Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2023

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
 


 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE


 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ascesa di Matteo Messina Denaro.

L’Arresto di Matteo Messina Denaro.

La Morte di Matteo Messina Denaro.


 

SECONDA PARTE


 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lotta alla mafia: lotta comunista.

L’inganno.

Le Commissioni antimafia e gli Antimafiosi.

I gialli di Mafia: Gelsomina Verde.

I gialli di Mafia: Matteo Toffanin.

I gialli di Mafia: Attilio Manca.

Gli Affari delle Mafie.

La Mafia Siciliana.

La Mafia Pugliese.

La Mafia Calabrese.

La Mafia Campana.

La Mafia Romana.

La Mafia Sarda.

La Mafia Abruzzese.

La Mafia Emilana-Romagnola.

La Mafia Veneta.

La Mafia Lombarda.

La Mafia Piemontese.

La Mafia Trentina.

La Mafia Cinese.

La Mafia Indiana.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

La Mafia Canadese.


 

TERZA PARTE


 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Stragi di mafia del 1993.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: l’Arresto di Riina.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio. La Trattativa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Depistaggio. La Trattativa-bis: “’Ndrangheta stragista”. 

Gli Infiltrati.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Delitto di Piersanti Mattarella.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: il Delitto di Pio La Torre.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la Strage di Alcamo.


 

QUARTA PARTE


 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Concorso esterno: reato politico fuori legge.

La Gogna Territoriale.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ipocrisia e la Speculazione.

Il Caporalato dei Giudici Onorari.

Il Caporalato dei fonici, stenotipisti e trascrittori.

Il Caporalato della Vigilanza privata e Servizi fiduciari - addetti alle portinerie.

Il Caporalato dei Fotovoltaici.

Il Caporalato dei Cantieri Navali.

Il Caporalato in Agricoltura.

Il Caporalato nella filiera della carne.

Il Caporalato della Cultura.

Il Caporalato delle consegne.

Il Caporalato degli assistenti di terra negli aeroporti.

Il Caporalato dei buonisti.


 

QUINTA PARTE


 

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Usura.

Dov’è il trucco.

I Gestori della crisi d’impresa.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Caste.

Pentiti. I Collaboratori di Giustizia.

Il Business delle Misure di Prevenzione.

I Comuni sciolti ed i Commissari antimafia.

Le Associazioni.

Il Business del Proibizionismo.

I Burocrati.

I lobbisti.

Le fondazioni bancarie.

I Sindacati.

La Lobby Nera.

I Tassisti.

I Balneari.

I Farmacisti.

Gli Avvocati.

I Notai.


 

SESTA PARTE


 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La P2: Loggia Propaganda 2.

La Loggia Ungheria.

Le Logge Occulte.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Ladri di Case.


 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE


 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’ASCESA DEL LATITANTE MESSINA DENARO. Matteo va alla guerra. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 13 febbraio 2023

Per trent'anni è stato il latitante più ricercato d'Italia. Un fantasma. E simbolo di una mafia, quella corleonese, morta da tempo. Naturalmente il suo arresto ha fatto scalpore in tutto il mondo. Per le circostanze che l'hanno preceduto qualcuno ha ipotizzato che Matteo Messina Denaro si sia consegnato o sia stato venduto, qualcun altro l'ha “profetizzato” con parole doppie...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Per trent'anni è stato il latitante più ricercato d'Italia. Un fantasma. E simbolo di una mafia, quella corleonese, morta da tempo. Naturalmente il suo arresto ha fatto scalpore in tutto il mondo. Per le circostanze che l'hanno preceduto qualcuno ha ipotizzato che Matteo Messina Denaro si sia consegnato o sia stato venduto, qualcun altro l'ha “profetizzato” con parole doppie.

Comunque sia andata, l'hanno preso a Palermo il 16 gennaio del 2023 i carabinieri del Raggruppamento operativo speciale. Sapremo dettagli più precisi sulla sua cattura – speriamo – prossimamente.

