTERI E SPIEZIA AVVERTONO CHE SI RISCHIA DI PIÙ IN LOMBARDIA E IN GERMANIA PER LA DENSITÀ DI 'NDRANGHETA MA INDICANO LA VIA DI USCITA. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 15 Aprile 2023

L’insuccesso oltre che la fine dell’Italia sarebbe un attacco all’Europa. Per scongiurare il doppio disastro serve una pubblica amministrazione con un plotone di mille esperti. La sacrosanta operazione verità di Fitto deve portare a mettere subito in campo i big energetici capaci di spendere bene e una struttura tecnica tra Palazzo Chigi e Mef che ricalchi la falange di uomini del fare della prima Cassa per il Mezzogiorno, quella voluta da De Gasperi e Menichella, che non rubavano una lira e facevano le cose. Oggi la sfida si ripete sostituendo i dollari della Banca mondiale con gli eurobond in un mondo capovolto che ridà centralità al nostro Sud. Chi si ostina a non capire le nuove regole del gioco e a alzare polveroni invece di riunire le forze e organizzarsi, fa male a sé e agli altri. Fermiamoli.

Sono tornato a Lauro, in provincia di Avellino, e ho respirato l’aria pulita dei racconti di mio padre di quelle terre fatti di nocelleti e di tavoli di biliardo. Ho rivissuto come un brivido gelido lungo la schiena il ricordo delle mie incursioni domenicali da lui piene di amarezza nelle fasi finali della sua vita, segnata da una fine prematura. Avevo poco più di vent’anni, lo vedevo divorato dalle delusioni e dalla sofferenza, e non mi piaceva più nulla di quello che stava intorno a lui. Sono salito a piedi per la prima volta al Castello di Lancillotto perché volevo gustarmi il panorama e mi sono ritrovato in una sala piena di storia gremita all’inverosimile con un pubblico attento e una platea di amministratori e sindaci che sono la speranza del Sud che è diventato Nord e non lo sa. Che ancora non ha preso coscienza che storia e geografia combattono a testa bassa perché questo Mezzogiorno prenda la guida del mondo capovolto con il grande hub energetico e industriale del Mediterraneo e garantisca all’Europa l’unica crescita aggiuntiva possibile e alla manifattura italiana e tedesca l’unica indipendenza energetica possibile.

Erano tutti lì perché c’erano Nicola Gratteri, procuratore della Repubblica di Catanzaro, e Filippo Spiezia, membro di Eurojust e già vicepresidente, soprattutto due magistrati liberi padroni delle loro idee e dei loro comportamenti. Volevano tutti sentire che cosa avevano da dire su Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr), emergenza mafie e Europa. Di sicuro non sono stati delusi. Sentite le parole di Gratteri: «Lo Stato europeo in cui c’è più presenza di ‘ndrangheta è la Germania, il Paese più ricco, che però non ha un sistema normativo per contrastare le mafie, non riconosce l’associazione mafiosa. In Europa non c’è un limite al contante, c’è solo una direttiva che non consente transazioni superiori ai dieci milioni di euro. Tradotto, significa che se vado a Francoforte con una valigia con 100 mila euro mi posso comprare un’auto Audi “A8” e nessuno mi dice nulla».

Sta spiegando che in un contesto del genere è certo che esiste il rischio di tentacoli sui fondi per la ripresa che vuol dire che «una parte di essi andrà alle mafie». Gratteri ha un pregio, non incarta le parole, viene al punto: è evidente che il rischio è più alto nelle aree più produttive e «la regione italiana con più alta densità di ’ndrangheta è la Lombardia, perché là è più facile riciclare la ricchezza». Sono parole di verità che pesano come pietre, ma non tolgono la speranza, perché aiutano a ricostruirla. Anche qui il linguaggio è diretto: «Molto dipende dagli uomini, da chi si mette nei posti giusti». Porta l’esempio della nuova sede della Procura di Catanzaro. «L’abbiamo fatta in cinque anni, è la prima opera ecocompatibile in Europa, possiamo realizzare videocollegamenti in qualsiasi parte del mondo e abbiamo una sala per le intercettazioni spaziale».

Sentite la forza evocativa delle parole di Filippo Spiezia che ricorda l’Europa dei Fondatori, Adenauer, Schuman, De Gasperi, che erano tre uomini di confine uno tedesco, uno francese, uno italiano, ma in realtà sta parlando di oggi con la forza del sogno di ieri: «Se si fa fallire il Pnrr sarebbe un attacco all’Europa». Richiama la sua esperienza alla vicepresidenza di Eurojust: abbiamo avuto da gestire un bilancio da 30 milioni, abbiamo speso il 98,8% dei fondi. Il richiamo è esemplificativo e diventa una domanda: noi abbiamo speso praticamente tutto e lo abbiamo fatto sempre per attuare obiettivi al servizio dei cittadini, ma perché «non si sentono mai commenti sulla responsabilità dell’Italia e sulla necessità di recuperare il tempo perso?». Serve una pubblica amministrazione con una sua formazione specifica e nessuno ha pensato di mettere in campo un plotone di mille esperti ad altissimo livello, è la denuncia di Spiezia. Gli dà man forte il procuratore Gratteri: «Da almeno quattro anni ascoltiamo intercettazioni in cui i mafiosi ragionano su come mettere le mani sui fondi del Pnrr, ma a gestire appalti e procedure ci sono funzionari con la terza media, assunti 20 anni fa come uscieri e che non sanno scrivere in italiano ma che hanno assunto potere decisionale, gente ignorante e seduta con una responsabilità pazzesca che incide sui nostri destini». Hanno ragione entrambi e non abbiamo molto da aggiungere se non che questa operazione verità il ministro Fitto la sta facendo, per nostra fortuna, e che la nuova macchina operativa tra Palazzo Chigi e Mef si sta muovendo in questa direzione. Dire come stanno le cose è la premessa ineludibile per fare le cose. Perché il Sud abbia quello che gli è dovuto in termini di parificazione infrastrutturale materiale e immateriale e perché si faccia nei tempi ristretti il grande hub energetico del Mediterraneo, serve che Repower Eu e la dote di miliardi che porta con sé sia messa nelle mani di soggetti attuatori del calibro di Enel, Eni, Terna, Snam e di tutti quelli con competenze esecutive accertate come A2a, Iren e così via allargando il campo a dighe, energie da rifiuti e da ogni genere di fonte vecchia e nuova. Solo così si potrà sfruttare il vantaggio geografico del nostro Sud che è l’asset strategico più importante per preservare e consolidare le due più importanti manifatture europee, che sono quella tedesca e italiana. Solo così si può garantire la loro indipendenza energetica e sviluppare la nuova manifattura del Mediterraneo che è l’unica concreta possibilità che ha l’Europa per fare crescita aggiuntiva. Per realizzare un progetto così ambizioso che coinvolge tanti soggetti attuatori italiani e si propone come avanguardia di una partnership alla pari con il Nord Africa e il Mediterraneo allargato, serve, soprattutto, una nuova Cassa per il Mezzogiorno, la prima del Dopoguerra voluta da De Gasperi e Menichella, quella della falange dei 300 giovani e forti, quasi tutti ingegneri, che non rubavano una lira e facevano dighe, acquedotti, grandi reti stradali e molto altro. Oggi la sfida si ripete sostituendo i dollari della Banca mondiale dell’epoca con gli eurobond della Commissione europea. Il mondo si è capovolto e chi si ostina a non capire le nuove regole del gioco e a alzare polveroni invece di riunire le forze e organizzarsi, fa male a sé e agli altri. Fermiamoli.

La 'ndrangheta gli affari li fa al Nord e allunga i tentacoli su Milano-Cortina. ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 14 Aprile 2023

L’ULTIMO campanello d’allarme viene dalla cronaca recente. Un’interdittiva antimafia è stata adottata dalla Prefettura di Padova nei confronti di un’impresa edile impegnata in un subappalto del nuovo padiglione della Pediatria della città veneta, perché ritenuta contigua con il clan della ‘ndrangheta Grande Aracri di Cutro. Proprio i lavori di costruzione del nuovo padiglione pediatrico dell’Azienda ospedaliera universitaria rientrano tra i progetti che hanno ottenuto i finanziamenti del Pnrr. I subappalti, del resto, sono la zona più sensibile, quella in cui si annidano i rischi di infiltrazione delle mafie, perché più difficili da monitorare e spesso utilizzati per favorire i cartelli illeciti.

LE STRATEGIE DI INFILTRAZIONE

Ma ora quell’allarme è messo nero su bianco nella relazione della Dia, che nel rapporto sul primo semestre 2022 lancia l’allarme per le infiltrazioni mafiose su Pnrr e Milano Cortina. «La criminalità organizzata – è detto nel dossier – preferisce agire con modalità silenziose, affinando e implementando la capacità d’infiltrazione del tessuto economico-produttivo anche avvalendosi delle complicità di imprenditori e professionisti, di esponenti delle istituzioni e della politica formalmente estranei ai sodalizi. Una indubbia capacità attrattiva è sempre rappresentata dai progetti di rilancio dello sviluppo imprenditoriale nella fase post-pandemica e dall’insieme di misure finalizzate a stimolare la ripresa economica nel Paese compulsate anche da finanziamenti europei tramite i noti fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)».

Non a caso viene citato il discorso dell’allora presidente del Consiglio, Mario Draghi, che il 25 maggio 2022, nel suo intervento a conclusione della cerimonia organizzata a Milano nel trentennale dell’istituzione della Dia, riassunse le linee d’azione del governo rispetto agli attuali format della criminalità organizzata, rimarcando che «il contrasto alle mafie, oggi caratterizzate da modelli imprenditoriali che alterano le dinamiche economiche, la libera concorrenza e l’ambiente, deve sempre più ispirarsi ad una migliore tutela della spesa pubblica». «Tale azione – proseguiva – dovrà privilegiare la semplificazione delle procedure del sistema di contrasto alle infiltrazioni, il rafforzamento dei controlli e l’ampliamento di strumenti preventivi che non creino nuovi ostacoli per le imprese, quali ad esempio la prevenzione collaborativa».

Il riferimento è alla norma, nata dall’esigenza di accelerare e adeguare il sistema di prevenzione e per una rapida attuazione “in sicurezza” del Pnrr, che introduceva un nuovo “modello collaborativo” con il mondo imprenditoriale che va a incidere sulla tipologia di misura afflittiva da attuare. Il modello viene cioè commisurato all’effettivo grado di compromissione dell’impresa rispetto al contesto criminale e mafioso, accordando al prefetto la possibilità di ricorrere, allorquando i tentativi di infiltrazione mafiosa siano riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale, a misure amministrative di prevenzione alternative all’emanazione di un’interdittiva.

LA LUNGIMIRANZA DI MARIO DRAGHI

Ma Draghi andava oltre e guardava a una dotazione antimafia che «deve necessariamente comprendere, a tutti i livelli, la cultura della legalità partecipata nelle famiglie, nelle scuole, nel lavoro e nelle istituzioni per uno sviluppo economico che porti sicurezza, lavoro e fiducia». «Per sconfiggere le mafie – disse Draghi un anno fa – lo Stato deve essere più presente laddove le mafie provano a sostituirsi alle istituzioni. Per questo dobbiamo migliorare i servizi, le reti di assistenza sociale e dobbiamo favorire l’occupazione soprattutto tra i più giovani, creare opportunità, rafforzare i legami sociali a partire dai contesti più marginali e più svantaggiati… Un esempio simbolico è la confisca e riconversione dei beni sottratti alla mafia: il Pnrr prevede un programma di interventi di circa 300 milioni di euro a questo fine; restituiamo questi beni alla comunità per ospitare nuova edilizia residenziale pubblica, centri culturali per i giovani, asili nido e centri antiviolenza per donne e bambini. Istituiamo un osservatorio permanente dei beni sequestrati e confiscati per garantire un’informazione affidabile e aggiornata».

LE MANI SULLE OLIMPIADI

Ma non solamente sul Pnrr potrebbero allungarsi i tentacoli. «È il caso, tra l’altro, di ricordare come il nostro Paese si appresti a vivere un momento storico di particolare rilievo – ricordano gli analisti della Dia – sotto il profilo degli investimenti, con la realizzazione dei Giochi olimpici invernali di Milano-Cortina programmati per il prossimo febbraio 2026». Sono previsti la costruzione e l’adattamento di villaggi olimpici in Lombardia, a Milano, a Livigno e a Cortina, nonché numerose opere infrastrutturali, stradali e ferroviarie per le quali il Consiglio dei ministri, il 23 febbraio 2022, in considerazione della complessità delle procedure tecnico-amministrative e della difficoltà esecutiva delle opere, ha nominato un commissario straordinario.

NDRANGHETA SUPERSTAR

Ampio il capitolo dedicato alla ‘ndrangheta che «trova il suo punto di forza, da un lato, nella fedeltà alle origini e nella solida strutturazione su base familiare e, dall’altro, nella massima flessibilità e intuito affaristico-finanziario che la proietta all’esterno della regione di origine ed anche all’estero». Oggi, rispetto alle altre mafie italiane, è la ‘ndrangheta «l’assoluta dominatrice della scena criminale anche al di fuori dei tradizionali territori d’influenza» con mire che interessano quasi tutte le regioni (Lazio, Piemonte e Valle D’Aosta, Liguria, Lombardia, Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo e Sardegna). Proiezioni che si spingono anche oltre confine e che coinvolgono molti Paesi europei (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Germania, Austria, Repubblica Slovacca, Romania, Bulgaria e Malta), il continente australiano e quello americano (Canada, Usa, Colombia, Perù e Argentina).

È significativo come, nel semestre in esame, un’operazione di polizia abbia documentato il radicamento di cosche reggine nel litorale laziale, peraltro già da molti anni oggetto di attenzione da parte dei sodalizi calabresi, disvelando un traffico internazionale di stupefacenti e gravi infiltrazioni nei Comuni di Anzio e Nettuno.

I TENTACOLI NEL NORD ITALIA

I tentacoli sono soprattutto al Nord: la mappa elaborata dalla Dia conferma l’esistenza di 46 “locali” nelle regioni settentrionali, di cui 25 in Lombardia, 16 in Piemonte, 3 in Liguria, 1 in Veneto, 1 in Valle d’Aosta e 1 in Trentino Alto Adige. Infine, nonostante i dati statistici rivelino una generalizzata diminuzione del reato di associazione per delinquere, dell’associazione mafiosa e del riciclaggio, si registra una crescente ripresa dei traffici internazionali di droga da parte delle cosche calabresi che hanno, come baricentro logistico, il porto di Gioia Tauro, dove, nel 2021, è stato sequestrato il 53% della cocaina sequestrata su tutto il territorio nazionale. Interessante, alla luce della vocazione affaristico-imprenditoriale e del monito sui fondi Pnrr, l’excursus sui tentativi di infiltrazione, da parte delle imprese mafiose, nelle procedure di gare pubbliche «già dalla fase di stesura del bando mediante varie forme di connivenza con funzionari pubblici». Del resto, «le tecniche di penetrazione possono concretizzarsi già nella fase di programmazione e progettazione delle opere pubbliche tramite azione corruttiva di funzionari e tecnici incaricati».

Una tendenza che risulta sempre più diffusa in tutte le matrici mafiose in considerazione del vantaggio loro derivante dalla «insidiosa mimetizzazione nel tessuto sociale e dalla conseguente possibilità di continuare a concludere i propri affari illeciti in condizioni di relativa tranquillità senza destare le attenzioni degli inquirenti». E non è un caso che venga richiamato il recente arresto, dopo una latitanza trentennale, del boss trapanese Matteo Messina Denaro che, durante la sua lunga irreperibilità, avrebbe «continuato a curare i propri interessi economici grazie a una fitta rete di complicità e connivenze».

PIÙ INTERDITTIVE IN EMILIA CHE IN CALABRIA

Un dato interessante è quello che riguarda le interdittive antimafia, spia dell’infiltrazione mafiosa nell’economia, che, sebbene in decrescita, si concentrano soprattutto, oltre che nelle regioni di origine delle organizzazioni mafiose, anche nelle aree più produttive del Paese, caratterizzate da maggiore dinamismo imprenditoriale. Deve fare riflettere, d’altra parte, il fatto che ben 73 sono state emesse soltanto in Emilia Romagna, dove sono proiettate cosche di ‘ndrangheta tra le più pericolose, soprattutto di matrice cutrese, a fronte delle 42 comunicazioni antimafia in Calabria e delle 44 scattate nella più popolosa Sicilia.

Estratto dell'articolo di Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 14 aprile 2023.

Sempre «più complesse e sofisticate» le operazioni di riciclaggio che la criminalità organizzata affina con l'unico scopo di migliorare «le proprie capacità di reinvestimento dei proventi illeciti». E sì, la ndrangheta si conferma «l'assoluta dominatrice della scena criminale anche al di fuori dei tradizionali territori d'influenza con mire che interessano quasi tutte le Regioni», Lazio compresa.

È questa la sintesi dell'ultima relazione della Direzione investigativa antimafia che su scala nazionale e di riflesso regionale mette nero su bianco le proiezioni della criminalità organizzata in Italia. […]

  […] nel primo semestre dello scorso anno nel Lazio sono state registrate «oltre 600 segnalazioni di operazioni sospette in più rispetto al medesimo periodo dell'anno precedente» con la Città metropolitana di Roma che presenta «dati in constante aumento».

Su questo i calabresi lo hanno dimostrato com'è possibile infiltrarsi nel sistema legale per ripulire i proventi e per allargare il proprio potenziale, stanziandosi come un cancro nel Lazio […] Lo hanno accertato i carabinieri nel febbraio dello scorso anno quando sul litorale, ad Anzio e Nettuno, […] furono arrestate 65 persone nell'operazione "Tritone".

 Da Santa Cristina d'Aspromonte una locale di ndrangheta si era insinuata nel territorio sotto l'egemonia di quei pezzi da novanta dei Gallace e Madaffari e perseguiva i propri interessi illeciti tramite «la gestione e il controllo di attività economiche in vari settori: dall'ittico alla panificazione, dalla gestione dei rifiuti - prosegua la Dia - al movimento terra». Senza contare le infiltrazioni nelle amministrazioni comunali di Anzio e Nettuno (sciolti poi per mafia) […]

"Antesignano" del metodo - ovvero delle infiltrazioni per riciclaggio - un altro boss di ndrangheta, quel Vincenzo Alvaro che, con ampi trascorsi già alle spalle, nel maggio del 2022 rientrò in un'altra maxi operazione della Dia con il supporto di polizia, carabinieri e guardia di finanza. Oltre ai 7 arresti, l'operazione "Propaggine" che attestò l'esistenza di una "locale" su Roma, portò al sequestro preventivo di 12 società ed imprese individuali «di recentissima costituzione e fittiziamente intestate del valore complessivo di 100 milioni di euro». Si andava dalle pasticcerie, ai forni, ai magazzini e rivenditori di pesce.

A capire quanto giova infiltrarsi e diversificare i metodi anche la camorra: a marzo del 2022 sempre carabinieri e guardia di finanza portano a dama l'operazione "Nuovo cinema criminale": gli arrestati riciclavano «i proventi illeciti del clan D'Amico-Mazzarella mediante le produzioni di un'azienda cinematografica» e per queste attività «gli indagati avrebbero fatto anche affidamento sulla collaborazione di un'azienda vitivinicola che avrebbe "girato" alla società di produzione le ingenti somme ricevute dal sodalizio a titolo di sponsorizzazione di opere cinematografiche».

Poi nella criminalità che conta ecco gli albanesi organizzati su «vincoli familiari, riti di affiliazione e codici consuetudinari tali da creare non poche similitudini con le ndrine calabresi». Ci fanno affari insieme, più per la droga mentre ad imporsi sempre nel riciclaggio pure i cinesi che chiedono attenzione anche per il «trasferimento fraudolento di valori con numerose operazioni frazionate o "sotto soglia" al fine di aggirare le normative antiriciclaggio». […] E resta alta l'attenzione per evitare infiltrazioni sull'uso dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Pasquale Bonavota.

Estratto dell’articolo di Tommaso Fregatti per lastampa.it il 27 maggio 2023.

Due fotografie in cui il boss viene immortalato vestito da prete in compagnia di un sacerdote e una dedica a firma “Don Leonardo”. E ancora: un pizzino per cui viene utilizzato un foglio di preghiera con intestazione “Parrocchia di San Donato” in cui figurano una serie di compiti da fare e persone da incontrare. 

Dall’abitazione a Sampierdarena della moglie di Pasquale Bonavota - il capo della ‘ndrangheta di 49 anni arrestato lo scorso 27 aprile a Genova mentre pregava all’interno della cattedrale di San Lorenzo e considerato uno dei latitanti più pericolosi in Italia dopo la cattura di Matteo Messina Denaro - spunta materiale che gli stessi carabinieri definiscono molto interessante sul piano investigativo. E che potrebbe fare luce su come il numero 1 delle cosche calabresi abbia trascorso i quattro anni a Genova, città in cui ha vissuto come latitante dal 2019.

L’elenco di tutto il materiale sequestrato nell’abitazione del boss, nel suo marsupio e in casa della moglie è stato depositato dai carabinieri del nucleo investigativo di Genova e del Ros nel processo Rinascita Scott in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme in Calabria. E in cui Bonavota è uno dei principali imputati. Ovviamente i militari, diretti dal colonnello Michele Lastella e dal maggiore Francesco Filippo, stanno indagando a trecentosessanta gradi per ricostruire la rete che ha aiutato Bonavota in questi quattro anni di latitanza genovese. E naturalmente nel mirino dell’inchiesta non potevano non finire quelle fotografie che ritraggono il boss vestito da prete e in compagnia di un altro sacerdote. Gli inquirenti stanno cercando di dare un volto ed un nome a questo religioso che ha posato con Bonavota e molto probabilmente gli ha fornito l’abito talare.

L’ipotesi più probabile è che quelle foto siano state scattate a Genova e si sta cercando di localizzare proprio la zona della città. Le indagini partono proprio da quella firma (“Don Leonardo”) che potrebbe permettere di arrivare alla svolta nell’inchiesta. Se sarà identificato il sacerdote dovrà rispondere a molte domande da parte degli inquirenti. E in modo particolare spiegare perché ha posato con un latitante di ‘ndrangheta che ha pure indossato davanti a lui gli abiti da prelato. Potrebbe essere stato un convento o una parrocchia di Genova il rifugio segreto di Bonavota? Oppure si è trattato di uno scatto goliardico o della prova di un travestimento per sviare le indagini? Sono queste le domande a cui i carabinieri stanno cercando di rispondere in queste settimane di indagine.

Ma nella documentazione trovata dal boss c’è un altro documento che per gli inquirenti riveste una certa importanza. Si tratta di un foglio di preghiera preso dalla parrocchia di San Donato nel centro storico e trasformato in una sorta di “pizzino” dove Bonavota aveva annotato nominativi e cose da fare. Per gli inquirenti è l’ennesima prova di come il boss delle cosche calabresi frequentasse assiduamente le chiese di Genova e fosse una persona molto devota. 

(...)

Estratto da lastampa.it il 27 aprile 2023. 

Dopo l'arresto di Matteo Messina Denaro era la primula rossa delle mafie in Italia. Pasquale Bonavota cinquantenne rampante originario della provincia di Vibo Valencia e noto come il boss bambino, perché già a 16 anni [...] girava con una pistola in tasca e annunciava vendette contro i rivali. 

Accusato di diversi omicidi il cui esito processuale non è ancora definito Bonavota era ricercato dalla direzione distrettuale antimafia di Catanzaro guidata dal procuratore capo Nicola Gratteri nell’ambito dell’inchiesta Rinascita Scott che pochi anni fa ha portato in carcere più di 400 tra affiliati boss e gregari delle cosche vibonesi in Calabria. A Genova dove è stato fermato stamattina 27 Aprile dai carabinieri del posto, [...]

La sua carriera criminale era iniziata in Calabria e proseguita in Piemonte tra Moncalieri e Carmagnola dove Bonavota era stato assunto fittiziamente negli anni a cavallo tra il 2015 e il 2016 in una ditta edile in provincia di Torino di nome Build Up intestata a sua volta a un prestanome delle cosche[...]

Arrestato Bonavota boss della ‘Ndrangheta: era tra i quattro latitanti più pericolosi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Aprile 2023. 

Bonavota era l’unico rimasto in stato di latitanza a seguito dell’esecuzione dell’operazione Rinascita-Scott che, il 19 dicembre 2019, ha portato all’arresto di 334 soggetti ritenuti appartenenti alle strutture di ’ndrangheta della provincia vibonese

Nella mattina di oggi a Genova, a conclusione di articolate indagini condotte dal Ros e dai comandi provinciali Carabinieri di Vibo Valentia e Genova, è stato sferrato un nuovo duro colpo alla criminalità organizzata in Italia, con l’ arresto di Pasquale Bonavota, 49 anni, latitante ricercato inserito nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità facenti parte del “programma speciale di ricerca” del ministero dell’Interno. 

Nell’ ordinanza di custodia cautelare si legge che ” BONAVOTA Domenico, BONAVOTA Nicola, BONAVOTA Pasquale, CUGLIARI Domenico cl.59 alias “Micu I mela”, in qualità di promotori, organizzatori, capi e finanziatori del sodalizio mafioso con compiti di decisione, di pianificazione delle strategie e degli obiettivi da perseguirsi, e delle azioni delittuose da compiere, della gestione dei rapporti e degli equilibri con i gruppi rivali, della protezione dei membri, impartendo le disposizioni o comminando sanzioni agli altri associati a loro subordinati. BONAVOTA Pasquale con il ruolo di capo “Società”, prendeva insieme agli altri esponenti apicali dell’organizzazione le decisioni più importanti, curava gli interessi del sodalizio nella zona di Roma e nei settori del gioco d’azzardo e del traffico di droga. BONAVOTA Nicola con il compito altresì di mantenere i rapporti con le ‘ndrine distaccate presenti in Liguria e Piemonte e di occuparsi delle sale da gioco e dei bar d’interesse del gruppo e situati tra S. Onofrio e Pizzo, provvedendo anche alla loro gestione per mezzo di prestanome. BONAVOTA Domenico, avendo ereditato dal fratello Pasquale il ruolo di vertice operativo del sodalizio sul territorio di S. Onofrio e zone limitrofe, decideva, pianificava ed eseguiva, anche impartendo disposizioni agli altri affiliati, le attività criminali della cosca, quali omicidi, estorsioni, rapine, danneggiamenti, convocava e partecipava a riunioni a ciò finalizzate. CUGLIARI Domenico cl. 59 quale esponente apicale del sodalizio, assumeva insieme ai fratelli BONAVOTA le decisioni più importanti, decideva ed eseguiva attività estorsive, curava gli interessi dell’organizzazione in Piemonte, si occupava degli interessi del gruppo nel settore della panificazione e commercializzazione del pane, anche mediante imprese intestate a prestanome“ 

Il boss della ‘ndrangheta era ricercato a seguito di una ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei suoi confronti dal tribunale di Catanzaro , nell’ambito dell’indagine Rinascita-Scott condotta dal Ros dei Carabinieri, poiché ritenuto responsabile dei delitti di partecipazione ad associazione mafiosa con il ruolo di promotore della cosca Bonavota rientrante nella locale di ‘ndrangheta di Sant’Onofrio (Vibo Valentia). Bonavota era l’unico rimasto in stato di latitanza a seguito dell’esecuzione dell’operazione Rinascita-Scott che, il 19 dicembre 2019, ha portato all’arresto di 334 soggetti ritenuti appartenenti alle strutture di ’ndrangheta della provincia vibonese. Le indagini sono state dirette dalla procura della repubblica – direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri. 

Nel giro di pochi mesi sono stati arrestati due su cinque dei latitanti più pericolosi d’Italia nella lista stilata dalla Direzione centrale della Polizia Criminale. Oltre a Bonavota a inizio gennaio era finito in manette il boss di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. Restano solo tre uomini nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità, il sardo Attilio Cubeddu (ricercato dal 1997), il mafioso palermitano Giovanni Motisi (ricercato dal 1998) e il camorrista napoletano Renato Cinquegranella (ricercato dal 2002). Redazione CdG 1947

Ndrangheta, arrestato a Genova Pasquale Bonavota: era tra i latitanti più pericolosi. «Catturato in chiesa mentre recitava il rosario». Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023.

Considerato il mandante di vari omicidi, guidava un impero che arriva fino all’estero (sfruttando anche le criptovalute). Ai carabinieri ha detto: «Sto solo pregando». Le intercettazioni: «Il mondo si divide in due: ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà». Il caso della moglie insegnante

Catturato a Genova il ricercato Pasquale Bonavota, 49 anni, inserito nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità facenti parte del «programma speciale di ricerca» del Ministero dell’Interno. L’arresto è scattato al termine di articolate indagini condotte dal Ros e dai Comandi provinciali Carabinieri di Vibo Valentia e Genova. L’indagato era ricercato in quanto destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa, nell’ambito dell’indagine «Rinascita - Scott»del Ros, dal Tribunale di Catanzaro, in quanto accusato di associazione mafiosa con il ruolo di promotore della cosca Bonavota rientrante nella locale di `Ndrangheta di Sant’Onofrio, in provincia di Vibo Valentia. Bonavota è stato fermato dopo essere entrato nella cattedrale di San Lorenzo. I carabinieri del reparto operativo, coordinati dal colonnello Michele Lastella, del capoluogo ligure, lo hanno seguito per un tratto e poi, una volta dentro la chiesa, lo hanno arrestato. «Forse non sono il Pasquale che cercate, ero qui solo per recitare il rosario». Sono queste le parole che il boss stamattina ha rivolto ai carabinieri, che lo avevano appena intercettato nella cattedrale di San Lorenzo. Bonavota viveva in un appartamento di San Teodoro, aveva un documento con la sua foto e però intestato a un’altra persona. A Genova, da tempo, risulta residente nel quartiere di Sampierdarena anche la moglie, che lavora regolarmente come insegnante.

L’ultimo latitante dell’operazione Rinascita-Scott

Bonavota era l’unico indagato rimasto in stato di latitanza a seguito dell’esecuzione dell’operazione Rinascita - Scott che, il 19 dicembre 2019, ha portato all’arresto di 334 persone ritenute appartenenti alle strutture di `Ndrangheta della provincia vibonese. Le indagini sono state dirette dalla Procura - Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, guidata da Nicola Gratteri.

Il traffico di droga a Roma, in Liguria e Piermonte

Nel programma di cattura figuravano Giovanni Motisi, 64 anni, Renato Cinquegranella (73), Pasquale Bonavota (49) e Attilio Cubeddu (75). Bonavota era sparito all’indomani della condanna all’ergastolo del gup di Catanzaro al termine del processo con rito abbreviato dopo l’operazione «Conquista». Era il 28 novembre 2018. Boss della ’ndrina calabrese di Sant’Onofrio (Vibo Valentia), il più giovane dei ricercati, conosciuto come «Pasqualino», figlio del super boss Vincenzo, è sfuggito anche al maxi blitz «Rinascita-Scott» del 2019. L’Antimafia ha individuato fra i suoi interessi anche Roma, in particolare per lo spaccio di droga, oltre che Piemonte e Liguria. Da chi indaga è sospettato di essere il mandante degli omicidi di Domenico Belsito, Raffaele Cracolici e Alfredo Cracolici.

«Chi ha la droga fa quello che vuole»

Nell’ottobre 2022 la Direzione distrettuale antimafia di Roma il rapporto sull’«Evoluzione delle cosche nella Capitale» segnalava: «Il boss Pasquale Bonavota, al vertice del clan operativo sin dai primi anni 2000 nella Capitale, negli anni è stato in grado di imprimere importanti cambiamenti nella sua cosca, estendendone gli affari a Roma dove il suo tesoro è stato sequestrato». Il rapporto ha tracciato la presenza della criminalità calabrese nella Capitale grazie anche all’inchiesta denominata «Propaggine» dell’estate 2022, che ha evidenziato i rapporti con i Casamonica. La relazione riportando le parole di un collaboratore di giustizia: «Chi ha la droga a Roma, fa quello che vuole e i calabresi hanno sempre la droga. Alcune volte ci sono dei conflitti, i romani hanno le piazze qua a Roma e i calabresi li riforniscono».

«Ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà»

Un’altra intercettazione citata nel rapporto e proveniente dell’operazione «Enclave» del febbraio 2021, che evidenzia i contatti tra clan calabresi e narcotrafficanti colombiani riferiva di pestaggi e intimidazioni varie nei confronti di un trafficante che consegnava in ritardo la merce già pagata; e di una azienda utilizzata per riciclare i capitali illeciti:« Tu ricordati: il mondo si divide in due, ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà», profetizzava al figlio fa un boss intercettato in auto. Anche

La ‘ndrangheta evoluta delle criptovalute

Le connessioni di Bonavota si estendono sino all’Ungheria. Con complici come l’uomo d’affari Giovanni Barone che la Procura di Catanzaro ha arrestato, poche settimane fa, con l’accusa di aver messo insieme un impero milionario in combutta con la cosca capeggiata dal superlatitante Pasquale Bonavota, considerato esponente della «’Ndrangheta evoluta», come l’ha definita il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri; quella che si «posiziona a un livello superiore rispetto all’articolo 416 bis» e che, partendo da un paesino della Calabria, «riesce ad avere un respiro internazionale». In Ungheria, dicono le carte dell’inchiesta che ha portato in manette 25 indagati, la cosca aveva preso il controllo di un istituto di credito per investire in criptovalute e riciclare i soldi sporchi della droga provenienti dall’Aspromonte. Un sistema che neutralizza qualsiasi tipo di indagine patrimoniale. La banca della ‘ndrangheta aveva inoltre programmato l’acquisto di una «quantità indefinita» di bolivar venezuelani che solo per un problema tecnico non è andato a buon fine.

Catturato a Genova dal Ros. Arrestato il boss di ‘ndrangheta Pasquale Bonavota: era tra i quattro superlatitanti di massima pericolosità. Redazione su Il Riformista il 27 Aprile 2023 

Era l’ultimo boss di ‘ndrangheta latitante. Pasquale Bonavota, ricercato inserito nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità che rientra nel programma speciale di ricerca del Ministero dell’Interno, è stato arrestato a Genova al termine delle indagini condotte dal Ros e dai comandi provinciali carabinieri di Vibo Valentia e Genova.

Bonavota, boss di Sant’Onofrio nato il 10 gennaio 1974 a Vibo Valentia, era ricercato dal 28 novembre 2018 per associazione di tipo mafioso e omicidio aggravato in concorso. Era destinatario di una ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa, nell’ambito dell’indagine ‘Rinascita Scott‘ del Ros, dal tribunale di Catanzaro, poiché ritenuto responsabile dei delitti di partecipazione ad associazione mafiosa con il ruolo di promotore della cosca Bonavota rientrante nella locale di ‘ndrangheta di Sant’Onofrio.

Bonavota in particolare era l’unico soggetto rimasto in stato di latitanza a seguito dell’esecuzione dell’operazione Rinascita Scott che, il 19 dicembre 2019, ha portato all’arresto di 334 soggetti ritenuti appartenenti alle strutture di ‘ndrangheta della provincia vibonese.

È noto anche come il “boss bambino“, perché già a 16 anni girava con una pistola in tasca e annunciava vendette contro i rivali di una faida familiare.

Bonavota è stato fermato dopo essere entrato nella chiesa di San Lorenzo, la cattedrale di Genova. I carabinieri del reparto operativo, coordinati dal colonnello Michele Lastella, del capoluogo ligure, lo hanno seguito per un tratto e poi, una volta dentro la chiesa, lo hanno arrestato. Con sé il boss di ‘ndrangheta aveva un documento falso.

I superlatitanti

L’elenco dei superlatitanti, dopo l’arresto di Bonavota e la cattura lo scorso 16 gennaio di Matteo Messina Denaro, comprende ora Attilio Cubeddu, Giovanni Molisi e Renato Cinquegranella.

Attilio Cubeddu, nato il 2 marzo 1947 ad Arzana, in provincia di Nuoro, è ricercato dal 1997 per non aver fatto rientro, al termine di un permesso, nella Casa Circondariale di Badu è Carros. Lì era ristretto per sequestro di persona, omicidio e lesioni gravissime. Dall’anno seguente sono state diramate le ricerche in campo internazionale, per arresto ai fini estradizionali. Cubeddu ha fatto parte dell’Anonima sequestri: arrestato nell’aprile del 1984 a Riccione, fu condannato a 30 anni di carcere per i sequestri Rangoni Machiavelli e Bauer in Emilia-Romagna, messi a segno entrambi nel 1983, e al sequestro Peruzzi, messo a segno in Toscana nel 1981.

Giovanni Motisi, nato il primo gennaio 1959 a Palermo, è ricercato dal 1998 per omicidi, dal 2001 per associazione di tipo mafioso ed altro, dal 2002 per strage ed altro. Noto anche con lo pseudonimo di ‘U Pacchiuni (il grasso), deve scontare la pena dell’ergastolo per l’omicidio del commissario Giuseppe Montana, ucciso il 28 luglio 1985. Il 10 dicembre 1999 sono state diramate le ricerche in campo internazionale, per arresto ai fini estradizionali.

Renato Cinquegranella, nato il 15 maggio 1949 a Napoli, è ricercato dal 2002 per associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione ed altro. Dal 2018 sono state diramate le ricerche in campo internazionale, per arresto ai fini estradizionali.  Negli anni ’80 era legato alla alla Nuova Famiglia e secondo gli inquirenti, sarebbe coinvolto nell’omicidio di Giacomo Frattini, detto “Bambulella”, giovane affiliato della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Frattini fu torturato, ucciso e fatto a pezzi, il 21 gennaio 1982, per vendicare l’omicidio in carcere di un fedelissimo dell’allora boss di Secondigliano, Aniello La Monica.

Giuseppe Nirta.

Estratto dell’articolo di Carlo Macrì per corriere.it il 25 febbraio 2023.

Il nome di Giuseppe Nirta, 83 anni, ergastolano, al 41 bis, morto in ospedale, a Parma, era legato alla strage di Duisburg, in Germania, dove, a Ferragosto del 2007, furono assassinate sei persone. Tutte legate al clan Pelle (Gambazza)-Vottari (Frunzu), da anni in guerra proprio contro i Nirta (Versu)-Strangio (Janchi). Una faida infinita iniziata nel febbraio del 1991. Giuseppe Nirta era il padre di Giovanni Luca Nirta, marito di Maria Strangio, assassinata a San Luca, davanti casa, per errore, la sera di Natale del 2006.

 Un omicidio quello che, dopo anni di tranquillità, fece ripiombare San Luca in un clima di terrore. Non c’era giorno che non si contavano i morti per strada. E la risposta a quell’omicidio fu proprio la strage di Duisburg, davanti al ristorante italiano «Da Bruno». Il commando fu guidato da Giovanni Strangio, fratello di Maria.

Tutto ebbe inizio a Carnevale del 1991. Cominciò per uno stupido scherzo, uno sgarbo commesso contro un giovane con handicap del luogo. L’offesa si cancellò con il piombo. Alla mezzanotte un commando di 4 persone fece fuoco contro una «Uno». Due degli occupanti furono uccisi. Si chiamavano Francesco Strangio e Domenico Nirta. Nello stesso agguato rimasero feriti Giovanni Luca Nirta e il fratello Sebastiano.

Era l’inizio dello scontro che nei successivi due anni fece aumentare a sei il numero dei morti ammazzati. A maggio del 1993, infatti, la quiete del piccolo centro aspromontano fu nuovamente compromessa da quattro omicidi che ruppero l’equilibrio di una fragile tregua tra le famiglie Vottari-Pelle e Strangio-Nirta, cosche storiche a San Luca. […]

Edgardo Greco.

Edgardo Greco, arrestato in Francia il latitante della ’Ndrangheta e pizzaiolo. Era ricercato da 17 anni. Carlo Macrì su Il Corriere della Sera il 2 febbraio 2023

Deve scontare l’ergastolo per duplice omicidio commesso nel ‘91. Si nascondeva a Sant’Etienne, arrestato dai carabinieri assieme alla polizia transalpina.

Si nascondeva sotto false generalità a Sant’Etienne, in Francia e lavorava come impastatore in un ristorante pizzeria. È qui che i carabinieri del reparto operativo di Cosenza l’hanno scovato e arrestato. Dopo 16 anni di latitanza è finita la fuga di Edgardo Greco ricercato perché condannato all’ergastolo per il duplice omicidio dei fratelli Stefano e Giuseppe Bartolomeo, avvenuto il 5 gennaio del 1991 a Cosenza.

L’ex latitante dovrà rispondere anche del tentato omicidio di Emiliano Mosciaro, avvenuto, sempre a Cosenza, il 21 luglio del 1991, nell’ambito della faida di ‘ndrangheta tra i clan Pino-Sena e Perna-Pranno. Greco, affiliato alle ‘ndrine Perna-Pranno, ha ucciso i fratelli Bartolomeo a colpi di spranga all’interno di una pescheria, all’epoca gestita dai fratelli Mario e Pasquale Pranno e sciolto nell’acido i cadaveri. L’agguato era stato deciso dalla cosca per fermare sul nascere il tentativo delle vittime di «allargarsi» negli affari e ottenere una maggiore autonomia criminale sul territorio cosentino, all’epoca monopolio dei Perna.

Edgardo Greco si era sottratto alla cattura nel 2006, dopo il provvedimento di arresto emesso dal gip distrettuale di Catanzaro, nell’ambito del maxi processo «Missing» che aveva ricostruito alcuni dei fatti di sangue che avevano caratterizzato, nei primi anni ’90, lo scontro tra i clan Pino-Sena contro i Perna-Pranno. Il delitto dei fratelli Bartolomeo, segnò la svolta per l’inizio del pentimento di alcuni collaboratori di giustizia storici come i fratelli Notargiacomo e Pagano, appartenenti al gruppo Perna-Pranno, anche loro con idee scissioniste e per questo, per paura di essere uccisi, iniziarono il percorso collaborativo con la giustizia.

La cattura del latitante ha avuto un’accelerazione investigativa nel dicembre del 2019 e si è sviluppata attraverso indagini che hanno permesso di ricostruire la rete dei fiancheggiatori di Greco che hanno portato alla sua cattura. Per anni, infatti, Greco era riuscito ad evitare l’arresto grazie a una serie di documenti falsi che ne attestavano una serie di patologie, non compatibili con il carcere.

Arrestato in Francia il latitante della ’Ndrangheta Edgardo Greco ricercato da 17 anni. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 febbraio 2023

Arrestato dai carabinieri assieme alla polizia francese. Si nascondeva a Sant’Etienne, deve scontare l’ergastolo per duplice omicidio commesso nel ‘91.

E’stata data esecuzione in data odierna a Sant’Etienne (Francia) al mandato di arresto europeo emesso nei confronti di Edgardo Greco, in  stato di latitanza fin dall’ottobre del 2006,emesso dalla Procura Generale presso la Corte d’Appello di Catanzaro in data 16 maggio 2014, in relazione all’ordine di carcerazione del 4 aprile 2014, per la esecuzione della pena dell’ergastolo a carico del Greco, in ordine al duplice omicidio di Stefano e Giuseppe Bartolomeo avvenuto il 5 gennaio 1991 a Cosenza e per il tentato omicidio di Emiliano Mosciaro avvenuto in Cosenza il 21 luglio 1991, maturato nell’ambito della guerra di mafia, fra la cosca “PINO – SENA” e quella “PERNA – PRANNO”, che ha insanguinato il territorio cosentino nei primi anni 90.

L’attività investigativa, coordinata della Procura della Repubblica di Catanzaro – Direzione Distrettuale Antimafia, e svolta dai Carabinieri del Reparto Operativo-Nucleo Investigativo di Cosenza, è stata avviata nel dicembre 2019, è si è sviluppata attraverso mirati accertamenti finalizzati ad ricostruire la rete di appoggio su cui potesse contare il Greco, risalendo, quindi, alla presenza del latitante in Francia a Sant’Etienne.

Edgardo Greco risultava latitante ed irreperibile da oltre 16 anni, sin dal 10 ottobre  2006 quando si è sottratto all’esecuzione della misura cautelare in carcere, emessa dal Gip distrettuale di Catanzaro, nell’ambito del maxi processo c.d. “Missing”, che ricostruiva alcuni dei fatti di sangue che hanno caratterizzato, nei primi anni 90, il cruento scontro tra il clan “PINO – SENA” e il clan “PERNA – PRANNO”.

Greco è stato individuato a Sant’Etienne, all’esito dell’attività di indagine svolta dai Carabinieri del Reparto Operativo-Nucleo Investigativo di Cosenza sotto il coordinamento della Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, per specifici procedimenti riguardanti la procurata inosservanza della pena. La cattura del latitante ha avuto un’accelerazione investigativa nel dicembre del 2019 e si è sviluppata attraverso indagini che hanno permesso di ricostruire la rete dei fiancheggiatori di Greco che hanno portato alla sua cattura. Per anni Edgardo Greco era riuscito ad evitare l’arresto grazie a una serie di documenti falsi che ne attestavano una serie di patologie, non compatibili con il carcere. Nella fase finale hanno operato congiuntamente a personale delle unità catturandi (FAST) italiana e francese e dell’Unità I-CAN dello SCIP del Ministero dell’Interno.

Greco è affiliato alla ‘ndrina ndranghettista “PERNA-PRANNO” egemone a Cosenza e provincia come emerso nell’esito del processo connesso all’inchiesta “Garden”, conclusosi alla fine degli anni 90 –  all’esito dei diversi gradi di giudizio del maxi processo “Missing”, è stato ritenuto corresponsabile dell’imboscata costata la vita, il 5 gennaio 1991, ai fratelli Stefano e Giuseppe Bartolomeo, i quali, in quanto ambivano ad una maggiore “autonomia” e considerazione nell’ambito delle cosche cosentine, sono stati trucidati  a colpi di spranga, all’interno di una pescheria all’epoca nella disponibilità dei fratelli Mario e Pasquale Pranno, e i loro cadaveri venivano fatti sparire e mai più ritrovati. Redazione CdG 1947

Cosenza, i segreti di Edgardo Greco: si pentì per non uccidere un amico. Nel 1997 l'ex latitante collaborò con la giustizia e fu «prezioso» per i giudici di "Garden", i retroscena di quella breve e intensa stagione. Marco Cribari l’8 Febbraio 2023 su cosenzachannel.it.

Mafioso e poi latitante per sedici lunghi anni. Di Edgardo Greco si sa tutto dell’inizio e poco o nulla della fine, ma nell’epopea criminale del Killer delle carceri occupa un posto di rilievo anche la sua breve e intensa stagione da collaboratore di giustizia. Diviene tale a gennaio del 1997, con dichiarazioni spontanee rilasciate durante un’udienza del processo “Garden”. La sua è una decisione matura in presa diretta, non per contrizione o opportunità. Semmai, per fedeltà a un’amicizia.

La trippa avvelenata

L’ultimo ordine impartitogli nelle gabbie, infatti, mentre è in corso il maxiprocesso, lo mette davanti a una scelta lacerante: gli chiedono di uccidere Pasquale Pranno, che insieme al fratello Mario rappresenta per lui una stella polare. Il rapporto con i due è di vecchia data, comincia nel 1979 a Colle Triglio, carcere nel quale Greco è detenuto per una rapina. Lì conosce Mario Pranno, che anni dopo definirà «un ragazzo che cercava di avere un dialogo con i nuovi entrati senza essere manesco né arrogante. E io mi ci affezionai». Al futuro boss di San Vito riuscirà anche a salvare la vita, il giorno in cui i nemici cercano di farlo fuori. Gli inviano in cella un piatto di trippa avvelenata, ma il caso vuole che il vivandiere all’interno del carcere, incaricato di consegnare il pasto ai detenuti, sia proprio Greco. Avverte l’amico del tranello in atto e gli salva la vita.

L’agente triplo

Edgardo è scaltro. Veloce con la pistola ma anche di pensiero. Nel gruppo Perna-Pranno-Vitelli allora fresco di costituzione, in tanti si fidano di lui. Anche il capo società Franco Perna, circostanza che suggerisce a Pranno di utilizzarlo come radar all’interno dell’organizzazione. Dovrà captare gli umori, assumere informazioni per poi andare a riferirgliele. Una sorta di agente doppio, anzi triplo. Alla fine degli anni Ottanta, infatti, Greco riesce a mantenere rapporti anche con gli scissionisti dei Bartolomeo-Notargiacomo, gli arcinemici di Pranno, e dei successivi eventi, noti sotto il nome di Seconda guerra di mafia a Cosenza, sarà dunque testimone privilegiato.

Un bravo pentito

I giudici del processo “Garden” lo ritengono molto attendibile. Ratificano in sentenza il contributo da lui offerto in termini di collaborazione. Lo definiscono «prezioso». In aula, Greco offre un quadro nitido degli assetti organizzativi dei gruppi criminali, racconta spaccati inediti della vita associativa, dà indicazioni anche su diversi omicidi di cui è conoscenza. Fa tutto questo con «toni pacati e misurati» che lo rendono ancora più credibile agli occhi e alle orecchie dei magistrati giudicanti. Ammette pure di aver partecipato alla mattanza dei fratelli Bartolomeo, episodio non inserito fra i capi d’imputazione di quel processo, e al pm Stefano Tocci motiva anche la sua scelta di vuotare il sacco. È rimasto stritolato anche lui nel meccanismo di autodistruzione che si è innescato nel clan a seguito di arresti e pentimenti. Gli hanno chiesto di fare fuori il suo amico e mentore, «l’unico che durante la carcerazione mi ha dimostrato che teneva a me con affetto e roba varia». E quindi si sottrae a quell’incarico. «Non mi interessava tanto farmi il carcere» precisa per l’occasione. A non andargli giù, piuttosto, è la prospettiva «di uccidere quello che ho sempre ritenuto il più grande amico mio».

L’uomo in fuga

Alla fine del processo di primo grado, il 9 giugno del 1997, la Corte d’assise di Cosenza lo premia con una pena mite: tre anni e sei mesi di carcere per associazione mafiosa. Gode delle attenuanti della collaborazione con la giustizia e il giorno successivo torna in libertà. Raggiunge una località protetta e un anno e mezzo più tardi, il 13 marzo del 1999, arriva la sentenza d’Appello che conferma la sua condanna. Tempo due giorni e si rende irreperibile, prove tecniche della sua fuga futura. Lo arrestano cinque giorni più tardi che è già un altro uomo. Ha scelto di riarmarsi, tant’è che i carabinieri lo trovano in possesso di una pistola clandestina. Torna in carcere per il successivo triennio e nel 2002 è di nuovo un uomo libero. Pochi anni ancora e nel 2006 l’inchiesta “Missing” gli presenta il conto per il duplice omicidio dei fratelli Bartolomeo. Nuova fuga, stavolta più duratura, e per i successivi sedici anni su di lui cala il sipario. Il resto è solo attualità. Ancora tutta da raccontare.    

Antonio Strangio.

Estratto dell’articolo di Felice Manti per “il Giornale” il 9 febbraio 2023.

E tre. Lo Stato acciuffa un altro latitante e manda un segnale preciso alla criminalità organizzata. Dopo la primula rossa di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro e Edgardo Greco (il mafioso calabrese catturato mentre lavorava come chef) stavolta è toccato ad Antonio Strangio detto U Jancu (il bianco), mente di ’ndrangheta in fuga dal 2016 a capo di un filone del mercato del narcotraffico gestito assieme alla cosca Bellocco, che governa una parte dei trasporti illeciti dentro il Porto di Gioia Tauro. Un business fiorente di cui la mafia calabrese è monopolista indiscussa.

Su Strangio pendeva la famigerata Red Notice Interpol, l’avviso di cattura internazionale per i ricercati in tutto il mondo. L’operazione che ha portato al suo arresto al Bali Ngurah Rai International Airport dell’isola indonesiana mentre tentava di fare rientro in Australia, è frutto di una cooperazione tra forze dell’ordine e intelligence italiana dell’Italia.

 L’azzardo di Strangio (accusato di produzione e traffico di droga con l’aggravante del metodo mafioso) è stato lasciare per una vacanza l’Australia, Paese dove grazie all’appoggio dei potentati di ’ndrangheta originari di San Luca e di Platì poteva godersi una latitanza dorata da cittadino naturalizzato (quindi non estradabile), […]

L’attimo fuggente è scattato il 2 febbraio scorso a Bali, in Indonesia, dove il 32enne rampollo del casato legato alla omonima ’ndrina di San Luca protagonista della famigerata strage di Duisburg, in Germania, del 15 agosto del 2007 era in vacanza (o forse per lavoro).

 L’importanza del blitz è stata sottolineata anche dalla premier Giorgia Meloni, soddisfatta per il lavoro «delle forze di intelligence, dell’ordine e di polizia che permettono questi straordinari risultati» e dai ministri Antonio Tajani (Esteri) e Matteo Piantedosi (Interno).

Colpo alla ‘Ndrangheta: arrestato il latitante Antonio Strangio a Bali in Indonesia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’8 Febbraio 2023.

La Direzione distrettuale antimafia e i carabinieri di Reggio Calabria, insieme all’unità I-CAN, Interpol Cooperation Against ‘Ndrangheta, hanno monitorato i suoi movimenti fino al primo passo falso: appena uscito dall’Australia, con la collaborazione dell’Interpol Indonesia, è stato fermato e consegnato alla giustizia italiana

La polizia di Bali ha arrestato lo scorso 2 febbraio il latitante di ‘ndrangheta Antonio Strangio bloccato al Bali Ngurah Rai International Airport dell’isola indonesiana . Colpito dalla “Red Notice” Interpol (l’avviso di cattura internazionale per i soggetti ricercati in tutto il mondo), Antonio Strangio, 32enne, legato all’omonima ‘ndrina di San Luca (Reggio Calabria) e nota anche come “Janchi“, era ricercato per produzione e traffico di sostanze stupefacenti con l’aggravante del metodo mafioso, nell’ambito dell’operazione denominata “Eclissi 2“, diretta dalla Dda di Reggio Calabria e condotta dal Reparto Investigativo del Comando Provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria.

L’indagine che è la prosecuzione dell’”Operazione Eclissi“, aveva portato nel luglio 2015 all’esecuzione di 11 ordinanze di custodia cautelare , nei confronti di altrettanti soggetti appartenenti a cosche della ‘Ndrangheta del vibonese e del reggino (legati al clan Bellocco), mentre Strangio lui si era reso latitante nel 2016 scappando in Australia paese nel quale, essendo stato naturalizzato cittadino australiano, non poteva essere estradato.

I Carabinieri del Comando Provinciale Carabinieri di Reggio Calabria, supportati dall’Unità I-Can (Interpol Cooperation Against ‘Ndrangheta) e dall’Esperto per la Sicurezza italiana a Canberra, non hanno mai mollato la presa sul latitante, e al primo passo falso l’hanno catturato con la collaborazione di Interpol Indonesia, fermandolo, appena uscito dal paese australiano, a Bali, nella serata del 2 febbraio alle 21.00 ora locale (ore 15.00 italiane).

Al rientro in Italia la sua posizione dovrà essere valutata, fatte salve le ulteriori determinazioni che saranno assunte nei successivi gradi di giudizio. Quella di Strangio è un’operazione che segue di poche ore la notizia della cattura avvenuta a Saint Etienne in Francia di Edgardo Greco, latitante da 17 anni, noto come lo “chef della ‘ndrangheta” e condannato all’ergastolo per duplice omicidio. Con l’arresto di Antonio Strangio dopo poco meno di tre anni dall’avvio del Progetto “I Can” sono 42 i latitanti arrestati in tutto il mondo .che, evidenziano i Carabinieri, “sta raccogliendo i risultati di un lavoro volto a far crescere nelle forze di polizia di 13 Paesi (quelli più esposti alla minaccia) la consapevolezza della pericolosità globale dalla ‘ndrangheta, che fino a poco tempo fa veniva considerata un fenomeno folcloristico italiano e non una potente organizzazione criminale che si è fatta impresa in tutto il mondo, che opera attraverso piattaforme criptate, paga in criptovalute e che inquina il tessuto economico e finanziario delle realtà che ‘colonizza’”.

“Con la cattura a Bali di Antonio Strangio è stato messo a segno il terzo arresto contro pericolosi latitanti nell’arco di pochi giorni, dopo quelli di Edgardo Greco in Francia, che si era reso irreperibile da 17 anni, e di Matteo Messina Denaro. Desidero esprimere la mia soddisfazione e le mie più vive felicitazioni a tutte le forze di intelligence, dell’ordine e di polizia che permettono questi straordinari risultati. La lotta contro la criminalità e contro tutte le illegalità resta un obiettivo prioritario del nostro Governo” ha dichiarato il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

“Un altro importante latitante di ‘ndrangheta è stato catturato grazie alla capacità, alla tenacia e all’autorevolezza nel contesto internazionale delle nostre forze di polizia. La cattura a Bali, in Indonesia, di Antonio Strangio, considerato esponente di primo piano dell’omonima ‘ndrina di San Luca e ricercato da 7 anni nell’ambito dell’operazione ‘Eclissi2’ dei Carabinieri e della Dda di Reggio Calabria, è l’ulteriore dimostrazione che lo Stato non molla la presa nel contrasto alla criminalità organizzata. Un’importante operazione per la quale rivolgo le mie congratulazioni all’Arma dei Carabinieri”.  E’ quanto afferma il sottosegretario all’Interno Wanda Ferro (FDI), che prosegue: “L’arresto di Strangio, che per sottrarsi all’arresto aveva trovato rifugio in Australia, segue di pochi giorni l’arresto in Francia del latitante Edgardo Greco, ed è stato reso possibile anche grazie all’efficacia della rete di  cooperazione internazionale tra le forze di polizia contro la ‘ndrangheta realizzata con il progetto I-Can promosso dal Ministero dell’Interno con l’Interpol”. Redazione CdG 1947

Raffaele Imperiale.

Il narcos Imperiale, boss dei Van Gogh, cede allo Stato un'isola a Dubai: si chiama Taiwan ed è artificiale. Simona Brandolini su Il Corriere della Sera lunedì 27 novembre 2023

Sotto processo insieme ad altri 20 imputati. Si è pentito nel 2022, poco dopo l'arresto. Sequestrato arsenale a Giugliano e un «tesoretto» in bitcoin

Il narcotrafficante Raffaele Imperiale quando ha iniziato a collaborare con gli inquirenti ha raccontato, tra le altre cose, di comprare «40 chili di oro al mese». Con soldi riciclati ha anche acquistato due quadri rubati di Van Gogh. Ora ha ceduto alle autorità italiane un'isola di sua proprietà che si trova in un arcipelago di fronte a Dubai. Si chiama Taiwan ed è artificiale. 

La notizia

La notizia è stata resa nota oggi dal sostituto procuratore Maurizio De Marco nel processo che vede una ventina di imputati tra cui anche il narcotrafficante internazionale. Il pm ha anche consegnato al gup Miranda delle memorie contenti due manoscritti con il quale Imperiale notifica la sua decisione. 

Chi è

Imperiale è un malavitoso atipico, figlio della borghesia di provincia (è nato a Castellammare di Stabia), ed è diventato poi uno dei maggiori narcotrafficanti al mondo, comprando tonnellate di droga direttamente dai cartelli colombiani, avendo una grande liquidità. «Per un periodo, nel 2020, compravo oro al Tarì che portavo in Germania. In oro compravamo fino a 40 chili a settimana. Ho reinvestito complessivamente 30/40 milioni in oro», ha raccontato ai magistrati napoletani. Cifre da riciclare anche comprando arte: per esempio due Van Gogh rubati in Olanda. La sua storia criminale emerge soltanto nel 2000, quando gli investigatori accendono un riflettore e documentano i rapporti di Imperiale con affiliati del clan Di Lauro di Secondigliano. 

L'arresto e il pentimento

Ha vissuto negli ultimi anni a Dubai, da cui è stato estradato nel 2022. Una volta in Italia si pente e inizia a collaborare con la Procura di Napoli perché, dice, è «stanco» per la latitanza e pronto «a cambiare vita».

Il processo

Nel processo in corso a Napoli, che si sta celebrando con il rito abbreviato davanti al gup Maria Luisa Miranda, oltre al narcotrafficante internazionale sono imputati anche i suoi più stretti collaboratori, come Bruno Carbone, suo socio in affari, Corrado Genovese, il contabile del gruppo, Daniele Ursini, responsabile della logistica, e una serie di collaboratori e dipendenti.  Oggi, durante l'udienza in corso nell'aula 116 del Nuovo Palazzo di Giustizia di Napoli, è stata sollevata dal collegio difensivo, un'eccezione riguardante l'utilizzabilità delle chat Encrochat e Sky decodificate dalle autorità francesi e facenti parte del compendio accusatorio della Dda di Napoli. Dopo avere sospeso l'udienza per considerare l'istanza, il giudice ha deciso di rigettare la richiesta di sospensione avanzata dagli avvocati che ritenevano invece opportuno attendere il pronunciamento delle sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione circa l'utilizzabilità di quelle conversazioni.

I sequestri

Nel corso della requisitoria in corso nel tribunale di Napoli davanti al gup Maria Luisa Miranda, il pm antimafia di Napoli Maurizio De Marco ha ricordato i sequestri finora eseguiti dall'autorità giudiziaria, tra cui figurano anche un imponente arsenale trovato lo scorso marzo a Giugliano in Campania e l'acquisizione, del «tesoretto» in bitcoin, del valore di 1,8 milioni di euro, anche questo riconducibile al narcotrafficante internazionale Raffaele Imperiale, annesso lo scorso 16 novembre al Fondo Unico Giustizia (FUG).  Per il pm antimafia è pacifico che il percorso sia stato avviato «per ottenere i benefici previsti dalla legge», ha ribadito De Marco anche perché «si trova per la prima volta in carcere». «La profondità delle sue dichiarazioni - ha detto ancora il pm - è in corso di esplorazione mentre non lo è invece la genuinità delle propalazioni rese, sulle quali non ci sono dubbi alcuni».

Davide Cerullo.

Fotografo e attivista: «A 10 anni ero già un piccolo camorrista. Leggere mi ha salvato». Storia di Valentina Baldisserri su Il Corriere della Sera domenica 5 novembre 2023.

«La prima volta sono finito in carcere a 16 anni. Vennero a prendermi a casa a Scampia, ma non mi misero le manette ai polsi. Chiesi al carabiniere perché. Avevo visto in tv l’arresto dei boss della camorra, li avevo visti mandare baci con le manette ai polsi. Volevo sentirmi come loro, volevo anch’io quelle manette. Perché questa è la camorra per un ragazzino di Scampia: ti identifichi col crimine, ne vai fiero, ti piace il male».

Ogni frase di Davide Cerullo quando parla del suo passato è un sussurro. C’è una certa reticenza nel raccontare, un senso di vergogna per quello che è stato. Certe cose non si cancellano, anche se oggi l’ex camorrista ha quasi 50 anni e da almeno 20 ha cambiato vita. La sua è una storia di riscatto, di quelle che uno sceneggiatore penserebbe come trama di un film romantico, con tanto di lieto fine. Anche se di romantico c’è davvero poco nella prima vita di Davide.

Una delle foto tratte dal libro “I volti di Scampia”, così come le altre pubblicate in questo servizio. Davide Cerullo, è rimasto a vivere nel quartiere, dove ha fondato l’associazione “L’albero delle storie”

Come è cominciato tutto? «A 10 anni ero già un piccolo camorrista. Abitavo a Scampia, tutta la mia famiglia prendeva ordini dalla camorra. A 14 anni già gestivo una delle prime piazze di spaccio, in una delle Vele. Maneggiavo armi, minacciavo chi non ubbidiva agli ordini, ero spavaldo, mi sentivo importante. Guadagnavo 900 mila lire al giorno, tantissimi. Mi sentivo un grande. La polizia mi cercava e per me era un vanto, impazzivo per questo. Il primo bravo l’ho ricevuto dal boss con una pacca sulla spalla, e quel giorno ho capito che quello che dovevo fare era il camorrista, lo spacciatore. Lo zio, così chiamavo il boss, era Dio. Valeva più di mia madre, di mio padre, dei miei fratelli. Piu di ogni altra cosa. Avevo una vera e propria adorazione nei suoi confronti».

È vero che a 14 anni lei si allenava a uccidere? «Andavamo su una spiaggia di Licola, sul lago, a provare le armi. Maneggiavo di tutto, kalashnikov, fucili a pompa, fucili di precisione, quello che serviva. Salivamo sul terrazzo di un palazzo di 15 piani e da lì ci allenavamo a colpire l’obiettivo».

Ha mai ucciso? «No, mai, ed è stata la mia fortuna per tante ragioni. Solo grazie a questo sono riuscito a sganciarmi dalla malavita organizzata. Se avessi ucciso oggi non sarei qui a raccontare la mia storia di riscatto».

Davide Cerullo, oggi lei si definisce un redivivo, un sopravvissuto alla Camorra. Nelle scuole dove la invitano per parlare di come si è ribellato alla malavita organizzata, racconta a tutti che a salvarla è stata la lettura, la poesia. Quando c’è stata la svolta e come? «È stata la seconda volta che sono finito in carcere, a 18 anni. Nel padiglione Avellino del carcere di Poggioreale a Napoli. Nella stanza 31 eravamo in 25, 25 uomini ammassati che grondano rabbia. Lì ho vissuto davvero l’inferno fatto di violenza, ignoranza, sopraffazione, brutalità. Ma in quella cella c’era un libro che mi ha salvato: il Vangelo. Leggevo a stento perché a scuola ci avevo messo piede poche volte, ma quelle pagine erano il mio unico rifugio e trovai scritto per tre volte Davide. Si narrava del re in Gerusalemme nato pastore, diventato poi re. La sua storia fu una illuminazione. C’era un modo per salvarsi dal mondo orrendo che avevo conosciuto fino a quel momento. Fuori dal carcere cercai altre letture, avevo fame di altro. Fondamentale fu l’incontro con il pittore Sergio Bardellino. Nella sua casa vidi per la prima volta tanti libri e incontrai la poesia, prima con Pasolini poi con il poeta francese Christian Bobin, lessi Più viva che mai e ne rimasi folgorato. C’era altro oltre quel mondo sporco che avevo conosciuto troppo presto. È stato come svegliarsi da un incubo: la poesia aveva distrutto il camorrista che era in me».

Lei racconta questa rinascita come fosse un percorso normale. Immaginiamo che invece non deve essere stato facile sganciarsi dalla camorra, nessuno lo fa facilmente o senza conseguenze. Come ci è riuscito? «Non ero depositario di segreti. Ho avuto armi tra le mani, ho commesso intimidazioni, ma non ho mai ucciso. Al tempo io ero il più promettente della famiglia, il boss puntava molto su di me, ero il suo guardaspalle. L’alleanza di Secondigliano, che voleva ucciderlo, non è mai riuscita a farlo fuori. Anche questo fatto mi ha aiutato. La mia famiglia è rimasta tutta dentro alla criminalità organizzata, mia madre spacciava, i miei fratelli pure. Io no, il boss mi lasciò andare quando ad un certo punto capì che ero cambiato, che quel mondo non mi apparteneva già più. Nei miei occhi leggeva i miei sensi di colpa, e il fatto che stessi rinnegando il camorrista che era in me».

«LA MIA FAMIGLIA E’ RIMASTA TUTTA DENTRO LA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA: MIA MADRE SPACCIAVA, MIA FRATELLO PURE»

Fuggire da Scampia sarebbe stato facile, Cerullo non lo ha fatto. Ha voluto assumersi una responsabilità grande, occuparsi dei bambini di quel quartiere di Napoli oscuro e violento. Prendersi cura dei giovani più vulnerabili, quelli il cui destino sembra già segnato. Ha fondato l’associazione L’albero delle storie, un laboratorio all’aria aperta in un fazzoletto di terra tra i palazzacci delle Vele che gestisce insieme a altri collaboratori. Ogni pomeriggio lo spazio si riempie di vita e di storie. Di libri e di letture. «La cultura è in certi casi l’unica possibilità di salvezza. Quello che mi interessa è spezzare la catena della violenza, della solitudine, del silenzio. Dietro un adulto aggressivo si nasconde un bambino impaurito che nessuno ha abbracciato. Pensare che per chi nasce a Scampia non ci sia alternativa, che a Scampia non ci possano essere famiglie oneste, ragazzi per bene che non spacciano, ragazze che studiano, padri che proteggono, madri che amano, non è realistico. Le mamme portano qui i loro bambini per farli sorridere, perché qui trovano uno spazio per loro».

Lei si porta dietro l’etichetta dell’ex camorrista. Chissà quanti pregiudizi, quanta diffidenza respirerà intorno. «Non è facile, non è mai stato facile per me rompere certi muri. Ci è voluto del tempo, le stesse madri che oggi sfoggiano sorrisi quando portano i loro figli all’ Albero delle storie, all’inizio facevano fatica ad entrare. Di sicuro sono poco aiutato dalle istituzioni. Ho provato a incontrare sindaci e assessori per parlare del mio progetto, per avere un aiuto economico. Ma le risposte non sono mai arrivate. Tante parole ma niente fatti. In fin dei conti chi vive qui vive una storia di resistenza civile di fronte al deserto delle istituzioni».

«A SCAMPIA SI ENTRA NELLA PERIFERIA DELL’ANIMO UMANO: I PICCOLISSIMI DELLA CAMORRA NON DEVONO AVERE PAURA»

La scrittura come valvola di sfogo. Il 16 marzo 2009 Davide Cerullo ha pubblicato il suo primo libro, Ali bruciate. I bambini di Scampia , scritto a quattro mani con don Alessandro Pronzato (Paoline). Un libro di denuncia sul degrado di Napoli dove inevitabilmente Cerullo ha srotolato tutto il suo passato e il suo presente. Ma è la fotografia lo strumento attraverso il quale Cerullo si esprime meglio, come lui stesso confessa. A settembre è uscita l’ultima pubblicazione, I volti di Scampia (edizioni Anima Mundi) un libro fotografico che si avvale dei testi di Christian Bobin, Erri De Luca, Ernest Pignon, Patrick Zachmann. Foto bellissime, un libro che impressiona per il realismo. Ci sono Rosetta, Diego, Gennaro. Ci sono i loro occhi spauriti oppure rabbiosi o semplicemente felici. Impugnano armi con l’espressione dura. Indossano collane dorate con crocifissi enormi e occhiali da sole a goccia, come nelle serie tv.

Quando ha fotografato quegli occhi e quelle espressioni a volte tristi a volte dure, cosa ha visto? «Ho voluto catturare un’infanzia violata, senza giochi, senza scuola, senza sogni, senza neppure il diritto di avere paura, perché i bambini della camorra non devono avere paura. È la periferia dell’animo umano, da un lato queste foto scatenano l’emozione dello squallore, dall’altra subentra una condivisione affettiva con i protagonisti di questo scenario di abbandono. Martin Luther King diceva: “Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla”. Ecco, io vorrei riscattare questa infanzia, è questo il mio sogno».

Tony Colombo e Tina Rispoli.

Napoli, il neomelodico Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli in carcere: «Sono in affari con il clan Di Lauro». Fulvio Bufi su Il Correre della Sera il 17 ottobre 2023

L'accusa più grave è di concorso esterno in associazione mafiosa. Tra le attività illecite anche il contrabbando di sigarette e un marchio di moda, la griffe «Corleone». Indagato anche un autista della Dda 

La coppia che voleva essere fashion adesso è divisa dal carcere. Tony Colombo e Tina Rispoli — cantante neomelodico lui, vedova di camorra lei — si guadagnarono notorietà e video virali sui social con un matrimonio tanto sfarzoso quanto pacchiano. Carrozza e cavalli bianchi per la sposa, banda musicale ad accoglierli in municipio e concerto notturno non autorizzato in piazza del Plebiscito. Ieri mattina sono stat i arrestati con l’accusa di aver fatto affari con il clan Di Lauro — quello che scatenò la sanguinosa faida di Scampia — finanziando o agevolando le attività imprenditoriali di Vincenzo Di Lauro, uno dei figli del boss Paolo, detto "Ciruzzo ’o milionario", e investendo con lui anche in operazioni illecite legate al contrabbando di sigarette. 

Per entrambi l’accusa più grave è di concorso esterno in associazione mafiosa, e l’inchiesta che li coinvolge — coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia — ha portato all’arresto di altre 26 persone, tra le quali anche un autista della Dda che forniva informazioni riservate, lo stesso Vincenzo Di Lauro, e il fratello di Tina Rispoli, Raffaele. Dalle deposizioni di alcuni collaboratori di giustizia e dalle intercettazioni raccolte dai carabinieri di Napoli emergono anche presunti episodi di usura da parte del cantante e soprattutto di sua moglie. I due giungono al matrimonio circa sette anni dopo la morte del primo marito di lei, Gaetano Marino, ucciso nell’agosto 2012 in un agguato a Terracina, dove era in vacanza. 

Ma il legame d’affari risale a molto prima, a quando Colombo ottiene da Marino un grosso prestito per finanziare la propria attività musicale, rimanendo di fatto per sempre in debito, prima con il boss e poi con la vedova. Ma secondo la tesi della Dda, condivisa dal gip, dopo le nozze Tony Colombo passa da debitore a protagonista delle attività imprenditoriali di Vincenzo Di Lauro, uno che tra le altre «imprese» si era inventato anche un drink in lattina a forma di proiettile. La sua fedina penale pulita fa del neomelodico l’elemento ideale per intestarsi attività come il marchio di abbigliamento che Di Lauro decide di creare per vendere capi esclusivi nel suo negozio di Secondigliano dove a fare da testimonial un giorno arriva pure Lele Mora. 

Scelgono un nome adeguato al loro ambiente: Corleone. Si inventano un logo che è una C gigantesca e varano linee di shirt, felpe e cappellini. Intanto Di Lauro investe anche in un supermercato e Tina Rispoli gli fornisce i locali, selezionati tra le sue tantissime proprietà immobiliari. Ma non lo fa gratis, e se il versamento dell’affitto non arriva puntuale, né lei né Tony, pur avendo a che fare con un boss, hanno remore a sollecitare il pagamento, anche con una certa insistenza. L’altra operazione è una fabbrica di sigarette fatte con tabacchi importati di contrabbando. È Colombo a occuparsi di individuare il capannone giusto ad Acerra. E quando la Guardia di finanza scopre e sequestra tutto, lui scrive alla moglie: «Si sono presi il capannone. Mi si è fermato il cuore». 

Camorra, 27 arresti collegati al clan Di Lauro. In manette anche il cantante Tony Colombo e la moglie.

Il Domani il 17 ottobre 2023

Un’indagine della Dda di Napoli ha portato a un blitz del Ros che questa mattina ha eseguito 27 misure cautelari collegate agli investimenti imprenditoriali del clan Di Lauro. In manette anche il cantante neomelodico palermitano e sua moglie, che nel 2019 erano stati protagonisti di un matrimonio trash a Secondigliano

Un’operazione imprenditoriale, finanziata anche dal cantante neomelodico Tony Colombo e da sua moglie Tina Rispoli, vedova del boss Gaetano Marino. I due sono stati arrestati nell’ambito di un’inchiesta che riguardava la svolta verso l’economia trasparente del clan Di Lauro che ha portato a un blitz del Ros e dei carabinieri di Napoli su indagine della Dda di Napoli coordinata dai pm Maurizio De Marco e Lucio Giugliano. Martedì mattina sono state eseguite 27 misure cautelari: tra i reati contestati anche il concorso esterno in associazione mafiosa, la turbativa d'asta, e l'aggravante della transnazionalità legata al contrabbando di sigarette.

LA COPPIA

Colombo vive a Napoli da vent’anni e ora a lui e a sua moglie viene contestato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. I due, sposati nel 2019 in un matrimonio che aveva coinvolto una carrozza trainata da quattro cavalli bianchi, giocolieri, ballerine, comparse e coriandoli, tutto non autorizzato dal comune. L'ingresso degli sposi venne salutato da uno squillo di trombe suonate anche a cinque ispettori della Polizia Penitenziaria che vennero identificati - grazie a numerosi video che circolarono sul web postati dagli invitati – sospesi e poi licenziati.

La coppia era sospettata già diverse volte di avere rapporti con la camorra: nel 2021 i due erano stati accusati di trasferimento fraudolento di valori aggravato dal metodo mafioso e riciclaggio e avevano subito un sequestro di 80mila euro. 

Le attività imprenditoriali in cui il clan avrebbe investito tra il 2017 e il 2021 sarebbero stati per esempio brand Corleone e la bevanda energetica 9MM. I carabinieri hanno anche sequestrato beni per il valore di 8 milioni di euro. Tra gli altri arrestati, il figlio del boss Paolo di Lauro, detenuto dal 2005, Vincenzo, oltre che un autista della Dda che si era messo a disposizione della criminalità organizzata. 

Nelle intercettazioni compaiono anche un finanziere e un doganiere con “busta paga” del clan Di Lauro. Non sono stati individuati, ma sono certamente coinvolti nell'inchiesta. «Io avevo il finanziere che mi faceva uscire con il camion… quando passava si girava... lui prendeva 2.200 euro al mese» dicono alcuni degli indagati in una intercettazione del 26 ottobre 2018. Una conversazione in cui si fa anche riferimento a un arresto e all'impossibilità ormai di potersi avvalere di quell'aiuto. In precedenza gli indagati parlano anche di altre presunte complicità: «Io avevo due finanzieri, avevo due doganieri e stavo io. Io ero quello che le caricava, veniva il camion, glielo caricavo e se ne andava. Usciva fuori...».

Oltre a investire in brand di vestiario il clan era riuscito a entrare anche nel giro delle vendite giudiziarie immobiliari: si ipotizzano infatti reati di turbativa d’asta, con gli affiliati che minacciavano altri partecipanti per costringerli a non presentarsi.

Estratto dell’articolo di Dario Del Porto per napoli.repubblica.it mercoledì 18 ottobre 2023.

«Adesso stanno a posto perché il cantante gli ha pulito tutti i soldi»: questa frase intercettata dai carabinieri del Ros spiega molte cose degli interessi che legavano il 37enne neomelodico palermitano Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli, vedova del boss Gaetano Marino ucciso in un agguato a Terracina il 23 agosto 2012, a Vincenzo Di Lauro, 48enne secondogenito del padrino di Scampia “Ciruzzo ‘o milionario”. 

Le nozze trash al Maschio Angioino, accompagnate da un concerto in piazza del Plebiscito e da una sfilata con tanto di trampolieri e carrozza bianca lungo corso Secondigliano, avevano proiettato Tony e Tina alla ribalta dei talk show nazionali.

Ora però la coppia è in carcere, accusata di concorso in associazione camorristica nell’indagine, coordinata dai pm Maurizio De Marco e Lucio Giugliano, che ricostruisce le ramificazioni economiche del clan Di Lauro e porta agli arresti 28 persone. Di queste, 18 sono in cella, compreso un ex autista in servizio presso la Direzione distrettuale antimafia. 

[…] «Tony Colombo aveva un debito con Tina Rispoli di cinquecentomila euro maturato nel 2012 dopo la morte di Gaetano Marino», racconta ai magistrati il collaboratore di giustizia Gennaro Carra. Il rapporto fra il cantante e la vedova del boss comincia così.

Dopo l’omicidio, secondo i magistrati, la donna eredita gli affari del marito e, si legge nell’ordinanza del gip Luca Della Ragione, «tra tutti gli altri asset, va indicata anche la luminosa carriera del cantante neomelodico». Colombo si ritrova «fidelizzato al clan con un mutuo così oneroso da non poter essere restituito e quindi legato sempre più da un vincolo anche personale alla Rispoli». La relazione comincia nel 2015, nel 2019 i due si sposano. Per Vincenzo Di Lauro, il secondo dei dieci figli del padrino, questa relazione diventa un’opportunità.

Il marchio Corleone. «Sto preparando uno spot per la radio. Prendiamo tutto il popolino. Quelli che spendono. Li distruggiamo tutti», scrive Colombo via Whatsapp a Di Lauro junior. È l’autunno del 2017, i due lavorano a un progetto ambizioso: il marchio di abbigliamento “Corleone” depositato dal cantante di cui, nella ricostruzione degli inquirenti, Di Lauro «è socio occulto». Il capoclan partecipa alle spese di stampa e di gestione e utilizza per la distribuzione un negozio ritenuto a lui riconducibile, “Different 360”. 

Ne parla anche il collaboratore di giustizia Salvatore Tamburrino, colui che, dopo aver ucciso la moglie, fece arrestare l’allora superlatitante Marco Di Lauro, quarto figlio di “Ciruzzo”: «Vincenzo voleva fare una società con Tina Rispoli eventualmente sfruttando la visibilità mediatica di Tony, per un marchio di abbigliamento a nome Corleone».

[…]  Di Lauro jr intravede grandi possibilità di guadagno nella produzione di sigarette di contrabbando in fabbriche clandestine autonome affidata a manodopera bulgara. Tony si mette alla ricerca di un capannone in provincia di Roma. La coppia, emerge dalle intercettazioni, finanzierà con 35mila euro uno di questi opifici, ad Acerra, attraverso il fratello di lei, Raffaele Rispoli, oggi indagato e raggiunto da un provvedimento di custodia in carcere, e con denaro proveniente da un prestito. 

Ma a dicembre del 2018 la Finanza lo sequestra e scopre 30 tonnellate di tabacco. «Hai saputo, hanno preso il capannone di Raffaele», scrive Colombo a Tina Rispoli. Lei trasecola: «Mio Dio».

«Tina comanda gli uomini». Un’amica di Raffaele Rispoli definisce Tina «una donna che comanda gli uomini, comanda i fratelli ed è stata capace di raddoppiare i suoi investimenti». Nelle intercettazioni, Tina non usa mezzi termini quando reclama la restituzione di un prestito. Dopo un pagamento, la coppia Rispoli-Colombo deride il creditore: «Bello, tutto bene - dice lei - Li abbiamo cambiati e me li sono mangiati pure». 

I rapporti fra Tony Colombo e Vincenzo Di Lauro riguardano anche il pagamento di canoni di locazione per un supermercato realizzato in un locale riconducibile, per i pm, a Tina Rispoli. Il cantante reclama ripetutamente il pagamento. «Non ti dimenticare...non ci abbandonare, Enzo...lupacchiotto», dice in un messaggio vocale inviato a Di Lauro.

[…]  I carabinieri del Ros ipotizzano che la casa discografica di Tony Colombo venisse utilizzata da Di Lauro per «incontri riservati con esponenti di vertice» di altri clan. In un’intercettazione del 2018, Raffaele Rispoli racconta che «Enzuccio si doveva incontrare con il figlio di Valentino Gionta», storico padrino di Torre Annunziata, proprio negli studi del cantante. Alla vista di un’auto in borghese delle forze dell’ordine, Di Lauro e Gionta erano riusciti a scappare «attraverso gli uffici». In realtà, in quella data i figli di Gionta erano detenuti. «Probabilmente si trattava di un nipote», argomentano i Ros. 

Nella rete di relazioni di Vincenzo Di Lauro c’erano professionisti e insospettabili. Come Gennaro Rizzo, 58enne autista per la Direzione distrettuale antimafia fino al 2019. Adesso è in carcere per concorso esterno. Si era «messo ad incondizionata disposizione» per procacciare notizie riservate o come prestanome. L’uomo sarebbe stato disponibile addirittura a partecipare a una rapina a un imprenditore «funzionale al clan».