Con quel nome altisonante e con quell'identikit assai somigliante al vero latitante era diventato una figura quasi “familiare”. L'avevano avvistato un po' dappertutto. In Toscana e in Veneto, in Spagna e in Tunisia, in Olanda e in Venezuela, perfino in tribuna d'onore allo stadio della Favorita durante una partita del Palermo.

In realtà si sa ancora poco di dove si sia nascosto prima di vederlo, rassegnato, uscire da una clinica palermitana.

È il primo grande latitante arrestato nell’epoca dei social. E il popolo dei meme non ha tardato a scatenare la propria ironia, prendendo in giro il look del boss, con quegli occhiali da sole a coprire l'occhio “guasto” e il giubbotto di montone firmato.

Ma si sono sollevate anche perplessità su uno stato incapace di trovarlo per tre decenni. E poi l’hanno catturato così facilmente, senza tensione. E ancora tutti quei suoi covi vista piazza a Campobello di Mazara.

L'indagine dei carabinieri e dei magistrati è stata sicuramente un’eccellente indagine, però qualche piccolo grande mistero resta sulla fine della latitanza di Matteo Messina Denaro.

E allora per capire di chi stiamo parlando, da oggi sul nostro Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Una nota a parte merita il bellissimo disegno di Dario Campagna che ritrae il boss con in mano un gelato. Un riferimento al “mago” che ha clamorosamente annunciato il suo arresto a novembre: l'enigmatico Salvatore Baiardo, di professione ufficiale gelataio.

ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA. Attilio Bolzoni è un giornalista che, da quarant'anni, racconta storie in fondo all'Italia. Francesco Trotta è un blogger e direttore dell'associazione Cosa Vostra.

La mafia trapanese contro i giudici Falcone e Borsellino. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 13 febbraio 2023

Matteo Messina Denaro, il nostro imprendibile capo. Eravamo con lui quando decise di fare la guerra. Abbiamo valutato, studiato, organizzato. Abbiamo fatto le prove. Ci siamo fatti consigliare. Abbiamo obbedito. Tutto è nato qui, in provincia di Trapani; non a Palermo, non a Roma, ma in questo pittuso d’Italia, dal lato sbagliato dei vostri tramonti da cartolina...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Perché voi non sapete. Non sapete quanto siamo precisi. La precisione è tutto. Quando si parla, quando si spara. Noi mica diciamo «Capaci», «Via D’Amelio». Che è, il gioco del Monopoli? Noi non diciamo nemmeno «la strage di Falcone», «la strage di Borsellino», o insieme, come dice qualcuno: «la strage di Falcone e Borsellino». Noi non parliamo dell’attentatuni, che piaceva solo a Totò Riina come nome, né della «disgrazia di Capaci», come dice invece la mamma di quel frariciume di Giovanni Brusca. Noi siamo precisi.

E se proprio dobbiamo, ci piace ricordare tutto come fosse un dispaccio. Non ci vuole molto. È una paginetta esatta, pulita (precisa, appunto) che abbiamo mandato giù a memoria. Ce la ripetiamo come fosse un mantra, un percorso di meditazione.

Ci incoraggia nei momenti di sconforto, quasi sembra indicarci la via, la ripetiamo con piacere alla mamma, quando ce lo chiede. Ed è paradossale, no?, che gli unici che alla fine ricordano bene le cose siamo noi. Noi che abbiamo fatto la storia, che raccontiamo quei fatti come una pagina di un manuale.

LE STRAGI DEL 1992

Poche righe, dunque. E fanno così: Alle 18 circa del 23 maggio 1992 nell’autostrada che dall’aeroporto conduce a Palermo, in località Capaci, una violenta esplosione provocava la morte dei magistrati Dott. Giovanni Falcone e della moglie Dott.ssa Francesca Morvillo, degli agenti di polizia Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, nonché il ferimento degli agenti di polizia Paolo Capuzza, Gaspare Cervello, e Angelo Corbo, e ancora il ferimento di Giuseppe Costanza (autista del dott. Falcone) e il ferimento di alcuni occasionali presenti (Pietra Ienna Spanò, Oronzo Mastrolia, Vincenzo Ferro) e di due cittadini austriaci (Eberhard Gabriel ed Eva Gabriel).

La devastante esplosione ebbe a danneggiare diverse autovetture dello stato e di privati cittadini, nonché le strutture murarie di diverse abitazioni in prossimità del luogo dell’eccidio. Nel tratto di autostrada in questione si formò un cratere di oltre 10 metri di lunghezza e di 4 metri di profondità.

Che ve ne pare? Poi solitamente facciamo una pausa, più o meno lunga e drammatica, dipende dal pubblico, dal sentimento del momento, dall’ispirazione, e continuiamo.

Così. Cinquantasette giorni dopo la strage di Capaci, avvenne un altro gravissimo attentato finalizzato a uccidere il Procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo, il Dottor Paolo Borsellino. Il pomeriggio di domenica 19 luglio 1992, il giudice Borsellino si era recato in Via D’Amelio per andare a fare visita all’anziana madre.

Era appena giunto davanti al portone dello stabile in cui abitava la madre, quando un enorme deflagrazione devastò l’intera strada. L’ordigno fu di tale potenza che l’esplosione, alle ore 16:58, fu registrata dall’osservatorio geosismico.

Nella circostanza morirono: il giudice Borsellino, gli agenti di polizia Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina ed Emanuela Loi. Rimase invece solamente ferito l’autista Antonino Vullo, l’altro appartenente alla polizia di stato addetto alla scorta del magistrato, che si era allontanato di qualche decina di metri per fare inversione di marcia con la vettura da lui condotta.

L’esplosione determinò, altresì, il ferimento di numerose persone che si trovavano nel raggio d’azione dell’ordigno esplosivo e una vera e propria devastazione della zona circostante, con gravissimi danni agli edifici prospicienti di quel tratto di strada ed alle auto che vi si trovavano parcheggiate. Amen. Com’è?

Permetteteci due precisazioni, a ogni modo. Innanzitutto, i luoghi. È Isola delle Femmine, non Capaci. Il luogo della prima strage è Isola delle Femmine, il territorio di quel comune lì, dove passa quel pezzo di autostrada chiamata A29. Solo che siccome c’era il cartello verde con la scritta bianca Capaci e la freccia che indicava l’uscita a destra, allora è diventata la strage di Capaci. E vabbè. E poi un’altra cosa. Falcone non era Falcone e Borsellino non era Borsellino, né Giovanni, né Paolo.

Per noi erano il dottore Falcone e il dottore Borsellino. Per i nemici ci vuole rispetto. Voi non sapete chi siamo. Siamo Cosa nostra, sì, la mafia, certo, siamo il vostro incubo, quattro caproni o un esercito. Ma siamo soprattutto i figli della mamma. La mamma allarga le sue cosce e ci genera, un piede a Castellammare e il suo golfo, un altro piede poggiato nel Belice dei templi e dell’olio buono. La mamma, la nostra mamma dal cuore tenero e dalla voce che sembra un tuono, è l’origine del mondo.

Del nostro mondo. Noi siamo i figli di questa mamma, di questa terra, che ci ha trasmesso l’amore come l’odio. Qui è l’origine di tutto, non lo capite? In questa terra inondata di luce c’è l’origine della nostra forza. Noi siamo i figli di questa mamma, e fratelli tra noi e fratelli di Matteo Messina Denaro, il nostro imprendibile capo. Eravamo con lui quando decise di fare la guerra.

Abbiamo valutato, studiato, organizzato. Abbiamo fatto le prove. Ci siamo fatti consigliare. Abbiamo obbedito. Tutto è nato qui, in provincia di Trapani; non a Palermo, non a Roma, ma in questo pittuso d’Italia, dal lato sbagliato dei vostri tramonti da cartolina. E tutto ci è servito a compiere un ricambio generazionale, e un salto di qualità, che è la storia meno raccontata e che voi non sapete. Noi abbiamo deciso, noi abbiamo organizzato, noi abbiamo ucciso.