Dalla musica alla camorra: coppia neomelodica in cella. Patricia Tagliaferri il 18 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Tony Colombo e la moglie Tina accusati di aver finanziato le imprese del clan Di Lauro. Lei è la vedova di un boss

Ci sono anche il cantante neomelodico palermitano e sua moglie Tina Rispoli, vedova del boss Gaetano Marino, tra le 27 persone arrestate ieri all'alba nell'ambito di un'inchiesta del Ros, dei carabinieri di Napoli e della Dda che ha disarticolato il clan Di Lauro. L'organizzazione malavitosa recentemente aveva avuto una «svolta imprenditoriale» reinvestendo il denaro sporco in diverse attività. Il cantante - noto tra gli amanti del genere, con vari dischi e successi alle spalle, tra cui un'esibizione nel 1995 al Forum di Assago e la partecipazione a «Ballando con le stelle» - è accusato con la moglie di collusione con la camorra per aver aiutato Vincenzo di Lauro, figlio del boss storico Paolo, detto «ciruzzo ò milionario», a trovare nuovi sbocchi commerciali. Insieme avrebbero investito i proventi illeciti in vari business, tra i quali un brand di abbigliamento denominato «Corleone» e una bevanda energetica chiamata «9 mm», come il calibro delle pistole. Nomi che ammiccano al mondo della criminalità organizzata. Il gruppo sarebbe passato da omicidi, droga ed estorsioni al riciclaggio del denaro sporco S attività ritenute meno rischiose attraverso società intestate a prestanome con le quali il clan gestiva, tra le altre cose, una nota palestra, una sala scommesse e alcuni supermercati. Anche il contrabbando di sigarette dall'est, in particolare dalla Bulgaria e dall'Ucraina, faceva parte del «core business» dei Di Lauro, con l'importazione di circa una tonnellata e mezza di «bionde» che hanno rifornito i mercati illegali. Colombo e consorte avrebbero anche finanziato una fabbrica abusiva che avrebbe prodotto fino a 400 casse di sigarette illegali destinate ai distributori al minuto.

Finora, oltre che per i successi musicali di Colombo, la coppia era nota in particolare per il loro sfarzosissimo e contestatissimo matrimonio, celebrato nel Maschio Angioino di Napoli nel 2019. Non solo il corteo nuziale, con tanto di carrozza bianca trainata da cavalli, giocolieri e trampolieri bloccò letteralmente il traffico della zona, ma l'ingresso degli sposi venne salutato da uno squillo di trombe suonate da cinque ispettori della polizia penitenziaria che per questo - grazie ai video messi in circolazione - vennero identificati, sospesi e poi licenziati. Non solo polemiche, sulle nozze venne anche aperta un'indagine della Procura Antimafia partenopea, in particolare sul concerto andato in scena il giorno prima per l'addio al nubilato in piazza del Plebiscito.

Nell'inchiesta sono coinvolti anche un finanziere e un doganiere, non ancora individuati, che erano a «busta paga» del clan Di Lauro. «Io avevo il finanziere che mi faceva uscire con il camion... quando passava si girava... lui prendeva 2.200 euro al mese», dicono alcuni degli indagati in un'intercettazione. «Io avevo due finanzieri, avevo due doganieri e stavo io. Io ero quello che le caricava sul camion...», si sente dire in un altro dialogo. Tra gli arrestati anche un autista che prestava servizio per la Direzione Distrettuale Antimafia.

L'operazione anticamorra: 27 persone coinvolte. Blitz a Napoli, arrestati Tony Colombo e la moglie Tina Rispoli: i presunti affari con il clan Di Lauro, dal marchio “Corleone” alla bevanda a forma di proiettile. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 17 Ottobre 2023 

Una operazione anticamorra ha coinvolto 27 persone a Napoli tra cui il popolare cantante neomelodico Tony Colombo, di origini siciliane (all’anagrafe Antonino Colombo), e la moglie Tina Rispoli, vedova di un elemento apicale della criminalità organizzata, Gaetano Marino, ucciso nel 2012 in un agguato nell’ambito delle faide di Scampia tra il clan Di Lauro e gli Scissionisti.

La coppia, più volte in passato finita nel mirino della Dda partenopea e a cui viene contestato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, è stata coinvolta in una operazione condotta dai carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale e del Comando Provinciale di Napoli che hanno eseguito un provvedimento di custodia cautelare, emesso dal GIP di Napoli su richiesta dalla locale Direzione Distrettuale Antimafia, nei confronti di 27 indagati poiché gravemente indiziati a vario titolo dei reati di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione aggravata, violenza privata aggravata, associazione a delinquere finalizzata alle turbative d’asta aggravata agevolata, associazione a delinquere aggravata dall’aver agevolato un clan mafioso e dal carattere della transnazionalità finalizzata al contrabbando dei tabacchi lavorati esteri. Contestualmente è stato eseguito un provvedimento di sequestro preventivo di beni mobili e immobili per un valore complessivo di circa 8 milioni di euro.

Tra gli arrestati anche Vincenzo Di Lauro, figlio del superboss Paolo: il 48enne era tornato in libertà nel 2015 ed era finito nel mirino della procura lo scorso aprile 2023 con i legali che ottennero la scarcerazione dopo il ricorso al Riesame. Coinvolto un autista che prestava servizio per la Direzione Distrettuale Antimafia, in passato sottoposto a una perquisizione.

Le investigazioni, coordinate dalla Procura della Repubblica di Napoli (pm Maurizio De Marco e Lucio Giugliano), dirette a ricostruire l’operatività del clan Di Lauro, e dei sottoclan alleati, nell’arco di tempo tra il 2017 ed il 2021, in continuità rispetto alle indagini per la cattura del latitante Marco Di Lauro (arrestato il 2 marzo 2019), hanno documentato la ristrutturazione organizzativa dell’organizzazione pur nel rispetto delle tradizionali regole imposte dal capofamiglia Paolo Di Lauro (alias Ciruzzo ‘o Milionario detenuto al 41bis dal 2005 e non indagato), tra cui l’assunzione del comando da parte del fratello maggiore d’età non detenuto (ovvero Vincenzo Di Lauro). Le indagini hanno consentito di ricostruire, oltre alle tradizionali attività illecite quali stupefacenti, estorsioni ed altro, tra cui le minacce ai familiari di un collaboratore di giustizia, una vera e propria “svolta imprenditoriale” quale scelta di fondo del clan Di Lauro che, abbandonando quasi del tutto l’opzione militare, che ha visto la cosca soccombente rispetto agli Scissionisti nelle sanguinose faide per il controllo del territorio e delle piazze di spaccio. In questa prospettiva strategica si collocano le attività imprenditoriali e finanziarie, con ingenti investimenti nel settore delle aste giudiziarie immobiliari, in cui gli affiliati ponevano in essere condotte di turbata libertà degli incanti, attraverso minacce rivolte ad altri partecipanti per costringerli a non presentarsi, permettendo di fatto agli emissari del sodalizio di aggiudicarsi gli immobili, la cui successiva rivendita avrebbe finanziato le ulteriori attività illecite del sodalizio.

Nel contesto, veniva rilevata una sorta di joint venture, ovvero una vera e propria alleanza organica o partnership, quale forma di stretta collaborazione tra varie organizzazioni operanti in Secondigliano, come i Licciardi (alla guida dell’Alleanza di Secondiglianco insieme ai Contini e ai Mallardo) e la Vanella Grassi finalizzata al raggiungimento di comuni interessi economici come l’aggiudicazione di aste immobiliari ovvero l’intervento per la revoca di richieste estorsive rivolte a imprenditori vicini al clan Di Lauro da parte di terze organizzazioni criminali.

Gli investimenti in attività meno rischiose rispetto al passato hanno anche riguardato la costituzione di alcune società fittiziamente intestate a terzi (ora sottoposte a sequestro), attraverso cui l’organizzazione gestiva una nota palestra, una sala scommesse e alcuni supermercati nonché il settore del contrabbando dei tabacchi lavorati esteri. Infatti, in quest’ultima attività illecita è stata cristallizzata l’esistenza di un’associazione a delinquere, stabile e transnazionale, diretta dal clan, finalizzata al traffico di tabacchi, con importazioni da paesi dell’Est europeo, quali Bulgaria e Ucraina di circa 1500 Kg di sigarette, caratterizzata da un sistema di distribuzione sul mercato campano, attraverso una rete di grossisti che rifornivano, in conto vendita, i rivenditori al dettaglio e da cui, settimanalmente, venivano prelevate le somme di denaro relative al pagamento delle forniture.

Il coinvolgimento di Tony Colombo e della moglie Tina Rispoli

L’aspirazione imprenditoriale del clan Di Lauro ha riguardato anche investimenti in società di abbigliamento e, insieme a Tony Colombo – secondo quanto emerso nelle indagini che si sono avvalse delle dichiarazioni di diversi pentiti tra cui Salvatore Tamburrino, ex braccio destro di Marco Di Lauro -, l’ideazione di un brand d’abbigliamento registrato con marchio Corleone, oltre che nella realizzazione di una bevanda energetica denominata 9 mm (con la bottiglia a forma di proiettile), evocativi e quasi ammiccanti al mondo della criminalità organizzata.

Altra attività attribuita al clan e alla coppia Colombo-Rispoli era relativa a una fabbrica allestita e successivamente sequestrata. Nello specifico le indagini permettevano anche di chiarire come l’organizzazione, finanziata dal vertice del clan Di Lauro, da Colombo e Rispoli, con una somma complessiva di circa 500mila euro, avesse provveduto, dopo l’acquisito dei materiali e dei macchinari necessari, all’allestimento di una fabbrica di sigarette ad Acerra (Napoli), successivamente sequestrata, dove, importando il tabacco grezzo dall’estero, avrebbero potuto confezionare direttamente i pacchetti di sigarette da rivendere nel territorio nazionale ovvero esportare all’estero. La famiglia Rispoli era storicamente legata al clan Di Lauro nonostante la rivalità in passata tra lo storico clan di Secondigliano e la cosca dei Marino, cui apparteneva il marito di Tina Rispoli. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Storia del neomelodico. Chi è Tony Colombo, da bambino prodigio lanciato da Mario Merola al matrimonio con Tina Rispoli vedova del boss Gaetano Marino. Vita e opere del celebre cantante neomelodico lanciato da Mario Merola ("Colui a cui devo tutto"), ai tre figli con Luana e il matrimonio con la vedova del boss passando per i sold out in giro per il mondo. Piero de Cindio su L'Unità il 17 Ottobre 2023

Antonino Colombo nasce a Palermo sotto l’11 maggio del 1986. Fin dalla tenera età si fa notare per il suo talento canoro. A soli 7 anni, il cantante palermitano incide il suo primo CD ‘A villeggiante. L’album riscontrò un buon successo con oltre 20mila copie vendute. Nel 1995, calca il palco del Forum di Assago: a meno di 10 anni incanta e attira l’attenzione della platea del celebre impianto di Milano. Ribattezzato da Mario Merola col nome di Tony (“Colui a cui devo tutto, dalla passione per la musica alla mia carriera”), partecipa alle feste di piazza organizzate dal Re della sceneggiata. Nel 1995 pubblica il suo secondo album, Scugnizza, che vende oltre 20mila copie. La carriera di Tony decolla e nel 1996 si esibisce, in Belgio, davanti a circa 15mila emigranti italiani. L’album pubblicato quell’anno, Complimenti, vende 30mila copie, mentre nel 1997 il Tg1 accende i riflettori su di lui con una intervista.

Nel 1998 il giovane Tony pubblica il suo quarto album discografico, Spregiudicata e l’anno seguente il quinto: Classicamente Io che ottiene un grande successo soprattutto all’estero. La carriera di Tony Colombo prosegue tra album, che ogni volta si rivelano sempre più un successo, e apparizioni in programmi televisivi e radiofonici così come premi artistici. Nel 2001 riceve il premio rivelazione dell’anno dalle mani del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, mentre nel 2002 arriva in semifinale all’accademia della canzone di Sanremo col primo singolo inedito L’anima. Il grande successo è il nono CD, Il giorno e la notte, che vende oltre 80mila copie.

Nel 2004 la prima tournee: tra le varie tappe quella negli Stati Uniti d’America con una serata a El caribe di New York City e poi l’esibizione dell’ottobre al Palacatania con 4mila biglietti venduti. Nel 2007 gli viene conferito il premio di miglior interprete neomelodico dell’anno, mentre nel 2009 al Velodromo Paolo Borsellino di Palermo sono 6mila gli spettatori del suo concerto. Nel 2010 si esibisce a Piazza Mercato a Napoli davanti a 30mila persone e firma un contratto con la Warner Music Italy. Partecipa poi alle selezioni per la Sanremo ma non viene accettato. Nel 2013 a soli 26 anni incide il suo ventesimo album, Solo, e nel maggio al suo concerto all’Arena Flegrea di Napoli ci sono oltre 7mila persone. L’anno seguente la sua esibizione al Palapartenope fa registrare il sold out, e nell’autunno dello stesso anno entra nel cast della decima edizione di Ballando con le stelle, celebre programma di intrattenimento di RaiUno condotto da Milly Carlucci dove fa coppia con la ballerina ucraina Anastasia Kuzmina ma vengono eliminati alla sesta puntata. Negli ultimi anni incide Quello che vorrei (2015), poi nel 2016 Sicuro, e l’anno seguente Ti aspetto all’altare che totalizza oltre 55milioni di visualizzazioni su YouTube.

TONY COLOMBO LA VITA PRIVATA – Il suo primo grande amore è Luana La Rosa, sposata a soli 18 anni. Da questa unione nascono tre figli: Julie, Emanuela e Marco. Nel 2016, però, la separazione con Luana e poco dopo il legame con Tina Rispoli. La vedova del boss degli scissionisti Gaetano McKay Marino, ucciso sul lungomare di Terracina nel 2012, convola a nozze con Colombo nel marzo del 2019 con una cerimonia sfarzosa e considerata trash che crea non poche polemiche. La loro storia d’amore finisce su tutti i giornali e tiene banco sul gossip nazionale. Piero de Cindio 17 Ottobre 2023

Estratto dell'articolo di Dario Del Porto per "la Repubblica" giovedì 19 ottobre 2023 
«Quando ho appreso la notizia non ho chiuso occhio per tutta la notte», racconta Claudio Salvia, funzionario della prefettura di Napoli, figlio di Giuseppe, il coraggioso vicedirettore del carcere di Poggioreale assassinato il 14 aprile del 1981 dalla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. […] 
A togliergli il sonno è l’imminente arrivo sugli schermi televisivi della fiction “Il Camorrista — La serie” di Giuseppe Tornatore, girata nel 1985 contestualmente all’omonimo film d’esordio del regista premio Oscar, eppure mai andata in onda. Il 26 ottobre è in programma l’anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Alla figura del boss Cutolo è ispirato […] il protagonista del film, […] È stato lo stesso Tornatore a curare la rielaborazione in cinque puntate della serie, prodotta da Titanus Production e Rti — Mediaset.
[…] Ma Claudio Salvia, che aveva tre anni quando il padre fu ucciso, scuote il capo: «Stimo il regista Tornatore, ho apprezzato molti dei suoi capolavori. Forse però non ha ponderato fino in fondo questa scelta. Cutolo è stato il boss per eccellenza, ha distrutto intere famiglie e frantumato, letteralmente, la vita di centinaia di innocenti. Basta ascoltare tante interviste trasmesse in televisione all’indomani della sua morte per constatare che ancora oggi, a distanza di tantissimi anni, ci sono persone che osannano la figura di questo personaggio. 
Ora, mi chiedo, come mai riportare alla luce un tale carnefice e non raccontare il coraggio e l’integrità di tanti uomini dello Stato che hanno pagato con la vita i principi di rettitudine e legalità? Così si ottiene solo l’effetto di far retrocedere tutti gli sforzi che un esercito di persone, me compreso, ogni giorno si propone di fare, ovvero proporre ai giovani modelli di riferimento alternativi».
Salvia sa di «parlare da vittima, una delle tante cresciuta senza un padre, fiero di portare avanti il suo messaggio, il suo ricordo». E rimarca: «Conservo ancora la speranza di lasciarci alle spalle, un domani, personaggi come Raffaele Cutolo. Posso solo augurarmi che tutto il ricavato possa essere devoluto in beneficenza per la riqualificazione di territori demoliti dalla camorra, luoghi dove vige la legge del più forte, posti dimenticati dalle Istituzioni. Per quanto mi riguarda — conclude — andrò avanti per la mia strada cercando di strappare alla camorra il consenso che ancora la circonda».

Raffaele Cutolo.

Giuseppe Tornatore: «Quando girai il film sulla camorra e Cutolo mi minacciò». Storia di Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera giovedì 26 ottobre 2023.

Nel 1985, Giuseppe Tornatore girò, montò, consegnò una serie tv in cinque puntate mai andata in onda (si vedrà su Mediaset). Aveva 29 anni. Lo fece contestualmente al suo primo film, Il camorrista, con Ben Gazzara. La materia è la stessa, dal libro di Joe Marrazzo, l’inviato del Tg2 che non fece in tempo a vedere il progetto sulla Nuova camorra di Raffaele Cutolo che dietro le sbarre gestiva il sangue.

Claudio Salvia, il funzionario della prefettura di Napoli figlio del vicedirettore del carcere di Poggioreale assassinato dagli sgherri di Cutolo, ha espresso «indignazione, si riaprono vecchie ferite». Tornatore risponde così: «Condivido il suo sentimento, mi sento in linea col suo dolore. Però ho il sospetto che sia viziato dall’equivoco di una serie che si crede girata oggi, e che invece è ispirata a un film di 39 anni fa. Questo equivoco è di tanti, sento dire in giro, oh Dio un’altra Gomorra…La serie, con alcune scene in prigione cruente, nacque perché Lombardo, il produttore, mi disse che nel film c’erano troppi inseguimenti e sparatorie, in una serie si poteva unire il progetto». Anche il film ebbe una vita travagliata: fu ritirato dalle sale. Conseguenza di tre querele: «La prima, di Enzo Tortora, quando capì che non si alludeva a lui la ritirò. La seconda querela, più pesante, fu di Raffaele Cutolo, che aveva già chiesto il sequestro del libro di Joe Marrazzo. La terza di Ciro Cirillo, l’assessore sequestrato dalle Br». Era il contesto a essere infuocato: «Le Brigate Rosse, gli arresti, i servizi segreti deviati…».

Cutolo, , come lo chiamavano, disse coi suoi occhi allucinati: «Mi spiace che l’abbia dovuto girare un siciliano». «Fu una dichiarazione minacciosa», commenta il regista. Faceva le sostituzioni alla Rai di Palermo come programmista regista. Un giorno si palesò Joe Marrazzo, con la sua umanità, l’empatia verso chi intervistava. «Quando arrivava, voleva dire che era successo qualcosa di grosso». Tornatore era un giovane sconosciuto, si fece sotto proponendogli un film dal suo romanzo. Chiese il permesso di passare un giorno a Poggioreale, col fonico, per registrare i suoni quotidiani. Non c’era la camorra al cinema, «salvo qualcosa di Zampa e Francesco Rosi, poi Squitieri o Mario Merola che ne parlava in chiave folcloristica, quasi da musicarello. C’era stato Il padrino di Coppola, ma in America. La mafia appariva infallibile. Noi superavamo il meccanismo della simpatia creando un personaggio ancora più criminale di Cutolo. Come Coppola non può sentirsi in colpa se Messina Denaro aveva il ritratto di Marlon Brando, è lo stesso per me». Non era ancora stato raccontato al cinema l’arco di nascita e l’evoluzione della camorra, il funzionamento e le miserie umane, come è presente nel bel libro di Joe. «Ogni volta lasciava i primi capitoli in auto, che la camorra gli bruciava sotto casa: gliene bruciarono sette. E ogni volta doveva ricominciare a scrivere. Io gli dicevo, Joe, ma perché non fai le fotocopie?».

È morta Rosetta Cutolo, la sorella del superboss Raffaele: per anni fu al vertice della Nco. La donna, 86enne, teneva la contabilità delle estorsioni realizzate dai capizona e provvedeva ad assistere, legalmente ed economicamente, le famiglie dei carcerati. Ignazio Riccio il 14 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Chi era Rosetta Cutolo

 Il suo ruolo nel clan

 Il periodo di latitanza

 L’arresto

Era considerata tra i maggiori esponenti della Nuova camorra organizzata (Nco), la nota organizzazione criminale di stampo mafioso creata dal fratello Raffaele Cutolo negli anni Settanta dello scorso secolo in Campania. È morta a 86 anni Rosetta, erede del defunto boss. I funerali si svolgeranno domani mattina nella chiesa di San Michele Arcangelo a Ottaviano, in provincia di Napoli, dove la donna era rimasta a vivere. La salma partirà dalla casa dove risiedeva, in via delle Rose, alle 10.20, per poi proseguire, dopo la messa, al crematorio di Domicella.

Cutolo, tra mala e politica. I segreti di "Don Raffaè" che non volle pentirsi mai

Chi era Rosetta Cutolo

Conosciuta anche come “Rosetta 'e monache”, è stata per tanti anni esponente di vertice del clan e imputata in diversi processi. Si riteneva che fosse a capo della Nuova camorra organizzata durante i periodi di detenzione del fratello. Si costituì nel 1993 per scontare sei dei quasi dieci anni di una pena in carcere cui era stata condannata. La donna nel 1999 tornò ad Ottaviano dove oggi è deceduta. Rosetta Cutolo non si è mai sposata e ha vissuto per un lungo periodo, assistita e protetta dal maggiordomo Francesco Violento, nel palazzo mediceo di Ottaviano, un edificio del XVI secolo con cinquanta camere e un grande parco.

Il suo ruolo nel clan

In questa residenza, Rosetta teneva la contabilità delle estorsioni realizzate dai capizona e provvedeva ad assistere, legalmente ed economicamente, le famiglie dei carcerati. Inoltre, teneva un minuzioso elenco dei membri del clan conservato in una nicchia scavata in una parete del castello e coperta da un quadro. Secondo il piano di Raffaele Cutolo, una volta liberi, i componenti della Nco inviavano a Rosetta un fiore, ossia un'offerta in denaro. La donna provvedeva a riutilizzare tali risorse per creare un vincolo di fedeltà tra gli affiliati.

Polemica sui manifesti per il boss Cutolo

Il periodo di latitanza

Imputata in diversi processi, il 12 settembre 1981 scampò all'arresto quando la polizia fece irruzione nel castello mediceo di Ottaviano al termine di un vertice della camorra. Con Rosetta Cutolo, infatti, c'era tutto lo stato maggiore della Nco e un esponente della Dc di Ottaviano. La polizia sequestrò una grande quantità di documenti e le mappe che dividevano l'area napoletana nelle zone di influenza controllate dal clan. Da quel momento, Rosetta cominciò una lunga latitanza con l'aiuto di don Giuseppe Romano, sacerdote confessore della famiglia e di altri membri della Nco. Più volte è sfuggita alla cattura, come nel 1990 quando scappò da un convento poco prima di un blitz dei carabinieri.

L’arresto

L'8 febbraio 1993, dopo alcune trattative che impegnarono anche i servizi segreti, si costituì per scontare nove anni e sette mesi per associazione mafiosa. In realtà, dopo sei anni è tornata a Ottaviano, dove è rimasta fino all’ultimo giorno di vita. Grande appassionata di teatro, ricoprì in carcere il ruolo di Filumena Marturano in uno spettacolo organizzato tra le detenute.

È morta Rosetta Cutolo, la sorella di Raffaele: una donna a capo del clan. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 15 ottobre 2023. 

Aveva 86 anni: con il boss in carcere, fu lei a guidare la Nuova camorra organizzata. Partecipò al piano di trasformazione del fratello in carcere. Muore con lei la Vecchia Camorra, quella con alla base una sorta di welfare

Rosetta Cutolo

Non può esistere Raffaele Cutolo senza Rosetta. Rosetta Cutolo non è stata una ancella, una gregaria. Rosetta Cutolo è stata l’organo pulsante della vita del fratello. La sua è un’esistenza tragica, di totale devozione a Raffaele. Un fratello che decide di amare perché con lui condivide la miseria — erano figli di zappatori — e poi il riscatto: riscatto criminale. Rosetta era abilissima nel ricamare, probabilmente una delle più brave sarte del Vesuviano, e questo talento suo fratello Raffaele lo saprà sfruttare. Quando finisce in carcere lei inizia a confezionare cappotti, camicie, pantaloni, giacche. Materiale che sottrae a una piccola azienda che produce vestiti: così permette la costruzione e il pagamento della prima cellula della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Il fratello inizia ad avvicinare gli affiliati delusi per i mancati pagamenti delle altre famiglie di camorra donando vestiti. I vecchi clan all’epoca di Cutolo, tra gli Anni ’70 e ’80, si fondavano su un elemento di trascuratezza. Gli affiliati si raccoglievano nel momento di crescita economica e si lasciavano andare in quello di crisi.

La trasformazione

Cutolo comprende che la camorra napoletana deve essere organizzata in modo diverso. Rosetta sarà anche in questo fondamentale, perché Raffaele Cutolo il suo impero lo costruisce in carcere. Finisce in cella per un reato disgustoso, per chi come lui si ritiene uomo d’onore. Ossia ammazza Mario Viscito, che non aveva nulla a che fare con la vicenda che aveva innescato la sua iniziale rabbia. Mentre sta correndo con l’auto di Rosetta rischia di investire una ragazza di 12 anni: lui la ritiene responsabile dell’incidente scongiurato e la schiaffeggia. Scatta così una rissa con il fratello, ma un uomo di 31 anni interviene per dividerli e Cutolo lo ammazza. Prende l’ergastolo. Rosetta gli è accanto nella decisione di uscire dalla minorità criminale nella quale finisce in carcere e partecipa al piano di trasformazione del fratello. Raffaele Cutolo passerà 50 anni in carcere. Tranne brevissime fasi di latitanza nelle quali riuscirà ad avere un figlio, Roberto, che verrà ucciso dalla ’ndrangheta negli Anni ’90 a Tradate (Varese). Rosetta Cutolo diventa così la figura operativa mafiosa più importante della storia criminale italiana. Ma non si sentirà mai un capo. Anche quando nell’81 un’operazione di polizia scova nel castello Mediceo di Ottaviano — che Cutolo ha comprato per far vivere nel posto più nobile del Vesuviano sua sorella — una riunione della Nco con politici locali: Rosetta è seduta a capotavola al posto dei maschi e trattata come un capo.

I compiti di Rosetta

Don Giuseppe Romano, prete e confessore di famiglia, sarà molte volte indicato dagli inquirenti come sua guardia del corpo. Viene ferito a una spalla in un agguato nel 1985 dagli anti cutoliani mentre la trasporta da Napoli a Roma. Scaricano un intero caricatore sul suo corpo. Viene operato, è salvo. Ma qualche giorno dopo misteriosamente muore. In seguito al sequestro del castello, Rosetta di fatto vive come ha sempre vissuto, in modo umile. Gestisce i nipoti, figli di Roberto, ma non vuole che assumano incarichi criminali. Dopo qualche difficoltà accetta anche di accogliere Immacolata, la moglie di Raffaele: lei lo ha sposato senza averlo mai conosciuto fuori dal carcere, vedendolo solo in tribunale o in tv. Immacolata genererà una figlia con inseminazione artificiale, senza aver avuto rapporti con il marito al 41 bis: le darà il suo nome, Immacolata. È una donna che partorisce vergine e che innescherà tutta una serie di immaginari mitologici nella storia di Raffaele Cutolo.

Latitanza e resa

Rosetta Cutolo è una donna che vota tutta sé stessa all’uomo della sua vita: il fratello. Le piaceva comunicare un aspetto mite, fermo, ma non aggressivo. Lei si consegnerà alla polizia nel 1993, dopo aver vissuto in latitanza dal 1981. È proprio Cutolo che decide di farla consegnare, quando capisce che l’organizzazione è capitolata e la priorità è metterla al sicuro in carcere. Uscita da lì vivrà poi per sempre a Ottaviano, in una casa modesta. Giuseppe Marrazzo, nel libro capolavoro il Camorrista , si spinge a raccontare una sorta di rapporto d’amore quasi incestuoso tra Raffaele e Rosetta. Lei è anche a conoscenza della grande trattativa dello Stato per far liberare Ciro Cirillo dopo il rapimento delle Br. Trattativa tra Nco, brigatisti e Stato italiano. Cirillo conosceva tutto il sistema delle tangenti, la corruzione di politici, giornalisti, magistrati. Le Br lo sequestrano perché lo ritengono disposto a parlare al primo schiaffo. E così Cutolo è contattato per minacciare i terroristi, fare un accordo e liberarlo. Rosetta lo sa. Ma il fratello la protegge e non le dà i dettagli.

Il «Welfare»

Quando Cutolo è latitante in molti sono convinti che la sua protezione sia gestita dai Servizi segreti in cambio della non confessione di Raffaele sul sequestro Cirillo. Lui non ha mai deciso di pentirsi e Rosetta Cutolo nemmeno. Tornata a Ottaviano, dopo dieci anni di carcere, rispetta una regola: non fa mai entrare nessun uomo in casa. Solo suo fratello Pasquale. Muore con lei la Vecchia Camorra. Quella con alla base una sorta di welfare, di cui Rosetta era ossessionata. I soldi dovevano essere distribuiti ai bisognosi, alla chiesa, alle famiglie con figli disabili. Lei era convinta che solo la distribuzione della ricchezza potesse mantenere salda l’organizzazione. E infatti quando la Nco, che non investe tanto nel narcotraffico, si ritrova dopo la prima crisi del contrabbando di sigarette con una mancanza di liquidità, vedrà passare i suoi affiliati ai rivali... Ma lei non si ferma. Diventa per anni l’ufficio collocamento dell’area napoletana, ma anche campana, pugliese e lucana. Questo la rende una figura quasi venerata, cosa che non sopportava, infastidita da visibilità e fama.

I misteri di Rosetta Cutolo, brava sarta, beghina in chiesa e raffinata mente criminale. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 17 novembre 2023.

Nella foto, la sorella maggiore del capo della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo, Rosetta, quando era poco più che 40enne, nel 1980. Già da 17 anni reggeva l’organizzazione al posto del fratello, arrestato nel 1963. Più volte sfuggita all’arresto, è stata anche lei 6 anni in carcere

Rosetta Cutolo a 43 anni in un’immagine del 1980. La sorellamaggiore del fondatore della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, boss dell’organizzazione in sua assenza, è scomparsa a Ottaviano (Napoli) il 14 ottobre scorso all’età di 86 anni

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 17 novembre. La pubblichiamo online per i lettori di Corriere.it

Lo scorso 14 ottobre è morta Rosetta Cutolo, sorella del boss della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo, ‘o Professore. Proverò a raccontarvi non la vita, ma le vite di Rosetta Cutolo: ombra del fratello, mai sposata, fondamentale cinghia di trasmissione tra il capoclan detenuto e gli affiliati. E poi, nell’ultima fase della sua vita, donna arroccata a Ottaviano, sulle falde del Vesuvio, lì dove tutto è iniziato. Dalla miseria nera al potere smisurato, Rosetta Cutolo è simbolo di una incredibile contraddizione: vittima di un territorio misero, figlia di una classe sociale marchiata da analfabetismo e fame e, allo stesso tempo, plenipotenziaria detentrice di un impero criminale, fredda nel decidere di delinquere al fianco del fratello assassino.

SCOMPARSA IL 14 OTTOBRE SCORSO, MAI SPOSATA, È PASSATA DALLA MISERIA NERA A UN POTERE SMISURATO

Rosetta ha sostenuto un sistema criminale spietato e ha preteso di farlo in nome di un’idea di riscatto personale, finanche di giustizia sociale. Questa è stata Rosetta Cutolo, una donna minuta che passava la maggior parte del suo tempo divisa tra le preghiere e un potere mafioso spietato. Rosetta poteva essere, nella stessa giornata, una signora che elargiva denaro a famiglie in difficoltà al mattino, il pomeriggio decidere in maniera spietata una nuova condotta del clan e la sera comunicare a politici e figure imprenditoriali del territorio le indicazioni ricevute dal fratello. Ambasciatrice, boss, consigliera, beghina, nonna che gioca con sua nipote: tutto in un’unica vita. Rosetta ‘e Monaco, così era conosciuta, perché suo padre era proprio chiamato così: ‘o Monaco... e i soprannomi si ereditano.

NON È MAI STATA UNA GREGARIA CHE POI DIVENTA BOSS, MA L’ANIMA STESSA DELL’IMPRESA CAMORRISTICA. ROSETTA CUTOLO, MENTRE IL FRATELLO È IN CARCERE, LAVORA NEI SOTTOSCALA DOVE SI PRODUCONO A NERO I CAPI D’ABBIGLIAMENTO

Michele Cutolo era detto il monaco perché aveva una vita rigorosissima e religiosissima. Zappatore analfabeta, con la moglie ha trascorso l’intera esistenza a lavorare la terra: coltivavano zucchine e pomodori, curavano vigne. Lavoro, lavoro, lavoro. E allora come è stata possibile l’ascesa criminale? Come è stato possibile avviare l’affiliazione senza nulla da offrire in cambio a chi prometteva fedeltà a don Raffaele? Proprio grazie a Rosetta Cutolo, che avrà un ruolo fondamentale sin da subito. Non è una gregaria che poi diventa boss, ma l’anima stessa dell’impresa. Rosetta Cutolo, mentre il fratello è in carcere, lavora nei sottoscala dove si producono a nero i capi d’abbigliamento spesso poi piazzati sul mercato legale; una dinamica che racconto con dovizia di particolari in Gomorra. È abilissima Rosetta, una grande sarta. Suo fratello lo sa. Quando Raffaele inizia a costruire il primo nucleo della sua personalissima organizzazione, non ha denaro contante da dare ai neo affiliati, ma vestiti; quelli che Rosetta sottrae alla fabbrica dove lavora.

Costretta sin da adolescente a faticare 15 ore al giorno

Giacche, pantaloni, camicie che dà al fratello e che lui inizia a distribuire ai primissimi affiliati. Questa sottrazione è tollerata dal proprietario della fabbrica, Vincenzo Casillo detto ‘o Nirone che, in tutta la vicenda dei Cutolo e della NCO avrà un ruolo cruciale su cui tornerò. Ma come fa una donna, quasi analfabeta, costretta sin da adolescente a faticare 15 ore al giorno, a diventare una mente criminale così raffinata? Tutto inizia nel febbraio 1963, quando Raffaele Cutolo commette l’omicidio che lo fa trasformerà da contadino, figlio di contadini, in una delle figure criminali più potenti del mondo. È importante ricordare questo primo omicidio, realmente avvenuto ma avvolto nella leggenda, alimentata anche dal film capolavoro di Tornatore che racconta il potere cutoliano: Il camorrista. Si narra di un omicidio commesso proprio per proteggere Rosetta da una molestia sessuale. Raffaele e Rosetta Cutolo, fermi in strada con l’auto in panne sotto una pioggia scrosciante, iniziano a spingerla per accostarla al marciapiede quando dei ragazzi in un bar decidono di aiutarli. Uno di loro, mentre spinge l’auto tocca il sedere di Rosetta. Lei si gira di scatto e il ragazzo dice: «Che è, non ti è piaciuto?».

Dalla miseria a un potere smisurato

Leggenda vuole che Raffaele ammazzi quell’uomo spaccandogli letteralmente la testa sul cofano dell’auto. Le cose non sono andate così, questa è una forma di sintesi del film per raccontare il rapporto tra Cutolo e sua sorella Rosetta. Un rapporto talmente complesso che, solo per questa volta, mi prenderò la libertà di raccontarvi l’ascesa criminale di Raffaele e Rosetta in una sorta di seconda parte che mostrerà come, dalla miseria più profonda si arriva a un potere smisurato, il cui simbolo è il palazzo mediceo di Ottaviano, il più bel castello di tutto il vesuviano che Raffaele dona a sua sorella.

Dalla miseria della casa colonica al trono criminale, Rosetta dedita solo al fratello. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera venerdì 24 novembre 2023.

Seconda parte della riflessione dedicata alla figura di Rosetta Cutolo, sorella maggiore del capo della Nuova Camorra Organizzata si era da poco costituita. Lo scatto è stato realizzato l’8 febbraio 1993, quando si è costituita. La sua latitanza era cominciata dopo un blitz nel castello che Raffaele le aveva regalato

Domenica Rosa Cutolo, detta Rosetta, è nata a Ottaviano nel 1937 ed è morta nella stessa città metropolitana di Napoli lo scorso 14 ottobre. Questo scatto è stato fatto l’8 febbraio 1993, giorno del suo arresto

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 24 novembre. La pubblichiamo online insieme alla precedente puntata, del 17 novembre, per i lettori di Corriere.it

Raffaele Cutolo aveva comprato un’auto nuova con cui sfrecciare per le strade di Ottaviano. Una bambina gli attraversa la strada davanti precipitosamente rischiando di essere investita, lui inchioda, scende e la schiaffeggia. Il fratello della bambina è presente e inizia un violento alterco. Due persone provano a sedare gli animi, ma Cutolo infastidito torna in auto, prende la pistola con cui viaggiava e scarica 42 colpi. Muore Mario Viscito. Per questo omicidio Cutolo sarà condannato a 24 anni di carcere. È qui che ha inizio l’epopea cutoliana che nasce per un’intuizione: le organizzazioni criminali attive nella città di Napoli sono potenti e articolate, mentre i clan dell’entroterra non riescono a consorziarsi in una struttura riconoscibile. Si alleano e si disgregano, si combattono e si fondono ma al servizio di qualcun altro. Cutolo comprende che i clan della provincia devono fare un salto: ma come?

«CUTOLO NON UTILIZZA LA PAROLA “SISTEMA”, MA “CAMORRA” PERCHÉ NE CONOSCE LA PORTATA INTIMIDATORIA»

Torniamo a Rosetta, a cui Raffaele dà mandato di vendere il moggio di terra che Michele ‘o Monaco aveva ereditato in qualità di colono. Con i soldi racimolati, e fornendo i vestiti cuciti da Rosetta, Raffaele crea la prima cellula criminale di cui sua sorella è il braccio operativo. La Nuova Camorra Organizzata, la NCO, è il nome che Raffaele Cutolo utilizza per definire la sua organizzazione. In quegli anni e negli anni successivi la parola camorra non sarà mai spesa dagli affiliati perché considerata irreale; il termine con cui si descrive la pratica criminale è “sistema”.

Cutolo invece spende proprio la parola “camorra” perché ne conosce la portata intimidatoria. In più, al tempo, tutte le organizzazioni politiche armate usavano acronimi (BR, PL, NAR, NAP), quindi Cutolo decide che deve proprio essere un acronimo a definire l’insieme delle famiglie che si consorziano sotto il suo potere. Mai più le mafie seguiranno questa attitudine che è mediatica più che organizzativa. E Rosetta?

«LA LATITANZA DI ROSETTA ERA COMINCIATA DOPO UN BLITZ NEL CASTELLO DI OTTAVIANO, CHE RAFFAELE LE AVEVA REGALATO»

Esegue gli ordini di suo fratello avendo ormai deciso di dedicare a lui la sua intera esistenza. Da bambini dividevano il letto nella misera casa colonica di Ottaviano, adesso il trono criminale. Ma per un trono serve un castello, così Raffaele, che egemonizza ormai il contrabbando di sigarette e degli appalti, regala a Rosetta il palazzo mediceo di Ottaviano, il più bel castello di tutto il vesuviano. «Devi cambiare stanza ogni notte, così quando ti svegli vedi il sole da posizioni diverse», pare abbia detto a sua sorella. Ma è più leggenda che verità. Inizia la vita di Rosetta nel castello, assistita da una sorta di bodyguard e segretario, Francesco Violento. Fu proprio monitorando quest’ultimo che si scoprì un incontro che farà storia: il blitz del 1981.

LA PRIMA PUNTATA SU ROSETTA CUTOLO

I misteri di Rosetta Cutolo, brava sarta, beghina in chiesa e raffinata mente criminale di Roberto Saviano

Quando le forze dell’ordine irrompono nel castello di Ottaviano, trovano allo stesso tavolo santisti (membri della santa, organizzazione criminale nata dalla ‘ndrangheta), politici, un funzionario della DC e una sedia vuota, quella di Rosetta Cutolo che, avvertita, riesce a scappare. La sedia vuota, però, era a capotavola. L’unica donna presente era lei, ed era seduta nel posto più importante. Niente di simile era mai accaduto: che fosse una donna a gestire e comandare. Eppure non è un dettaglio, perché la gestione di Rosetta rende la NCO molto più vicina a come sarebbero state le organizzazioni criminali da quel momento in poi. Rosetta è particolarmente attenta che gli affiliati possano avere la mesata puntuale; se hanno figli disabili, che possano avere un aiuto ulteriore. Interviene personalmente anche quando le compagne di affiliati incinte non sono state sposate.

È ossessionata dal welfare, e su questo Rosetta guarda molto più avanti di suo fratello Raffaele. Era il “ministro del lavoro”, era “il ministro della famiglia” e, anche se non voleva, sappiamo essere stata anche “ministro della difesa”. Ma dal blitz la sua vita cambia: il castello sarà sequestrato e lei vivrà in latitanza fino a quando si consegnerà alle forze dell’ordine. È questa chiaramente una scelta di Raffaele, presa per salvarle la vita. Anzi, per salvare le tante vite che Rosetta ha vissuto prima di spegnersi, poco più di un mese fa.

Tra i segreti anche i rapporti con la Dc. Chi era Rosetta Cutolo, addio alla sorella del boss della Nco: dalla fuga ‘grazie’ a don Giuseppe al “fiore” ricevuto dagli uomini del professore. Redazione su Il Riformista il 14 Ottobre 2023 

Addio a Rosetta Cutolo, sorella maggiore del defunto boss della Nuova Camorra Organizzata Raffaele, morta all’età di 86 anni. All’anagrafe Domenica Rosa (nata il primo gennaio del 1937), per anni Rosetta Cutolo è stata la custode dei segreti e della cassa del fratello detenuto. Si è spenta ad Ottaviano dove ha sempre vissuto tranne una breve parentesi (sei anni) in carcere. I funerali pubblici, in programma domenica 15 ottobre presso la chiesa di San Michele, sono stati vietati dal questore di Napoli Maurizio Agricola per ragioni di ordine pubblico.

Più volte latitante, la donna si costituì nel 1993 per scontare una condanna definitiva a poco meno di 10 anni di carcere. Tornata libera nel 1999, da allora non si è mai spostata dalla sua casa di Ottaviano, dove si è occupata anche di accudire la nipote Aurora nata dall’inseminazione artificiale dopo il matrimonio in carcere tra l’ex boss ed Immacolata Iacone. Raffaele Cutolo è invece scomparso il 17 febbraio 2021. L’ex boss sanguinario della Nuova Camorra Organizzata, soprannominato ‘o professore dai suoi compagni di carcere perché l’unico capace di leggere e scrivere e che in galera ha scontato 57 dei suoi quasi 80 anni, era ricoverato nel reparto riservato ai detenuti dell’ospedale di Parma. Era recluso al 41bis nel carcere di massima sicurezza della città ducale. Al carcere duro era ristretto da oltre 25 anni.

COME E’ MORTA ROSETTA CUTOLO – Rosetta Cutolo, conosciuta anche come ‘Rosetta ‘e monache’ (Rosetta delle monache, ndr), era considerata dagli investigatori al vertice del clan. La donna era stata ricoverata in una clinica privata di Ottaviano alcuni giorni fa e ieri, venerdì 13 ottobre, le sue condizioni sono peggiorate. Fino a quando le condizioni di salute lo consentivano, la sorella del boss andava a messa ogni domenica.

“Una volta liberi, inviate un fiore a Rosetta“. L’ordine del boss non si discuteva e gli affiliati, appena scarcerati, non mancavano di farle arrivare denaro. Quei soldi servivano ad alimentare le casse del clan e ad assicurare assistenza legale e ‘mesate’ alle famiglie dei detenuti. Rosetta rispetto ai fratelli Raffaele e Pasquale, altro esponente di primo piano del clan fondato in carcere da ‘o professore, ha sempre vissuto nell’ombra della criminalità organizzata, lontano dai riflettori e dalla vita mondana. Nella sua lunga vita, oltre alla modesta abitazione della famiglia, ha dimorato anche in un castello, quello mediceo, ma sempre ad Ottaviano, acquistato dal boss per farne la residenza di famiglia e ora acquisito al patrimonio del Comune. Da quel castello fuggì nel 1981 per sottrarsi ad una misura cautelare in carcere nel bel mezzo di un vertice proprio tra le varie cosche, al quale si disse che partecipasse anche un esponente della DC. Ad aiutarla anche don Giuseppe Romano il prete suo confessore. Si costituì nel 1993 dopo una lunga latitanza e nel 1999, prima di tornare in libertà, con le altre detenute del carcere di Sollicciano, recitò anche in Filumena Marturano di Eduardo De Filippo al Teatro della Pergola, interpretando il ruolo della protagonista.

Giampiero Marrazzo, giornalista e figlio di Joe, storico reporter della Rai che scrisse il libro “Il camorrista” che ispirò Giuseppe Tornatore nell’omonimo film, sostiene che con la sua morte “Rosetta Cutolo si porta nella tomba tutti quei segreti inconfessabili che decise di non rivelare. Si ispirò al fratello che non si pentì mai, e salvò molti anche tra i potenti che ebbero contatti con la loro Nuova Camorra Organizzata’. Quando mio padre Joe per primo riuscì a intervistarla – continua il giornalista intervistato dall’Adnkronos – mentì sul ruolo di Raffaele, che definì uomo caritatevole, attento a chi cercava lavoro, ai carcerati loro affiliati, senza attribuirgli minimamente quell’accezione criminale che lo portò in pochi anni ai vertici della Camorra, seminando paura e morti. Le responsabilità di Rosetta furono molte, forse anche più di quelle acclarate – conclude Marrazzo – chissà cosa avrebbe potuto dire se avesse parlato”. Segreti a partire da quando Cutolo aiutò i servizi deviati dello Stato a trattare con le Brigate Rosse per la liberazione dell’allora assessore regionale Ciro Cirillo, poi realmente avvenuta nel 1981.

Guappo, genio, spietato. Storia di Raffaele Cutolo: ascesa e caduta del più grande boss napoletano. David Romoli su Il Riformista il 19 Febbraio 2021 

Mercoledì sera, annunciando la morte di Raffaele Cutolo, un tempo potentissimo capo della Nuova Camorra Organizzata, un telegiornale ha detto che l’ex boss era anziano, 79 anni, e molto malato, tuttavia ancora estremamente pericoloso. Non è così: don Rafele era un vecchio amareggiato e deluso dallo stesso mondo che aveva creato, era isolato, ridotto da mesi allo stremo, senza più alcun potere. E’ rimasto in carcere invece di morire a casa solo per il nome e l’eco del passato.

Era il fantasma di se stesso e qualsiasi giustizia gli avrebbe concesso il permesso di morire fuori dal carcere, dopo aver passato l’intera vita tra quelle mura. Dal 1963 Cutolo è stato libero, una volta per decorrenza termini seguita da una breve latitanza, l’altra dopo un’evasione nel febbraio 1978 fino alla cattura nel maggio 1979, meno di tre anni. Sui documenti di Cutolo la data di nascita è 10 dicembre 1941. Errore dell’anagrafe. Il futuro boss era nato oltre un mese prima, il 4 novembre, a Ottaviano, figlio di un uomo di rispetto, Giuseppe Cutolo, don Peppe ‘e Monaco, un contadino che aveva fatto qualche soldo, tanti comunque da poter diventare creditore dei signorotti del luogo, i principi Lancellotti, il cui castello lo stesso don Rafele avrebbe poi comprato nel 1980.

Futuro capo di un’organizzazione nella quale affluirono negli anni ‘80 migliaia di giovani poverissimi, sottoproletari senza altro orizzonte che il crimine, Cutolo non era della stessa pasta. Era un lettore avido, conosceva a menadito la storia dell’antica camorra napoletana e quella della sua Regione, aveva studiato i libri dell’antropologo Abele De Blasio sulla cultura e i riti di quella camorra ottocentesca. Finì in carcere per un omicidio assurdo, dettato dalle regole della guapparia. Una passeggiata al centro d’Ottaviano di quello che era allora solo un giovane autonoleggiatore, con la sorella e futura alter ego nella NCO Rosetta, di 4 anni più grande. Un altro giovane con la macchina ferma per un banale incidente che azzarda un commento greve. La questione d’onore che impone la rissa e l’altro giovane, Mario Viscito, anche lui di Ottaviano, stessa età del suo uccisore, ci rimette la pelle.

L’omicidio viene punito con la condanna all’ergastolo più 12 anni di carcere, pena ridotta a 24 anni in appello. Per 7 anni, prima della breve scarcerazione per decorrenza termini nel 1970, l’ex autonoleggiatore continua a coltivare il sogno di resuscitare la camorra del passato. In carcere impara i riti della delinquenza, dà prova di coraggio sfidando il più potente tra i camorristi dell’epoca, Antonio Spavone, ‘o Malommo. Il boss manco si degna di accettare la sfida ma Cutolo inizia a emergere, diventa ‘o Professore. La svolta arriva nei mesi di libertà del 1970. Cutolo e l’amico Pasquale Barra, futuro killer delle carceri e poi pentito. Incontrano i capi delle ‘ndrine calabresi che suggeriscono di dar vita a una vera struttura criminale organizzata, come quelle della ‘ndrangheta e di Cosa nostra. La suggestione si concretizzerà una volta rientrato a Poggioreale, il 24 ottobre 1970.

Cutolo aveva a modo suo una visione. Non mirava solo a organizzare un’associazione criminale. Sommava la suggestione dei riti camorristi del passato con una confusa ideologia sottoproletaria e campana e con una struttura organizzativa all’epoca del tutto sconosciuta nella Camorra, in parte derivata dai modelli di gruppi armati politici.

La struttura della NCO era piramidale. Al vertice ‘o Professore, poi i suoi vice, uno fuori e uno dentro il carcere, i Santisti, nome ripreso dalla ‘ndrangheta, detta anche Santa, i capizona, tra cui Rosetta Cutolo, e la truppa, i Cumparielli, le Batterie di fuoco. La NCO di Cutolo non offriva ai suoi affiliati solo guadagni ma un senso di appartenenza e di potere. La base del potere di Cutolo erano le carceri, dove i suoi killler dettavano legge. Nel momento di massimo fulgore, la NCO raccoglieva oltre 2000 aderenti e sancì per la prima volta l’egemonia della cintura intorno a Napoli sulla camorra della città.

Nei primi anni ‘80, e soprattutto dopo il terremoto, la NCO estese il suo controllo su tutte le attività della malavita a Napoli. Cutolo trattava da pari a pari con Cosa Nostra, legato soprattutto alle vecchie famiglie destinate a essere distrutte dai corloenesi, con la Sacra Corona pugliese, che era quasi una filiazione della NCO, con le ‘ndrine ma anche con Cosa Nostra americana. Cutolo ebbe un ruolo centrale nell’organizzare la trattativa con le Br che portò nell’81 alla liberazione di Ciro Cirillo, esponente della Dc campana rapito dalle Brigate rosse. Tre anni prima lo Stato lo aveva contattato, come fece con altri leader della criminalità organizzata, chiedendo il suo aiuto per rintracciare Aldo Moro. ‘O Professore cercò di mettere sotto controllo l’intera camorra napoletana. Chiese un pizzo su ogni cassa di sigarette di contrabbando scaricata al porto. I suoi sicari chiedevano ai camorristi di aderire alla camorra cutoliana e, in caso di rifiuto, li uccidevano e ne uccidevano i parenti.

I gruppi attaccati si unificarono nella Nuova Famiglia. La guerra di camorra seminò morti a centinaia per le strade di Napoli. La notte del terremoto, 23 novembre 1980, le guardie carcerarie aprirono le celle di Poggioreale per evitare che i detenuti rischiassero di finir sepolti. I sicari di Cutolo ne approfittarono per assaltare i rivali e massacrarli. Alla fine Cutolo perse la guerra con la Nuova Famiglia, anche perché le inchieste avevano smantellato la sua organizzazione e i pentiti, tra cui lo stesso Pasquale Barra amico d’infanzia, santista e primo tra i suoi killer in carcere, avevano dato il colpo di grazia. Cutolo ha avuto tre figli. Il primo nato da una relazione finita prima

che entrasse in carcere nel 1963 è stato ucciso nel 1990. Poi una figlia nata dalla relazione con una donna tunisina conosciuta dopo l’evasione del 1978 e infine la figlia avuta con inseminazione artificiale da Immacolata Jacone, sua moglie, sposata nel 1983 e mai incontrata fuori dal carcere.

Cutolo è stato un uomo pericoloso e feroce. Ma quando è morto, ucciso dalle conseguenze di una polmonite bilaterale probabilmente da Covid, non lo era più da un pezzo. Il suo sogno fosco era crollato seppellendolo. “Siamo una razza d’infami che, guarda caso, si pentono appena gli scattano le manette. Credetemi, è molto meglio andare a lavorare per un solo tozzo di pane che arruolarvi nelle organizzazioni”. Che don Rafele non costituisse più un pericolo in realtà lo sapevano tutti. Lo hanno lasciato in carcere anche quando era ormai solo una larva perché, come recitano le stesse sentenze, era “un simbolo”. David Romoli

Sono fantasmi sconfitti che dovremmo perdonare. L’unghia di Cutolo e il sogno d’emancipazione affogato in carcere: solo pietà per essere migliori. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 19 Maggio 2020 

Ciò che ognuno di noi è realmente, la personalità (o le tante) che ci guida, si annida nei particolari. Tic, vezzi, balbuzie, segnali a volte vistosi, a volte minuzie. Certo, solo i professionisti possono coglierne il senso, trarne conclusioni. C’è un video in cui Raffaele Cutolo rende dichiarazioni spontanee in corte d’assise, non è tanto recente, per cui l’imputato parla di presenza, addirittura esce dalla gabbia, si siede davanti alla corte, a mani libere. Cutolo parla delle dichiarazioni di Giovanni Pandico, anche lui presente in aula.

Sembra una gag famosa di Totò: il pazzo che cerca di convincere il medico che il pazzo sia un altro. Il presidente lascia parlare l’imputato, e quando Cutolo si sente di soverchiare dialetticamente il giudice, il suo tono, da bonario diventa arrogante, cattivo. La follia di Pandico risiederebbe nell’avergli chiesto una ciocca di capelli e un pezzo d’unghia del mignolo, feticci di un uomo che il futuro avrebbe trattato da grande. “Pandico faceva paura agli altri carcerati, sapeva fare citazioni in latino, girava con un’agenda e si sentiva il direttore del carcere”.

Cutolo è sicuro di aver dimostrato la pazzia del suo accusatore, di dominare la scena. “Ma lei gli ha dato un po’ dei suoi capelli, un pezzo d’unghia, ha acconsentito che il Pandico scrivesse la sua biografia”, lo fulmina il presidente. Cutolo raccoglie le spalle a guscio, annaspa e torna a usare il tono bonario. Cutolo e Pandico hanno inizi criminali simili: una terribile reazione a quella che ritenevano un’offesa imperdonabile, una parola di troppo alla sorella per uno, un eccesso di zelo di un impiegato per l’altro. Cutolo ammazza un uomo che fa un apprezzamento a Rosetta, Pandico spara all’impazzata nel Comune, uccide un vigile, perché gli fanno troppe domande per rilasciargli un documento. I due si conoscono in carcere, fanno un percorso nei manicomi giudiziari. Cutolo negli anni realizza un sogno orribile e folle: atterrare la camorra vera, tradizionale. Fonda una sua organizzazione mettendoci dentro i rifiutati e gli offesi della mafia dei Bardellino, dei Nuvoletta, degli Alfieri: scarti di crimine.

È il padrone delle carceri, e davvero per qualche anno impera nella malavita. Il suo è un regno di sangue. Ma lui era già tutto dentro la lunghezza spropositata dell’unghia del suo dito mignolo, stava infisso nelle cellule morte che corrono nello spazio e poi si incurvano, si fermano, perché la fuga è impossibile. L’unghia del mignolo nelle culture rurali era il simbolo dell’emancipazione dal bisogno: chi lavora la terra deve avere unghie cortissime perché non gli siano d’impedimento. Chi ha unghie lunghe non fa lavori manuali.

L’unghia di Cutolo era il suo sogno d’emancipazione, finito nel sangue, affogato nel carcere. De Andrè rispose male ai suoi ringraziamenti per la canzone Don Raffaè, negò che fosse riferita a lui. E Cutolo che aveva solo una follia da raccontare non aveva altro aedo a cui affidarla se non il compagno di manicomi giudiziari, Giovanni Pandico. C’è una foto bellissima del carcere di Reggio Calabria, mostra un passeggio sul cui muro è disegnato un arcobaleno, sopra c’è una rete di copertura: dentro ci sono rimasti incastrati tre palloni.

Pedate troppo forti li hanno mandati fuori dal gioco, per sempre, ma non sono state abbastanza forti per mandarli oltre il muro, in un altro gioco. Quei palloni, da lontano, sembrano gonfi e turgidi, ancora nuovi. Se ricadono a terra si afflosciano al suolo, se gli si dà un calcio rimangono infilzati nel piede. Se si buttano fuori dal muro non potranno più animare nessun gioco. Bisognerebbe portarli in un angolo sicuro per consentirgli di esalare l’ultima aria avvelenata, per gli altri e anche per loro. Per quei palloni e per i vecchi arnesi del male come Cutolo bisogna trovare un posto al riparo dagli altri. Sono solo fantasmi su cui, dopo averli sconfitti, si dovrebbe esercitare solo la pietà. Ne uscirebbero rafforzati lo Stato, la società, i sentimenti, sarebbe davvero la prova di essere diversi e migliori.

Gioacchino Criaco. E' uno scrittore italiano, autore di Anime nere libro da cui è stato tratto l'omonimo film.

Allettato da giugno in ospedale, nessun colloquio straordinario: "E' morto col 41bis". Gli ultimi mesi di vita di Raffaele Cutolo: “Moglie e figlia non potevano nemmeno toccarlo, una barbarie”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 18 Febbraio 2021 

Quando la moglie Immacolata Iacone e la figlia Denise sono andati a trovarlo nei sette mesi di ricovero all’ospedale di Parma, Raffaele Cutolo non poteva essere nemmeno toccato.

“Non poteva sentire il calore della sua famiglia neanche in punto di morte. Gli incontri erano presidiati dagli agenti penitenziari e tra l’ex boss allettato e le sue due donne c’erano delle sedie per impedire qualsiasi tipo di contatto”. A parlare al Riformista è Gaetano Aufiero, avvocato storico, insieme al collega Paolo Trofino, dell’ex capo e fondatore della Nuova Camorra Organizzata morto nella serata del 17 febbraio all’età di 79 anni di cui ben 57 trascorsi dietro le sbarre e gli ultimi 25 al carcere duro.

Cutolo era malato da tempo ma nonostante le denunce di legali e familiari non è cambiato nulla. Era il detenuto al 41bis più anziano. Ristretto nel carcere di massima sicurezza di Parma, è morto per le complicazioni legate ad una polmonite bilaterale a cui si è associata una setticemia del cavo orale.

Cutolo è morto anche per Covid?

“Questo non lo so, ho parlato solo con la polizia penitenziaria ma conoscendo la serietà e la grande umanità dei medici dell’ospedale di Parma non metto in dubbio quello che è emerso. Sicuramente è morto col 41bis”.

Le sue condizioni si sono aggravate nell’ultimo mese, nessun familiare è riuscito a vederlo?

“Cutolo è morto da solo in ospedale senza potere avere la moglie e la figlia vicino: nessun colloquio straordinario è stato autorizzato in questi mesi. Li avevo chiesti da luglio ma le istanze, che dovevano essere autorizzate direttamente dal ministro della Giustizia Bonafede, non sono mai state prese in considerazione”.

Moglie e figlia quando l’hanno visto l’ultima volta?

“Una ventina di giorni fa, a metà gennaio. Lui in quella occasione ha riconosciuto solo la figlia ma non riusciva a interloquire con lei”.

Lei invece?

“A fine agosto, credo il 30 o il 31, e non mi riconobbe. Pesava intorno ai 40 chili, secondo la moglie anche di meno. Poi non sono più andato a trovarlo perché francamente era inutile”.

Cosa ha pensato lo scorso ottobre quando il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha respinto, a un anno esatto dalla presentazione, l’ultima istanza contro 41bis?

“Invocai rispetto dopo la sentenza della Corte Europea dei diritti umani che condannò l’Italia perché decise di continuare ad applicare il regime di carcere duro a Bernardo Provenzano. I giudici nelle motivazioni dissero che Cutolo non poteva essere paragonato al boss siciliano perché quest’ultimo era un vegetale… Commentate voi”.

Cosa può insegnare questo accanimento contro un boss sanguinario che resta pur sempre un essere umano?

“Non insegna nulla, mai vista una barbarie del genere, non capisco magistrati e politici inermi di fronte a tanta inciviltà e brutalità. Come si fa a tenere al 41bis un uomo che non sapeva nemmeno in che giorno dell’anno vivesse, in che città si trovasse. Una visone distorta della giustizia e della legge”.

Perché non c’è mai stata alcuna apertura?

“Togliere il 41bis a Cutolo equivaleva ammainare bandiera anticamorra. Invece la lotta alla camorra deve andare avanti a prescindere, ma anche la dignità di una persona, e quindi un detenuto, va rispettata. Lui è stato per 40 anni in isolamento. Ci rendiamo conto?”.

Lei ha presentato istanza contro il 41bis solo negli ultimi anni. Come mai?

“Cutolo non chiedeva sconti, non si aspettava nulla. Nessun vittimismo, nessuna pietas, chiedeva solo di poter vedere la figlia anche dopo i 12 anni d’età. Fino a quando era ancora lucido, e stiamo parlando di tre-quattro anni fa, ho rispettato questa sua volontà. Ma nell’ultimo periodo ho impugnato il carcere perché non era umano quel regime: lui da solo non riusciva a fare più niente. Non parlava, non mangiava, non riconosceva le persone”.

Da quanto tempo era in ospedale?

“Da giugno. La moglie e la figlia quella volta al mese che gli facevano visita non potevano toccarlo, non potevano dargli la mano. Tra loro e Cutolo c’erano sedie utilizzate come divisori”.

Cosa pensa del 41bis?

“Che è disumano, ci sono alcune norme surreali. Cutolo viveva in una cella di 4-5 metri quadri. L’ora d’aria non la faceva perché che senso ha camminare in un corridoio lungo e stretto con pareti altissime? Nemmeno la sua raccolta di poesie, pubblicata qualche tempo fa, poteva avere. Quando andai ad aprile 2019 a fargli visita non era autorizzata la consegna. Ci rendiamo conto?”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Catello Romano.

Catello Romano, l'ex killer di camorra si laurea con una tesi sulla "Fascinazione criminale". E confessa due omicidi. Giovanni Santaniello su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2023. 

Detenuto, 33 anni, due condanne già definitive e altre accuse pendenti di cui parla nella tesi: il lavoro di laurea, discussa nel carcere di Catanzaro, è stato acquisito dall'Antimafia. La mamma: «Alla seduta ho ritrovato il vero Catello» 

Catello Romano ha 33 anni, cinque accuse di omicidio, di cui due già tramutate in pene definitive, quattordici anni di cella già alle spalle e almeno un’altra decina da scontare. E da ieri pomeriggio ha anche una laurea in Sociologia, con una tesi sulla “Fascinazione criminale”, conseguita con 110 e lode più menzione accademica nel carcere di Catanzaro dove si trova recluso. Un lavoro che è stato anche acquisito dall’Antimafia: nelle pagine, infatti, Romano ha definitivamente confessato il suo coinvolgimento anche in altri due omicidi di camorra, mentre per un altro ancora per il quale è imputato continua a dichiararsi estraneo.

La storia

E' stato uno dei più feroci baby killer della camorra ma da ragazzo, quando viveva a Castellammare di Stabia, niente faceva pensare che avrebbe preso questa strada. Il suo destino sembrava quello di un ragazzo come tanti, figlio una famiglia borghese che abitava nel centro cittadino, lontano dal degrado della periferia e lontano soprattutto da Scanzano, il quartiere bunker del clan che da decenni soffoca la sua città: quello dei D’Alessandro. Da bambino diceva a familiari e amici che da grande avrebbe fatto il poliziotto. Si anche è diplomato in Ragioneria con buoni voti ma poi la separazione dei genitori avrebbe iniziato a minare la sua stabilità, come racconta lui stesso nella tesi di laurea. Ma a fargli cambiare strada sarebbe stata anche la visione del film “Il camorrista”, quello che racconta la storia di Raffaele Cutolo prendendo spunto dal libro di Joe Marrazzo. Il professore che gli ha fatto da relatore, Charlie Barnao, ha spiegato che l’ipotesi alla base della sua tesi è che «il crimine esercita una profonda fascinazione» nei confronti dei giovani, arrivando talvolta a «sostituire la famiglia d’origine». 

L'omicidio del consigliere comunale

«Nel mio caso – si legge nella tesi di Romano – lo spazio interiore è stato occupato prima da ‘o professore, cioè da Raffaele Cutolo come era raccontato nel film, poi da Renato Cavaliere, il mio compare di malavita», anche lui condannato per uno degli omicidi che hanno visto protagonista Romano: quello, nel 2009, di un consigliere comunale di Castellammare, Gino Tommasino.

La mamma: ho ritrovato il vero Catello

Ieri, alla seduta di laurea del figlio Catello, era presente anche la mamma Annamaria: «Dopo tante sofferenze – ha detto – è stata un’esperienza molto importante per la mia vita. Mentre discuteva la tesi davanti alla commissione, ho ritrovato il vero Catello. Certo, ha sbagliato. Ma ora sta pagando per quello che ha fatto. E Dio, almeno per un giorno, me l’ha riportato davvero in vita». 

La conversione all'Islam

Francesco Schettino, il suo avvocato, racconta che in carcere, fin da quando, a 19 anni, ci ha messo piede, è sempre stato rispettoso delle regole. «Al 41 bis, a Novara, è stato il primo detenuto italiano a farsi assistere da un monaco buddista. Ora, invece, si è convertito all’Islam. Tant’è che alla discussione della tesi è stato presente anche l’imam di Milano Yahya Pallavicini con il quale in questi anni ha intrattenuto un rapporto costante. Ha avuto una media del 29,5 per gli esami e ora la sua tesi, che fa molto riferimento alla sua vicenda personale, ha la possibilità di essere pubblicata anche sotto forma di un libro».

Camorrista scrive la tesi di laurea e confessa tre omicidi. Catello Romano, una condanna definitiva, si è laureato in sociologia dal carcere di Catanzaro. La tesi, in cui confessa altri crimini, è stata acquisita dall'Antimafia. Guglielmo Calvi il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Si chiama Catello Romano, ha 33 anni, e si è laureato in sociologia con una tesi intitolata Fascinazione Criminale. La sua tesi non è passata inosservata e ha suscitato un certo clamore. Perché? Catello Romano non è infatti uno studente qualsiasi, ma un killer di Camorra e nel suo elaborato ha confessato di aver ammazzato tre persone. Romano è accusato di cinque omicidi, di cui uno solo accertato, avvenuto il 3 febbraio 2009 e in cui ha perso la vita Gino Tommasino, consigliere comunale di Castellammare di Stabia. Per questo omicidio, Romano è stato condannato a 30 anni di carcere, di cui 14 già scontati nel penitenziario di Catanzaro. La laurea è stata conseguita con 110 e lode e la tesi è già stata acquisita dalla Direzione Investigativa Antimafia. La confessione di Romano riguarda tre omicidi in cui sono stati uccisi Carmine D'Antuono e Federico Donnarumma, il 28 ottobre 2008 a Gragnano, e Nunzio Mascolo, il 5 dicembre 2008. Per quanto riguarda il quinto delitto di cui è accusato, Romano continua a dichiararsi innocente.

Romano è nato in una famiglia borghese, a Castellammare di Stabia, e ha sempre vissuto nel centro della sua città natìa, lontano da Scanzano, il quartiere bunker del clan D’Alessandro, che da sempre spadroneggia a Castellammare. Come racconta il Corriere, Romano, da bambino, sognava di fare il poliziotto e durante gli studi è sempre stato un allievo prodigio. A fargli cambiare strada, sarebbe stata la visione del film Il camorrista, incentrato sulla storia di Raffaele Cutolo, fondatore della Nuova Camorra organizzata, spiegando nella tesi che “il crimine esercita una profonda fascinazione nei confronti dei giovani” al punto da poter “sostituire la famiglia d’origine”. Per questi motivi, Romano si sarebbe avvicinato al clan D’Alessandro.

Ai tempi dell’omicidio di Gino Tommasino, Romano era un fedelissimo di Renato Cavaliere, affiliato al clan D’Alessandro. Il killer, nel momento in cui bisognava aprire il fuoco contro il consigliere, ha cercato di dissuadere i sicari che erano con lui, dato che Tommasino era in compagnia di suo figlio adolescente. Renato Cavaliere, anni dopo l’agguato, racconterà che Tommasino "fu ucciso poche ore prima di un appuntamento che aveva con due imprenditori per l'affare parcheggi. Stava facendo troppi soldi e non voleva dare niente alla camorra stabiese". Nel 2009, Romano è stato arrestato per l’omicidio del consigliere comunale e aveva manifestato, sin da subito, la volontà di collaborare e, in quell’occasione, aveva confessato gli omicidi di Donnarumma, D'Antuono e Mascolo salvo poi cambiare idea poco dopo e fuggire, calandosi da una finestra dell'albergo in cui pernottava a Brindisi. L’allora 19enne era stato arrestato una seconda volta, ma non voleva più collaborare con la giustizia.

Con la tesi di laurea, Tommasino ha fatto riferimento ai tre delitti, scrivendo così: "Ho creduto di mettere in atto, attraverso questo lavoro almeno in una certa misura, un'opera di verità e riparazione, non oso dire giustizia, nei confronti di chi è stato direttamente colpito dal mio agito deviante, rivelando fatti e circostanze che, ancora oggi, a distanza di tantissimi anni, non hanno mai avuto un seguito giudiziario e, dunque, di appuramento di mie responsabilità penali davanti a un regolare tribunale". Riguardo all'agguato a Carmine D'Antuono e Federico Donnarumma, Romano lo ha definito l'evento più violento e traumatico della sua vita.

Giancarlo Siani.

L'anniversario della scomparsa. 38 anni fa l’omicidio di Giancarlo Siani, un ragazzo normale e la storia di un riscatto. Il 23 settembre 1985 fu ucciso dalla camorra ad appena 26 anni. Anche oggi, come allora, c’è bisogno di persone comuni che facciano del coraggio e dell’onestà la loro normalità. Roberto Cociancich su Il Riformista il 23 Settembre 2023 

Bang, bang! Il 23 settembre 1985 Giancarlo Siani, un giovane cronista de Il Mattino, veniva crivellato di colpi mentre parcheggiava la Mehari nel cortile sotto casa sua. Guardiamo quel cortile, quel condominio, le persone che ci abitavano, i loro volti, le loro storie, i loro sentimenti. La famiglia del custode ammucchiata in pochi metri quadrati, le famiglie ricche del settimo piano con appartamenti signorili e vista panoramica sulla città. Osserviamo Mimì, un ragazzino di dodici anni con uno struggente desiderio di fare della sua una vita coraggiosa come quella degli eroi che non hanno “paura di combattere la criminalità per migliorare le cose”. Mimì, figlio del custode, è uno che non si rassegna alla mediocrità fatta di giornate passate a bighellonare, rotocalchi che parlano di calcio o di gossip, insulse trasmissioni televisive e non si adatta all’atteggiamento di coloro che gli stanno intorno e che gli dicono “c’è bisogno di eroi, è vero, purché non abitino nel nostro palazzo”.

Il punto è che siamo a Napoli, la città sembra interessarsi solo dell’arrivo di Maradona. Della Camorra meglio non parlare e quel Giancarlo Siani cosa va a mettersi nei pasticci coi suoi articoli che parlano di cose che sarebbe meglio tacere, delle attività dei fratelli Nuvoletta, del boss Gionta, del Clan dei Bardellino. L’omertà si nutre di ignoranza, opportunismo e paura. Mimì invece legge forsennatamente tutti i libri che trova, enciclopedie, studia, impara a sognare un mondo diverso, usa un linguaggio ricercato, coltiva sentimenti di amicizia e di amore puro. Per questo è deriso, anche emarginato, incompreso dai suoi stessi familiari.

Il romanzo di Lorenzo Marone, vincitore di numerosi premi letterari, apre ampi squarci sulla vita di Napoli negli anni ’80, i suoi splendori e le sue bassezze, il paradosso di una città che può vantare uno dei patrimoni artistici più importanti al mondo, una cultura raffinata e millenaria e al tempo stesso una miserevole trasandatezza intellettuale di molti suoi abitanti. “Un ragazzo normale” è quindi anche la storia di un riscatto, di uno sguardo sul futuro individuale e collettivo visto dagli occhi ingenui e puri di un ragazzino che riconosce in Giancarlo Siani quel modello elevato di vita a cui aspira e che lui chiama eroe. Ma Siani non è d’accordo. “Parli sempre di superpoteri… La lettura e la scrittura sono i poteri più potenti di cui disponiamo, ci ampliano la mente, ci fanno crescere, ci migliorano, a volte ci illuminano e ci fanno prendere nuove strade, ci permettono di cambiare idea, ci danno il coraggio di fare ciò che desideriamo. Il più grande potere a disposizione dell’uomo, caro Mimì, quello che ci rende davvero grandi e liberi è la cultura. E tu dovresti saperlo”. Qui sta il nocciolo della questione. Per contrastare la mafia, la camorra non bastano la repressione, la polizia per le strade, le pene da aumentare perché il terreno sul quale la criminalità prospera è nell’intimità degli uomini, nella debolezza delle loro coscienze, nel conformismo di chi piega la testa, volge via lo sguardo, delega gli altri a fare ciò che è necessario per cambiare.

A volte però basta il coraggio di uno, il suo sacrificio come il sacrificio della vita di Giancarlo Siani, per rimettere in moto un meccanismo sociale che sembra bloccato. “Le cose Mimì, possono cambiarle solo gli uomini. Il male viene dagli uomini e solo gli uomini possono combatterlo. Più che di eroi, c’è bisogno di gente che ci creda, persone che aspirino a cambiare le cose in meglio. Gli ideali Mimì, i grandi ideali hanno trasformato il mondo non i super poteri”. Sarà questo il lascito morale, l’insegnamento di vita che Giancarlo lascerà al suo giovanissimo amico, un insegnamento capace di iniettare fiducia e coraggio anche per le scelte personali, quella di dichiarare il suo amore a Viola, la ragazza più bella del mondo che abita per l’appunto al settimo piano, quella di prendere le distanze da Sasà, l’amico del cuore avviato verso la strada della piccola delinquenza, quella di affrontare i pregiudizi e le ottusità della sua famiglia così ricca di umanità ma così povera di idee. Il sacrificio di Giancarlo Siani ha molto da insegnare a tutti noi. A quasi quarant’anni da quel tragico settembre la nostra società non è molto diversa da quella di Napoli degli anni ’80. Anche noi abbiamo bisogno non di eroi, ma di essere persone comuni che facciano del coraggio e dell’onestà la loro normalità. Roberto Cociancich

Napoli.

Lettera alla Posta di Natalia Aspesi  - Il Venerdì di Repubblica domenica 27 agosto 2023.

Mi piacerebbe affrontare qualche argomento di massima importanza con la minima quantità di parole. Per esempio che la mia vita matrimoniale dura da più di vent'anni e sono io il primo ad esserne stupito. Ma se lei conoscesse mia moglie non si stupirebbe più di tanto. La nostra vita dunque scorre tranquilla anche senza figli.

Purtroppo abbiamo dovuto cambiare città e siamo capitati all'inferno. Non faccio nomi ma questa cittadina ovvero paesone vesuviano è il classico paradiso abitato dai diavoli, dove l'unica legge vincente è che non ci sono leggi. La casa dove abitiamo è bellissima e si vede un giusto pezzo di mare che dovrebbe rallegrarmi, e invece mi rattrista per il rumore, la confusione, la sporcizia in cui mi affaccio e cammino ogni giorno. La notte dobbiamo chiudere le finestre e rinunciare a quella bellissima brezza marina che solo chi ama il mare sa apprezzare. 

Una città come questa, che continuo a non nominare, potrebbe essere importante come le limitrofe Sorrento o Pompei, dove ho sempre abitato. E invece è inappetibile da ogni punto di vista, a cominciare dal turismo. Per farle capire, qui vive la stessa popolazione dei vicoli di Napoli, cioè gente senza né arte né parte, che riesce solo a dare fastidio al prossimo con tutti i mezzi possibili, a partire da una quantità e qualità impressionante di motorini e motociclette che rombano sino alle tre di notte facendoti letteralmente saltare dal letto.  

Basta così, il mio era solo uno sfogo. E se lei (ma non vedo perché) volesse pubblicarlo, so che chi vuol sapere di quale città si tratta, dovrebbe innanzitutto capire che è ora di muoversi e togliere le mani della camorra dalla città.

Certo vorremmo saperlo anche noi. Esclusa Pompei e Sorrento, che lei giustamente ci suggerisce, quale sarà l'orribile luogo ("un paesone vesuviano") che solo qualche eroe ci farà conoscere senza risvegliare la camorra?  

Comunque lei, con la sua bella e amabile signora vorrebbe che anche gli altri sapessero cosa vuol dire abitare in una bella casa, subendo però la condanna di trovarsi in un luogo dolce, meraviglioso e incivile; ma soprattutto, adesso, mi pare che l'idea di uscirne sia un po' azzardata. 

Lì c'è da sempre la camorra, la ricchissima e vincente camorra, e non vedo nei nuovi potenti il desiderio che le cose cambino. Può darsi che la camorra, del turismo, non sappia che farsene, ma chissà, potrebbero anche pensarci, non si sa mai. Qualche sparatoria in giro e poi si vedrà.

Estratto dell'articolo di Dario Del Porto per “la Repubblica” lunedì 31 luglio 2023.

Certi bambini crescono in mezzo alle pistole. [...]sono le carte delle inchieste di camorra a raccontare che, a Napoli e nella sua area metropolitana, troppo spesso anche i più piccoli si ritrovano, loro malgrado, al centro di pericolosi giochi criminali. «Non dobbiamo meravigliarci, purtroppo — avverte Cesare Moreno, presidente del progetto dei “Maestri di strada” — perché accade quotidianamente. Chi appartiene a una famiglia malavitosa finisce per vedere armi tutti i giorni e quasi si convince che facciano parte dell’arredo».

Ad Acerra, diciotto mesi fa, le microspie piazzate nell’abitazione di un affiliato a uno dei clan della zona captano questa scena: un bimbo di 7 anni seduto sulle ginocchia del padre. Il genitore sfoglia un giornale e scherza con il figlio. Indica una foto e gli chiede: «Questo chi è?». E poi un altro. Il bambino li riconosce entrambi chiamandoli per nome. Ma quelli fotografati in prima pagina non sono calciatori, né personaggi dello spettacolo, bensì gli arrestati in un blitz antimafia. 

Ancora più scioccante è ciò che accade qualche mese prima, quando quello stesso bambino torna a casa e racconta alla madre di aver visto un arsenale in casa del nonno: «Stavano con le pistole, stavano caricando, Tre, quattro, cinque pistole. Un caricatore pieno di botte. Se lo potevo fare veramente, mi rubavo la pistola È ancora troppo piccolo, dunque parla senza preoccuparsi del fatto che, in quel momento, sono presenti anche altre due persone, estranee al nucleo familiare.

La madre si preoccupa soprattutto per questo e prova a cambiare discorso. Il bambino però insiste: «Mamma, io adesso sono entrato, nel salone... le stavano a caricare». La donna a quel punto lo rimprovera: «Ti credo ma devi stare zitto». Poi rincara la dose: «Ti faccio andare in carcere a te, mica vado io. Ti faccio portare in collegio». 

Poco dopo, il bimbo ricostruisce l’accaduto anche al padre: «E allora, vado dentro dal nonno. Ci sta quello che lavora... piglia e caccia la pistola sulla tavola. Tre pistole, una pistola, cinque pistole, colpi... colpi. Poi, sulla tavola, un caricatore carico, pieno di botte. Tre botte dentro». Il pm Giuseppe Visone, titolare delle indagini, ha trasmesso gli atti alla magistratura minorile che dovrà valutare le iniziative a tutela del bambino e lo stesso hanno fatto i pm Stefania Di Dona e Salvatore Prisco, che coordinano l’indagine dove è emerso un altro episodio. Siamo a Bagnoli, periferia occidentale di Napoli, settembre 2022.

Nel quartiere il clima è diventato pesante. Il clan camorristico guidato da Alessandro Giannelli ha bisogno di armi e dal carcere il boss, utilizzando un cellulare, organizza una “staffetta” per ritirare mitra e pistole. Incarica sua padre e una 23enne, di andare all’appuntamento. 

E ordina: «Andate là con due macchine, una lei e una voi. Falle portare anche il bambino». Si riferisce al figlio di pochi mesi della ragazza, usato «al fine di eludere i controlli», sottolineano gli inquirenti. Le armi vengono consegnate in un garage le immagini riprendono anche la ragazza che «preleva il figlio dell’auto e lo porta con sé, verso l’uscita». Poi la 23enne va a casa, pulisce le pistole e scatta qualche foto mentre le tiene in pugno. [...]

Ne ha viste tante, Cesare Moreno: «A scuola — racconta — ho avuto bambini che, nell’intervallo, giocavano al carcere: perquisizione, colloquio, domandina. Una volta un alunno di 9 anni mi raccontò che aveva accompagnato il nonno a commettere una rapina». Moreno invita ad essere realisti: «Togliere i bambini alle famiglie rappresenta una soluzione estrema. Però si può lavorare per creare, in ogni quartiere, un luogo di vita diversa, un’oasi di pace in una situazione di conflitto. Non riusciremo ad eliminare la guerra, ma possiamo ricavare degli spazi di pacificazione». [...]

Saviano vince in tribunale contro il ministro Sangiuliano. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 02 maggio 2023

Il ministro della Cultura aveva chiesto il risarcimento danni per dei post in cui Saviano lo aveva definito «galoppino di Cosentino», ex sottosegretario oggi in carcere come referente politico della Camorra. Per la giudice «non può considerarsi un fatto falso», e ribadisce il diritto di critica

Il giornalista Roberto Saviano ha vinto in tribunale contro il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Lo scrittore aveva dato al ministro nel 2018 del «galoppino di Cosentino», collegando la sua ascesa in Rai all’ex sottosegretario del governo Berlusconi condannato in via definitiva come referente della Camorra. Sangiuliano gli ha chiesto di risarcirgli i danni, ma per il tribunale di Roma «non può considerarsi un fatto falso» e rientra nel diritto di critica. Inoltre, si legge nella sentenza della giudice Silvia Albano, il danno che avrebbe patito Sangiuliano non è chiaro, visto che quattro anni dopo è diventato pure ministro.

LA VICENDA

Tutto parte da due post del 2018, che Saviano ha scritto quando Sangiuliano è stato promosso direttore del Tg2. Il primo su Twitter: «Sangiuliano direttore del Tg2! Peggio non si poteva. Vicedirettore del Tg1 con Berlusconi, galoppino di Mario Landolfi, Italo Bocchino, Nicola Cosentino, Amedeo Laboccetta. E ora la promozione: con il Governo del Cambiamento (ovvero giallo-verde, ndr), al sud, la società incivile non perde posizioni, anzi».

Il secondo, versione estesa del primo, è andato su Facebook: «Tutto questo è ammissibile solo in un’ottica di spartizione, non certo di alleanza, né di applicazione del contratto di governo. Solo in una spartizione si può giungere a un tale livello di cinismo. E adesso Sangiuliano diventa addirittura direttore del Tg2, direttore in quota Lega. E a chi dice che la Lega non è più antimeridionale rispondo: ma non vedete come, con l’avallo del M5S, continua la triste tradizione di valorizzare il peggio della cultura, della politica?».

Per Sangiuliano, si legge nella sentenza, Saviano era colpevole di aver collegato la sua nomina a direttore del Tg2 «a esponenti politici coinvolti in diverse inchieste giudiziarie nell’ambito della criminalità organizzata».

Nel dettaglio «il Saviano si sarebbe rivolto all’attore definendolo in modo dispregiativo “galoppino”, termine utilizzato al fine di indurre nell’enorme numero di seguaci (c.d. followers)» l’idea che la nomina fosse il compenso per la collaborazione prestata. Il ministro ha visto così leso il suo onore. Ma la giudice no.

Albano ribadisce l’importanza del diritto di critica: «Garantito dall’articolo 21 della Costituzione, pilastro dello stato democratico e della effettiva possibilità per il popolo di esercitare la propria sovranità anche in ordine al controllo del potere politico in tutte le sue manifestazioni». Quindi passa a vagliare le espressioni.