Non da soli, ovviamente. E non solo nel nostro interesse. E voi questo neanche lo sapete. Forse non lo saprete mai. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Una provincia sconosciuta con la Cosa nostra più potente. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 14 febbraio 2023

Noi eravamo di più di una provincia importante; eravamo la roccia dei Corleonesi, come dicevano alcuni boss amici nostri. La roccia. Talmente alta, robusta, fiera, che era davanti agli occhi di tutti… e nessuno se ne accorgeva. Perché qui Bernardo Provenzano e Totò Riina erano come a casa loro, perché come diceva Giovanni Brusca: «Tra Riina e i trapanesi era tutta una persona».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Perché noi siamo una provincia importante, in Cosa nostra lo sapevano tutti. A Palermo c’erano gli interessi e i proprietari, la plebe e i capitali, sì, ma la mamma era qui, qui era la luna rossa gonfia di attese, qui era l’abbondanza che ci raccontavamo sin nei nostri cunti di bambini, seduti in giro la sera, al chiano.

Noi ad esempio eravamo quelli che sapevano raffinare la droga e la portavano fino all’America, come se mandassimo baci alle bocche dei nostri cugini dall’altre parte dell’oceano. Ed era anche per questo, perché avevamo la storia e le riverenze, i santi e l’intelligenza, sapevamo le preghiere e come esaudirle. Ed era anche per la luna e per i baci, per la mamma e la sua potenza rigeneratrice, che i palermitani per primi sapevano che era questa la provincia con la quale bisognava comunque fare i conti.

Per i santi e per i loro miracoli, che a noi quello che piaceva più di tutti in realtà era un angelo, San Michele Arcangelo, che non a caso è l’unico santo con la spada. Sapeva il fatto suo, Michele nostro. E noi rispettavamo i santini e la chiesa, perché la chiesa rispettava noi, ci accoglieva e capiva che eravamo gente d’onore. Gente che sapeva – e sa – qual è il valore delle regole.

Lo stesso zio Ciccio, il padre di Matteo, non era stato per un periodo latitante in una canonica? Ma lui, a differenza di altri, non teneva in mano libretti di salmi e rosari, né si faceva il segno della croce prima di uccidere qualcuno.

Noi sapevamo dosare per bene il cemento e le pallottole, i segnali e soprattutto le parole. Ci tenevamo alla larga dagli scandali. Ed era proprio una delle prime cose che i Messina Denaro ci avevano insegnato: non si deve parlare di noi. Non ci piace. Dobbiamo essere furbi, intelligenti – ci diceva Matteo. La gente deve pensare che siamo ladri di polli.

A voi non deve interessare come vi vedono, ma chi siete. E lo sapete, chi siete. Lo sapevano i vostri padri, e prima di loro i vostri nanni, lo sappiamo da più di cento anni. Eravamo quelli che lavoravano nel fango dei campi, che si spezzavano la schiena per raccogliere l’uva, e adesso voliamo in business class e i locali fanno a gara per averci come clienti.

Abbiamo passato due guerre mondiali, venti anni di fascismo, il pentapartito, il terrorismo, Mori e Dalla chiesa, la Dc. E siamo pronti a tutto. Lo sapevano anche i Corleonesi, spietati, che fecero la guerra di mafia, e dall’aprile di quell’anno 1981 cominciarono sistematicamente a sopprimere le famiglie palermitane: Badalamenti, Bontate, e poi chi?, ah, Riccobono, Inzerillo, e i parenti, gli alleati, gli amici.

Non si capiva più nulla. I soldi della droga avevano trasformato tutto. Noi stavamo a guardare: le alleanze, i complotti, i tradimenti, le esecuzioni. Le cose tinte. La mamma ci diceva: state attenti figli miei, nascondetevi qui, sotto la mia sottana, è come la puntura del dottore: fa un po’ male, ma ti fa passare la bua.

A farsi male dalle nostre parti furono i perdenti: i Buccellato, come i Rimi, i Minore. Diavolo di un Salvatore Riina; sembrava avesse un’orchestra che al posto degli strumenti ci avevano le lupare e le corde, le pistole e l’esplosivo, e quella cosa che lui chiamava Pocket Coffee, l’attacco fatto con furia cieca e colpi di kalashnikov.