LA NOMINA

Sulla nomina legata a Cosentino, la giudice dà ragione a Saviano: «Non può considerarsi un fatto falso, né da escludere dal dibattito politico attuale e già, in passato, ampiamente affrontato». Allo stesso modo, parlare di lottizzazione in Rai è più che lecito: «Una critica senz’altro sferzante, ma che comunque deve ritenersi rientrante nel diritto di libertà di manifestazione del pensiero».

Quelli di Saviano, prosegue, non sono insulti, come ritiene Sangiuliano, ma «giudizi politici», «sebbene aspri e pungenti».

Per la giudice c’è l’interesse dell’opinione pubblica. Infine non si vede nessun danno. Sangiuliano da una parte non ha prodotto prove, dall’altra «non sembra avere avuto ripercussioni nel proprio ambito professionale e sociale tenuto conto del fatto che all’epoca della pubblicazione dei post era direttore del Tg2, mentre nell’attuale governo è stato nominato ministro».

Il tono di Saviano, concede la giudice, era oggettivamente aspro, quindi ognuno pagherà le sue spese.

LA SENTENZA COSENTINO

Nel frattempo, è arrivata le sentenza definitiva su Cosentino per concorso esterno in associazione mafiosa. L’ex sottosegretario è stato coinvolto dal 2013 in almeno quattro importanti processi, tra cui tre per reati di camorra. In due, “Il Principe e la Scheda Ballerina” e il cosiddetto "Carburanti", Cosentino ha ottenuto l’assoluzione, ma non è andata così nel processo più importante, l'Eco4, vera e propria architrave della tesi accusatoria della Dda di Napoli sul ruolo di Cosentino quale «referente a livello nazionale del clan dei Casalesi». Che la cassazione ha confermato pochi giorni fa.

LE IMPLICAZIONI POLITICHE

Mentre la commissione parlamentare Antimafia è in stallo, per Saviano bisogna tenere in considerazione anche questo elemento: «Sono sotto scorta perché minacciato dal clan dei casalesi e sotto processo perché la premier, che con il referente del clan dei casalesi è stata al governo, ha deciso di querelarmi e costituirsi parte civile». Quindi è «inutile domandarsi, adesso, perché questo governo non abbia ancora attivato la Commissione parlamentare antimafia… Sarebbe una domanda retorica».

La partita, che si gioca in parlamento, vede come primo azionista il partito della presidente del Consiglio. Meloni, ricorda ancora Saviano, non ha detto nulla nemmeno su Cosentino: «Giorgia Meloni - non è un dettaglio, anche se oggi passa sotto silenzio - è stata ministra della Gioventù nel 2008, nello stesso governo e nella stessa coalizione di Nicola Cosentino, condannato in via definitiva a 10 anni di carcere». L’ex sottosegretario che adesso è nel carcere di Rebibbia: «Giorgia Meloni non ha nulla da dire al riguardo?»

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica e la gavetta giornalistica nella capitale, ha collaborato con Il Fatto Quotidiano e Roma Sette, e lavorato a Staffetta Quotidiana. Idealista.

Nicola Cosentino.

Antonio Pisani per l’ANSA il 28 aprile 2023.

Hanno retto anche in Cassazione le accuse a carico dell'ex sottosegretario all'Economia Nicola Cosentino di essere il "referente a livello nazionale del clan dei Casalesi": la Suprema Corte ha confermato la condanna a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione camorristica inflittagli dalla Corte di Appello di Napoli il 21 luglio 2021, rigettando il ricorso dei difensori Agostino De Caro, Stefano Montone ed Elena Lepre, In primo grado, il 17 novembre 2016, l'ex coordinatore di Forza Italia in Campania era stato condannato dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere a nove anni di cella. 

Per Cosentino è la seconda condanna definitiva dopo quella a quattro anni per la corruzione di un agente del carcere di Secondigliano (Napoli), mentre l'ex parlamentare è stato assolto definitivamente in altri due processi in cui gli venivano contestati reati di camorra, uno detto "Il Principe e la Scheda Ballerina" e quello noto come "Carburanti", che aveva coinvolto anche i fratelli e l'azienda di famiglia (l'Aversana Petroli).

Il processo giunto a conclusione, il cosiddetto Eco4, è però il più importante tra quelli istruiti dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli a carico dell'ex sottosegretario del Governo Berlusconi, in quanto pur prendendo le mosse dalle infiltrazioni camorristiche riscontrate nella società Eco4, che si occupava nei primi anni duemila di raccolta dei rifiuti in una ventina di comuni del Casertano - celebre la frase "l'Eco4 song io", che Cosentino avrebbe detto nel corso di un incontro al pentito dei Casalesi Gaetano Vassallo - ha fotografato oltre venti anni di storia camorristica, da fine anni '80 al 2009, un arco temporale in cui Cosentino - è emerso dai processi - ha stretto un patto con i vertici storici del clan dei Casalesi, da Francesco Bidognetti a Francesco "Sandokan" Schiavone, garantendo un appoggio costante alla cosca in cambio del sostegno elettorale alle varie elezioni.

Appoggio al clan che si sarebbe concretizzato soprattutto nell'infiltrazione del clan nell'Eco4, gestita da un Consorzio pubblico (il Caserta4) e da due imprenditori privati collusi con i Casalesi, i fratelli Michele (ucciso nel 2008 dai killer dell'ala stragista guidata da Giuseppe Setola) e Sergio Orsi, quest'ultimo già condannato per tali vicende. In primo grado il tribunale aveva riconosciuto Cosentino colluso fino al 2004, mentre la Corte di Appello aveva esteso tale termine al 2009 aumentando la pena di un anno, e ciò sulla base della sentenza di condanna di primo grado che Cosentino aveva nel frattempo avuto nel processo il "Principe", in cui poi è stato assolto in Appello e Cassazione.

I legali di Cosentino, che hanno sempre rigettato le accuse, basate soprattutto sulle dichiarazioni di numerosi pentiti, speravano che la Suprema Corte, in sede di decisione di Eco4, tenesse conto delle assoluzioni definitive avute da Cosentino per "Il Principe" e il processo "Carburanti", ma invece così non è stato. Delusi i difensori. "Ma non ci fermiamo" dicono. Ora per Cosentino si riaprirà il carcere. L'ex politico ha già trascorso in regime di carcerazione preventiva oltre quattro anni tra carcere e domiciliari tra il marzo 2013 - entrò in cella la prima volta quando si insediò il Parlamento e lui, non candidatosi, perse l'immunità - e il febbraio 2018.

Estratto dell’articolo di Marco Franchi per “il Fatto quotidiano” il 28 aprile 2023.  

Quindici anni dopo la copertina de l’espresso con la sua faccia e il titolo “la camorra nel governo”, per Nicola Cosentino si spalancano le porte del carcere da condannato per concorso esterno in associazione camorristica.

La Cassazione ha reso definitiva la condanna in appello a dieci anni di reclusione, uno in più del verdetto di primo grado che arrivò nel 2016 dopo 141 udienze e l’ascolto di circa 110 testi, tra i quali 16 collaboratori di giustizia. 

Pentiti che Cosentino definì “camorristi schifosi, che hanno da scontare ergastoli e puntano a salvare i propri patrimoni”, nel corso di una conferenza stampa che gli costò uno dei tanti processi conclusi con l’assoluzione. Ma ieri c’è stata una condanna, e la condanna ci dice che Cosentino, già sottosegretario all’economia del governo Berlusconi, è stato il referente politico del clan dei Casalesi e degli interessi della camorra nell’eco4, società che all’inizio degli anni duemila ha gestito la raccolta dei rifiuti in una ventina di comuni del Casertano.

Cosentino si costituirà in carcere, probabilmente a Roma – ieri era al Palazzaccio, ma non ha partecipato all’udienza – probabilmente a Rebibbia. Non tornerà a Secondigliano, il penitenziario di Napoli che scelse nel 2013 quando decadde l’immunità parlamentare e fu eseguita la misura cautelare che pendeva dal 2009, per le accuse confluite ieri nella condanna definitiva. Non tornerà in quel carcere perché proprio tra quelle mura si consumarono i fatti per i quali nel 2018 è stato condannato, in via definitiva, a quattro anni per la corruzione di un agente carcerario che gli aveva procurato qualche benefit in cella. […]

Cassazione conferma condanna a 10 anni per Nicola Cosentino, ex sottosegretario (Pdl): “Referente del clan dei Casalesi”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Aprile 2023. 

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per l’ex sottosegretario “forzista” Nicola Cosentino a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa in quanto ritenuto referente del “clan dei Casalesi“. I giudici hanno rigettato il ricorso presentato dai legali di Cosentino, gli avvocati Stefano Montone, Agostino De Caro ed Elena Lepre, che fanno sapere che Cosentino nelle prossime ore si costituirà in carcere.

La vicenda giudiziaria

Cosentino è stato condannato nell’ambito del processo per le infiltrazioni del clan dei Casalesi nell’Eco4, società che all’inizio degli anni duemila ha gestito la raccolta dei rifiuti in una ventina di comuni del Casertano. Il sostituto procuratore generale della Cassazione Silvia Salvadori durante la propria requisitoria aveva chiesto il rigetto del ricorso presentato contro la sentenza della Corte di Appello di Napoli, che il 21 luglio 2021 aveva condannato Cosentino a 10 anni, con un aumento di pena di un anno rispetto alla sentenza di primo grado emessa il 17 novembre 2016 dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere. 

Per Cosentino, ex sottosegretario all’Economia del governo Berlusconi era invece arrivata poche settimane fa l’ultima assoluzione. La Cassazione lo scorso 20 marzo ha respinto il ricorso della procura generale di Napoli assolvendo in via definitiva l’ex coordinatore campano di Forza Italia nel processo cosiddetto “Il Principe e la scheda ballerina” nell’ambito del quale Cosentino era accusato di tentativo di reimpiego di capitali illeciti, con l’aggravante mafiosa, in relazione alla costruzione di un centro commerciale (mai realizzato) voluto dal clan dei Casalesi a Casal di Principe (Cosentino era stato condannato in primo grado a 5 anni dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, prima dell’assoluzione in appello del 29 settembre 2020 “per non aver commesso il fattò“).

Nelle motivazioni alla sentenza di assoluzione i giudici hanno evidenziato che Cosentino non aveva interesse a realizzare il centro commerciale, mentre le ricostruzioni dei collaboratori di giustizia (fra i quali Nicola Schiavone, figlio del capoclan dei Casalesi Francesco «Sandokan» Schiavone) sono state giudicate generiche, non riscontrate e in molti casi smentite in dibattimento. Il 4 giugno del 2019, poi, Cosentino è stato assolto dalla Cassazione che nell’ambito del processo “Carburanti” ha rigettato il ricorso della procura generale.

Condanne ed Assoluzioni

L’ex sottosegretario era finito a processo assieme ai fratelli Giovanni e Antonio Cosentino e ad altri imputati, accusati a vario titolo di estorsione e concorrenza illecita aggravati dalle modalità mafiose. I fatti facevano riferimento all’ Aversana Petroli azienda di famiglia dei Cosentino. La Corte d’Appello di Napoli nell’ottobre del 2018 aveva già assolto Nicola Cosentino, dopo che l’ex sottosegretario era stato condannato in primo grado a 7 anni e sei mesi di carcere. Definitiva, invece, la condanna a 4 anni di reclusione per aver corrotto un agente della polizia penitenziaria del carcere di Secondigliano allo scopo di introdurre in cella generi alimentari, vestiti e un Ipod. Il 12 ottobre del 2021, inoltre, la sesta sezione della Corte di Appello di Napoli ha assolto Cosentino dall’accusa di diffamazione. L’ex sottosegretario aveva definito i collaboratori di giustizia “camorristi schifosi che hanno da scontare ergastoli e puntano a salvare i propri patrimoni”, inducendo l’ex camorrista ‘pentito’, Michele Frongillo, a denunciarlo. Infine, nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta «P3», Cosentino è stato condannato a 10 mesi non per i reati connessi all’associazione a delinquere ma per “diffamazione” e “violenza privata” nei confronti dell’ex presidente della Regione Campania Stefano Caldoro. Redazione CdG 1947

La Cassazione ha respinto il ricorso della difesa. Nicola Cosentino in carcere, il travaglio giudiziario e la fine politica di Nick ’o mericano. Angela Stella su Il Riformista il 28 Aprile 2023 

È diventata ieri definitiva la condanna a dieci anni di reclusione per l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino. I giudici della sesta sezione penale della Cassazione, accogliendo la richiesta della procura generale, hanno rigettato il ricorso della difesa di Cosentino accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Nella requisitoria, il sostituto procuratore generale della Cassazione Silvia Salvadori aveva chiesto il rigetto del ricorso presentato dalla difesa dell’ex sottosegretario del governo Berlusconi contro la sentenza del 21 luglio 2021 con la quale i giudici della quarta sezione della Corte d’Appello di Napoli avevano condannato Cosentino a dieci anni nell’ambito del processo “Eco4”, nel quale l’ex coordinatore campano di Fi era accusato di essere stato il referente politico nazionale del clan dei Casalesi, con il quale avrebbe siglato un patto per ottenerne l’appoggio elettorale in cambio di un contributo ai camorristi.

L’accusa faceva riferimento ai presunti favori relativi all’appalto vinto nel 1999 dai fratelli Orsi, imprenditori ritenuti vicini al clan Bidognetti. La gara sarebbe stata quella indetta dal Ce4, consorzio di 20 Comuni del casertano che si occupava del ciclo dei rifiuti. Secondo i pm, fu proprio Cosentino a permettere ai fratelli Orsi di associarsi al consorzio creando la società mista Eco4 che ottenne poi affidamenti diretti. In primo grado Cosentino, assistito dagli avvocati Stefano Montone, Agostino De Caro ed Elena Lepre, è stato riconosciuto come il “referente nazionale del clan dei Casalesi” almeno fino al 2004. La condanna fu a 9 anni di carcere (i pm avevano chiesto sedici anni) e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione camorristica, con sentenza pronunciata dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere il 17 novembre 2016, dopo oltre 140 udienze.

Tuttavia, la Dda di Napoli aveva presentato appello sostenendo che l’appoggio dell’ex sottosegretario ai Casalesi fosse andato avanti almeno fino al 2007-2008. Da qui la richiesta di una pena maggiore di quella decisa in primo grado. Un processo, quello a Cosentino, basato anche sulle parole dei collaboratori di giustizia, e che lo ha visto, stando alle accuse, come il dominus del Ce4, all’interno del quale l’ex sottosegretario avrebbe fatto assumere molta gente nei periodi pre-elettorali, così ‘controllando’ il risultato di varie elezioni, soprattutto nei Comuni rientranti nel bacino del consorzio. Il tutto, sempre stando ai pm, con la consapevolezza che i fratelli Orsi fossero vicini ai clan. Argomentazioni, quelle della pubblica accusa, che gli avvocati difensori di Cosentino hanno tentato di smontare convinti che non esistessero segni della prestazione di un contributo di Cosentino al clan in 25 anni di attività politica.

Come ricorda l’Adnkronos il cursus giudiziario di Nicola Cosentino, alias Nick ’o mericano’, è stato finora lungo e travagliato. Sulla fine politica dell’ex sottosegretario hanno inciso anche le accuse nei processi “Il Principe e la scheda ballerina”, un presunto tentativo di reimpiego di capitali illeciti, con l’aggravante mafiosa, e “Carburanti”, che ha visto Cosentino sul banco degli imputati insieme ai fratelli accusati a vario titolo di estorsione e concorrenza illecita aggravati dalle modalità mafiose. E nemmeno le due assoluzioni definitive in entrambi i processi, a causa della spada di Damocle rappresentata dal processo “Eco4”, ora definita, sono state in grado di rimettere Cosentino al centro della scena politica campana e nazionale. Per Cosentino adesso si apriranno le porte del carcere. Angela Stella

Giulio Giaccio.

La madre e i figli rifiutano: "Non hanno neppure una reliquia su cui piangere". “150mila euro per Giulio Giaccio”, l’offerta della camorra ai familiari dell’operaio ucciso e sciolto nell’acido (per errore). Redazione su Il riformista il 17 Aprile 2023 

Centocinquantamila euro. E’ l’offerta presentata da due camorristi, ritenuti dagli investigatori i mandanti dell’omicidio di un innocente, alla famiglia di Giulio Giaccio, l’operaio 26enne ucciso e sciolto nell’acido il 30 luglio del 2000 in quello che poi è risultato essere un drammatico scambio di persona. Il giovane venne ucciso a Pianura, periferia occidentale di Napoli, con un colpo di pistola alla testa mentre era in auto con il commando del clan, spacciatosi per agenti di polizia, poi il cadavere venne prima preso a calci dal ras che doveva vendicare le avance fatte alla sorella e, successivamente, sciolto nell’acido con i resti (i denti vennero distrutti a martellate) fatti sparire in una fenditura del terreno.

Trentamila euro in tre assegni circolari e due immobili (una casa e un box auto presenti a Marano di Napoli) dal valore di 120mila euro. E’ questa la proposta fatta alla famiglia di Giulio alla vigilia del processo che si celebrerà davanti al gup di Napoli Valentina Giovanniello). Proposta formalizzata dai legali di Salvatore Cammarota, 55 anni, e Carlo Nappi, 64 anni, elementi apicali del clan Polverino di Marano, guidato all’epoca da Giuseppe Polverino, detto ‘o barone, in carcere da anni dopo l’arresto in Spagna avvenuto nel 2012.

“Non c’è prezzo per ripagare la vita di Giulio: dopo 23 anni, l’unica cosa in cui la famiglia crede è la Giustizia, alla quale si sono affidati” replica l’avvocato Alessandro Motta, legale della famiglia Giaccio. “La famiglia chiede la pena più severa per i protagonisti di questo orrendo delitto, soprattutto perché non ha neppure una reliquia su cui piangere”. Famiglia oggi rappresentata dalla madre Rosa Palmieri e dai figli Rachele e Domenico Giaccio (che si sono costituiti parte civile nel processo), con papà Giuseppe scomparso negli anni scorsi prima che la Dda partenopea facesse luce, dopo 22 anni, sul raccapricciante omicidio di Giulio.

In vista della prima udienza in Tribunale, gli unici due imputati (altre tre persone, tra cui l’esecutore materiale, sono indagate a piede libero in attesa di ulteriori riscontri) provano ad ammorbidire la propria posizione e, probabilmente, ad evitare l’ergastolo offrendo un risarcimento per il danno morale e materiale subito.

LA STORIA – Quella sera Giulio stava parlando con un amico in una piazzetta vicino casa sua in contrada Romano, una zona compresa tra Pianura, periferia occidentale di Napoli, e Marano. Erano circa le 22 quando, all’altezza del sagrato della chiesa, dove aveva parcheggiato la sua moto di colore nero, Giulio venne prelevato da quattro persone che si presentarono come poliziotti in  borghese. “Salvatore devi venire con noi per accertamenti” disse uno dei finti agenti. Giulio chiarì subito che non si chiamava Salvatore ma seguì lo stesso i “poliziotti” dietro le insistenze e le minacce di quest’ultimi.

Salì così a bordo di una Fiat Punto di colore bordeaux e da allora mamma Rosa e papà Giuseppe, lei casalinga, lui agricoltore, non hanno saputo più nulla del figlio. Un caso di lupara bianca che, dopo indagini archiviate, ha avuto una sua svolta nel 2015 con le prime dichiarazioni di un collaboratore di giustizia che hanno portato, ben sette anni dopo e grazie anche a riscontri di altri pentiti, Procura e carabinieri a chiudere il cerchio e a chiedere e ottenere dal Gip una misura cautelare in carcere nei confronti di due uomini (al momento solo indagati) ritenuti gravemente indiziati di essere i mandanti dell’omicidio e della distruzione del cadavere di Giulio Giaccio. Si tratta di Carlo Nappi, 64 anni, e Salvatore Cammarota, 55 anni. Due storici affiliati (entrambi detenuti da tempo) del clan Polverino di Marano, guidato da Giuseppe Polverino, detto ‘o barone, in carcere da anni dopo l’arresto in Spagna avvenuto nel 2012.

Le indagini della Direzione Distrettuale Antimafia partenopea e del Nucleo Investigativo dei carabinieri hanno accertato che Giulio Giaccio era estraneo ai contesti di criminalità organizzata e che gli esecutori del delitto l’avevano erroneamente identificato per un soggetto che stava intrattenendo una relazione con la sorella di Cammarota, una donna divorziata ma che il giovane non poteva frequentare.

Un omicidio brutale, efferato, raccapricciante, ricostruito grazie alle dichiarazioni dei pentiti, a partire dall’ex affiliato Roberto Perrone (ma anche altri due collaboratori hanno fornito gli stessi riscontri) che ai magistrati ha raccontato di aver assistito quella sera “al capitolo più nero e angoscioso” della sua carriera criminale. Uno scambio di persona che inizialmente era stato ricondotto a un giovane, che aveva la moto dello stesso colore di Giulio, ricercato dal clan perché realizzava rapine nella zona senza alcuna autorizzazione. Poi le parole dei pentiti hanno portato gli investigatori verso quest’ultima pista: ucciso perché intratteneva una relazione con la persona sbagliata.

Quella sera Giulio venne condotto in un posto abbandonato di Marano dove, al cospetto dei ras del clan, provò a spiegare, chiamando i suoi interlocutori “comandante” (perché probabilmente davvero credeva di essere al cospetto di poliziotti) che lui non si chiamava Salvatore. Secondo la ricostruzione di Perrone, a uccidere l’operaio 26enne fu un killer di fiducia del clan (ma su questo, i pentiti si contraddicono così come sul resto dei componenti del commando).

Il corpo venne poi portato in un’altra zona appartata di Marano, preso a calci da Cammarota e sciolto nell’acido. I resti vennero poi fatti sparire in una fenditura del terreno. Solo il giorno dopo il clan Polverino si sarebbe reso conto dell’imperdonabile errore del commando.

Un ragazzo di 26 anni sparito nel nulla 22 anni fa con la famiglia, di umili origini, che non ha mai smesso di credere in un suo ritorno. Lo diceva mamma Rosa nel 2012 in una intervista al programma “Verità imperfette” in onda su Canale 8. “Io la speranza non l’ho ancora persa perché altrimenti me l’avrebbero fatto trovare, in un modo o in un altro” diceva la donna. Per papà Giuseppe le speranze di un ritorno del figlio erano invece nulle. “Se la nostra famiglia fosse stata possidente probabilmente le forze dell’ordine si sarebbero mosse di più” l’amara considerazione del genitore.

La scomparsa di Giulio Giaccio si verificò appena 11 giorni prima del duplice omicidio, avvenuto sempre a Pianura (10 agosto 2000), di due giovani che con la camorra non avevano nulla a che fare: Luigi Sequino e Paolo Castaldi, entrambi scambiati per guardaspalle di un boss della zona.

Roma.

Ostia.

Roma.

La Cassazione conferma: «Casamonica? Si tratta di un’associazione mafiosa». La decisione dei supremi giudici nel procedimento della Dda di Roma che è stato celebrato con il rito abbreviato. Il Dubbio il 6 dicembre 2023

Il clan Casamonica è un'associazione mafiosa. La Cassazione, con una sentenza pronunciata il 24 novembre scorso, ha riconosciuto l'impianto accusatorio della Direzione distrettuale antimafia di Roma nell'inchiesta, coordinata dal pm Edoardo De Santis, che nel 2020 ha portato all'operazione “Noi proteggiamo Roma", con una ventina di arresti.

In particolare, i supremi giudici hanno confermato l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso per quattro esponenti del clan come affermato già dalle sentenze di primo e secondo grado dopo il processo con rito abbreviato: si tratta di Guerrino Casamonica detto Pelè, condannato in Appello nel dicembre 2022 a 10 anni e due mesi di reclusione, Cristian Casamonica a 8 anni, Sonia Casamonica a 7 anni e Daniele Pace, invece a 6 anni.

Con la sentenza, i giudici di piazza Cavour hanno dichiarato due dei ricorsi presentati dagli imputati inammissibili e altri due sono stati rigettati. Per una quinta posizione relativa a Griselda Filipi, per la quale era stato riconosciuto il 416bis in secondo grado, è stato invece disposto un appello bis sul punto.

L'inchiesta aveva fatto emergere le attività di usura ed estorsioni da parte del clan e un'intercettazione agli atti in cui si diceva: «Devono fare entrare organizzazioni forti a Roma, ecco perché ci vogliono distruggere a noi! La camorra e la ndrangheta. Gli dà fastidio perché noi proteggiamo Roma». Un sodalizio, quello dei Casamonica, che secondo il Tribunale di Roma nelle motivazioni della sentenza di primo grado «esercita il suo predominio sfruttando la fama criminale conquistata negli anni dall'intera rete familiare, ottenendo, grazie alla condizione di assoggettamento e di intimidazione della popolazione, prestazioni contrattuali non retribuite, servizi e pratiche non consentite (come avvenuto in occasione del funerale di Vittorio Casamonica) e, in generale, trattamenti di favore». Una sentenza che arriva a poche settimane dall'udienza fissata in Cassazione, per l'inizio del prossimo anno, del maxiprocesso nato dall'operazione 'Gramigna' che in Appello nel novembre 2022 ha confermato l'accusa di mafia. 

(ANSA sabato 18 novembre 2023) "La realtà romana è molto complicata dal punto di vista criminale perché Roma da sempre, nel disinteresse generale e nell'incapacità di comprendere il fenomeno, è stato probabilmente uno dei più ricchi e importanti laboratori criminali di questo Paese". Così il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino, intervenendo alla presentazione del nuovo libro di Ilaria Meli, 'Casamonica. Come nasce e si afferma un potere criminale', nell'ambito di BookCity Milano. 

"Roma è la capitale - ha aggiunto il pm -, è la sede dei palazzi dove si prendono decisioni politiche, dove arrivano elementi per prendere decisioni economiche, è la sede del Vaticano. È comprensibile che su questa città si punti l'attenzione di organizzazioni criminali come le mafie, che hanno fatto della mediazione economica e dello stare sul mercato la loro ragion d'essere".

La Capitale, quindi, "è un teatro criminale in cui ci dobbiamo misurare con tutto, a Roma non manca nulla, ci sono tutte le mafie". Ricordando che Roma "non è terreno di cultura mafiosa", Prestipino spiega come è avvenuta l'affermazione dei Casamonica, sottolineando che "la narrazione" sia giudiziaria che mediatica "è stata da sempre complicata, difficile e probabilmente ostacolata".

I Casamonica "diventano protagonisti come un fungo dopo la pioggia in occasione dei famosi funerali di Vittorio Casamonica, prima non se ne parlava, non c'erano denunce individuali né una denuncia collettiva. Quel funerale - ha aggiunto - è stata una rappresentazione simbolica di questo potere criminale ed è stata raccontata da tutto il Paese in termini di folklore. Poi il fenomeno è esploso e i Casamonica allora sono diventati padroni di Roma, quelli contro cui nulla e nessuno può. Nemmeno questo è vero".

Un omicidio dimenticato nella notte delle bombe. Nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993, mentre a Milano e Roma esplodono le bombe, a Frascati viene ammazzato Mauro Rocchetti. Viene bollato tutto come un regolamento di conti. Ma potrebbe non essere così e a raccontarci il perché è il questore di Siena Pietro Milone. Gianluca Zanella il 28 Luglio 2023 su Il Giornale.

La notte tra il 27 e il 28 luglio di 30 anni fa resterà per sempre uno dei capitoli più oscuri della storia repubblicana. In via Palestro, a Milano, una Fiat Uno imbottita di esplosivo devasta un padiglione della Galleria di Arte Contemporanea e uccide 5 persone. Quasi contemporaneamente, a Roma, due ordigni sconvolgono la notte d’estate deflagrando di fronte alle Basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro. Un terzo ordigno sarà ritrovato inesploso nei pressi del Quirinale, all’interno di un’auto.

Ma c’è un fatto accaduto quella notte – probabilmente non a caso – che è stato immediatamente dimenticato. Un omicidio. A Frascati, località a pochi chilometri dalla Capitale sconquassata dalle esplosioni.

“Siamo carabinieri”. Due uomini, scesi da una panda scura con lampeggiante e insegna dell’Arma su almeno una fiancata, si presentano alle 4 di notte a casa di Mauro Rocchetti, pregiudicato di 42 anni agli arresti domiciliari per spaccio. Quattro colpi di pistola: due in faccia, uno allo sterno, uno alla mano sinistra. Rocchetti cade agonizzante sul vialetto di casa, morirà in ospedale. Il figlio, Alessandro, vede la panda dileguarsi. È lui a raccontare del lampeggiante e dell’insegna dell’Arma.

Nei giorni seguenti, i pochi giornali che si occupano della vicenda bollano tutto come una resa dei conti tutta interna al mondo della droga. Ma a distanza di 30 anni possiamo dire che dietro questo omicidio potrebbe esserci altro.

IlGiornale.it ha avuto l’opportunità di intervistare l’attuale questore di Siena, dottor Pietro Milone. Perché proprio lui? Cosa c’entra con l’omicidio Rocchetti? Ci arriviamo.

Prima di proseguire, occorre spendere due righe per spiegare chi sia Pietro Milone. Classe 1961, romano, nel 1990 arriva alla Questura di Roma, al Centro Interprovinciale Criminalpol “Lazio-Umbria”, dove è a capo di un nucleo di polizia giudiziaria costituito appositamente per disarticolare la Banda della Magliana, che tre anni dopo sarà praticamente smantellata con l’Operazione Colosseo. Operazione permessa dalle rivelazioni di uno dei capi della Banda, Maurizio Abbatino, arrestato a Caracas, Venezuela, il 24 gennaio 1992. A mettergli le manette ai polsi c’è anche Pietro Milone.

Cosa c’entra tutto questo con l’omicidio di Mauro Rocchetti? Leggendo la stampa dell’epoca, assolutamente nulla. In realtà, la carriera criminale di Rocchetti era più articolata e ad un certo punto incrocia quella della Banda della Magliana.

“Rocchetti – ci racconta il dott. Milone – faceva parte di quell’entourage di persone che erano coinvolte nei traffici di droga romani e che, all’occorrenza, venivano utilizzati anche da esponenti della Banda della Magliana”.

L’attuale questore di Siena precisa che però Rocchetti non era un appartenente al gruppo. Piuttosto gravitava in quella costellazione criminale e, soprattutto, viveva in quello che all’epoca poteva essere considerato un feudo di Enrico Nicoletti, considerato il cassiere della Banda. Perché sottolineiamo questo particolare?

“All’epoca – racconta Milone – qualcuno diceva che Rocchetti fosse in possesso di registrazioni compromettenti che riguardavano Nicoletti e presunti appartenenti alle forze dell’ordine. Registrazioni che avrebbero dimostrato come Nicoletti, di fatto, pagasse qualcuno per essere lasciato in pace. Ma è una pista che non ha mia portato ad alcun riscontro”.

A scavare in questa direzione ci pensò il pm Andrea De Gasperis, recentemente scomparso. Queste voci, unite alla testimonianza del figlio di Rocchetti, imponevano una serie di verifiche. Furono controllati i registri di entrata e uscita degli automezzi dalla locale stazione dei Carabinieri e venne fatto un controllo sulle persone presenti quella notte in caserma, ma non si arrivò a nulla.

C’è però un’altra pista. E qui qualche riscontro sembra esserci.

“In quel periodo Rocchetti, come molti altri, era attenzionato da noi”. Il riferimento di Pietro Milone è al già citato nucleo formato per contrastare la Banda della Magliana. “Attraverso alcune attività su di lui, arriviamo sulle tracce degli assassini di Renatino De Pedis”.

Enrico De Pedis, boss della fazione dei “testaccini” della Banda, uomo dalle entrature trasversali, molto ben inserito negli ambienti della politica e del Vaticano, viene ucciso a Roma il 2 febbraio 1990 da due killer che nel 1993 sono ancora ignoti. Chiediamo al dott. Milone se Mauro Rocchetti fosse una sua fonte, ma il questore nega: “Rocchetti, per noi del nucleo, era un personaggio importante, di una caratura criminale non indifferente, ma non era una fonte”.

Ad arrivare ai killer di De Pedis sarà lo stesso Pietro Milone che con pervicacia seguirà una pista che si rivelerà un successo. Le indagini lo portano in Toscana, nei dintorni di Livorno. Lì è determinante l’incontro con un giovane poliziotto da poco trasferito dall’aeroporto di Fiumicino. Il ragazzo, infatti, ricordava di aver fermato per un controllo un personaggio difficile da dimenticare: Libero Mancone, appartenente alla Banda. L’uomo in quell’occasione era andato a prendere due uomini che arrivavano da Pisa: Dante Del Santo e Alessio Gozzani. Era la sera del 1 febbraio 1990. Il giorno dopo, in via del Pellegrino, in pieno centro a Roma, De Pedis veniva colpito alle spalle da un proiettile sparato da un killer mancino.

La pista diventa concreta. Milone e i suoi raccolgono tutti gli atti risalenti all’epoca dell’agguato: “Tra gli atti delle persone identificate ma mai sentite a verbale c’era una giovanissima donna magistrato. La donna era presente in via del Pellegrino. Noi l’abbiamo cercata e sentita: lei confermò di aver assistito all’omicidio e confermò che il killer fosse mancino. L’aveva visto anche in volto [era senza casco, ndr]”.

A questo punto si impone un confronto all’americana: “Gozzani nel frattempo era morto nel corso di una sparatoria, quindi le facemmo vedere solo Del Santo, in mezzo ad altre cinque persone. La donna lo riconobbe”.

Si chiude così un caso rimasto aperto per tre anni. Una cosa però è certa: le modalità dell’omicidio – decisamente anomale per un regolamento di conti nel mondo della droga – fanno pensare che qualcuno fosse venuto a conoscenza del possibile collegamento tra l’arresto degli assassini di De Pedis e il ruolo di Rocchetti. E che gliel’abbia fatta pagare.

Che si tratti di un omicidio dalle modalità anomale lo conferma lo stesso Milone: “La peculiarità di questo omicidio è il momento in cui viene portato a termine. Quella notte c’era il caos a due passi e chi ha agito era ben consapevole che le indagini sarebbero state fatte in fretta e lacunosamente. E così è stato. Nessuno ha fatto sopralluoghi nell’immediatezza”.

C’è di più: “Rocchetti era molto guardingo. E invece è uscito di casa tranquillamente. Evidentemente il trucco degli aggressori è stato molto ben congegnato”. Oppure, aggiungiamo noi, Rocchetti conosceva i suoi assassini e si fidava. A distanza di tanti anni difficile dirlo. Si possono fare ipotesi e ci si può porre delle domande. Certo, se l’omicidio è da ricondurre all’arresto degli assassini di De Pedis, sarebbe interessante scoprire chi possa aver indicato di colpire un uomo agli arresti domiciliari e che ad oggi è ancora un perfetto signor nessuno.

Estratto dell’articolo di Marco Carta per “la Repubblica – Edizione Roma” l'11 giugno 2023.

[…] A custodire il tesoretto dei narcos dei Tufello era un insospettabile: un pensionato di 67 anni costretto a vivere sulla sedia a rotelle. L’uomo non usciva mai di casa e non poteva nemmeno muoversi per aprire la porta, ma i poliziotti del distretto Fidene Serpentara lo hanno scoperto con un trucco: un garzone ogni giorno gli portava un panino a domicilio per il pranzo. […]

In casa, Gianfranco Guccini aveva 50 grammi di cocaina, 881 grammi di eroina e 245 grammi di hashish. Poi due rivoltelle, tra cui una Taurus 38, e 36 proiettili calibro 22. Guccini con sé aveva anche una chiave misteriosa: « non so a cosa serva » , ha detto l’uomo agli agenti, che l’hanno usata per aprire un locale all’ultimo piano del condominio, dove dietro alcuni materassi c’erano altri 315 grammi di cocaina. 

La cassaforte dei narcos del Tufello era invece occultata dietro un quadro all’interno del salotto di casa: dentro c’erano circa 36mila euro divisi in mazzette. Tutti soldi che il disabile in sedia a rotelle, che aveva un precedente per spaccio, custodiva sotto compenso […] L’uomo, arrestato per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti e detenzione illegale di armi […]

Ma un filo rosso e poche decine di metri legano l’appartamento della “ retta” Guccini, che ora si trova ai domiciliari, alla gambizzazione di Mezza Recchia, Marco Canali, il 47enne del Tufello, che lo scorso 22 febbraio subì un agguato nella sua casa di via Monte Taburno mentre si trovava a letto. A colpirlo in pieno pomeriggio erano stati Marco Antoniucci, 37 anni, e Fabio Salandri, er Ciccione del Tufello, divenuto famoso grazie al video della canzone di Achille Lauro “Amico del Quore”, di cui Salandri, 46 anni, era stato protagonista.

I due sono stati arrestati pochi giorni fa […] Canali doveva essere punito perché non aveva onorato un debito di droga, ma una volta ferito non aveva collaborato con i poliziotti: « sono entrate due persone incappucciate » , aveva detto. […] 

« Sinceramente si devo sceje fra famme pija per culo o azzoppà quarcuno, lo azzoppo, credimi», si legge in una delle intercettazioni agli atti dell’inchiesta […] 

Estratto dell’articolo di Marco Carta per roma.repubblica.it il 15 giugno 2023.

Era pronto a vendicarsi: “Voglio er ciccione". Marco Canali, il 46enne del Tufello gambizzato lo scorso 22 febbraio, dopo l’agguato, si era armato. Temeva di essere colpito di nuovo. O forse voleva restituire con gli interessi il torto subito. A far saltare i suoi piani, però, sono stati i poliziotti del distretto Fidene Serpentara che la scorsa settimana hanno arrestato i suoi aggressori, Marco Antoniucci e Fabio Salandri, er Ciccione del Tufello. 

Mentre lunedì ad essere tratto in arresto è stato lo stesso Canali. In casa sua gli agenti hanno trovato 5500 euro e una pistola rubata, che l’uomo ha provato a lanciare dal terrazzo durante la perquisizione. Sperava di farla franca, invece a raccoglierla in giardino c’erano altri poliziotti.

Lo sfondo è quello di una faida tra pusher del quartiere per debiti di droga. Quando Canali, 47 anni, era stato gambizzato non aveva fornito nessuna collaborazione agli inquirenti: “Erano due uomini incappucciati”. Invece Antoniucci e Ciccione, rispettivamente di 37 e 46 anni, si erano presentati a casa sua a volto scoperto, come emerge dalle carte dell’inchiesta, che ricostruisce anche le ore precedenti all’agguato.

I tre avevano litigato poche ore prima in chat. E Canali era furioso. Contro Antoniucci, che su Facebook si faceva chiamare Marketto Brigante, aveva usato toni di minaccia: “imparate a sta pe’ strada…Io non temo nessuno. Tuo cugino m’ha rubato 500 euro l'ultima volta che mi sono allontanato da qui qualche anno fa. Sai come se chiamano ste cose? Infamità. Voglio er ciccione”.  […]

Poche ore dopo la lite, Brigante e il Ciccione si sono presentati a casa sua, in via Monte Tabullo a volto scoperto.  Prima hanno suonato al citofono, poi alla porta. Una volta dentro Salandri ha fatto segno alla fidanzata di Canali di fare silenzio con un dito sulla bocca. I due si sono diretti in camera da letto dove si trovava Canali: «i soldi dove stanno». E hanno sparato sulle gambe dell’uomo.  […]

M.C. per "la Repubblica - Edizione Roma" l'11 giugno 2023.

Arrestato “Er Ciccione” amico di Achille Lauro Al Tufello tutti lo conoscono come “Er Ciccione”. A renderlo famoso però è stato Achille Lauro, che gli ha dedicato una delle sue hit più amate: Amico del Quore. Il 46enne Fabio Salandri, che compare anche nel video, da ieri è in carcere per tentato omicidio. 

Secondo i poliziotti del distretto Fidene Serpentara, insieme al 37enne Marco Antoniucci, lo scorso 22 febbraio avrebbe gambizzato al Tufello Marco Canali, detto “Mezza Recchia”.

Ad incastrare “Er Ciccione” e il suo complice, sono state le videocamere di sorveglianza e alcune intercettazioni: «Si devo sceje fra famme pija per culo o azzoppa quarcuno, lo azzoppo, credimi».

Valentina Errante e Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 16 aprile 2023.

Hanno spalmato la catramina sulla pancia e le gambe del prigioniero, nudo, e poi l'hanno sciolta con la fiamma ossidrica. Tutto questo per costringerlo a fare i nomi di chi aveva rubato i 107 chili di cocaina che l'uomo aveva il compito di custodire, per conto dell'organizzazione di narcotrafficanti di cui faceva parte, all'interno di un appartamento alla periferia ovest di Roma. 

Neanche la fantasia degli sceneggiatori della serie tv "Narcos", ispirata a Pablo Escobar e ai cartelli colombiani della droga, è arrivata a partorire simili forme di tortura. A ricostruirle, in un resoconto da brividi, è il giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Civitavecchia che ha convalidato il fermo di Leandro Bennato eseguito giovedì dai carabinieri del nucleo investigativo e ha disposto che resti recluso a Regina Coeli. 

Il 44enne romano rivale di Fabrizio Piscitelli (tanto che era stato indagato, e poi archiviato, come uno dei tre presunti mandanti dell'omicidio di Diabolik), è finito di nuovo in carcere con l'accusa di essere il mandante di ben quattro sequestri di persona a scopo di estorsione avvenuti sotto la sua «regia», uno di seguito all'altro, tra novembre e dicembre scorsi, nella Capitale. 

Gualtiero Giombini, l'ostaggio ustionato con la fiamma ossidrica, non è sopravvissuto: i pm della Dda di Roma ritengono plausibile che il 71enne (detto "Vecchio") sia morto l'8 dicembre a causa delle sevizie subite per una settimana mentre si trovava segregato in una baracca, «privato degli abiti nonostante la temperatura rigida e ripetutamente picchiato».

Giombini era stato liberato il 16 novembre, dopo aver fatto il nome di Cristian Isopo, a sua volta rapito e portato in auto incappucciato nella stessa baracca, dove per 12 ore era stato tenuto legato mani e piedi a una sedia con delle fascette da elettricista, mentre gli conficcavano degli aghi sotto le unghie. Il 23 novembre arriva in chat un messaggio a Isopo da "Mady33" (pseudonimo dietro il quale si nasconde, secondo i magistrati, Leandro Bennato): «Te lo ricordi Vecchio? Sta male. Fidate che ti è andata de lusso. Credime. Sei pure fortunato... tanto. Credime. E non hai visto nulla, zero». 

Effettivamente Isopo aveva visto il trattamento riservato a Giombini e lo aveva riferito ai pm Erminio Amelio e Giovanni Musarò nell'interrogatorio: «Gualtiero è stato sequestrato e torturato dalle persone che poi hanno sequestrato anche me. L'ho visto con i miei occhi: era ridotto malissimo, in particolare aveva ustioni sul ventre e sulle gambe, procurategli usando una fiamma ossidrica per sciogliere guaine bituminose che poi gli appoggiavano sul ventre e sulle gambe nude. Ho visto con i miei occhi le ustioni, lui era in mutande. Era irriconoscibile, aveva il viso gonfio, era evidente che era stato anche pestato (...) Sentivo dei lamenti animali, che soffriva come un cane».  […]

Estratto dell’articolo di Andrea Ossino per la Repubblica il 19 aprile 2023.

Il cognato del boss Carmine Fasciani ha trasformato 75 box dell’Ater in abitazioni per poi affittarli come fossero suoi. E avrebbe anche incassato oltre 9 mila euro per concedere parte del complesso La Nuova Ostia alla società cinematografica che tra quelle case ha girato “ Suburra”. 

Il tutto sfruttando chi era disposto a pagare 500 euro al mese pur di avere un tetto sulla testa, favorendo l’immigrazione clandestina e con modalità che secondo i pm sono catalogabili alla voce “metodo mafioso”. Per questo motivo i carabinieri hanno arrestato il 64enne Rosario Ferreri, finito ai domiciliari nell’ambito dell’inchiesta in cui sono indagate altre 9 persone.

Ha truffato anche la troupe della Bartlebyfilm srl, che per girare Suburra avrebbe stipulato un contratto con Ferreri nella convinzione che l’uomo fosse il proprietario di circa 5000 metri quadri che in realtà appartengono all’Ater.

Estratto da roma.repubblica.it l'8 giugno 2023.

Fabrizio Piscitelli ''era tranquillissimo. Ci siamo seduti sulla panchina con le spalle al parco e la strada davanti, lui era alla mia destra e faceva telefonate. A un certo punto ho sentito tre passi che si avvicinano da dietro, di una persona che corre, e ho visto la pistola alla testa di Fabrizio. Poi il colpo esploso, un solo colpo. Mi è caduto il mondo addosso, nessuno si aspettava una cosa del genere''. 

Questo il racconto degli ultimi istanti di vita di Fabrizio Piscitelli fatto in aula da Eliobe Creagh Gomez l'autista cubano trentatreenne presente al momento dell'omicidio, sentito come testimone nell'udienza del processo davanti alla Terza Corte d'Assise di Roma per il delitto del capo ultrà, noto come 'Diabolik', ucciso con un colpo di pistola alla testa il 7 agosto del 2019 nel parco degli Acquedotti che vede imputato Raul Esteban Calderon. 

(...)

Nel procedimento sono parti civili i genitori, il fratello e la sorella di Piscitelli. ''Ho visto Fabrizio accasciarsi - ha ricostruito in aula il cubano rispondendo alle domande dei pm Rita Ceraso e Mario Palazzi - mi sono alzato, ho visto una persona che correva con la pistola in mano, una persona sportiva, più alta di me, più di 1,80. Ricordo che aveva qualcosa sul braccio e un pantaloncino fino al ginocchio'', ma del volto del killer l'autista di Piscitelli ha detto di non ricordare nulla. Gomez ha ripercorso nella sua testimonianza il suo rapporto con Diabolik. 

Il 7 agosto 2019 ''ho visto Fabrizio alle 13 sul Lungotevere in un negozio di tatuaggi, poi siamo andati a pranzo in zona Tiburtina, e a seguire l'ho portato in un ufficio sempre nella stessa zona e lì Fabrizio ha parlato con una persona. C'era anche Fabrizio Fabietti. Poi siamo usciti e siamo andati al parco degli Acquedotti solo io e Fabrizio'', ha raccontato Gomez.

''Siamo arrivati al parco verso le 18-18.10, io non dovevo scendere ma lui mi ha detto di tenergli compagnia e sono andato con lui. Non mi aveva detto il perché doveva andare lì. Fabrizio aveva tre telefoni, ma quel pomeriggio uno lo aveva lasciato in macchina. Lui - ha ribadito Gomez - era tranquillissimo''. Poi l'omicidio di Diabolik ucciso con un colpo di pistola alla testa. ''Ho visto Fabrizio accasciarsi, mi sono alzato e mi sono allontanato. Ero molto spaventato ho pensato 'se l'hanno fatto a lui potrebbero farlo anche a me''', ha aggiunto.

Estratto dell'articolo di Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 23 maggio 2023.

Secondo la difesa dell'argentino Rual Esteban Calderon, unico imputato per l'omicidio aggravato dal metodo mafioso di Fabrizio Piscitelli, ci sono dei personaggi misteriosi che si aggiravano nel parco degli Acquedotti, come si evince da uno dei video mostrati ieri nell'aula bunker di Rebibbia. «Ci sono due persone che si alzano dalla panchina dove la vittima verrà uccisa, per lasciargli inspiegabilmente il posto. E un uomo che fa jogging (non quello che poi spara) che si avvicina a Piscitelli e inizia a parlargli - spiega l'avvocato Gian Domenico Caiazza - Questi personaggi sono stati identificati?». 

(...) 

«Sul posto abbiamo trovato un bossolo 9X19 parabellum con il simbolo della Nato, riconducibile al munizionamento destinato all'armamento militare - ha poi riferito in aula uno degli investigatori della polizia Scientifica che ha condotto gli accertamenti - Il bossolo presentava più impronte a freddo di espulsione, circa cinque, tutte riconducibili alla stessa classe di arma. Sembrerebbe da un esame visivo non ricaricato, aveva ancora la vernice che normalmente ricopre l'innesco dopo la fabbricazione e non presentava segni evidenti di ricaricamento. Ma può essere stato camerato e scamerato più volte senza essere esploso prima».

L'APPUNTAMENTO MISTERIOSO «Abbiamo cristallizzato la scena del delitto e visto ufficialmente il video che mostra l'esecuzione, sentito l'audio del colpo di pistola, e ascoltato dagli investigatori l'analisi effettuata sul bossolo. Elementi da cui partire per accertare la responsabilità penale dell'imputato», ha commentato a fine udienza l'avvocatessa Tiziana Siano, legale di parte civile dei genitori e della sorella di Fabrizio Piscitelli. 

La prossima volta verrà chiamato in aula a testimoniare l'autista cubano, che, dopo aver sentito esplodere il colpo, è scappato con le mani alzate verso la jeep bianca a bordo della quale aveva accompagnato Piscitelli a un appuntamento. Il "guardaspalle" di Diabolik ha riferito agli inquirenti di non sapere con chi si dovesse incontrare. Alessandro Capriotti (detto Furfante o Miliardero) era inizialmente sospettato dalla Procura di essere uno dei tre mandanti dell'omicidio, insieme a Giuseppe Molisso (detto Peppe) e Leandro Bennato (detto Bio), ma non essendo stati trovati riscontri dirimenti, il caso è stato archiviato. Ma quello che emerge dall'indagine della Squadra mobile è che Piscitelli, il giorno del suo assassinio, doveva riscuotere il debito da 300mila euro che Capriotti aveva con l'albanese Bardhi.

D'altronde nell'agenda di Diablo è segnato: «appuntamento con Furfante». Tant'è vero che il 7 agosto 2019, prima di uscire dall'ufficio del suo commercialista Gianluca Ius, Piscitelli gli avrebbe detto: «Devo andare via perché magari questo 30 me li porta».

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per il Messaggero il 19 aprile 2023.

«Per il progetto alle Bahamas Fabrizio Piscitelli mi ha dato 100 mila euro, che io ho successivamente distratto per l'operazione dell'"oro" in Africa organizzata da Filippo Maria Macchi». Emerge un nuovo spaccato sulla vita dell'ex capo ultrà degli Irriducibili della Lazio, ucciso il 7 agosto del 2019 con un colpo alla testa mentre era seduto su una panchina del parco degli Acquedotti. 

A fare queste rivelazioni - la cui veridicità è tutta da verificare - è Fabio Gaudenzi, detto Rommel, ex leader di "Opposta fazione", un gruppo di ultras giallorossi che alla fine degli anni 90 aveva conquistato l'Olimpico. Gaudenzi era stato sentito dagli investigatori della Squadra mobile di Roma il 28 settembre 2021, nella veste di "persona informata sui fatti, nell'ambito dell'indagine sull'omicidio di Diabolik.

E aveva spiegato che per compensarlo di quell'investimento - finalizzato all'acquisto di terreni nel paradiso fiscale nel mare dei Caraibi - ma mai realizzato, avrebbe regalato a Piscitelli un borsone pieno di armi mentre si trovavano in un ristorante: «Una mitraglietta UZI, due kalashnikov AK 47, una bomba a mano e non ricordo se ci fosse un jammer». «In quella circostanza metto al corrente Fabrizio di quanto mi era accaduto e del fatto che avevo perso il suo denaro a causa di Filippo Macchi. Lui - aveva riferito Gaudenzi ai poliziotti - rimase un po' perplesso in merito alle armi ma poi, dopo aver chiesto se le stesse fossero "pulite", se fossero cioè state utilizzate in qualche reato, le ha prese».

(...) 

L'ex l'ultrà della Roma, che si definiva il "pupillo" del "Cecato", aveva anche spiegato agli investigatori: «Massimo Carminati voleva evitare che a Ponte Milvio fossero applicate le stesse dinamiche che Fabrizio Piscitelli e il suo gruppo di riferimento avevano già applicato a San Basilio e a Tor Bella Monaca e che quindi il quartiere divenisse un luogo di vendita al dettaglio di sostanza stupefacente, che avvenissero richieste di "pizzo" o che i commercianti fossero costretti ad installare le slot-machine e, di conseguenza, era finalizzato ad evitare l'interesse delle forze di polizia alla zona. Quando gli albanesi e Piscitelli si sono affacciati su Ponte Milvio, hanno fatto della zona di fronte al "CocoLoco" il loro quartier generale». «Ritengo che ultimamente si intromettesse un po' in troppe questioni e che frequentasse "gentaccia"», aveva spiegato Gaudenzi.

È stata sentita anche Rosa Domizi, sorella di Walter Domizi (conosciuto nell'ambiente criminale con l'appellativo di "Gattino") e zia di Leandro Bennato (accusato di 4 sequestri di persona con annesse torture e di recente archiviato dall'accusa di essere uno dei tre mandanti di Diabolik. A proposito di Raul Calderon, il presunto killer di Piscitelli, la Domizi aveva confessato: «Ci frequentavamo da un anno, ed io ero e sono tutt'ora molto innamorata di lui».

Estratto dell'articolo di Andrea Ossino per “la Repubblica - Edizione Roma” il 14 aprile 2023.

Sequestrato, lasciato senza vestiti a patire il freddo invernale e pestato dentro una baracca. Gualtiero Giombini aveva pagato a caro prezzo la sua colpa: essersi fatto rubare 107 chili di cocaina. Perché quella droga apparteneva a Leandro Bennato, amico e nemico di Fabrizio “Diabolik” Piscitelli e protagonista, insieme al fratello Enrico e al killer Raul Esteban Calderon, della guerra dei narcos per il controllo di Roma dopo la morte di Diabolik. Almeno secondo la procura.

 Leandro Bennato è stato fermato ieri a Ladispoli dai carabinieri del Nucleo investigativo di Roma. Il nipote del “ gattino”, boss di Casalotti, agiva insieme all’altro fermato, Elias Mancinelli. Ed era a piede libero solo a causa delle « condizioni di salute di sua madre».

Secondo i pm nel novembre scorso avrebbe tenuto segregato Giombini (morto due settimane dopo il pestaggio per ragioni da chiarire) per diversi giorni dentro una baracca, costringendolo a stare nudo, tenendolo legato a una sedia per ore e picchiandolo ripetutamente per capire chi avesse preso la droga che aveva il compito di custodire.

(..)

Estratto dell’articolo di Francesca Fagnani per “la Stampa” il 10 aprile 2023.

[…] Da novembre […], la cronaca di Roma è un bollettino di guerra, un romanzo criminale violentissimo che riporta agli anni feroci della banda della Magliana: in cinque mesi, quindici omicidi sono stati eseguiti e sette tentati (quelli di cui si è a conoscenza)[…].

 […] Nello scorso marzo hanno sparato a quattro persone, a tre in una sola settimana. Molti omicidi, tra cui gli ultimi due, quelli di Luigi Finizio e di Andrea Fiore, sono avvenuti nel quadrante est di Roma, regno dei Senese, i napoletani che arrivati a Roma negli anni '80 hanno costruito un impero nel narcotraffico e allevato batterie di narcos e picchiatori, al cui vertice c'è da sempre Michele ‘o pazzo, che dal carcere non ha certo perso peso e autorevolezza, né la possibilità di comunicare con l'esterno, come dimostrano i pizzini trovati nelle sue scarpe.

Il 13 marzo, Luigi Finizio, imparentato con i Senese attraverso il fratello, è stato freddato in dieci secondi davanti ad un distributore di benzina al Quadraro, da due uomini, ancora sconosciuti, a bordo di uno scooter. Sul luogo del delitto, era apparso un amico della vittima, Andrea Fiore, un carrozziere, anche lui con precedenti. Si era fatto notare mentre parlava con gli investigatori.

 Una mossa imprudente, tanto che dopo appena quindici giorni e a poche centinaia di metri da lì, il piombo è toccato a lui: Danilo Rondoni e Daniele Viti si sono presentati a casa sua e il secondo gli ha sparato, mentre Fiore tentava di difendersi con un'accetta.

[…] Interrogato dagli inquirenti, Viti confessa di aver eseguito l'ordine superiore di un capo. Sì, ma di chi? Chi può essere il mandante di un duplice omicidio, proprio nel feudo militare di un pezzo da novanta come Michele ‘o pazzo? Difficile ipotizzare infatti che nel territorio dei Senese si assumano iniziative di rilievo […] senza il loro benestare, a meno di non volerli sfidare di proposito.

 Lo stesso ragionamento potrebbe valere per la duplice gambizzazione di due giovani e ambiziosi (troppo?) spacciatori, Alex Corelli e Simone Daranghi, avvenuta poche settimane prima, tra Morena e la Romanina. Zona controllata dai Senese e dai Casamonica, che comunque rispondono ai primi.

[…] Francesco Vitale [...] è  È stato torturato per ore in un appartamento della Magliana, fino a quando sfinito ha preferito lanciarsi dalla finestra, ma dal quinto piano non si salva nessuno.

 […] I Carabinieri del nucleo investigativo di Roma hanno arrestato per sequestro di persona, con l'aggravante della morte della vittima, il buttafuori Sergio Placidi, detto Sergione e Daniele Fabrizi, alias Saccottino, che probabilmente avevano ricevuto l'appalto per la riscossione del credito da un altro re della criminalità romana, Elvis Demce, l'albanese che si proclamava Dio, tanto feroce da cavare a mani nude l'occhio di un suo nemico, tanto sicuro del suo ruolo da affermare: «Quando parlo io è cassazione, è morte».

I carabinieri lo hanno arrestato l'anno scorso […]  Elvis Demce, cresciuto sotto l'ala protettrice di Fabrizio Piscitelli, Diabolik per tutti, era il suo braccio armato, insieme alla batteria degli albanesi di Ponte Milvio, utilizzata per risolvere i lavori più sporchi; a quanto ci risulta, dopo l'omicidio del Diablo, Demce si sarebbe allontanato dal gruppo originario di appartenenza, quello di Arben Zogu, il referente degli albanesi a Roma, per avvicinarsi alla cerchia dei Senese, all'interno della quale potrebbe essere maturato proprio l'omicidio del suo amico Piscitelli. Del resto, nel mondo criminale, si sa, le inimicizie come le amicizie hanno un prezzo.

 [...] I sequestri di mala stanno diventando un'abitudine a Roma, a Natale era stato sequestrato a Ponte Milvio davanti ad un noto e molto frequentato ristorante giapponese, Danilo Valeri, ventenne figlio di Maurizio, detto il "sorcio", pusher di San Basilio, gambizzato qualche mese prima. Valeri è stato rilasciato 24 ore dopo e non ha fornito alcuna informazione agli inquirenti sul commando che lo ha prelevato. […]

Un discorso a sé merita un'altra parte della suburra romana, che non è periferia ma impero. Ostia è da sempre terra di conquista criminale […].

 Negli anni, sul lungomare dei romani -tra le tante piazze di spaccio, il racket delle case popolari e le estorsioni- si sono consumate vere e proprie guerre di mafia: prima i Triassi, poi i Fasciani, poi gli Spada contro i Fasciani, poi gli Spada contro il gruppo di Marco Esposito, detto Barboncino, fino a quando il quadro è saltato: Barboncino è morto, i Fasciani hanno subito inchieste pesantissime, così come gli Spada, sebbene una delle figure più simboliche, Roberto Spada […] è da poco tornato in libertà, accolto sul litorale da fuochi d'artificio e festeggiato come un capo, nell'attesa (ma senza fretta) che vengano determinati gli altri anni che deve ancora scontare in carcere . […]

Tra i nuovi signori della droga, per esempio, ci sono i cileni, sempre più forti, sempre più autonomi. Qualcosa intanto di poco chiaro sta già accadendo sul litorale, come dimostrano l'omicidio di Fabrizio Vallo, avvenuto il 3 febbraio scorso, e quello -dopo pochi giorni- tentato, ma fallito di Antonio Da Ponte.

 […]  Mentre il governo tarda a nominare il nuovo prefetto di Roma e il sindaco Gualtieri è preoccupato, ma tutto sommato ritiene la Capitale una città non violenta, la scia di sangue si fa sempre più lunga, segno che qualcosa evidentemente è cambiato negli equilibri della malavita e che si è rotto quel patto mafioso di non belligeranza tra clan e narcos che solo i capi possono garantire, molti dei quali sono ormai indeboliti dalle inchieste o in carcere o morti, come Diabolik, freddato su una panchina in un parco pubblico nel 2019.

 Quello di Fabrizio Piscitelli è stato un omicidio eccellente, di matrice mafiosa come disse da subito l'allora capo della Procura di Roma Michele Prestipino. Eppure ad oggi, dopo quattro anni, conosciamo il nome dell'esecutore materiale, l'argentino Raul Esteban Calderon, ma non quello dei mandanti, la cui posizione è stata archiviata per insufficienza di prove.

Alcuni dei presunti colpevoli sono in carcere per altri reati, altri potrebbero uscire a breve, altri invece sono liberi. Diabolik e il suo socio Fabrizio Fabietti hanno inondato Roma di cocaina, sfamavano le principali piazze di spaccio di Roma, da Torbella Monaca a Primavalle, da San Basilio ad Acilia, dalla Romanina ai Castelli, passando, appunto, per Ostia, come ha svelato un'importantissima operazione del Gico della Guardia di Finanza, dal titolo evocativo, "Grande Raccordo Criminale".

 Il Diablo l'hanno ammazzato, Fabietti e la sua banda sono in carcere, come tanti altri boss della città. Eppure la cocaina continua a scorrere a fiumi tra le strade della città, in tutti i quartieri, perché i vuoti nella malavita vanno riempiti rapidamente ed è quello che sta succedendo a Roma e che spiega tanto fermento e tanta violenza: se mancano le figure di garanzia per fare la pace, i ranghi inferiori si fanno la guerra e si armano.[…]

Estratto dell'articolo di Camilla Mozzetti per “Il Messaggero” il 3 aprile 2023.

Non è solo un fattore di quantità: il numero di pistole e di fucili sequestrati nell'arsenale di Pietralata (un chilometro appena da dove viveva Fabrizio Fabietti), custoditi da una donna insospettabile che forse davvero faceva solo questo: tenere le armi per "conto di" […]

 A lasciare intendere che quello fosse una vera e propria armeria - gestita non dagli ultimi delinquenti di strada - è anche il munizionamento e la provenienza delle armi. "Ferri" pronti ad essere usati, proventi di furto, con matricola abrasa e con cartucce al seguito. Quasi nessuna delle pistole sequestrate era sprovvista di proiettili. E non è una questione di singolo caricatore. […]

Delle undici armi ritrovate, quasi la metà - cinque - derivano da furti, anche recentissimi, avvenuti non solo nella Capitale. Dall'Umbria all'Abruzzo segno di come la "ricettazione" sia facile da praticare. E così, a parte il fucile "Whinchester" calibro 12 con canna mozza (che tuttavia non era stato mai censito), ecco che è spuntata una Beretta calibro 6.35 rubata e denunciata a Roma nel 2014 ma c'è anche una pistola "Arminius HW38" rubata ad Avezzano (provincia dell'Aquila) appena l'anno scorso. E sempre denunciata nel 2022 ma a Perugia una "Glock 17" con ben 82 cartucce.

Poi ancora qualche altro "ferro" rubato a Roma come una "Mauser" calibro 6.35, denunciata sempre nel 2022, e una "Browning" calibro 6.35. Tra le pistole pronte all'uso una Beretta modello 84 senza matricola, scarica, ma con 57 cartucce e fornita di silenziatore.

 Insomma un "compendio" di armi messo insieme nel tempo, custodito da una donna tra i lotti popolari di Pietralata probabilmente dietro corrispettivo.

A indicare il covo pare sia stato Daniele Viti, arrestato insieme a Danilo Rondoni dopo la morte di Andrea Fiore, avvenuta la scorsa domenica al Quadraro. In base a quanto annotato dagli investigatori della Squadra Mobile, per come sono andati i fatti, si presume che Viti e Rondoni in quella casa cantoniera ci siano arrivati forse nella speranza di avere da Andrea Fiore elementi utili sulla morte di Luigi (Gigio) Finizio con il quale probabilmente erano in affari ma che è stato ammazzato la sera del 13 marzo nel distributore di benzina di via degli Angeli, angolo via dei Ciceri. […]

Estratto dell'articolo di Camilla Mozzetti e Michela Allegri per “Il Messaggero” il 31 marzo 2023.

La lunga scia di sangue che ha sconvolto la Capitale, culminata con gli agguati costati la vita a Luigi Finizio, il 13 marzo scorso, e ad Andrea Fiore, ucciso nella notte tra domenica e lunedì a Torpignattara, porta a un appartamento in zona Pietralata.

 Secondo i magistrati della Direzione distrettuale antimafia è uno dei covi dove i killer hanno nascosto le armi utilizzate per omicidi, gambizzazioni, minacce, nella guerra tra clan dello spaccio che sta mettendo a ferro e fuoco la città: dieci pistole - tra le quali una Glock 17 - un fucile Whinchester con canna mozza, una mitragliatrice Scorpion e centinaia di munizioni.

Armi clandestine, alcune con matricola abrasa, che potrebbero essere il bottino di furti e rapine. L'inquilino dell'appartamento è stato arrestato: secondo gli inquirenti è il custode dell'arsenale. Si tratta di un cinquantenne legato alle bande di spacciatori.

[…] A dire dove si trovassero le armi potrebbe essere stato Daniele Viti, 43 anni, originario di Veroli, in provincia di Frosinone. È stato arrestato lunedì in relazione all'omicidio di Fiore. A casa sua i poliziotti hanno trovato quattro chili di cocaina. Interrogato, avrebbe confermato l'indirizzo del covo. Ieri il suo arresto è stato convalidato: la misura nei suoi confronti è stata confermata e il gip ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare in carcere.

 […] Secondo gli inquirenti non sarebbe stato lui a premere il grilletto nell'agguato mortale, ma era presente: incastrato dal portafogli dimenticato a casa della vittima, potrebbe avere convinto la vittima ad aprirgli la porta dell'appartamento.

[…] Un dato potrebbe non essere secondario. L'appartamento che è stato perquisito dagli agenti della Squadra Mobile, è vicino alla casa di Fabrizio Fabietti, il braccio destro di Fabrizio Piscitelli, il Diabolik capo ultrà della Lazio che, secondo i magistrati della Dda romana era diventato uno dei re dei narcos della Capitale e che è stato freddato il 7 agosto 2019 con un colpo di pistola alla testa. Fabietti era stato arrestato proprio in quella casa durante l'operazione Grande raccordo criminale, nel novembre 2019, che gli ha fatto ottenere una condanna in primo grado a 30 anni di reclusione.

Per l'accusa, anche Fabietti era finito al centro della guerra tra narcos che aveva portato alla morte di Diabolik: era candidato a essere una delle vittime. Da un'informativa della Mobile, infatti, emerge che Raul Esteban Calderon, ora a processo per avere premuto il grilletto contro Piscitelli al Parco degli Acquedotti, insieme a Leandro Bennato, aveva in programma di fare fuori anche lui. Per undici giorni, dal 14 al 25 novembre 2019, avrebbero cercato di ucciderlo. E Fabietti, spaventato, si era addirittura dotato di una scorta armata per sfuggire agli agguati.

Adesso la guerra tra bande per la conquista delle piazze di spaccio della Capitale è ricominciata. D'altronde, come emerge da un'informativa della Mobile, «l'esecuzione di Diabolik ha rappresentato una sorta di spartiacque» negli equilibri della malavita romana: c'è un prima e un dopo la morte violenta dell'ex capo ultrà degli Irriducibili della Lazio. […]

Estratto dell’articolo di Andrea Ossino per “La Repubblica – Edizione Roma” il 31 marzo 2023.

C'è Daniele Carlomosti, il boss, l'uomo che aveva allestito una stanza con teli di nylon dove torturare le vittime. E anche Armando De Propris, il padre di Marcello, il ragazzo che nel 2019 aveva fornito l'arma con cui è stato ucciso un personal trainer di 24 anni, Luca Sacchi. […]

 Gambizzazioni, torture, incendi, sequestri di persone e tentati omicidi. È un'associazione a delinquere dalle maniere forti, quella che i carabinieri del comando Provinciale di Roma hanno sgominato. "Quelli so brutti forte compà", aveva profetizzato un pescecane come Massimo Carminati non sapendo di essere intercettato. […]

 Carlomosti, detto "Bestione", quando non prestava il suo volto alla serie Romanzo Criminale, nei film con Christian De Sica, Alessandro Gassmann e Tom Hanks, o in Gangs of New York, di Martin Scorsese, conduceva una vita degna della sceneggiatura di un film. Aveva anche una stanza per le torture.

 Quattro teli, cinque metri di corda: "Lo incaprettiamo", diceva a proposito di un debitore. "Lo mettevo dentro un sacco e lo buttavo dentro a un secchione", ripeteva.

 Le intercettazioni ambientali hanno consentito ai carabinieri di scoprire la stanza di "Dexter": dove la vittima, nello specifico un cattivo pagatore come Maurizio Cannone, detto "Fagiolo", che aveva contratto un debito con Carlomosti per 64 mila euro di "fumo", viene legata, costretta supplicare per la sua vita, mentre gli aguzzini stendono teli di plastica per non sporcare pareti e pavimenti con il sangue, prima di pestarlo con una mazza da baseball.

 Scene che sembrano rubate alla serie americana "Dexter" appunto, ma che a Roma accadono veramente. E non per caso.

[…] "Lo sai che stai per morire - ammonisce il boss prima di assestare il primo cazzotto, che segna l'inizio della tortura - dammi questo orologio, ora ti ammazzo. Prendi i teli - ordina al complice - ora ti ammazzo, queste sono le ultime parole che senti, oggi muori".

 Cannone è piegato in ginocchio sul telo di plastica, le mani legate dietro alla schiena. "Ti ho dato 21 mila euro", si difende la vittima. "E che sono - ribatte il boss - me ne devi 60 mila".

 "Prendi il trapano, il frullino", ordina il Bestione al sottoposto. "Io ti do i soldi oggi - supplica la vittima - poi ammazzami, fai come ti pare Danié". E lui: "Casa tua non ce l'hai più perché adesso diventa mia, la macchina diventa mia, gli orologi che hai diventano miei, la tua vita diventa mia".

Ancora: "Fagiò io ti taglio le dita con le tronchesi". Il Bestione avvia una videochiamata con la compagna della vittima, per farsi portare gli oltre 40mila euro che mancano per saldare il debito.

 

Estratto dell’articolo di Fulvio Fiano per "Il Corriere della Sera - Edizione Roma" il 30 marzo 2023.

«Dieci chili di fumo non me li leva neanche Totò Riina», diceva il narcos de La Rustica Daniele Carlomosti prima di pestare a sangue un suo debitore. «Il Gigante» rischia ora 20 anni di carcere e gli atti d’indagine sulla sua associazione criminale offrono un vademecum per gli omicidi delle ultime settimane a Roma.

 «L’ho frantumato tutto, legato dentro ai sacchi. Abbiamo videochiamato la moglie mentre lo prendevamo a mazzate», racconta, intercettato, lo stesso 44enne, comparsa in pellicole di successo nella sua vita parallela («Romanzo criminale», «Un gatto in Tangenziale», «Gangs of New York» con annessi selfie con Claudio Amendola, Christian De Sica, Alessandro Gassman, Tom Hanks).

 In questo caso, dopo aver chiesto il permesso al boss camorrista Michele Senese, Carlomosti si dedicava a torturare per cinque ore (armi, pinze, un trapano) il suo debitore in un appartamento allestito con teli di plastica sul pavimento in previsione dei fiotti di sangue.

Per questo e altri episodi la Procura ha chiesto ieri in abbreviato (quindi con condanne già ridotte di un terzo) oltre 145 anni di carcere totali per i 13 affiliati in una associazione a delinquere che sparando, rapendo, picchiando e stringendo accordi puntava a imporre il suo hashish nelle piazze di spaccio capitoline.

 […]  Il nome di Carlomosti compare a vario titolo in praticamente tutte le inchieste sulla criminalità organizzata in città.  Detto di Senese, a lui fa riferimento Massimo Carminati in «Mondo di mezzo» quando ne soppesa la ferocia: «Questi so’ brutti forti». Ma Carlomosti ha rapporti con Fabrizio Piscitelli Diabolik, che si offre come torturatore avendo un credito con la stessa vittima. […]

Lo stesso Gigante non esita ad aprire il fuoco contro suo fratello Simone e a incendiare l’auto del padre. L’affare più grande della banda, il tentativo di importare una tonnellata di hashish via Spagna, viene invece vanificato dalla polizia marocchina.

 Il pm Edoardo De Santis contesta agli imputati l’aggravante del metodo mafioso. Otto anni e otto mesi è la richiesta per la moglie di Carlomosti, Romina Faloci, coinvolta nel rapimento; stessa pena per la zia Cecilia Leo […]

Tra i vessati della banda anche William Casinelli, ultrà della Roma, costretto a sdebitarsi consegnando orologi di lusso e un suv. […]: «Ti sto ammazzando, stai per morire, ora telefoni a casa e dici di farmi entrare», dice Carlomosti alla sua vittima. […]

Ecco chi è Daniele Carlomosti, comparsa del cinema diventato spietato boss romano della droga. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2023

Il Gigante della Rustica rischia 20 anni di carcere. Dai selfie con Amendola e Gassman ai violenti affari criminali

«Dieci chili di fumo non me li leva neanche Totò Riina», diceva il narcos de La Rustica Daniele Carlomosti prima di pestare a sangue un suo debitore. «Il Gigante» rischia ora 20 anni di carcere e gli atti d’indagine sulla sua associazione criminale offrono un vademecum per gli omicidi delle ultime settimane a Roma.

I selfie con le star del cinema

«L’ho frantumato tutto, legato dentro ai sacchi. Abbiamo videochiamato la moglie mentre lo prendevamo a mazzate», racconta, intercettato, lo stesso 44enne, comparsa in pellicole di successo nella sua vita parallela («Romanzo criminale», «Un gatto in Tangenziale», «Gangs of New York» con annessi selfie con Claudio Amendola, Christian De Sica, Alessandro Gassman, Tom Hanks).

 Il debitore torturato per 5 ore

In questo caso, dopo aver chiesto il permesso al boss camorrista Michele Senese, Carlomosti si dedicava a torturare per cinque ore (armi, pinze, un trapano) il suo debitore in un appartamento allestito con teli di plastica sul pavimento in previsione dei fiotti di sangue. Per questo e altri episodi la Procura ha chiesto ieri in abbreviato (quindi con condanne già ridotte di un terzo) oltre 145 anni di carcere totali per i 13 affiliati in una associazione a delinquere che sparando, rapendo, picchiando e stringendo accordi puntava a imporre il suo hashish nelle piazze di spaccio capitoline.

La ramificazioni della banda

 «Siamo quattro gruppi che stiamo insieme. Io compro questa parte, l’amico mio fa la parte di Roma sud e i Castelli e un altro a Cinecittà e quindi quando arriva una cosa ce l’abbiamo tutti noi», rivela ancora Carlomosti. Come ricostruito dalle indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo, confluite nell’ordinanza di arresto dello scorso maggio (31 indagati totali), il nome di Carlomosti compare a vario titolo in praticamente tutte le inchieste sulla criminalità organizzata in città. 

Il commento di Carminati

Detto di Senese, a lui fa riferimento Massimo Carminati in «Mondo di mezzo» quando ne soppesa la ferocia: «Questi so’ brutti forti». Ma Carlomosti ha rapporti con Fabrizio Piscitelli Diabolik, che si offre come torturatore avendo un credito con la stessa vittima.

 La rete criminale 

Il 44enne de La Rustica è poi in affari con Alessandro Corvesi, a sua volta legato all’albanese Elvis Demce (anche lui attento a filmare il rapimento di un suo debitore per far conoscere la propria ferocia), e compare nelle indagini sul giro di droga nel quale era coinvolto anche Francesco Vitale, morto poche settimane fa alla Magliana nel tentativo di sfuggire alle torture di altri suoi creditori. 

Gli spari al fratello

Lo stesso Gigante non esita ad aprire il fuoco contro suo fratello Simone e a incendiare l’auto del padre. L’affare più grande della banda, il tentativo di importare una tonnellata di hashish via Spagna, viene invece vanificato dalla polizia marocchina. 

Il pm: «Metodo mafioso»

Il pm Edoardo De Santis contesta agli imputati l’aggravante del metodo mafioso. Otto anni e otto mesi è la richiesta per la moglie di Carlomosti, Romina Faloci, coinvolta nel rapimento; stessa pena per la zia Cecilia Leo, mentre 10 anni e otto mesi rischia Armando De Propris, padre di uno dei killer condannati in primo grado per l’omicidio di Luca Sacchi (e lui stesso assolto dall’accusa di aver fornito la pistola), accorso per il pestaggio di un altro debitore. 

«Ti sto ammazzando»

Tra i vessati della banda anche William Casinelli, ultrà della Roma, costretto a sdebitarsi consegnando orologi di lusso e un suv. Un altro particolare si ripete nei recenti regolamenti di conti per droga: «Ti sto ammazzando, stai per morire, ora telefoni a casa e dici di farmi entrare», dice Carlomosti alla sua vittima. Proprio come fatto dai rapitori di Vitale.

Torturava vittime nella stanza degli orrori, 20 anni per il boss Carlomosti. A processo la banda de la Rustica. Carminati: "Quelli so brutti forte". Andrea Ossino su La Repubblica il 29 Marzo 2023

Oltre al boss il pm ha chiesto pene anche per Armando De Propris, il padre di Marcello, che nel 2019 fornì l'arma con cui fu ucciso un personal trainer di 24 anni, Luca Sacchi. E poi soldati semplici, luogotenenti e generali del crimine: 13 persone in totale, per 140 anni di carcere

C'è Daniele Carlomosti, il boss, l'uomo che aveva allestito una stanza con teli di nylon dove torturare le vittime. E anche Armando De Propris, il padre di Marcello, il ragazzo che nel 2019 aveva fornito l'arma con cui è stato ucciso un personal trainer di 24 anni, Luca Sacchi.

E poi soldati semplici, luogotenenti e generali del crimine: 13 persone in totale. Sono tutti a processo, nell'aula dedicata al magistrato Vittorio Occorsio. E oggi hanno ascoltato il pm Edoardo De Santis mentre sollecitava condanne per tutti quelli che hanno gravitato intorno alla banda de La Rustica. La pena più alta è prevista per Carlomosti, 20 anni di carcere, ma il totale degli anni di carcere richiesti dalla procura supera i 140 anni di reclusione.

Gambizzazioni, torture, incendi, sequestri di persone e tentati omicidi. È un'associazione a delinquere dalle maniere forti, quella che i carabinieri del Comando Provinciale di Roma hanno sgominato.

"Quelli so brutti forte compà", aveva profetizzato un pescecane come Massimo Carminati non sapendo di essere intercettato.

L'indagine è partita in seguito a una guerra tra Carlomosti e il fratello. Un conflitto, quello tra i due, senza esclusione di colpi: gambizzazioni, incendi, esplosione colpi d'arma da fuoco contro appartamenti e veicoli e anche sparatorie. Era il modo, per Carlomosti, di rimarcare la sua autorità. Non sapeva che i carabinieri lo stavano monitorando registrando ogni attività dell'associazione: dall'acquisto di milla chili di droga direttamente dal Marocco, portandolo in Spagna e in Italia a bordo di un gommone, fino al sequestro di persona e alle torture riservate a un pusher che non aveva saldato un debito di 64 mila, passando per un sequestro in cui la vittima è stata legata, spogliata e costretta subire minacce di morte e violenze fisiche per circa sei ore.

Carlomosti, detto "Bestione", quando non prestava il suo volto alla serie Romanzo Criminale, nei film con Christian De Sica, Alessandro Gassmann e Tom Hanks, o in Gangs of New York, di Martin Scorsese, conduceva una vita degna della sceneggiatura di un film. Aveva anche una stanza per le torture.

Quattro teli, cinque metri di corda: "Lo incaprettiamo", diceva a proposito di un debitore. "Lo mettevo dentro un sacco e lo buttavo dentro a un secchione", ripeteva.

Le intercettazioni ambientali hanno consentito ai carabinieri di scoprire la stanza di "Dexter": dove la vittima, nello specifico un cattivo pagatore come Maurizio Cannone, detto "Fagiolo", che aveva contratto un debito con Carlomosti per 64 mila euro di "fumo", viene legata, costretta supplicare per la sua vita, mentre gli aguzzini stendono teli di plastica per non sporcare pareti e pavimenti con il sangue, prima di pestarlo con una mazza da baseball. Scene che sembrano rubate alla serie americana "Dexter" appunto, ma che a Roma accadono veramente. E non per caso.

Cannone era stato portato in quella stanza con il benestare della famiglia Senese. È l'11 dicembre del 2018: Il Bestione ha portato Cannone nella stanza delle torture con l'aiuto di due scagnozzi. "Lo sai che stai per morire - ammonisce il boss prima di assestare il primo cazzotto, che segna l'inizio della tortura - dammi questo orologio, ora ti ammazzo. Prendi i teli - ordina al complice - ora ti ammazzo, queste sono le ultime parole che senti, oggi muori".

 Cannone è piegato in ginocchio sul telo di plastica, le mani legate dietro alla schiena. "Ti ho dato 21 mila euro", si difende la vittima. "E che sono - ribatte il boss - me ne devi 60 mila".

"Prendi il trapano, il frullino", ordina il Bestione al sottoposto. "Io ti do i soldi oggi - supplica la vittima - poi ammazzami, fai come ti pare Danié". E lui: "Casa tua non ce l'hai più perché adesso diventa mia, la macchina diventa mia, gli orologi che hai diventano miei, la tua vita diventa mia".

Ancora: "Fagiò io ti taglio le dita con le tronchesi". Il Bestione  avvia una videochiamata con la compagna della vittima, per farsi portare gli oltre 40mila euro che mancano per saldare il debito. Poi  squilla il telefono di Cannone, il boss risponde e intima al fratello della vittima, Salvatore: "Se entro le quattro non mi mandate 60 mila euro lo faccio a pezzi tuo fratello, è chiaro?". Risposta: "Io ti aiuto, ma dove li vado a prendere 60 mila euro". Le violenze continuano finché Cannone non viene rilasciato dopo il pagamento di 8 mila euro.

I carabinieri però stavano registrando ogni cosa. E adesso il Bestione e i suoi rischiano di trascorrere molti anni dietro le sbarre.

Estratto dell'articolo di Valentina Errante per “il Messaggero” il 23 marzo 2023.

Comincia tutto con un furto "sbagliato": 107 chili di cocaina rubati in casa del pusher Gualtiero Giombini. È questo errore imperdonabile che dà il via a una serie di sequestri lampo, durante i quali le vittime vengono picchiate e torturate, sospese nel vuoto da un ponte, bruciate con la fiamma ossidrica. La restituzione di quella droga ha lasciato una lunga scia di sangue e potrebbe avere portato alla morte di Giobini. Per il suo decesso la procura indaga per sequestro di persona con morte della vittima. Ma di rapimenti ce ne sono stati altri due. […]

È il carabiniere Rosario Morabito, insieme a Cristiano Isopo, a organizzare il colpo da oltre un milione di euro in casa di Giombini. «Ti do le ladre più brave di Roma», gli dice il militare. Sono due rom, Autilia Romano e Autilia Bevilacqua. Alla fine di ottobre il furto a Casalotti. Isopo e le due rom portano via 107 chili di cocaina. Per custodire la droga Isopo affitta una villetta a Fiumicino dove avviene la spartizione: 53,5 chili al militare e all'uomo e l'altra metà alle due donne. Le rappresaglie legate al furto partono 15 giorni dopo: con il sequestro di Isopo e quello di due rom, una estranea ai fatti.

A raccontare l'orrore al pm Erminio Amelio, che coordina le indagini insieme al sostituto Giovanni Musarò, è Isopo, anche lui vittima di un precedente rapimento. L'uomo viene arrestato in flagrante a dicembre, mentre, insieme ad Autilia Romano e a una sua cugina, incontra Elias Mancinelli, uno dei torturatori, ora in carcere per i due sequestri[…]. Quando gli uomini della Mobile li fermano, Isopo e le due donne stanno consegnando una parte della droga rubata per ottenere la liberazione di un ostaggio: Autilia Bevilacqua.

«Dopo circa 15 giorni sono arrivati da me i proprietari di questa sostanza e mi hanno prelevato e il signor Elias mi ha caricato in macchina - racconta Isopo - mi ha incappucciato, mi ha fatto scendere dalla macchina e lasciare il cellulare e mi ha portato dentro a una casa, mi hanno tenuto il cappuccio e legato con le fascette da elettricista mani e piedi alla sedia e lì hanno cominciato a gonfiarmi di botte, gli aghetti me li hanno infilati dentro le unghie, cazzotti sulle mani, avevo le mani gonfie che non riuscivo a muoverle. Mi menavano in testa con la scopa e mi ci menavano ancora per farmi più male, botte e calci sulle costole, sul torace, sul collo. Mi hanno fratturato due costole, mi hanno fatto una faccia così, lividi su lividi e sangue. Alla fine non ce l'ho fatta più e ho detto il furto è stato fatto da due donne zingare della famiglia Bevilacqua, me le ha mandate un certo Rosario Morabito che fa il carabiniere. Dopo 12 ore mi hanno rilasciato pesto come l'uva». […]

Nella casa del sequestro c'era anche Gualtiero, Isopo sente provenire dei «lamenti animali». Il racconto dell'uomo ai pm continua: «Avevano preso già lui e lo avevano massacrato. Era in condizioni irriconoscibili - racconta Isopo - indossava solo le mutande la sua faccia era tumefatta, aveva lividi e sangue in tutto il corpo, ero una sorta di mostro. Elias mi disse che la stessa fine avrei fatto io se non avessi collaborato a restituire la droga. Elias e i suoi compagni, circa 8 o 9, un giorno lo avevano tenuto penzoloni da un ponte in zona Laurentino con la ferrovia sotto, dissero che se non riportavo la droga sarei andato giù per la ferrovia oppure sarei stato impiccato».

Isopo restituisce quasi tutti i 54 chili di cocaina, ma continua a essere seguito, braccato. Mancinelli più volte lo picchia. Si presenta anche in casa sua e dà un pugno alla moglie, mette un gps nell'auto della donna.

È il 4 dicembre quando il figlio di Autilia Romano intorno alle 21, si rivolge alla polizia, la donna è omonima della rom che ha partecipato al furto, ed è sua cugina. Il ragazzo, terrorizzato, dice che sua madre e Autilia Bevilacqua sono state sequestrate. […] Alle 5 del mattino, dopo un confronto a casa di Isopo, Autilia Romano viene liberata, ma sua cugina rimane ostaggio di Mancinelli.

La polizia monitora i cellulari. Scopre che la donna, insieme alla sua omonima, che ha partecipato al furto e ha già ha venduto dieci chili di cocaina per 170mila euro è pronta a fare lo scambio con Mancinelli. L'arresto in flagranza al Centro commerciale Maximo avviene il 5 dicembre. Poi partono le indagini che sono ancora in corso.

A Roma è cominciata una misteriosa guerra tra clan. di Stefano Baudino su L'Indipendente il 17 marzo 2023.

In pochi se ne stanno occupando, ma le cronache ci raccontano apertamente che Roma è in balia del caos. In soli sei giorni, una lunga scia di sangue è stata lasciata sulle strade della Capitale, teatro delle morti violente di tre soggetti coinvolti nel suo caotico contesto criminale. Secondo gli investigatori, sarebbe in corso una guerra tra clan per la ripartizione degli ingenti guadagni legati al traffico degli stupefacenti. E, insieme, un riposizionamento dell’influenza delle famiglie nello scacchiere criminale cittadino.

L’ultimo a morire è stato Luigi Finzio. L’uomo era fratello di Girolamo, cognato di Angelo Senese, reputato il reggente del potente clan collegato ai Moccia di Afragola e nemico giurato degli Spada di Ostia (il 22 novembre del 2022 era stato arrestato come mandante della gambizzazione di Paolo Ascani, cognato di Roberto Spada). Alle 19.30 di lunedì 13 marzo, Finzio si trovava presso una pompa di benzina in zona Centocelle: è stato ammazzato a colpi di pistola, nella cornice – dicono gli investigatori – del più classico regolamento di conti.

Il 10 marzo, ad essere ucciso era stato invece  Manuel Costa, chef romano titolare dei locali Osteria degli artisti e Metropolis, il cui cadavere è stato lasciato all’interno di una macchina insieme alla pistola con cui era stato freddato. Dietro al gesto, compiuto dal reo confesso casertano Fabio Giaccio, ci sarebbe un prestito da 100mila euro, che il killer aveva precedentemente investito in un affare con Costa poi non andato a buon fine. Forse, all’insaputa della vittima, con i soldi della Camorra. Gli inquirenti indagano.

Una manciata di giorni prima, l’8 marzo, la stessa sorte era toccata al 33enne Stefan Mihai Roman, finito a colpi di pistola alla testa e all’addome in zona Casal de Pazzi. L’uomo, appena uscito di casa, si trovava all’altezza del civico 9 di via Francesco Selmi. I killer sono arrivati in sella a una motocicletta e sono scappati immediatamente dopo averlo ucciso.

Il 2 febbraio, veniva ammazzato ad Ostia (feudo degli Spada e dei Fasciani) il 48enne Fabrizio Vallo, conosciuto negli ambienti criminali del litorale ma anche della Capitale, con 13 colpi di pistola. Era invece in debito con un gruppo di narcos italo-albanesi che controllano il traffico di droga tra Spagna e Italia il pr barese Francesco Vitale, volato dal quinto piano di un palazzo nel quartiere Magliana dove era stato sequestrato e ritrovato senza vita in strada la mattina del 22 febbraio. Sullo sfondo, un mese fa nella zona dell’Infernetto, il ferimento di Antonio De Ponte, pregiudicato che fu vicino alla Camorra e finì in carcere per omicidio, le gambizzazioni di Simone Daranghi e Alex Corelli a Morena l’11 febbraio e, in ultimo, quella di Marco Canali, personaggio noto della piazza di spaccio del Tufello, il 22 febbraio.

Il comune denominatore di questa lunghissima catena di delitti sembra essere soltanto uno: il business della filiera illegale della droga e la spartizione delle principali piazze di spaccio romane. A contribuire a far saltare gli equilibri criminali della Capitale nel traffico degli stupefacenti era stato, in particolare, lo storico omicidio dell’ultrà laziale Fabrizio “Diabolik” Piscitelli, avvenuto a Roma nell’agosto del 2019. Piscitelli, con l’appoggio di Salvatore Casamonica, era stato il fautore della pax mafiosa che doveva porre fine alla faida tra gli Spada (cugini dei Casamonica) e il gruppo di Marco “Barboncino” Esposito, legato alla famiglia dei Triassi, originari di Agrigento.

Oggi, la spartizione criminale del territorio romano risulta molto frastagliata e soggetta a rapide mutazioni. Un’infinità di gruppi (parliamo di circa un centinaio di clan) si dividono il controllo dei circuiti illegali dei vari quartieri della Capitale. Citando soltanto i più potenti, troviamo i Casamonica, gli “zingaracci” che controllano il Quadraro, Tuscolano-Cinecittà, la Romanina, Spinaceto e Arco di Travertino; i Senese, presenti a Centocelle-Quarticciolo ma anche a Tuscolano-Cinecittà; i Gambacurta, che spadroneggiano a Montespaccato, Boccea e Aurelia; molto operosa è ovviamente anche la ‘ndrangheta, ma pure la Camorra, rappresentata dalle famiglie Amato-Pagani e Contini; sul litorale, oltre agli Spada e ai Fasciani, ci sono anche gli uomini delle cosche calabresi e i “soliti” Triassi.

Come da tradizione, Roma offre risorse succulente alla criminalità organizzata così come a quella comune. Qui non è presente un unico “marchio” autorevole a cui prestare giuramento e sotto il cui cappello incarnare la propria esperienza criminale. La Capitale è ospitale nei confronti di chiunque ambisca a un pezzo della sua “torta”, ma non vuole padroni. Da sempre. E se qualcuno cerca di sottrarsi alle fragili logiche spartitorie concepite nel tempo, allora non può che scatenarsi il terremoto. [di Stefano Baudino]

Estratto dell'articolo di m.c. e and.oss. per “la Repubbica” il 15 marzo 2023.

[…]  Luigi Finizio, il 51enne ucciso con 4 colpi di pistola mentre stava facendo benzina lunedì notte in via dei Ciceri, aveva precedenti per rapina, droga e ricettazione. Non era un criminale di primo piano, solo uno dei tanti spacciatori della zona. Per questo gli investigatori della Squadra mobile ipotizzano che sia stato ucciso nell’ambito di un regolamento di conti.

 Anche perché suo cugino Girolamo è il cognato di Angelo Senese, il fratello del boss Michele Senese, che comandava la zona del Tuscolano. È uscito dal carcere solo 3 mesi fa, dopo aver scontato una pena di 3 anni e 8 mesi per lesioni. Subito dopo l’omicidio si sarebbe allarmato non poco, poi attraverso il suo avvocato avrebbe preso le distanze: «Non abbiamo mai avuto interessi in comune».

Finizio sapeva di essere in pericolo. Sul suo profilo Instagram sono diverse le minacce di morte nei suoi confronti: «Vedi da fatte vede a invalido te l’addrizzo io quel collo storto che hai l’epatite e vai a sco…. le pischelle. Te lo giuro su mi fio tu mi muori in mano, che te odiano tutti e dicono pure che sei infame»

 A mandare i messaggi è sempre la stessa persona, L. B. che si esprime senza filtri: « Vedi da fatte vede che la pazienza è finita per tu fio non vengo a casa però visto che sei una merda che non te fai trovà te vengo a pijà io a te » . […]

Estratto dell'articolo di Fla. Sav. per “Il Messaggero” il 15 marzo 2023.

La passione per le donne, l'amore per il calcio e la vicinanza ai Fedayn, ultras della Roma. Poi gli orologi di lusso e il legame indissolubile con la famiglia. Una carriera criminale iniziata nel 93, con il primo arresto per spaccio. E terminata lunedì sera, al benzinaio di via degli Angeli a Centocelle dove due sicari gli hanno sparato sette colpi di una calibro 9: così è finita la parabola di Luigi Finizio, "Gigio" come lo chiamavano gli amici. […]

 Negli ultimi 20 anni era entrato e uscito di prigione. L'accusa era sempre la stessa: spaccio di sostanze stupefacenti e rapine.

Secondo gli investigatori, Finizio sarebbe finito vittima della guerra tra le piazze dello spaccio della Capitale. Cresciuto all'ombra del cugino, Girolamo Finizio, cognato di Angelo Senese, fratello del boss di Afragola, che nella Capitale ha costruito un impero sulla droga e l'usura, Michele Senese detto "O' Pazzo".

Proprio questo legame con i Senese avrebbe fatto fare ai cugini Finizio negli anni 90 il salto di qualità negli affari legati al giro dello spaccio di stupefacenti. E mentre Girolamo scalava via via le posizioni verso il vertice, Luigi sarebbe stato alcuni passi indietro. Tuttavia il legame con la sua famiglia, e il clan Senese, è sempre stato solido.

 Secondo gli inquirenti, Gigio sarebbe stato pronto a prendere il posto del cugino Girolamo quando due anni fa era finito in carcere con l'accusa di tentato omicidio - poi derubricata in lesioni - per la gambizzazione di Paolo Ascani, cognato di Roberto Spada, avvenuta il 20 aprile 2020 in via Antonio Forni a Ostia. Il centro della piazza dello spaccio sul litorale romano.

[…] Non solo la droga e le famiglie che gestiscono la criminalità romana: Finizio era anche un fervente tifoso della Roma molto vicino agli ultras del Fedayn. E poi ci sono le donne. Proprio questa passione lo avrebbe però portato ad avere più di un nemico. «A merda, fai l'omo. Come, te sco... le mogli dei carcerati e poi c'hai paura? Fai bene perché te faccio rimpiange il giorno che sei nato», si legge sotto alcune foto del suo profilo Instagram. «Te lo giuro su mi fijo, tu mi muori tra le mani». O ancora: «Ti odiano tutti e dicono pure che sei infame». […]

Estratto da repubblica.it il 15 marzo 2023.

Omicidio in via dei Ciceri, all'incrocio con via degli Angeli, nella periferia romana del Quadraro intorno alle 19.30. Un uomo italiano di 51 anni, Luigi Finizio, è stato colpito da almeno sette colpi di pistola, alcuni anche al torace mentre si trovava a un benzinaio.

 L'uomo, con precedenti per droga, è morto sul colpo ed è stato trovato disteso vicino alla sua Twingo. Gli aggressori sono fuggiti. La zona del distributore è isolata, ma alcuni residenti avrebbero sentito gli spari avvisando le forze dell'ordine. Sul posto sono arrivati  i poliziotti della Squadra mobile.

Luigi Finizio, era il fratello di Girolamo, il cognato di Angelo Senese, fratello del boss Michele Senese. 

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Terzo omicidio a Roma in pochi giorni

Quello di stasera è il terzo omicidio nella capitale negli ultimi giorni. Venerdì nella zona di San Giovanni è stato ucciso Emanuele Costanza, chef noto come Manuel Costa e titolare dell'osteria degli Artisti. Per questa vicenda è in carcere Fabio Giaccio, un 43enne di origini napoletane, reoconfesso. Mercoledì scorso Mihai Stafan Roman era stato freddato in strada a Casal de’ Pazzi da due killer in sella a una motocicletta.

 Gualtieri: "Preoccupa escalation criminale"

"Grande preoccupazione per l'escalation criminale con il terzo omicidio a Roma nel giro di pochi giorni. Si nomini subito il nuovo prefetto e si convochi urgentemente il comitato per l'ordine e la sicurezza per rafforzare gli interventi di contrasto alla criminalità organizzata e allo spaccio di stupefacenti". Questo il commento, in una nota, del sindaco di Roma Roberto Gualtieri.

Estratto dell'articolo di Emilio Orlando per leggo.it il 18 marzo 2023.

Nuovi sviluppi sui contorni misteriosi che, a distanza di quattro anni, ancora avvolgono uno degli omicidi di mala più significativi avvenuti nella Capitale. Lo scooter e la pistola utilizzati dal killer, che il 7 agosto del 2019 su una panchina del parco degli Acquedotti al Tuscolano, a Roma, uccise Fabrizio Piscitelli alias Diabolik appartenevano a un poliziotto che ne aveva denunciato il furto tre giorni prima dell'omicidio.

Il sovrintendente capo di 48 anni, che al commissariato Romanina si presentò per fare la denuncia di furto, dichiarò al sottufficiale dell'ufficio denunce di aver parcheggiato lo scoter “Piaggio Beverly" in viale Antonio Ciamarra 155 e di non averlo più trovato quando era andato a riprenderlo. Nel bauletto [...] c'era uno zainetto con la pistola d'ordinanza e un caricatore completo di 15 munizioni.

 [...]  l'inchiesta riparte proprio da questo punto. Dai tabulati telefonici [...] non ci sarebbero contatti sospetti tra il poliziotto che denunciò il furto e i tre indagati. Non si esclude, però, che le conversazioni avvenissero tramite apparati criptati, che non risultano intestati formalmente alle persone coinvolte. [...]

Estratto dell'articolo di Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 17 marzo 2023.

«Diabolik è una bomba che cammina». Il suo amico fraterno albanese Petrit Bardhi (detto Titi) aveva previsto, già nel 2018, che prima o poi le "prepotenze" di Fabrizio Piscitelli gli sarebbero costate la vita. «Ha fatto i torti a mille persone lui. Lo faceva sempre... era troppo attaccato ai soldi - dice in un'intercettazione Bardhi - Era diventato molto fastidioso, metteva troppe multe (interessi, ndr) alla gente e questo non va bene per sempre».

D'altronde anche il marito della figlia Giorgia Piscitelli spiega che il suocero voleva comandare su tutti ed era rispettato perché «aveva dietro molte persone», ossia gli Irriducibili della Lazio. Sentendosi forte di questo appoggio e dell'alleanza con gli albanesi, spesso si intrometteva nei contenziosi tra gruppi criminali per risolverli senza spargimenti di sangue, pretendendo in cambio il 50% delle somme contese.

«Questo gioco glielo fai a uno, glielo fai a due, glielo fai a tre, glielo fai a quattro», osserva il genero di Piscitelli, lasciando intendere che prima o poi qualcuno te la fa pagare. 

 (...)

 Lo conferma anche un altro amico, Raffaele Purpo, a cui Diablo aveva fatto da testimone di nozze. Riguardo i motivi del contrasto tra Piscitelli e Alessandro Capriotti (detto il Miliardero o il Furfante), Purpo spiega: «C'hanno i miliardi... te metti a fà quelle cose. Alla fine è ito ad ammazzà quello. Ahò, guarda, è stato lui. Chi te pensi, chi è stato? Eh, io lo sapevo... è stato lui ad ammazzà Diabolik. Te lo dico io. Non è stato lui materialmente, ma è stato lui».

In realtà per Capriotti, inizialmente sospettato di essere uno dei tre mandanti dell'omicidio di Piscitelli, insieme a Giuseppe Molisso (detto Peppe) e Leandro Bennato (detto Bio), la Procura di Roma ha chiesto l'archiviazione. Ma quello che emerge dall'indagine della Squadra Mobile è che Diabolik, il giorno del suo omicidio, doveva riscuotere il debito da 300mila euro che Capriotti aveva con l'albanese Bardhi, nonostante quest'ultimo gli avesse detto di lasciar perdere perché ormai era stato parzialmente estinto

 (...)

 Piscitelli, la sera del suo omicidio, era atteso ad Anzio per una cena in barca con Fabrizo Fabietti (il suo "socio alla pari" in affari di droga), Petrit Bardhi, Manuel Milano (l'ex compagno di Tamara Pisnoli) e Alessandro Belli (uomo di stretta fiducia del Diablo). Quest'ultimo, sentito a verbale dalla polizia, ha detto: «Fabrizio era un personaggio scomodo, tanto che io in diverse occasioni gli avevo detto di ritirarsi, di lasciar perdere tutto».

Estratto dell'articolo Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 16 marzo 2023.

«L'esecuzione di Diabolik ha rappresentato una sorta di spartiacque» negli equilibri della malavita romana. Un delitto su cui, secondo gli inquirenti, «aleggia la pesante impronta della famiglia Senese».

 Tanto che il 15 settembre 2019, un mese dopo l'assassinio, il boss della camorra Michele Senese (detto o pazzo), in un colloquio in carcere con la moglie Raffaella e il figlio Vincenzo, riferendosi alle ceneri di Fabrizio Piscitelli, dice in modo dispregiativo: «Eh, non ti posso dare un cucchiaino di polvere l'apro e ti do un cucchiaino di polvere ad ognuno ve lo mettete dentro al brodo».

 Secondo quanto emerge dall'attività di indagine della Squadra mobile di Roma, coordinata dai pm della Direzione distrettuale antimafia, c'è un prima e un dopo l'assassinio dell'ex capo ultrà degli Irriducibili della Lazio. Il prima era all'insegna della "pax mafiosa": pochi spargimenti di sangue e suddivisione della città in zone di competenza per lo spaccio della droga. Il dopo è quello che si osserva con evidenza in questi ultimi mesi, settimane, giorni: delitti, sequestri di persona, debitori torturati, agguati, tentati omicidi.

(…)

Le indagini «confermano che l'omicidio di Diabolik è un segmento clamoroso, nel senso che rimanda a forme di criminalità organizzata di altissima pericolosità sociale: una malavita permeata da mutevoli dinamiche criminali, fatte di alleanze discontinue, di unioni dettate da interessi economici, perlopiù per il traffico di stupefacenti, che però possono modificarsi rapidamente, tramutandosi in conflitti; in uno scenario, quindi, attraversato da continui assestamenti e riposizionamenti per il predominio territoriale o per il delineamento dei confini». Proprio quello che starebbe avvenendo ora, con questa incontrollata escalation di violenza. «A Roma si spara quasi come a Bogotà ormai», commentano i magistrati preoccupati.

Secondo gli inquirenti, Diabolik è stato ucciso proprio perché «aveva scardinato gli spazi di competenza che i Senese avevano tanto faticato a tenere in piedi». 

 (...)

  E c'è chi, come il marito di Giorgia Piscitelli, arriva subito a conclusioni dopo l'omicidio del suocero, avvenuto in zona Quadraro: «Ma se è successo nel territorio dei Senese è perché pure Senese è d'accordo, perché se non fosse stato d'accordo Senese succedeva il "patatrack" subito, cioè pure loro se schieravano. Perché, no, e mica puoi fa come c.. te pare! Che fai mi ammazzi uno dei miei, quello che sta con me e non faccio la rivolta?! Come se non fosse successo niente... Quello invece è stato un segnale che dentro il territorio suo è successo quello che è successo». Questa intercettazione conferma anche che l'omicidio di Luigi Finizio, avvenuto lunedì proprio nel feudo dei Senese, se non è stato commesso con il "lasciapassare" del clan camorristico, potrebbe far succedere il "patatrac". A maggior ragione se si pensa che "Gigio" era il cugino del cognato di Angelo Senese.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” il 10 marzo 2023.

Tre alti ufficiali della mala romana. Tre uomini che avrebbero progettato l’assassinio di un altro potente narcos diventato loro rivale, Diabolik al secolo Fabrizio Piscitelli, 53 anni, ucciso da un killer con un colpo alla nuca al parco degli Acquedotti il 7 agosto del 2019. Alessandro Capriotti, Leandro Bennato e Giuseppe Molisso si sarebbero dati appuntamento per eliminare un nemico che stava diventando dominante nella ricca piazza di spaccio romana.

A questa pista hanno lavorato per tre anni e mezzo gli investigatori, fino all’8 febbraio scorso, giorno in cui i pm hanno alzato bandiera bianca. Pende, infatti, una richiesta di archiviazione sui mandanti del più rilevante e brutale omicidio di mafia dell’ultimo decennio a Roma.

«I legami dei predetti tra loro ( Capriotti, Bennato e Molisso) nonché con l’esecutore materiale Raul Esteban Calderon (imputato per l’omicidio di Diabolik, ndr) venivano evidenziati nel corso delle indagini e compendiati in diverse note della polizia giudiziaria che permettevano l’individuazione di cointeressenze e relazioni tra costoro in merito all’omicidio Piscitelli» . Tuttavia « l’intervenuta scadenza del termine massimo delle indagini non permette la ricerca di ulteriori elementi di prova utili per corroborare gli elementi acquisiti ».

 Si chiude così un capitolo importante, ma senza un risultato.

 La domanda “ chi sono i mandanti dell’omicidio di Diabolik?” rimane senza risposta.

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 Tuttavia sulla potente triade che avrebbe organizzato un omicidio fondamentale nella mappa e nella storia criminale della città non sono stati « raccolti elementi di prova utili». Quindi, per adesso, la partita sui mandanti è chiusa. Sul banco degli imputati c’è “ solo” il presunto esecutore materiale.

Estratto dell'articolo di Valeria Di Corrado e Camilla Mozzetti per “Il Messaggero - edizione Roma” il 15 marzo 2023.

Non è questione solo di affari, sporchi naturalmente. Perché i soldi si alzano sì con il traffico internazionale degli stupefacenti, con l'usura e con l'estorsione. Chi comanda a Roma, e negli anni si è spartito il territorio, è riuscito a farlo anche inseguendo e costruendo un "consenso" nel quartiere dove si vive. Un consenso che passa anche per l'intimidazione e pure per quell'adagio che seguono i più deboli: se ho un problema vado a chiedere aiuto. […]

 Ndrangheta, camorra, "mafie" autoctone e da ultimo la cordata degli albanesi che già dal 2018 hanno iniziato da picchiatori e riscossori perfetti la loro scalata nella mala romana e complici anche gli ultimi "omicidi" eccellenti (di cui non si riescono ad incastrare i mandanti), si sono guadagnati il loro posto a tavola.

Quindi i feudi con le relative piazze di spaccio, gli equilibri che pure con qualche morto ammazzato si sono sempre difesi. Almeno fino al pomeriggio del 13 marzo quando a Luigi Finizio - uomo dei Senese - è stata riservata una pioggia di proiettili. Se quell'agguato fosse una "cartolina" indirizzata al clan di camorra trapiantatosi nella Capitale ci sarebbe da preoccuparsi perché significherebbe che l'equilibrio, pure dopo la morte di Fabrizio Piscitelli, è definitivamente saltato.

 Eppure al momento, in assenza di certezze sull'ultimo omicidio, lo scenario resta quello di una città suddivisa in un "unicum" nazionale: tanti quartieri, tanti clan, cosche e consorterie con la droga in primis a rappresentare il vero e unico motore e tutti che ci guadagnano.

[…] Così a Tor Bella Monaca in quella zona di Roma dove sono state censite almeno 13 piazze di spaccio senza che una sola sia stata ad oggi debellata, i Moccia, i Cordaro, i Bevilacqua, i Longo, gli Sparapano sono tutt'altro che clan e consorterie annientate dalle operazioni di polizia. Tra matrimoni e legami di convenienza "discendenti" e affiliati continuano ad operare per conto e in "nome di".

 Analogamente a San Basilio dove i Marando - che ci partirono da Platì, in provincia di Reggio Calabria - continuano ad essere una potenza, a gestire la droga, a infiltrarsi così come hanno fatto gli Alvaro nel centro storico e poi i Gallace con i Perronace, i Tedesco e i Madaffari sul litorale, nel tessuto commerciale e imprenditoriale di zona.

[…] Poi i Senese che, tolto di scena Michele o pazz, continuano a fare il bello e il cattivo tempo in quel di Roma sud-est tra il Tuscolano e il Quadraro con il tentato allargamento anche verso Frosinone e nel basso Lazio.

 E ancora i Casamonica - forti alla Romanina - i Domizi e i Nicitra a Primavalle, i Primavera al Tufello, i Romagnoli e i Pelle al Casilino, gli Spada a Ostia insieme ai fedeli di Marco Esposito (detto Barboncino e passato a miglior vita in un centro di disintossicazione) fino agli albanesi. I due più pericolosi, ovvero Ermal Arapaj ed Elvis Demce, sono stati "assicurati" alla giustizia ma questo stando alle risultanze investigative non ha frenato quel crescente attivismo criminale impiantatosi a Roma dal "Paese delle aquile".

Estratto dell'articolo da “la Repubblica - Edizione Roma” il 15 marzo 2023.

Cessioni del credito e sequestri di persona affidati a bande improvvisate. La nuova frontiera della criminalità emerge nella ricostruzione di due vicende apparentemente slegate tra loro: il rapimento di Danilo Valeri, a Ponte Milvio, e il sequestro di Francesco Vitale, alla Magliana.

 Due storie che raccontano di commando assoldati per riscuotere debiti di droga, composti da quella che un tempo era una manovalanza criminale, soldati semplici che maldestramente cercano di elevarsi ai ranghi più alti.

 A sequestrare il 19enne Danilo Valeri è stata una banda di dominicani chiamata per far abbassare la cresta al padre del ragazzo, Maurizio detto “ il sorcio”, che approfittando dell’assenza dei presidi criminali tradizionali si era accaparrato un paio di piazze di spaccio dalle parti di San Basilio accumulando debiti.

[…] Dunque entrano in azione guidando una Fiat Punto intestata a un connazionale pregiudicato e dopo la continuano a usare per trasportare un chilo di coca affidandola a un ventenne partenopeo, Vincenzo Emauso, che fermato dalla polizia ha preferito tacere.

 Così come è rimasto in silenzio Sergio Placidi, uno dei sequestratori di Francesco Vitale (“ Ciccio Barbuto”), rapito da una banda di buttafuori che aveva vinto l’appalto per picchiare la vittima riscuotendo il credito che i committenti, epigoni del boss albanese Elvis Demce, avevano ereditato dal capo ormai in prigione.

Anche i buttafuori non hanno dimostrato di avere una buona formazione. E così Placidi ha pensato di portare a termine il piano nonostante le forze dell’ordine lo stessero monitorando e lo avessero fermato con la vittima poche ore prima del sequestro. Come se non bastasse la banda ha lasciato fuggire il debitore, morto durante la fuga.

[…]

Mafie nel Lazio, la grande rimozione. Così la criminalità organizzata è sparita dai radar della politica. Roma e le altre province sono infiltrate profondamente da una commistione tra clan autoctoni e d’importazione. Eppure il problema è scomparso dall’agenda dell’amministrazione capitolina e dalla campagna per le Regionali. Sara Dellabella Angelo Carconi su L’Espresso il 7 Febbraio 2023.

Grazie al Giubileo, al Pnrr e probabilmente a Expo 2030, stanno per arrivare nel tessuto economico di Roma circa 18 miliardi di euro. Risorse importanti che però rischiano di solleticare gli interessi delle mafie, che già da tempo hanno messo le mani sulla Capitale. «Come si dice? tutte le strade portano a Roma. Io dico: tutte le strade della grande criminalità partono da Roma». Così in un’intervista a Raffaele Cutolo fatta, nel 1986, da Marisa Figurato della Rai, già si delineava il ruolo della Capitale nel business mafioso. Grazie a quell’incrocio di affari, politica e confusione che da sempre connota questa città, rendendola più permeabile a certe dinamiche.

Lo dimostrano le inchieste degli ultimi anni e le prime condanne che hanno acceso un faro sull’economia parallela delle famiglie criminali, che dal Sud si sono trasferite nel Lazio per investire denaro sporco in attività lecite. A maggio 2022, è stata scoperta la prima ‘ndrina romana capeggiata da Vincenzo Alvaro e Antonio Carzo, entrambi appartenenti a storiche famiglie di ‘ndrangheta originarie di Cosoleto (provincia di Reggio Calabria) dove gestivano una serie di locali pubblici.

Nel 2020, i carabinieri del comando provinciale di Roma hanno portato a termine l’operazione antidroga “Coffe Bean” arrestando 21 persone tra la Capitale, Frosinone, Reggio Calabria, Napoli e Viterbo. L’inchiesta ha portato a individuare il ruolo di Alfredo e Francesco Marando, della storica famiglia Marando di Platì, nel quartiere San Basilio. Dove le indagini hanno fotografato una rete di spaccio dal modello aziendale, con pusher e vedette organizzati con orari e compiti ben precisi. Il giovane Alfredo era anche il presidente del Real San Basilio Calcio, squadra del girone B, dilettanti - prima categoria.

Non è la prima volta che gruppi dediti al narcotraffico in alcuni quartieri in cui le mafie hanno un controllo del territorio si trovano in interazione con il mondo delle squadre di calcio locali, che hanno molto seguito nei giovani e nella tifoseria del posto. Era già accaduto a Montespaccato con il clan Gambacurta e con il clan Cordaro in merito a un investimento in una società di calcio in Sardegna.

Ma anche camorra e Cosa nostra hanno allungato l’ombra sul Lazio, in tutte le province, soprattutto a Roma, Latina e Frosinone, come mostrano le inchieste che hanno portato allo scioglimento per infiltrazione mafiosa dei Comuni di Anzio, Nettuno e anche, per la prima volta nel 2015, del municipio di Ostia. Qui dove recentemente la popolazione si è schierata contro la serie Netflix “Suburra” accusandola di infangare l’immagine di questo quadrante di Roma, dove gli affari di clan come Spada e Fasciani riguardano soprattutto gli stabilimenti balneari. Una recente sentenza della Cassazione ha riconosciuto l’aggravante del metodo mafioso a Roberto Spada per la testata inferta a un giornalista durante un’intervista.

Ma non c’è quadrante della città che non abbia la sua famiglia di riferimento in una commistione tra criminalità autoctona e di importazione, come ben rappresentato in una cartina pubblicata nell’ultimo rapporto “Mafie nel Lazio” curato dall’Osservatorio regionale. Però, nonostante i dati, la parola mafia sembra scomparsa dal lessico politico e dalla campagna elettorale di questo inizio d’anno.

«Il tema è un rimosso totale», afferma Danilo Chirico, presidente dell’Associazione daSud, che ha la sua sede a Cinecittà. Proprio a ridosso della chiesa di don Bosco, dove qualche anno fa è stato celebrato il funerale-show di Vittorio Casamonica con cavalli e petali di rosa lanciati da un elicottero, e del parco degli Acquedotti, dove fu freddato in pieno giorno Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik. Un omicidio che secondo gli inquirenti ha rappresentato un evento spartiacque nei precari equilibri della criminalità organizzata della Capitale.

Proprio qui, nel VII municipio è stato istituito il primo osservatorio della Legalità, «ma la città di Roma è composta di 15 municipi. Più volte abbiamo sollecitato l’amministrazione comunale a istituire una commissione consiliare su questi temi – continua Chirico – ma, anche nella relazione alla città del sindaco Roberto Gualtieri illustrata a un anno dall’insediamento, abbiamo avuto la certificazione che di mafie non ce n’è traccia. Quindi non è un tema rilevante per questa amministrazione».

Dello stesso avviso è anche il professor Nando dalla Chiesa che di fronte a questo silenzio tombale sul tema avverte: «Il rischio è di non saper governare. Perché uno governa qualcosa di cui conosce la natura e non è possibile scorporare dalla realtà laziale quello che è venuto a galla negli ultimi anni. Bisogna studiare la situazione, offrire delle soluzioni, delle modalità di impegno e la rimozione non ha mai fatto bene alle società. Lo abbiamo visto anche su Milano, dove la ‘ndrangheta si è allargata a dismisura».

Al momento l’unico segnale positivo arriva dalla Regione Lazio, l’unica ad aver firmato un protocollo con la Direzione nazionale Antimafia per mettere in sicurezza i fondi del Pnrr attraverso un capillare monitoraggio delle imprese partecipanti ai bandi dei prossimi anni.

Per capire meglio il radicamento delle mafie forse è utile guardare anche ai numeri dei beni confiscati nelle cinque province laziali oggi in mano all’Agenzia nazionale per l’Amministrazione e la Destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: si parla di 3.059 immobili, di cui 2.177 a Roma, e 573 aziende confiscate. Nel triennio 2019-2021, nel Lazio sono stati 544 gli indagati per associazione mafiosa (art. 416 bis del codice penale) e 1.992 quelli per reati aggravati, ai quali si aggiungono 1.537 persone indagate per corruzione.

A metterlo nero su bianco è l’Osservatorio per la Legalità e la Sicurezza della Regione, peccato che per la politica tutto rimanga lettera morta.

Mondo di mezzo: il danno erariale scende a soli 80mila euro. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2023.

Flop dell'inchiesta contabile in Tribunale. Nelle motivazioni i giudici di secondo grado osservano come il danno sia «diretta conseguenza dell’esercizio (…) di pubbliche funzioni»

I politici coinvolti nell’inchiesta di «Mondo di Mezzo» sono stati condannati a pagare «le ore di straordinario impiegate dagli uffici comunali e municipali per evadere le richieste dell’autorità giudiziaria». Straordinari che corrispondono a 84mila euro come ha deciso la sezione d’appello della Corte dei Conti, riformando la sentenza di primo grado che aveva valutato un «danno di disservizio» provocato al Comune pari a 1 milione e 800mila euro. Una netta sforbiciata per gli imputati Luca Gramazio (Pdl), Giordano Tredicine (Forza Italia), Mirko Coratti (Pd), Andrea Tassone e Pierpaolo Pedetti (entrambi Pd), tutti condannati in sede penale tra i 2 e 7 anni di carcere con sentenza definitiva.

 Il risarcimento lo dovranno versare anche due ex dirigenti comunali: Giovanni Fiscon, ex dg di Ama (assolto in sede penale) e Claudio Turella. Assolto in appello Angelo Scozzafava, ex direttore del dipartimento Politiche sociali. La riforma si basa sull’impossibilità di calcolare il danno «sul lavoro svolto dagli uffici nel corso delle ore di attività ordinaria». Nelle motivazioni i giudici di secondo grado osservano come il danno è «diretta conseguenza dell’esercizio (…) di pubbliche funzioni». «Impugneremo la sentenza: sono convinto dell’innocenza di Tassone», dice Vittorio Attolino, legale dell’ex presidente del Municipio X.

Ostia.

I Casamonica.

Casamonica, la frase dell'avvocato sui giornalisti imprudenti fa imbestialire il giudice. Il Tempo il 30 giugno 2023

Acceso botta e risposta in aula a Roma all’udienza del processo che vede imputati quattro esponenti della famiglia Casamonica accusati di violenza nei confronti di alcuni giornalisti che nel luglio 2018 stavano documentando gli arresti compiuti dai carabinieri dell’operazione ‘Gramigna’ a Porta Furba, ‘roccaforte’ del clan. In aula oggi sono state ascoltate le testimonianze dei giornalisti Floriana Bulfon, di Repubblica, e Piergiorgio Giacovazzo, del Tg2. Proprio mentre quest’ultimo stava ricordando in aula i fatti di quel giorno, uno dei difensori è intervenuto dicendo: “Non pensate di essere stati imprudenti ad andare con una telecamera a vicolo di Porta Furba, che la famiglia Casamonica considera di sua esclusiva proprietà?”. 

Il reporter ha ribattuto spiegando che si trovava lì, in un luogo pubblico, per svolgere il proprio lavoro. In quel momento però è intervenuto il giudice, Valerio De Gioia, che con molta decisione, rivolgendosi al difensore, ha sottolineato: “Siamo in un’aula di giustizia e non credo proprio che qui si possa accreditare l’idea che esistano spazi pubblici inaccessibili per la stampa”. 

Il 17 luglio 2018, nel giorno della maxi retata dei carabinieri, diversi giornalisti erano andati a documentare gli arresti a Porta Furba, ‘fortino’ dei Casamonica. In quell’occasione, come si legge nel capo d’accusa riferito dall’Adnkronos, gli imputati, a vario titolo, con “minaccia e violenza” cercarono di costringere i cronisti a “desistere dall’effettuare videoriprese”. In particolare, i cameramen furono aggrediti, con telecamere strappate di mano, mentre altri lanciarono alcuni bastoni verso le troupe. Nel processo si sono costituiti parte civile l’Fnsi e la Rai, oltre ai due giornalisti Bulfon e Giacovazzo, tutti rappresentati dall’avvocato Giulio Vasaturo. 

I mobili dei Casamonica custoditi nella coop della moglie di Soumahoro. Il Tempo il 20 dicembre 2022

Nuovi retroscena inediti sul caso del deputato eletto con l'Alleanza Verdi-Sinistra, Aboubakar Soumahoro. Come riportato dal quotidiano La Repubblica all'interno del garage di un centro per migranti gestito dalla coop della moglie e della suocera di Soumahoro erano custoditi mobili del clan Casamonica.

Un "giallo" che sarebbe stato denunciato quasi quattro anni fa dall'allora senatrice M5s Elena Fattori, passata poi a Sinistra Italiana, all'allora sottosegretario agli interni Luigi Gaetti. Ma la relazione della parlamentare, che l'11 marzo 2019 visitò il Cas "Rehema", non sarebbe mai finita sul tavolo di un magistrato. Fattori riferì quanto le aveva confessato una dipendente della struttura, secondo la quale all'epoca la cooperativa Karibu, presieduta dalla suocera di Soumahoro, Marie Terese Mukamitsindo e amministrata anche da Liliane Murekatete, compagna del deputato, avrebbe pagato circa 10mila euro per un sub-affitto. E che in alcuni locali del Cas erano stipati mobili che "appartenevano a una famiglia importante, alla famiglia Casamonica". Ma non è la sola denuncia di quel periodo. Il 23 maggio 2019, infatti, Rosella Di Giulio, direttore dell'esecuzione del contratto di appalto nei confronti di Karibu per conto della prefettura di Latina, inviò agli stessi vertici della prefettura e alla cooperativa una relazione sullo stato del Cas dopo la visita ispettiva del 13 novembre 2018. Nel documento erano segnalati carenze igieniche; sovraffollamento; stanze non idonee; assenza di derattizzazione e deblatizzazione; umidità e muffa nelle stanze; assenza di presidi all'ingresso e all'uscita; scarsa pulizia e, anche, la presenza di mobili vecchi. In alcune stanze, poi, le suppellettili sarebbero state addirittura assenti. Inoltre, già nel 2019 erano note le difficoltà della coop Karibu visto che sulla base di un decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Latina il 28 settembre, il custode giudiziario il successivo 14 dicembre aveva intimato alla società il pagamento di 139mila euro. Somma non versata, con conseguente pignoramento di tutti i crediti vantati da Mukamitsindo nei confronti di ministero dell'Interno, Regione Lazio e Comuni di Latina e di Sezze.

Ieri presso il tribunale di Latina, davanti al gip Giuseppe Molfese e in presenza del pm Giuseppe Miliano, si sono svolti gli interrogatori di Mukamitsindo e di Murekatete, entrambe indagate. Secondo indiscrezioni, la suocera di Soumahoro si sarebbe avvalsa della facoltà di non rispondere, mentre la compagna di Aboubakar avrebbe negato gli addebiti. Come riporta il Corriere della Sera, arriva subito l'eco di un imminente guerra in famiglia: Liliane avrebbe depositato documenti per prendere le distanze dalla gestione della madre Marie Therese.

Gli Spada.

Estratto dell’articolo di Andrea Ossino per “la Repubblica – ed. Roma” il 30 aprile 2023.

"Ti devi coprì con una magliettina a maniche lunghe, pure i pantaloni. Ti metti il cappuccio che ti copre tutto e gli occhiali. Non mi fa caz...e, passa uno che ti riconosce e finisce che tocca ammazzarsi qui per strada con tutti, eh. C'hai i tatuaggi sulle mani te? Devo prendere i guanti pure per te allora, quelli buoni pure per le impronte hai capito?". 

Il manuale del perfetto killer emerge dalle conversazioni intercettate dai carabinieri nell'inchiesta che nel 2017 ha portato all'arresto di Ottavio Spada, dell'omonimo clan, e di altre 20 persone. […]

I fatti sono quelli contestati nell'operazione Critical. In particolare nel 2015 Fabrizio Ferreri avrebbe chiesto aiuto a Ottavio Spada per punire una terza persona rimasta ignota. Era il 7 agosto e Ferreri avrebbe dato a Spada una Taurus calibro 38 con 4 proiettili, uno scooter Yamaha Tmax e anche benzina per bruciare gli indumenti. Poi, riferendosi all'arma e alle pallottole, ha spiegato: "Questo è un bastione, le botte stanno dentro". 

Dopo aver dettato le istruzioni dettagliate per uccidere il rivale senza far scoppiare una guerra, tutto sembrava pronto per l'omicidio. Ferreri però non sapeva di essere intercettato. Quindi i carabinieri erano intervenuti prima che, per l'ennesima volta, il sangue scorresse tra le strade di Ostia.  E così oggi per Ottavio Spada, trovato in possesso delle armi, il pm ha chiesto 6 anni di carcere.

(ANSA il 23 marzo 2023) - Il tribunale di Roma ha condannato a 9 anni di carcere l'ex responsabile del commissariato di polizia di Ostia, Antonio Franco. Nei suoi confronti le accuse erano di accusato di corruzione, rivelazione del segreto d'ufficio, soppressione di atti, falso e violazione del codice in materia di protezione dei dati personali.

 I giudici della ottava sezione collegiale hanno, inoltre, disposto altre tre condanne di cui 6 anni e mezzo per Mauro Carfagna, anche lui a giudizio per corruzione. I fatti risalgono al periodo compreso tra il 2015 e il 2016.

 Carfagna, titolare di una sala giochi, è accusato di avere corrotto Franco al fine di non fare risultare la presenza di Ottavio Spada (detto Marco) nelle sue sale giochi. I fatti risalgono al periodo compreso tra il 2015 e il 2016. Secondo l'impianto accusatorio all'ex responsabile del commissariato è contestato di avere compiuto "atti contrari ai doveri del suo ufficio anche sotto il profilo della violazione dei doveri di imparzialità della Pa".

Franco, per la Procura, sarebbe intervenuto "a seguito di controlli nelle sale giochi gestite da Carfagna, effettuati dal personale appartenente al commissariato da lui diretto, per risolvere le questioni insorte, assicurando un esito favorevole alle procedure amministrative attivate o, comunque, di minore pregiudizio".

Sale slot degli Spada, l'ex commissario Antonio Franco condannato a 9 anni per corruzione e falso. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2023.

Gli affari del clan a Ostia godevano anche della protezione dell’ex dirigente di polizia, condannato a nove anni con l’accusa di corruzione per aver «protetto» dalle indagini le sale slot gestite da Mauro Carfagna, del quale Ottavio Spada detto Marco era socio occulto

Nel riquadro Antonio Franco, ex dirigente del commissariato di polizia di Ostia

Quando l’allora dirigente del commissariato di Ostia Antonio Franco, 60 anni, venne arrestato nel 2016 con l’accusa di frequentare una sala slot in odore di mafia e di tenerla al riparo dai controlli di polizia, il gip Simonetta D’Alessandro sottolineava la «pericolosità estrema del contesto» in cui agiva, «la specifica, indubitabile attitudine delinquenziale» oltre al «sistema di vita assolutamente contra legem dei soggetti» con lui coinvolti nell’indagine del pm Mario Palazzi. Ieri il poliziotto è stato condannato a 9 anni per corruzione ed altri reati (rivelazione del segreto d’ufficio, soppressione di atti, falso e violazione del codice in materia di protezione dei dati personali — la richiesta della procura era 14 anni) e la ricostruzione di allora è stata nel frattempo consolidata da altre sentenze. Il sospetto che il titolare della sala «Star- Vegas» di via delle Canarie, Mauro Carfagna, con lui condannato a sei anni e mezzo in questa vicenda, avesse come socio occulto Ottavio Spada, detto Marco, è diventata una certezza. Spada gestiva il bar interno a una delle sale, immetteva denaro nella gestione della attività, decideva chi assumere ed era una presenza fissa in quelle sale, così da dissuadere gli appetiti di altre organizzazioni criminali.

Su tutto questo e sui sospetti di riciclaggio e autoriciclaggio (qui non contestati) Franco, come ricostruito dalle indagini della Squadra Mobile, non solo chiudeva un’occhio ma si prodigava per allontanare i sospetti dei colleghi del commissariato da lui diretto «e per risolvere le questioni insorte, assicurando un esito favorevole alle procedure amministrative attivate o, comunque, di minore pregiudizio». Il compenso per queste attività era il pagamento del canone mensile (quattromila euro) dell’appartamento in cui l’ex dirigente viveva in affitto. Il reato di falso è invece relativo alle relazioni di servizio che Franco ha artatamente datato al fine di garantirsi l’impunità e nelle quali descriveva attività di osservazione mai effettuate.

Significativa anche la storia di Carfagna, che prima di legarsi agli Spada frequentava Roberto Pergola, esponente della Banda della Magliana. «I suoi rapporti — scriveva ancora il gip — sono rilevanti in quanto segnalano la pericolosità sociale del Carfagna e non sono neppure indifferenti rispetto a quelli illeciti tra Carfagna e Franco». In uno degli episodi contestati, Franco si attiva per non far emergere la presenza di Ottavio Spada in una delle sale gioco gestite da Carfagna. Quelle stesse sale Franco frequentava come giocatore d’azzardo. Prima di questa sentenza, l’ex dirigente era stato già condannato a 4 anni perché utilizzava la Smart adibita alle indagini sotto copertura per fini personali, tra cui far visita a una amante, certificando di essere poi in servizio. La sua carriera già in picchiata da investigatore di punta in una zona di frontiera a servitore infedele dello Stato ha avuto un’ultima tappa a Lucca, dove era stato trasferito. Anche qui è finito a processo per truffa e falso in relazione a un cambio di residenza mai avvenuto che gli garantiva un’indennità di prima sistemazione. Nel 2021 è stato condannato a sei mesi.

Da romatoday.it l’11 gennaio 2023.

Rosario Ferreri è un nome noto a Ostia. Già nei guai per aver nascosto un fucile da cecchino tra i materassi che poi vendeva e coinvolto nell'operazione Nuova Alba che ha decapitato i gruppi dei Fasciani, Triassi e D'Agati, il cognato del boss Terenzio Fasciani - fratello di "don" Carmine - si era "preso", letteralmente una zona strategica del X Municipio. Quella di via delle Ebridi, una via di palazzoni popolari che divide Ostia con Ostia Nuova. Una zona strategica.

 Lì, secondo le indagini dei carabinieri e della direzione distrettuale antimafia, Ferreri e la sua compagna avrebbero occupato i locali del complesso L di via delle Ebridi, al civico 95. Cantine dell'Ater prese senza permessi e utilizzate come deposito di armi e droga, da stoccare per conto della criminalità di Ostia. Nascondigli di quasi 5.000 metri quadrati nelle fondamenta di alcune palazzine popolari.

Su delega dell'antimafia i militari dell'Arma hanno eseguito l'ordinanza di misura cautelare per la coppia. Ai due, accusati di aver organizzato, gestito e anche guadagnato dall'occupazione abusiva dei locali dell'Ater, è stato notificato il divieto di dimora nel X Municipio. I locali commerciali e le cantine, invece, sono state sottoposte a sequestro preventivo.

A denunciarli sono stati proprio i dipendenti Ater che non avevano la possibilità di controllare alcuni locali nei sotterranei del palazzo popolari. Locali che, secondo l'accusa, sono stati occupati "con l'aggravante mafiosa". In tutto otto locali usati per esercizi commerciali e 75 box. Fra i reati contestati ai due indagati anche l'autoriciclaggio perché dopo aver occupato gli immobili erano riusciti ad accatastarli a proprio nome e poi anche ad affittarli, registrando contratti all'Agenzia delle Entrate dopo aver indotto all'errore il funzionario del catasto con il modello unico informatico di aggiornamento degli atti catastali, facendosi passare per soggetti obbligati che sono come i proprietari.

Uno di questi era un bar. Secondo la ricostruzione pagava 1200 euro al mese per stare nel locale occupato. Tra i locali sottoposti a sequestro preventivo anche una palestra, un bar, una pizzeria, un negozio di materassi, un'attività di tappezzeria per auto, un negozio dove si vendono fuochi d'artificio ed anche una onlus. 

 La coppia è accusata del reato di "invasione di edifici" e secondo la ricostruzione quei locali sarebbero stati occupati per utilizzarli quali basi logistiche e depositi per lo stoccaggio di armi e droga.

Per il giudice gli elementi raccolti dai carabinieri e dalla Procura forniscono un ''quadro di indizi in grado di esser definiti gravi, potendosi rilevare come i dati storici e documentali disponibili in ordine all'occupazione arbitraria e al possesso abusivo degli immobili ad opera degli indagati, in ordine al loro utilizzo, costituiscano indiscutibilmente un complesso di elementi probatori a carico, gravi precisi e concordanti'', scrive il gip di Roma Valerio Savio nell'ordinanza.

La rete estesa di “amici” copriva la latitanza di Graziano Mesina scoperta dal Ros. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Ottobre 2023

Sono circa venti le persone accusate di aver aiutato l'esponente di spicco del banditismo sardo, attualmente ristretto in carcere per una condanna per associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga

La latitanza di Graziano Mesina, esponente di spicco del banditismo sardo, l’ergastolano di Orgosolo, catturato a Desulo, nel Nuorese, dai Carabinieri del Ros il 18 dicembre 2021, secondo quanto contenuto nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip di Cagliari, Michele Contini, venne agevolata da una vasta rete di fiancheggiatori, non solo in ambito familiare.

Dall’inchiesta della Dda è emerso un inquietante “incrocio” fra “colletti bianchi” con contatti con i vertici istituzionali della Regione Sardegna, un’associazione segreta e una presunta associazione di stampo mafioso, della quale alcuni componenti erano impegnati nel traffico di droga. L’indagine è destinata ad allargarsi: durante le perquisizioni condotte nell’operazione “Monte Nuovo”, oltre a stupefacenti e contanti, sono state trovate anche munizioni e armi. I Carabinieri hanno acquisito documenti in diverse sedi istituzionali, compresa l’università di Sassari. 

Sono circa venti le persone accusate di aver aiutato Mesina, ai quali viene contestato il favoreggiamento con l’aggravante dell’agevolazione mafiosa. L’aiuto a Mesina era considerato da alcuni indagati “un atto dovuto” come si legge nell’ordinanza di custodia cautelare del Gip. L ‘ergastolano era riuscito a sfuggire alla cattura per circa un anno e mezzo sin dal 2 luglio 2020, senza bisogno di lasciare la Sardegna, nascondendosi nelle campagne “coperto” da amici che addirittura, gli dava del “voi” in segno di rispetto e sottomissione.

Gli indagati

Il gruppo di “fiancheggiatori!, secondo gli inquirenti, ruotava attorno a Tonino Crissantu nipote di Graziano Mesina, e Nicolo’ Cossu (per gli amici Nicola, ma noto anche col nomignolo di “Cioccolato“), entrambi di Orgosolo, con precedenti condanne per sequestro di persona, attualmente detenuti in custodia cautelare in carcere anche per associazione di stampo mafioso. Cossu e’ ritenuto dalla Dda una figura centrale anche per i contatti che intratteneva, spesso tramite incontri conviviali (“spuntini”), con pregiudicati, politici regionali, amministratori locali, figure istituzionali, medici e professionisti. La riunione conviviale del gruppo, è sorprendente soprattutto per i nomi di chi vi partecipava, come ricorda il giudice di Cagliari nell’ordinanza che ha portato a 31 arresti: “Il primario Tomaso Cocco (responsabile della terapia del dolore all’ospedale Binaghi di Cagliari, ndr), il suo collega chirurgo Giovanni Gusai, Gabriella Murgia (la potente assessora regionale all’Agricoltura, ndr), l’avvocato penalista Rinaldo Lai, la scrittrice Giuliana Adamo, il collaboratore dell’Istituto superiore etnografico della Regione Francesco Muscau e varie persone condannate per gravi reati come Matteo Boe“.

Da quanto emerge dall’ordinanza del Gip che ha portato a 31 arresti facevano parte del gruppo dei “fiancheggiatori” anche il primario del reparto di Terapia del dolore dell’ospedale Marino di Cagliari Tomaso Cocco, sospeso dalla massoneria il giorno stesso del suo arresto; Battista Mele, nipote di Cossu; Antonio Michele Pinna; Mario Antonio Floris, accusato di aver trasportato con l’aiuto di Paolo Sale e Tomas Littarru il bandito Graziano Mesina da Bono a Desulo, ; Antonio Fadda e Antonio ‘Tonino’ Marteddu‘, indagato per aver fornito rifugio al latitante in un’azienda agricola di Bono fino al 16 novembre 2021; Raffaele Gioi, parente del capofamiglia che ospito’ Mesina nel suo ultimo rifugio a Desulo, cosi’ come Anna e Salvatore Gioi; Giuseppe Paolo Frongia, nella cui abitazione di Desulo fu portato Mesina prima di essere spostato in casa Gioi; e Marco Lai, accusato di aver favorito quest’ultimo spostamento. 

Nelle intercettazioni telefoniche e ambientali dei carabinieri del ROS, durante gli spostamenti da un covo a un altro, Graziano Mesina, veniva indicato in codice come “vino'” per confondere e sviare gli investigatori. Il gruppo di fiancheggiatori aveva adottato ogni tipo precauzione per non essere scoperto: incontri concordati attraverso “triangolazioni”, nonostante le persone intrattenessero legami stretti e quindi non avessero bisogno di intermediari per incontrarsi; telefonini lasciati nelle fioriere fuori da un bar di Orgosolo o sul cofano dell’auto, mentre i proprietari si allontanavano per chiacchierate confidenziali, con controlli effettuati sulle auto affidati a dei “bonificatori” (uno dei quali compare fra gli indagati) per scoprire l’eventuale presenza di “cimici'” poi rinvenute in almeno due casi. Ma nel secondo era ormai troppo tardi.

La seconda microspia scoperta dal “bonificatore”, aveva già indirizzato i carabinieri del Ros nell’aboitrazione di Desulo (Nuoro) dove una coppia del posto ospitava Graziano Mesina; quell’abitazione non era stata la “prima scelta” del gruppo, che aveva ipotizzato un’altra sistemazione, probabilmente un ovile, ma la persona interessata non si era resa disponibile all’ultimo momento . Qualche giorno prima il latitante, era stato trasferito senza neanche conoscere la sua destinazione, in pieno giorno da un’azienda di Bono (Sassari), di proprietà di uno degli arrestati, nascosto probabilmente nel bagagliaio di un’auto assieme al suo inseparabile zainetto.

L’ultimo covo di Graziano Mesina

Mesina faceva ogni tanto due passi fuori dalla casa e poi rientrava nel covo della famiglia Gioi, i coniugi Antioco Gioi e la moglie Basilia Puddu poco dopo la cattura del latitante hanno patteggiato rispettivamente 3 anni e 20 mesi di condanna. La famiglia che lo ospitava era sempre in ansia, come testimonia una telefonata in cui lo scoppio di un petardo per gioco in strada l’aveva messa in allarme; il rumore avrebbe potuto attirare l’attenzione dei carabinieri sulla casa dove Mesina alloggiava. Le intercettazioni sono proseguite anche dopo la cattura e alcuni degli indagati si sono lasciati andare a dichiarazioni compromettenti, convinti che la sorveglianza su di loro fosse cessata.

I carabinieri del Ros, nonostante la stretta vigilanza del gruppo, hanno assistito ai vari passaggi e sono entrati in azione a colpo sicuro prima che Mesina venisse trasferito di nuovo, dato che gli spostamenti venivano programmati dalla rete di amici. Fra oggi e la prossima settimana gli arrestati – alcuni in carcere, altri ai domiciliari – verranno ascoltati dal gip Contini per l’interrogatorio di garanzia.

 Dalle 407 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip Michele Contini, spuntano intercettazioni che sembrano lasciare davvero poco spazio a dubbi. È Tomaso Cocco a confermare, ad agosto 2020, ad una giornalista (non indagata, desiderosa di intervistare “Grazianeddu” Mesina ) che l’ex Primula rossa del banditismo sardo non sta bene. A dargli la notizia era stato Tonino Crissantu, parente di Mesina. Qualche mese dopo, il 18 gennaio 2021, lo stesso Coco si rende disponibile a firmare una perizia medica che attesti l’incompatibilità di Mesina con la vita in carcere: “Come sta Grazianeddu?”, chiede il primario in una delle tante intercettazioni telefoniche. Un aiuto l’ha anche fornito a un altro arrestato, riuscendo ad accorciargli i tempi di attesa di un intervento chirurgico.

In parallelo, al Binaghi, Tomaso Cocco aveva iniziato a dirottare in intramoenia tanti pazienti con il chiaro obbiettivo, stando alle indagini, di fare soldi. Ne parla in più di una intercettazione con la mamma, vantando un aumento dei guadagni e raccontando che aveva anche trovato due infermiere compiacenti “che poi prendono i regali che mi portano i pazienti”. Redazione CdG 1947

Maxi operazione del Ros in Sardegna: 32 arresti, per mafia e corruzione, tra cui l’ex assessore Murgia e il nipote di Graziano Mesina. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Settembre 2023

Le indagini, avviate nel gennaio 2020 in prosecuzione dell'indagine "Dama", avrebbero consentito di acquisire elementi circa l'operatività di un presunto gruppo dedito alla commissione di reati di varia natura, attivo nel territorio sardo, che si ritiene costituito da alcuni personaggi locali di spicco (noti per condanne per sequestro di persona a scopo di estorsione), oltre ad alcuni esponenti del mondo delle professioni e delle istituzioni.

Trentadue arresti in Sardegna  accusati di associazione a delinquere di tipo mafioso, associazione segreta, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, abuso d’ufficio, rivelazione di segreto d’ufficio, corruzione aggravata dal metodo mafioso, peculato e procurata inosservanza di pena aggravata dal metodo mafioso, nell’ambito dell’operazione definita ‘Monte Nuovo’.

Sono queste le accuse a vario titolo nei confronti di 31 persone indagate, 13 le persone in carcere, e 18 quelle agli arresti domiciliari nell’ambito della maxi operazione condotta questa mattina dai carabinieri del Ros che, con il supporto dei colleghi dei comandi provinciali di Cagliari, Nuoro, Oristano, Sassari, Milano, Torino e dello Squadrone Eliportato Cacciatori Sardegna, hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Cagliari nei confronti degli indagati, nell’ambito di un’indagine della Dda di Cagliari che per la prima volta riguarda un’associazione di stampo mafioso.

L’organizzazione influenzava istituzioni

L’organizzazione criminale avrebbe interferito nell’attività delle amministrazioni pubbliche e procurato voti in occasione delle elezioni. Le indagini, avviate nel gennaio 2020 in prosecuzione dell’indagine “Dama“, avrebbero consentito di acquisire elementi circa l’operatività di un presunto gruppo dedito alla commissione di reati di varia natura, attivo nel territorio sardo, che si ritiene costituito da alcuni personaggi locali di spicco (noti per condanne per sequestro di persona a scopo di estorsione), oltre ad alcuni esponenti del mondo delle professioni e delle istituzioni. 

In particolare, i rapporti tra le diverse componenti, in comunanza di scopi, avrebbero garantito di attingere, in caso di necessità, al sostegno del sodalizio per ottenere presunti vantaggi di varia natura. La componente criminale si sarebbe infiltrata e avrebbe condizionato vasti settori della vita sociale dell’Isola, anche nei termini di un accesso privilegiato all’interno dell’amministrazione regionale. 

In tale contesto, secondo l’ipotesi formulata, elementi appartenenti al gruppo avrebbero variamente operato ponendosi in relazione di continuità con la “Anonima Sequestri” di cui Graziano Mesina ed altri personaggi colpiti dalla misura cautelare erano fra i più noti esponenti interferendo nei procedimenti decisori dell’amministrazione regionale in particolare nei settori dell’agricoltura e della sanità; intervenendo reiteratamente presso diverse amministrazioni pubbliche, con particolare riferimento a quelle regionali, al fine di assicurarsi incarichi pubblici, favori o altri interessi ad associati, parenti di questi ultimi o persone gradite al gruppo; favorendo la latitanza di Mesina, poi arrestato dal ROS il 18 dicembre 2021, con il quale il gruppo aveva rapporti diretti e\o indiretti; procurando voti in occasione di consultazioni elettorali; nel traffico di sostanze stupefacenti (in particolare marijuana) da commercializzare sul territorio nazionale. 

Nel corso dell’operazione sono stati sequestrati ingenti somme di denaro in contanti, munizioni, oltre 130 kg di marijuana. Sono state inoltre denunciate in stato di libertà 4 persone per detenzione abusiva di armi e munizioni e sostanze stupefacenti. L’operazione “Dama“ fu condotta dal ROS dei Carabinieri tra il novembre 2018 e il dicembre 2019 in direzione di due ipotesi di associazioni dedite al traffico di stupefacenti, conclusa il 7 luglio 2020 con l’esecuzione di 33 misure cautelari. 

I nomi degli arrestati

Tra gli arrestati c’è l’ex assessore regionale all’agricoltura Gabriella Murgia accusata di associazione di tipo mafioso e associazione segreta e Tomaso Cocco primario del reparto di Terapia del dolore dell’ospedale Marino di Cagliari, che sono stata trasferiti in carcere insieme a Alessandro Arca, Nicolò Cossu (detto Cioccolato, implicati in vari celebri sequestri come quelli di Vinci, Licheri e Checchi) indicato come il “promotore” dell’associazione, Tonio Crissantu (nipote di Graziano Mesina), Vincenzo Deidda, Mario Antonio Floris, Battista Mele, Giovanni Mercurio, Giuseppe Antonio Mesina, Desiderio Mulas, Paolo Murgia e Alessandro Rocca.

Ai domiciliari sono finiti, invece, Vito Maurizio Cossu, Andrea Daga, Alice Deidda, Alessia Deidda, Antonio Fadda, Giuseppe Paolo Frongia, Anna Gioi, Raffaele Gioi, Salvatore Gioi, Marco Lai, Tomas Littarru, Antonio Marteddu, Riccardo Mercuriu, Serafino Monni, Marco Muntoni, Antonio Michele Pinna, Paolo Sale, Marco Zanardi.

Coinvolti nell’inchiesta anche diversi medici e Massimo Temussi presidente e amministratore delegato di Anpal (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro), 

I traffici di droga 

La banda si finanziava grazie al traffico di droga. Importazione di cocaina dalla Penisola e esportazione di marijuana coltivata in Sardegna verso Piemonte e Lombardia.  “Non è un mistero che l’Isola sia diventata una delle maggiori produttrici di cannabis”, ha ricordato il vicecomandante del Ros Gianluca Valerio. Ma le attività del gruppo andavano ben oltre gli stupefacenti. “Le indagini hanno evidenziato un ambiente misto, in cui ci si poteva incontrare a vari livelli per decidere strategie, favori in cambio di violenze e intimidazioni, anche ai più alti livelli istituzionali“, ha aggiunto Giorgio Mazzoli, comandante del reparto Carabinieri Ros di Cagliari. Redazione CdG 1947

La mafia dei pascoli esiste. Linda Di Benedetto su Panorama il 29 Settembre 2023

La mafia dei pascoli esiste. A dimostrarlo, l'operazione "Transumanza" messa a segno dalla Guardia di Finanza di Pescara che ha emesso misure cautelari personali e sequestri preventivi in tutta Italia

La mafia dei pascoli che per anni è stata denunciata dagli agricoltori abruzzesi esiste. A dimostrarlo è stata l'operazione "Transumanza" messa a segno dalla Guardia di Finanza di Pescara, diretta e coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia della Procura dell'Aquila. Sono 75 le persone coinvolte con 25 misure cautelari personali, 16 perquisizioni e sequestri preventivi in esecuzione, in tutta Italia, tra Abruzzo, Puglia, Trentino Alto Adige, Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Lazio e Campania che hanno visto il coinvolgimento di alcune delle società finite nelle interdittive antimafia emesse dalla prefettura di Pescara tra cui la società agricola il “Frassino” riconducibile alla famiglia Berasi ed in particolar modo ai fratelli Armando e Mariano. Nello specifico la ricostruzione dell'attività d'indagine si legge nel decreto di sequestro preventivo fa emergere: «L'esistenza di un sodalizio criminale coordinato da Armando Berasi e legato al clan Foggiano Li Bergolis che, con artefizi e raggiri sfruttando la possibilità di taluni soggetti rivelatesi prestanomi di ottenere in  assegnazione i titoli Pac dalla riserva naturale dei titoli Agea ha percepito indebitamente contributi per circa 6 milioni di euro" Chi sono i Berasi? Si tratta di due fratelli citati più volte in passato in varie indagini per reati che vanno dall'associazione a delinquere e alla truffa. Un'operazione che attraverso indagini mirate per la prima volta in Abruzzo ha scoperchiato un sistema con il quale la mafia foggiana, e le organizzazioni criminali del Gargano hanno incassato milioni di fondi europei. Truffe di cui abbiamo ampiamente scritto raccontando un sistema con il quale sono stati depredati gli agricoltori vittime della criminalità organizzata e dove purtroppo restano ancora delle zone d'ombra riguardo aggressioni e morti sospette come il caso dell'allevatore Emiliano Palmieri. Il giovane che fu ritrovato impiccato ad un albero dopo essere rimasto vittima di una serie di incidenti. Il sistema I titoli Pac (Politica Agricola Comune), che rappresentano il valore in base al quale si ha il diritto di avere i contributi comunitari a sostegno dell'agricoltura, vengono attribuiti gratuitamente a ogni ettaro di superficie: per ogni titolo l'azienda deve avere la disponibilità di un ettaro di terreno. In questo caso è stata riscontrata una rete che ha visto il coinvolgimento fraudolento di società o cooperative agricole che facevano incetta di titoli; d'imprese agricole appositamente costituite per la truffa; di cooperative reali legate al sodalizio criminale ed infine di centri di assistenza agricola (CAA) (compiacenti). Frodi in tutta Italia Ma l'inchiesta di Pescara avviata nel 2019 e conclusasi è solo la punta di un iceberg di una serie di operazioni condotte a tappeto in tutta Italia dalle Fiamme Gialle con Agea e la procura Europea EPPO, dove sono stati scoperti centinaia di milioni di euro in frodi, come nel caso di Padova dove è stata avviata un'indagine ancora in corso coordinata dalla Procura di Padova a carico di due imprenditori ritenuti indebitamente destinatari di fondi europei, messi a disposizione nell’ambito della Politica Agricola Comune.

In particolare, l’inchiesta anche in questo caso ha consentito di ipotizzare una frode al bilancio dell’Unione europea attuata tramite l’interposizione di due “giovani agricoltori”, considerati dei prestanome, per ottenere indebiti pagamenti diretti dal Fondo Europeo Agricolo di Garanzia (noto come FEAGA) nelle province di Padova, L’Aquila, Perugia e Trento, di ottenere gratuitamente diritti all’aiuto e di percepire successivamente, dal 2016 al 2020, fondi per una somma che dovrebbe aggirarsi intorno ai 37 milioni di euro. Intervista al Colonnello Antonio Caputo, Comandante Provinciale della Guardia di Finanza di Pescara «La maxi operazione "Transumanza" è il risultato di due anni di indagini, intercettazioni di oltre 100mila conversazioni, 8mila interrogazioni alle banche dati ed accertamenti bancari su più di 270 conti correnti»-ci spiega il Colonnello t.ST Antonio Caputo, Comandante Provinciale Pescara Guardia di Finanza Cosa può dirci del coinvolgimento della criminalità organizzata? «Il sospetto è che sugli affari ci sia anche la mano della “mafia foggiana”. Ciò confermerebbe come la provincia di Pescara, importante snodo commerciale del corridoio adriatico, sia sulla rotta delle influenze delle organizzazioni criminali confinanti, come abbiamo anche postulato nella recente inchiesta “Do ut des”, su un sistema usuraio gestito dalla malavita garganica direttamente nel pescarese. Nei tre anni di servizio che ho svolto allo S.C.I.C.O., il Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata della Guardia di Finanza, ho avuto l’opportunità di approfondire il nuovo profilo borghese delle associazioni mafiose, sempre più holding criminali capaci di stringere accordi diretti con i cartelli con imprenditori e liberi professionisti, contaminando appalti e fondi pubblici». Com'è la situazione nel resto del Paese?

Da open.online il 15 febbraio 2023.

Natale Ursino, originario di Locri ma residente nel teramano, è accusato di aver ordinato l’omicidio di Walter Albi a Pescara. Cosimo Nobile, detto Mimmo, pluripregiudicato pescarese, avrebbe premuto il grilletto della pistola che ha ferito l’ex calciatore Luca Cavallito. Così si spiega la sparatoria all’esterno del Bar del Parco in via Ravasco che è costata la vita ad Albi. L’episodio che svela l’infiltrazione della ‘ndrangheta in Abruzzo sarebbe dovuto a una missione non portata a compimento. Grazie alla sua patente nautica Walter Albi avrebbe dovuto trasportare cocaina dal Sudamerica all’Europa. Cavallito era il suo “gancio”. Ma a quanto pare i due, pagati dal boss, non avrebbero portato a termine la missione. Per questo dovevano morire.

«Prenditi la mia casa»

Quel primo agosto 2022 Albi e Cavallito avevano appuntamento proprio con Ursino. Cercavano di chiudere un accordo per risarcire il boss del mancato viaggio intercontinentale. Gli inquirenti sono giunti alla conclusione leggendo i messaggi che i tre si sono scambiati prima dell’agguato. Immortalato dalle videocamere di sorveglianza del dehors. «Sì, sto arrivando», avrebbe risposto Ursino a un messaggio immediatamente precedente all’agguato. In realtà era molto lontano dalla zona, come hanno appurato gli inquirenti leggendo i tabulati.

 Al suo posto è arrivato Mimmo Nobile. Fondamentale per l’accusa il ritrovamento dello scooter e del casco. Ma ancor più l’individuazione dell’arma. Dalla pistola gli inquirenti sono risaliti a un’arma rubata a una guardia giurata in una rapina all’Agroalimentare di Cepagatti l’11 luglio 2022. Cavallito in uno dei messaggi scambiati con Ursino gli scriveva: «Prenditi la mia casa zio, vale quattrocentomila euro. Prenditela ma fammi uscire da questa storia».

I messaggi vocali

A consentire l’individuazione di Ursino detto ‘U Tappu come mandante ci sono i messaggi, anche vocali, rintracciati sui telefonino sequestrati. L’aspetto ritenuto particolarmente grave e per il quale dell’inchiesta è stata informata anche la Dda, è il legame negli affari tra la ‘ndrangheta e un certo ambiente pescarese. La storia parte da un investimento immobiliare. Ovvero il progetto di un hotel galleggiante nel porto turistico di Pescara.

L’architetto Albi, ex dirigente pubblico e imprenditore del fitness, era la testa di legno di Ursino. La proposta del viaggio intercontinentale arriva proprio per i suoi guai economici. E per avere il capitale da investire nell’impresa. Secondo il racconto dell’inchiesta anche Nobile doveva dei soldi a Cavallito. Centomila euro per traffici non ancora chiari. Albi invece è debitore di Ursino per alcuni affari immobiliari. Così nasce la proposta del viaggio. E novemila euro di anticipo sui 22 mila totali promessi.

 «Incapaci persino di andare da Pescara a Spalato»

Ma alla fine i due, secondo Ursino, non sono capaci nemmeno «di andare da Pescara a Spalato». Da qui l’appuntamento al bar. Che doveva essere una resa dei conti pacifica. E invece è arrivato l’agguato. L’episodio secondo gli inquirenti svela l’infiltrazione in Abruzzo della ‘Ndrina Ursino di Gioiosa Jonica in Calabria. A sua volta alleata degli Aquino di Marina di Gioiosa Jonica e dei Cordì di Locri. Con insediamenti a Torino, in Liguria, Francia, Spagna e Canada e collegamenti con la criminalità pugliese. L’attività principale è proprio lo spaccio di stupefacenti.

La Cassazione conferma: in Emilia esiste una struttura di ‘ndrangheta autonoma. Stefano Baudino su L'Indipendente il 2 luglio 2023.

A Brescello, il paese di Peppone e Don Camillo in provincia di Reggio-Emilia, la ‘ndrangheta dettava legge. E lo faceva, sotto l’egida della famiglia Grande Aracri, come struttura autonoma dalla Calabria, potendo contare su importanti radicamenti in tutta la provincia reggiana. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, chiudendo il processo “Grimilde” e confermando, tra le altre, anche la condanna ad oltre 12 anni di carcere per Giuseppe Caruso (Fdi), ex presidente del Consiglio comunale di Piacenza e funzionario delle Dogane, finito in manette nel 2019.

Il bilancio della pronuncia della Cassazione, che ha riconosciuto la bontà dell’impianto accusatorio del procedimento contro la ‘ndrangheta in Emilia-Romagna e ha impresso il primo marchio sul procedimento di rito abbreviato nato dall’inchiesta, è impietoso per gli ‘ndranghetisti coinvolti, che si erano installati in pianta stabile nella regione. Diciotto condanne sono divenute definitive, mentre sei imputati dovranno subire un nuovo processo d’Appello. Coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna, “Grimilde” era nata da un’operazione effettuata il 25 giugno 2019, con 16 arresti eseguiti dalla Polizia ai danni degli uomini della cellula dei Grande Aracri, attiva nei territori di Brescello, Parma e Piacenza.

Per il 43enne Salvatore Grande Aracri – detto ‘Calamaro’ -, nipote del boss di Cutro Nicolino Grande Aracri, i giudici hanno confermato l’accusa di associazione mafiosa. Aveva preso 20 anni in primo grado, poi in Appello la pena era stata alleggerita a 14 anni e 4 mesi di reclusione. Accogliendo il ricorso della Procura generale riguardante tre imputazioni, per lui la Cassazione ha disposto un nuovo giudizio di secondo grado. La stessa sorte toccherà ai fratelli Antonio e Cesare Muto di Gualtieri (Reggio Emilia), che nell’ottobre del 2022 avevano subito un maxi-sequestro da oltre 10 milioni di euro. Il padre e il fratello di Salvatore Grande Aracri, Francesco e Paolo, sono alla sbarra nel rito ordinario di “Grimilde”: 6 mesi fa si sono visti comminare, rispettivamente, 19 anni e sei mesi e 12 anni di carcere

Un capitolo importante del processo è quello riferito alla posizione dell’ex presidente del consiglio comunale di Piacenza ed ex funzionario dell’Agenzia delle Dogane, Giuseppe Caruso, che si è visto confermare una pena a 12 anni e 2 mesi di galera: 8 anni e 2 mesi per mafia – è stata ufficialmente attestata la sua appartenenza alla cosca dei Grande Aracri -, più 4 anni per un’ulteriore truffa all’Agea. L’uomo sarà inoltre tenuto a risarcire il comune di Piacenza con un milione di euro. Ai tempi, Caruso era membro di Fratelli D’Italia, ma il partito provvide subito ad espellerlo. Il difensore di Giuseppe Caruso, l’avvocato Luca Cianferoni, si è detto amareggiato per la sentenza, affermando che dopo il deposito delle motivazioni valuterà un ricorso alla Corte europea. Nel medesimo processo è stato condannato anche suo fratello, Albino Caruso, che dovrà scontare sei anni e dieci mesi di carcere per associazione mafiosa.

Con “Grimilde” si perviene alla piena conferma della pervasività con cui la ‘ndrangheta si è insediata nel contesto politico, economico e sociale dell’Emilia-Romagna, già descritta in maniera perentoria negli scorsi anni dalle risultanze giudiziarie del Maxiprocesso Aemilia, in cui piovvero ingenti condanne e si comprovò l’“articolato e differenziato programma associativo” di un’organizzazione dotata di propri uomini e mezzi, autonoma rispetto alla “cosca madre” calabrese.

Soddisfatta la procuratrice generale reggente di Bologna, Lucia Musti, secondo cui «giova evidenziare che, ancora una volta, con sentenza definitiva, è stata ribadita, con la conferma del delitto di associazione di stampo mafioso, l’esistenza e l’operatività nel Distretto del Emilia-Romagna di una struttura autonoma di ‘ndrangheta, facente capo alla famiglia Grande Aracri di Brescello» e che, «tra gli esponenti del sodalizio ‘ndranghetistico emiliano è stato riconosciuto Giuseppe Caruso, ex funzionario dell’Agenzia delle Dogane di Piacenza ed ex presidente del Consiglio comunale di Piacenza». Musti ha aggiunto che «è stato riconosciuto un complesso reato di truffa con ingente danno nei confronti dello Stato, il cosiddetto affare ‘Oppido’, corale espressione della consorteria mafiosa, nonché condotte di caporalato, poste in essere in Italia e all’estero». Ora gli occhi sono puntati sul rito ordinario, per il completamento del complesso puzzle processuale. [di Stefano Baudino]

10 mesi di immobilismo, poi la candidatura coi 5S. Quei dubbi sull'ex procuratore antimafia De Raho. Nell'inchiesta Aemilia e sul caso Mescolini, l'ex forzista Bernini attacca: "Come mai passarono 10 mesi prima di inviare la relazione sull'operato di Mescolini alla procura generale della Corte di Cassazione?" Domenico Ferrara il 23 Marzo 2023 su Il Giornale.

Prima il rumore, i vaffa e le urla, adesso il silenzio e l'oblìo. C'era un tempo in cui il M5s urlava contro il Pd e pretendeva le dimissioni di Graziano Delrio. Era il 2016 e il nodo della discordia era la maxi inchiesta Aemilia sugli affari della 'Ndrangheta nella regione rossa. Da Beppe Grillo a Giulia Sarti, passando per i gruppi parlamentari pentastellati: tutti invocavano chiarezza. E chiedevano la convocazione del sindaco dem Luca Vecchi e del predecessore Graziano Delrio, all'epoca ministro dei Trasporti, in Commissione antimafia.

Sotto accusa erano i presunti legami con soggetti di Cutro legati alle cosche, i voti delle campagne elettorali e non solo. Le indagini, condotte dal pm Marco Mescolini, colpirono soltanto due politici di centrodestra, Giovanni Paolo Bernini e Giuseppe Pagliani, poi assolti. Nessun esponente di centrosinistra fu invece lambito dalle inchieste. E qualche tempo dopo si sarebbe scoperto pure il perché, con la cacciata da parte del Csm di Mescolini reo di aver aiutato il Pd. Versione confermata al Giornale dall'ex pm Pennisi, per anni pm alla Procura nazionale antimafia e dal 2012 al 2013 a Bologna nel 2012-2013, che ha rivelato: "Mi impedirono di indagare sul Pd e le cosche".

"Certi comportamenti del collega Mescolini allora ritenni che fossero dovuti alla sua incapacità di comprendere. Col senno di poi mi sono dato spiegazioni diverse", racconta Pennisi. Che poi continua: "C'era la lettera scritta da un detenuto a un sindaco, è stata letta come una minaccia. E invece il discorso non è così semplice, quella lettera è un segnale, è l'indice di qualcosa che avrebbe potuto essere svelato, e non è stato svelato perché si è scelto di non indagare. Agli atti c'era questa informativa dei servizi segreti, che ci era stata trasmessa dai carabinieri. Di spunti ce n'erano tanti, con nomi e cognomi. Se si fosse deciso, come io chiedevo, di aprire uno stralcio d'inchiesta sui rapporti tra 'ndrangheta e politica quelli sarebbero stati i primi nomi su cui avrei iniziato a indagare. Alla fine dell'inchiesta Aemilia non c'è stato un solo politico condannato, eppure da quelle parti accadevano cose incredibili. Indago sulla 'ndrangheta dal 1991 ma non avevo mai visto che i candidati alle elezioni locali in una città del nord attaccassero i loro manifesti anche in un paesino calabrese. Andava stralciata l'indagine, approfondita la posizione di altri indagati o indagabili per concorso esterno in associazione mafiosa, invece non si fece nulla».

Adesso si aggiunge un nuovo tassello, anzi un nuovo protagonista. Si chiama Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale antimafia dal novembre 2017 al febbraio 2022. Il nome di De Raho emerge in una chat tra l'allora ministro dell'Interno, Marco Minniti, e Luca Palamara. Il Csm aprì una pratica, poi archiviata, sulla vicenda. Ma il consigliere togato di Autonomia&Indipendenza, Sebastiano Ardita nell'aprile 2021 lamentava: "C'è una chat tra Luca Palamara, allora consigliere del Csm, e il ministro dell'Interno in carica Marco Minniti che, rivolgendosi a Palamara all'indomani della mancata nomina di Cafiero de Raho a procuratore di Napoli, ha usato l'espressione 'salviamo il soldato Cafiero'. È una chat che andrebbe approfondita chiedendo magari agli interessati a cosa si riferissero, quale battaglia era stata combattuta, poi chiarita e magari inserita nel provvedimento di archiviazione o così tutto rimane in modo vago. Ci sarebbe anche da capire perché il ministro dell'Interno si rivolge a Palamara, a che titolo lo investe delle sue preoccupazioni, questo rimane a oggi un tema inesplorato, neanche riportato in delibera".

Al netto di ciò e tornando al caso Mescolini, dopo le interrogazioni datate 2020 di Gasparri e Quagliariello, che chiedevano lumi sull'operato del pm, la "Procura generale della Corte di Cassazione - racconta l'ex forzista Giovanni Paolo Bernini - il 14 settembre 2020 chiede alla Direzione nazionale antimafia una relazione sull'inchiesta Aemilia e sull'operato del pm Mescolini". Poi, il nulla. Il tempo passa inesorabile. "Dopo dieci mesi, precisamene il 7 luglio 2021, il pm Pennisi riceve la richiesta da parte del procuratore De Raho di produrre la relazione. E lui la invio dopo sette giorni. Ma come mai passarono 10 mesi?", si domanda con forza Bernini. Relazione che, come scritto dal Giornale, rimarrà poi blindata in qualche cassetto del ministero. Probabilmente perché rappresenta un esplicito atto di accusa sulle modalità di conduzione dell'indagine emiliana lasciando cadere tutti gli indizi che portavano a sinistra.

All'epoca il ministro della Giustizia era il grillino Alfonso Bonafede nel governo giallorosso. Alle politiche del 25 settembre 2022, il procuratore de Raho (nato a Napoli) viene candidato alla Camera dei deputati proprio dal M5S come capolista nel collegio plurinominale Emilia Romagna 3, dove risulterà eletto, e in quello della Calabria. Insomma, adesso da qualche mese è un politico pentastellato. E forse spiega perché nel Movimento 5 Stelle non c’è più nessuno che urla.