E vennero anche da noi, a fare la guerra. In tre anni, dal 1981 al 1984, ci fu un repulisti di tutti coloro che non si erano schierati con i Corleonesi. E qui ci dovete scusare, ma ci vuole una parentesi, una parentesi di quelle importanti, per un senso di giustizia che si deve anche dentro Cosa nostra: non è vero che noi ci siamo schierati con i Corleonesi per sopravvivere, no.

È un po’ come quando giocate con il vostro gatto. Se pensate con la testa del gatto, è lui che gioca con voi. Ecco, e se pensate con la nostra testa, vi può apparire chiaro che in realtà noi li seducemmo, quelli di là, sì, fu una specie di corteggiamento. Prima regola: mai chiamare per primi, come in amore. Farsi desiderare.

Ci vennero a cercare, e ci negammo, all’inizio, per aumentare il desiderio. E così combinammo la zitata. E poi approfittammo dei Corleonesi per fare pulizia, come quando la mamma ti rimprovera che hai la camera in disordine (e questa strategia Matteo la stava già imparando, eccome se l’ha imparata, sono stati gli stessi Corleonesi a farne le spese…).

UNA PROVINCIA “SCONOSCIUTA”

Perché poi noi avevamo un grande vantaggio: eravamo sconosciuti. Di noi non parlava nessuno, non facevamo notizia, non si conosceva nulla, non ci venivano a cercare. Solo qualche sbirro, con qualche confidente, che quelli ci sono sempre – se no che sapore c’è nelle cose? – aveva fatto dei rapporti, aveva alzato un sopracciglio. Ma niente, tutto veniva insabbiato.

I cani rimanevano attaccati, come dicevano i palermitani quando parlavano di noi, non senza una punta di invidia, dato che provenivano da una città, Palermo, che – come ricordavano tra noi quelli più studiosi – era la città più espugnata della storia; prima dai fenici, poi dai romani, e dai cartaginesi, e dagli arabi, dagli spagnoli, e dai napoletani, e da Garibaldi, e dai Savoia, e dagli americani… Da noi, invece, tutto tranquillo.

Già: i cani rimanevano attaccati alle loro catene, accontentandosi di qualche osso, qualche polpetta di carne, a volte anche avvelenata. E non per volontà. Non avevamo bisogno, come gli altri, di avere amici a Roma, a Palermo, e corrompere giudici, avvocati, minacciare sbirri.

Tutto avveniva in modo – diciamo così – naturale, quasi che la regola del silenzio, la nostra regola, fosse in realtà un modo di vivere, in questa provincia nostra. Anche perché non avevamo pentiti. Buscetta, Contorno, Calderone, Marino Mannoia, tutti quei grandi nemici di Cosa nostra, che avevano consumato famiglie e cristiani, che cosa sapevano di noi? Nulla.

Sì, qualche riunione, qualche incontro, e la droga, ma poi arrivati al busillis del loro racconto la memoria in qualche modo si perdeva, come una specie di buco nero che inghiotte ogni reminiscenza.

Con orgoglio, qui ci piace ricordare una cosa che dimostra che in Cosa nostra la reputazione non sempre coincide con la posizione effettiva di un uomo all’interno dell’organizzazione. Negli anni Cinquanta c’era Calogero Vizzini, Don Calò, che era considerato il capo dell’intera Sicilia. E invece il capo della Commissione regionale, ai suoi tempi, era Andrea Fazio, che nessuno conosceva.

Certo, era di Trapani! Solo dal 1993 in poi ci fu la nostra scoperta, che fu un po’ come quando si gioca a carte a Natale ed esce il re: cucù! E arrivarono nuovi pentiti: Di Maggio, Di Matteo, La Barbera, con memorie più fresche, perché erano stati molto dalle nostre parti e cominciarono a riempire pagine sulle «vicende mafiose trapanesi» – come scrivevano i giudici – o ancora su «organigrammi e dinamiche criminali della provincia trapanese». Ma ormai era già tardi.

Quello che doveva essere fatto era fatto, agnello e sugo e finiu ’u vattiu, come diciamo noi, Matteo Messina Denaro era già latitante. Amen. Noi eravamo di più di una provincia importante; eravamo la roccia dei Corleonesi, come dicevano alcuni boss amici nostri. La roccia.

Talmente alta, robusta, fiera, che era davanti agli occhi di tutti… e nessuno se ne accorgeva. Perché qui Bernardo Provenzano e Totò Riina erano come a casa loro, perché come diceva Giovanni Brusca: «Tra Riina e i trapanesi era tutta una persona». [...]

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Le prime indagini di Paolo Borsellino sul clan dei Messina Denaro. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 15 febbraio 2023

Il dottore Borsellino chiese per lui [Don Ciccio, ndr.] non l’arresto, ma quanto meno l’obbligo di soggiorno, la libertà vigilata, insomma, qualcosa per fargli capire che aveva il fiato sul collo. Messina Denaro non dovette fare nulla, fece tutto il Tribunale che, nel 1991, scrisse che «le notizie dei rapporti di Messina Denaro con appartenenti a consorterie mafiose si sono rivelate, per alcuni versi, incontrollabili»...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Noi eravamo la roccia, e per questo ci sentivamo una sorta di élite della criminalità, e Riina per noi era lo stato, come gli disse una volta Giuseppe Ferro. Noi, mandamenti di Mazara e Castelvetrano, Mazara e Trapani. La roccia. Lui, lo stato. E qui c’erano i suoi alleati più fedeli, come Francesco Messina Denaro, il padre di Matteo, capo provincia che aveva preso il posto di Cola Buccellato.

Don Ciccio, pace all’anima sua, era saggio e astuto. Aveva attraversato tutta la vita senza mai avere problemi; ogni tanto capitava che lo fermavano, lo interrogavano, ma lui, picciotti, sempre tranquillissimo era.

Aveva tre nipoti sbirri, cose da pazzi, uno alla finanza, due che erano poliziotti. E per un omicidio, quello del notaio Craparotta, riuscì a ingannare anche il dottore Falcone. È stato il dottore Borsellino a cominciare a indagare un po’ di più su Don Ciccio, a fargli fare un po’ più di vai e vieni dalle caserme, tanto che lui, che non aveva paura di nessuno, una volta glielo ha detto anche, a quelli che lo interrogavano: il paese è piccolo, e voi fate male, ed è come infilare degli aghi sotto le unghie.

Ma il suo capolavoro è proprio quando il dottore Borsellino chiese per lui non l’arresto, ma quanto meno l’obbligo di soggiorno, la libertà vigilata, insomma, qualcosa per fargli capire che aveva il fiato sul collo.

Messina Denaro non dovette fare nulla, fece tutto il tribunale che, nel 1991, scrisse che «le notizie dei rapporti di Messina Denaro con appartenenti a consorterie mafiose si sono rivelate, per alcuni versi, incontrollabili», che «non ci sono prove», e che anzi, la figlia Rosalia aveva sposato un Guttadauro, Filippo, «sulla cui trasparente personalità non si solleva alcuna ombra di dubbio».

Ci guidava con mano ferma e poche parole, se ci diceva che lo scecco vola, noi rispondevamo: sì, è vero, lo scecco vola. Quello che diceva lui era vangelo. Ma era anche molto malato, povero cristiano, e Matteo era stato cresciuto per questo, per diventare un uomo, per diventare il capo.

E non ci ricordiamo quando accadde, perché per noi era sempre stato a così, ma a un certo punto fu chiaro a tutti che ogni decisione che si prendeva in provincia di Trapani doveva passare per un cenno della testa d’u Zi Ciccio, certo, ma soprattutto per il volere del figlio. Senza nessuna investitura, senza riti, santine, sangue, spilloni, minchiate, tutto in automatico, liscio come l’olio di Nocellara appena spremuto, come fosse già scritto.