"Sono fiducioso che l'onorevole Cafiero De Raho saprà dare una giustificazione alla scelta di ritardare per così tanti mesi l'invio della relazione su Mescolini e, per rimanere in tema inchiesta Aemilia, spero che l'onorevole Cafiero De Raho possa fugare anche i legittimi e imbarazzanti sospetti circa la parentela certa con l'ex capo di Gabinetto del ministro Bonafede, appunto il cognato Raffaele Piccirillo che chiese, in data 7 settembre 2020, ed ottenne, in data 21 settembre 2020, le relazioni della DDA per rispondere alle interrogazioni depositate, in data il 3 settembre 2020, sul pm Mescolini e su inchiesta Aemilia dei Sen Gasparri e Quagliarello, che però rimasero nei cassetti impolverati del ministero, lasciando i due Parlamentari senza mai risposte", tuona ancora Bernini.

Operazione Aemilia del Ros Carabinieri: confiscati beni per oltre 11 milioni di euro alla ‘ndrangheta. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Marzo 2023

Le indagini che nell’ambito del procedimento AEMILIA hanno dato origine a interventi repressivi di notevole portata nei confronti dell’organizzazione capeggiata da Nicolino Grande Aracri hanno evidenziato l’ingerenza della cosca “Grande Aracri” nella gestione e controllo di attività imprenditoriali formalmente intestate a prestanome, nonché l’accumulo illecito di significativi patrimoni personali

Nel corso della mattinata, i Carabinieri del ROS – con il supporto in fase esecutiva del Comando Provinciale Carabinieri di Reggio Emilia – hanno dato esecuzione ad un provvedimento di confisca beni in executivis emesso dalla Corte d’Appello di Bologna per un valore di oltre 11 milioni di euro, in danno di Antonio Muto. Il provvedimento consegue alla irrevocabilità della condanna del Muto nell’ambito del processo “Aemilia” alla pena di anni 8 e mesi 6 di reclusione, tra gli altri, per il delitto di associazione mafiosa poiché appartenente alla cosca di ‘ndrangheta “Grande Aracri” di Cutro (KR) che operava nelle provincie di Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Modena.

Le mani del boss don Nicolino Grande Aracri non erano solo macchiate di sangue ma “puzzavano” di soldi sporchi e riciclati attraverso colletti bianchi, professionisti, imprenditori il più delle volte gravitanti nella massoneria. Secondo gli inquirenti, il “boss” poteva vantare entrature nei palazzi che contano: compresi il Vaticano e la Corte di Cassazione. Se da una parte è vero che non è stato mai accertato il coinvolgimento di un magistrato, dalle carte sulla cosca di Cutro è emerso come il boss abbia cercato di aggiustare un processo a Roma per far annullare una sentenza del Tribunale del Riesame di Catanzaro.

Il provvedimento eseguito nelle province di Reggio Emilia, Parma, Mantova e Crotone ha portato al sequestro di 5 aziende operanti nel settore degli autotrasporti ed immobiliare, per un fatturato relativo all’anno 2017 di circa 3 milioni e mezzo di euro, ed un patrimonio netto complessivo di € 1.063.999,00; 23 immobili (tra cui 3 capannoni industriali sede delle aziende di autotrasporti, 8 abitazioni, 3 garage e 2 ettari e mezzo di terreno), acquistati ad un prezzo complessivo di 5 milioni euro; 92 veicoli, tra cui 28 trattori stradali, 43 semirimorchi, 5 autobus, 4 furgoni, 2 autocarri, 10 autovetture tra cui una Maserati e due Volkswagen ed 1 motociclo acquistati ad un prezzo complessivo di oltre 1 milione e mezzo di euro, e 9 rapporti bancari con saldi positivi per circa 100.000,00.

Le indagini che nell’ambito del procedimento AEMILIA hanno dato origine a interventi repressivi di notevole portata nei confronti dell’organizzazione capeggiata da Nicolino Grande Aracri hanno evidenziato l’ingerenza della cosca “Grande Aracri” nella gestione e controllo di attività imprenditoriali formalmente intestate a prestanome, nonché l’accumulo illecito di significativi patrimoni personali. In tale quadro, gli esiti dalle indagini patrimoniali svolte nei confronti degli interessati hanno trovato conferma nella gestione occulta di numerose imprese operanti sul territorio nazionale: l’analisi di oltre 700 rapporti bancari ha consentito di ricondurre i processi decisionali delle aziende agli indagati i quali, dietro lo schermo di compiacenti prestanome, sono risultati i veri dominus delle aziende stesse. Redazione CdG 1947

Cosa Veneta. Report Rai PUNTATA DEL 05/11/2023

di Walter Molino e Andrea Tornago

Dalla Laguna di Venezia alla campagna veronese, un viaggio nel Veneto finito in mano alle mafie.

Dalle tranquille e produttive province di Padova e Treviso al distretto vicentino della chimica, le organizzazioni mafiose si stanno prendendo il Veneto. Le inchieste antimafia degli ultimi anni hanno portato alla luce un territorio in cui si è radicata la criminalità organizzata: nel ricco Nordest Cosa Nostra, 'Ndrangheta, Casalesi si mescolano, concludono affari, si infiltrano negli appalti, si interessano di voti e di amministrazione pubblica, intrattengono rapporti privilegiati con forze dell’ordine, imprenditoria e massoneria.

11 novembre 2023: la lettera dell'avvocato Bruno Barel alla redazione di Report e la nostra nota

Oggetto: Re: Richiesta di immediata rettifica e immediata sospensione di diffusione in ogni forma di notizie false e diffamatorie, in base alla legge sulla stampa Il giorno 5 novembre 2023 Report ha presentato un servizio su come le mafie si stiano infiltrando nel Veneto. La tesi sostenuta è tanto semplice, suggestiva e di impatto quanto gratuitamente diffamatoria: - L’ avvocato del governatore Luca Zaia, il suo uomo di fiducia, quello dei casi più delicati, è l’uomo che promuove le imprese della Ndrangheta in Veneto. Si mettono insieme una serie di fatti veri: - Sono stato il presidente di Numeria di cui sono tuttora socio e di cui sono stato fondatore; - Numeria ha dato degli appalti a un’ impresa della provincia di Padova destinataria di un’ interdittiva antimafia; -Numeria ha addirittura raccomandato Sidem all’ impresa Setten che così l’ha utilizzata quale appaltatrice nei lavori di costruzione del nuovo ospedale pediatrico di Padova. La manipolazione usata per fare apparire vero quel che vero non è avviene attraverso le seguenti manipolazioni ed omissioni: - non si dice che l’ ultimo appalto dato da Numeria a Sidem risale a più di un anno prima dell’ interdittiva antimafia; - a quell’ epoca Sidem era un’ impresa, con sede in Veneto, che lavorava da trent’ anni alla luce del sole per committenti pubblici e privati e con una ottima reputazione per la qualità dei lavori eseguiti; - quando Numeria - più precisamente: un tecnico di cantiere si Numeria - dà buone referenze alla Setten non dice altro che la verità e nessuno sapeva che potevano esserci legami tra la Sidem ed organizzazioni criminali. Quindi questa apparente notizia non lo è affatto: la Sidem dopo avere lavorato per Numeria ha continuato a lavorare per decine di altri committenti e nessuno di questi committenti viene menzionato tranne Setten che viene fatto passare per una vittima di Numeria. Quindi si passa alla manipolazione sulla persona: il responsabile unico è Bruno Barel, l’uomo di fiducia di Luca Zaia. In realtà: - Bruno Barel non ha mai partecipato a nessuna deliberazione per affidare appalti alla Sidem e non ha mia avuto il benché minimo rapporto con personale, soci o amministratori della Sidem. Numeria ha un amministratore delegato che ha affidato - nella sua facoltà individuale per delega - i lavori in questione a Sidem nel 2021 rispettando perfettamente tutta la disciplina in materia. Di un tanto l’ amministratore delegato di Numeria si era assunto la piena responsabilità in un incontro di quasi due ore con i giornalisti di Report: nel servizio l’amministratore delegato di Numeria non viene neppure menzionato. - Men che meno Bruno Barel ha raccomandato la Sidem a chicchessia. Neppure lo ha fatto l’amministratore delegato di Numeria. Pare che un tecnico della Setten abbia chiesto a un tecnico di Numeria se Sidem avesse lavorato bene per Numeria e la risposta era stata la pura verità: aveva lavorato bene. Quindi fino a qui: un’ impresa con cui da trent’ anni lavoravano tutti lavora anche con Numeria, e un tecnico di cantiere ne dà buone referenze quando gli vengono richieste. Una non notizia. La notizia sarebbe stata tale se l’ interdittiva antimafia fosse arrivata prima degli appalti di Numeria ma invece - ripetesi- è arrivata oltre un anno dopo l’ultimo appalto. Che interesse c’ è poi a parlare di Numeria? Decine di altri soggetti hanno dato appalti alla Sidem dopo Numeria ma nessuno viene menzionato da Report se non Setten, “ vittima” di Numeria. Numeria ovviamente non interessa a nessuno al pari di tutti gli altri soggetti che hanno dato appalti a Sidem in questi anni ma il suo presidente sí. Di per sè anche Bruno Barel, che non riveste nessun ruolo pubblico, non dovrebbe interessare più di qualsiasi altro socio o amministratore di società o enti che abbiano dato appalti alla Sidem. Sennonché e l’uomo dei casi delicati per Luca Zaia. A questo punto il dottor Ranucci non resiste e aggiunge un particolare che dovrebbe dimostrare che non stiamo parlando di congetture ma di fatti, la prova delle prove: la confessione! E sventola un documento, un atto di notaio! La forma pubblica dà sostanza alle congetture, quasi una confessione .. notarile! Aggiunge quindi che Bruno Barel - saputo dell’ interdittiva antimafia - corre a vendere le sue quote di Numeria. Senonche’ si tratta di una clamorosa bugia: Bruno Barel non ha mai venduto nessuna azione di Numeria. Avesse letto quell’ atto, Ranucci avrebbe anche saputo che si trattava di una cessione di ramo d’azienda in esecuzione di delibere assunte mesi prima; e comunque quel che Ranucci ha detto è falso. Quindi Vi diffido dal ripubblicare il servizio in qualsiasi forma, anche sui social, in quanto: - è’ stato falsamente rappresentato, esibendo un atto notarile, che Bruno Barel avrebbe venduto azioni di Numeria - perché indotto dall’ interdittiva antimafia alla Sidem - quando invece non ha mai venduto quelle azioni; - è stato strumentalmente rappresentato un rapporto tra il presidente Zaia e Bruno Barel che non esiste in realtà come può essere facilmente verificato confrontando il numero di incarichi che la Regione Veneto ha affidato a Bruno Barel e quelli che ha affidato ad altri avvocati del libero foro; - è stata rappresentata una partecipazione di Bruno Barel nei rapporti tra Numeria e Sidem quando, in realtà, Bruno Barel non vi ha avuto il benché minimo coinvolgimento; - è stata rappresentata un’ attività di Numeria agevolativa dell’ attività di un’ impresa in odore di mafia quando nulla di tutto ciò è accaduto per le ragioni sopraesposte. La presente ai sensi della legge sulla stampa per evitare il protrarsi di una palese diffamazione con gravissimo ingiusto danno reputazionale. Avv Bruno Barel

COSA VENETA di Walter Molino e Andrea Tornago Immagini di Davide Fonda, Cristiano Forti, Marco Ronca e Andrea Lilli Ricerca immagini di Paola Gottardi e Alessia Pelagaggi Montaggio di Andrea Masella, Giorgio Vallati e Sonia Zarfati

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO Luca Zaia, nato a Conegliano (...)

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Persino il presidente Zaia è chiamato a testimoniare al processo Eraclea, l’inchiesta che prende nome dalla cittadina del litorale di Venezia. Secondo la Procura antimafia fin dagli anni ‘90 qui si è radicata una costola del clan dei Casalesi. Nel 2019 vengono arrestati politici, imprenditori, professionisti ed esponenti delle forze dell’ordine. L’attenzione cade su Luciano Donadio. L’imprenditore edile originario di Casal di Principe è il presunto boss dei Casalesi di Eraclea. Questo centro scommesse nella piazza principale del paese era il suo quartier generale. Controllava persino i parcheggi pubblici.

SIMONETTA MARCOLONGO - SEGRETARIA PD ERACLEA (VE) Davanti là nessuno poteva parcheggiare. Il parcheggio era suo. Con il beneplacito dei vigili. Dopodiché succede quel fatto della vigilessa: ordina al nipote di Donadio di spostare la macchina. Lui non lo fa e lei gli dà una multa. Il giorno dopo la macchina della vigilessa viene distrutta. E i suoi colleghi le dicono così impari, ti sta bene. È lo stesso clima di Casal di Principe.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Secondo l’antimafia Donadio era in grado di condizionare la vita politica e amministrativa del ricco litorale veneziano. La notizia arriva anche all’estero e la sindaca è preoccupata per l’immagine della sua città.

NADIA ZANCHIN - SINDACA DI ERACLEA (VE) Avere un’associazione mafiosa mi rovina un territorio. Io ieri mi son fatta una ricerchina, niente, così...ho messo il nome Comune di Eraclea, Nadia Zanchin eccetera. Mi venivano fuori anche i siti tedeschi. Vuol dire che mi rovina l’immagine su Eraclea per i turisti tedeschi.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dopo tre anni di carcere preventivo, Luciano Donadio è tornato a casa nel febbraio scorso, accolto dai fuochi di artificio.

WALTER MOLINO Ma lei cosa ha pensato quando Donadio è tornato a casa e hanno fatto i fuochi d’artificio?

NADIA ZANCHIN - SINDACA DI ERACLEA (VE) È stata notificata ieri mattina anche una sanzione…

WALTER MOLINO Cinquanta euro.

NADIA ZANCHIN - SINDACA DI ERACLEA (VE) Quello prevede il regolamento.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO I botti per festeggiare li ha fatti Marco Lo Faro, un imprenditore siciliano trapiantato da anni ad Eraclea e in affari con Donadio.

WALTER MOLINO Come le è venuto in mente di fare i fuochi d’artificio per il ritorno di Donadio?

MARCO LO FARO - IMPRENDITORE Lei è del Sud?

WALTER MOLINO Sì.

MARCO LO FARO - IMPRENDITORE Sa bene che al Sud è una cosa giornaliera questa.

WALTER MOLINO Dei fuochi d’artificio o dei fuochi d’artificio quando qualcuno esce dal carcere?

MARCO LO FARO - IMPRENDITORE No, i fuochi d’artificio. Non c’entra perché uno esce dal carcere...Può essere una gioia per qualcuno festeggiare il compleanno del bambino o qualcuno che magari…

WALTER MOLINO Vive un giorno di festa perché sta tornando a casa.

MARCO LO FARO - IMPRENDITORE Esattamente, niente di più, niente di meno.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Chi vuole incontrare Donadio e i suoi amici, a Eraclea sa dove trovarlo.

LUCIANO DONADIO Beviamo solo un caffè ma non si parla di niente.

WALTER MOLINO In silenzio? Vabbè parliamo…

LUCIANO DONADIO In silenzio totale.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Con lui ci sono suo figlio Adriano e l’inseparabile Raffaele Buonanno, tutti condannati in primo grado.

RAFFAELE BUONANNO Sono stato sfortunato perché Casal di Principe è molto popolare.

WALTER MOLINO È molto popolare Casal di Principe, è vero.

RAFFAELE BUONANNO Però a Casal di Principe ci sono avvocati, giudici, ci sono dottori, ci sono tutte persone perbene. Non è che tutte le persone sono brave in Veneto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO In questo bar, dopo una violenta rissa, un gruppo di skinheads ha dovuto piegare la testa davanti agli uomini di Donadio.

WALTER MOLINO Ma questa storia della rissa che c’è stata qua com’è andata?

LUCIANO DONADIO Non mi deve fare queste domande qua. Se ci tiene…a farmi stare tranquillo.

WALTER MOLINO Gli skinheads sono venuti a calare la testa davanti al boss di Eraclea.

LUCIANO DONADIO E chi è il boss di Eraclea?

WALTER MOLINO Non sia modesto.

LUCIANO DONADIO Buona giornata!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Sul gruppo di Donadio le indagini sono durate vent’anni: estorsioni, usura, minacce, voto di scambio. Nell’aprile di quest’anno la Corte Suprema di Cassazione conferma l’esistenza di un’associazione mafiosa ad Eraclea. Tra gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato l’ex sindaco Graziano Teso, condannato a 2 anni e 2 mesi per concorso esterno.

WALTER MOLINO Me lo spiega come è entrato in contatto lei con Donadio?

EMANUELE ZAMUNER - IMPRENDITORE Donadio è un imprenditore di Eraclea. Ad Eraclea siamo 14 mila abitanti. Conosci tutti quanti!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Emanuele Zamuner è un carrozziere di San Donà con il pallino della politica e a Donadio aveva chiesto voti per la campagna elettorale del 2016.

EMANUELE ZAMUNER - IMPRENDITORE Ho chiesto voti a cani e porci. Ho chiesto voti anche a lui.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Paolo Valeri si è messo in affari con Donadio per realizzare un impianto di biogas ad Eraclea. Ma prima aveva bisogno di recuperare un credito.

PAOLO VALERI - IMPRENDITORE Lui mi dice che voleva andare a trovare sto qua… gli spacco le corna, gli brucio la casa… discorsi da napoletano.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Questo è il tono con cui Donadio si rivolge al suo interlocutore per discutere il recupero del denaro da investire nel biogas.

LUCIANO DONADIO – INTERCETTAZIONE AMBIENTALE Ti squarto come un porco, cornuto! Hai capito che ti squarto come un porco? Sto figlio di puttana… “Ma io non voglio…” E allora statti zitto!

PAOLO VALERI - IMPRENDITORE C’è la volontà di piantare la bandierina in Veneto. E adesso salta fuori sta moda che deve esserci la mafia anche in Veneto. Hanno ragione i miei paesani: el leon magna el terun.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il capo dell’anticrimine Alessandro Giuliano ha diretto la squadra mobile di Venezia negli anni 2000, e il gruppo di Donadio se lo ricorda bene.

ALESSANDRO GIULIANO - DIRIGENTE SQUADRA MOBILE DI VENEZIA 2004-2009 Noi sulla base di questi elementi ritenevamo esistente ad Eraclea un’organizzazione criminale facente capo a Donadio, ritenemmo di ravvisare una torsione della funzione amministrativa a favore di Donadio.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il 5 giugno però, accade l’incredibile: quella che per i giudici del rito abbreviato è mafia fino in Cassazione, per i giudici del rito ordinario è solo un’associazione a delinquere.

VITTORIO ZAPPALORTO - PREFETTO DI VENEZIA 2018-2023 Il consiglio comunale io ho chiesto lo scioglimento perché è stato eletto con i voti della camorra. Punto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Vittorio Zappalorto è il prefetto che nel dicembre 2019 ha chiesto lo scioglimento del consiglio comunale di Eraclea per le infiltrazioni mafiose. In Veneto sarebbe stata la prima volta.

NICOLA PELLICANI – COMPONENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA 2018- 2022 Il Prefetto dopo aver fatto la relazione l’ha presentata al Comitato per l’ordine pubblico, dove oltre a lui c’erano il Procuratore Capo Cherchi e tutti i rappresentanti delle forze dell’ordine. E all’unanimità hanno detto: sì, questa relazione va bene, ci vuole lo scioglimento.

WALTER MOLINO Le risulta anche nel suo ruolo di commissario della commissione antimafia che possano esserci state delle pressioni politiche per una soluzione di questo tipo?

NICOLA PELLICANI – COMPONENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA 2018- 2022 Suppongo che ci siano anche state, forse, delle pressioni, delle pressioni politiche. La relazione viene inviata al Ministero dell’Interno che dopo alcuni mesi risponde rigettando la richiesta. Ed è uno degli unici casi in Italia di rigetto di richiesta da parte del prefetto di scioglimento del comune per infiltrazioni mafiose.

WALTER MOLINO La Ministra Lamorgese era stata Prefetto di Venezia.

NICOLA PELLICANI – COMPONENTE COMMISSIONE ANTIMAFIA 2018- 2022 E poi è stata due volte mi pare Ministro dell’Interno, no?

WALTER MOLINO Prefetto perché da Ministro dell’Interno ha deciso di non sciogliere il comune di Eraclea nonostante la Commissione prefettizia? Vuole rispondere a questa domanda?

LUCIANA LAMORGESE - MINISTRA DELL’INTERNO 2019-2022 Dovete leggervi quelle che sono recenti sentenze del Consiglio di Stato. Per cui ci sono due elementi che devono essere sempre visti insieme, quello oggettivo e quello soggettivo.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO L’ex prefetto Zappalorto voleva sciogliere il Comune per mafia ed era il testimone più atteso al processo. Ma all’ultimo momento la sua audizione viene cancellata.

VITTORIO ZAPPALORTO - PREFETTO DI VENEZIA 2018-2023 Sono l’unico prefetto che potrebbe dire qualche cosa, fra tutti quelli che sono stati sentiti.

WALTER MOLINO Lei aveva chiesto lo scioglimento.

VITTORIO ZAPPALORTO - PREFETTO DI VENEZIA 2018-2023 Io avevo chiesto lo scioglimento e stamattina speravo di poter spiegare perché.

WALTER MOLINO Lei che idea si è fatto sui motivi per cui è stato negato?

VITTORIO ZAPPALORTO - PREFETTO DI VENEZIA 2018-2023 Ah guardi, ho chiesto più volte di…che mi rendessero conto ma mi ha mai detto il perché.

WALTER MOLINO O se si è dato delle risposte sono risposte forse indicibili.

VITTORIO ZAPPALORTO - PREFETTO DI VENEZIA 2018-2023 Sono risposte cui preferisco non credere io stesso.

 WALTER MOLINO FUORI CAMPO Alla fine dell’udienza Luciano Donadio è l’ultimo ad uscire dall’aula bunker.

WALTER MOLINO Ma è vero che lei era così potente ad Eraclea addirittura da piegare l’amministrazione comunale ai suoi voleri?

LUCIANO DONADIO Ha ascoltato anche lei il processo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, quando Donadio è tornato a casa è stato accolto con i fuochi d’artificio. Ora può tranquillamente passeggiare nella piazza della città con 26 anni di carcere sulle spalle, condannato in primo grado per associazione per delinquere, senza l’aggravante mafiosa. Può essere felice la sindaca di Eraclea che può dire ai turisti tedeschi che la mafia non c’è. Però quello di Eraclea merita un ragionamento più alto. C’è stato un corto circuito: due sentenze contraddittorie. Mentre da una parte la Suprema Corte, la Cassazione ha riconosciuto l’aggravante mafiosa nel caso del sindaco Graziano Teso, che scegliendo il rito abbreviato è stato condannato per concorso esterno alla mafia, dall’altra parte, per tutti gli altri imputati che hanno scelto il rito ordinario, c’è stata la condanna per associazione per delinquere, senza il riconoscimento della mafia. Eppure, c’è una sentenza del Consiglio di Stato del 2019 che dice sostanzialmente: “basta il sospetto che un solo voto sia stato condizionato dalla criminalità organizzata e si può chiedere lo scioglimento del Comune per mafia”. È quello che aveva fatto l’ex prefetto Zappalorto e aveva anche tutti d’accordo, aveva la Direzione Distrettuale Antimafia, il procuratore Cherchi, le forze dell’ordine, il comitato per la sicurezza. Tuttavia quando la relazione di 8mila pagine è arrivata sul tavolo di Lamorgese, allora ministra dell’Interno, è stata rispedita al mittente. La Lamorgese ha detto: “Le risultanze dell'accesso non hanno fatto emergere alcuna circostanza che possa attestare quello sviamento dell'azione amministrativa registrato dell'ente oggetto della richiamata sentenza del Consiglio di Stato”. Ecco, secondo l’ex membro della Commissione antimafia, Nicola Pellicani, ci sarebbero state pressioni politiche probabilmente per evitare che Eraclea fosse il primo Comune nella storia del Veneto a essere sciolto per mafia. In realtà avrebbe potuto essere il secondo. Perché già nel 2015 la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, aveva chiesto una commissione di accesso agli atti al Comune di Verona. Questo anche in seguito ad un’inchiesta di Report, che ben 10 anni fa aveva illuminato una zona d’ombra: la presenza della ‘ndrangheta a Verona e soprattutto contatti con uomini politici della giunta Tosi. Ecco, tutti avevano negato e si erano indignati. Dopo 10 anni i nodi son venuti tutti al pettine. Tutto ruotava già allora intorno alla famiglia calabrese Giardino. E oggi si è aggiunto anche un tassello: quello di uno spione, che è il primo pentito di ‘ndrangheta che sta facendo tremare il Veneto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Isola Capo Rizzuto in Calabria: un promontorio affacciato sullo Ionio, l’area marina protetta più grande d’Europa. Il regno delle famiglie Arena e Nicoscia, tra le più 7 potenti cosche della ‘ndrangheta, legate da un patto di sangue nel nome degli affari. Da qui arriva anche la famiglia Giardino. ANZIANO È una persona normale come noi.. non è che sono tanti… Poi sapete com’è l’andazzo che rovina le persone.

WALTER MOLINO L’andazzo o la ‘ndrangheta?

ANZIANO L’andazzo! Io parlo di andazzo.

WALTER MOLINO E la ‘ndrangheta?

ANZIANO Non posso dire ‘ndrangheta.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Questo è il video della spedizione punitiva contro il dipendente di una sala scommesse. Non siamo in Calabria ma nel centro di Verona. L’aggressore si chiama Francesco Giardino. Suo figlio è stato licenziato il giorno prima perché rubava dalla cassa.

KEIBER CASTILLO DE LAS CASAS – IMPIEGATO SALA SCOMMESSE Sono lì dietro al banco, arriva suo padre e mi dice: sei stato tu a dire alla tua capa che mio figlio ha fatto quello che ha fatto? Ho detto: sì, sono stato io. E lì proprio lui ha reagito e ha cercato di darmi un pugno.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Daniela Saccardo è la proprietaria dell’agenzia. Aveva assunto il figlio di Giardino anche se in Questura glielo avevano sconsigliato.

WALTER MOLINO Voi poi siete andati a denunciare questa cosa, no?

DANIELA SACCARDO - IMPRENDITRICE No. Siamo andati a raccontare e poi è uscito tutto questo ambaradan. Non è che eravamo andati per denunciare. Diciamo che abbiamo avuto delle pressioni. Magari se raccontavamo quello che era successo poteva anche essere bruciato il locale.

WALTER MOLINO Verona è la città più ricca del Veneto, è impressionante questa presenza.

NICOLA GRATTERI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI CATANZARO L’imprenditore ‘ndranghetista veste come noi, mangia come noi, ha solo l’accento calabrese come il mio, però porta tanti soldi. Mettiamo il caso in cui l’imprenditore del Nord sia in buona fede: quando l’imprenditore ‘ndranghetista gli propone smaltimento di rifiuti con ribasso del 30-40%, manodopera a basso costo mi pare che non si possa parlare di ingenuità o di buona fede. Si chiama ingordigia.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Secondo l’Antimafia a Verona si è radicata una locale di ‘ndrangheta. Il capo indiscusso è Antonio Giardino, detto “Totareddu”, che nel marzo scorso è stato condannato in primo grado a 30 anni di carcere. La prima sentenza dibattimentale che riconosce la presenza di un’organizzazione mafiosa sul territorio Veneto.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Io in Veneto non ho mai visto la ‘ndrangheta. In Veneto parlo. Non lo so in altre parti, a Milano… questo e quell’altro. Di quello che dicono i giornali sembra che c’è. Qua in Veneto non ho mai visto la ‘ndrangheta, non ho mai conosciuto uno ‘ndranghetista qua.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Alfonso Giardino è il cugino di Totareddu. Condannato per estorsione, oggi è indagato dall’antimafia di Venezia per associazione mafiosa.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Tutti, tutti i calabresi, tutti, tutti, elettricisti idraulici, gente che lavora dalla mattina alla sera, ce li ho amici io, lavoriamo insieme perché facciamo il 110, quello fa l’idraulico, l’elettricista, tutti calabresi, tutti, qua nel Veneto, ce l’hanno a morte! Vanno a controllargli le aziende, le cose, qua c’è gente a Verona che ruba soldi dalla mattina alla sera che cazzo non gli fanno un cazzo.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Alla famiglia Giardino sono riconducibili decine di aziende con sede in Veneto e tutto il Nord Italia che lavorano nel campo della manutenzione ferroviaria e dell’edilizia. ALFONSO GIARDINO - IMPRENDITORE Ma di cosa cazzo parliamo? Siamo diventati ebrei, te lo dico io qual è la verità, Walter! Noi siamo diventati come gli ebrei. C’è un Hitler qua: la politica.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Nell’inchiesta Kyterion della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro è emerso l’interesse delle ‘ndrine calabresi in contatto con i Giardino per la rielezione di Flavio Tosi a sindaco di Verona, come si evince da questa intercettazione telefonica mai ascoltata prima tra due imprenditori crotonesi legati ad Alfonso Giardino.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA 7 MAGGIO 2012 LUIGI FRONTERA - IMPRENDITORE Alfonso si è fatto sentire, no

GIUSEPPE PORTA - IMPRENDITORE Alfonso lo sto chiamando e non mi risponde, l'ho chiamato già due volte.

LUIGI FRONTERA - IMPRENDITORE A Verona ha vinto Tosi quello che appoggiavano loro, quindi secondo me sono in festa.

GIUSEPPE PORTA - IMPRENDITORE Ah sì ha vinto quello che…

LUIGI FRONTERA - IMPRENDITORE Sì quello che appoggiavano loro.

GIUSEPPE PORTA - IMPRENDITORE Sono contento, buono, buono.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Alle elezioni comunali del 2012 Alfonso Giardino racconta di aver creduto in Flavio Tosi e nelle promesse del suo assessore calabrese Marco Giorlo: appalti in cambio di voti.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Quando abbiamo parlato mi ha detto – lui – “Se mi date una mano…vedete se conoscete anche altri calabresi, gente che per il voto… Se mi…ci date una mano vediamo di…” Perché io gli avevo detto che mi interessava fare un centro sportivo qua a Verona, perché sono amante di ‘ste cose qua, di calcio, tennis…queste cose qua. E mi ha detto “Guarda, c’è la possibilità” però sempre in affitto, perché non è che te lo danno in affidamento, no?

WALTER MOLINO Ma poi te l’hanno dato?

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE No… WALTER MOLINO Tu però l’hai aiutato con questi voti?

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE No, non li ho aiutati.

WALTER MOLINO Però nelle intercettazioni tu a tuo fratello dici...

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Ma non li ho aiutati.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA 4 LUGLIO 2012 ALFONSO GIRADINO – IMPRENDITORE L'ha aiutato davvero te lo posso giurare dove, se si trova su quella poltrona si trova per me questo, gli ho trovato non so quanti voti, quanti gliene ho tirati fuori non hai nemmeno idea tu, mi sono massacrato giorni e giorni però vedi ora grazie a Dio è riconoscente, mi ha detto “Io per i Giardino faccio tutto, per i Giardino perché i Giardino a me mi hanno aiutato”.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Marco Giorlo ha sempre negato qualsiasi contatto con la famiglia Giardino e le inchieste sul suo operato di assessore sono state archiviate. Ma non risulta che sia mai stata approfondita la natura dei suoi rapporti con Alfonso Giardino.

WALTER MOLINO Cioè, lui si è impegnato!

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Si è impegnato, insomma…

WALTER MOLINO Cioè si era impegnato, ti aveva promesso questa cosa, e tu ti sei impegnato a trovargli dei voti.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Allora, che lui si sia impegnato no, non glien’è fregato niente neanche a lui.

WALTER MOLINO Si è impegnato nel senso che te l’aveva promesso.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Mhm…che aveva fatto delle promesse…sì.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO L’allora sindaco di Verona Flavio Tosi, dopo una puntata di Report che per prima, nel 2014, aveva denunciato la presenza della ‘ndrangheta a Verona, aveva negato che i Giardino l’avessero appoggiato alle elezioni.

FLAVIO TOSI – (REPERTORIO 2014) I rapporti con certi soggetti non esistono, non esistono, qualcuno manco lo conosco. Se qualcuno ha una prova, qualsiasi tipo di rapporti fra Tosi e certi soggetti, non solo porti in Procura ma lo metta sui giornali, in maniera tale che… e non ci sono, non ne so un fico secco! È quello il punto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO E invece, ecco Flavio Tosi abbracciato con Antonio Giardino, detto “il Marocchino”, il fratello di Alfonso. Nel giugno scorso è stato condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi di carcere. La fotografia è del 29 maggio 2015 quando Tosi è candidato alla presidenza della regione e va a chiudere il suo tour elettorale al bar “Mi Vida” di Sommacampagna, allora riconducibile proprio alla famiglia Giardino.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Si sono fatti ‘sta foto…madonna, è uscito fuori un putiferio!

WALTER MOLINO Beh, perché comunque Tosi era in campagna elettorale ed è andato a chiudere la campagna elettorale proprio nel bar di tuo fratello. Cioè, è una cosa anche simbolica…

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Ma si è trovato per caso, te lo giuro sui miei figli, non sto scherzando.

WALTER MOLINO Ma non si chiude la campagna elettorale per caso in un bar. Si decide dove si va a chiudere la campagna elettorale.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE Perché conosceva un mio parente. Questo mio parente l’ha portato là quella sera.

WALTER MOLINO Quindi vedi che un legame c’è.

ALFONSO GIARDINO – IMPRENDITORE No, no, no, cioè non è che…io ti dico le cose come sono!

ANDREA TORNAGO Lei ha sempre detto che non ha conosciuto…che non conosceva esponenti della famiglia Giardino.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Non ho mai avuto nessun rapporto con quella famiglia, è vero.

ANDREA TORNAGO E com’è che invece lei va a chiudere la campagna elettorale del 2015, quella per le regionali, al bar “Mi Vida” di Sommacampagna?

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Non sapevo neanche chi fosse il titolare. Un candidato aveva organizzato lì un evento, come si fa in campagna elettorale, e quindi sono andato in quel bar a far campagna elettorale. Non posso conoscere i titolari di tutti i bar.

ANDREA TORNAGO Però c’è una fotografia sua dietro al bancone con Antonio Giardino.

 FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Beh è abbastanza normale, tanti mi chiedono di fare le foto: pizzerie, bar, ristoranti, locali…

ANDREA TORNAGO Però lei non conosceva Antonio Giardino detto “il Marocchino”.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA No, non l’ho mai conosciuto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il primo marzo scorso c’è stata una sentenza storica: per la prima volta viene riconosciuta la presenza stabile di una locale di ‘ndrangheta a Verona. Il capo mafia sarebbe Antonio Giardino. Ora, premesso che sono ovviamente tutti innocenti fino a sentenza definitiva, però i personaggi che sono emersi in questa vicenda sono grosso modo in gran parte quelli che aveva illuminato Report nell’inchiesta di circa dieci anni fa, quando si era occupata delle anomalie della amministrazione Tosi e aveva illuminato proprio quei personaggi vicini alle ‘ndrine che erano in contatto con i politici della giunta Tosi. Tosi aveva negato di conoscere 12 i Giardino, salvo poi è emersa una fotografia dove si prova che nel 2015 ha chiuso la sua campagna elettorale in un bar proprio di Antonio Giardino, cugino di quell’Antonio detto Totareddu che appunto sarebbe il capomafia. Ora a questa storia si è aggiunto un tassello, un personaggio: Nicola Toffanin, guardia giurata, ex appartenente ai corpi speciali militari, vicino ad ambienti dell’estrema destra, si è messo a un certo a punto a fare lo spione, senza avere la licenza da investigatore privato. E ha spiato per conto di politici altri politici. Poi a tempo perso faceva anche da link, da trait d’union tra ‘ndranghetisti e politici. Ecco oggi è diventato un super pentito, le sue dichiarazioni soprattutto quelle ancora secretate, stanno facendo tremare il Veneto, ma non solo perché il tremore arriva fino a Roma.

NICOLA TOFFANIN - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Mi chiamo Nicola Toffanin. Sono nato come uomo dello Stato, arruolato ancora minorenne nell’esercito italiano nei primi anni ‘80. Poi sono rientrato a Verona dove ho fatto amicizia con Antonio Giardino il Grande, detto “Totareddu”.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Nicola Toffanin è il primo collaboratore di giustizia veneto della ‘ndrangheta. Arrestato nel giugno 2020 nell’operazione Isola Scaligera, inizia subito a collaborare con i magistrati antimafia di Venezia. E racconta la composizione della locale di ‘ndrangheta veronese.

NICOLA TOFFANIN - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Mi è stato chiesto di tenere il profilo più basso possibile per rimanere in una sorta di mondo di mezzo. La maglia che connette la 'ndrangheta con la politica, le forze dell’ordine e la massoneria. Diamo la possibilità̀ all'organizzazione dì crescere ed infiltrarsi nel tessuto economico, imprenditoriale e delle amministrazioni pubbliche. Anche dalla Procura di Verona venivo a conoscenza di tante cose. È proprio per questo che mi hanno dato il soprannome di “Avvocato”.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Toffanin confessa di curare i rapporti delle cosche con l’imprenditoria e la politica. I suoi verbali, omissati e in gran parte ancora secretati, stanno facendo tremare il Veneto, e non solo.

WALTER MOLINO Che personaggio è Toffanin?

BRUNO CHERCHI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA Uno che lavora sotto molti aspetti, molti campi, che ha molti contatti e che quindi avendo molti contatti ha anche molte informazioni. Devo dire che poi le informazioni che son state date da Toffanin quando ha deciso di collaborare sono state tutte riscontrate.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Ex militare dei corpi speciali, ben introdotto negli ambienti dell’estrema destra, Toffanin fa l’investigatore privato anche se non ha la licenza. Si accompagna a Michele Pugliese, di Isola Capo Rizzuto, detto “il commercialista”, il braccio destro del capo cosca Antonio Giardino. Altro uomo di peso del gruppo è Domenico Mercurio, detto Mimmo, in ottimi rapporti con la politica veneta. Oggi è un collaboratore di giustizia e anche i suoi verbali sono ancora in gran parte secretati. 13 Con loro c’è spesso Francesco Vallone, detto “il Professore”, vicino alla potente famiglia mafiosa dei Mancuso, imprenditore massone di Vibo Valentia, responsabile del Centro Studi Enrico Fermi, con varie succursali anche in Calabria. Per gli investigatori è il diplomificio della ‘ndrangheta. A Verona era in Corso di Porta Nuova e condivideva la sede con l’università telematica Unicusano di Stefano Bandecchi.

WALTER MOLINO Venivano gli studenti?

AVVOCATO VICINO DI CASA Sette-otto, non chissà cosa.

WALTER MOLINO Ah, così pochi.

AVVOCATO VICINO DI CASA Beh ma sono quelle scuole per recuperare gli anni… han tolto l’insegna, lì c’era anche l’Università Cusano.

WALTER MOLINO L’Unicusano aveva sede qui dentro?

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Quando Totareddu ritorna a casa dopo un periodo di ricovero in ospedale, i suoi contatti più stretti vanno a rendergli omaggio. È seguendo le tracce dell’investigatore Toffanin che nel 2020 l’antimafia riesce a documentare l’attività della locale veronese di ‘ndrangheta. Gli inquirenti ascoltano Toffanin vantarsi del suo potere ricattatorio nei confronti dei politici.

INTERCETTAZIONE AMBIENTALE 28 MARZO 2018 NICOLA TOFFANIN Perché Miglioranzi l’ho preso per le palle!

FRANCESCO VALLONE Bravo... ed è giusto che sia così!

NICOLA TOFFANIN Ma non solo lui! ma c'ho anche Tosi per le palle!

FRANCESCO VALLONE In questo momento conta più Miglioranzi che Tosi. Se noi siamo intelligenti ci dà sempre da mangiare! Sempre!

NICOLA TOFFANIN Certo! FRANCESCO VALLONE Capito? Pulito! al massimo tra 10 anni usciamo su Report!

NICOLA TOFFANIN Ma vaffanculo Report!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Hanno impiegato meno di 10 anni, ma poi Toffanin e Vallone sono finiti su Report. Evidentemente si ricordavano dell’inchiesta fatta nel 2015 quando avevamo denunciato i rapporti fra uomini della ‘ndrangheta e i politici della giunta Tosi. Ora, Toffanin è il super pentito di ‘ndrangheta nel Veneto. È un massone, una guardia giurata, ha fatto da link tra politici e ‘ndranghetisti. Ha messo in contatto politici con Michele Pugliese, il braccio destro di Antonio Giardino, quello considerato dai magistrati il capo della ‘ndrangheta a Verona. E poi li ha anche messi in contatto con Francesco Vallone, un imprenditore calabrese anche lui massone, gestisce una rete di scuole per recupero corsi scolastici e anche un Centro di Formazione Enrico Fermi, a Verona, che per gli investigatori sarebbe il diplomificio della ‘ndrangheta. Però insomma Toffanin a tempo perso fa anche lo spione senza licenza, spia gli avversari di Tosi su mandato di Tosi. Però nello stesso tempo ha catturato nella sua rete anche Andrea Miglioranzi, che è un manager di fiducia di Tosi, è stato messo a capo dell’Amia, la municipalizzata dei rifiuti. E ha offerto Toffanin una mazzetta a Miglioranzi perché fosse disponibile a cedere in appalto dei corsi di formazione all’amico Vallone. Corsi che poi non si sarebbero mai fatti. Ma solo il fatto di aver percepito questa mazzetta ha reso Miglioranzi ricattabile. Ecco è la corruzione il metodo per cui Toffanin può dire: “Abbiamo i politici in pugno”.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO L’uomo che Toffanin dice di avere in pugno è Andrea Miglioranzi, ex bassista dei “Gesta Bellica”, una band nazirock che ha prodotto brani come “Il Capitano”, dedicato al criminale nazista Erik Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine. Miglioranzi è introdotto in politica da Flavio Tosi, che nel 2012 lo nomina presidente dell’Amia, azienda di smaltimento rifiuti del Comune di Verona.

MICHELE BERTUCCO - ASSESSORE AL PATRIMONIO COMUNE DI VERONA Andrea Miglioranzi, che è soprannominato a Verona “MigliorNazi”, è sempre stato ai margini della politica fino a quando non è stato reclutato da Flavio Tosi. Flavio Tosi lo fa diventare capogruppo della sua lista in consiglio comunale, lo fa nominare nell’Istituto per la storia della resistenza di Verona, dopodiché Andrea Miglioranzi capisce che la politica gli dà poco e quindi ha cercato e ha avuto spazio nell’ambito delle aziende partecipate del Comune di Verona.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Ed è in quel ruolo che avrebbe incassato mazzette dall’investigatore Toffanin che veste i panni del mediatore per gli imprenditori vicini alla ‘ndrangheta.

INTERCETTAZIONE AMBIENTALE 3 MAGGIO 2018 NICOLA TOFFANIN È contento, gli ho dato 3 mila euro! Adesso l'abbiamo compromesso. Si chiama concussione aggravata, dai 2 ai 6 anni! Con la legge Severino non può più neanche candidarsi.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO È il 3 maggio 2018 e Toffanin ha appena consegnato una busta con 3 mila euro a Miglioranzi. Per i magistrati è la prima parte di una tangente per l’affidamento di 15 una serie di corsi di formazione fasulli al Centro Studi di Francesco Vallone, imprenditore massone di Vibo Valentia, vicino alla potente famiglia mafiosa dei Mancuso.

ANDREA TORNAGO Questi tremila euro che le vengono consegnati glieli dà Vallone, giusto? Vallone è stato condannato a 15 anni per mafia.

ANDREA MIGLIORANZI - PRESIDENTE AMIA 2012-2018 Abbia pazienza…ho un ricorso e non ci aspettavamo una cosa del genere.

ANDREA TORNAGO Com’è che lei aveva rapporti con questa gente che stava nella criminalità organizzata, nella ‘ndrangheta?

ANDREA MIGLIORANZI - PRESIDENTE AMIA 2012-2018 È stato assolutamente casuale, mi creda. Sono una persona perbene e lo dimostrerò. ANDREA TORNAGO Certo, però lei non si era reso conto che Toffanin, Vallone, avevano questo profilo criminale?

ANDREA MIGLIORANZI - PRESIDENTE AMIA 2012-2018 Assolutamente, se no manco ci avrei parlato, mi creda.

NICOLA TOFFANIN - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Il nostro referente in prima analisi era Miglioranzi. Però Miglioranzi è stato per tanto tempo il rappresentante di Flavio Tosi, il suo braccio destro. Io e Francesco Vallone abbiamo fatto conoscere Miglioranzi e Pugliese. Miglioranzi era al corrente della caratura criminale di Pugliese perché io glielo presentai così. Pugliese poteva gestire i voti della comunità calabrese.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Michele Pugliese è il numero due della locale di ‘ndrangheta, affiliato agli ArenaNicoscia, organizza le attività di infiltrazione nell’azienda di rifiuti di Verona. Isola Scaligera è un’inchiesta di mafia che compone un album di famiglia della destra veronese. Toffanin incontrava a Verona anche Maurizio Lattarulo, detto “Provolino”, ex terrorista dei Nar e membro della Banda della Magliana. A metterli in contatto è Paolo Pascarella, in passato collaboratore di Francesco Biava, ex capo segreteria di Gianni Alemanno. Pascarella è stato consulente legislativo della Camera dei deputati e secondo la Polizia si interessava di appalti del Ministero della Difesa in ambito di sicurezza nazionale. Nell’album di famiglia c’è anche Gianmatteo Sole, palermitano trapiantato a Verona, imprenditore della sicurezza insieme alla sorella Angela Stella. Sono gli ultimi datori di lavoro di Toffanin, gli affidavano i compiti più delicati.

WALTER MOLINO Era un suo investigatore?

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE No

WALTER MOLINO Non era il suo investigatore?

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE No. Servizi di sicurezza, fiduciari. Niente, nessuna importanza.

WALTER MOLINO Però gli davate incarichi importanti.

GIAMMATTEO SOLE – IMPRENDITORE No.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Questo è il mandato dell’attività investigativa commissionata da Tosi alla Veneta Investigazioni di Angela Stella Sole. Toffanin deve spiare i suoi avversari politici. Tosi sospettava che dietro alla pubblicazione di questa foto della sua compagna Patrizia Bisinella, candidata a sindaco, insieme a Vito Giacino, condannato per concussione, ci fosse l’altro candidato di destra Federico Sboarina.

WALTER MOLINO Era stata una campagna elettorale molto accesa quella vostra, no?

FEDERICO SBOARINA - SINDACO DI VERONA 2017-2022 Sì, era stata molto accesa…

WALTER MOLINO Fotografie rubate…

FEDERICO SBOARINA - SINDACO DI VERONA 2017-2022 Mah, era stata una campagna elettorale molto accesa…

WALTER MOLINO Con un sacco di spiate.

FEDERICO SBOARINA - SINDACO DI VERONA 2017-2022 Sì.

ANDREA TORNAGO Volevamo chiederle dei suoi rapporti con Nicola Toffanin.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA E chi è?

ANDREA TORNAGO Nicola Toffanin, considerato la cerniera tra la politica e la ‘ndrangheta a Verona, in Veneto.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Non ho neanche presente chi sia.

ANDREA TORNAGO Vi siete incontrati alcune volte nel 2017.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Ah, quella vicenda! Una volta, credo di averlo incontrato.

 ANDREA TORNAGO E com’è che lei aveva rapporti con Toffanin? Come vi siete conosciuti?

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Me l’aveva presentato l’allora presidente dell’Amia, Andrea Miglioranzi.

ANDREA TORNAGO Gli ha chiesto di spiare avversari politici…

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Era un lavoro di investigazione, e come tale riservato.

ANDREA TORNAGO Avevate una certa confidenza, perché lei lo chiamava “Nik” nei messaggi.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Boh. Francamente, ripeto, l’ho visto due volte.

ANDREA TORNAGO Vi scambiate alcuni messaggi che sono agli atti dell’inchiesta…in cui dice “Grazie Nik, domani do un’occhiata”.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA E si vede che li avete voi agli atti, io gli atti, ripeto, non li ho neanche mai visti e non son mai stato coinvolto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Report può mostrarvi in esclusiva uno dei messaggi tra Tosi e Toffanin del giugno 2017. L’ex sindaco di Verona, ora deputato di Forza Italia, riceve un ampio dossier con informazioni sensibili su vari esponenti politici. E ringrazia Toffanin, l’investigatore senza licenza legato alla ‘ndrangheta: “Grazie Nik. Domani ci do un’occhiata”.

ANDREA TORNAGO Lei può certificare che quel lavoro di investigazione è stato pagato con i suoi soldi.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Assolutamente sì.

ANDREA TORNAGO Anche se Toffanin non aveva la licenza per fare l’investigatore.

FLAVIO TOSI - DEPUTATO DI FORZA ITALIA Io che ne so. Se Andrea Miglioranzi mi presenta una persona e mi dice questo fa questo tipo di attività, glielo commissiono, mi viene dato il lavoro quindi per me fa quell’attività lì.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Secondo l’antimafia, lo spionaggio di Toffanin per Tosi sarebbe stato pagato con i soldi dell’Amia, presieduta da Miglioranzi. Sono tutti accusati di peculato in concorso, per l’uso di denaro dell’azienda pubblica per i dossieraggi politici. Un’imputazione che non risulta essere ancora stata archiviata. Tuttavia, la galassia imprenditoriale di Gianmatteo Sole, il palermitano trapiantato a Verona e datore di lavoro dello spione Toffanin, continua ad allargarsi.

WALTER MOLINO Quando lei poi ha scoperto che lui aveva questo tipo di rapporti anche con la criminalità organizzata?

GIAMMATTEO SOLE – IMPRENDITORE Quando è scoppiato il bubbone! Un bel giorno lo mando a Ferrara…a Parma! Abbiamo un cantiere a Parma. Mi chiama…e trova dove si mettono le microspie qua sotto. Lo vede, qua io ci metto le mani dentro… a me lo vieni a insegnare… trova delle microspie. Mi manda la foto. Quindi lui un anno prima ha capito che era intercettato, sicuramente dalle forze dell’ordine.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Gianmatteo Sole è cresciuto nel Fronte della Gioventù ed è stato consigliere comunale di Alleanza Nazionale a Verona. Dopo una lunga militanza nell’Msi, oggi è vicino a Fratelli d’Italia. A meno di cento passi dal Centro Studi Enrico Fermi di Francesco Vallone, sospettato di essere il diplomificio della ‘ndrangheta, Sole ha aperto il Centro Studi Verona insieme alla sorella Angela Stella Sole e a Michela Seves, che del Centro Studi di Vallone era la segretaria.

WALTER MOLINO Michela Seves era, diciamo, la segretaria di Vallone…

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE No, era molto di più! Perché lui non c’era mai…

WALTER MOLINO Era molto di più…e lei se l’è presa come socio?

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE Perché è una bravissima persona!

WALTER MOLINO Siete in società nella scuola…

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE Perché è una bravissima persona!

WALTER MOLINO Cioè lei non ha nessun imbarazzo, dopo quello che è successo…

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE Le ho dato un’opportunità.

WALTER MOLINO … a mettersi in società con il braccio destro di Vallone?

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE Sì, se lei avesse avuto precedenti penali.

WALTER MOLINO Ma lei non ha paura che un giorno si ritrova come socio occulto Vallone?

GIAMMATTEO SOLE - IMPRENDITORE È possibile.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Francesco Vallone, imprenditore massone calabrese condannato in primo grado a 15 anni per associazione mafiosa. Aveva puntato i corsi di formazione dell'AMIA, la municipalizzata di Verona che si occupa dei rifiuti, glieli avrebbe concessi Andrea Miglioranzi, manager pupillo di Tosi, dietro il pagamento di una mazzetta. Andrea Miglioranzi è stato condannato in primo e secondo grado a 2 anni e 8 mesi per corruzione. Dalle indagini emergerebbe anche che Miglioranzi avrebbe utilizzato soldi pubblici, quindi quelli dell’Amia, per pagare lo spionaggio chiesto da Tosi nei confronti dei suoi avversari politici, avrebbe incaricato l’agenzia Veneta Investigazioni di Angela Stella Sole, sorella di Giammatteo, che avrebbe a sua volta incaricato Toffanin. Sia Giammatteo che Angela Stella Sole stanno investendo in quelle scuole di recupero scolastico, tipo quelle di Vallone, prima che venisse arrestato. E per farlo hanno scelto come socia la segreteria di Vallone, Michela Seves. Alla domanda del nostro Walter Molino a Gianmatteo Sole “Ma non è che poi domani si ritrova come socio occulto Vallone?”, Sole ha risposto, “è’ possibile!”. Certe domande è meglio farsele subito, piuttosto che finire su Report tra 10 anni. Ora passiamo a Vicenza, dove la tela di 'ndrangheta tracciata dal super testimone, ha imbrigliato anche uno chansonnier.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Questa è la sede di Unichimica a Torri di Quartesolo, nei pressi di Vicenza. La più importante azienda chimica nel distretto veneto della pelle: 600 imprese e quasi 3 miliardi di export all’anno, uno dei poli produttivi più ricchi del Paese. Patron di Unichimica è il poliedrico Alberto Filippi: è stato parlamentare della Lega dal 2006 al 2011, politicamente vicino a Flavio Tosi, oggi è anche un apprezzato chansonnier su YouTube.

WALTER MOLINO Buongiorno, mi scusi, sono Walter Molino, sono un giornalista di Report, potrebbe dirmi qualcosa a proposito…

ALBERTO FILIPPI – PARLAMENTARE LEGA NORD 2006-2011 Nooo!

WALTER MOLINO Perché si arrabbia così? Le volevo fare soltanto una domanda.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Lui invece è Ario Gervasutti, ex direttore del Giornale di Vicenza e oggi caporedattore al Gazzettino di Venezia.

ARIO GERVASUTTI – DIRETTORE GIORNALE DI VICENZA 2009-2016 Uno, due e uno tre. Uno si è ficcato qua e uno si è conficcato laggiù. Era la notte del 16 luglio 2018, con la famiglia eravamo appena ritornati da una gita al mare, eravamo a letto e alle due di notte, sotto un temporale ricordo piuttosto violento, i tuoni che abbiamo sentito non erano tuoni da fulmine: erano cinque colpi di pistola. Ho visto uscire dalla sua camera uno dei miei figli che si scuoteva il pigiama dai calcinacci dicendo: ma ci hanno sparato in casa.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO In piena estate la Direzione distrettuale antimafia di Venezia ha chiuso le indagini di un nuovo filone di Isola Scaligera, l’inchiesta che ha accertato la costituzione di una locale di ‘ndrangheta in Veneto. Fra i 43 indagati per associazione mafiosa e altri reati spicca il nome di Alberto Filippi. Sarebbe stato l’ex parlamentare della Lega a ordinare l’attentato intimidatorio nei confronti di Gervasutti.

ARIO GERVASUTTI - DIRETTORE GIORNALE DI VICENZA 2009-2016 Io nel 2010 ero direttore del Giornale di Vicenza, lui si lamentava del fatto che il giornale non dava sufficiente spazio alla sua versione dei fatti rispetto a un contenzioso su un cambio di destinazione d’uso di un terreno di sua proprietà che doveva passare da agricolo a commerciale o industriale.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO A scatenare l’ira di Filippi, secondo gli investigatori, sarebbero stati alcuni articoli sgraditi pubblicati sul Giornale di Vicenza tra il 2010 e il 2011, quando Gervasutti era direttore, a proposito di una speculazione edilizia in quest’area di Montebello Vicentino, di cui Filippi possedeva quasi 230 mila metri quadrati.

WALTER MOLINO Lui pretendeva appoggio anche perché Il Giornale di Vicenza è di proprietà di Confindustria.

ARIO GERVASUTTI - DIRETTORE GIORNALE DI VICENZA 2009-2016 Si sbagliava, perché evidentemente non conosceva la realtà del giornalismo.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Domenico Mercurio collabora con la giustizia dall’autunno del 2020, è stato ai vertici della locale di ‘ndrangheta veronese comandata da “Totareddu” Giardino. È lui a indicare l’ex senatore Filippi quale mandante dell’attentato, che sarebbe stato eseguito dallo zio di Mercurio, Santino.

DOMENICO MERCURIO – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA L’ultimo incarico dato da Filippi di cui sono a conoscenza fu di commissionare a Mercurio Santino un atto di intimidazione nei confronti di un giornalista. Filippi pagò a Santino 25 mila euro da consegnare a fatto compiuto per picchiare o incendiare l’auto a questa persona perché scriveva cose sull’attività di Filippi. Invece di picchiarlo soltanto, spararono alla casa di questo giornalista e venne fuori un casino.

ALFONSO GIARDINO - IMPRENDITORE Mercurio lavorava con la politica. L’unico dei calabresi qua a Verona che ha lavorato con la politica, te lo posso dire io, è stato Mimmo Mercurio.

WALTER MOLINO Tu sai che Santino Mercurio è accusato tra le altre cose di essere andato a sparare dei colpi di pistola contro la casa del giornalista Ario Gervasutti?

 ALFONSO GIARDINO - IMPRENDITORE Santino? No, non sapevo questo.

WALTER MOLINO Questo lo ha raccontato Domenico Mercurio e ci sono state delle verifiche fatte dai magistrati.

ALFONSO GIARDINO - IMPRENDITORE Che compare Santino è andato a sparare?

WALTER MOLINO Ti sembra inverosimile che Santino Mercurio abbia potuto fare questa cosa? ALFONSO GIARDINO - IMPRENDITORE No, quello no.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Pochi giorni fa Alberto Filippi è stato interrogato per 18 ore dai pubblici ministeri dell’antimafia di Venezia e subito dopo ha accettato di incontrarci.

WALTER MOLINO È vero o no che lei aveva dei motivi di rancore nei confronti di Gervasutti?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 Ma assolutamente no. Capita di poter non essere d’accordo con parecchie persone, non per questo una persona che non concorda a livello professionale o fuori dalla professione qualcosa, poi va da qualche ‘ndranghetista e fa fare un’azione intimidatoria.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Poco prima di cominciare l’intervista uno dei suoi avvocati ci racconta di aver consegnato ai magistrati cinque ore di dialoghi tra Filippi e Mercurio che l’ex parlamentare avrebbe registrato di nascosto e che proverebbero la sua estraneità ai fatti.

CESARE DAL MASO – AVVOCATO DI FILIPPI Sono cinque ore di registrazioni importantissime, importantissime, che diciamo hanno tagliato la testa al toro.

WALTER MOLINO Perché lei registrava Domenico Mercurio?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 Io avevo subito da parte di un collaboratore di Domenico Mercurio una… una.. ehm… una minaccia.

WALTER MOLINO Che tipo di minaccia?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 Se non mi paghi dei soldi io ti brucio la casa. Considerato l’importo che era di 7500 euro…

WALTER MOLINO Lei ha deciso di pagare?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 Assolutamente sì.

WALTER MOLINO Ha funzionato?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 Questa persona non si è più vista.

WALTER MOLINO A quando risale questa estorsione che lei ha subìto?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 Proprio mentre Domenico Mercurio era stato incarcerato per l’appartenenza alla ‘ndrangheta.

WALTER MOLINO Lei mi ha detto: ho registrato Domenico Mercurio perché io ho subito una tentata estorsione. Però se lei mi dice che l’estorsione è arrivata quando Mercurio era già in carcere.

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 È successiva.

WALTER MOLINO È successiva all’arresto?

ALBERTO FILIPPI – IMPRENDITORE E PARLAMENTARE LEGA NORD 2006- 2011 È successiva all’arresto.

WALTER MOLINO Lei dopo che Mercurio era in carcere è riuscito a parlare per cinque ore con Mercurio?

CESARE DEL MASO - AVVOCATO Però mi scusi, dobbiamo interrompere… non possiamo… Dottore non possiamo discutere di questa cosa.

WALTER MOLINO Ma sta dicendo una cosa molto grave.

CESARE DEL MASO - AVVOCATO Non possiamo discutere di questa cosa!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Quello con Filippi non sarebbe l’unico contatto di Mercurio con la politica. Nei verbali finiscono nomi illustri, come quello di Stefano Casali, avvocato veronese cresciuto con Tosi e oggi in Fratelli d’Italia. Casali non è indagato, ma secondo il collaboratore di giustizia Toffanin, Domenico Mercurio gli avrebbe assicurato un pacchetto di voti.

NICOLA TOFFANIN – COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Vallone mi riferì che Domenico Mercurio nella tornata elettorale 2012 ha aiutato l’avvocato Casali, di area tosiana. Mercurio è andato da più imprenditori a chiedere voti, e anche a esponenti di ‘ndrangheta, in favore di questo personaggio. E sapevo che il buon avvocato Casali era sicuramente informato che i voti gli sarebbero stati dati dalla comunità calabrese, rappresentata da imprenditori dichiaratamente di connotazione ‘ndranghetistica. L’avvocato Casali è stato eletto.

WALTER MOLINO Forse saprà che c’è questo collaboratore di giustizia, Nicola Toffanin, che nella fase due di Isola Scaligera ha fatto delle dichiarazioni che la riguardano.

STEFANO CASALI - AVVOCATO Non so niente, ma guardi adesso porti pazienza, c’è un convegno, mi lasci per cortesia dedicarmi al convegno. Porti pazienza, sono un relatore. Magari mi potevate magari avvisare, io non lo conosco, non so neanche chi sia. Non so neanche chi sia!

WALTER MOLINO Lei ha conosciuto Domenico Mercurio?

STEFANO CASALI - AVVOCATO Io devo fare un evento, mi lasci…

WALTER MOLINO Mi può solo dire se lo ha mai conosciuto?

STEFANO CASALI - AVVOCATO Ma guardi, mi sta un po’…per cortesia, stiamo facendo un evento importante.

WALTER MOLINO Volevo solo sapere questo e la libero.

STEFANO CASALI - AVVOCATO Ma io non ho niente da dirle. Non so neanche di cosa stia parlando, la prego di…saluto anche il suo operatore, e adesso mi lasci fare il convegno. La ringrazio molto è stato molto gentile, arrivederla.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dopo essere stato presidente di Agsm–Aim, la multiutility dei comuni di Verona e Vicenza, oggi Casali milita in Fratelli d’Italia. E l’evento a cui ha fretta di partecipare è con il ministro della Giustizia Carlo Nordio, e il presidente della commissione giustizia della Camera, l’onorevole di Fratelli d’Italia Ciro Maschio, dove si parla di limitare l’uso delle intercettazioni.

CARLO NORDIO – MINISTRO DELLA GIUSTIZIA Eliminando la possibilità che vengano trascritte nelle intercettazioni le cose che riguardano i terzi. Cioè: Ciro parla con Stefano…già se Ciro e Stefano sono indagati…no, meglio: già Ciro e Stefano…Pinco…Tizio e Caio, parlano tra loro…ecco, esorcizziamo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Esorcizziamo pure le intercettazioni. Chissà se con la riforma appena approvata il quadro che è emerso a Verona della presenza della ‘ndrangheta sarebbe emerso con la stessa forza. Mentre per quello che riguarda l’avvocato Casali, dopo aver negato, ci ha scritto ammettendo di conoscere lo ‘ndranghetista Mercurio, in quanto è stato proprio un suo cliente a partire dal 2010. Ha specificato che all’epoca Mercurio era “un noto imprenditore neppure sfiorato da sospetti di appartenenza ad associazioni criminali” Ammette anche Casali che Mercurio gli aveva manifestato l’apprezzamento per la sua attività politica. A proposito di politica, Mercurio ha intrattenuto rapporti anche con l’ex parlamentare Filippi. Proprio per questo Filippi, ex parlamentare della Lega, è entrato in un’inchiesta antimafia, accusato di aver ordito un attentato nei confronti dell’ex direttore del Giornale di Vicenza, Ario Gervasutti. Filippi durante l’intervista al nostro Molino ha detto “Guardate che ho lasciato ai magistrati 5 ore di registrazioni audio, colloqui tra me e Mercurio“, e sono colloqui dai quali emergerebbe un’estorsione che l’ndranghetista avrebbe compiuto ai danni dell’ex parlamentare. Filippi si dice estraneo all’attentato al giornalista. Mercurio, che è stato considerato dai magistrati un super teste attendibile, avrebbe mentito in questa occasione dell’attentato al giornalista? Se è così come faceva a sapere Mercurio del contrasto esistente fra l’ex parlamentare della Lega e il direttore del giornale? Ma c’è un altro giallo: come ha fatto Mercurio, dopo che aveva cominciato il suo percorso di collaborazione con la giustizia, ad incontrare l’uomo di cui aveva parlato, che aveva denunciato? Questo è un giallo che deve dipanare la magistratura. Come è un giallo capire perché una società che è stata finanziata dal boss crudele dell’ndrangheta, Nicolino Grande Aracri, si sia infiltrata nel cantiere dove si sta costruendo la più grande opera pubblica in Veneto.

HOSTESS Alzi la mano chi su questo volo è diretto a Cutro per la festa del Crocifisso!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il Crocifisso di Cutro. Ogni sette anni viene calato dalla sua teca. Trentamila persone affollano le vie del paese in attesa della processione. Dentro la Chiesa i portantini si allineano nell’ordine stabilito.

WALTER MOLINO È un grande onore.

PORTANTINO Si, un grandissimo onore fare questo qua. Siamo 106, 108.

 WALTER MOLINO FUORI CAMPO La processione attraversa le vie del paese che ha dato i natali a Nicolino Grande Aracri detto “Mano di gomma”, uno dei boss di ‘ndrangheta più potenti della Calabria, oggi recluso al 41 bis. Alla fine degli anni ’90 Grande Aracri era l’uomo di fiducia del capobastone di Cutro Antonio Dragone. Nel 2004 lo ha fatto ammazzare e ha iniziato la scalata ai vertici della ‘ndrangheta, con l’obiettivo di estendere la sua influenza nelle regioni del Nord. Nel 2015 l’Operazione Aemilia della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna, che porterà al più importante maxiprocesso per mafia al Nord: centinaia di arresti, oltre duecento imputati per reati di estorsione, usura, riciclaggio, false fatturazioni.

WALTER MOLINO Chi è Nicolino Grande Aracri?

LUIGI BONAVENTURA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA L’ho sempre considerato un genio criminale. È una delle famiglie di ‘ndrangheta tra le prime che diventa forte al Nord.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Luigi Bonaventura è stato reggente della famiglia Vrenna-Bonaventura di Crotone. È uno dei primi collaboratori di giustizia ad aver parlato delle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Veneto. Oggi è fuori dal programma di protezione.

LUIGI BONAVENTURA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Lui secondo me fa parte anche di quello che è stato un cambio generazionale, un cambio di vedute della ‘ndrangheta che piano piano diventa sempre più masso- ‘ndrangheta, sempre più coinvolta con certi apparati, di conseguenza ha avuto più possibilità di emergere.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Sono partiti tutti da questa periferia di Cutro. Contrada Scarazze era l’azienda agricola di famiglia, poi è diventato un fortino. Oggi è controllata da Antonio Grande Aracri, uno dei fratelli del boss Nicolino, sorvegliato speciale dopo 20 anni di carcere per associazione mafiosa.

ANTONIO GRANDE ARACRI Qui non ci viene nessuno. Già è tanto che tu sei arrivato fino a qua, che ti ho fatto entrare dal cancello.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO In questi capannoni di Contrada Scarazze si tenevano summit e venivano eliminati nemici e traditori.

ANTONIO GRANDE ARACRI 26 Mio fratello…questo e quell’altro, non mi interessa niente. Non mi interessa, tu continua a registrare…

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Questo è il cantiere del nuovo reparto di pediatria dell’azienda ospedaliera di Padova. Le prime pietre dell’opera pubblica più importante del Veneto. Costerà 590 milioni di euro, finanziati anche con i soldi del Pnrr. L’appalto per la pediatria, del valore di 46 milioni, è stato vinto dalla Setten di Treviso. Ma nel marzo scorso sul cantiere piomba un’interdittiva antimafia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Trentotto anni fa Sciascia spiegò “la teoria della palma” per spiegare l’espansione della mafia al Nord. Con il riscaldamento climatico le palme crescono anche laddove non crescevano prima. E così anche la mafia ha conquistato il Nord. Uno Stato nello Stato, non ci sono più due sistemi diversi, uno ha infiltrato l’altro. È un sistema che quando serve è rozzo, violento, spregiudicato, ma è capace anche di sedurti con la giacca, la cravatta, la valigetta piena di soldi, di offrirti protezione e canalizzare soprattutto i voti. Nicolino Grande Aracri, un protagonista, un personaggio di enorme spessore criminale, è partito alla conquista del Nord da un paesino vicino Crotone. A Padova si sta costruendo il Nuovo Ospedale: un 590 milioni di euro e si attinge anche dai fondi del PNRR. Si sta costruendo il padiglione di pediatria, 46 milioni di euro di appalto, vinti dalla Setten, una società di Treviso, che però poi quando si è trattato di realizzare la struttura in calcestruzzo si è rivolta alla Sidem, il cui dominus sarebbe Michele De Luca, cugino di primo grado di Grande Aracri. Ma come ha fatto a entrare nel cantiere dell’opera pubblica più importante del Veneto?

WALTER MOLINO FUORI CAMPO L’impresa colpita dall’interdittiva antimafia ha sede nel piccolo comune di San Martino di Lupari, 13 mila anime in provincia di Padova.

WALTER MOLINO Cercavo la signora De Luca.

SEGRETARIA - SIDEM COSTRUZIONI È in riunione, è di là.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Amministratrice unica della Sidem è Giuseppina De Luca, ma secondo la prefettura è solo una testa di legno.

WALTER MOLINO E questo subappalto come vi è arrivato?

GIUSEPPINA DE LUCA - AMMINISTRATRICE UNICA SIDEM COSTRUZIONI La Setten ci ha contattato. Abbiamo fatto il preventivo e il sopralluogo in cantiere e abbiamo preso il lavoro.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO La Setten di Treviso affida un subappalto per l’armatura del calcestruzzo alla Sidem, il cui vero dominus, secondo l’antimafia è Michele De Luca, primo cugino di Nicolino Grande Aracri.

WALTER MOLINO Ma lei non ha mai avuto nessun tipo di contatto, neppure finanziamenti da parte di suo cugino?

MICHELE DE LUCA Ma quali finanziamenti, ma stiamo scherzando? Ascolta: queste parole… Lasciami tranquillo perché non siamo di queste robe qua. Te lo dico già. Noi non viviamo di questa roba, sai?

WALTER MOLINO Lei se lo ricorda suo cugino Michele De Luca?

ANTONIO GRANDE ARACRI (annuisce)

WALTER MOLINO Gli hanno fatto questa interdittiva antimafia perché hanno una parentela con voi.

ANTONIO GRANDE ARACRI Mah… è giusto? È giusto secondo te? Se c’è per esempio un malamente in famiglia, vengono e ci prendono a tutti. Perché? Lui è per i fatti suoi, io sono per i fatti miei. WALTER MOLINO Però se c’è soltanto questa cosa del vincolo…

MICHELE DE LUCA Tu stai venendo già parecchie volte qua…

WALTER MOLINO Le sue aziende non sono mai state nella contabilità di suo cugino Nicolino Grande Aracri?

MICHELE DE LUCA Mai! No!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO E invece Report è entrata in possesso di questi pizzini vergati a mano da Nicolino Grande Aracri, che i carabinieri hanno sequestrato in casa sua. Il boss annota una serie di prestiti e finanziamenti per quasi 150 mila euro proprio a favore delle imprese di Michele De Luca e dei suoi fratelli. In un’informativa dei Carabinieri di Crotone emerge che proprio il fratello di Michele, Salvatore De Luca, ha partecipato a un importante summit di ‘ndrangheta.

WALTER MOLINO Suo fratello invece non ha partecipato a un summit di mafia, non ha avuto queste accuse?

MICHELE DE LUCA No.

WALTER MOLINO Non è considerato un affiliato?

MICHELE DE LUCA Ma sta scherzando? WALTER MOLINO FUORI CAMPO Ma com'è possibile che un imprenditore con questo curriculum sia riuscito ad ottenere un subappalto nella più importante opera pubblica del Veneto? Siamo andati a chiederlo alla Setten Genesio, una delle più grandi imprese di costruzioni del Triveneto. È la ditta che ha vinto l’appalto per la nuova pediatria di Padova e che ha ceduto il subappalto alla Sidem. La risposta è stata sorprendente.

GENESIO SETTEN - PRESIDENTE SETTEN GENESIO SPA Non lo so come è avvenuto. Io l’ho trovata in cantiere perché non ho seguito il subappalto e non conoscevo la ditta.

WALTER MOLINO L’ha trovata in cantiere quindi ci sarà qualcuno della sua azienda che ha seguito questa cosa qui. Come siete venuti in contatto con questa azienda?

GENESIO SETTEN - PRESIDENTE SETTEN GENESIO SPA Perché lavorava per un fondo dove noi abbiamo investito dei soldi.

WALTER MOLINO Lavoravano con un fondo in che senso?

GENESIO SETTEN - PRESIDENTE SETTEN GENESIO SPA Lavoravano per conto del fondo a costruire delle case di riposo.

WALTER MOLINO E qual è questo fondo?

GENESIO SETTEN - PRESIDENTE SETTEN GENESIO SPA Numeria…

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Numeria è una società che gestisce fondi immobiliari, punto di riferimento degli investitori che contano in Veneto. È stata fondata nel 2004 dall’avvocato Bruno Barel, principe del Foro di Treviso vicino al Presidente Luca Zaia. Storico consulente della Regione Veneto, a lui sono affidate le cause più delicate.

ANDREA TORNAGO Però è imbarazzante questo fatto, perché questa Sidem è considerata dalla prefettura una ditta dei cugini di Nicolino Grande Aracri.

BRUNO BAREL - PRESIDENTE NUMERIA SPA Il prefetto adotta questi provvedimenti senza motivazione.

ANDREA TORNAGO No, beh, sono motivati.

BRUNO BAREL - PRESIDENTE NUMERIA SPA No dicono in base ad accertamenti fatti, di solito sono molto stringate.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il 15 marzo scorso, il giorno dopo la notizia dell’interdittiva antimafia contro la Sidem di De Luca, l’avvocato Barel cede il ramo operativo di Numeria con tutti i suoi dipendenti.

BRUNO BAREL - PRESIDENTE NUMERIA SPA I fondi sono stati ceduti tutti da due anni a ‘sta parte tutti quanti, e poi abbiamo dovuto smettere anche l’attività di consulenza, quindi per salvare il posto di lavoro a tutti i dipendenti.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Oggi Numeria ha ceduto i suoi fondi immobiliari a un’altra importante società di gestione, Namira, che tra i soci ha anche Paolo Scaroni. Ma si è portata in dote nonostante l’interdittiva antimafia la Sidem del cugino di Nicolino Grande Aracri, che continua a lavorare indisturbata nel cantiere delle residenze per anziani.

ANDREA TORNAGO Quanti lavori avete fatto con Numeria?

GIUSEPPINA DE LUCA Limena, Lavagno…due e adesso stiamo facendo la terza

WALTER MOLINO E questa dov’è?

GIUSEPPINA DE LUCA A Mestre, non andate… già son tutti quanti che si spaventano!

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Questa è la casa di riposo che Namira sta costruendo con la Sidem di De Luca proprio di fronte all’ospedale dell’Angelo di Mestre.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il 15 marzo scorso un'interdittiva antimafia ha colpito la Sidem di Michele De Luca, che non è indagato, lo diciamo chiaramente. La Sidem stava lavorando all’interno del cantiere del nuovo ospedale di Padova e secondo il prefetto Grassi la Sidem era collegata a Nicolino Grande Aracri, che è il cugino di primo grado di Michele De Luca, e anzi lo avrebbe anche finanziato come dimostrerebbero i pizzini che hanno recuperato i nostri Walter Molino e Andrea Tornago. Però come ha fatto una società come la Sidem a inserirsi, infiltrarsi nel tessuto economico imprenditoriale veneto? Attraverso un gestore di fondi immobiliari, il più grande del Veneto, Numeria, fondata da Bruno Barel, avvocato di fiducia di Luca Zaia. Barel appena conosciuto l’esistenza di questa interdittiva si è liberato delle sue quote; tuttavia, la Sidem continua a lavorare tranquillamente nei cantieri gestiti dal fondo, come ad esempio la casa di riposo a Mestre. Siccome i fondi immobiliari hanno acquistato pezzi di metropoli, stanno costruendo o ristrutturando pezzi di metropoli, quante aziende in odore di mafia ci stanno lavorando tranquillamente, perché là la prefettura non può intervenire?

Estratto dell’articolo di Nicolò Fagone La Zita per il "Corriere della Sera” il 9 ottobre 2023.

Non gli è stata dedicata una serie Netflix. Sulla sua storia è uscito un libro, sul quale non viene mai riportato il nome originale. È stato condannato a 22 anni di carcere senza che prendesse mai un’arma in mano. Dietro le sbarre delle Vallette, a Torino, dove oggi torna da volontario della Caritas, ha ottenuto il diploma di liceo classico e due lauree. In giurisprudenza e scienze politiche. Roberto Gramola, 79 anni, è stato uno dei più grandi narcotrafficanti italiani. 

Uno degli uomini che, a cavallo fra gli anni 70 e 80, ha rivoluzionato la logistica dell’industria mondiale della droga. Se si doveva scovare un modo per trasportare la cocaina dal Sudamerica all’Europa, Roberto era il numero uno. Per questo è stato corteggiato e protetto dai cartelli. Non contava i soldi, li pesava. Negli Stati Uniti il suo nome è ancora cerchiato in rosso, perché non è mai stato un collaboratore di giustizia, e così lui se ne tiene a distanza, nonostante la famiglia viva lì e uno dei figli sia un agente dell’Fbi.

 Roberto Gramola non è stato l’Escobar italiano, ma la figura che Pablo voleva sottrarre alla concorrenza.

«Un giorno mi chiamò il mio socio, il Marachucho. Eravamo a Miami e mi disse di prepararmi per un incontro a Panama. Gli chiesi per cosa, mi rispose di non preoccuparmi. Il giorno seguente ero all’Hilton, alle 16, in perfetto orario arriva una decina di persone, tutte armate. Tra loro c’è il mio socio, che dice solo: “Io esco”. Entra un ragazzo.

Mi guarda e dice: “Como se llama usted?”. “Roberto, El Viejo”, rispondo. Mi fissa negli occhi, a pochi centimetri, e inizia con una serie di domande. Poi esclama: “Esta bien!”, e se ne và. Rientra il mio socio e dice: “Le gustas”. Eravamo appena passati al cartello di Medellin. Avevo parlato con il figlio di Escobar, che voleva capire se fossi affidabile. In caso contrario sarei morto lì. Quando Escobar chiedeva, esisteva solo una risposta». 

Quando era iniziato tutto?

«Sono nato a Roana, un paesino vicino a Vicenza, sotto la pioggia di bombe del 1944. Quando ero piccolo i partigiani spararono alla porta di casa, mio padre era fascista. Mi chiamo Roberto per l’asse Roma-Berlino-Tokio. Quella volta ci salvammo per miracolo. Sono l’ultimo di sei fratelli, “il preferito” di mamma. Quando uccideva una gallina, la carne arrivava solo a me. Diceva sempre che non sarei stato un figlio normale».

Il suo primo lavoro?

«Diventai geometra per il Comune di Vicenza: una noia mortale. Dopo un anno mi sono licenziato e ho iniziato a vendere piastrelle. Da lì sono cresciuto fino a diventare un imprenditore innamorato della pietra: marmi, onici, graniti. Commerciavo in Italia, poi in Europa, finché negli anni Settanta sono passato a Sudamerica e States, dove ho conosciuto la mia bellissima Gilda. Un periodo esaltante». 

E poi cosa accadde?

«Gli affari rallentavano e un giorno un mio cliente (il Marachuco) mi disse che se gli facevo un favore poteva darmi 3.500 dollari al chilo. Vinsero la mia irrequietezza, il gusto per il rischio e una sorta di ribellione verso le istituzioni». 

Cioè?

«Organizzammo una mini spedizione: io dovevo forare due dei miei blocchi di marmo e ricavare delle camere interne per nascondere il tutto. In un mese preparai e spedii 260 chili da San Paolo a Miami. Comprai subito casa e auto a Miami, presentandomi con 2 valigette di contanti». 

Quanto ha guadagnato?

«Se in Sud America la cocaina la pagavi 6 mila dollari al chilo, in Europa valeva il sestuplo. In Italia tutti gli imprenditori più famosi la usavano nel weekend. La cocaina costa molto ed è classista, per questo mi sono fatto pochi problemi a trattarla».[…] 

Come li trasportavate?

«La coca partiva dai porti brasiliani di Vitoria o Rio. I controlli all’andata non erano un problema. Al poliziotto che guadagnava 100 dollari al mese ne davi 500 e ti scortava. Io aspettavo l’imbarco, poi partivo e mi recavo a destinazione. Il metodo doveva sempre cambiare, anche se funzionava. Marmi farciti, container di vetro, cavi elettrici. Le bombole dei subacquei erano perfette, non lasciavano passare i raggi allo scanner. Trasportavamo fino a 2 mila chili per viaggio.

A volte gli stessi vestiti venivano imbevuti di coca, che poi veniva recuperata facendo bollire i capi per poi farli asciugare e rinsecchire. E c’era un’altra questione: come portare indietro i soldi, che facevamo viaggiare sempre in lavatrici o frigoriferi di cui ai tempi il Sudamerica era innamorato. Nessuno li controllava. Oggi tra droni, satelliti e chip sarebbe più complesso. Tranne per i pagamenti, visto che con i bitcoin si può fare di tutto». 

Prima di Medellin, a quale cartello apparteneva?

«All’epoca ce n’erano tre: Cali, Medellin e quello più piccolo della Guajira. Si diceva che io fossi il capo di quest’ultimo, non era vero. Lavoravo per loro. Finché portavi qualche centinaio di chili alla concorrenza non interessava, ma quando fai un carico da più di una tonnellata si interessano. Quando andavo nelle ville dei narcotrafficanti era come si vede nei film:

grandi appezzamenti di terra, strutture meravigliose, piscine enormi, donne bellissime e tutti armati fino ai denti. Caduto Escobar, che aveva un esercito di 2mila persone e ne manteneva 50 mila si è rotto tutto: gli altri due cartelli sono durati poco e sono subentrati i messicani. molto più violenti. Se non passi da loro, oggi, sei morto». 

Quando iniziarono i guai?

«Verso la fine degli anni 90, quando il mio socio per alzare qualche soldo in più si fece fregare da un agente in incognito. Per farla franca fece il mio nome. Da lì entrai nel mirino di un certo Mr.Cook dell’Fbi, e non ho più visto la mia famiglia fino al processo. Scappai in Sudamerica dalla mia villa di Bassano lasciando 1,5 miliardi di coca».

Quando la catturarono?

«Nel 1997, a causa di una soffiata. La “mula” (chi accompagna il carico) era stata beccata, così avevano tagliato un cavo e scoperto il trucco. Per non farsi il carcere, vendette me. Ai tempi ero già in trattativa con qualche colonnello. Loro mi lasciavano stare e io gli facevo trovare qualche carico ogni tanto. 

Chiamavo dai telefoni pubblici per un minuto, poi mi spostavo e cambiavo per non essere rintracciato. Mi beccarono a Roma. Avevo 20 mila dollari, 3,5 milioni di lire e non so più quanta droga. Nella relazione però misero solo le lire. E mi diedero 36 anni in tre processi. Chi uccide prende di meno, ma gli americani volevano farmela pagare e condizionarono i giudici italiani». […]

L’impressionante espansione della mafia in Veneto svelata dalle carte dei giudici. Stefano Baudino su L'Indipendente sabato 19 agosto 2023.

Indicibili intrecci tra imprenditoria e criminalità organizzata, crescita esponenziale dell’economia sommersa, ma anche intimidazioni mafiose ai danni di giornalisti e sindacalisti a colpi di arma da fuoco, in cui ad agire da burattinai sono uomini d’affari in giacca e cravatta: c’è tutto questo nella nuova maxi-inchiesta contro la ‘ndrangheta della Direzione distrettuale antimafia di Venezia, che ha puntato la sua lente di ingrandimento sul pericoloso binomio tra mafia e colletti bianchi in un’area dello stivale che, almeno a detta delle autorità, negli ultimi decenni sembrava essersi difesa piuttosto bene dall’opera di “colonizzazione” messa a punto dal crimine organizzato nel Nord Italia.

Mentre Cosa Nostra allunga i suoi tentacoli su Venezia, le aree del territorio euganeo in cui gli ‘ndranghetisti stanno progressivamente mettendo radici sono, in particolare, quelle delle province di Padova e Verona. In seguito alle operazioni «Taurus 1» e «Isola Scaligera» andate in scena nel 2019, con questa inchiesta, denominata «Taurus 2», si alza lo sguardo sugli intensi legami intessuti tra imprenditori e mafiosi calabresi. La mappa delle infiltrazioni della ‘ndrangheta trova il suo fulcro a Verona, con numerose diramazioni nelle altre province, in cui i malavitosi operano attraverso reati tipici della criminalità organizzata: racket, sequestri, rapine, truffe, violenze private, minacce, false fatture. Dalle carte emergono inoltre significativi dettagli su pesanti “spedizioni punitive” che sarebbero state concepite da gestori di aziende, i quali a tale scopo si sarebbero avvalsi di alcuni membri del clan Arena-Nicoscia.

Nell’ambito dell’inchiesta, le persone accusate di associazione mafiosa sono in tutto 25, ma per reati diversi rischiano di essere mandate a processo anche altri 23 soggetti. Tra questi, il nome più pesante è sicuramente quello del vicentino Alberto Filippi, eletto parlamentare nelle file della Lega alle elezioni del 2006 e a quelle del 2008 (poi espulso dal partito e confluito nella Destra di Storace e, successivamente, in Fdi, senza però ricoprire incarichi pubblici), che è anche titolare di un’azienda di prodotti chimici a livello industriale, la Unichimica. Filippi si sarebbe “avvalso” degli uomini delle cosche a scopi personali nella cornice di due inquietanti vicende. In base a quanto ricostruito dall’accusa, l’ex senatore sarebbe infatti il mandante dell’attentato perpetrato contro l’ex direttore del Giornale di Vicenza, Ario Gervasutti, avvenuto il 16 luglio 2018. I pm scrivono infatti che Filippi “ha incaricato, dandogli un compenso in denaro, Santino Mercurio (altro indagato) di compiere un atto intimidatorio” nei confronti di Gervasutti, che sarebbe stato “compiuto materialmente da Santino Mercurio, in concorso con soggetti allo stato non identificati” e si sarebbe concretizzato “nell’esplosione di cinque colpi di pistola contro l’abitazione del giornalista, a Padova”. Il fatto sarebbe stato commesso al fine di agevolare “l’attività del sodalizio mafioso, accrescendone la capacità operativa, economica e la forza di intimidazione funzionale ad assicurare le condizioni di vantaggio nel controllo del territorio da parte dell’organizzazione criminale di appartenenza”. Gervasutti avrebbe voluto colpire il cronista per una serie di articoli da questi pubblicati sul Gdv, risalenti al 2010, relativi al sospetto cambio di destinazione di alcuni terreni di proprietà dell’ex senatore. A inchiodarlo, ci sarebbero eloquenti intercettazioni telefoniche e l’ammissione dello stesso Mercurio. A Filippi si contesta anche un altra azione intimidatoria: secondo gli inquirenti, l’ex parlamentare nel luglio 2019 avrebbe pagato lo stesso uomo per mandare in fiamme un furgone e parte del materiale stoccato nella sede della ditta concorrente alla sua, la Toscolapi di Castelfranco di Sotto (Pisa).

Tra le presunte vittime dell'”imprenditoria collusa” figura anche il sindacalista veronese Gianmassimo Stizzoli, che sarebbe stato minacciato e fatto picchiare e per questo avrebbe poi deciso di abbandonare l’attività di rappresentanza dei lavoratori. Stizzoli, ricostruiscono gli investigatori, sarebbe stato colpito perché “infastidiva” i vertici dell’azienda Vierrecoop. Il gestore, Alfredo Frinzi – con un passato nel Cda di Amt, l’azienda di Mobilità e Trasporti partecipata dal Comune scaligero -, figura infatti tra gli indagati.

Solo tre mesi fa, 150 anni di reclusione sono stati comminati agli imputati del processo «Isola Scaligera», che ha evidenziato la presenza e l’attività della ‘ndrangheta nel Veronese, protagonista di un sistema mafioso che per i pm dimostra un “camaleontico adattamento al territorio (il Veneto e Verona) che si accinge a colonizzare e che colonizza”. La situazione delle infiltrazioni mafiose in Veneto – spesso considerato a torto come completamente estraneo e immune al fenomeno – è sempre più grave e preoccupante. Nell’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia si legge che in Veneto «emerge la capacità degli esponenti della ‘ndrangheta di intrattenere rapporti d’affari con gli operatori locali preferendo alle forme tradizionali di intimidazione l’avvio di interlocuzioni con professionisti, imprenditori e funzionari pubblici». Una recente ricerca condotta sul tema dall’Università di Padova ha inoltre concluso che «le aziende venete a rischio infiltrazione mafiosa oscillano tra il 5 e il 7%». Si parla, dunque, di circa 30mila imprese: dati assolutamente inimmaginabili, almeno fino a qualche anno fa. [di Stefano Baudino]

Felice Maniero torna libero, la sua ex compagna: «Ora ho paura che venga a cercarmi». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2023

Il boss della Mala del Brenta ha lasciato la cella di Pescara dopo aver scontato la condanna 

Felice Maniero è (di nuovo) un uomo libero. L’ex boss della Mala del Brenta, 68 anni, ha terminato di scontare la condanna a quattro anni di reclusione per i maltrattamenti inflitti all’ex compagna, che nel 2019 avevano portato al suo arresto. Nessuna conferma dal suo difensore, l’avvocato Rolando Iorio, ma fonti investigative rivelano che nei giorni scorsi Faccia d’Angelo è stato scarcerato e ha quindi potuto lasciare la casa circondariale di Pescara dove era stato recluso tre anni fa, dopo una serie di trasferimenti che l’avevano portato da Bergamo a Voghera e poi a Sollicciano. Ancora nessuno sa quali siano i progetti di Maniero per la sua «nuova vita» da ex galeotto, visto che nel frattempo ha perso anche quella protezione (e il falso nome) che lo Stato gli aveva garantito dopo che, a metà degli anni Novanta, diventò collaboratore di giustizia consentendo lo smantellamento della Mala. 

Il timore di una vendetta e la paura della donna

L’aria è cambiata. Lo dimostrano i numerosi procedimenti giudiziari che negli ultimi tempi l’hanno coinvolto e che avevano spinto il suo difensore a dire che «nei suoi confronti sta maturando un clima di persecuzione»: si va dalle denunce per pestaggi e violenze avvenute in carcere, fino al processo per la bancarotta della sua Anyaquae srl, l’azienda bresciana dalla quale, nel 2016 avrebbe distratto beni e risorse per centomila euro. Su quali siano i suoi programmi, si interroga anche Marta, la sua ex compagna: «Me lo aspettavo, che presto sarebbe tornato libero» fa sapere. «Ovviamente sono preoccupata per me stessa: in tutto questo tempo non ho mai smesso di esserlo. D’ora in avanti sarò costretta a vivere nella paura che possa venire a cercarmi». Dopo un periodo trascorso in una struttura protetta per vittime di violenza, si è trasferita lontano da Veneto e Lombardia, dove aveva vissuto accanto a Maniero fin dal 1993, quand’era il capo indiscusso della più grande organizzazione criminale mai sorta nel Nord est.

L'avvocata Germana Giacobbe preoccupata

Anche l’avvocato Germana Giacobbe, che l’ha assistita nel corso dei processi per le violenze subite, non nasconde i timori: «Il percorso di uscita dal tunnel dei maltrattamenti non si conclude con l’arresto del responsabile. Le vittime, come Marta, sono poi costrette a cambiare vita, ripartendo da zero: è l’unico modo che hanno per allontanarsi da chi per troppo tempo le ha perseguitate. Ma spesso – conclude la legale - neppure questo è sufficiente a restituire loro pace e serenità».

Le accuse di violenza: «Mi ha colpito con schiaffi e buttata a terra»

L’arresto di Maniero era avvenuto nell’ottobre del 2019 a Brescia, dove si era costruito una certa rispettabilità grazie a una nuova identità – si faceva chiamare Luca Mori - e a un lavoro da imprenditore nel settore delle casette per l’acqua che vendeva ai Comuni di mezza Italia. A inguaiarlo era stata Marta che, esasperata dalle violenze, in occasione di un ricovero in ospedale aveva raccontato tutto. Accuse pesantissime: «Una sera d’autunno, tornato dal bar, mi ha preso per il collo e mi ha messo al muro... Una mattina di due anni fa mi ha colpito con schiaffi, buttata a terra e preso a calci e per i capelli. “Colonnello, cento flessioni!”, diceva. Mi ha colpita con un pugno in bocca...». Lui ha sempre negato: «Non l’ho mai presa a pugni – aveva detto al giudice - ho fatto pugilato da ragazzino, per cui so come si tira un pugno e se lo faccio spacco le ossa, la faccio minimo svenire... Ammetto le ingiurie, sarà volato qualche schiaffo... era il nervoso per come mi rispondeva». La condanna è stata pesante, specie se paragonata agli «appena» undici anni di reclusione scontati per gli omicidi e le rapine commessi in vent’anni da boss della Mala del Brenta.

I ricoveri per depressione e gestione della rabbia

Dal suo ultimo arresto, di Maniero si è scritto tanto: ricoveri per depressione, presunti problemi psichici e di gestione della rabbia, ma anche il rischio di ritorsioni che corre ora che molti dei suoi ex compari sono tornati liberi. Oggi, a quasi settant’anni d’età, ricomincia daccapo, portandosi dietro il peso dell’esperienza carceraria e la fama di eterno bad boy.

Veneto: ultima frontiera. Le mani delle ’ndrine sul Nordest. Rita Cavallaro su L’Identità il 3 Marzo 2023.

Veneto: ultima frontiera della ’ndrangheta. È con la prima grande condanna, che ha inflitto pene per 150 anni a 16 imputati nel processo, che i giudici hanno posto la pietra miliare su quella che, fino a oggi, era soltanto un’ipotesi investigativa suffragata da operazioni di polizia, intercettazioni e copiosi fascicoli. Tutti impilati negli scaffali delle procure che, dalla Calabria, collegano con un filo rosso il Nordest e mostrano come il “mito” della mala del Brenta sia stato superato dal nuovo assetto criminale, impiantato sul territorio da boss mascherati da colletti bianchi al fine di infiltrarsi nel tessuto economico di una delle tre regioni settentrionali che maggiormente contribuisce alla formazione del Pil nazionale. Si tratta della ’ndrina denominata “locale di Verona”, appuntata sulla mappa contenuta nell’ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia presentata al Parlamento. Una tavola topografica in cui gli investigatori hanno individuato 46 locali di ’ndrangheta nel Nord, contraddistinte dalla forza espansionistica delle cosche e dalla loro vocazione a replicare fuori delle aree di origine lo schema tipico delle organizzazioni calabresi. Venticinque di queste operano in Lombardia, 16 in Piemonte, tre in Liguria, una in Valle d’Aosta, una in Trentino Alto Adige e una in Veneto, proprio quella decapitata con la sentenza del Tribunale di Verona, emessa al termine del processo Isola Scaligera, frutto di tre anni di indagine che hanno portato all’operazione del 5 giugno 2020, coordinata dalla Dda di Venezia e condotta dalla prima divisione dello Sco della polizia e dalle Squadre Mobili di Verona e Venezia. Un’inchiesta che ha dimostrato come l’infiltrazione della ’ndrangheta si fosse così tanto radicata in Veneto da creare una locale rappresentata dalla famiglia Giardino e riconducibile alla cosca crotonese degli Arena-Nicoscia di Isola Capo Rizzuto. Una struttura criminale che si è radicata e consolidata sul territorio per “l’estrema fertilità e le indiscusse potenzialità offerte dalla Regione”, scrive la Dia, ripercorrendo gli interessi economici sui porti e le rotte commerciali verso i Balcani e il nord Europa, oltre alle implementazioni delle grandi opere come la superstrada Pedemontana veneta e l’Alta velocità Verona-Padova, in un contesto in cui i fondi del Pnrr diventano il principale elemento di attrazione per la criminalità. Nel merito, il procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, in un’intervista, ha sottolineato come “le mafie sono presenti a Nordest perché c’è denaro e la possibilità di gestire il potere dei soldi. Vengono lì per vendere cocaina e con quei soldi comprano tutto ciò che è in vendita, cercando poi di entrare, anche come soci di minoranza, nelle aziende, per poi eroderle piano piano e infine comprarle per pochi spicci. La ‘ndrangheta si sta espandendo in modo significativo nel Nordest, forse anche perché non incontra alcuna resistenza sul piano sociale”. E ha concluso: “Il Veneto ci sembra la nuova frontiera di conquista della ’ndrangheta, rispetto a posizioni già consolidate in Valle d’Aosta, Emilia Romagna, Piemonte e Lombardia”. Una nuova frontiera che si è andata man mano concretizzando nell’ultimo quinquennio, come dimostrano una serie di operazioni quali Camaleonte, Avvoltoio e Hope, con cui gli inquirenti hanno “comprovato come la ’ndrangheta anche al Nord sia orientata a dominare il traffico/spaccio di stupefacenti, le estorsioni, il riciclaggio e il successivo reinvestimento di capitali”, si legge nella relazione della Dia. Inchieste che finora hanno portato decine di indagati a processo. La prima condanna in Veneto ad affiliati delle ’ndrine è stata pronunciata il 6 luglio 2021 dal Tribunale di Padova, che nell’ambito dell’indagine Camaleonte ha inflitto in primo grado 77 anni di galera a sette degli imputati. La conferma del forte radicamento della criminalità organizzata calabrese, però, è arrivata proprio con l’operazione Isola Scaligera del 5 giugno 2020, che ha evidenziato la presenza e svelato il modus operandi tipico di una locale di ’ndrangheta. Condotte esecrabili punite ora nel primo grado di giudizio. Un’altra inchiesta rilevante è la Taurus del 15 luglio 2020, conclusa con l’esecuzione a Verona e in altre città italiane di alcune ordinanze nei confronti degli appartenenti alle famiglie Gerace-Albanese-Napoli-Versace. “È emerso il comportamento tipico di un vero e proprio locale di ’ndrangheta, che operando secondo i tipici schemi delle consorterie criminali calabresi, si esprime con la creazione di un reticolo di solidi rapporti con amministratori pubblici e imprenditori e con il ricorso solo se necessario alla manifestazione della forza di intimidazione e all’assoggettamento”, scrive la Direzione Investigativa Antimafia. Che infine lancia l’allarme per probabili tentativi di infiltrazione delle ’ndrine nella gestione delle risorse pubbliche del Veneto, anche in vista dei prossimi giochi olimpici di Milano e Cortina 2026.

La ’Ndrangheta ha conquistato il Nord. La politica da anni sta a guardare”. Ivano Tolettini su L’Identità il 3 Marzo 2023

Le condanne per associazione mafiosa inflitte dal tribunale di Verona per la presenza del clan calabrese Giardino, affiliato alla cosca Arena-Nicosia di Isola Capo Rizzuto, che infiltra il tessuto economico del Nord Est non può stupire. Anzi, mi stupisco che qualcuno si stupisca. Il fenomeno mafioso in Veneto è datato. La questione nodale nel contrasto al crimine organizzato da Sud a Nord è politica. Manca la tensione ideale costante del ceto politico per sconfiggere le mafie, che sono, non mi stanco mai di ripeterlo, un prodotto sociale e culturale, prima ancora che criminale”. Il ragionamento di Piernicola Silvis (nella foto), scrittore e docente, questore di Foggia fino al 2017 quando è andato in pensione dalla Polizia di Stato per raggiunti limiti di età, è serrato e non fa sconti.

Non vede nell’attuale governo di centrodestra la dovuta sensibilità?

Non vorrei essere frainteso. Quando parlo di politica non mi riferisco a uno schieramento piuttosto che all’altro, ma alla struttura politica che determina le scelte dello Stato. Vedo la mancanza di tensione a destra come a sinistra. Adesso la ’ndrangheta e Cosa Nostra non ammazzano più magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine, perciò dall’opinione pubblica non sono più percepite come un pericolo. Mentre proliferano nel ventre della società facendo affari, ammorbando l’economia legale che diventa illegale. Il Dna della ’ndrangheta è di fare affari e di cercare appoggi nel ceto politico che di volta in volta comanda. Il colore non conta.

Lei quando guidava la squadra mobile di Vicenza ha catturato il numero due di Cosa Nostra, Piddu Madonia, nel settembre 1992, e fu la prima riposta dello Stato alle stragi di Capaci e via D’Amelio in cui persero la vita i magistrati Falcone e Borsellino e i rispettivi uomini delle scorte. Poi ha diretto la mobile di Verona. Il Nord Est lo conosce bene.

Verona è una città particolare. È la più importante del Veneto dal punto di vista economico perché è posta al crocevia tra Lombardia e Veneto, e tra Nord Est e Trentino Alto Adige sulla direttrice per il Nord Europa. Ricordo che nel marzo di 31 anni fa, era il 1992, a Sommacampagna non lontano da Verona, il calabrese Massimiliano Romano uccise in un conflitto a fuoco i poliziotti Ulderico Biondani e Vincenzo Bencivenga, venendo a sua volta ucciso, perché dovevano notificargli un provvedimento restrittivo di residuo di pena. Un fatto che di per sé non giustificava una simile reazione. Evidentemente temeva che si scoprisse dell’altro sul suo conto. Per me fin da allora fu sintomatico della presenza del crimine organizzato, in particolare della ’ndrangheta. Pochi mesi dopo a Vicenza prendemmo Madonia. Ma prima c’era stato ad Arzignano il sequestro Celadon di cui mi occupai. La matrice sempre calabrese.

Verona, del resto, fin dagli anni Settanta è stata una piazza importante dello spaccio di droga.

Certo, perché è molto ricca, molto esposta, ed ha sempre fatto gola al crimine organizzato. E la ’ndrangheta è la criminalità più estroflessa. Lo è certamente anche Cosa Nostra, ma da anni la ’ndrangheta è diventata più potente perché è molto più organizzata. Come si dice in gergo è una holding.

Dipende anche dal fatto che ha meno pentiti rispetto a Cosa Nostra?

La strategia di aggressione allo Stato dei corleonesi voluta da Totò Riina ha determinato una ferma risposta che ha indebolito Cosa Nostra. A trarne beneficio è stata la ’ndrangheta che è molto strutturata sul territorio nazionale, europeo e anche mondiale. La sua sede centrale è a Reggio Calabria con il suo pantheon alla Madonna di Polsi, con varie dislocazioni a livello internazionale. Se le ’ndrine sono a Toronto e New York, come lo sono, figuratevi a Verona e nel Veneto.

La recente cattura del boss Matteo Messina Denaro come la legge?

Un’operazione importante, non c’è dubbio, ma nonostante il clamore, la fine della sua latitanza è utile per fare eventualmente nuova luce su fatti passati, come l’epoca stragista del 1992, non tanto per l’oggi, perché da quanto emerge non aveva questi grandi contatti con esponenti di spicco di Cosa Nostra, che è ridimensionata.

Torniamo alla questione politica del fenomeno mafioso. Quanto conta l’opinione pubblica nell’orientare le scelte del ceto politico?

Molto, perché la politica di oggi cerca di dare alle gente ciò che essa vuole. Perché la politica, attraverso la ricerca legittima del consenso, ma non può essere il tutto, vellica la pancia della gente. Se ad esempio la ’ndrangheta o la mafia non uccidono, c’è la percezione generale che il fenomeno criminale sia meno pericoloso. Invece, è il contrario, perché gli ingenti ricavi degli affari illeciti servono per acquistare alberghi, ristoranti, locali, finanziare aziende che entrano nel circuito dell’illegalità. I politici, invece, dovrebbero avere grande tensione verso il fenomeno mafioso, assieme a quelli della corruzione e dell’evasione fiscale, che sono i problemi più seri dell’Italia”.

Mala del Brenta, parla il Doge: «Non seguite il mio esempio». Massimo Massenzio Online su Il Corriere della Sera il 9 gennaio 2023.

Giampaolo Manca: cosa potrei dire a una madre che ha perso il figlio a causa mia? Sono pentito, ma non potrò mai riparare al danno che ho fatto e i miei fantasmi continueranno a perseguitarmi fino alla morte

Dal furto del tender di Aristotele Onassis al colpo nel caveau dell'hotel Excelsior di Venezia, passando per droga, usura e omicidi. Giampaolo Manca, detto il Doge, è stato un esponente di spicco della Mala del Brenta capeggiata dal boss Felice Maniero. Il suo soprannome se l'è guadagnato a 17 anni con un furto sensazione nella basilica di San Pietro e Paolo che segnò l'inizio della sua ascesa criminale terminata con le rivelazioni fatte proprio da Maniero che portarono al suo arresto. Oggi il Doge ha 68 anni e, dopo averne passati quasi 37 in carcere, ha deciso di intraprendere un cammino di riscatto. Ha raccontato la sua vita in diversi libri e ha donato in beneficenza i proventi delle vendite, con la collaborazione dell'associazione Alphabeta, per finanziare la costruzione di una casa-famiglia per bambini autistici. 

Da tempo incontra gli studenti nelle scuole per parlare della sua esperienza di «redenzione» e il 10 gennaio, assieme all'avvocato Caterina Biafora, al presidente e al consigliere della circoscrizione 2 Luca Rolandi e Davide Schirru, parteciperà a un dibattito nell'aula magna dell'Iis Primo Levi.

Nei mesi scorsi a Mirafiori, a poca distanza da quell'istituto, ci sono state due sparatorie che hanno riacceso vecchi timori negli abitanti del quartiere. Cosa dirà agli studenti? 

«Che per emergere nella vita la strada della criminalità è sicuramente la peggiore. Porta a danni irreparabili e quando ci si rende conto di aver oltrepassato il limite è ormai troppo tardi. Incontrare gli studenti è la mia ragione di vita, la linfa che mi spinge a cercare il riscatto. Le ferite che mi porto dentro per il male che ho fatto non si rimarginano, ma l'abbraccio di un ragazzo alla fine di una conferenza mi aiuta a sentire meno dolore. Voglio essere l'esempio che non devono seguire». 

In questi giorni sta collaborando alla realizzazione di un film sulla vita. Non c'è il rischio che le serie televisive sulle «gesta» dei grandi criminali ispirino una voglia di emulazione da parte dei più giovani? 

«Sono certo che questo film, che avrà la sceneggiatura di Carmelo Pennisi e Max Durante, avrà un messaggio diverso. Nella mia prima vita ho accumulato soldi, appartamenti, decine di Rolex e Cartier, ma cosa mi hanno portato? Facevo milioni a palate e mi sono rimasti solo rimorsi. Anche io sono cresciuto vedendo Scarface e immagino che in tanti guardando le fiction sul tema si illudano che sia tutto facile e indolore. Ma non è così». 

Le è piaciuto il personaggio del Doge nella miniserie «Faccia d'Angelo» con Elio Germano? 

«Diego Pagotto, il bravissimo attore che ha interpretato il mio personaggio, è un amico, ma la sceneggiatura non andava molto in profondità. Io ho passato metà della mia vita in cella e oggi prendo 503 euro di pensione e vivo in una casa popolare. Non ho nostalgia del lusso, il mio rimpianto è aver trascorso troppo tempo lontano dalla mia compagna e da mio figlio. E, pur provenendo da una famiglia più che benestante, di non aver studiato. E su questo che voglio che i giovani riflettano». 

A Torino ci sono state aggressioni alla polizia penitenziaria e rivolte nella casa circondariale e nel carcere minorile. Come può essere ripensato il sistema carcerario?

«Dietro le sbarre ho conosciuto personaggi “famosi” e visto brutture di ogni tipo e già si parlava di questo tema. Se continuiamo a farlo anche nel 2023 forse manca la reale intenzione di cambiare qualcosa. La prigione deve offrire un percorso di rieducazione. In alcuni istituti questo succede, ma in molti altri ci si limita ad aprire e chiudere la cella due volte al giorno».

In questi giorni si parla molto del caso di Alfredo Cospito. Cosa ne pensa? 

«Il 41 bis l'ho vissuto sulla mia pelle per 12 anni. Dopo le “stragi” risultati ne ha dati, ma ormai non è più attuale. Il carcere duro non ti piega, ti imbruttisce e basta. Alla fine è una vendetta, mentre recuperare un delinquente è un vantaggio a livello sociale ed economico». 

Lei però in prigione ha iniziato la sua redenzione. Non è così? 

«É vero, anche se redenzione è una parola troppo grossa, ma il carcere non c'entra nulla. Io ho ritrovato la fede quando ho saputo che mio padre stava morendo a causa di un tumore. Ho scoperto Dio ed è iniziata la mia terza vita. Sono stato fortunato, ho accanto una compagna fantastica, un figlio e un nipotino. È ho sempre paura di scoprire che è stato solo un sogno». 

Tornare in Piemonte che effetto le fa? 

«Sono stato molti anni in carcere a Biella, mentre alle Nuove solo di passaggio. Ma Torino mi fa pensare anche alla terribile rapina al treno Venezia-Milano che costò la vita a una studentessa di 22 anni. Io avevo dato un'indicazione diversa, un convoglio che sarebbe dovuto passare da Torino. Fu una tragedia enorme». 

Ha incontrato i familiari delle persone morte per colpa sua? 

«No, ma cosa potrei dire a una madre che ha perso il figlio a causa mia? Sono pentito, ma non potrò mai riparare al danno che ho fatto e i miei fantasmi continueranno a perseguitarmi fino alla morte. Poi subirò l'ultimo processo e, magari, riuscirò a guadagnarmi un posto in purgatorio».

Estratto dell'articolo di Andrea Galli per corriere.it il 4 maggio 2023.

[…] Un mese intero nella tenda fra i boschi […] senza muoversi da lì: controllare e difendere il territorio, aspettare e rifornire i tossicodipendenti. […] Un mese da «legionari della droga» nei boschi della provincia di Varese: le bande marocchine, le faide, i già cinque morti ammazzati più i cadaveri che giacciono dimenticati, gli ennesimi arresti (dieci tra sabato e martedì) per scongiurare un imminente scontro armato tra due gang.

Duecento, secondo le ultime stime, i soldati in azione. E i soldati stanno nelle tende. L’ultima inchiesta della Procura di Busto Arsizio retta da Carlo Nocerino, e svolta dal Comando provinciale dei carabinieri di Varese, ci restituisce le parole degli stessi spacciatori: «Viviamo un mese nella tenda. Il primo giorno del mese successivo, abbiamo diritto a una giornata in hotel. Per lavarci».

E per mangiare altro che non sia cibo in scatola, bere altro che non sia birra in lattina, incontrare donne a pagamento che non siano le disgraziate le quali barattano il sesso per la droga. Sono tante le giovani mamme vaganti nei boschi. Il fermo di questi dieci marocchini, sempre originari di Béni Mellal, […] è stato coordinato dal sostituto procuratore Ciro Caramone, un magistrato dentro le cose della vita, uno di passione e studio dei fenomeni.

Il termine «legionari» è di sua fattura, e si riferisce all’estetica militare dei medesimi pusher, giovani e adulti in perenne compagnia del machete, disciplinati nel rispetto degli ordini dei capi, dotati di enorme resistenza fisica e mentale, e certi di significative ricompense. Gira denaro, tanto denaro, nei boschi. Ecco un’intercettazione: «Ho fatto il conto, ho in tasca  43 mila euro... Voglio mandare i soldi a mia madre che così li dà ai miei fratelli e sorelle».

[…]Deposizione di una donna. «Dal settembre 2022 compro droga. C’è un numero di telefono, lo chiamo, mi dicono quanta ne voglio, il prezzo e dove andare a ritirare». Domanda: con quale frequenza si reca in questi luoghi? «Vado giornalmente. Compro un 1 grammo a 20 euro di eroina e 0,2 grammi di cocaina». […]

Estratto da open.online il 27 aprile 2023.

Nazzareno Calaiò, classe 1969, è soprannominato Il Nazza. Il Fatto Quotidiano racconta che è il capo criminale della Barona, un quartiere di Milano. La sua base era un bar in via Tre Castelli. E aveva tanti interessi in comune con i capi ultras di Inter e Milan. E contrasti. Come quello con Vittorio Boiocchi, capo della curva nord dei nerazzurri, ucciso a ottobre 2022. O quello con Daniele Cataldo, vicino a Luca Lucci. Ovvero il capo ultras milanista condannato per traffico di stupefacenti. La procura di Milano ieri ha chiuso le indagini su sette piazze di spaccio. Novanta indagati, tra cui il figlio e il nipote di Nazza. Mentre per lui l’accusa è di traffico di droga ma c’è un fascicolo apposito. Indagano Francesco De Tommasi e Gianluca Prisco.

L’inchiesta

Tra i fermati c’è anche Massimiliano Mazzanti. E a raccontare ai magistrati è stata una donna che era nella banda. Nelle intercettazioni, racconta il quotidiano, Calaiò sembrava molto deciso nei confronti degli ultras Andrea Beretta e Vittorio Baiocchi. «Adesso studio il modo che gli taglio la testa senza pagarla (…) a questo infame (…), lo sequestriamo, lo anestetizziamo, lo portiamo nell’orto e lo sotterriamo”. E ancora: “Lo prendo senza telefono? È meglio di quello che ho fatto con il casco». La locuzione “Con il casco” potrebbe costituire un riferimento al tentato omicidio di Enzo Anghinelli, pregiudicato colpito alla testa il 12 aprile 2019 mentre si trovava in macchina in via Cadore. Non risulta che Calaiò sia indagato per quel delitto. Un’altra intercettazione chiama in causa sia Boiocchi che Beretta. 

Le intercettazioni

«Vado a San Siro e gli (Boiocchi, ndr) taglio la testa (…), paga pure Beretta (…) anzi rimane vivo e gli dico: portami due milioni domani (…) se no (…) fai la stessa fine tu (…) perché sei un infame tu e tutti quelli della curva (…). Siete una massa di (…) voi dell’Inter (…) siete vivi per miracolo». Gli risponde “Franco il bello”: «Se lo vuoi io ce l’ho uno che fa ‘ste robe, un professionista”. 

A maggio 2022 tocca alla curva del Milan: «“Ti dico la verità (…) vado a sparare prima a Giancarlo e poi a Cataldo». Il figlio: «Datemi l’indirizzo lo faccio, mi metto il casco integrale e me lo faccio a Cataldo (…). Gli sparo in faccia». Di Cataldo si progetta un omicidio che non va in porto. “Giancarlo” è Giancarlo Lombardi. 

Luca Lucci e Vittorio Boiocchi

Nel giugno 2019 Luca Lucci finì sui giornali perché il Gip di Milano gli sequestrò un milione di euro. Nell’occasione tutti ricordarono la foto che lo ritraeva con il leader della Lega Matteo Salvini. Il fascicolo d’indagine cominciò a riempirsi dopo gli scontri tra gli ultras dell’Inter e quelli del Napoli prima della partita del 26 dicembre 2018 che portarono alla morte del varesino nerazzurro Dede Belardinelli. All’epoca Vittorio Boiocchi venne scarcerato dopo 26 anni di prigione, anche se nel 2021 venne sottoposto alla sorveglianza speciale per una tentata estorsione da 2 milioni di euro.

(...)

Il mercato della coca a Milano diviso tra sette bande: fiumi di droga, pestaggi e la «pentita». In cella il ras della Barona, Nazzareno Calajò. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 26 Aprile 2023

L’inchiesta «Barrios» ha riguardato gruppi in diversi quartieri milanesi come Comasina-Bruzzano, Quarto Oggiaro, Gratosoglio. Coinvolta anche Rozzano 

Sette gruppi criminali, dalla Barona a Quarto Oggiaro. Una rete di traffico di droga che riforniva Milano di cocaina e hashish. Una maxi indagine partita dal monitoraggio di uno storico personaggio della malavita milanese, ben legato ad ambienti mafiosi, all’epoca detenuto nel carcere di Opera e finita poi con la decisiva collaborazione di una donna, ora sotto protezione. In mezzo fiumi di droga e l’ipotesi che la banda riciclasse i soldi anche attraverso la ristorazione. Tra gli indagati c’è infatti un noto proprietario di locali milanesi, Alessandro M.. 

Gli arresti della famiglia Calajò

Sono una trentina gli arresti eseguiti dagli agenti della Penitenziaria di Opera, dai carabinieri della compagnia di Corsico e del Ros, Raggruppamento operativo speciale di Milano, coordinati dai pm Gianluca Prisco e Francesco De Tommasi della Direzione distrettuale antimafia di Milano, guidata dal procuratore aggiunto Alessandra Dolci. In manette lo storico ras della Barona, quartiere nella periferia sud della città, Nazzareno Calajò, già finito in numerose inchieste alla fine degli anni Novanta e nei primi Duemila. Calajò è stato sottoposto a fermo dal Ros di Milano mentre si trovava agli arresti domiciliari. Con lui sono state fermate altre sette persone, tra cui il figlio Andrea. Il nipote Luca, invece, è stato arrestato su ordine del gip Livio Cristofano. Era lui, fin dai tempi della sua detenzione ad Opera, a controllare in modo quasi militare il quartiere Barona dove la famiglia Calajò, secondo quanto si legge negli atti, era «temuta» e «rispettata». Le indagini hanno fotografato anche un giro di spaccio all'interno del carcere di Opera con i parenti dei detenuti che introducevano droga all'interno del penitenziario. Nel corso delle indagini sono stati sequestrati 240 mila  euro in contanti e 329 chili di sostanza stupefacente tra cocaina, hashish e marijuana. Mentre a febbraio 2020, all’aeroporto di Orio al Serio sono stati intercettati e sequestrati 53 euro nascosti nel doppio fondo di una valigia di una delle indagate che stava partendo per Malaga.

La faida tra le bande

Ma l’inchiesta «Barrios» ha riguardato anche altri gruppi in diversi quartieri milanesi come Comasina-Bruzzano, Quarto Oggiaro, Gratosoglio o a Rozzano. Qui c’era un altro nome di spicco della malavita milanese, morto però nel corso delle indagini nel marzo del 2022: Walter Pagani, detto «Chicco». Gli indagati trafficavano in particolare con la Spagna e usavano telefonini criptati. Nell’inchiesta si dà conto anche di pestaggi e aggressioni e di contrasti tra i vari gruppi che hanno rischiato di innescare faide. La banda aveva basi logistiche per tenere la droga, in particolare nella zona di via Ovada, via De Pretis, via don Primo Mazzolari, via San Paolino, sempre alla Barona. 

La caccia agli alloggi per nascondere la droga

Intercettato, Luca Calajò diceva della necessità di dover trovare nuovi «imboschi»: «Gli ho detto: "Non conosci qualche signora, qualche vecchietta, sempre qua tra Santa Rita, via Bari, zone Ettore Ponti, anche qualche persona seria, qualche cliente che prende merce che ci possiamo fidare, che si dà una stanza e la paghiamo 3-400 euro al mese? Gliela paghiamo la stanza».

(ANSA il 19 aprile 2023) La Polizia di Stato, coordinata dalla Procura di Milano, sta eseguendo un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di nove presunti appartenenti alla pandilla sudamericana "Latin King", fazione "Chicago". Gli indagati sono ritenuti responsabili di associazione a delinquere, tentato omicidio, lesioni personali gravi e aggravate, rissa, danneggiamento, furto aggravato e getto pericoloso di cose.

All'arresto dei nove, che hanno dai 20 ai 36 anni, presunti appartenenti alla fazione "Chicago" del "Latin King" , gli agenti della Squadra Mobile sono giunti indagando sul tentato omicidio il 5 marzo 2022 in via Chiese a Milano di un altro sudamericano, in passato capo della pandilla rivale MS13. 

La vittima era stata colpita prima con un pugno, poi con delle bottiglie di vetro e infine, una volta a terra, a colpi di machete su una mano. Le indagini hanno accertato come l'episodio fosse da inquadrare nell'ambito dei conflitti tra le pandillas, che si erano affrontate ripetutamente e si affrontano tuttora per il controllo del territorio.

Nel corso delle indagini, con l'analisi delle immagini delle telecamere di sorveglianza e le intercettazioni, i poliziotti milanesi hanno verificato l'esistenza a Milano di un'articolazione locale dell'associazione per delinquere Latin King. E' emerso come la banda ha un'organizzazione gerarchica, disciplinata da un rigido regolamento interno e che con l'uso della violenza svolge un'attività di controllo del territorio in zone cittadine ben definite. In questo contesto vanno inquadrate due violenti risse avvenute il 30 aprile 2022 in via Avezzana a Milano e il 30 giugno 2022 ad Assago (Milano), durante le quali gli indagati hanno aggredito e sono stati a loro volta aggrediti con pugni, calci e con l'uso di bottiglie di vetro da appartenenti ad altre gang rivali.

Il gip, su richiesta dei pm del VII dipartimento della Procura, specializzato nella repressione di reati di criminalità organizzata comune, ha emesso un'ordinanza di custodia per tre in carcere e sei agli arresti domiciliari. Sono un argentino, un salvadoregno, tre peruviani e quattro ecuadoriani arrestati stamani dagli agenti della Squadra Mobile della Questura di Milano, con la collaborazione dei poliziotti della Squadra Mobile di Firenze e del Reparto Prevenzione Crimine Lombardia.

Estratto dell'articolo di Federica Zaniboni per “il Messaggero” il 20 aprile 2023.

[…] A Milano si allarga l'incubo delle pandillas, che da anni si fanno la guerra in città per dimostrare la propria supremazia. Una ferocissima aggressione a colpi di machete nel marzo del 2022 ha portato ieri all'arresto di nove esponenti dei Latin King della fazione Chicago. A finire in manette, anche «l'Inca supremo della tribù», 36 anni e il più anziano del gruppo. «Questa cosa finisce male e faremo una marea di funerali», diceva al telefono, intercettato, parlando con il membro di una banda rivale. 

[…] Ma questa lotta non è fine a se stessa. Serve per la supremazia nel mercato della droga, per prendersi più spazi possibili in città. Tanto che queste bande cominciano a dare molto fastidio anche alla criminalità organizzata, quella composta da italiani, ma anche da nigeriani e albanesi.

LA RICOSTRUZIONE

Ad essere preso di mira un anno fa era stato l'ex capo della MS13, storica gang nemica dei Latin King. In via Chiese, zona Bicocca, il giovane sudamericano era stato aggredito brutalmente dal gruppo. Prima un pugno in faccia, poi una serie di bottigliate fino a farlo stramazzare al suolo. A quel punto, i rivali gli avevano quasi staccato una mano a colpi di machete. Da lì hanno preso il via le indagini della Squadra Mobile di Milano e non ci è voluto molto prima che gli investigatori inquadrassero il blitz nell'ambito dei conflitti tra pandillas. 

[…] Con calci, pugni e lanci di bottiglie di vetro, i Latin King si erano affrontati con gruppi rivali nell'aprile del 2022 in via Avezzana e il 30 giugno dello stesso anno ad Assago. «Ho notato che vi sta piacendo passare per zone che non sono vostre», minacciava il capo al telefono. «Dobbiamo fare una pulizia di zona perché stanno passeggiando nelle nostre zone».

[…] Il fenomeno delle guerre tra latino spa interessa il capoluogo lombardo da oltre vent'anni, con la prima grande operazione delle forze dell'ordine nel 2000. Nonostante i numerosi interventi effettuati nel corso tempo per contrastare le gang, continuano le aggressioni e le faide nei quartieri della città. I gruppi si riorganizzano, si ampliano e riescono sempre a mantenere saldi i propri principi.

LE GERARCHIE

A caratterizzare le pandillas, infatti, vi è solitamente una struttura gerarchica ben consolidata in cui ciascuno ha il proprio ruolo e si attiene a regole precise. Il senso di appartenenza al gruppo è uno dei valori più consolidati: i nuovi membri vengono sottoposti a riti di iniziazione (nel caso dei Latin King o dei Barrio 18, ad esempio, consiste in un violento pestaggio a cui bisogna resistere) e, una volta dentro, i simboli della banda vengono impressi sulla pelle con dei tatuaggi.

L'omertà, poi, può tenere legati anche gli esponenti di gruppi che tra loro sono rivali, rischiando talvolta anche di ostacolare le indagini. […] I capi si occupano di indire le riunioni periodiche e di controllare che le proprie aree di influenza non vengano invase da altre bande. Chi non rispetta le regole della gang viene costretto a subire punizioni corporali e violenze morali. L'obbligo a versare somme di denaro destinate a finanziare l'associazione è poi un altro modo in cui vengono puniti i membri disobbedienti.

Estratto dell'articolo di Federica Zaniboni per “il Messaggero” il 20 aprile 2023.  

A ciascun gruppo, la propria zona. Nulla è più importante che difenderla. Latin King, Barrio18, MS13, Trinitarios e Forever sono solo alcune delle pandillas che negli anni hanno stabilito i propri confini nella città di Milano. Sì, perché dietro alle zone conosciute da tutti, ce ne sono altre ben definite che per nessun motivo devono essere invase dai rivali. […] 

I […] La maggior parte degli episodi violenti, però, riguarda le faide tra pandillas rivali con lo scopo di rivendicare un determinato territorio.

[…] Storica nemica dei Barrio 18 è la MS13 (Mara Salvatrucha), una delle gang considerate più feroci nel Milanese. Negli ultimi anni si sarebbe resa responsabile di diversi accoltellamenti e omicidi, tra cui quello nel 2019 di un salvadoregno trovato morto a San Giuliano Milanese. La MS13 opera principalmente nella zona di Lambrate, così come i Latin Kings, altro gruppo particolarmente radicato nel capoluogo lombardo.

Storicamente suddivise nelle fazioni di Chicago e New York, le varie tribù hanno una struttura fortemente gerarchica. Tra le maggiori pandillas, poi, sul territorio milanese è attiva anche quella dei Trinitarios, di origine dominicana. Ma nonostante le guerre costanti per spartirsi le zone della città, nel corso degli anni le alleanze si sono rivelate mutevoli, anche con la nascita di nuovi sottogruppi. F. Zan.

Tino Stefanini, ex della banda di Vallanzasca: «Eravamo banditi, rapinavamo le banche per fare la bella vita». Matteo Castagnoli su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2023 

Settant'anni di cui 49 in carcere, due evasioni, decine di rapine (l'ultima nel 2006) e un omicidio. «Non toccavamo le persone, donne e bambini men che meno. Era una criminalità più romantica»

«Veda un po’ lei l’orario che più le fa comodo, ma non mi tolga le ore d’aria». In effetti, racconta, la libertà (anche se condizionata) era la cosa che più gli mancava. E la carta d’identità giudiziaria lo spiega bene: 70 anni, di cui 49 in detenzione, due evasioni, decine di rapine e un omicidio. Ora è in detenzione, sì, ma domiciliare, e manca un anno e mezzo al fine pena. Ma non conta i giorni. «Poi basta», commenta con un respiro profondo Alfredo Santino Stefanini, detto «Tino», uno dei tre sopravvissuti della banda Vallanzasca, la più temuta a Milano e non solo tra gli anni ’70 e ’80. 

L'annuncio dell'uscita da Bollate il 1° aprile 2020, perché le patologie pregresse non rendevano sicura la sua permanenza con il propagarsi del Covid. «Io e Renato pensavamo fosse un pesce d’aprile», e intanto accende la prima sigaretta mentre nella sua casa al Gallaratese mostra le foto sul cellulare dei «vecchi colleghi» di un tempo. Stefanini ha scritto un libro con Giorgio Panizzari, fondatore dei Nap. S’intitola «Figli delle catastrofi. Ribelli e rivoluzionari». 

Stefanini, lei si sente un «figlio delle catastrofi»? 

«Sì, siamo noi. Ma vale in generale per quegli anni». 

Come ha iniziato a rubare? 

«È stata una mia scelta. Uscivo dai collegi e andavo a farlo per gioco perché quello era il contesto del quartiere, mia mamma aveva comprato un bar ad Affori. Chi lavorava, alla Comasina, era la mosca bianca». 

Poi però c’è stato un salto criminale. 

«Sì, da quando ho iniziato a volere i soldi. Più andavo avanti e più mi rendevo conto di aver coraggio, di non aver timore e di essere bravo. Anzi, andavo per primo a farlo». 

Dov’è nata la «banda della Comasina» capitanata da Vallanzasca? 

«In carcere. Noi eravamo banditi, noi volevamo rapinare le banche per fare la bella vita». 

Quindi è stato decisivo trovarsi alla Comasina?

 «Lì ho iniziato ad aggregarmi. Poi ci sono stati gli arresti del ’74 e ’75 e ci siamo ritrovati dentro». 

E quindi il boom di evasioni… 

«Sì, sono evaso da Fossano il 22 febbraio del ‘77. Poi da San Vittore alcuni degli altri. Così ci si è riuniti». 

Con quale intenzione? 

«Volevamo andare a liberare Renato a Pisa, dopo che era stato riarrestato. Avevamo mandato un amico dei tempi a vedere come fossero i controlli. Tornato, ci disse che non ci si poteva muovere: polizia, carabinieri e militari ovunque». 

Ricorda la prima volta che incontrò Vallanzasca? 

«Ero minorenne, avevo ancora i capelli lunghi. Era venuto con una Jaguar al bar di via Teano alla Comasina. Mi chiese se conoscessi un amico. “Vallo a chiamare e digli che Renatino gli vuole parlare”. Lì è nato tutto».

L’ha risentito di recente? 

«Sì, e non sta più bene. Qualche mese fa abbiamo fatto una videochiamata. Ogni tanto è vuoto e non si ricorda più le cose». 

Cioè? 

«Abbiamo vissuto tre anni insieme a Bollate. Andavo a chiamarlo per pranzo, sono un buon cuoco. E lui mi guardava sorpreso, dicendo: “Ah, ma è già mezzogiorno”». 

Voi della banda Vallanzasca eravate colleghi? 

«No, fratelli. Ho pianto per più di uno di noi».

Che vita era la vostra?

«Era la nostra vita, appunto, una vita di espedienti». 

E non c’era altra strada? 

«Ripeto, in Comasina, chi lavorava era la mosca bianca. La mia poi era una famiglia medio borghese. Sono io che ho scelto di entrare prima nella micro criminalità e poi nella criminalità. Loro non mi hanno mai fatto mancare nulla». 

E sua mamma cosa diceva? 

«Una volta le pantere mi hanno arrestato sotto casa. È arrivata lei con il fratello più piccolo in braccio urlando: “Cosa hai fatto?”. Giuro, sono saltato io sulla macchina per paura di essere picchiato». 

Quindi ha tentato di evitare che andasse sulla cattiva strada. 

«Sono cresciuto ribelle di natura. Anzi, quando sono rimasto ferito nell’82 da una raffica di mitra, mia mamma mi teneva la mano al Niguarda. Chiesi al dottore quanti botti avessi preso. Lui rispose:  “Quattro”. Guardai mia madre e le dissi: “Mamma, lo sai che fino a 10-12 li tengo”. Lei non capì la battuta». 

In tutto questo, ha due fratelli, giusto?

«Sì. Ma con il più piccolo non ho contatti, non so nemmeno dove abiti». 

E non ha visto crescere suo figlio.

 «Lui è dell’86. Mi hanno arrestato il giorno prima che nascesse. Mi sono fatto un mese dentro prima di tornare a casa fino ai suoi 7/8 mesi. Poi di nuovo in galera, quindi lo vedevo solo ai colloqui. Ma dai 4 anni iniziava a capire e non volevo intuisse dove fossi, così telefonavo dicendo: "Papà sta lavorando, poi arriverà”. Ma cresceva a Comasina, ci ha messo poco a scoprire la verità».

E allora? 

«Una volta è tornato a casa e l’ha detto alla mamma, la mia compagnia di allora: “So dov’è il papà, so che è in prigione”. Non aveva più senso nasconderlo, per questo ho voluto vederlo. All’epoca ero a Spoleto, in alta sicurezza. Ci siamo rivisti quando aveva 7 anni. Lui mi guardava strano. Gli ho chiesto se mi riconoscesse, se sapesse chi fossi. Ha scosso la testa. E non è tutto…». 

Prego.

 «Una volta a colloquio mi ha detto, piangendo: “Alla mia prima comunione non c’eri. Al primo giorno di scuola non mi hai portato”. Sono cose che ti toccano il cuore. Fanno male». 

Anche lui ha avuto guai con la giustizia. 

«Però ora è a posto. Non credo sia stato tanto il mio esempio negativo, quanto l’essere cresciuto alla Comasina». 

Che rapporto avete ora? 

«Sono riuscito a recuperarlo. L’ho videochiamato proprio mezz’ora fa. Quando mi porta la nipotina è una gioia, si siede sulle gambe. Sono cose belle che non avevo mai provato».

Un bilancio della sua vita l'ha già fatto?

«Io l’ho vissuta nei fatti criminali, che non nascondo. Col senno di poi, se fai i conti, cosa ho perso? Ho perso tutto. Adesso sto cercando di rimediare». 

Si è pentito? 

«No, è una parola che non mi piace. È andata così, piangermi addosso per dire "che pirla” non serve a niente. Cerco di andare avanti, vivendo quel che mi rimane in modo diverso». 

La prima volta che ha preso in mano una pistola? 

«Da piccolissimo. Ho una mia foto sul cavallo a dondolo con in mano una rivoltella giocattolo (ride)». 

Oggi rifarebbe una rapina? 

«No. E ora anche Vallanzasca è meno capace di me». 

Quando l’è passata la voglia? 

«Quando ho visto che non avevo più le capacità e l’età. Una volta mi piaceva avere la Porsche, la villa con la piscina, il campo da tennis e due cavalli. Ora non valgono più quelle cose. Ora la vita è serena, diversa. Non mi sento aggressivo». 

Ultima rapina? 

«Ad una banca in corso Sempione nel 2006. Era andata a buon fine: 20mila euro dal blindato e 6mila in banca. Ma mi servivano soldi. Avevo un’altra mia moglie in carcere per la quale dovevo provvedere al pacco del sabato. Poi dovevo campare io e lo stipendio non bastava». 

Il colpo che ha fruttato di più? 

«Centotrenta milioni di lire a testa. Di soldi in quegli anni ne ho fatti tanti, senza dubbio. Però me li sono mangiati al casinò, in macchine e bella vita. Quando rubi, non dai valore alle cose. Poi stavo comprando una villa di tre piani…». 

Stava…?

«Eh, mi hanno arrestato ancora». 

Come vede Milano oggi?

 «Per me era più bella prima. Chiaro, parlo con gli occhi di un ex bandito. E, quando si parla di sicurezza, non ci si ricorda che era davvero come Chicago negli anni ‘30». 

Come fa a dire che era più bella se negli anni ’70 era il Far West?

«Lo era, ma gli scontri avvenivano con le forze dell’ordine. Avevamo una regola ben precisa». 

Cioè? 

«Non toccavamo le persone, donne e bambini men che meno. Era un’altra delinquenza, una criminalità più romantica». 

Se adesso incontrasse un poliziotto cosa farebbe?

 «Sono cordiale con tutti: “buongiorno e buonasera”». 

Anche con il comandante Achille Serra? 

«Eh beh, Serra… è stato più bravo lui perché ci ha fatto fare 30 anni di galera. Però c’è tanto rispetto. Lo saluterei volentieri e ci berrei un caffè. Ma è sempre stato un poliziotto leale».

A chi vi ispiravate? 

«Revoler con Fabio Testi o Il Padrino». 

Lei porta sulle spalle un omicidio. 

«Tornassi indietro non lo ammazzarei. Non ne valeva la pena. Questo vendeva l’eroina a un mio amico e io non volevo. Per cui, non conoscendomi, disse di volermi vedere in faccia. Ma sono arrivato prima. “Sono io”, gli ho detto. E ho sparato». 

E poi? 

«Uno in macchina con me si è pentito e mi hanno condannato». 

Era un cattivo? 

«No, ma quando mettevo il passamontagna diventavo un’altra persona. Avevo un obiettivo. Ma anche sul lavoro non avrei mai derubato la vecchietta di turno. Solo la banca». 

Chiama le rapine «lavoro». Se ne accorge? 

«È un gergo tecnico». 

Oggi come vive Tino Stefanini? 

«Sono cambiato. Faccio volontoriato da Zerografica in viale dei Mille. Aiuto con lavoretti per i loro progetti sulle carceri. È già due sabati che vado. E sono contento di presentare ancora il libro». 

È cambiato, ma il baffo, la camicia sbottonata e la sigaretta sono rimasti. 

«È la settima che fumo da quando parliamo. Però se esco a passeggiare mi dura anche due ore». 

Com’è nato il libro? 

«Devo ringraziare la direttrice del carcere di Bollate, la dottoressa Cosima Buccoliero. Scrivevo articoli per carteBollate, periodico di informazione dei detenuti del carcere. Quando mi sono trovato con Panizzari per scrivere, ci hanno concesso l’autorizzazione ad andare prima che aprisse la redazione per proseguire coi lavori». 

Il carcere quindi l’ha aiutata? 

«Dipende da quale punto di vista. In generale mi ha formato in senso contrario: mi ha insegnato ad essere criminale. Alcuni rieducano davvero, come Bollate, appunto. Ho anche preso il diploma di ragioniere e mi ero iscritto all’università. Dovevo dare il primo esame ma poi è arrivato il Covid». 

Si riempiva di attività. 

«Non sono mai stato tendente all’ozio. Il rischio è annullarsi nella routine: sveglia, tv, aria, riviste pornografiche e ancora tv. In questo senso la passione artistica mi ha distratto. Ho scritto, fatto due cortometraggi e mostre di pittura».

E com’è stato uscire? 

«Dopo tanti anni, mettere i piedi fuori ti fa sentire spaesato, intimorito. Tutti i condomini sanno che sono Tino Stefanini, ma non ho molta confidenza con le persone. Sono intimoriti e io teso. Un po’ alla volta ti riambienti». 

Per esempio? 

«Mio fratello va sempre in un bar in cui ci sono persone della mia età. All’inizio faticavo anche dire a “buongiorno”. Ora, invece, faccio anche la schedina con loro». 

Ha mai avuto paura? 

«No. Nemmeno quando stavo morendo tra le braccia di mia madre».

Estratto dell’articolo di Michele Focarete per “Libero quotidiano” il 10 aprile 2023.

Una vita da bandito. Non è il seguito della canzone di successo di Ligabue, ma l’esistenza ai confini della realtà di Tino Stefanini, 70 anni, 50 dei quali vissuti dentro e fuori le patrie galere di tutta Italia, elemento di spicco delle banda Vallanzasca, si proprio quella del bel Renè.

 Stefanini adesso è in detenzione domiciliare e vive a Milano nella casa della mamma, al quinto piano di un palazzo signorile al Gallaratese. Ci riceve in pantofole, Jeans, camicia a righe bianche e blu e perenne sigaretta in bocca.

 «Pensi che non dovrei neanche guardarle – ci dice sorridendo – perché sono invalido al cento per cento per le tante patologie che ho e il fumo mi uccide». Breve pausa. «Ma se non mi hanno ammazzato le pallottole dei mitra, mi sa che campo ancora tanto». E mostra le cicatrici di quattro fori nell’addome e uno nel gomito destro. Cinque buchi rimediati in uno dei tanti conflitti a fuoco con le forze dell’Ordine. […] Era il 1982.

[…]  Proprio in quegli anni, infatti, il gruppo di fuoco diventa per tutti la banda della Comasina, che incute terrore e miete vittime ovunque. «Di quel gruppo – ricorda Stefanini – siamo rimasti solo Io, Osvaldo Monopoli e Renato Vallanzasca. Gli altri tutti andati». E li cita uno per uno. «Mario Carluccio, morto in un conflitto a fuoco. Tonino Furiato, ucciso a Dalmine dalla polizia. Antonio Colia, in un incidente in moto. Franco Careccia, per tumore. Vito Pesce, deceduto in carcere per cirrosi. Claudio Gatti, assassinato in galera nell’ora d’aria. Tonino Rossi, per infarto. Enrico Merlo, tumore al cervello. Rossano Cochis, per infarto dopo un tuffo in mare e Claudio Basanisi, impiccato a Re Bibbia».

 Ricorda poi come ha conosciuto René. «Avevo solo 17 anni. Lui era già stato dietro le sbarre. Abitava a Lambrate, ma si spostò alla Comasina per incontrare un giovane che avrebbe dovuto fargli da autista durante i colpi. Renato arrivò in Jaguar. Io ero davanti al bar-tabacchi di via Teano, dove ci si trovava sempre tra ragazzi. Mi fermò e mi disse: se vedi Massimo digli che lo cerca Renatino. E diventammo amici». […]

Quel Tino Stefanini «è morto e sepolto. Ho commesso reati e li ho pagati tutti. Poi tra un anno e mezzo sarò libero per fine condanna».

 […]

  Tantissime rapine, infinite sparatorie, un omicidio per il quale si è beccato 26 anni, sei tentati omicidi, quattro evasioni. Come quella volta che avrebbe dovuto fare la fuga dal carcere di Fossano, con l’aiuto della banda, ma qualcosa andò storto: non trovò la pistola che gli avevano promesso nella toilette dell’autogrill, sulla prima area di sosta in direzione Milano. Evase però poco più tardi nel febbraio 1977.

 «Io ed altri cinque, con il classico lenzuolo annodato ci calammo dopo aver segato le sbarre. Arrivai a Milano e per tirare avanti in quattro mesi racimolai 220 milioni mettendo a segno alcune rapine. Intanto da San Vittore erano scappati anche Colia, Careccia, Pesce, Merlo e Rossi. Ci riunimmo tutti perché volevamo liberare René dal carcere di Pisa. Ma era tutto blindato, militarizzato. Così decidemmo di far passare un po’ di tempo e ci rifugiammo in una villa sul mare, a Lido Silvano di Taranto. Ma fummo arrestati: ci circondarono polizia e carabinieri e i loro cecchini erano appostati ovunque».

Perché bandito? «Per soldi. Per fare la bella vita. Donne, champagne e fuoriserie. Andavamo nei locali e non abbiamo mai pagato. A 21 anni avevo sotto casa una Dino Ferrari Coupé, una Porsche e una 124 coupé. Tra il 1985 e l’87 mi mangiai due miliardi di lire tra casinò e stravizi. Non sono un eroe. Gli eroi sono i padri che tornano a casa stanchi, con le mani sporche di grasso, e fanno quadrare i conti con sacrificio. Io sono stato un bandito per il Dio denaro e ho pagato».

 Bisbocce e sparatorie entrando e uscendo da 40 case circondariali. Dove ha incontrato malavitosi di ogni credo e regione d’Italia. Da Francis Turatello a Tommaso Buscetta. Quelli della banda della Magliana, Marco Medda, Coco Trovato, i Crisafulli, Pepè Flachi. Tutti. Poi spende due parole per Vallanzasca e Antonio Colia. «Renato era coraggioso, esageratamente coraggioso, a volte incosciente. Mentre Antonio è stato il più grande. Quello più scaltro e meticoloso. Calcolava ogni mossa. Per lui mi sarei fatto anche uccidere».

[…]

 «Acqua passata. Adesso, a 70 anni suonati e una vita al fresco, ho il permesso di uscire dalle 10 alle 13. Faccio la spesa, vado dal barbiere, cucino, vedo mio figlio. Il 18 aprile inoltre presento il mio libro, “Figli delle catastrofi”, scritto insieme con Giorgio Panizzari. Pagine di vite segnate dalla ribellione. Io come appartenente alla più importante batteria malavitosa di quegli anni. Panizzari, invece, è stato uno dei fondatori dei Nuclei armati proletari. E ho anche in lavorazione una sceneggiatura» […]

Estratto dell'articolo di Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 13 febbraio 2023.

Sono luoghi di camminate, paesaggi e turisti, ma nel loro mondo di sotto gli spacciatori si ancorano a coordinate opposte: nascondersi nei boschi, vivere in grotte e tende, attendere i tossicodipendenti che tanto sempre e comunque si presentano, eroinomani allo stadio terminale, lavoratori, anziani, mamme coi figli all’asilo e a scuola.

Nessuna zona in Italia come la provincia di Varese contiene una così asfissiante progressione di conquista del territorio, sanguinarie faide, morti ammazzati e gambizzazioni, arsenali di pistole, lame e kalashnikov, adulti irregolari e ragazzini soldato. Difficile stabilire una precisa mappa in quanto gli spacciatori, in prevalenza marocchini originari di Béni Mellal dove girano Porsche acquistate con i guadagni illeciti, sfruttano gli oltre 52 mila ettari boschivi del Varesotto lasciando un’area, se pressata dalle forze dell’ordine, per colonizzarne subito una nuova.

Le Procure di Varese e Busto Arsizio, con il personale e i mezzi a disposizione, hanno da mesi avviato plurime inchieste; [...] Ma nel doveroso realismo s’impone un’antica domanda, anzi se ne impongono due: dinanzi a quest’ossessiva richiesta di dosi, e ben conoscendo l’abbandonarsi a ogni mezzo possibile pur di acquistarle a cominciare dalla vendita del corpo, che cosa davvero si può fare?

[...]

 Le bande della droga hanno perfezionato un sistema di turnover: connazionali vanno e vengono dal Marocco, fantasmi che prestano servizio nei boschi, intascano, vengono sostituiti. La pratica serve a danneggiare gli inquirenti che approntano un’indagine su determinati soggetti salvo appurare che nel mentre sono spariti. […] Nelle prigioni hanno abitato anche i cosiddetti «sottomessi», quarantenni che si consegnano agli spacciatori, sono incaricati di accompagnare il tossicodipendente fra gli alberi scelti per la consegna, procurano cellulari intestati a proprietari fittizi, batterie di ricarica e cibo in scatola […]

Dove osano le mafie: le cosche ora vincono al Nord. Enrico Bellavia su L’Espresso l’1 febbraio 2023.

L’exploit di Emilia e Veneto. Grandi opportunità su tessuti economici permeabili. Schiere di professionisti disponibili e politici pronti a scambiare voti e favori. Così quello che era un contagio diventa radicamento

La minaccia aleggia, si fa sottile, lascia aperta la porta al dialogo. Una fessura, attraverso la quale passano speranze che diventano illusioni. Fino alla scossa. Scuote gli ingenui e non sorprende i complici. Vince così la mafia in trasferta. Vince facile su un terreno favorevole e quasi sempre porta a casa, la casa madre, il risultato.

Succede con la ’ndrangheta che ha messo radici e non da ora anche in Australia, figuriamoci in Nord e Centro Italia. Cosche, le chiamano “locali”, ovunque (25 in Lombardia, 14 in Piemonte, secondo la Dia) e un’unica obbedienza. Perché puoi girare il mondo ma «se sei fermo per la Calabria, sei fermo per tutti». Ricordava un vecchio padrino: «Il mondo si divide in due, quello che è Calabria e quello che lo diventerà». Così due trafficanti promettevano di «mettere in piedi San Luca a Milano». Ovvero la Calabria sotto alla Madonnina. Erano legati alla locale di Mariano Comense guidata da Giuseppe Morabito. E un imprenditore suo amico ha finito per mettere nei guai l’ex vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani e il sindaco di Seregno, Edoardo Mazza.

In nome degli affari alcune regole, all’occorrenza, diventano duttili. Anche le donne assurgono al ruolo di capi come Caterina Giancotti, 45 anni, «più spietata degli uomini» nel recupero crediti, ha detto di lei il procuratore aggiunto di Milano Alessandra Dolci. Gestiva i traffici della locale di Rho per conto di Cristian Bandiera, rampollo di Gaetano che frattanto si industriava per uscire dal carcere dandosi malato. «Vuoi che divento cattiva? E io divento cattiva», ammoniva, mentre l’anziano boss, ormai libero, proclamava: «La legge è tornata, la ’ndrangheta è tornata a Rho». E c’era gente in fila alla sua porta, anche solo per dirimere una lite di condominio.

A Reggio Emilia, per i giudici, il legame dei calabresi con la casa madre si era allentato ma era la famiglia di Cutro, il clan Grande Aracri, a operare in città e nelle province di Parma e Piacenza. Per le mafie, per tutte le mafie, vale il principio dell’adattarsi. Nicolino, Mano di Gomma, il patriarca dei Grande Aracri, tentò di accreditarsi come pentito pur di sminare i processi. Ma agli amici di giù corse a dire che si trattava di «una farsa».

A Brescello, set di don Camillo e Peppone, il Comune era stato sciolto per mafia. La famiglia Grande Aracri, Francesco, il fratello di Nicolino, con i figli Paolo e Salvatore, ne aveva fatto il proprio quartier generale. Per espandersi, giocando in grande, nel mondo dell’impresa in collegamento con i centri di spesa. Quelli pubblici, del resto, sono l’eldorado, il luogo di incontro tra mafia e politica.

A Milano con la Perego strade, eterodiretta dal boss Salvatore Strangio, si tentò l’assalto a Expo 2015. Soldi e voti vanno sempre a braccetto. Giuseppe “Pino” Neri, studio da tributarista ma considerato il capo della ’ndrangheta in Lombardia, nel 2009, si dava da fare per accreditarsi durante la competizione elettorale per il sindaco di Pavia. In città a tenere insieme ’ndrine e politica, del resto, provvedeva l'ex direttore della Asl, Carlo Chiriaco. Un sistema di mutua assistenza come quello instaurato dall’ex assessore regionale Domenico Zambetti che non disdegnava un pacchetto di voti dei Mancuso di Limbadi.

Clan integrati ma con il paese sempre nel cuore. Accumulano, mandano le briciole in Calabria e appostano la ricchezza dove mimetizzarsi è più semplice. Ma alla «mamma» hanno la necessità di rapportarsi. Il contrario della Camorra che un’organizzazione unitaria non riesce a darsela.

A Roma i gruppi criminali sono obbligati a coesistere in perenne fragile equilibrio. «È il re di Roma che viene qua, io entro dalla porta principale...», diceva di sé stesso Massimo Carminati, il boss nero che l’accusa di 416 bis però è riuscito a scrollarsela.

Perché vedere mafia fuori dai territori di origine resta per molti versi ancora un percorso impervio. Clan vecchi e nuovi, gruppi emergenti e colletti bianchi, soprattutto loro, possono ancora farla franca. Le segnalazioni di operazioni sospette languono e i reati spia (turbativa d’asta, traffico di influenze, riciclaggio, corruzione e concussione) restano circoscritti. Privi del bollo di mafiosità sembrano poca cosa agli occhi del pubblico che ancora dieci anni fa plaudiva rassicurato a chi gli raccontava di un Nord e di un Centro immuni per diritto divino dalla malapianta. E invece se la ritrovano comoda tanto nelle curve degli stadi quanto nei cda.

La predizione sciasciana sulla linea della palma è diventata la metafora di quello che chiamano contagio. «E invece è radicamento», ha ribattuto il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.

Come ha ricordato lo studioso Rocco Sciarrone, non era alla palma che bisognava guardare ma alla linea. Al paradigma mafioso che si faceva largo, diventando consuetudine del potere. Mafia che si impone ma viene cercata, invocata, blandita, coccolata e protetta. Dagli imprenditori in crisi di liquidità, da chi con la protezione spera di sterilizzare la concorrenza. Da chi spalanca i capannoni a soci munifici e si ritrova per strada. Dai professionisti e dalle banche.

L’intimidazione quasi scolora nella minaccia ambientale, di sistema.

Ci sono gli investimenti del denaro della droga, la ristorazione - il clan del camorrista Angelo Moccia controllava 14 locali della capitale – il turismo, l’agroalimentare e l’immobiliare. E la Lombardia è quarta per fabbricati confiscati e quinta per numero di aziende. Ma ci sono anche i traffici diretti: i rifiuti - l’ultimo affare in Toscana sullo smaltimento in odore di ’ndrangheta - le guardianie, i subappalti e le girandole delle società cartiere. Servono a frodare il fisco ma sono anche il formidabile passe-partout per entrare nelle aziende e impadronirsene.

Anche il grimaldello del recupero crediti si attiva a richiesta. A rivolgersi al vecchio padrino di Brancaccio, il medico boss Giuseppe Guttadauro che con un’intercettazione aveva spedito in carcere il presidente della Regione Siciliana Salvatore Cuffaro, era stata una nobildonna dell’aristocrazia capitolina che pretendeva 16 milioni da Unicredit. La commissione per il disturbo era pari al 5 per cento. Dopotutto di mediazione si trattava. I modi spicci erano messi nel conto e le potenziali vittime già inquadrate. “Il dottore” aveva pure messo in mezzo il figlio Carlo al quale raccomandava un personalissimo senso della modernità mafiosa: «Ti devi evolvere, hai capito? Il problema è rimanere con quella testa, ma l'evoluzione…». Adattarsi, cambiare pelle, pensare mafioso e agire nel business.

Raccontano le carte giudiziarie che un gruppo autonomo di camorristi napoletani chiese il permesso e pagò una tassa ai Casalesi doc per potere spendere, quasi fosse un franchising, il nome della ditta per accreditarsi in Veneto. Lì dove avrebbe investito l’ex imprendibile Matteo Messina Denaro e prima di lui il boss palermitano Salvatore Lo Piccolo.

Tra tutti i territori il Veneto è il più appetibile. Ha un tessuto di piccole imprese, cresce più del resto del Paese ma vede aumentare vertiginosamente i comuni interessati da sequestri e confische di beni. Indice di una presenza mafiosa con numeri record, come accertato da uno studio di Antonio Parbonetti, economista dell’università di Padova (L’Espresso, n°23 del 12 giugno 2022), relegato a dossier clandestino da un imbarazzato governo regionale. Racconta di ventimila aziende infiltrate dalle cosche. Troppe per parlare di contaminazione. «Sono venuto qui per imparare», sintetizzò l’ex camorrista Nunzio Perrella, specialista in traffico di rifiuti («La monnezza è oro»), per spiegare che il territorio si prestava all’espansione.

Più di recente Mario Crisci, 33 anni da Castel Volturno, un padrino autocostruitosi, con base a Selvazzano, in provincia di Padova, ha raccontato da pentito al pm Roberto Terzo: «Siamo venuti qui perché qui sono disonesti. Più disonesti di noi. Io sono un esperto di elusione fiscale. Qui la gente non ha voglia di pagare le tasse, peggio che da noi. Molti, grazie a me, hanno mandato i capitali all'estero e i loro professionisti erano presenti alle trattative». Centoventi imprese nella rete, in un impasto di convenienze, minacce e ricatti. Un solo testimone. Meridionale.

A Eraclea, l’imprenditore edile casalese Luciano Donadio, da vent’anni in Veneto, avrebbe portato in dote al sindaco i voti necessari a vincere e così il primo cittadino e l’ex sono finiti coinvolti nell’inchiesta per mafia. A Verona, l’indagine sul calabrese Ruggiero Giardino, figlio di Antonio detto “Totareddu” vicino alla cosca degli Arena Nicoscia di Isola Capo Rizzuto, – interessi edilizi anche in Toscana - è arrivata fin dentro la municipalizzata dei rifiuti scaligera, sfiorando l’ex sindaco Flavio Tosi, risultato estraneo. Alla corte dei Giardino studiava Nicola Toffanin veneto che più veneto non si può, detto l’avvocato. Studiava con mire da capo. Veneti i funzionari di banca, i commercialisti amici, le teste di legno messe alla guida delle società della grande lavanderia.

Anche così le mafie lavorano a tutto spiano. Quaranta miliardi di fatturato, due punti di Pil, stima la Cgia di Mestre, escludendo i proventi dell’economia legale che da quei capitali è inquinata. Così l’ordine di grandezze potrebbe crescere fino a 140 miliardi. Un mondo parallelo intorno al quale il Paese orbita. Sono 220 i miliardi attesi con il Pnrr, 31,5 per infrastrutture e gli allarmi si moltiplicano.

«Bisogna proteggerli da una criminalità non solo organizzata ma globalizzata, ormai multinazionale ed essenzialmente finanziaria», ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi a maggio 2022 al trentennale della Dia. E poi ci sono i grandi eventi come le Olimpiadi invernali. Ovunque i mafiosi hanno imparato la lezione. Menano e sparano alla bisogna ma gli affari prosperano se c’è pace. Un mediatore della Piana calabrese, spedito nel Lazio a far da paciere, teorizzava di tenere distinte le «ragioni economiche e le ragioni d’onore», le uniche per le quali valga la pena di mettere mano alla fondina. L’indice di penetrazione mafiosa di Transcrime è l’algoritmo da sbattere in faccia a un Paese che preferisce il folklore dell’ultimo Padrino alla sostanza del dramma. È lo stesso ministero dell’Interno ad avvertire che già nove cittadine del Nord pesantemente infiltrate segnano un trend in crescita. Disegnano una rete di compromissione con i politici, certo, e un contorno di funzionari e professionisti proni a mafie che si sono fatte potere. «Per essere mafiosi bisogna essere potenti imprenditori», raccomandava un padrino. Le origini si smacchiano e le indagini, spesso ostacolate appena sfiorano i piani alti, sono esposte ai venti cangianti di una legislazione ondivaga e di una giurisprudenza altalenante.

«La mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali. A me interessa conoscere questa "accumulazione primitiva" del capitale mafioso, questa fase di riciclaggio del denaro sporco, queste lire rubate, estorte che architetti o grafici di chiara fama hanno trasformato in case moderne o alberghi e ristoranti à la page. Ma mi interessa ancora di più la rete mafiosa di controllo, che grazie a quelle case, a quelle imprese, a quei commerci magari passati a mani insospettabili, corrette, sta nei punti chiave, assicura i rifugi, procura le vie di riciclaggio, controlla il potere».

Lui era Carlo Alberto Dalla Chiesa. Il generale prefetto mandato a morire a Palermo il 3 settembre del 1982. Parlava così al taccuino di Giorgio Bocca (Repubblica, 10 agosto 1982) pochi giorni prima di essere ammazzato con la moglie Emanuela e il poliziotto Domenico Russo. La mafia non era ancora nel codice penale. Ci sarebbe entrata solo dieci giorni dopo con la legge che porta il nome di Pio La Torre, il segretario regionale del Pci ucciso con Rosario Di Salvo il 30 aprile precedente. Non esisteva eppure vinceva. In casa e fuori.

Grandi opportunità su tessuti economici permeabili. Schiere di professionisti disponibili e politici pronti a scambiare voti e favori. Così quello che era un contagio diventa radicamento

Torino, la ‘ndrangheta fra gli stand dei Mercati generali: «Siamo calabresi e con noi non si scherza». Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera sabato 2 dicembre 2023.

Estorsioni e truffe grazie ai «colletti bianchi». La guardia di finanza ha eseguito 5 misure cautelari

«Devi pagare perché sono soldi nostri. Tu sei marocchino e noi calabresi e da noi non sbaglia nessuno, non si scherza». Fra gli stand del Caat di Grugliasco, il grande mercato ortofrutticolo alle porte di Torino, le estorsioni si facevano così. Sbattendo i pugni sul tavolo, inventandosi crediti inesistenti e mettendo in pratica minacce per nulla velate.

Le capacità di penetrazione della ’ndrangheta nel tessuto economico torinese sono state già ampiamente accertate dalla magistratura, ma l’operazione Timone, condotta dal nucleo di polizia economico e finanziaria della guardia di finanza, ha fatto emergere le infiltrazioni della criminalità organizzata anche nei corridoi del Centro Agro Alimentare Torino (del tutto estraneo alla vicenda).

Un’indagine collegata direttamente alle inchieste Carminus e Fenice che hanno messo a nudo le ramificazioni delle cosche calabresi nella zona sud di Torino e in particolare l’operatività delle famiglie Arone-Bonavota nel territorio di Carmagnola. Prendendo spunto da quelle indagini, ieri mattina le Fiamme gialle hanno eseguito 5 misure cautelari (tre in carcere e due obblighi di dimora) a carico di altrettanti indagati con l’accusa (a vario titolo) di estorsione intestazione fittizia di beni (aggravate dal metodo mafioso), truffa ai danni dello stato per ottenere le erogazioni pubbliche (nel periodo del Covid) e bancarotta fraudolenta.

L’operazione «fotografa» l’attività degli indagati fra il 2029 e il 20021 e in manette sono finiti Domenico e Vincenzo Albanese, 70 e 54 anni, originari di Cantù, e Carmine Forciniti, 72enne di Corigliano Calabro, tutti residenti a Torino. Secondo gli investigatori Domenico e Vincenzo Albanese sarebbero riusciti a impossessarsi di una società che operava all’interno del Caat vantando un credito inesistente di 50 mila euro. Il titolare aveva inizialmente provato a resistere e si sarebbe rivolto a Carmine Forciniti, che gli aveva consigliato di cedere alle richieste. Di fronte a ulteriori tentennamenti, Domenico Albanese lo aveva avvertito: «Tu adesso troverai molta difficoltà a lavorare, però noi ti aiutiamo… L’unico modo è che ci vendi lo stand». Successivamente la vittima sarebbe stata convocata nell’ufficio di Forciniti dove era presente anche Francesco Napoli (successivamente morto), esponente del locale di Natile di Carire operativo a Torino,ritenuto uno degli esponenti della ‘ndrangheta in Piemonte. Successivamente, con l’aiuto di un commercialista (che risulta fra gli indagati) sarebbe stato raggiunto l’accordo per un prezzo di 20 mila euro (la richiesta iniziale era stata di 100 mila euro) che però non è mai stato pagato. L’impresa è stata poi intestata a prestanome, prosciugata e condotta al fallimento.

Questa e altre operazioni sarebbero state effettuate con la complicità di alcuni «colletti bianchi» che riuscivano a nascondere i reali intestatari e a ottenere gli aiuti dello Stato durante la pandemia Covid. Alcune di queste truffe, in base alla ricostruzione degli inquirenti, sarebbero state commesse con il contributo di Saverio Delli Paoli, dipendente della Regione e destinatario della misura dell’obbligo di dimora che, per i pm, aveva «assidui contatti con esponenti della Natile di Careri». Stessa misura anche per Giuseppe Benvenuto, ritenuto uomo di fiducia di Napoli.

Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” il 24 luglio 2023.

Indennizzo per ingiusta detenzione maggiorato di un terzo per «l’indubbio pregiudizio d’immagine» causato all’arrestato (poi assolto) non solo dagli articoli scritti sul suo arresto, ma anche dal fatto che «dal pm in conferenza stampa fosse stato additato come “portatore degli interessi della cosca mafiosa”». 

Nel 2019 erano state arrestate 34 persone (poi in larga parte condannate a pene tra i 14 e i 5 anni) dalla gip Alessandra Simion su richiesta del pm Alessandra Cerreti nell’operazione «Krimisa» di cui il capo del pool antimafia, Alessandra Dolci, aveva sottolineato la positiva rarità di un imprenditore che aveva denunciato una estorsione registrando per i carabinieri le minacce sul mercato delle aree dei parcheggi a Malpensa.

Una di queste registrazioni era centrale anche per la posizione di un consulente del lavoro, di cui un suo cliente (in realtà un ’ndranghetista) si era servito quale «messaggero» per fare arrivare a un imprenditore concorrente su un medesimo terreno (e di cui il consulente era socio) la minacciosa promessa «qualunque cosa verrà fatta lì, sono io che vado lì e scasso tutto». 

Mentre per la Procura l’uomo era complice dell’estorsione, per il Tribunale di Busto Arsizio era invece stato anch’egli vittima della minaccia al pari del socio-imprenditore al quale «si era limitato a riferirla, senza aderirvi e senza farla propria neppure in maniera implicita o velata», come sostenuto dal difensore Davide Steccanella.

[…] Dunque ora i giudici Nova-De Magistris-Caramellino gli riconoscono gli ordinari 117,91 euro al giorno di ingiusta detenzione per 79 giorni di domiciliari, 9.314 euro, aumentati a 12.400 per «il pregiudizio d’immagine effetto di articoli comparsi in Rete che accostavano il suo nome a quello di vertici delle cosche» [...] 

E questo «indubbio pregiudizio», che per l’arrestato era dipeso anche dal fatto che la sua immagine fosse stata «diffusa telematicamente e visualizzata 11.359 volte come “portatore degli interessi della cosca mafiosa”», per la Corte «non può restare privo d’indennizzo perché non si identifica» con quanto può capitare «in occasione di un arresto, bensì lo sopravanza».

Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “La Stampa” giovedì 20 luglio 2023.

Quarant'anni fa, il bar sotto la vecchia procura (pretura) di Torino era gestito da un sedicente mercante d'arte e da una avvenente collega francese legati mani e piedi alla ‘ndrangheta calabrese. Le loro contiguità con pezzi della magistratura dell'epoca finirono sullo sfondo dell'omicidio del procuratore capo Bruno Caccia ucciso da un commando delle cosche il 26 giugno 1983. 

[…] quattro decenni dopo, quella bruttissima pagina di storia criminale della città si è riscritta ieri. Senza collusioni con le toghe stavolta, ma con lo stesso copione come in un remake. Le ‘ndrine avevano messo le mani sulla cooperativa sociale – Liberamensa - che gestiva il bar di Palagiustizia.

Un luogo eccellente per "ascoltare" e "stringere mani" oltreché per fare affari con clienti solvibili: «Capisci – dice uno degli arrestati al boss – dodici anni dentro il Tribunale…capisci vero?». Una iattura, una mannaia di coincidenze a specchio che riporta indietro le lancette del tempo e ripropone personaggi che con l'omicidio del capo dell'ufficio giudiziario di Torino – unico magistrato ucciso al Nord dalla ‘ndrangheta calabrese – ci sono dentro fino ai capelli. 

Domenico Belfiore, ad esempio, un vecchio e potente boss di Moncalieri, 58 mila abitanti in provincia di Torino, fu condannato proprio come mandante di quell'assassinio. E ora sono i suoi fratelli a essere interpellati per una controversia nata nel corso delle trattative.

A settembre del 2020, primo lockdown finito e secondo pronto a iniziare, Rocco Pronestì pezzo grosso delle cosche calabresi emigrato per anni a svernare in Liguria e da poco rientrato a Orbassano, in Piemonte, riesce – secondo l'accusa – a piazzare due prestanome ai vertici della cooperativa che gestiva anche un ristorante interno al carcere. 

Presidente Mauro Allegri, vice Mauro Amoroso: «Soggetti compiacenti, meri prestanome senza poteri» li definisce il gip nell'ordinanza di misura cautelare che ha portato ieri all'arresto di 4 persone […] 

L'operazione – per trasferimento fraudolento di valori - viene perfezionata con la vecchia dirigente di Liberamensa, tale Silvana Perrone, molto nota a Torino, con profonde amicizie (e parentele) in Comune (a Moncalieri) e a capo di un'altra cooperativa sociale – "L'isola di Ariel" – che a lungo si è occupata anche di migranti, un business milionario.

Che a un certo punto riceve un decreto ingiuntivo dai prestanome dei boss per presunti pagamenti arretrati non avvenuti (utenze, stipendi non corrisposti etc) e invece che seguire la tradizionale lite tributaria utilizzando gli strumenti dello Stato di diritto, Perrone (che a la Stampa non risulta al momento destinataria di contestazioni formali) si rivolge a Gaetano Belfiore, fratello del mandante dell'omicidio Caccia «richiedendo un intervento a protezione», scrive il gip. 

[…]  Il Covid, però, non permetterà la riapertura e la cooperativa finirà in liquidazione. Il bar, a Palagiustizia riaprirà comunque a settembre, ma l'appalto è stata vinto da una società completamente estranea a Liberamensa e ai fatti contestati. Ma il passato che ritorna non è un bel vedere.

Cinquant'anni di 'Ndrangheta in Piemonte. Storia del crimine all’ombra della Mole, scrive Luca Rinaldi il 16 Gennaio 2012 su “L’Inkiesta”. Quello dell’operazione Minotauro, datata giugno 2011, che ha portato all’arresto di 151 presunti affiliati alla ‘ndrangheta, è solo l’ultimo capitolo della lunga storia dell’infiltrazione della criminalità organizzata in Piemonte. Prima i confini degli anni Sessanta, poi il 13 giugno 1983, quando venne assassinato il procuratore della Repubblica Bruno Caccia fino ai presunti rapporti odierni fra ‘ndrangheta e politica. Il 26 giugno del 1983 a Torino veniva assassinato per mano della ‘ndrangheta il procuratore della Repubblica Bruno Caccia. Uno con cui, riferì Domenico Belfiore, condannato come mandante del delitto, «non si poteva trattare». Sibillina quella frase di Mimmo Belfiore da Gioiosa Ionica. Uomo di ‘ndrangheta in trasferta a Torino, dove gestiva un bar proprio sotto il tribunale del capoluogo piemontese, in affari con i Gonnella esponenti di Cosa Nostra. Sibillina al punto che i magistrati nella sentenza di condanna di colui che era diventato un referente di primo piano per le ‘ndrine calabresi in Piemonte, scriveranno «Egli [Bruno Caccia, nda], poté apparire ai suoi assassini eccessivamente intransigente soltanto a causa della benevola disposizione che il clan dei calabresi riconosceva a torto o a ragione in altri giudici. Perché questo clan aveva ottenuto in quegli anni la confidenza o addirittura l’amicizia di alcuni magistrati». Le famiglie mafiose da Torino e dal Piemonte non se ne sono mai andate, anzi, hanno spesso affari con la pubblicazione amministrazione e amicizia con la politica. A trent’anni di distanza, i figli del magistrato piemontese hanno chiesto di riaprire il processo sull’omicidio del padre. L’avvocato della famiglia, Fabio Repici, ha dichiarato l’ANSA che «ci sono ancora troppi buchi. Cercheremo di riportare a galla elementi di indagini trascurate negli anni, ma che potrebbero aggiungere elementi di verità». La figlia di Bruno Caccia, Paola, ha detto che la richiesta di riapertura delle indagini che verrà depositata alla Procura di Milano porterà a «riaprire ferite peraltro mai chiuse. Ma lo sentiamo come un dovere, come un bisogno di giustizia per il nostro Paese. Ed è anche un modo per sentirci ancora vicini a papà, che per tutta la sua vita ci ha insegnato i valori della coerenza e della verità». Così se nel 1963 arriva in Piemonte spedito al confino Rocco Lo Presti, soprannominato il padrino di Bardonecchia (che sarà poi il primo comune del Nord Italia sciolto per infiltrazioni mafiose), l’8 giugno 2011 va in porto l’operazione “Minotauro” con l’arresto di 151 presunti affiliati alla ‘ndrangheta in tutto il Piemonte, a Milano, Modena e Reggio Calabria. Le indagini sono partite dalle dichiarazioni del pentito Rocco Varacalli, e per il procuratore di Torino Giancarlo Caselli, come ebbe a dire durante la conferenza stampa lo stesso 8 giugno, dimostra «l’amorevole intreccio tra criminalità organizzata e politica». Un intreccio prosegue Caselli che «dà a quest'inchiesta un risvolto inquietante». Il risvolto inquietante sono i contatti con la politica e gli appalti delle aziende delle cosche nella Pubblica Amministrazione. Risvolti inquietanti che già Roccuzzo Lo Presti, organico al clan Mazzaferro aveva importato nel freddo Piemonte negli anni ’60. Lo Presti aprì proprio a Bardonecchia un negozio di abbigliamento, per poi prosperare in altri settori come ediliza, autotrasporti, bar, le immancabili sale da gioco e la ristorazione. Per i giudici è Lo Presti a «portare la mafia a Bardonecchia», e non a caso si era accasato con i Mazzaferro, già attenzionati nel 1976 dopo l’ottenimento di appalti per la costruzione del traforo del Frejus. Altre due inchieste, la prima nel 1984 e la seconda verso la fine del 1994, vedono i clan infiltrarsi negli appalti pubblici nell’alta Val di Susa, fino allo scioglimento del comune di Bardonecchia il 28 aprile del 1995. Dopo un’inchiesta molto approfondita della prefettura il Consiglio dei Ministri scioglie il Consilio comunale, ravvisando «l’esistenza di condizionamento degli amministratori da parte della criminalità organizzata». Già nella relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 1994, si censivano le presenza persistenti di ‘ndrangheta, cosa nostra e dei casalesi, mettendo poi in risalto quelle «situazioni sospette» nel settore finanziario. Già nel 1994 emergeva quella “zona grigia” fatta di professionisti, politici e funzionari pubblici su cui la mafia si appoggia per trasformare l’illecito in apparentemente lecito. Così gli anni ’90 e i primi anni 2000, viste anche le ghiotte occasioni degli appalti e in particolare dei subappalti per le Olimpiadi invernali di Torino 2006 e per il Tav, le cosche tra lavoro nero e gare al massimo ribasso tornano sulla scena pubblica. Una ‘ndrangheta quella insediata in Piemonte, che fa poco rumore, ma che ormai è una presenza storica. Presenza che porta all’insediamento delle nove locali scoperte dagli investigatori nel giugno scorso durante l’operazione “Minotauro”. L’indagine restituisce la fotografia di quei nuclei strutturati di famiglie che rispondono al vertice calabrese, ma che sul territorio negli anni si sono ricavate una propria autonomia, soprattutto per quanto riguarda i contatti con amministratori pubblici e politica locale. Non è un caso che l’indagine prenda le mosse dalle indicazioni del collaboratore di giustizia Rocco Varacalli, organico alle famiglie di Natile di Careri, che nel 2008 iniziò a ricostruire i traffici di stupefacenti delle ‘ndrine tra il Sud America, la Calabria e alcune città del nord Italia. Inoltre emergono sempre dalle deposizioni del collaboratore di giustizia le falle in cui le ‘ndrine vanno ad inserirsi nell’economia: subappalti, servizi, facchinaggio e piccole commesse pubbliche, che sommate all’amicizia con il politico o l’amministratore arrivano anche più facilmente dalle parti di quelle aziende apparentemente senza macchia a cui vengono affidati i piccoli subappalti senza gara pubblica. Nel racconto del pentito Varacalli, attendibile a fasi alterne, trovano posto poi anche nomi e cognomi non solo di mafia ma anche di politica. Nelle carte dell’operazione coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino emergerà su tutti, perché tra gli indagati, Nevio Coral, già sindaco di centrodestra di Leinì (Torino) per 30 anni e suocero dell'assessore regionale alla Sanità Caterina Ferrero, del Pdl, che poco tempo prima di questa operazione firmò le proprie dimissioni per un caso di tangenti. Nevio Coral avrebbe, secondo l’accusa, procacciato voti tra gli esponenti della ‘ndrangheta per l’elezione del figlio, poi diventato sindaco della stessa Leinì nel marzo 2010 e dimessosi lo scorso dicembre. Tra le pieghe dell’inchiesta emergeranno i rapporti poco convenienti tra il boss di Rivoli Salvatore De Masi e alcuni esponenti politici regionali. Dalle carte emergerebbe infatti che «Tra la fine di gennaio e il febbraio 2011 (De Masi, nda) si è incontrato direttamente o tramite intermediari con l'onorevole Gaetano Porcino dell'Idv (il suo nome emergerà anche in occasione dell’inchiesta sul clan Valle-Lampada sull’asse Milano-Reggio Calabria), con l'onorevole Domenico Lucà del Pd, con il consigliere regionale del Pd Antonino Boeti, con l'assessore all'Istruzione di Alpignanno Carmelo Tromby, sempre dell’Idv». Nessuno di questi è stato indagato dalla procura di Caselli, ma nell’ordinanza si legge appunto di incontri poco convenienti e addirittura in una occasione Lucà chiama il boss Demasi in cerca di voti per Fassino alle primarie del Partito Democratico per la candidature a sindaco di Torino. Allo stesso modo, inconsapevolmente, fa sapere la stessa, Claudia Porchietto, assessore al Lavoro della Regione Piemonte (all’epoca dei fatti, nel 2009, candidata alla presidenza della provincia di Torino per il Pdl), incontra al Bar Italia nel centro del capoluogo piemontese Franco D’Onofrio, considerato dai magistrati «responsabile provinciale della Cosca di Siderno». Il padrino del “Crimine torinese”. I magistrati non indagano la Porchietto considerandola estranea, anche perché l’incontro tra I due dura solo pochissimi minuti, ma è però preceduto da una chiacchierata tra lo stesso D’Onofrio, Giuseppe Catalano e il nipote Luca consigliere comunale del Pdl ad Orbassano. Riconosciuta l’estraneità della Porchietto il gip Silvia Salvadori, che firma l’ordinanza non può fare a meno di classificare l’episodio come «altamente rappresentativo dell’influenza che la ‘ndrangheta assume nella vita democratica». I boss in Piemonte, si interessano di tutta la regione, e in consiglio comunale ad Alessandria si sarebbe seduto addirittura seduto un “picciotto”: nell’ambito di un’altra operazione antimafia, denominata “Maglio” ed eseguita pochi giorni dopo “Minotauro”, gli inquirenti sono arrivati ad arrestare il consiglieri Giuseppe Caridi, del Pdl. Caridi, stando alle indagini dei Carabinieri, avrebbe ricevuto la dote di “picciotto” con cui era stato ammesso ufficialmente a partecipare alle attività della “locale” guidata da Bruno Francesco Pronestì. Quarant’anni di mafia in Piemonte che torneranno probabilmente a fare rumore alla conclusione del processo scaturito proprio dall’operazione “Minotauro”. Intanto, dall’emiciclo di coloro che di solito fanno strali contro chi viene pizzicato in scomoda compagnia, arriva il più solido garantismo e la convinzione che spesso, in campagna elettorale, può capitare di stringere le mani sbagliate. Certo, quando capita ai soliti, come notano gli inquirenti della direzione distrettuale antimafia di Milano nel caso di Gaetano Porcino dell’Idv «sarà uno sfortunato caso». Lo scorso 23 febbraio dopo otto ore di camera di consiglio, la seconda sezione della Corte di Cassazione ha rigettato i ricorsi dei 50 boss condannati in Appello e ha di fatto confermato le sentenze degli altri gradi di giudizio: 300 anni di carcere. La pronuncia ha respinto la richiesta di annullamento fatta dallo stesso procuratore generale per «difetto di motivazione». È la prima sentenza passata in giudicato sulla ‘ndrangheta nel Nord Ovest: «Questa pronuncia – commenta il procuratore capo, Armando Spataro a La Stampa – conferma l’eccellente lavoro della Dda di Torino e della polizia giudiziaria».

IL NORD CONQUISTATO DALLA 'NDRANGHETA. (di Massimiliano Coccia - L'Espresso il 21 agosto 2020). Secondo te che cos’è il Nord e dove inizia?, domanda Sergio, una vita nei reparti mobili della Polizia di Stato a Torino e ora pensionato, che continua e si risponde da solo: «Il Nord non esiste, continuano a chiamarlo Nord perché fa comodo dire che c’è un Nord e un Sud. A te sembra Nord perché il panorama è più ordinato ma l’Italia è tutta uguale. È passato il tempo in cui la mafia si infiltrava: la mafia è presenza stabile qui come al Sud». In effetti se il Nord lo si percorre in macchina, salendo e scendendo le Alpi, attraversando le città non ci sono carcasse di auto, scheletri di case iniziate e mai finite di costruire, sono assenti dalla visuale la decadenza e i retorici cartelli che indicano l’inizio di un territorio comunale forati dai bossoli di fucili, dal finestrino il panorama induce alla pace e alla sicurezza. «Quando è iniziato il boom economico le mafie hanno capito che si potevano espandere e hanno iniziato a migrare pure loro. Qui a Torino si diceva che per ogni dieci operai Fiat venuti dal Sud le mafie mandavano due “picciotti”», continua a raccontare Sergio: «Prima c’erano i reati bagatellari e poi piano piano in silenzio, facendo accordi, hanno iniziato a prendersi un pezzo del tessuto produttivo. Ricordo che negli anni passati era impossibile far passare il concetto che qui ci fosse la mafia e questo le ha dato un enorme vantaggio. Pensa che i partigiani dicevano “dopo il fascismo ci ammazza la mafia” e infatti fu così per il candidato sindaco di Cuorgnè, Mario Cerreto, ex partigiano di Giustizia e Libertà che fu ammazzato a Orbassano nel 1975 perché non voleva far entrare uno ‘ndranghetista nella sua lista. I colleghi che ne parlavano venivano trasferiti come successe a Pierluigi Leoni, commissario a Bardonecchia, che fu trasferito in Calabria perché indagava sulla famiglia Lo Presti». È proprio Bardonecchia il luogo simbolo dell’antico radicamento della ’ndrangheta in Piemonte, un luogo di frontiera da cui può partire questo viaggio, un luogo che per decenni è stato il feudo di Rocco Lo Presti, boss calabrese che emigrò nel 1953 da Marina di Gioiosa Jonica e dopo aver collezionato una condanna per ricettazione dal tribunale di Locri e l’arresto a Casale Monferrato per spaccio di banconote false, si trasferì a Bardonecchia dove creò una piccola ditta edile a conduzione famigliare che iniziò a prendere appalti pubblici e privati con la violenza e la corruzione. Lo Presti, morto nel 2009, fu uno dei capi più spietati della ’ndrangheta che in terra sabauda ha lasciato un’eredità pesante in termini criminali, cambiando per sempre il connotato di Bardonecchia. A marzo, qualche ora prima del lockdown, c’è stato ad esempio il sequestro del Bar Obelix nella centrale Piazza Europa e della pizzeria Tre torri in via Midal: beni che fanno parte del tesoro di Giuseppe Ursino, 50 anni, nipote di Rocco Lo Presti e attuale reggente dell’omonima ‘ndrina, in carcere dal 2018 a seguito dell’operazione “Bardo”. Operazione che ha portato all’arresto anche di Ercole Taverniti e ha permesso di evidenziare il tessuto criminale che legava la ‘ndrina Lo Presti con la famiglia Crea: i fratelli Adolfo, Aldo e Cosimo, al 41bis dal 23 aprile del 2018, gestivano un giro di slot, estorsioni e corruttela, lasciando come avvertimento e firma delle loro azioni una testa di maiale mozzata. «Bardonecchia è stata svuotata dalla ‘ndrangheta, siamo stati il primo comune sciolto per mafia al Nord nel 1995 e da allora cerchiamo di ripulire il tessuto criminogeno della città», dice Michele, giovane studente universitario da anni impegnato nei movimenti sociali del territorio. «Siamo una terra complicata, c’è un grande impoverimento della cintura economica, per un giovane fare impresa è difficile, il boom edilizio drogato dalla famiglia Lo Presti ha consumato il suolo: occorrerebbe fare una grande opera di riconversione sociale. Poi Bardonecchia è anche una rotta migratoria con la Francia, stagionalmente si riapre, e c’è l’emergenza Tav: il mio timore è che nonostante l’impegno del sindaco Francesco Avato a difendere questi luoghi, il tempo e lo spazio perduto facciano morire Bardonecchia. Servirebbe una specie di piano Marshall per i comuni che sono stati attraversati dalle mafie, perché gli indotti e le famiglie che detengono il potere alla lunga restano sempre le stesse». Centro e frontiera: sembra essere questo il movimento geografico delle ‘ndrine al Nord, piccoli comuni con interessi particolari. L’omesso controllo sulla formazione delle liste civiche - che da sempre sono un tirante delle giunte locali e il voto di scambio - saldano la politica con gli interessi mafiosi: basti pensare all’arresto di Roberto Rosso, ex assessore regionale piemontese in quota Fratelli d’Italia, da poco collocato agli arresti domiciliari, dopo sei mesi di carcere. Mentre il panorama piemontese sfuma dal finestrino, il territorio si fa più aspro e le vette più decise, segno che siamo entrati in Valle d’Aosta, regione dove lo scorso inverno un terremoto giudiziario ha portato alle dimissioni della giunta regionale. «La ’ndrangheta in Valle d’Aosta c’è da una vita», ha dichiarato Daniel Panarinfo, collaboratore di giustizia, teste al processo Geena, che si è concluso, per gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato, il 13 luglio presso il Tribunale di Torino che ha certificato per la prima volta l’esistenza della ‘ndragheta ad Aosta e dintorni. Una sentenza storica che ha visto la condanna di dodici persone tra cui Bruno Nirta (12 anni e otto mesi) considerato dalla Dda di Torino il vertice della cosca ad Aosta, in grado di tessere alleanze con le ‘ndrine piemontesi e di condizionare a vari livelli politica ed imprenditoria. Infatti nel secondo troncone, col rito ordinario, che è ripreso il 23 luglio al tribunale di Aosta, quello con il rito ordinario scelto da altri cinque imputati: Marco Sorbara, consigliere regionale sospeso; Monica Carcea, ex assessore al Comune di Saint-Pierre (sciolto nell’ottobre scorso per infiltrazione ‘ndranghetista a seguito della relazione della Commissione antimafia), entrambi accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, Nicola Prettico, consigliere comunale ad Aosta sospeso, Alessandro Giachino, dipendente del Casinò di Saint-Vincent e il ristoratore Antonio Raso, tutti e tre accusati di associazione per delinquere di stampo ’ndranghetista; quest’ultimo in più occasioni ha dichiarato di aver messo in piedi una azione trasversale per promettere “impegno” a tutte le forze politiche dello scenario valdostano. Una presenza mafiosa nella piccola regione del nord-ovest confermata per la prima volta da una sentenza ma che, come ha ricordato il Procuratore Generale della Repubblica di Torino, Francesco Saluzzo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, viene da lontano: «Che in Valle d’Aosta non vi fosse la ‘ndrangheta, esponenti della politica non avevano fatto mancare di far sentire la loro voce sdegnata per respingere quella possibilità. Quando evidenze - anche antiche - dicevano il contrario. Ora, forse, questi motivetti finiranno di essere suonati. Quel che mi preoccupa è la persistente sottovalutazione del fenomeno che si coglie nell’opinione pubblica. Questo atteggiamento ha aiutato e aiuta le organizzazioni mafiose. Non basta la risposta giudiziaria, occorre una presa di coscienza e un atteggiamento di ripulsa e di rigetto delle persone, delle comunità e delle istituzioni». Una presa di coscienza che Francesca Schiavon, editrice valdostana e attivista antimafia ha da sempre: «I valdostani hanno avuto, dopo tanti anni, un effettivo riscontro, se non ancora penale sicuramente culturale e sociale, del fatto di vivere in una Regione che, fattasi scudo per decenni del benessere diffuso che si sta sgretolando sotto i colpi della crisi economica, è immersa nella mentalità e nella prassi mafiosa dello scambio di voti, di favori, di posti di lavoro». Tutti sapevano, sottolinea Schiavon, molti ne hanno tratto vantaggi, troppi hanno taciuto. «Oggi il tessuto sociale appare sfibrato da malcontento e diffidenza, difficile fidarsi di un potere opaco e rapace che, seppur indebolito sotto i colpi della magistratura, ancora viene percepito come il deus ex machina della vita politica ed economica valdostana». Lasciamo Aosta e ci dirigiamo verso il comune di Saint-Pierre, sciolto per infiltrazioni mafiose a febbraio sempre nell’ambito dell’inchiesta Geena, il primo in questa regione. Il paesaggio alpino, i pochi abitanti che camminano per il centro della città, l’apparente estraneità di tutto il contesto urbano con quello che è avvenuto qualche mese fa rendono tutto surreale. Nei bar l’argomento si evita e Federico, che vive a Milano, ma qui ha i genitori, racconta che «in paese c’è omertà. È incredibile vero? Uno pensa che l’omertà c’è solamente al Sud e invece anche qua. Qui si è creata una bolla, perché la ’ndrangheta è entrata in tanti posti, portando soldi che poi hanno lasciato povertà: per questo la gente ha iniziato ad andare dai carabinieri». Quello che dice Federico viene esplicitato in termini tecnici anche dalla Banca d’Italia: lo studio “Gli effetti della ’ndrangheta sull’economia reale: evidenze a livello di impresa” mostra come i mandamenti criminali si infiltrino nelle aziende che vivono difficoltà finanziarie, creando nel primo periodo un effetto positivo sui bilanci, per poi sgonfiarsi man mano, rilasciando effetti negativi sulla crescita aggregata di lungo periodo. Effetti che, terminato il ciclo di riciclaggio, portano alla chiusura delle aziende e alla perdita di posti di lavoro in massa. Centro e confini, ricchezza e povertà, fatturati e politica impermeabili, sembrano essere gli elementi di forza di questa organizzazione che come racconta Antonio Talia in “Statale 106” (Minimum fax) ha fatto di una strada provinciale dove tutto è nato il viadotto simbolico per un regno transnazionale, che fattura come uno Stato e fa raramente notizia. Bardonecchia è il luogo simbolo del radicamento della criminalità calabrese, ma il fenomeno è dilagato in Piemonte e non solo.

Rocco Lo Presti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Rocco Lo Presti, all'anagrafe Rocco Lopresti, conosciuto come " Roccu u Maneja " a Marina di Gioiosa Ionica, suo paese di origine (Marina di Gioiosa Ionica, 6 maggio 1937 – Torino, 23 gennaio 2009), è stato un mafioso italiano.

Storico boss mafioso di Bardonecchia e della Val di Susa, è stato il "padrino" della 'Ndrangheta in Piemonte e il primo mafioso inviato al soggiorno obbligato nel nord Italia. Ha rappresentato una parte di storia della criminalità organizzata in Piemonte, insieme alle famiglie gioiosane della 'Ndrangheta dei Belfiore, degli Ursino e dei Mazzaferro. Il cognome di Lo Presti ha segnato per cinquant'anni Bardonecchia e la Val di Susa. Sempre sulle prime pagine dei giornali, è stato il nome più conosciuto della Val di Susa. Lo Presti ha passato l'intera vita, a difendersi da ogni tipo di accusa e dai continui attacchi da parte della magistratura. Accuse delle quali è sempre riuscito a dimostrare la propria innocenza, avendo avuto i migliori avvocati del Foro di Torino tra i quali anche il Presidente del Consiglio Nazionale Forense, prof. Aldo Casalinuovo. È sempre uscito indenne dalle maggiori inchieste di mafia in Piemonte. Imparentato con la famiglia mafiosa dei Mazzaferro di Marina di Gioiosa Jonica, di cui ne è stato anche l'esponente di maggior rilievo, fu mandato in soggiorno obbligato a Bardonecchia nel 1963, facendo della cittadina subalpina il suo feudo. Il suo nome è legato a doppio filo con quello della famiglia Mazzaferro. Con i cugini Vincenzo, Giuseppe e Francesco Mazzaferro emigra da giovane a Torino in cerca di fortuna. Assieme al cugino "Don Ciccio" Francesco Mazzaferro ha avuto l'egemonia sul territorio della Val di Susa. Per Bardonecchia la presenza di Lo Presti è stata una maledizione, di quelle da cui non se ne esce mai. È forse la cittadina che gli ha fatto costruire la sua fama di boss della 'Ndrangheta, il paese dove, a giudicare dalle attività messe in piedi dalla sua famiglia, Lo Presti ha fatto fortuna: quel cognome non se lo scrollerà di dosso ancora per tanti anni. Se per molti italiani, Bardonecchia e la Val di Susa è uguale a mafia; se la stazione sciistica è stata sempre presente nei titoli dei giornali più per la presenza mafiosa del defunto boss che per le sue piste innevate, è grazie alla leggenda di Lo Presti. Per tutti era da sempre il boss incontrastato della Val di Susa, e per tutti Bardonecchia rappresentava il suo regno. Per i calabresi e i siciliani di Bardonecchia, Oulx, Sauze d'Oulx, Sestriere, Cesana, Claviere, Susa, ma anche per i montanari e per i villeggianti che arrivavano da Torino, Milano, Genova. Per tutti era una potenza nominale. Un nome che incuteva rispetto o riprovazione, ma di sicuro sempre una certa paura. Ha costruito da imprenditore molti edifici di Bardonecchia, e ha dato lavoro a migliaia di persone, durante gli anni del boom edilizio. Per i giudici di Torino è stato, colui che ha importato il fenomeno 'Ndrangheta nel nord Italia. Summit segreti, polizia in allerta, sindaco aggredito, a Roma le denunce dell'Antimafia, intimidazioni intorno ai cantieri. Negli anni sessanta e settanta il suo potere in Piemonte è stato pari a quello di Don Antonio Macrì in Calabria. Ha dettato legge nel campo dell'edilizia. Ricco e potente fin dagli anni sessanta, ha creato la propria fortuna nel campo dell'edilizia e delle costruzioni, imponendo leggi e regole proprie, stravolgendone per anni il settore. Con un esercito di operai alle sue dipendenze, è stato l'uomo che, durante gli anni del boom e della speculazione edilizia in Piemonte, ha imposto il dominio della manodopera edilizia in tutta la Val di Susa. Salito agli onori delle cronache negli anni del boom e della speculazione edilizia prima, e del sequestro-omicidio Ceretto poi, ha avuto il potere assoluto nel campo dell'edilizia e della malavita in Piemonte fino al 1975, anno in cui venne mandato al confino sull'isola dell'Asinara. Per decenni si è indagato su di lui. Il fascicolo è enorme, legato con un grosso spago. Nella storia dell'infiltrazione della 'Ndrangheta in Piemonte tra il '65 e il '75 la sua figura è molto chiacchierata e viene evocata più volte dagli investigatori. Negli archivi di polizia e carabinieri ci sono soltanto informazioni riservate e confidenziali per migliaia di pagine, ma nessuna prova concreta di responsabilità dirette in illeciti o reati di sorta. Il fascicolo è pieno di assolutorie per insufficienza di prove. Inchieste, relazioni parlamentari, denunce, ordini di cattura, intercettazioni, arresti, sequestri. Ma lui ha sempre preferito atteggiarsi a mite cittadino perseguitato dalla giustizia. Eppure è stato l'uomo più chiacchierato della Val di Susa. Un uomo capace di scalare i gradini della carriera criminale sgusciando indenne tra un processo e l'altro, in grado di conquistare potere, abile nel riuscire a costruirsi una robusta posizione economica grazie alle amicizie influenti che gli hanno permesso di creare un impero a Bardonecchia durante gli anni del boom edilizio. A lui si sono rivolti con riverenza numerosi personaggi politici dell'ex Partito Socialista Italiano. Ha avuto legami con la mafia marsigliese ed ha intrattenuto rapporti d'amicizia con Don Mico Domenico Tripodo, quando era in soggiorno obbligato ad Avigliana. La presenza di Tripodo era frequentemente segnalata a Bardonecchia. Ha avuto legami molto forti con le 'ndrine di Ciminà e contatti con Don Giovanni Stilo di Africo, il sacerdote calabrese accusato più volte di collusioni con la 'Ndrangheta, in occasione dell'aggiustamento del processo Ceretto. Ha avuto legami con la mafia siciliana e americana. Luciano Liggio, Salvatore Inzerillo, Frank Coppola, Gerlando Alberti, la Famiglia Gambino di New York e le famiglie della 'Ndrangheta in Canada. Secondo un collaboratore di giustizia, negli ultimi anni, il rapporto con i cugini Mazzaferro si è incrinato e Lo Presti si è avvicinato ed alleato agli Aquino, rivali dei Mazzaferro. Uomo di vecchio stampo, è stato sempre contrario a fare affari di droga.

Biografia

Lo Presti nasce il 6 maggio 1937 a Marina di Gioiosa Jonica da una umile famiglia contadina. Il padre Salvatore Lopresti e la madre Maria Caterina Femia, si arrangiano come possono, lavorando la terra. Primo di otto figli, abbandona molto presto la scuola elementare e si affianca allo zio, in stretto contatto con il vecchio capobastone di Gioiosa Jonica, Rocco Amleto Monteleone, alias Roccu u Regginu, occupandosi della gestione degli affari dello zio e del Monteleone, nel mercato della frutta prima, e del pesce dopo.

All'età di 16 anni emigra a Torino, in cerca di fortuna insieme ai cugini Mazzaferro.

Nel 1957 viene arrestato a Casale Monferrato insieme al cugino Cosimo Jerinò, alias Cosimu u Caddara, e condannato per spaccio di banconote false e resistenza a pubblico ufficiale.

Nel 1962 viene condannato dal Tribunale di Locri per ricettazione.

Nel 1963, accusato di attività illecite, viene mandato in soggiorno obbligato a Bardonecchia e, in pieno boom edilizio, mette su una piccola impresa di costruzioni che, molto presto conquista una posizione di preminenza su tutte le altre imprese. Dopo il suo arrivo, a Bardonecchia cominciarono a verificarsi episodi tipici degli ambienti dove opera la mafia.

Nel settembre del 1963 Mario Corino, segretario della sezione locale della DC, e futuro sindaco del paese, che si sta occupando della speculazione edilizia, viene aggredito e picchiato di notte da due sconosciuti. Vengono fermati per l'aggressione, due muratori calabresi, Francesco Ursino, cognato di Lo Presti, e Antonio Zucco originario di Ciminà che, interrogati dal giudice, dichiarano di averlo fatto perché Corino era "spia dei sindacati" e Lo Presti sarebbe stato il mandante.

Nel 1965 viene arrestato a Ginevra assieme ad Alberto Re, imprenditore di Bardonecchia, per una serie di furti in alcune ville; i due vengono scoperti nell'ultimo colpo, un furto di 60 milioni in gioielli nella villa di un giudice. Lo Presti verrà processato e condannato a due anni di reclusione. 

Nel 1968 torna a Bardonecchia e sposa una compaesana in uno degli alberghi più lussuosi del paese, il Grand Hotel Riky, con oltre 300 invitati, fra cui alcuni venuti apposta dall'America, come il boss italoamericano Frank Coppola e la famiglia Gambino. Per le strade uomini con la coppola tengono a bada i curiosi. Da lì in poi chi vuole costruire a Bardonecchia deve passare da Rocco Lo Presti. Chi si ribella muore.

Nel dicembre del 1969 viene sospettato di essere il mandante dell'omicidio Timpano. A Exilles lungo la statale della Val di Susa viene trovato il cadavere di Vincenzo Timpano, appena arrivato da Grotteria, Calabria. È stato ucciso da Giuseppe Oppedisano, cognato di Lo Presti e cognato dello stesso Timpano. Il cadavere è stato cosparso di benzina e dato alle fiamme. Viene trovata sul luogo del delitto l'Alfa Romeo 1750 di proprietà di Lo Presti. Oppedisano confessa, ma non rivelerà mai il movente. Lo Presti ha invece un alibi inattaccabile. Era in volo su un aereo verso il sud Italia.

Nel giugno del 1970, appena sei mesi dopo, viene nuovamente sospettato come mandante dell'omicidio D'Aguanno. Viene trovato a Moncalieri in una discarica abbandonata il cadavere di Luigi D'Aguanno, un ricettatore appena uscito di galera. Qualcuno dice che abbia pagato con la vita una soffiata alla polizia. Viene fermato per l'omicidio Carmine Messina a bordo dell'auto di proprietà di Lo Presti. Anche questa volta Lo Presti risulta essere in volo su un aereo diretto in Calabria. In entrambi i casi Lo Presti viene prosciolto da ogni accusa.

Il 12 settembre 1970 in uno dei cantieri di Lo Presti a Bardonecchia viene catturato Filippo Costa, pregiudicato, sospettato di appartenere alla cosca di Luciano Liggio, in quel periodo al centro di un'inchiesta sui sequestri di persona portati a termine dal gruppo Liggio.

Da manovale a "padrino" di Bardonecchia

Nel 1970 Lo Presti inizia la sua grande ascesa nel campo dell'edilizia. Sono ormai presenti da tempo a Bardonecchia appartenenti alle famiglie siciliane dei Gambino, degli Spatola e degli Inzerillo di Passo di Rigano, quartiere di Palermo, e Lo Presti molto presto entra in rapporti di affari con i fratelli Salvatore e Alfonso Gambino, cugini diretti dei Gambino di Cherry Hill nel New Jersey e lontani cugini di Don Carlo Gambino. Diventeranno i suoi fedelissimi collaboratori nel reclutamento e nello sfruttamento della manodopera edilizia. Successivamente entra in rapporti di amicizia anche con il loro cugino, il giovane Totuccio Salvatore Inzerillo, futuro boss di Palermo, ancora agli inizi della sua carriera criminale. Diventeranno amici fraterni. Nel 1971 è il re degli appalti, finiscono tutti a lui. Palazzi, cantieri e centinaia di dipendenti. Non c'è impresario o "mercante di braccia" che non conosca Rocco Lo Presti. In molti sostengono che in questo periodo Lo Presti abbia festeggiato da imprenditore, in un noto ristorante di Bardonecchia, il suo primo miliardo di lire. Il 1º maggio 1971 è la Festa dei Lavoratori. Ottomila torinesi sono in piazza Vittorio Veneto a Torino per la tradizionale sfilata. In un bar sotto i portici alcuni immigrati calabresi parlano sottovoce. Stanno discutendo con Carmelo Manti, intonacatore cottimista. All'improvviso il Manti si alza, estrae una pistola, spara e uccide i quattro compaesani e si confonde tra la folla. Lascia a terra Domenico Parisi, Giuseppe Prochilo, Alfredo Muoio e Franco Maltraversi. Sono "mercanti di braccia" che esigono il pagamento della tangente. Deve loro quasi 2 milioni di lire. Giuseppe Prochilo, boss del racket dell'edilizia è il luogotenente di Rocco Lo Presti. La strage del 1º maggio alza il velo e rompe il fronte di omertà sul racket dell'edilizia. Arrestato e interrogato dal giudice, il Manti, rivela ogni segreto sul racket. Racconta di appalti e subappalti, cottimismo, sfruttamento, tangenti. Torino scopre un'organizzazione germogliata sulla miseria e sulla sofferenza di tanti immigrati. Rivela i nomi dei boss che controllano il racket. Tra i nomi c’è anche quello di Rocco Lo Presti L'attenzione dei giornali e della magistratura si concentra su Bardonecchia. Si inizia a parlare di caporalato, sfruttamento abusivo della manodopera, racket nei cantieri. Operai in cerca di lavoro che vengono reclutati a Porta Palazzo e alla stazione di Porta Nuova al momento del loro arrivo in Piemonte e portati in massa nei cantieri a Bardonecchia. Imprenditori che vengono minacciati e costretti a rinunciare a ogni tipo di lavoro sul territorio di Bardonecchia. Nessun imprenditore può muovere un mattone a Bardonecchia senza il consenso di Lo Presti. È lui a decidere a chi dare il lavoro. È lui a decidere la fornitura dei materiali. È lui ad avere potere di vita o di morte. Attraverso minacce, intimidazioni e prevaricazioni di ogni genere riesce ad avere il controllo della manodopera edilizia in Val di Susa. Nel gennaio del 1972 l'episodio più significativo di minacce. Un gruppo di operai calabresi armati ha circondato un cantiere edile ordinando agli operai di sgomberare e di non farsi vedere mai più. Ai disgraziati non resta che obbedire. Il lavoro passerà a Rocco Lo Presti. Ma quando il magistrato incomincia gli interrogatori, nessuno ricorda più niente. Leonardo Ferrero, giornalista de l'Unità che sta svolgendo un servizio sulla speculazione edilizia in Val di Susa viene minacciato dallo stesso Lo Presti, come vengono minacciati i sindacati a tutela dei lavoratori. I sindacalisti di Cgil, Cisl e Uil dichiarano ai giudici di Torino che, durante un giro dei cantieri di Bardonecchia nell'ottobre del 1971, i loro spostamenti erano seguiti da alcune auto e che era praticamente impossibile avvicinare i lavoratori che sembravano avessero il terrore di colloquiare. I sindacalisti dichiarano inoltre di essere stati direttamente minacciati e di avere ricevuto telefonate in cui venivano invitati a non andare nei cantieri di Bardonecchia poiché "poteva finire male" . Altri imprenditori minacciati, cantieri devastati. Il sindaco di Bardonecchia, Mario Corino, accusa pubblicamente Lo Presti. La tensione è alta. Nel maggio 1972 un certo Giovanni Rosace sostiene che a Bardonecchia si svolge un intenso traffico di d'armi e preziosi con la Francia, controllato da Lo Presti, con il boss della mafia marsigliese Gaetano Tany Zampa. Nello stesso periodo in un rapporto dei carabinieri si afferma che il Lo Presti controlla a Torino cinque bische clandestine. Nel 1973 viene mandato in soggiorno obbligato a Bardonecchia il cugino Don Ciccio Francesco Mazzaferro. Qui, Mazzaferro avvia una società di trasporti e movimento terra, per servire i siti di edificazione, e con l’aiuto di Lo Presti, nel giro di due anni, riesce a fare piazza pulita della concorrenza, nel settore delle costruzioni. Con l’arrivo di Mazzaferro, si inizia a parlare anche di realizzazione di grandi opere, in Val di Susa. Il Traforo del Frejus e l'autostrada Torino – Bardonecchia (A32). Il clan Lo Presti-Mazzaferro ha ormai il controllo assoluto di buona parte dell’economia della Val di Susa e con la forte ondata migratoria calabrese, ha anche il consenso del voto. Importanti esponenti del Partito Socialista Italiano dell'epoca, chiedono a Lo Presti il sostegno in campagna elettorale, che sarà determinante. Lo Presti e Mazzaferro riusciranno infatti ad aggiudicarsi parte dei lavori per la realizzazione del Traforo del Frejus. 

Il solido legame con Inzerillo e i Gambino. Il confino all'Asinara

Nel 1973 l'Interpol segnala la presenza di Lo Presti a New York. Per il suo soggiorno negli Stati Uniti sarà ospite con la moglie e la figlia presso i Gambino di Cherry Hill, nel New Jersey. I fratelli John, Joseph e Rosario Gambino, che avevano soggiornato per un breve periodo a Bardonecchia, negli anni '60, prima di partire per gli Stati Uniti nel 1966. Ad attenderlo e a presenziare all'incontro con i Gambino c’è loro cugino, Salvatore Inzerillo, che s'impegnerà anche a farlo incontrare con Carlo Gambino. Esiste infatti, nelle mani degli inquirenti, una foto che ritrae Lo Presti seduto a un banchetto con Don Carlo Gambino. Si reca anche in Canada, nell'Ontario, con Salvatore Inzerillo sempre al suo fianco. A Toronto risiedono dei cugini e una sorella di Lo Presti. Qui stringe alleanza con i nomi noti del crimine organizzato di Toronto ed Hamilton. Rocco Zito, Mike Racco, Cosimo Stalteri, Jimmy De Leo, Remo Commisso, Nick Coluccio e i Musitano. Successivamente si reca nel Québec, a Montréal e si allea con Vic Cotroni e Paul Violi. Nel gennaio del 1975 la Criminalpol manda in fumo a Bardonecchia un convegno mafioso. Avrebbe dovuto svolgersi un vertice fra mafiosi calabresi, italoamericani e siciliani, ma salta tutto all'ultimo momento, forse perché è giunta notizia di una possibile irruzione della polizia. Si è invece svolta in realtà una cerimonia del tutto innocente: quella del battesimo del secondogenito di Rocco Lo Presti. Tra gli invitati sono presenti anche i Gambino di New York. Nella primavera dello stesso anno, Lo Presti torna di nuovo negli Stati Uniti. Si parla di entrare in rapporti di affari con la Famiglia Gambino. Iniziare a costruire a Miami in Florida assieme a John Gambino e Salvatore Inzerillo. Purtroppo il sogno americano svanisce. Al suo rientro in Italia, la Commissione Parlamentare Antimafia, attirata dai numerosi articoli sui giornali, che già da un anno si sta occupando di lui, manda a Bardonecchia una delegazione presieduta da Pio La Torre, che durante un sopralluogo del 1973 accerta la presenza della criminalità organizzata nella località alpina, individuando in Lo Presti il boss mafioso. L'allora questore di Torino, Emilio Santillo, scrive un voluminoso dossier sull'infiltrazione della 'Ndrangheta in Piemonte, che controlla l'edilizia con particolare riferimento alla sua figura.

Il boss Rocco Lo Presti con il cugino Don Ciccio Francesco Mazzaferro, in un processo del 1974, quando a Bardonecchia dettava legge. 

Grazie a questo dossier, nel 1975, Lo Presti viene accusato di essere a capo del cosiddetto fenomeno del "racket delle braccia" e su richiesta del procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, viene condannato a tre anni di confino sull'isola dell'Asinara, entrando così nel Gotha dei grandi boss mafiosi. Lo Presti verrà catturato quattro mesi più tardi in un cinema in centro a Torino e accompagnato all'Asinara.

Rocco Lo Presti arrestato nel cinema a Torino (1975).Rocco Lo Presti accompagnato dagli agenti al soggiorno obbligato all'Asinara (1975). 

Sull'isola troverà Luciano Liggio, Tommaso Buscetta, Ignazio Pullarà di Palermo, Giuseppe Di Cristina di Riesi, Rocco Gioffrè di Seminara, Francesco Barbaro di Platì.

Il sequestro-omicidio Ceretto. La riabilitazione penale

Nel febbraio 1976 Lo Presti viene prelevato all'Asinara perché accusato di essere il mandante di uno dei sequestri di persona più clamorosi avvenuti in Piemonte negli anni settanta. Il sequestro-omicidio di Mario Ceretto. Un ricco industriale di Cuorgnè, trovato sepolto in un campo ad Orbassano.

Il 23 maggio del 1975 l'industriale verrà rapito e ritrovato morto una settimana più tardi in un campo abbandonato. Lo Presti verrà accusato da Giovanni Caggegi di essere ideatore del rapiment. Vengono coinvolti e arrestati anche Giuseppe Cosimo Ruga di Monasterace, Cosimo Metastasio di Stilo, Sebastiano Giampaolo, Giuseppe Calabrò, conosciuto come "Il dottorino", e Giuseppe Giorgi di San Luca, Raffaele La Scala di Locri, i fratelli Giovanni e Carmelo Iaria di Cuorgnè e Venanzio Tripodo, figlio di "Don Mico", Domenico Tripodo. A Torino intanto, dopo l'arresto di Lo Presti, i clan si riorganizzano. Una dopo l'altra vengono eliminate le persone vicine a Lo Presti. Nel febbraio 1977 Carmine Carmelo Messina, che era stato coinvolto assieme a Lo Presti nell'omicidio D'Aguanno scompare e non verrà mai più ritrovato. Nel luglio 1977, tre killer incappucciati e armati di lupara giustiziano un impresario legato alla 'Ndrangheta. La vittima è Giuseppe Zucco, originario di Ciminà, in Calabria, luogotenente di Lo Presti. Faceva parte dell'organizzazione che reclutava la manodopera per il "racket delle braccia" ed era stato coinvolto insieme a Lo Presti nel traffico d'armi e preziosi provenienti dalla Francia con la mafia marsigliese.

Un momento del tragico confronto tra Rocco Lo Presti e Giovanni Caggegi, suo principale accusatore per il sequestro Ceretto (1978). 

Verranno anche uccisi gli altri due fratelli di Zucco, Rocco e Antonio, anche loro molto vicini a Lo Presti. Nel novembre 1981, Rocco Zucco rimarrà vittima di uno spettacolare attentato autobomba sotto casa in pieno centro a Torino. Nell'ottobre 1982, Antonio Zucco, l'ultimo dei fratelli, coinvolto nel 1963 nel pestaggio dell'ex sindaco di Bardonecchia, Mario Corino per ordine di Lo Presti, verrà ucciso a rivoltellate. Omicidi da inquadrare tutti nella cosiddetta Faida di Ciminà in Calabria. È in questo periodo che si nasconde ancora, una delle pagine più tristi della vita di Rocco Lo Presti. Nel luglio 1978, mentre è in corso il processo di primo grado per il sequestro Ceretto Giuseppe Oppedisano, cognato di Lo Presti, dopo appena nove anni passati in galera per l'omicidio Timpano, folle di gelosia, esce di prigione e ammazza a coltellate la moglie. La vittima è Giuseppa Lo Presti, sorella di Rocco Lo Presti. Una vera mazzata per Lo Presti e la sua nomea di boss della 'Ndrangheta. Chi lo ha conosciuto sostiene che, in quel periodo Lo Presti fosse talmente potente, che non avrebbe mai fatto passare un tale affronto. Perfino Caggegi, che lo accusò del sequestro Ceretto, quando seppe dell'arrivo di Lo Presti nel carcere de Le Nuove di Torino si rifugiò per tre giorni sui tetti del penitenziario per paura di ritorsioni. Oppedisano si suiciderà in carcere. Nel febbraio 1979 verrà trovato impiccato nei bagni del manicomio criminale di Ferrara, lasciando dubbi e incertezze sulla causa di morte. Quattro mesi prima Lo Presti era uscito di prigione.

Per il sequestro Ceretto, Lo Presti verrà assolto in primo grado, ma verrà condannato in appello a 26 anni di reclusione. Lo Presti prevedendo la sentenza di condanna, diserta l'udienza e si rende irreperibile. I suoi legali ricorrono in Cassazione. Lui nel frattempo si rifugia in Francia spostandosi tra Parigi e Marsiglia e facendo qualche buon affare con i marsigliesi. Passerà una latitanza dorata di ben due anni e nel dicembre del 1982 arriva la grande svolta. La Cassazione rinvia clamorosamente, per irregolarità, gli atti alla Corte d'appello di Genova e il giudizio si conclude con un'assoluzione per insufficienza di prove, escludendo Lo Presti definitivamente da ogni coinvolgimento nel caso Ceretto. Anni più tardi si scoprirà che non è stata del tutto casuale questa decisione da parte della Suprema Corte. Rocco Lo Presti avrebbe dato, all'archivista del Vaticano, monsignor Don Simeone Duca, 30 milioni di lire per una sua intercessione presso il magistrato della Corte di Cassazione. Si dice che Don Stilo gli abbia fornito i contatti. Nel 1987 Lo Presti viene arrestato assieme ad altre tredici persone per una truffa di tre miliardi di lire a una banca di Cuneo. Secondo l'accusa Lo Presti avrebbe costretto un direttore di banca per anni a coprire assegni a vuoto. Verrà prosciolto da ogni accusa. Nel 1992 Lo Presti chiede e ottiene la riabilitazione penale. È l'inizio di una nuova vita. Il suo potere si ridimensiona ma non si annienta. Resta nell'ombra, ai margini della criminalità organizzata e delle altre famiglie mafiose rimanendo sempre il "padrino". Gli altri fanno i soldi con il traffico di droga. Lui è contrario. Abbandona l'attività del settore edile e si dedica al commercio e alla politica. Mette su alberghi, ristoranti, pizzerie, bar, discoteche, negozi di abbigliamento e sale giochi. In questo periodo in molti si rivolgono a Lo Presti in occasione di campagne elettorali, grazie al pacchetto di voti appetibile di cui gode. Significativa è stata la campagna elettorale del 1992, a un politico torinese dell'ex Partito Socialista Italiano, che riesce addirittura ad andare alla Camera dei deputati, grazie al suo appoggio. Altri si rivolgono a lui perché ricevono minacce, intimidazioni a scopo di estorsione e chiedono il suo intervento. Nel 1993 viene arrestato a Bardonecchia il nipote di Lo Presti, Giuseppe Ursino, assieme ad altre quindici persone per traffico d'armi e droga. Vengono coinvolti e arrestati anche esponenti dei clan Cataldo di Locri e dei Commisso di Siderno.

L'affare Campo Smith. Bardonecchia, primo comune del nord Italia sciolto per mafia

Nel 1991 Pierluigi Leone, commissario capo di polizia, viene inviato al comando del commissariato di Bardonecchia, ma viene improvvisamente trasferito senza alcun motivo in Calabria, dopo appena due mesi dal suo arrivo. Leone aveva toccato interessi politici forti a Bardonecchia, stava indagando sulla futura realizzazione del complesso Campo Smith e aveva scritto un rapporto investigativo su Lo Presti e proposto una misura di prevenzione nei suoi confronti. Lo stesso Lo Presti lo aveva minacciato e gli aveva fatto capire di essere al corrente di indagini riservate su di lui. Nel 1995 Lo Presti viene nuovamente arrestato perché coinvolto nell'affare Campo Smith. La realizzazione di un mega residence ai piedi degli impianti da sci. Un investimento da cinquanta miliardi di lire. Il lavoro più grosso mai realizzato a Bardonecchia dopo il Traforo del Frejus. Secondo l'accusa Lo Presti sarebbe stato a capo dell'organizzazione che avrebbe gestito l'intera operazione Campo Smith. Viene ingiustamente arrestato il sindaco di Bardonecchia Alessandro Gibello (processato, verrà assolto e risarcito dei danni subiti), e vengono coinvolti nelle indagini tutti i funzionari del Comune per presunti condizionamenti da parte della criminalità organizzata. Viene indagato il maresciallo dei carabinieri, che per anni avrebbe favorito Lo Presti nei loschi affari. Vengono messi sotto sequestro tutti i più grossi cantieri della città e viene coinvolto e arrestato anche Gaetano Belfiore, fratello del noto boss della 'ndrangheta calabrese trapiantato a Torino, Domenico Belfiore, che aveva dei lavori a Bardonecchia. Il 5 maggio del 1995, con decreto del Governo verrà sciolto il consiglio comunale di Bardonecchia. Fino a qualche anno fa, primo e unico comune del nord Italia sciolto per infiltrazioni mafiose. Gli vengono sequestrati beni per un valore di 10 miliardi di lire. Nell'aprile 2001, mentre è in corso il processo a suo carico per l'affare Campo Smith, un collaboratore di giustizia, sostiene di aver appreso in carcere da un certo Musuraci detenuto in Spagna, di un possibile coinvolgimento di Rocco Lo Presti, assieme ai Belfiore e agli Ursino, nell'omicidio dell'ex procuratore capo di Torino Bruno Caccia. Una delle ex amanti di Lo Presti inoltre dichiara ai giudici che all'indomani dell'assassinio del giudice Bruno Caccia, il padrino avrebbe ricevuto una telefonata dal gruppo dei calabresi di Torino in cui gli fu detto: "Rocco ti abbiamo fatto il regalo di compleanno". Bruno Caccia aveva indagato più volte su Lo Presti e fu colui che lo fece mandare al confino all’Asinara. Non si ebbero mai prove di un suo ruolo diretto in questo omicidio e ogni accusa cadde nel vuoto. Anche i collaboratori di giustizia, Giacomo Lauro e Francesco Fonti, dichiarano davanti ai giudici del Tribunale di Torino, dell'esistenza a Bardonecchia, di un locale di 'Ndrangheta, con a capo Rocco Lo Presti e Francesco Mazzaferro, che risale fin dagli anni ‘70. Il pentito palermitano Vincenzo Lo Vecchio, sostiene che Lo Presti e Mazzaferro, sono coinvolti assieme ad altri calabresi, in un grosso traffico di cocaina proveniente dalla Colombia. Ma anche in questo caso, gli inquirenti non sono mai riusciti ad avere prove di colpevolezza nei confronti di Lo Presti.

L'ascesa dei nipoti Ursino. La caduta del Padrino

Dal 2000 in poi a Bardonecchia cambiano gli assetti criminali. A causa delle continue pressioni da parte della magistratura e delle forze dell'ordine, Rocco Lo Presti è costretto a cedere lo scettro di comando ai suoi nipoti prediletti, i fratelli Luciano e Giuseppe Ursino. Con questa mossa, Lo Presti spera di attirare un po' meno l'attenzione su di sé. Convinto poi da tanti anni di impunità, che in caso di guai giudiziari possono al massimo vietargli di uscire da Bardonecchia, dal suo regno, come prevede, ancora oggi, la legge che ha stabilito il soggiorno obbligato nel luogo di residenza. Il nipote, Luciano Ursino, molto presto entra in rapporti di affari con i fratelli Adolfo e Aldo Cosimo Crea, originari di Stilo, in Calabria, boss emergenti della 'Ndrangheta torinese, col giro dei videopoker, rifilando macchine da gioco a più esercenti possibili, da Bardonecchia a Torino. Nel 2003, alla vigilia dei Giochi Olimpici del 2006, s'inizia a parlare di appalti in Val di Susa. I lavori suscitano l'interesse del clan Lo Presti. Arrivano le prime minacce. Il direttore dei lavori dell’autostrada Torino – Bardonecchia (A32) e i dirigenti dell'Agenzia Torino 2006 ricevono per posta buste con proiettili. Gli Ursino riescono a corrompere un ispettore di polizia che li informa sulle indagini e fornirà loro uno scanner per trovare microspie. Nell'aprile 2004 gli Ursino avvicineranno un politico per tentare di ottenere i finanziamenti Ue e metteranno su un giro di usura milionario che si estende da Bardonecchia a Torino. Tra le vittime strangolate dall'usura, vi è un noto personaggio politico dell'ex Psi, che denuncia l'organizzazione, e nel novembre del 2006 viene arrestato Rocco Lo Presti assieme ai nipoti Ursino. Finiscono in manette 15 persone e 14 indagati. Imprenditori e artigiani strangolati con interessi al 120 per cento. In alcuni casi l'organizzazione rileva una quota delle imprese in crisi che si rivolgono ad essa, per poi arrivare a controllare tutte le quote a causa dell'impossibilità dei creditori di far fronte ai pagamenti. A Lo Presti gli vengono nuovamente sequestrati beni per un valore di 2 milioni di euro. Diabetico, nell'ultimo periodo la malattia lo ha indebolito nel fisico e nel ruolo e ormai malato anche di cuore è costretto a continue cure mediche. Passa l'ultimo periodo di vita spostandosi da un ospedale all'altro. Muore d'infarto il 23 gennaio del 2009 nel reparto detenuti dell'Ospedale Molinette di Torino all'età di 72 anni, il giorno dopo la conferma di condanna in appello a sei anni per associazione a delinquere di stampo mafioso per l'affare "Campo Smith", risalente a dieci anni prima. La prima e unica condanna della sua carriera criminale. In pochi parteciperanno ai suoi funerali per timore di controlli da parte delle forze dell'ordine. Lo Presti è stato sepolto nel Cimitero di Bardonecchia.

La prima condanna per mafia nella storia del Trentino-Alto Adige. Stefano Baudino su L'Indipendente il 2 Marzo 2023.

La Corte d’Assise d’appello di Trento ha confermato la condanna per Saverio Arfuso, cinquantenne calabrese di Cardeto, per i reati di associazione di stampo mafioso e riduzione in schiavitù: All’uomo, che è il primo condannato per mafia in Trentino-Alto Adige, erano già stati comminati in primo grado 10 anni e 10 mesi di reclusione. In appello la pena è scesa a 8 anni e 10 mesi, ma solo per un errore nel computo delle aggravanti. Secondo il pubblico ministero, Arfuso avrebbe avuto un ruolo apicale nel business della ‘ndragheta nelle aree dei comuni di Albiano e Lona-Lases. La sentenza ha inoltre riconosciuto 30.000 euro a tre lavoratori cinesi ridotti in schiavitù e 10.000 euro per ciascuno degli enti e delle istituzioni che hanno deciso di costituirsi parti civili.

Quello denominato “Perfido” è il primo grande processo per mafia che si tiene in Trentino. Tutto è nato il 15 ottobre del 2020, quando una maxi-operazione dei carabinieri del Ros ha portato a 19 misure cautelari nei confronti di presunti ‘ndranghetisti accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Partendo da indagini su un grosso giro di affari nel settore del porfido (gli operai cinesi ridotti in schiavitù lavoravano all’interno delle cave), gli inquirenti hanno portato alla luce la capacità operativa nel Trentino di una associazione mafiosa autonoma – con tentacoli in tutto il territorio e solidi “ponti” con la politica e l’economia locale – collegata alla potente famiglia reggina dei Serraino.

Nel frattempo, il 9 febbraio è iniziato un altro filone del processo, che vede alla sbarra anche Innocenzo Macheda, il soggetto che viene inquadrato come il capo dell’organizzazione. Tra gli imputati ci sono anche Giuseppe Battaglia, assessore comunale di Lona-Lases dal 2005 al 2010 con competenza sulle cave, Giuseppe Mario Nania, considerato il braccio della ‘ndrangheta sul territorio, e Antonio Quattrone, che secondo i pm teneva i rapporti tra i membri delle cosche e l’universo imprenditoriale. Nonostante il Tribunale di Trento avesse applicato nei mesi precedenti la misura di sorveglianza speciale per alcuni di essi a causa della loro pericolosità, cinque giorni prima dell’inizio del dibattimento gli imputati sono stati scarcerati dalla Corte d’Assise, che ha però imposto nei loro confronti l’obbligo di firma e di dimora.

Lo scorso dicembre erano arrivate altre pesanti condanne per due imputati che avevano optato per il rito abbreviato, Domenico Morello e Pietro Denise, puniti rispettivamente con 10 e 8 anni di carcere per mafia. Per loro era stata disposta anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’obbligo di risarcimento del danno subito dai lavoratori cinesi ridotti in schiavitù, nonché del danno d’immagine subito dalla Provincia autonoma di Trento. [Stefano Baudino]

Estratto dell’articolo di Camilla Mozzetti per "il Messaggero" venerdì 6 ottobre 2023. 

Non solo mogli, non solo cognate, non solo nipoti. Erano tutto questo certo, ma anche di più: inserite perfettamente nello scacchiere del riciclaggio del denaro dei narcotrafficanti in quel dell'Esquilino. Il sistema, svelato dai finanzieri del Gico sotto la guida della Direzione distrettuale antimafia, era sì guidato da un cinese di 55 anni, Kui Wen Zheng, ma almeno tre donne a lui legate da vincoli parentali diretti e indiretti facevano ampiamente parte della "macchina". 

E non solo per il mero lavoro di contare il denaro, provento della mala romana ma anche della camorra e della ndrangheta. In un equilibrio perfetto le protagoniste di quest'appendice sono, nell'ordine, la moglie di "Luca" (ovvero il cinese a capo della consorteria) Guangduo Pan, classe 1969, che si occupava di gestire i corrieri o "spalloni" in partenza con il denaro dall'aeroporto di Fiumicino.

Segue Xueqian Lin, compagna del fratello di Zheng. La donna, del 1982, in più di un'occasione ha vestito lei stessa gli abiti del "corriere" partendo alla volta della Cina con il denaro ma si occupava, per lo più, di gestire i conti correnti riconducibili all'associazione e che erano stati accesi presso delle banche cinesi. 

Entrambe sono finite ai domiciliari mentre la terza donna, la più giovane, Lishuang Pan, nipote di Kui Wen Zheng era la "buyer" del gruppo. In sostanza la 36enne trasferiva «all'estero il denaro attraverso - scrive il gip Annalisa Marzano nell'ordinanza di custodia cautelare - bonifici bancari legati al fittizio acquisto di merce dalla Cina o attraverso altre operazioni finanziarie avvalendosi dei cosiddetti "buyer"». Partiamo dalla moglie di Zheng. 

La donna esce fuori il 4 novembre del 2019 e figura come «mandante di una spedizione» dall'aeroporto di Fiumicino. Nello specifico Guangduo Pan, in concorso con un altro connazionale che svolgeva il ruolo di corriere, prova a imbarcare su un volo diretto in Cina con scalo in Turchia 773.900 euro. La donna aveva contattato il corriere il giorno prima, chiedendone la disponibilità: «Domani sei libero?» e il corriere le rispondeva: «Va bene, va bene aspetto i vostri ordini». All'uomo arriva così sul cellulare il pdf del biglietto con partenza da Fiumicino alle 15.10 del 4 novembre. I soldi erano nascosti in una valigia ma al momento dell'imbarco della stessa, l'operazione fallisce per il sovrappeso del bagaglio. Per cui il corriere comunica tramite "WeChat" alla Pan il problema: «forse mi sta chiedendo...non so se è sovrappeso o altro, tu che fai, vieni?». 

La donna, che si trovava nei pressi dell'aeroporto, risponde: «Aspetta un attimo mettiti di lato, fai passare altre persone». La situazione non si sblocca, l'uomo che è con un'altra donna esce dal Leonardo da Vinci mentre la Pan a distanza di poche ore gli invia un altro biglietto sempre per raggiungere la Cina con partenza alle 19.15 circa. Il corriere verrà però intercettato e fermato al momento della partenza: «forse c'è un problema», scrisse alla donna che si raccomandava di non dire da dove provenisse il denaro: «Non dire nulla, ammetti che sono tuoi». 

Ma il corriere non sapeva neanche quanto stava trasportando e infatti le risponderà: «Quanto è l'importo?». La Pan replicherà con un laconico «81» a lasciare intendere la cifra di quasi 800 mila euro. Si passa poi alla compagna del fratello di Zheng, ovvero a Xueqian Lin. I finanzieri hanno potuto accertare che la donna in almeno due occasioni - il 14 agosto 2018 e poi il 22 giugno 2019 - ha trasportato del denaro. 

Nel primo caso non è stato possibile quantificarlo, nel secondo la cifra, dedotta attraverso l'analisi dei messaggi, è stata di ben 1.520.000 euro. Il metodo? La Lin saliva sul volo senza imbarcare il bagaglio. A questo ci pensava direttamente Kui Wen Zheng. Lei lo recuperava una volta giunta a destinazione. […]

Estratto dell’articolo de “il Foglio” il 19 luglio 2023.

C’è un processo, anzi un potenziale processo, che racconta più di altri la situazione della giustizia italiana, fatta di lungaggini e burocrazia, documenti che scompaiono, interpreti che non si trovano, e rinvii all’infinito. Nella città di Prato, sede di una delle più grandi comunità cinesi in Italia, nel 2011 dopo un brutale duplice omicidio inizia un’indagine ad ampio raggio […] che mira a smantellare un’organizzazione che, secondo l’accusa, aveva conquistato il controllo del trasporto di merci su strada tra le aziende cinesi in Italia e in parte d’Europa.

Sette anni dopo, nel 2018, le indagini si chiudono con decine di arresti, denunce, perquisizioni. Le accuse sono molte: si va dall’estorsione all’usura, spaccio di droga, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo, e per la prima volta si solleva l’accusa dell’associazione per delinquere di stampo mafioso che riguarda 38 imputati. Ma tutto si complica […] 

L’altro ieri l’ennesimo rinvio: dopo faldoni misteriosamente scomparsi e difficoltà nel reperire gli interpreti per le traduzioni delle centinaia di intercettazioni, “l’elenco delle telefonate da trascrivere” è scomparso, rimasto da qualche parte “nel tragitto virtuale tra la procura distrettuale antimafia di Firenze e il tribunale di Prato”, si legge su Notizie di Prato.

Tutto rimandato al prossimo 16 ottobre. Sembra una maledizione quella che è caduta sul processo denominato, come l’inchiesta, “China Truck”. Eppure si tratta di un processo importante […] Ma le lungaggini della giustizia nel nostro paese, l’unico del G7 a essere entrato nel 2019 nel grande progetto strategico di Pechino della Via della Seta, non fanno favoritismi sovranisti: riguardano gli italiani e i cinesi allo stesso modo.

La "casta" dei mafiosi si sta prendendo l'India. Una famiglia di criminali è il segno dell'epoca Kali Yuga, dominata da materialismo e violenza. Luca Crovi il 2 Agosto 2023 su Il Giornale.

«Mi oppongo alla violenza perché, quando sembra produrre il bene, è un bene temporaneo; mentre il male che fa è permanente». La filosofia di vita del Mahatma Gandhi è opposta da quella incarnata dai protagonisti di un eccellente noir, L'età del male (Einaudi, pagg. 648, euro 22, traduzione di Alfredo Colitto) di Deepti Kapoor che racconta l'ascesa criminale della famiglia Wadia. Questa dinastia ha ramificato e stratificato il male nella nuova India capitalistica, un Paese che non è di certo «per vecchi», né un luogo dove le tradizioni vengono rispettate, bensì una giunga popolata da belve umane.

L'età del male non è il primo romanzo che ci descrive il malessere di una nazione che oggi ha assunto un'identità oscura. Le dodici domande e I sei sospetti di Vikas Swarup (editi da Guanda), Shantaram di Gregory David Roberts (Neri Pozza) e La tigre bianca (Einaudi) di Aravind Adiga hanno già messo il dito nella piaga ed evidenziato le contraddizioni e mostrato le ferite aperte di una società che non ha eliminato le distinzioni di casta e le diseguaglianze sociali e dove la gente, negli ultimi tempi, ha imparato a legalizzare loschi traffici e omicidi. L'occhio di Deepti Kapoor nel raccontare il suo Paese è acuto e il suo stile è secco e diretto, tanto da somigliare a un reportage o a una docufiction (non a caso molti fatti reali sono celati dietro quelli immaginari del libro). Forse per questo l'autrice ci racconta fra le altre peripezie anche quelle di una reporter del Delhi Post che decide di mettersi alle calcagna della famiglia Wadia per carpire i segreti del loro impero. La giovane Neda scoprirà che il loro dominio è stato basato grazie alla speculazione edilizia, alle miniere, agli zuccherifici, ai trasporti. E lei si lascerà abbagliare dal mondo del male.

Seguiamo inoltre le vicende dei due grandi boss Bunty e Vicky che gestiscono gli affari della famiglia in città e in campagna, ma anche quelle del crudele e triste rampollo Sunny e del suo autista Ajay. È il punto di vista di quest'ultimo quello che apre la storia. Ha appena investito per strada cinque derelitti, fra i quali una donna incinta e suo marito, e la polizia lo ha trovato al volante di una Mercedes non sua, ma appartenente a un famoso giocatore di polo. Ajay è ben vestito, profumato, pieno di soldi e ubriaco marcio di whisky. Viene spedito nel penitenziario di Tihar e fin dal suo arrivo scopre che la sua sopravvivenza laggiù non sarà facile. La condanna sembra per lui sicura e i giornali lo hanno già giustiziato mediaticamente. Le gang in carcere lo aggrediscono e deve sopravvivere a violenti pestaggi. È una belva in gabbia e ferita.

Eppure, quando gli inquirenti scoprono che Ajay è legato alla famiglia Wadia la ruota gira e il suo destino muta. Perché non c'è niente che quella banda non possa comprare e mettere a tacere, né nei sobborghi dei villaggi dell'Uttar Pradesh né per le vie di Nuova Dehli. I Wada coltivano il vizio della violenza e ne hanno fatto la loro ragion d'essere. Perché l'India è ormai per loro un luogo senza leggi e senza dèi. Qui le ingiustizie millenarie non sono mai state cancellate e i colonialisti hanno seminato odio e divisioni, hanno cancellato miti e tradizioni facendo capire agli indiani che soltanto violenza e corruzione possono produrre potere e soltanto le nuove caste possono arrivare a gestirlo.

Quello che Deepti Kapoor ci descrive è il «Kali Yuga», ovvero la nuova epoca del declino spirituale in cui i desideri degli uomini diventano insaziabili e la crudeltà, assieme al vizio, è sovrana. Il male non è quindi banale o casuale, ma diventa uno status sociale di sopravvivenza e per mantenerlo attivo bisogna compiere azioni innominabili, come quelle a cui i Wadia sono abituati per mantenere la forza del loro impero. In particolare il giovane Sunny ha scoperto che la vera vita per i rampolli delle nuove gang non consiste più nelle feste nei villaggi, ma nei grandi party di città pieni di donne, alcool, droga. Lui e i suoi amano essere trattati come i ricchi stranieri, girano con macchine di lusso, frequentano locali esclusivi: «spendono. Vogliono tutti i comfort e non coltivano il romanticismo della miseria».

Speculare al racconto de L'età del male è sicuramente il film-documentario Mumbai Mafia: lotta alla criminalità organizzata in India (prodotto nel 2023 da Morgan Matthews e Sophie Jones e diretto da Raaghav Dar e Francis Longhurst) disponibile sul canale Netflix che racconta attraverso interviste e ricostruzioni gli scontri tra la polizia di Mumbai e la mafia indiana capitanata da Dawood Ibrahim, Abu Salem e altri criminali. La connivenza con i poteri politici e la corruzione presente (anche in parte delle forze dell'ordine) aveva prodotto nella città un clima di violenza e insicurezza intollerabile che portò alla decisione di creare una vera e propria task force chiamata «i poliziotti dell'incontro» che potesse combattere autonomamente i criminali facendo un uso speciale delle armi da fuoco e applicando tecniche di arresto che non permettessero nessuno scampo alle gang.

Valigetta e fucile, la mafia indiana nella trilogia del male scritta da Deepti Kapoor. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera lunedì 31 luglio 2023.

Ricchezze immense costruite (anche) grazie alla violenza, lusso sfrenato e sesso: così una scrittrice racconta il lato oscuro del suo Paese. Che un po’ ci somiglia... 

Dawood Ibrahim, 67 anni, qui negli Emirati Arabi, è un gangster e un mafioso indiano, boss della droga a capo della organizzazione D-company

Dimentichiamo i placidi ashram e i fiori di loto, l’hatha yoga e le tigri vegetariane. Dimentichiamo Krishnamurti e Yogananda, il mahatma Gandhi e i suonatori di sitar. Dimentichiamo ciò che vorremmo che l’India fosse, il depliant del nostro tour operator, il blog on the road dei fricchettoni con la GoPro, e apriamo gli occhi su ciò che l’India è. O, almeno, su una delle sue molteplici vedute, una di quelle assai poco turistiche e molto concrete che, proprio per questo, reclamano qualcosa in più delle tre pagine di un depliant. Reclamano quello spazio, quell’ampiezza di trattazione che soltanto un libro può restituire a dovere. L’età del male (Einaudi), della scrittrice Deepti Kapoor - originaria di Moradabad, nello stato dell’Uttar Pradesh - ci parla di un’India violenta, affarista, prevaricatrice, dove la linea di confine tra la mafia, la politica e l’imprenditoria si assottiglia a tal punto da rendere quasi impossibile una definizione accurata dei ruoli sociali.

DAWOOD IBRAHIM, MAFIOSO INDIANO, È BOSS DELLA DROGA A CAPO DI UNA ORGANIZZAZIONE DA LUI CREATA NEGLI ANNI 70 A MUMBAI. E’ RICERCATO IN TUTTO IL MONDO PER OMICIDIO, ESTORSIONE, TRAFFICO DI DROGA E TERRORISMO 

The Guardian ne ha parlato come della risposta indiana a Il Padrino. Ma lei, l’autrice, ha letto il romanzo di Mario Puzo solo dopo aver pubblicato il proprio, proprio perché i giornalisti continuavano a tirarlo in ballo. In questo romanzo, primo di una trilogia, la potentissima famigli’a dei Wadia controlla enormi settori industriali, specula nell’edilizia, impone le proprie regole, si prende ciò che vuole, intere vite, intere famiglie, interi destini, risputandone l’osso. Il rampollo di famiglia è Sunny. Con lui, la giornalista Neda stringe un legame ambivalente, giocato sul filo sottile che separa intimità e doveri professionali e che si dipana in una nazione molto più complessa - e anche tetra, ma non per questo meno seducente - di quanto certa mistica dozzinale e stereotipata sia riuscita negli anni a rappresentare.

Altro personaggio centrale, che fa propria la pagina, è quello di Ajay, autista e factotum, povero figlio di poveri. Anche con lui, come con gli altri protagonisti, la penna di Kapoor riesce a farsi sonda e termometro, a sezionare la società indiana e riuscendo nel difficilissimo compito di rivelarne gli anfratti più bui senza per questo doverli illuminare. (sopra e qui sotto le locandine di due serie tv dedicate ai mafiosi indiani) 

I Wadia sono un universo criminale, governano vite e intere economie. Hanno fondato il loro potere nel sangue eppure ora sono la vita stessa della nazione. Il tuo romanzo è un viaggio nel cuore di tenebra dell’India?

«I Wadia sono al centro di una piccola ma importante parte della nazione, una regione dell’India settentrionale soprannominata cow belt . Anche se altre parti del Paese hanno le loro mafie e criminalità, i Wadia non rappresentano tutta l’India. Ciò che succede in Bengala, Maharashtran, a Goa, in Kerala e in Tamil, in Kashmir, Himachal, Ladakh e Punjab, e in molti altri posti, è diverso rispetto a quanto accade nel mondo del mio romanzo. È utile pensare all’India come a un insieme di stati con un senso (sempre più contestato) di omogeneità nella diversità, come in Europa. A pensarci bene, l’Italia è probabilmente uno specchio abbastanza fedele, una nazione omogenea ma costituita da Stati diversi, ognuno con un dialetto e una cultura che li distingue dal resto del Paese».

«SAREBBE INGENUO CREDERE CHE LA MALATTIA, LA CRIMINALITÀ PROVENGA DALL’ESTERNO. LA MALATTIA È NEL CORPO DELLA NAZIONE, E LA NAZIONE È FATTA DI MENTI E CUORI UMANI» 

«Il mio romanzo ha a che fare con la criminalità della cow belt , dell’India settentrionale. Nello specifico, Uttar Pradesh e Delhi, ma anche Bihar, Madhya Pradesh, Haryana, Jharkhand, Chhattisgarh e Rajasthan. La famiglia dei Wadia controlla, estorce, influenza attraverso la fedeltà politica e gli affari. Loro sanno bene che nulla dura per sempre, tranne il sistema, the game : che ruoti attorno a questioni antiche (casta - varna e jati) o nuove (denaro), quello che resta al centro è sempre il potere. Per molti indiani, il romanzo afferma ciò che tutti già sanno, ciò che è davanti ai loro occhi ogni giorno. Non ho svelato niente, non ho scoperchiato alcun marciume nascosto. Non c’è un modo chiaro per venirne a capo. Quando una famiglia Wadia viene distrutta, un’altra famiglia o un altro gruppo è pronto a prendere il suo posto. Sarebbe ingenuo credere che la malattia provenga dall’esterno. La malattia è nel corpo della nazione, e la nazione è fatta di menti e cuori umani».

Mafia è una parola italiana. Forse la più conosciuta del mondo perché descrive in sintesi ciò che esiste ovunque. Organizzazione, sangue, regole (non leggi). In India la mafia è potentissima. Perché nel mondo si parla cosi poco di mafia indiana? Perché non esiste una vera cultura antimafia in India?

«Bella domanda. Una delle ragioni è che le mafie in India, specialmente nella mia regione, agiscono localmente. C’è la mafia della sabbia, la mafia della terra, la mafia del legname, la mafia dei liquori ecc... Business, racket, prove di forza all’interno dei rispettivi confini. La seconda ragione è che l’India, per molte persone in Occidente, è una terra mistica ed esotica, e c’è un grande desiderio che rimanga nell’immaginario un luogo di spiritualità piuttosto che di criminalità. Molte persone che ho incontrato semplicemente non vogliono sentir parlare di questo tipo di India, perché cozza col loro bisogno di avere uno spazio nel mondo in cui possa radicarsi il loro immaginario spirituale».

DEEPTI KAPOOR HA RACCONTATO LA STORIA DELLA POTENTISSIMA (E IMMAGINARIA) FAMIGLIA WADIA: «L’INDIA SOMIGLIA ALL’ITALIA». E LA LEGALITÀ «È SPESSO GRIGIA E FANGOSA»

«Bisogna anche dire che spesso è difficile distinguere un fenomeno mafioso da un business legale, perché la legalità è spesso grigia e fangosa. Tra un mafioso, un politico e un potente uomo d’affari capita che non ci sia molta differenza. Nel 2019, il 43% dei parlamentari indiani aveva procedimenti penali pendenti a proprio carico. I criminali hanno a lungo controllato la politica indiana. Probabilmente è iniziato nel 1969 quando Indira Gandhi vietò il finanziamento di privati ai candidati alle elezioni, costringendo coloro che cercavano il potere a ottenere finanziamenti da fonti clandestine».

«PER I POVERI È MOLTO DIFFICILE ACCEDERE AI BENI PUBBLICI. IN ALCUNI STATI, I NEGOZI GOVERNATIVI NON FORNISCONO IL NECESSARIO, ANCHE SE SI POSSIEDE LA TESSERA ANNONARIA... È QUI CHE SI INSERISCE IL POLITICO DISONESTO MA ESPERTO»

«Per i poveri è molto difficile accedere ai beni pubblici. In alcuni Stati, i negozi governativi non forniscono il necessario, anche se si possiede la tessera annonaria - e troppi tra i poveri non ce l’hanno. Gli insegnanti non si presentano a scuola. La polizia non registra reati e prevaricazioni, soprattutto se commessi da ricchi e potenti. Gli ospedali pubblici non dispongono di personale adeguato e le medicine che dovrebbero essere gratuite non sono disponibili. È qui che si inserisce il politico disonesto ma esperto».

«NEL 2019, IL 43% DEI PARLAMENTARI INDIANI AVEVA PROCEDIMENTI PENALI PENDENTI A PROPRIO CARICO... IL NESSO CRIMINALE TRA POLITICA E AFFARI È STATO ECLATANTE PER MOLTI ANNI. MA DALL’ARRIVO DI MODI NON SE NE PARLA PIÙ»

Deepti Kapoor, 43 anni, è una giornalista e scrittrice indiana nata a Moradabad, nell’Uttar Pradeshm

«I poveri non hanno il denaro per acquistare, ma dispongono del voto, un bene a cui il politico è molto interessato, così il politico blandisce l’elettore con piccole elemosine, un lavoro qui, un permesso là, e così facendo ottiene il suo favore. È chiaro che esistono anche politici onesti, ma quello furbo, di strada, è più bravo a far girare le ruote della burocrazia. In India, per prosperare nella vita, in politica, negli affari, servono soldi e muscoli. E questo è universalmente riconosciuto».

Puzo, Talese, Scorsese sembrano essere i tuoi riferimenti narrativi, mentre Misha Glenny, Moises Naim sono autori di saggi che immagino tu conosca. Come ti documenti prima di scrivere un libro?

«Onestamente, ho letto Puzo quando il romanzo era già stato scritto, e proprio perché la gente continuava a paragonarli. Sunny non è un richiamo a Sonny del Padrino , ma solo un nome comune nel nord dell’India. Non conosco particolarmente nemmeno Talese, Glenny o Naim. Scorsese forse inconsciamente, perché è inevitabile. Le mie influenze o riferimenti espliciti sono i film di Jia Zhangke, Jacques Audiard, Hou Hsiou Hsien, Bresson, Kurasawa, la scrittura di Bolaño, Dostoevskij e la saggistica indiana come When crime pays di Milan Vaishnav e Feast of Vultures di Josy Joseph. Tutti riferimenti maschili, è vero, ma per tutta la vita sono stata accusata, nel bene e nel male, di pensare o comportarmi come un maschio. Ad ogni modo, penso sia importante ribadire che la vita è venuta prima, e che tutto è stato filtrato attraverso i miei occhi e le mie orecchie. Mi sono trovata nella posizione perfetta per scrivere questo romanzo».

«I MIEI GENITORI ERANO BORGHESI, SONO ANDATA A SCUOLA CON I FIGLI DI QUELLI CHE SAREBBERO DIVENTATI I SUPER RICCHI: NON LI SPIAVO, ERO UNA DI LORO»

«Ho frequentato gente potentissima perché siamo andati a scuola insieme (sono stata mandata lì per sfuggire alla Guerra del Golfo - mio padre aveva un incarico alla Banca di Stato in Bahrain). Venivo da una famiglia borghese liberale e agiata, per niente povera, ma neanche ricca, per gli attuali standard dell’India. Ho frequentato persone immerse nel nuovo lusso, o meglio, ho frequentato i figli di quelli che sarebbero diventati molto presto super ricchi, una volta che l’economia fosse stata liberalizzata. A vent’anni ero una di loro ma, diversamente da loro, ero una giornalista di giorno e una festaiola di notte. Frequentavo le loro case e luoghi lussuosi riservati ai vip, poi, al mattino, tornavo a casa oltre il fiume da mia madre e mia nonna - in una casa sprofondata nel dolore, con tristi storie alle spalle. Non ero una giornalista infiltrata. Non covavo un ardente desiderio di giustizia. Non stavo spiando. Ero una di loro, pronta come loro a finire nei casini. E l’idea iniziale del romanzo era qualcosa di simile a un Il grande Gatsby ambientato a Delhi, focalizzato su Tom e Daisy e su come distruggono vite. L’idea iniziale è nata guardando il vero Sunny giocare con la vita di qualcuno, una notte, mentre contava sul fatto di potersi nascondere dietro la propria ricchezza, il proprio potere. È stato allora che mi sono resa conto di non voler più essere testimone o complice». 

«IL PADRINO DI MARIO PUZO L’HO LETTO SOLO DOPO AVER SCRITTO IL LIBRO. IO MI SONO ISPIRATA A KUROSAWA E DOSTOEVSKIJ»

Il tuo romanzo è il racconto di come la miseria alimenti gli eserciti di criminali che in realtà sono borghesie industriali: il loro capitale è fondamento dei capitali legali. Il capitalismo è ormai tutto criminale, e guardando l’India sembra evidente. Il libro sembra raccontarlo in modo chiaro. È questo che pensi?

«Il nesso criminale tra politica e affari è stato per molti anni così eclatante, sfacciato e fuori controllo, che qualcosa doveva cambiare. Quel cambiamento è arrivato con Modi, ma l’unica cosa che è veramente cambiata è la dimensione della truffa e quanto sono bravi a farla franca. Ecco: da questo punto di vista ci sono stati dei progressi. Siamo stati nel selvaggio west del capitalismo più spregiudicato per tantissimo tempo - un mondo così amaramente, comicamente e apertamente violento che stenti a crederci. E ora stiamo entrando in una fase di silenzio e controllo dei media, dove, per citare The Wire , la valigetta vince sul fucile e la violenza non è perpetrata direttamente da chi detiene il potere, ma piuttosto dai suoi seguaci».

Sesso e crimine organizzato: in India è un tema frequentato, e anche nel tuo romanzo ha un ruolo d’eccesso e di violazione delle regole, ma anche di rischio estremo, vedi Neda e Sunny....

«Traffico di donne e prostituzione restano un flusso di entrate per la parte della famiglia controllata da Vicky, mentre il sesso come eccitazione e pericolo è presente nelle vite di Sunny e Neda. Anche se per me non c’è mai stata una connessione esplicita tra sesso e crimine. Neda si è semplicemente innamorata di un ragazzo di cui era infatuata e incuriosita, hanno fatto sesso e per lei era una cosa intima, reale, passionale, eccitante, che è stata distrutta dalle azioni di Sunny. E una volta che Sunny ha fatto quello che ha fatto, il piacere della carne si è spento nel mondo di lui e anche in quello di lei. I loro mondi, come conseguenza delle loro azioni, diventano sterili, fragili e annodati fra loro».

È doloroso, ma ti chiedo: scegli il personaggio preferito del romanzo.

«Ognuno di loro ha le sue virtù. Detesto amare così tanto Ajay o quanto lo amano gli altri. Voglio odiare Sunny più di quanto lo odi già, ma allo stesso tempo vorrei anche che avesse un’esistenza migliore e più felice, così sarebbe più facile scriverne. Ho una relazione complicata con Sunny. Mentre mi accingevo a scrivere questo romanzo, volevo distruggerlo. Scarnificarlo. A causa di un livore personale. Ma non potevo farlo, non potevo fare a meno di identificarmi con lui. All’inizio ho adorato Neda perché scrivevo di lei partendo da ricordi felici di me stessa a Delhi, prima che le cose diventassero più complicate. Poi tutto si è inacidito. So perché fa quello che fa, ma non sono d’accordo con lei man mano che le cose vanno avanti e si allontana da quella che è stata la mia vita (in effetti, tutto il suo background familiare è molto lontano dal mio). Adesso sono molto ambivalente nei confronti di Neda. Ho bisogno di perdonarla mentre cerca di perdonare sé stessa. Con Ajay devo fare lo sforzo di non trasformarlo in un eroe, perché non è la realtà dei fatti. Eppure... è un eroe. E nel secondo libro sta crescendo. Prova a ricostruirsi un’identità politica e sessuale, e a forgiarsi un carattere più indipendente. Ammesso che una cosa del genere sia possibile».

CHI È DEPTI KAPOOR 

LA VITA - Deepti Kapoor, 43 anni, è una giornalista e scrittrice indiana nata a Moradabad, nell’Uttar Pradesh: ha vissuto a Delhi e a Goa prima di trasferirsi in Portogallo, a Lisbona.

IL SUCCESSO LETTERARIO - Il suo primo romanzo, A Bad Character è stato pubblicato nel 2015. L’eta del male, suo secondo libro e primo volume di una trilogia, è stato pubblicato quest’anno: venduto in 35 Paesi, diventerà presto una serie tv.

(ANSA l’8 marzo 2023) Termina con l'arrivo all'aeroporto di Ciampino la lunga latitanza di Jeff Joy, 48enne nigeriana ricercata dal 2010 anche in campo internazionale per i reati di associazione per delinquere, riduzione in schiavitù, tratta di persone, sfruttamento della prostituzione, e condannata in via definitiva alla pena di tredici anni.

 Jeff Joy è una delle poche donne inserite nell'elenco dei 100 latitanti pericolosi, redatto dal Gruppo Integrato Interforze per la Ricerca dei Latitanti della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza, come esponente di spicco della mafia nigeriana, cosiddetta black mafia.

Secondo le indagini, la donna aveva un ruolo di primo piano nel favorire l'arrivo in Italia, Olanda e Spagna, di ragazze nigeriane che venivano avviate alla prostituzione con l'uso di violenze e minacce di ogni genere, estese anche ai familiari rimasti in patria.

 La latitante è stata arrestata il 4 giugno 2022 in Nigeria dai locali servizi di intelligence ed oggi è stata estradata in Italia. L'estradizione rappresenta un unicum nei rapporti fra l'Italia e la Nigeria essendo il primo caso pilota nell'attuazione del Trattato di estradizione entrato in vigore nel 2020.

Estratto dell’articolo di Pierangelo Sapegno per “La Stampa” il 9 marzo 2023.

Quando è scesa dall'aereo a Ciampino, così alta e impacciata nella sua tunica africana, scortata stretta da due agenti della polizia, uno faceva persino fatica a capire che cosa ci facesse lì in mezzo. […]  Zoppicava e l'hanno dovuta mettere su una sedia a rotelle. Ma Momy, come la chiamano, non è una qualunque. È una delle cento persone più ricercate al mondo. Si chiama Jeff Joy. E l'Italia le dava la caccia dal 2010.

 […] una battaglia, cominciata nel 2006, quando una giovane prostituta nigeriana si era coraggiosamente ribellata alla schiavitù e alle minacce tribali della Black Mafia, denunciando la Madame che gestiva il traffico della prostituzione, questa signora dalle maniere apparentemente garbate che si nascondeva sotto varie identità: Jeff Joy, alias Omoruy Chrity, detta Momy, nata il 12 aprile 1975.

Nel 2013 era stata condannata a 13 anni di carcere per associazione a delinquere, tratta degli esseri umani e sfruttamento della prostituzione, ma lei ormai si era già eclissata da tre anni, sparendo dai radar della polizia italiana. Da allora, Momy è diventata una delle cento persone più ricercate del mondo, una donna che ha scalato le gerarchie del potere all'interno di un'organizzazione criminale dalle regole molto rigide e dalle strutture verticistiche, per alcuni aspetti simili a quelle della ‘ndrangheta, fondata su omertà e timore diffuso negli adepti esercitato anche attraverso antichi riti tribali e violenze spietate.

 Momy è stata arrestata in Nigeria il 4 giugno del 2022 dal Department of State Services in esecuzione di una «red notice» emessa dall'Italia, operazione complessa, perché la Black Mafia gode in patria, per motivi storici, di grandi appoggi e coperture a tutti i livelli.

La giovane prostituta che si era ribellata alle sue leggi feroci aveva sollevato per la prima volta un velo sulla mafia nigeriana. Aveva raccontato nei dettagli come vengono reclutate e schiavizzate le ragazze come lei: pagano loro il viaggio per arrivare in Europa, con una cifra inarrivabile considerando le loro misere condizioni economiche, e sono costrette a restituire quei soldi mercificando il loro corpo. Dopo una iniziazione voodoo, che prevede anche le minacce ai familiari, danno loro i vestiti e le buttano sulla strada.

 Quello che non tutti sanno è che la Black mafia si forma nella società alta del Paese, composta da persone con un elevato grado di istruzione. Nasce negli Anni 80, in seguito alla crisi del petrolio, che aveva portato i gruppi dirigenti a cercare l'appoggio della criminalità per mantenere i propri privilegi. In cambio, ottengono la protezione necessaria per poter svolgere indisturbati i loro traffici, contando sull'appoggio di una parte del mondo politico, oltre che sullo scarso controllo dello Stato.

 […]

I vertici sono in genere maschili per le attività di narcotraffico e le truffe telematiche, femminili per lo sfruttamento della schiavitù sessuale. In genere la figura della Madame è molto spesso, come nel caso di Jeff Joy, una ex prostituta che riesce a passare dall'altra parte della barricata, o immigrate con regolari permessi di soggiorno che si adoperano come corrieri della droga conquistando la fiducia dei boss. Jeff Joy ha scalato le gerarchie partendo dal basso.

Quando viene denunciata dalla giovane ribelle, lei è a capo di una vasta zona della Riviera adriatica, che parte da Rimini e attraversa le coste marchigiane. Dietro quell'apparenza persino signorile con cui si presenta, viene descritta come una donna dura e spietata.

 […] Prima di farsi largo in Italia ha stretto alleanze con la mafia e la 'ndrangheta.  A Palermo, nel quartiere storico di Ballarò, ha gestito lo spaccio e la prostituzione sotto la guida di Giuseppe Di Giacomo, boss del clan Portanuova ucciso nel 2014. E in Campania, invece, in alcune zone ha finito persino per prendere il posto dei casalesi quando questi hanno cominciato a essere colpiti seriamente dalle indagini di polizia. Adesso i maggiori alleati della Black Mafia sono cinesi e albanesi.

E tanto per capire com'è cambiato il loro ruolo all'interno delle organizzazioni criminali, basti sapere che oggi per portare la droga nel nostro Paese utilizzano anche corrieri italiani, nuovi soldati della mala, remunerandoli con tremila euro per ogni trasporto. […] 

Jeff Joy estradata in Italia, la “maman” della Black Mafia nigeriana era tra i 100 latitanti più ricercati. Antonio Lamorte su Il Riformista l’8 Marzo 2023

Jeff Joy favoriva secondo le indagini il traffico, l’arrivo in Italia e non solo di ragazze africane che veniva sfruttate nel giro della prostituzione. La donna, definita la “maman” della Black Mafia nigeriana, era inclusa nella lista dei 100 latitanti più ricercati al mondo, “Most Wanted”. È stata estradata stamattina in Italia, è atterrata all’aeroporto di Ciampino, dopo il lungo lavoro della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza in collaborazione con le autorità nigeriane.

Jeff Joy ha 48 anni. Era ricercata dal 2010 anche in campo internazionale. A suo carico le accuse per reati gravissimi: associazione per delinquere, riduzione in schiavitù, tratta di persone, sfruttamento della prostituzione. È stata condannata in via definitiva alla pena di tredici anni. Il traffico di ragazze che gestiva, secondo le indagini, si serviva di violenze e minacce di ogni genere, anche ai familiari delle ragazze che venivano fatte arrivare in Italia, Spagna e Olanda. Era una delle poche donne inserite nell’elenco dei 100 latitanti più pericolosi redatto dal Gruppo Integrato Interforze per la Ricerca dei Latitanti della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza.

La Polizia scrive in un comunicato che l’estradizione rappresenta “un unicum nei rapporti fra l’Italia e la Nigeria essendo il primo caso pilota nell’attuazione del Trattato entrato in vigore nel 2020”. La donna era stata arrestata il 4 giugno in Nigeria in un’operazione condotta dai servizi di intelligence locali – Department of State Services (DSS) – in esecuzione della red notice emessa dall’Italia. L’arresto era arrivato alla fine di una fitta attività di collaborazione e di ricerca svolta anche con missioni in Nigeria da parte di funzionari del Servizio per la cooperazione internazionale di Polizia (SCIP).

La Black Mafia nigeriana è considerata una delle organizzazioni criminali emergenti più potenti al mondo. È ormai ben radicata in Italia, e da anni. L’ultimo rapporto semestrale della Direzione Investigativa Antimafia la descriveva così: “L’estrema pericolosità della criminalità organizzata nigeriana è dimostrata dalla sua capacità di insediarsi proficuamente in ambiti territoriali comunemente caratterizzati da un basso spessore delinquenziale e dalle gravi conseguenze talvolta prodotte nel tessuto sociale”. È strutturata nei cosiddetti “secret cults”, organizzazioni segrete, ed è fortemente concentrata in Abruzzo, Sicilia, Sardegna, Campania ma anche in Veneto, Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Lazio. I secret cults più potenti e numerosi in Italia sono quattro: Maphite, Black Axe, Supreme Eiye e Vikings.

L’organizzazione è stata paragonata alla ‘ndrangheta: autonomia d’azione sul territorio e al tempo stesso grande rispetto per un sistema centrale, si potrebbe dire anche federale. Non è, o non è più, soltanto manovalanza criminale per organizzazioni italiane. È da considerarsi autonoma ed egemone nei suoi territori. La Dia ha misurato un incremento costante e progressivo del flusso di denaro che ogni anno parte dall’Italia verso la Nigeria. Dal 2018 al 2019 è salito del 42,4%. La stessa Direzione spiegava che “costituiscono un fattore di coesione molto elevato le ritualità magiche e fideistiche che, unite al vincolo etnico e alla forte influenza nella gestione da parte delle lobby in madrepatria, producono un forte assoggettamento psicologico, usato solitamente per lo sfruttamento della prostituzione di giovani donne costrette in schiavitù da dove è difficilissimo svincolarsi”.

L’Africa – ha sottolineato a margine dell’operazione il prefetto Vittorio Rizzi, direttore centrale della polizia criminale da cui dipende la cooperazione internazionale operativa di polizia – si conferma oggi un’area strategica per la ricerca latitanti e il contrasto al crimine organizzato. I Paesi africani in via di sviluppo rappresentano poi dei luoghi elettivi per il riciclaggio dei capitali illeciti della criminalità organizzata e l’Italia è impegnata a livello internazionale per agevolare, attraverso strumenti penali ed amministrativi, il tracciamento dei patrimoni illeciti delle mafie per il loro sequestro e confisca”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Accadde Oggi 2 dicembre – Muore Pablo Escobar, ucciso nei sobborghi di Medellin in uno scontro a fuoco. Tra gli altri fatti del giorno viene diffusa la notizia che la Rai pagherà la tredicesima ai suoi 13.000 dipendenti solo a gennaio, perché non ha sufficiente liquidità per farlo nel mese di dicembre. Franco Bellacci su Il Riformista il 2 Dicembre 2023

Giovedì 2 dicembre 1993

Pablo Escobar Gaviria, il narcotrafficante più ricercato del mondo, è stato ucciso nel pomeriggio in uno scontro a fuoco coi reparti speciali dell’esercito colombiano nei sobborghi di Medellin, la città in cui era nato 43 anni fa e dove aveva fondato il più famoso e famigerato “Cartello” della droga di tutta l’America latina. Escobar era inseguito ormai da sedici mesi, dopo la fuga dalla prigione dorata a Evingado. Franco Bellacci

(ANSA domenica 24 settembre 2023) Nel loro insieme, le organizzazioni narcos possono essere considerate "il quinto datore di lavoro in Messico. Nel 2022 i cartelli contavano tra i 160mila e i 185mila affiliati, con un reclutamento di oltre 350 persone ogni settimana, per garantire la propria sopravvivenza". Emerge dalle conclusioni del rapporto "Ridurre il reclutamento nei cartelli è l'unico modo per ridurre la violenza in Messico" pubblicato dalla rivista Science.

Secondo il rapporto, guidato da Rafael Prieto Curiel del Centro per le scienze complesse di Vienna, l'aumento delle carcerazioni è direttamente proporzionale ad una crescita dei gruppi criminali in termini numerici. Il cartello col maggior numero di membri è Jalisco New Generation (17,9%), il più violento di tutti. Seguono il cartello di Sinaloa (8,9%) e la Nueva Familia Michoacana (6,2%). 

Fentanil, metanfetamine, cocaina e marijuana nel narcotraffico di Ovidio Guzman Lopez: oggi estradato negli Stati Uniti. Il criminale era stato arrestato il 5 gennaio in un’operazione condotta dall’esercito messicano a Jesus Maria, un piccolo centro nello stato di Sinaloa. Redazione su Il Riformista il 16 Settembre 2023 

Il narcotrafficante messicano Ovidio Guzman Lopez, figlio di Joaquin “El chapo” Guzman, è stato estradato dal Messico negli Stati Uniti per affrontare un processo legato al traffico di droga, con accuse relative alla compravendita di fentanil, metanfetamine, cocaina e marijuana.

Le autorità statunitensi avevano formalmente richiesto l’estradizione di Ovidio Guzman nel mese di febbraio di quest’anno, ma la decisione è stata annunciata soltanto nelle scorse ore dal procuratore generale degli Stati Uniti, Merrick Garland.

Il criminale era stato arrestato il 5 gennaio in un’operazione condotta dall’esercito messicano a Jesus Maria, un piccolo centro nello stato di Sinaloa, ed era stato detenuto da allora nel carcere di massima sicurezza di Altiplano. Le fonti ufficiali del governo messicano hanno confermato che gli agenti dell’Interpol si sono recati nella prigione federale dell’Altiplano ieri, intorno alle 13, per eseguire l’ordine di estradizione.

Al momento, Ovidio Guzmán è già a Chicago. Complessivamente, il governo degli Stati Uniti ha raccolto undici accuse penali contro Lopez, identificato dalle autorità come erede del cartello di Sinaloa fondato dal padre, che avrebbe anche aiutato, assieme ai suoi tre fratelli, a fuggire dalla stessa prigione federale dell’Altiplano nel 2015.

Messico, fine della corsa per Ovidio Guzman: che succede al figlio di “El Chapo”. Il Tempo il 16 settembre 2023

Ovidio Guzman, uno dei figli di Joaquin «El Chapo» Guzman, è arrivato negli Stati Uniti dopo essere stato estradato dal Messico. «Questa azione è l’ultimo passo nello sforzo del Dipartimento di Giustizia di colpire tutti gli aspetti delle operazioni del cartello di Sinaloa», ha dichiarato in un comunicato il procuratore generale degli Stati Uniti Merrick Garland. Guzman, arrestato dalle autorità messicane nel gennaio di quest’anno, era uno dei narcotrafficanti più ricercati di Washington per il suo coinvolgimento nel traffico di fentanyl, e ora deve affrontare una serie di accuse federali in diversi tribunali del Paese.

Nell’aprile di quest’anno, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha presentato in tre diversi distretti federali le accuse contro Guzman e tre dei suoi fratelli per aver presumibilmente assunto la leadership del Cartello di Sinaloa dopo l’arresto e la successiva estradizione del padre negli Stati Uniti. Le accuse, nel Distretto meridionale di New York, nel Distretto settentrionale dell’Illinois e nel Distretto di Columbia, sono state emesse nell’ambito di un’indagine sulla «più grande e prolifica operazione di traffico di fentanyl al mondo», guidata dal cartello e «alimentata da aziende farmaceutiche cinesi».Il cartello di Sinaloa, secondo Washington, è il «cartello della droga più potente del mondo» ed è in gran parte responsabile della produzione e della fabbricazione di fentanyl per la distribuzione negli Stati Uniti, dove la droga, considerata 50 volte più potente dell’eroina, è «la principale causa di morte tra gli americani tra i 18 e i 49 anni». Guzman e i suoi fratelli, noti come «Chapitos», sono stati anche accusati di aver trasportato «sistematicamente» tonnellate di cocaina da e attraverso il Sud e il Centro America verso gli Stati Uniti. 

L’esercito messicano ha arrestato Guzman il 5 gennaio nello Stato settentrionale di Sinaloa e successivamente lo ha trasferito nel Centro federale di riadattamento sociale (Cefereso) numero 1 Altiplano, noto anche come carcere di Almoloya, situato nello Stato del Messico, dove era detenuto anche il padre, evaso da lì nel 2015. L’arresto è stato una sorpresa, poiché è avvenuto pochi giorni prima della visita del presidente statunitense Joe Biden in Messico per il vertice dei leader nordamericani, anche se il presidente messicano Andrès Manuel Lòpez Obrador ha negato qualsiasi collegamento tra i due eventi. Gli Stati Uniti, che dal dicembre 2021 offrivano 5 milioni di dollari per la sua cattura, hanno accusato il presunto narcotrafficante di reati legati all’associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di droga nel Paese.  

Il figlio di «El Chapo» estradato negli Usa. Il figlio del signore della droga dovrà affrontare numerosi processi. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 16 settembre 2023 

Il 33enne arrestato a gennaio sarebbe atterrato a Chicago. È accusato anche a New York e Washington. Insieme ai fratelli Ivan e Jesus aveva guidato il cartelli di SInaloa 

Alle 10 di venerdì mattina Ovidio Guzman Lopez è salito a bordo di un piccolo jet Bombardier ed è stato trasferito a Teterboro, New Jersey, Usa. Un aereo simbolo. E’ lo stesso velivolo usato dai federali messicani per trasportare il padre, Joaquin detto «El Chapo», dopo la terza cattura nel 2016. La tradizione continua. Perché entrambi sono ora nelle mani della Giustizia americana, poco clemente a meno di non dire tutto ciò che si sa. E Ovidio, a leggere le carte investigative, potrebbe “cantare” per settimane.

Insieme ai fratelli Ivan e Jesus , ha guidato il cartello di Sinaloa. Sono i Los Chapitos, gli eredi dell’impero messo in discussione dai nemici, come Jalisco o ex sodali, e dalle immancabili dispute interne che si trasformano in faide con montagne di cadaveri. Dovrà affrontare numerosi processi, probabilmente il primo a Chicago, una delle metropoli americane dove la sua organizzazione ha messo radici, poi ve ne saranno altri in quanto i trafficanti hanno creato una rete gigantesca, con reati sparsi. Città trasformate in depositi, centri di distribuzione, spaccio. Con conseguenze devastanti sul tessuto sociale in quanto i narcos hanno stretto patti con gang di quartiere, a loro volta impegnate in lotte per il controllo del mercato. Inseguiti da taglie milionarie statunitensi, protetti da sicari e collusioni, i figli del padrino hanno continuato a gestire gli «affari» mentre, nel contempo, hanno ingaggiato scontri durissimi con i concorrenti. Ovidio, noto anche come El Bebè, 33 anni, era stato preso una prima volta nel 2019 a Culiacan, però era stato rilasciato dopo le minacce dei complici. Una liberazione scandalosa, una pagina di storia ribattezzata il «Culiacanazo». Il Messico, se avesse voluto dare una prova di efficienza, avrebbe dovuto trovare una risposta e alla fine di gennaio è riuscito a riprenderlo, sempre a Culiacan. Operazione accompagnata dalla reazione successiva dei seguaci, quasi 30 le vittime. Interessante, però, che alla fine abbiano deciso di “passare” il prigioniero dall’altra parte del Muro, consegnandolo ad una magistratura che lo aspetta con un file d’accuse gigantesco.

Nell’atto di incriminazione contro i Los Chapitos sono inseriti omicidi, stragi, invio di droga con aerei, semisommergibili, tunnel e qualsiasi cosa sia utile per questa missione. Quindi rapimenti, torture indicibili sulle loro vittime, negli atti sono descritte in particolare quelle inflitte a due agenti. C’è poi una nota precisa sulla diffusione negli Stati Uniti del fentanyl, droga potente mescolata ad altre sostanze responsabile di centinaia di overdose letali. Minaccia immensa. E’ un veleno prodotto in laboratori sul territorio messicano con l’uso di precursori provenienti dalla Cina, accusata a sua volta di fare poco per prevenire il contrabbando. Un fonte di tensione aggiuntasi al contrasto diplomatico Washington-Pechino.

I dossier parlano da soli, la Legge statunitense può essere veloce nel giudicare, ha carceri speciali per criminali di livello. Ovidio ha davanti a tre modelli. Il primo è quello del padre, chiuso nel suo silenzio, non collaborativo e imprigionato in Colorado. Il secondo è incarnato dalla moglie del boss, Emma Coronel, liberata pochi giorni fa dopo aver scontato meno di tre anni in un penitenziario della California. Buona condotta. Il terzo è il pentimento di diversi gangster messicani una volta messi nelle mani dei “gringos”. Scelta non priva di rischi – la vendetta è dietro l’angolo – e nel caso di Ovidio più complessa perché dovrebbe testimoniare contro i fratelli.

El Chapo è rinchiuso in isolamento nel carcere di Florence, Colorado. Una Cayenna di cemento armato. Ma all’esterno il suo «mondo» continua a muovere.

Il Poast su Il Corriere della Sera il 15 aprile 2023 

Quattro figli del narcotrafficante messicano “El Chapo” sono stati incriminati negli Stati Uniti per traffico illegale di oppioidi 

Quattro figli del narcotrafficante messicano Joaquín Guzmán Loera, più noto come El Chapo, sono tra le persone incriminate negli Stati Uniti per traffico illegale di fentanyl, un antidolorifico oppioide molto più potente della morfina. Le 28 persone sono ritenute vicine al cartello di Sinaloa, una delle organizzazioni criminali più ricche e violente al mondo, e i quattro figli di El Chapo a essere stati incriminati sono Ovidio Guzmán López (arrestato in Messico a inizio gennaio), Jesús Alfredo Guzmán Salazar, Iván Archivaldo Guzmán Sálazar e Joaquín Guzmán Lopez (che ha lo stesso nome del padre). I quattro – tre dei quali ancora in libertà – sono anche noti come Los Chapitos.

Alcune tra le 28 persone incriminate vivono in Messico, una in Guatemala e altre ancora in Cina, da dove si ritiene provenga la maggior parte del fentanyl poi venduto illegalmente negli Stati Uniti; otto sono già in carcere. Il procuratore generale Merrick Garland ha detto che l’indagine riguarda «la più grande, violenta e prolifica operazione mondiale di traffico illecito di fentanyl». 

Scarcerata la moglie del “Chapo”: Emma Coronel esce di prigione dopo 3 anni. I due sono sposati dal 2007, quando la donna era ancora un’adolescente. Alessandro D'Ercole su lavocedinewyork.com il 13 settembre 2023 

Emma Coronel, la 34enne moglie dell’ex re del narcotraffico messicano Joaquín «El Chapo» Guzman, sarà liberata oggi a Los Angeles dopo il suo arresto nel 2021 con l’accusa di traffico di droga. Lo rende noto la direzione dei penitenziari Usa.

La donna era stata condannata a tre anni di prigione nel 2021 dopo essersi dichiarata colpevole di tre capi di imputazione per aver aiutato il cartello della droga di Sinaloa, inclusi la cospirazione per riciclare denaro, distribuire droghe illegali e realizzare operazioni finanziarie. Coronel ha anche ammesso di aver fatto da corriere tra Guzmán, che guidava il cartello, e altri membri dell’organizzazione mentre era detenuta nella prigione messicana di Altiplano dopo il suo arresto nel 2014.

I due sono sposati dal 2007, quando la donna era ancora un’adolescente. Figlia di Ines Coronel Barreras, membro del Cartello di Sinaloam arrestato nell’aprile del 2013 e condannato a 10 anni di carcere per traffico di marijuana e di armi da fuoco, da moglie del “Chapo” non si è fatta mancare nulla. Per l’FBI, dal 2012 al 2014 ha trasmesso messaggi per conto di Guzmán mentre lui fuggiva dalle autorità messicane. Il ruolo da intermediaria è proseguito anche dopo il primo arresto del 2014, grazie alle visite che regolarmente gli faceva in prigione.

Ex reginetta di bellezza, dietro l’aspetto curato di Coronel si nasconde un’abile trafficante di cocaina, metanfetamina, eroina e marijuana. Tutto nel mercato degli Stati Uniti, Paese di cui lei ha la cittadinanza e nel quale il “Chapo” ha costruito la sua enorme ricchezza. Si racconta che fosse potente tanto quanto il re dei narcotrafficanti sudamericani, Pablo Escobar, e che sia stato il primo a immettere in modo massiccio sostanze stupefacenti nel mercato targato USA, proprio grazie a una rete di tunnel scavati sotto i confini meridionali degli States.

Il giudice che ha emesso la sentenza ha affermato che la donna ha rapidamente ammesso la sua responsabilità e ha accettato di devolvere quasi 1,5 milioni di dollari di proventi della sua attività criminale al governo degli Stati Uniti. Alessandro D'Ercole

Estratto dell'articolo di Paolo Manzo per ilgiornale.it domenica 27 agosto 2023.

Ieri il quotidiano messicano Milenio ha rivelato che sono stati trovati dei forni crematori gestiti da Los Chapitos, la fazione del cartello di Sinaloa guidata dai figli del «Chapo» Guzmán nella regione di Altos de Jalisco. Si tratta di fornaci di mattoni usate per smaltire i corpi delle loro vittime. Milenio ha scoperto che a Teocaltiche, città di oltre 40mila abitanti, l'uso delle fornaci come forni crematori per far scomparire testimoni scomodi avviene per ordine di Erick Lara, il boss locale de Los Chapitos. [...]

Le autorità messicane sanno bene che il cartello di Sinaloa e il cartello di Jalisco Nueva Generación si combattono da anni per il controllo di Los Altos de Jalisco. Questo ha trasformato città come la già citata Teocaltiche ma anche Lagos de Moreno, Encarnación de Díaz e San Juan de Los Lagos in una zona di guerra, con migliaia di desaparecidos. 

Un audio del 2020 in cui si sentono i comandanti della Procura Specializzata per le Persone Scomparse di Jalisco spiegare al personale dell'agenzia messicana per la ricerca dei desaparecidos come vengono usate queste fornaci per far sparire i corpi è stato reso noto dal Milenio, che ha così dimostrato come la situazione sia conosciuta alle autorità del paese del tequila.

Per i parenti degli oltre 100mila desaparecidos messicani è uno scandalo che le autorità lo sapessero da almeno tre anni e non abbiano fatto assolutamente nulla al riguardo. Ma soprattutto è incredibile che il governo di Jalisco non appoggi i gruppi dei parenti degli scomparsi. L'agenzia statale di ricerca dei desaparecidos ha infatti detto loro che non può accompagnarli nelle perquisizioni delle fornaci perché «sono di proprietà privata». [...]

Estratto dell'articolo di lastampa.it il 23 aprile 2023.

I procuratori messicani hanno dichiarato sabato di aver sequestrato un'enorme collezione di animali esotici, tra cui 10 tigri, sei giaguari, cinque leoni e altre specie nello stato messicano di Jalisco, territorio dell'omonimo cartello di droga. 

Le autorità non hanno identificato il proprietario del terreno in cui sono stati trovati gli animali. Gli agenti hanno trovato nella proprietà anche antilopi, un lama, cervi e uccelli. Sembra che gli animali fossero tenuti in recinti, stalle e gabbie in un'ampia area.  

Il sequestro è avvenuto una settimana dopo che i procuratori statunitensi hanno rivelato dettagli macabri su come alcuni signori della droga utilizzino le tigri. "Mentre molte delle loro vittime vengono uccise a colpi di arma da fuoco, altre vengono date in pasto, vive o morte, alle tigri tenute da Ivan Archivaldo Guzman Salazar e Jesus Alfredo Guzman Salazar, gli imputati, che le allevavano e le tenevano come animali domestici", si legge nell'atto di accusa presentato il 14 aprile nel Distretto meridionale di New York contro il cartello di Sinaloa e i suoi associati

[…]

DAGONEWS il 21 aprile 2023.

I figli del famigerato signore della droga Joaquin "El Chapo" Guzman e i loro soci del cartello hanno usato cavatappi, scariche elettriche e peperoncini piccanti per torturare i loro rivali. Ma c’è di peggio. Alcune delle loro vittime finivano per diventare, da vivi o da morti, cibo per tigri. È l’atto d’accusa lanciato dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti in cui si indicano I tre figli di Guzman - Ovidio Guzmán López, Jesús Alfredo Guzmán Salazar e Iván Archivaldo Guzmán Sálazar, noto come Chapitos, o piccolo Chapos – di essere tra i 28 membri del cartello di Sinaloa, finiti nel mirino per il traffico di fentanyl negli Usa.

Il Dipartimento di Giustizia ha accusato i membri del cartello di gestire "il traffico di fentanyl più grande, più violento e più prolifico al mondo", aggiungendo anche i dettagli dei brutali metodi di tortura e le esecuzioni del cartello, utilizzati per estendere il potere e intimidire i nemici.

«Una volta che le informazioni erano ottenute dai prigionieri, in genere attraverso la tortura, questi individui venivano uccisi - da o sotto la direzione degli stessi Chapitos – I loro corpi venivano fatti sparire in fretta.  Alcuni venivano dati in pasto alle tigri». 

In un'altra descrizione agghiacciante, i pubblici ministeri federali hanno affermato che due dei figli di El Chapo erano coinvolti nella cattura e nell'omicidio di due agenti delle forze dell'ordine federali messicane nel 2017. Uno degli ufficiali è stato interrogato e ucciso mentre l'altro è stato torturato, davanti ai figli di El Chapo, dai sicari del cartello, noti come "Ninis". 

«Per circa due ore, i membri dei Nini hanno torturato la vittima, inserendo un cavatappi nei muscoli della vittima, strappandolo via e mettendo peperoncini piccanti nelle sue ferite aperte e nel naso. Poi è stato ucciso».  La vittima e il suo collega ucciso sono stati poi scaricati vicino a un motel fuori da un'autostrada vicino a un ranch.

L'accusa prosegue affermando che i figli di El Chapo hanno utilizzato scariche elettriche e il waterboarding per torturare membri di cartelli della droga rivali e soci che si sono rifiutati di pagare i debiti.

Estratto dell’articolo di Daniele Mastrogiacomo per repubblica.it il 18 aprile 2023.

Sono i narcos della nuova generazione: giovani ma voraci, spendaccioni ma efficienti. Soprattutto violenti, al limite del sadismo. Il Procuratore generale statunitense Merrick B. Garland tratteggia bene il carattere e l’attività di quattro delle 25 persone incriminate per traffico di fentanyl, la potente droga sintetica che da tre anni sta uccidendo decine di migliaia di tossicodipendenti negli Usa.

Tra questi spiccano i figli del Chapo Guzmán, in carcere dal 2017 per una condanna definitiva all’ergastolo. Dei quattro pargoli messi al mondo dal vecchio re mondiale della cocaina con due diverse mogli, solo uno è al fresco negli Stati Uniti. Si chiama Ovidio Guzmán López, è il più ingenuo. Venne arrestato nel gennaio scorso al termine di una battaglia campale a Culiacán, feudo storico del Cartello di Sinaloa. Il Tribunale distrettuale di Washington lo accusava di traffico di droga dal 2019 assieme al fratello Joaquín che tuttavia resta libero assieme ai suoi due fratellastri Iván Archivaldo Guzmán Salazar e Jesús Alfredo Guzmán Salazar.

[…]

Il ruolo della n’drangeta

I “chapitos” hanno capito subito che il mercato della droga era cambiato. La cocaina restava la regina ma nella Borsa dei narcotici stavano salendo le quotazioni del fentanyl. Tre anni fa era ancora uno stupefacente sconosciuto. Gli esperti sostengono che è stato introdotto nelle piazze canadesi dalla n’drangheta. È un oppiaceo sintetico, più facile da trasportare perché occupa meno spazio; si può camuffare, è composto di pillole minuscole che vanno frantumate, ridotte in polvere e poi riscaldate e sciolte come l’eroina prima di essere iniettate o inalate.

[…]

Droga e armi

Joe Biden affrontò di petto questa nuova realtà e ne parlò subito con il presidente messicano. Lo esortò a fare qualcosa. Obrador convenne ma chiese in cambio al suo omologo americano di mettere un freno al traffico d’armi che dagli Usa invadeva il Messico. […] Il confronto si è trasformato in polemica e alla fine in aperto scontro con pesanti accuse senza trovare una soluzione. Anzi. Obrador ha sciolto l’ufficio della Dea e della Cia in Messico ed espulso i suoi agenti perché “indesiderati”. Biden, tramite i governatori repubblicani degli Stati confinanti con il Paese vicino, ha minacciato di dichiarare “terroristi” i Cartelli. Al Congresso Usa giace una legge che se dovesse passare autorizzerebbe un intervento armato degli Stati Uniti in Messico.

I precursori dalla Cina

Obrador ha risposto con una causa dal risarcimento miliardario contro le principali industrie delle armi americane. Le quali sorridono, perché protette dal Secondo Emendamento che sancisce il diritto per ogni cittadino americano a possedere armi. Ma soprattutto perché sostengono che i fucili poi finiti in Messico sono acquistati negli Usa e non hanno alcuna responsabilità di come e dove vengono usati all’estero. Lo scontro ha coinvolto anche la Cina accusata di fornire i precursori chimici essenziali alla produzione di fentanyl. 

Pechino ha replicato dicendo che la nuova droga non lo riguarda. È un problema messicano e americano. Il circolo diventa vizioso. In tutti i sensi. Entrambi i Paesi subiscono la domanda incessante del mercato e l’offerta efficiente di chi la produce. Non sanno come risolvere il problema. Le mafie non rinunciano a 250 miliardi di dollari l’anno.

[…]

Usa, guerra aperta ai «Chapitos», i figli del Chapo, e ai chimici cinesi accusati di aiutarli a produrre il fentanyl. Sara Gandolfi su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2023.

Nuove accuse contro i tre figli di El Chapo e per le aziende che forniscono i precursori della droga fentanyl. Agenti della Dea si sono infiltrati per un anno e mezzo nel Cartello di Sinaloa. «Hanno dato in pasto le vittime alle loro tigri»

Tale padre, tali figli. Detto più che azzeccato per la sanguinaria prole del narcotrafficante Joaquín “El Chapo” Guzmán, che sta scontando l’ergastolo in Colorado. I suoi tre “eredi” si sono rivelati ancor più feroci di lui, a capo del cartello di Sinaloa. Questo venerdì, 14 aprile, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha annunciato l’incriminazione di 28 persone, tra cui i cosiddetti “Los Chapitos” e quattro proprietari di aziende cinesi accusati di fornire sostanze chimiche al cartello per la produzione e il traffico della droga fentanyl. Gli imputati vivono tra Messico, Cina e Guatemala. Ovidio Guzmán Lopez, soprannominato “Il topo”, è l’unico fratello attualmente in carcere in Messico e in attesa di estradizione in Usa, dove lo attende l’ergastolo.

Sarà una lotta senza quartiere ai nuovi re della droga messicani, ha assicurato la Drug Enforcement Administration (DEA). Il procuratore generale degli Stati Uniti, Merrick Garland, ha sottolineato che l’azione giudiziaria e di polizia punta a smantellare «la più grande e prolifica operazione di traffico di fentanyl al mondo», guidata dal cosiddetto Cartello del Pacifico e «alimentata dalle case farmaceutiche cinesi». Garland ha anche affermato che il governo di Pechino «deve fermare il flusso incontrollato di precursori chimici del fentanil che escono dalla Cina». Da parte sua, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Messico, Ken Salazar, ha dichiarato che Los Chapitos «ormai non hanno più un posto dove nascondersi».

Le autorità statunitensi chiedono l’ergastolo senza sconti per Iván, Alfredo e Ovidio Guzmán López, accusati di aver provocato la morte di oltre 100mila persone negli Stati Uniti a causa del fentanyl, un oppioide sintetico fino a 50 volte più letale dell’eroina. È stata persino aumentata la taglia sui fratelli, da 5 a 10 milioni di dollari. Il capo del cartello è Ivan, 40 anni, che «comanda i sicari e promuove le operazioni dell’organizzazione criminale». E avrebbe dichiarato di voler «riempire le strade degli Usa di tossicomani», con il fentanyl.

Per formalizzare l’accusa, gli agenti della Dea si sono infiltrati per un anno e mezzo nel cartello di Sinaloa e nella rete più vicina ai Chapitos, «ottenendo un accesso senza precedenti ai massimi livelli dell’organizzazione», ha dichiarato Anne Milgram della Dea. Secondo i pubblici ministeri statunitensi, i membri del cartello di Sinaloa hanno condotto esperimenti crudeli e disumani su altre persone. «Due degli imputati hanno testato la potenza del fentanyl su persone che erano legate», ha detto Merrick Garland, secondo cui i narcos avrebbero «anche dato in pasto a due tigri appartenenti ai Chapitos alcune delle loro vittime».

Estratto dell’articolo di Daniele Mastrogiacomo per “la Repubblica” il 23 Febbraio 2023.

[…] Non siamo più davanti a un film, a una serie che Netflix (El Chapo) ha ricostruito in modo esemplare. Siamo in un tribunale di Brooklyn, a New York, lo stesso che ha inflitto un ergastolo a Joaquín “El Chapo” Guzmán.

 Quindici giurati popolari pronunciano una sentenza che segnerà per sempre la guerra al traffico di droga, le connessioni tra potere e narcos, le attività ambigue della Dea che in questa battaglia inconcludente ha speso in 15 anni 5 miliardi di dollari dei contribuenti americani. Viene condannato Genaro García Luna, 54 anni, per dieci capo della Polizia Federale messicana sotto la presidenza di Vicente Fox e poi addirittura segretario alla Sicurezza, che equivale a ministro degli Interni, con Felipe Calderón.

Lo hanno riconosciuto colpevole dei cinque reati per i quali era stato arrestato in Texas nel dicembre del 2019, appena cinque mesi dopo la condanna del Chapo. Associazione a delinquere finalizzata allo spaccio internazionale di cocaina; cospirazione per distribuire e detenere cocaina; cospirazione per importare cocaina; criminalità organizzata e resa di false dichiarazioni sulla domanda di naturalizzazione sostenendo di non aver commesso alcun reato. Luna rischia una pena dai 20 anni all’ergastolo. […]

 È la prima volta nella storia dei due paesi confinanti che un funzionario dello Stato messicano viene giudicato e condannato dalla magistratura statunitense. E mai prima d’ora un pezzo da novanta, l’ex zar antidroga a cui Calderon (2006-2012) aveva affidato la strategia per condurre la sua assurda “guerra alla droga”.

 […] Genaro Luna propone Calderón il patto scellerato: puntare su un solo capo dei narcos piuttosto che trattare con tutti. La Dea è complice del piano. Le autorità americane premono per frenare il fiume di droga che invade i loro confini. La lotta alla droga prevede anche scelte azzardate, fuori dagli schemi e dalla legalità. Contano i risultati. E questi arrivano quando Luna sceglie il nome del Chapo.

Guzmán ha un problema: controlla lo Stato di Sinaloa ma non ha accesso diretto alle frontiere con gli Usa. Deve pagare la tassa di passaggio agli altri Cartelli che gestiscono le porte di accesso di Juárez, Tijuana, Nuevo Laredo e Matamoros. Luna gli propone di emergere: gli fornirà informazioni per fare degli arresti da dare in pasto ai media e premiare così il governo Calderon lasciando al Chapo campo libero nel suo business.

Una coppia decisa e scaltra. Il connubio funziona a dovere. Gli avversari del boss di Sinaloa vengono sbaragliati, il presidente è entusiasta dei risultati, la Dea gongola perché ha visto giusto. Ma il Chapo è ambizioso, vuole diventare il re mondiale della cocaina. Ha bisogno sempre più di soldi, deve ungere, corrompere, pagare migliaia di poliziotti e funzionari.

 Deve elargire mazzette milionarie allo stesso Luna che non lavora solo per il potere. Diventa incontrollabile. La Dea si lamenta, lo piazza in cima alla lista nera dei nemici e ricercati. Il Chapo è già evaso una volta dal carcere grazie all’aiuto di Luna che gli annuncia la rottura del patto.

Il boss di Sinaloa viene arrestato una seconda volta ma evaderà di nuovo nel tunnel che aveva fatto scavare sotto la prigione a bordo di una slitta motorizzata. Una fuga clamorosa. Mette in imbarazzo Calderón, fa infuriare la Dea. Luna è nei guai ma riesce a catturare il suo ex socio e lo fa estradare direttamente negli Usa senza passare per la giustizia messicana. Sappiamo che fine ha fatto il Chapo.

[…] Soddisfatta anche la Dea che, tuttavia, non esce pulita da questa sentenza. Dovrebbe spiegare quale ruolo ha avuto nella storia di un patto che ha trasformato il Messico in un cimitero e aprire le dighe del fiume di droga verso gli Usa. Ma questo è un capitolo a parte.

(ANSA-AFP il 17 febbraio 2023) - Trentuno corpi sepolti in due tombe clandestine sono stati scoperti nel Messico occidentale, in una zona colpita dalla violenza legata alla criminalità organizzata. "Abbiamo già contato 31 vittime" ha detto il procuratore dello stato di Jalisco Luis Joaquin Mendez, aggiungendo che le autorità hanno trovato elementi che permettono di identificare metà dei corpi per poi consegnarli alle famiglie.

Una prima tomba è stata localizzata il primo febbraio nella località di San Isidro Mazatepec, nel comune di Tlajomulco de Zúñigan. Dopo diversi giorni di indagini e l'estrazione di diversi sacchi contenenti salme, vi è stata individuata una seconda sepoltura. Lo stato di Jalisco, controllato dal potente Cartel de Jalisco Nouvelle Génération (Cjng), è uno dei più colpiti dalla violenza legata alla criminalità organizzata. Nel 2022 vi sono stati scoperti 301 corpi, distribuiti in 41 tombe clandestine, rispetto ai 544 resti del 2020, il numero più alto fino ad oggi.

Estratto dell’articolo di leggo.it il 18 gennaio 2023.

El Chapo vuole tornare in carcere in Messico. Il boss del cartello di Sinaloa Joaquin 'El Chapo' Guzman ha infatti chiesto al governo del suo Paese di poter essere trasferito in una prigione messicana: attualmente si trova in un carcere di massima sicurezza negli Stati Uniti, dopo l'estradizione arrivata in seguito al suo arresto.

 Lo ha fatto sapere il suo avvocato, José Refugio, […] «a fronte delle condizioni degradanti a cui è sottoposto in un carcere degli Stati Uniti», Guzman chiede al presidente (Andres Manuel Lopez Obrador) di «riparare agli abusi commessi dal precedente governo di Enrique Pena Nieto (2006-2012) e cerchi un canale per farlo tornare in una prigione in Messico».

«Non ha visto la luce negli ultimi sei anni di prigione, il cibo è di pessima qualità e non ha ricevuto più di tre visite quando gli altri detenuti possono vedere i loro familiari almeno cinque-sei volte al mese», ha aggiunto l'avvocato del 'Chapo'. […]

 La richiesta avviene a poco più di una settimana della clamorosa operazione che ha portato all'arresto a Culiacan di suo figlio Ovidio Guzman, alias 'El Raton'.

'El Chapò sconta una condanna all'ergastolo nel penitenziario di massima sicurezza di Florence, in Colorado, e affronta una richiesta di risarcimento del governo Usa per 12,6 miliardi di dollari. […]

Da leggo.it il 5 gennaio 2023.

Suo padre è stato un superboss del traffico di droga, un pezzo da 90 in un Messico che negli ultimi decenni è stato massacrato dalle violenze dei narcos. Oggi Ovidio Guzman, detto El Raton, figlio di Joaquin Guzman, leader del cartello di Sinaloa e meglio conosciuto come El Chapo, è stato arrestato a Culiacan, secondo quanto annunciato da fonti ufficiali del governo.

 Il figlio del Chapo arrestato in Messico

Un arresto spettacolare, quello del figlio del Chapo, avvenuto grazie all'intervento di truppe di élite: Ovidio Guzman, riferiscono i media internazionali, sarebbe stato già trasportato in un carcere di massima sicurezza. Il padre, arrestato più volte e sempre evaso con metodi da film d'azione (non a caso la sua stessa vita ha ispirato una serie tv su Netflix), dal 2019 è detenuto negli Usa, in una prigione del Colorado.

Le autorità ai cittadini: «Non uscite di casa»

L'arresto di Ovidio, in Messico, sta provocando grande tensione: le autorità del governo dello stato di Sinaloa e della città di Culiacan hanno sospeso le attività della pubblica amministrazione e chiesto alla popolazione di non uscire di casa. Una richiesta arrivata dopo le azioni di rappresaglia a Culiacan da parte di membri dei cartelli dei narcos, a seguito dell'arresto del figlio del boss.

 Già nel 2019 Ovidio era stato arrestato e rilasciato poco dopo, in seguito ad azioni di rappresaglia da parte dei suoi uomini: un segnale di resa delle autorità nei confronti dei narcotrafficanti, che il governo stavolta vuole evitare, anche perché tra pochi giorni il presidente messicano Obrador incontrerà il presidente americano Joe Biden.

«Si stanno verificando incidenti e blocchi stradali in diversi punti della città, chiediamo alla cittadinanza di non uscire», ha scritto su Twitter il ministro della Sicurezza di Sinaloa, Cristobal Casta¤eda. Le autorità hanno ordinato anche la chiusura dell'aeroporto di Sinaloa. In alcuni video su Twitter si vedono uomini armati che entrano in un ospedale e sequestrano personale sanitario per far curare i narcos feriti negli scontri.

Arrestato il figlio del Chapo, in Messico. Disordini e sparatorie, la polizia chiede alla popolazione di rimanere in casa. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 5 Gennaio 2023.

Ovidio Guzman, figlio del leader del cartello del narcotraffico di Sinaloa, Joaquin «El Chapo» Guzman, è stato arrestato in Messico, alla vigilia di un incontro tra i presidenti di Usa e Messico. I suoi seguaci hanno iniziato a provocare violenze per premere sulle autorità

I militari messicani hanno catturato Ovidio Guzman, figlio di el Chapo e uno dei leader del Cartello di Sinaloa.

Un arresto con due implicazioni immediate.

La prima: i suoi seguaci hanno scatenato violenze con attacchi alla polizia, assedio a quartieri e persino tiri contro aerei passeggeri. «Rivolta» che ha provocato diverse vittime.

La seconda: il 9 gennaio il presidente Obrador incontra Joe Biden, vertice dedicato anche alla situazione a cavallo del confine.

Il boss è stato individuato all’alba da un’operazione della Difesa nella regione di Culiacan, un intervento con il coinvolgimento di unità scelte ed elicotteri che hanno sparato sulle guardie del corpo. Il blitz ha riguardato il sobborgo di Jesus Maria, una località dove vivrebbe la madre del gangster, un luogo citato in una ballata dedicata alle «imprese» di Ovidio. Dunque in apparenza non un rifugio segreto bensì un posto noto a tutti. Ma nel contesto messicano è sempre meglio considerare ogni scenario, verità multiple, versioni mutevoli.

Immediata la reazione dei banditi. Ci sono stati dei blocchi stradali con veicoli dati alle fiamme, i sei ingressi a Culiacan sono stati presidiati dai narcos, convogli di pick up - alcuni armati di mitragliatrice - hanno ingaggiato i militari secondo un modus operandi consolidato.

In rete sono girate immagini di un velivolo impegnato in un’incursione contro le gang, ulteriore segnale di una situazione ad alto rischio.

Scene drammatiche allo scalo aeroportuale dove un jet passeggeri è stato costretto a sospendere il decollo dopo essere stato raggiunto da alcuni proiettili. Probabile che i sicari cercassero di impedire il trasferimento del loro capo nella capitale, estradizione comunque riuscita.

I funzionari locali hanno invitato la popolazione a restare nelle proprie case, hanno ordinato la chiusura delle scuole e sospeso il traffico aereo mentre sono stati fatti affluire rinforzi.

Misure estreme per evitare — forse — quanto avvenne nell’ottobre del 2019 sempre a Culiacan: Ovidio, detto anche El Raton, era stato fermato in una villa della cittadina ma lo avevano poi rilasciato in seguito alle minacce ricevute. Un cedimento vergognoso, un segno di debolezza da parte dello Stato giustificato dalla volontà di evitare vittime innocenti.

Un atteggiamento in linea con il quadro generale in Messico dove l’impunità è più forte della legge.

Ovidio guida insieme ai fratelli una parte del network ereditato dal padre Joaquim oggi rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Florence in Colorado. È in lotta con altre fazioni di Sinaloa e fronteggia la spinta emergente dei rivali di Jalisco. Dunque può essere stato tradito dai nemici interni, dai concorrenti o magari scoperto grazie al supporto dell’intelligence statunitense che opera in supporto della Marina, la componente di «fiducia».

C’è poi da considerare l’atteggiamento del governo locale, nazionalista o pragmatico a seconda delle circostanze. Subisce schiaffi e umiliazioni ma quando serve riesce a scovare qualche ricercato.

L’ultimo episodio ha coinvolto El Neto. Il capo di una gang era evaso dalla prigione di Ciudad Juarez insieme ad una ventina di complici dopo un assalto costato la vita a dieci agenti. Le forze di sicurezza lo hanno ucciso all’alba di giovedì. Le successive perquisizioni nel penitenziario cittadino hanno scoperto dieci celle VP, con tv, droga, grandi quantità di contanti e armi.

«El Chapo», la guerriglia dei narcos dopo l’arresto del figlio Ovidio Guzmán-López: 29 morti, 35 soldati feriti e auto in fiamme. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

I dettagli del blitz a Culiacan, nel cuore dell’area di Sinaloa, con cui i soldati messicani (forse con aiuti dell’intelligence Usa) hanno catturato Ovidio Guzman, detto «El Raton»

Un’azione veemente, scontata e pianificata. Una città, Culiacan, messa sotto assedio dal potere narcos. Una battaglia con sparatorie e persino raid aerei per rispondere alla sfida lanciata dai seguacidel figlio de El Chapo finito in manette. Sono state ore drammatiche scandite da una catena di eventi. All’alba di giovedì forze della Difesa, probabilmente imbeccate anche dall’intelligence Usa, hanno catturato Ovidio Guzman, detto el Raton. Su di lui una taglia milionaria offerta dagli Stati Uniti per una lunga lista di accuse, dal traffico di fentanyl al ruolo di leader del cartello di Sinaloa, un bandito con un conto aperto anche con la Giustizia – a volte clemente – del suo paese.

Il ricercato era nel sobborgo di Jesus Maria, zona dove la madre dispone di una residenza e dunque in un “territorio non ostile”, di solito protetto da informatori e guardiaspalle. I militari hanno usato team scelti ed elicotteri (uno ha impiegato una mitragliatrice Mini-gun), quindi hanno messo in allarme il dispositivo di sicurezza certi di una rappresaglia. Che è arrivata.

I sicarios, agendo con mosse studiate per queste occasioni, hanno creato una serie di blocchi attorno a Culiacan. Veicoli sono stati dati alle fiamme, hanno organizzato barricate e presidiato i loro check point con “miliziani” armati in modo pesante. E’ apparsa anche la loro “fanteria meccanizzata”: pick up blindati in modo sommario, spesso dotati di mitragliatrici e di lanciagranate. Si sono mossi in colonne per mettere a ferro e fuoco i quartieri, attaccare gli agenti, provocare caos e panico. Un nucleo ha invaso l’ospedale, altri si sono diretti verso l’aeroporto per impedire che il loro leader fosse estradato.

Così hanno sparato su un jet passeggeri centrato sotto la carlinga e costretto ad interrompere il decollo. Altri, dotati di fucili ad alto potenziale Barrett, hanno “ingaggiato” i velivoli della Marina e dell’Aviazione. I video hanno mostrato un aereo tirare raffiche contro le posizioni tenute dai gangster, scene a testimoniare un conflitto aperto. Altre clip hanno documentato l’azione dei pistoleri, con elmetti, corpetti anti-proiettile, munizioni a bandoliera. Ostentazione che narra la realtà feroce.

Le autorità hanno chiuso scuole e aeroporti regionali, quindi hanno esortato i civili a restare a casa per evitare conseguenze. Che pure ci sono state: 29 morti, 35 soldati feriti e auto in fiamme. E’ presto per fare un bilancio definitivo.

I comandi hanno fatto affluire rinforzi per contrastare i narco-insorti e permettere il trasferimento, in aereo, di Ovidio. Lo hanno rinchiuso nella prigione di Altiplano, la stessa dalla quale il padre è fuggito nel 2015.

Lo spostamento è stato adottato al fine di scongiurare quanto è avvenuto nell’ottobre 2019: il boss era stato catturato e poi subito rilasciato in seguito alle minacce dei complici, episodio vergognoso spia di uno Stato fallito. Questa volta il blitz non è stato vano e sono molte le speculazioni, una costante come le pallottole in certe vicende messicane.

Il figlio de El Chapo è stato scovato alla vigilia di un importante summit tra il presidente Obrador e Joe Biden dedicato ad un’infinità di dossier, a cominciare da quelli legati ai traffici illegali. Un’interpretazione sostiene che l’arresto è un “regalo” di Obrador alla Casa Bianca. Una seconda lettura è più dietrologica: i militari e gli americani hanno agito insieme per mettere il presidente o il “potere” profondo davanti al fatto compiuto. Difficile offrire ancora favori a Ovidio come tre anni fa.

Il padrino, peraltro, stava vivendo una situazione particolare. Guidava insieme ai fratelli una parte di Sinaloa ma era impegnato nella lotta con i grandi rivali di Jalisco e le fazioni dissidenti all’interno della sua “famiglia”. Faida totale e ampia che – quando serve – è utile per mascherare tradimenti, soffiate, baratti.

Ora l’attenzione è sulla procedura di estradizione verso gli Stati Uniti. Un giudice ha bloccato una consegna rapida e per Ovidio c’è un arresto provvisorio di due mesi. Nel frattempo possiamo attenderci contatti e negoziati dietro le quinte, come sempre. Anche se la magistratura messicana afferma di agire in nome della Legge. Ma in questi anni le istituzioni hanno dimostrato di essere capaci di qualsiasi cosa o di non far nulla. Una partita dove il cartello di Sinaloa muoverà amici e assassini a seconda delle esigenze.

Giuseppe Sarcina per corriere.it il 6 gennaio 2023.

Un’azione veemente, scontata e pianificata. Una città, Culiacan, messa sotto assedio dal potere narcos. Una battaglia con sparatorie e persino raid aerei per rispondere alla sfida lanciata dai seguaci del figlio de El Chapo finito in manette.

 Sono state ore drammatiche scandite da una catena di eventi. All’alba di giovedì forze della Difesa, probabilmente imbeccate anche dall’intelligence Usa, hanno catturato Ovidio Guzman, detto el Raton. Su di lui una taglia milionaria offerta dagli Stati Uniti per una lunga lista di accuse, dal traffico di fentanyl al ruolo di leader del cartello di Sinaloa, un bandito con un conto aperto anche con la Giustizia – a volte clemente – del suo paese.

Il ricercato era nel sobborgo di Jesus Maria, zona dove la madre dispone di una residenza e dunque in un “territorio non ostile”, di solito protetto da informatori e guardiaspalle. I militari hanno usato team scelti ed elicotteri (uno ha impiegato una mitragliatrice Mini-gun), quindi hanno messo in allarme il dispositivo di sicurezza certi di una rappresaglia. Che è arrivata.

I sicarios, agendo con mosse studiate per queste occasioni, hanno creato una serie di blocchi attorno a Culiacan. Veicoli sono stati dati alle fiamme, hanno organizzato barricate e presidiato i loro check point con “miliziani” armati in modo pesante. E’ apparsa anche la loro “fanteria meccanizzata”: pick up blindati in modo sommario, spesso dotati di mitragliatrici e di lanciagranate. Si sono mossi in colonne per mettere a ferro e fuoco i quartieri, attaccare gli agenti, provocare caos e panico. Un nucleo ha invaso l’ospedale, altri si sono diretti verso l’aeroporto per impedire che il loro leader fosse estradato.

Così hanno sparato su un jet passeggeri centrato sotto la carlinga e costretto ad interrompere il decollo. Altri, dotati di fucili ad alto potenziale Barrett, hanno “ingaggiato” i velivoli della Marina e dell’Aviazione. I video hanno mostrato un aereo tirare raffiche contro le posizioni tenute dai gangster, scene a testimoniare un conflitto aperto. Altre clip hanno documentato l’azione dei pistoleri, con elmetti, corpetti anti-proiettile, munizioni a bandoliera. Ostentazione che narra la realtà feroce.

Le autorità hanno chiuso scuole e aeroporti regionali, quindi hanno esortato i civili a restare a casa per evitare conseguenze. Che pure ci sono state: almeno sei soldati uccisi, un colonello caduto in un’imboscata, decine di feriti. E’ presto per fare un bilancio definitivo.

 I comandi hanno fatto affluire rinforzi per contrastare i narco-insorti e permettere il trasferimento, in aereo, di Ovidio. Lo hanno rinchiuso nella prigione di Altiplano, la stessa dalla quale il padre è fuggito nel 2015.

 Lo spostamento è stato adottato al fine di scongiurare quanto è avvenuto nell’ottobre 2019: il boss era stato catturato e poi subito rilasciato in seguito alle minacce dei complici, episodio vergognoso spia di uno Stato fallito.

 Questa volta il blitz non è stato vano e sono molte le speculazioni, una costante come le pallottole in certe vicende messicane.

 Il figlio de El Chapo è stato scovato alla vigilia di un importante summit tra il presidente Obrador e Joe Biden dedicato ad un’infinità di dossier, a cominciare da quelli legati ai traffici illegali. Un’interpretazione sostiene che l’arresto è un “regalo” di Obrador alla Casa Bianca. Una seconda lettura è più dietrologica: i militari e gli americani hanno agito insieme per mettere il presidente o il “potere” profondo davanti al fatto compiuto. Difficile offrire ancora favori a Ovidio come tre anni fa.

 Il padrino, peraltro, stava vivendo una situazione particolare. Guidava insieme ai fratelli una parte di Sinaloa ma era impegnato nella lotta con i grandi rivali di Jalisco e le fazioni dissidenti all’interno della sua “famiglia”. Faida totale e ampia che – quando serve – è utile per mascherare tradimenti, soffiate, baratti.

La guerriglia dopo l'arresto del figlio del Chapo. Blindati in strada, uccisi 10 soldati e 19 narcos. Storia di Paolo Manzo su Il Giornale il 7 gennaio 2023.

San Paolo. Dopo l'operazione dell'altroieri che ha portato alla cattura di Ovidio Guzmán, alias «El Ratón», ma soprattutto figlio del Chapo, lo stato di Sinaloa ha vissuto ore di guerra: sparatorie ovunque, quattro giornalisti picchiati e rapinati dai narcos al soldo di Ovidio, alcuni dei quali sono entrati nell'hotel Two Select di Culiacán, armati sino ai denti, terrorizzando gli ospiti. Interrotte tutte le visite a domicilio dei medici, anche ieri scuole chiuse mentre le linee della telefonia mobile continuavano a non funzionare in molte zone di Sinaloa.

Gravemente ferito un 14enne che da due giorni è in terapia intensiva, mentre ieri sera i feriti erano più di 100 (35 tra le forze dell'ordine) mentre sono stati uccisi almeno 10 soldati e 19 narcos. Oltre 250 le automobili date alle fiamme con cinque i supermercati saccheggiati nel feudo del cartello di Sinaloa, militarizzato ieri con 3.500 soldati dell'esercito e uomini della Marina e della Guardia Nazionale. Un «giovedì nero» lo hanno ribattezzato i media messicani, che ha ricordato a tutti il Culiacanazo del 17 ottobre 2019, quando Ovidio era già stato arrestato. Anche in quell'occasione i suoi sicari misero a ferro e fuoco la capitale dello stato, Culiacán ma, dopo poche ore, il presidente López Obrador, Amlo, diede ordine di liberarlo, scatenando un'ondata di polemiche. Stavolta non lo ha fatto. Il figlio del Chapo è infatti stato trasferito subito nel carcere dell'Altiplano, da cui suo padre era evaso nel 2015 in una rocambolesca fuga attraverso un tunnel. Amlo, che domani sera riceverà il presidente degli Stati Uniti Joe Biden a Città del Messico, ha però già fatto sapere, tramite il suo ministro degli Esteri Marcelo Ebrard, che trascorrerà del tempo prima dell'estradizione negli Stati Uniti di Ovidio.

Non a caso, ieri, un giudice federale ha bloccato ogni tentativo di estradare in tempi rapidi il leader dell'organizzazione criminale «Los Chapitos», ovvero i quattro figli del Chapo, sovente in contrasto con quello che oggi è il vero leader del cartello di Sinaloa, l'imprendibile «Mayo» Zambada. Lo stesso giudice ha anche stabilito che Ovidio possa comunicarsi con l'esterno, aggiungendo che la sua custodia sarà sotto la responsabilità delle autorità carcerarie. La cattura di Ovidio, appena 3 giorni prima dall'arrivo nel paese del tequila di Biden domani per partecipare al Summit dei leader di Canada, Stati Uniti e Messico, a detta degli esperti in questioni internazionali sarebbe un «regalo» di Amlo al presidente statunitense. Non a caso, ieri, il quotidiano El Universal, titolava a tutta prima pagina «Welcome to Mexico, presidente Biden», con sotto una foto enorme del «Topo».

Di certo per ora c'è che Ovidio è stato catturato nel villaggio di Jesús María, nella zona rurale di Culiacán, alle 4 del mattino. Secondo fonti del giornalista Ioan Grillo la madre del «Topo» ha una casa proprio nel paesino. Ancora non è chiaro invece da dove sia arrivata l'informazione che Ovidio avrebbe dormito a casa della madre. Una fonte della Dea aveva detto a Grillo che avevano un informatore in alto nell'organizzazione «Los Chapitos», quindi potrebbe essere stata l'antidroga statunitense a fornire la dritta. Amlo ha però negato «qualsiasi informazione e coinvolgimento degli Usa». Di certo è una cattura eccellente che gli fa fare bella figura con Biden, dopo la figuraccia del 2019. Del resto i due hanno bisogno l'uno dell'altro. Il prossimo anno finiscono infatti entrambe le loro presidenze ed entrambi hanno bisogno del sostegno dell'altro. Soprattutto se López Obrador cercherà di perpetuarsi al potere, come è consuetudine nella sinistra latinoamericana. Da parte sua, se Biden cercherà la rielezione, sarà prezioso il sostegno del voto ispanico che solo Amlo gli può assicurare. La cattura di Ovidio sembra dunque più una merce di scambio per il governo che un reale interesse a combattere il crimine.

In Messico si è scatenata la guerriglia dopo l’arresto del figlio di El Chapo. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 7 gennaio 2023.

Fino ad ora hanno perso la vita 29 persone, di cui 10 militari e 19 presunti criminali, nella guerriglia urbana scoppiata in Messico negli ultimi due giorni. La violenza è esplosa dopo l’arresto da parte della polizia di Ovidio Guzmán López, figlio di Joaquín Guzmán Loera, più comunemente conosciuto come “El Chapo”, signore della droga catturato e condannato all’ergastolo nel 2014. López è accusato di essere a capo di una parte del cartello di Sinaloa, fondato dal padre e considerato una delle più grandi organizzazioni di traffico di droga in tutto il mondo. In tutto lo stato di Sanaloa è in atto una vera e propria insurrezione armata: oltre alle vittime, le notizie che giungono dal Messico riportano l’invasione armata dell’aeroporto internazionale di Culiacan, con il governo che cerca di reagire mobilitando i blindati nelle strade prese d’assalto dagli uomini in armi del cartello narcos.

L’arresto, avvenuto a Culiacán, la più grande città nello Stato di Sinaloa (da cui prende il nome il cartello) protagonista dei primi violenti scontri tra la polizia messicana e i membri del gruppo, è arrivato dopo sei mesi di sorveglianza speciale, portati avanti dalle forze dell’ordine nazionali con la collaborazione degli Stati Uniti. Questi ultimi infatti, qualche settimana fa, avevano “messo in palio” una ricompensa di 5 milioni di dollari per chiunque avesse fornito informazioni utili sul conto di Guzmán López – (e anche dei suoi fratelli, anch’essi coinvolti nelle indagini). Tuttavia ad oggi, nonostante il coinvolgimento degli USA, non sarebbe ancora stata autorizzato alcun processo di estradizione a suo carico verso l’America.

La situazione rimane comunque piuttosto tesa. Juan de Dios Gamez, sindaco di Culiacán, ha sollecitato i cittadini a non uscire di casa, almeno fino a quando la situazione potrà essere considerata sotto controllo. Motivo per cui la città ha sospeso tutte le attività amministrative e chiuso le scuole. Nelle 48 ore seguite all’arresto, infatti, sono state date alle fiamme numerose automobili e 18 persone sono rimaste ferite. Persino la compagnia aerea di bandiera Aeromexico ha avuto qualche difficoltà: il personale a bordo ha raccontato che un aereo, diretto a Città del Messico, è stato colpito da un proiettile poco prima di decollare, allarmando i passeggeri.

Difficile capire come si evolverà la situazione, anche se i precedenti non sono rassicuranti: le forze di sicurezza messicane avevano già arrestato Guzmán-López nel 2019, ma lo avevano rilasciato per sedare le violenze da parte dei suoi sostenitori. Il mercato della droga è ancora troppo forte da poter essere fronteggiato. In generale quella di accostare l’America del Sud al narcotraffico è un’operazione, spesso inconscia, che ormai facciamo da molti anni. È vero, in questa parte di mondo il traffico di droga ha una lunga tradizione alle spalle, ma è soltanto in epoca relativamente moderna (attorno agli anni 2000) che la questione si è allargata a tal punto da coinvolgere buona parte del continente, lasciandosi dietro una scia di sangue e morti. I motivi di tale espansione e risonanza sono diversi, tutti interconnessi tra loro. Solo per citarne alcuni potremmo fare riferimento alla frammentazione dei grossi cartelli della droga in “cellule” più piccole, l’impoverimento generale della popolazione e l’intensificarsi della corruzione, che si è insinuata senza troppe difficoltà nel Governo e nelle Istituzioni. Tutti elementi che hanno spianato la strada all’avanzata del narcotraffico, che più che essere considerato in una dimensione locale, ormai va visto in chiave globale. È proprio questa sua “esportazione” che ha cambiato e trasformato radicalmente il Sud America, diventata la “sede” delle principali mafie del mondo, che da qui riescono agilmente a gestire i loro traffici transoceanici.

E il Messico può esserne considerato il fulcro. Gli esperti lo definiscono uno Stato-ponte dilaniato dalla piaga del narcotraffico, che negli ultimi 20 anni ha ucciso quasi mezzo milione di persone, e ne ha costrette 400mila ad emigrare altrove. Se la “guerra alla droga” ha caratterizzato la storia messicana degli (almeno) ultimi quindici anni, la ragione è prima di tutto geografica. La nazione, situata tra gli Stati Uniti e il resto del Sud America, è inevitabilmente una zona di passaggio per persone e merci, in viaggio tra le due Americhe. È così che il Messico si è “conquistato” il ruolo che attualmente ricopre. E in tutto questo il cartello di Sinaloa è protagonista indiscusso. Ritenuta una delle organizzazioni dominanti nel traffico di droga in Messico, è stata proprio fondata da El Chapo Guzman e guidata dallo stesso almeno fino al suo arresto, avvenuto nel 2014. Dopo il quale, secondo le autorità locali, il comando sarebbe passato nelle mani del figlio. La piaga però è ben più profonda. Secondo i dati riportati da Crisis Group – un’organizzazione non governativa, no-profit, transnazionale, che dal 1995 svolge attività di ricerca sul campo in materia di conflitti violenti, il numero di gruppi criminali in Messico è più che raddoppiato, passando dai 76 del 2010 ai 205 del 2020.

È chiaro che la strategia di repressione armata adottata dal Governo fino ad oggi non funziona. Non è chiaro, invece, che più che i proiettili servirebbero invece dei piani che tutelino i più fragili nelle zone maggiormente colpite dalle violenze e che ci sia piuttosto bisogno di una lotta interna, di contrasto alla corruzione. Il rischio è che, altrimenti, i cittadini stessi si armino fino ai denti (come sta iniziando ad accadere) e che la giustizia privata alimenti una scia di morte senza fine. [di Gloria Ferrari]

I bambini armati per il figlio del Chapo. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera l’8 Gennaio 2023.

Il narcos era già stato fermato nel 2019 e poi rilasciato dopo un assalto. Negli scontri per il suo arresto 29 morti

Il Messico è il centro del mondo. È il centro del mondo osservandolo dalla prospettiva del narcotraffico, ossia l’unica economia comparabile a quella del petrolio. Nel 2021 i 13 membri dell’Opec hanno ricevuto entrate (ufficiali) per 561 miliardi di dollari; ebbene, il narcotraffico mondiale, secondo le stime del think tank Global Financial Integrity, gestisce proventi tra i 400 e i 600 miliardi di dollari annui. Queste cifre sono indicative, non tengono conto per il petrolio degli introiti non rendicontati e nel narcotraffico ci servono per mostrare una verità: le più grandi economie del mondo sono le più compromesse e le più disumane. Le più irraggiungibili e le meno monitorabili. L’economia del mondo cammina su queste gambe. Da un lato il petrolio, energia per i motori; dall’altra la droga, energia per i corpi. Produrre, produrre, produrre, e avvelenare, avvelenarsi, distruggere e distruggersi per profitto.

Soltanto i cartelli del Messico, secondo le stime analizzate recentemente dal Washington Post, gestirebbero un profitto di quasi 6-10 miliardi di dollari, ma considerando anche il volume di affari dei mercati sudamericani assoggettati ai narcos messicani, arriverebbe a oltre 30 miliardi. Eppure, la supremazia mondiale nel narcotraffico da parte del Messico è cosa relativamente recente: a partire dagli anni ‘90 il Messico ha progressivamente assunto questa centralità, spodestando la Colombia (che rimane, con Perù e Bolivia, il maggior paese produttore di coca). Come è stato possibile? Difficile sintetizzarlo in poche righe, ma proverò a descrivere la dinamica che ha portato i narcos messicani ad essere gli imperatori del narcotraffico. È chiamata «dinamica Amazon». In breve, i cartelli e i Paesi che vincevano nel mercato mondiale delle droghe erano quelli che producevano e, quindi, distribuivano la merce. Inizialmente i cartelli colombiani producevano cocaina e la distribuivano personalmente o attraverso gruppi direttamente dipendenti da loro. Ma negli anni ’80, le autorità americane intensificarono i controlli nei Caraibi nell’ambito della «war on drugs» e cominciarono a sequestrare i carichi provenienti dalla Colombia. Sempre di più, uno dopo l’altro, sempre più difficile arrivare inosservati via mare sulle coste della Florida.

Per far arrivare la coca negli Stati Uniti i narcos colombiani dovevano, quindi, trovare rotte alternative. E si rivolsero ai narcos messicani, che da anni trasportavano negli Stati Uniti la marijuana e l’eroina prodotta in Messico. Per loro si trattava solo di trasportare un nuovo prodotto, utilizzando le stesse rotte. All’inizio i narcos messicani si facevano pagare in contanti per il servizio, ma poi ebbero un’idea: farsi pagare in merce, in cocaina, che poi avrebbero messo loro stessi sul mercato. È così che i messicani da semplici corrieri diventarono distributori di cocaina. Non avevano la materia prima, ma rispetto ai colombiani avevano un vantaggio enorme: 3.145 chilometri di confine con il Paese che è il maggior consumatore di cocaina al mondo, gli Stati Uniti. Il distributore diventa più importante del produttore, chi distribuisce si compra chi produce. Metodo Amazon, ossia vale molto di più la qualità e accessibilità di chi distribuisce il prodotto rispetto a chi lo produce.

Ecco come i messicani in pochi anni sono diventati i padroni mondiali del traffico di coca. Responsabile di questo allargamento esponenziale è El Chapo Guzmán, storico leader del cartello di Sinaloa, che oggi sta scontando l’ergastolo in un carcere degli Stati Uniti, in Colorado, dopo essere stato condannato da una corte di Brooklyn nel 2019. El Chapo è lì, negli Stati Uniti, con la possibilità di potersi pentire e svelare l’incredibile intreccio di alleanze politiche e finanziarie internazionali che governano il narcotraffico. Per ora tace, purché il suo silenzio sia garanzia del potere del cartello. Che non è affatto in crisi, come si sarebbe portati a pensare.

L’arresto, avvenuto qualche giorno fa, di Ovidio Guzmán López «el Ratón», il topo, uno dei dieci figli riconosciuti del Chapo Guzmán, in realtà è solo un inutile trofeo: quello che il governo messicano sta offrendo agli Stati Uniti (e al mondo) per mostrare il suo impegno nella guerra contro il narcotraffico. Non a caso, l’arresto è avvenuto a pochi giorni dalla visita ufficiale in Messico del presidente degli Usa, Joe Biden, e del premier canadese, Justin Trudeau, per il vertice delle Americhe. Sulla testa del «Ratón» gli Stati Uniti avevano messo una taglia da 5 milioni di dollari. Ma nonostante fosse uno dei maggiori ricercati del Messico, Ovidio non è mai stato considerato il vero erede del Chapo nel narcotraffico. Nulla, come sostengono importanti osservatori messicani, cambierà nell’assetto del cartello con l’arresto di Ovidio «el Ratón».

Insieme ai suoi fratelli Ivan Archivaldo, Jesús Alfredo e Joaquín «el Güero» fa parte dei «Chapitos», ossia il gruppo di figli del boss che governa un’ala del cartello di Sinaloa, all’interno del quale dopo il suo arresto sono emerse diverse fazioni, mentre una parte rimane salda sotto la guida del Mayo Zambada. Ovidio è considerato il più debole dei Chapitos, eppure il suo arresto è stato sbandierato come un colpo durissimo inferto al cartello. Il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador ha un precedente ambiguo nei confronti del potere dei cartelli, nella primavera del 2020 sul web si diffuse un video di un evento organizzato a Badiraguato, città natale della famiglia Guzmán: nel video si vedeva il presidente messicano salutare rispettosamente l’anziana madre del Chapo, Maria Consuela Loera Perez, per poi dirle: «Ho ricevuto la tua lettera». Il presidente veniva poi avvicinato dall’avvocato del narcotrafficante.

López Obrador ha portato avanti una politica di non-conflitto aperto con l’economia del narcotraffico in una dinamica diffusa in molti Stati, si reprime il segmento militare e si lascia prosperare il segmento economico delle organizzazioni. «El Ratón» era già stato arrestato nel 2019, ma il giorno successivo era stato rilasciato dopo che un gruppo di sicari del cartello di Sinaloa aveva assaltato e preso in ostaggio membri delle forze dell’ordine. Ora nel Sinaloa assistiamo alla stessa reazione violenta da parte di membri del cartello e proteste anche da parte di semplici simpatizzanti, che sanno che toccare il narcotraffico significa toccare l’economia, i salari, la sicurezza.

In un video diffuso su Twitter si vedono bambini di 8-10 anni armati di mitra messi e pronti a combattere a fianco del cartello di Sinaloa a Culiacán. I narconiños sono una delle forze dei cartelli, i più spietati, i più fedeli, i meno esposti al tradimento. Uccidono e tornano a dormire nella stanzetta accanto al letto dei genitori. Toccare un chapito può significare anche aprire fronti di guerra interni all’organizzazione criminale, che si ripercuotono inevitabilmente sulle strade. Ma per ora il cartello può stare tranquillo: un giudice federale ha già congelato l’estradizione di Ovidio, accogliendo un ricorso dei suoi avvocati; resterà in carcerazione preventiva (ma con la possibilità di sentire i familiari) per 60 giorni, durante i quali gli Stati Uniti dovranno formalizzare la richiesta di estradizione presentando la documentazione necessaria.

E la rivolta di Sinaloa aveva questo fine: rendere impossibile la vita quotidiana delle città dominate dai cartelli fino a un segnale di rassicurazione. Ad oggi ci sono stati 29 morti per gli scontri dopo l’arresto del figlio del boss. Ovidio attualmente è nel carcere El Altiplano, lo stesso da cui El Chapo era evaso nel 2015 fuggendo in sella ad una modo montata su binari, attraverso un tunnel sotterraneo scavato sotto la sua cella. Come tutti i sovrani – e lui è un narcosovrano – El Chapo ha cercato di costruire una dinastia più estesa possibile. Dalla prima moglie, Alejandrina María Salazar Hernández, con cui si sposò nel 1977 ebbe quattro figli:

- Alejandrina Gisselle, che da imprenditrice nel settore dell’abbigliamento ha lanciato una linea di vestiti chiamata «El Chapo 701». Nel 2020, durante la pandemia da Covid-19, fece notizia perché si mise a distribuire generi di prima necessità alle persone in difficoltà. Alejandrina è moglie di Edgar Cazares, sposato il 25 gennaio 2020 nella cattedrale di Culiacán, blindata e chiusa al pubblico per l’occasione, con una cerimonia lussuosa e cantanti famosi di musica norteña, per mostrare al mondo che la famiglia Guzman era ancora parte dell’élite messicana. Edgar Cazares è figura importante nello scacchiere dei narcos: nipote di Blanca Margarita Cazares Salazar «La Emperatriz», nota al Dipartimento del Tesoro americano per essere una sofisticata riciclatrice di denaro sporco per i cartelli messicani.

- César, il figlio che non ha voluto metter mano al narcotraffico per poi gestire con la sorella Alejandrina la linea di moda «El Chapo 701».

- Iván Archivaldo «El Chapito», classe 1983, il vero erede di suo padre. È il figlio che conta. Ricercato dalla Dea dal 2018, sulla sua testa pende una taglia da 5 milioni di dollari. La sua parola è la parola del padre.

- Jesús Alfredo è l’altro figlio che conta. Insieme a Ivan, Joaquin e Ovidio è parte del gruppo Chapitos. Anche lui ricercato dalla Dea dal 2018, sulla sua testa pende una taglia da 5 milioni di dollari.

Nel 1980 El Chapo sposò Griselda López Pérez, con cui ebbe altri 4 figli:

- Joaquín «El Güero» o «Güero Moreno», di cui si sa pochissimo. È certo che appartiene ai Chapitos, è ricercato e che sulla sua testa pende una taglia da 5 milioni di dollari.

- Édgar, ucciso nel 2008, l’unico figlio ammazzato del Chapo.

- Ovidio «el Ratón», arrestato il 5 gennaio. Era già arrestato nel 2019, il giorno successivo era stato rilasciato dopo che un gruppo di sicari del cartello di Sinaloa aveva assaltato e preso in ostaggio membri delle forze dell’ordine; anche dopo quest’ultimo arresto, uomini armati hanno messo a ferro e fuoco tutto il Sinaloa come risposta alla cattura del figlio del Chapo.

- Griselda Guadalupe

Dall’ultimo matrimonio, quello con Emma Coronel Aispuro (condannata nel 2021 a 3 anni di reclusione per narcotraffico in Usa, dopo essersi dichiarata colpevole di aver aiutato il Chapo a far entrare droga negli Stati Uniti), ha avuto ne 2011 due gemelle, entrambe – per ironia della sorte – cittadine americane:

- María Joaquína

- Emali Guadalupe

Fino a qui, i 10 figli riconosciuti del Chapo. Alcune fonti, tuttavia, sostengono che prima di Emma Coronel, alla fine degli anni ’80, il boss si sposò con Estela Peña, un’impiegata di banca che incontrò quando aveva 30 anni. Guzmán provò a conquistarla in tutti i modi, ma lei rifiutò a lungo le sue avances. Amareggiato, la rapì e la violentò in un hotel di lusso di Puerto Vallarta. Tre mesi dopo si sarebbero sposati e dalla loro relazione sarebbero nati:

- Desiré

- Diego

Alla fine del 2015 la rivista messicana Proceso rivelò che, secondo le carte raccolte, Joaquin «El Chapo» Guzmán avrebbe avuto 18 figli da 7 donne diverse. La dinastia del Chapo non si estinguerà mai si trasformerà in una infinita e mimetica confluenza con il potere politico e finanziario: la cocaina, la marijuana, l’eroina, la metanfetamina sono i beni che l’azienda dei cartelli pompa nel mercato americano ed europeo, sono la benzina dei corpi e fin quando i governi non si accorderanno in una nuova strategia di contrasto fondata sulla legalizzazione rendendosi conto che in 50 anni la guerra alla droga ha solo diffuso il potere del narcotraffico, nulla cambierà anzi cambierà solo la testa sulla quale sarà posta di volta in volta la corona al nuovo boss.

In Canada sta scoppiando una nuova guerra all’interno della mafia italiana. Stefano Baudino su L'Indipendente il 10 Giugno 2023 

Nel caotico scenario criminale canadese, mafiosi siciliani e calabresi sono tornati a sparare, a uccidere, a farsi la guerra. Ne sono prova una lunga serie di atti efferati consumati sul territorio, sfociati nelle ultime settimane in due omicidi di grande portata: quello di Claudia Iacono, nota influencer 39enne sui social e nuora dello storico boss Moreno Gallo (ucciso nel 2013), e quello di Francesco Del Balso, potente capo della mafia di Montreal, già scampato negli scorsi mesi a vari progetti di attentato. Prima ancora, uno dei più importanti boss della “componente siciliana” in Canada, Leonardo Rizzuto, era rimasto ferito in una sparatoria, riuscendo miracolosamente a salvarsi.

L’uccisione di Claudia Iacono, avvenuta a Montreal, risale allo scorso 16 maggio. L’influencer, famosa per aver lanciato il suo marchio di bellezza “Deauville” e madre di due figli, è stata brutalmente crivellata con almeno sei colpi di pistola mentre si trovava a bordo del suo Suv, davanti al salone di bellezza di cui era proprietaria. Iacono era la moglie di Antonio Gallo, figlio di Moreno Gallo, un tempo importante componente della cosiddetta “fazione calabrese” della mafia di Montreal, eliminato dai clan rivali dieci anni fa.

Gallo era originario di Rovito, in provincia di Cosenza, ma negli anni Settanta si era posto alle dipendenze della potentissima famiglia siciliana dei Rizzuto, che aveva spodestato le famiglie di ‘ndrangheta Cotroni-Violi e preso il potere nell’intero Paese. Il clan, capitanato da don Vito Rizzuto, era legato a Cosa Nostra americana e, in particolare, alla famiglia Bonanno. Negli anni Ottanta, Gallo abbandonò i Rizzuto. Considerato un “traditore“, fu additato come responsabile di alcuni omicidi ai danni di autorevoli membri della famiglia. Nel 2012, il boss fu espulso dal Canada e si trasferì in Messico, ad Acapulco. Dove, il 10 novembre del 2013, mentre stava cenando all’interno di un ristorante, venne ucciso da un killer che gli scaricò addosso nove colpi di pistola.

In tempi recenti, a prendere il testimone della famiglia Rizzuto, dopo le uccisioni ravvicinate, nel 2009 e nel 2010, del figlio e del padre di don Vito (Nick e Nicolò Rizzuto), sono stati Stefano Sollecito, figlio del capomafia Rocco Sollecito, e un altro figlio del “padrino” Vito, Leonardo Rizzuto. Proprio quest’ultimo, lo scorso marzo, è scampato ad un omicidio architettato ai suoi danni: mentre si trovava a bordo della sua Mercedes e viaggiava su un’autostrada che compresa nella giurisdizione della Sûreté du Québec, il boss è stato raggiunto da una serie di colpi di arma da fuoco, ma è riuscito a sottrarsi ai proiettili e a proseguire la sua corsa, cavandosela con alcune ferite.

La vendetta dei Rizzuto, ad ogni modo, non si è fatta attendere. Martedì scorso, infatti, è caduto un altro “pezzo da novanta” della mafia italo-canadese, Francesco Del Balso, ammazzato all’angolo tra Deacon Street e Saint Régis Boulevard a Dorval. Secondo le prime ipotesi degli inquirenti, l’attentato sarebbe stato ordinato proprio dai Rizzuto come ritorsione per il fallito agguato contro don Leonardo. Del Balso fu, peraltro, un “fedelissimo” di Vito Rizzuto, ma poi scelse di abbandonare la famiglia e di divenirne competitor. La faida si colloca infatti nell’ampio contesto del network degli stupefacenti, in cui i clan si contendono considerevoli fette di “mercato” e hanno intessuto negli anni alleanze (anche molto “scomode”, come quella che ha unito Del Balso agli Hells Angels) che hanno prodotto forti contrapposizioni frontali.

La morte di Del Balso era, di fatto, un evento annunciato. Arrestato nel 2006 in quanto ritenuto responsabile di traffico di droga, il boss fu scarcerato dopo 10 anni e riportato in galera poiché si temeva fortemente per la sua incolumità, ma venne rilasciato definitivamente nel 2017. Lo scorso 22 novembre i clan rivali lo avevano sorpreso in pieno centro a Montreal, ma il mafioso era riuscito a fuggire. Un mese dopo, alcuni killer entrarono nella sua abitazione, ma, non trovandolo, picchiarono i suoi familiari. A marzo, Del Balso aveva provato ad abbandonare il Canada e a rientrare in Italia. Fu però intercettato all’aeroporto di Montreal-Trudeau dalla polizia, che gli requisì il passaporto e gli impedì di partire. A quel punto, il boss aveva esaurito ogni chance di farla franca. [di Stefano Baudino]