Anche perché Mariano Agate, che Riina aveva voluto capo del mandamento di Mazara del Vallo, non rappresentava mica tutta la provincia, e poi era sempre in carcere, e non c’erano altre figure di riferimento. C’era Salvatore Tumbarello, sì, c’era Mastro Ciccio Messina. Ma erano reggenti, facenti funzione, insomma.

E anche lì Matteo ci aveva visto giusto e alla prima occasione era riuscito a piazzare Vincenzo Sinacori, che era amico suo, era giovane, era dei nostri. Ad Alcamo, pure, ci abbiamo messo a Vincenzo Milazzo, che poi purtroppo lo abbiamo dovuto uccidere per quel fattaccio brutto che successe proprio nell’estate nel ’92, che si era messo in testa di fare la guerra a Salvatore Riina, tra una strage e l’altra, e Zi Totò gli disse a Matteo: capisco che è amico vostro, ma dovete eliminarlo, è di ostacolo alla nostra, di guerra.

E Matteo in quel periodo aveva proprio questo compito importante: sparare ai disertori. Organizzammo una riunione a Mazara. E così fu fatto, e con lui la fidanzata Antonella. E furono gli ultimi eliminati di una fila lunghissima, che noi oggi non riusciamo neanche a contarli i morti per mano nostra, la cui unica colpa era di non essere schierati con Riina, di volersi vedere la partita, come dicemmo all’anziano Cola Buccellato prima di eliminarlo.

Perché loro non lo capivano, ma noi eravamo sacerdoti di una nuova fede, e nel nuovo ordine che stavamo costruendo non c’era spazio per tentennamenti, dubbi, finzioni. E così dai Buccellato, Rimi, Minore, si passò a noi, e agli Agate, ai Virga. E ai Messina Denaro.

LA GUERRA DI MAFIA NEL TRAPANESE

Gli anni Ottanta, insomma, erano arrivati pure per noi. Eravamo diventati pop, e quei vecchi babbiuna non ci rappresentavano più. C’era una nuova Italia che avanzava, e ci volevamo essere noi, in prima fila. Chissà se i Corleonesi lo capivano; ma comunque a noi, tutto il loro casino, servì a farci strada.

A Cola Buccellato gli abbiamo ammazzato il figlio e il cugino, che erano venuti come ambasciatori. L’ambasciata per la pacificazione, la chiamavano, quando si annunciavano. E noi abbiamo fatto la pacificazione a modo nostro.

Li abbiamo uccisi, così eravamo tutti più tranquilli, no? E ogni tanto – nell’attesa dei carichi di droga che entravano dal Belice, passavano poi le campagne di Alcamo, venivano preparati e puliti e partivano da Castellammare del Golfo –, mentre da Palermo ci arrivavano i complimenti per la silenziosa efficienza e l’organizzazione, scherzando tra di noi, ci facevamo anche dell’ironia: se fosse il caos, dicevamo, che criminalità organizzata sarebbe? Sarebbe roba da spara polli, pisci ri ghiotta.

E poi dicevamo che Riina e Provenzano avrebbero meritato la cittadinanza trapanese, perché per noi erano una cosa sola, e non davamo del voi ai Corleonesi, davamo del noi. E se loro erano diventati così potenti, alla fine, era grazie a questa provincia di Trapani, che i signori magistrati un giorno sono arrivati finalmente a capire cos’era, in tre aggettivi: fidata, sicura e invulnerabile.

Ma l’hanno capito quando era già troppo tardi. Ed eravamo impenetrabili. Nessuno sapeva della villa di Riina a Mazara del Vallo, o della sua casa nelle campagne di Castelvetrano, dove i suoi figli scorrazzavano felici tra pirrere e ulivi, o di tutti i suoi acquisti, perché gli piaceva davvero la nostra zona a Totò, ci diceva sempre: «Picciotti, qui sì che c’è pace».

E noi gli dicevamo di sì, Zi Totò, e se serviva qualcosa chiamasse, anche se lui non aveva bisogno di chiedere, tanto eravamo veloci noi ad anticipare ogni sua esigenza: un’uscita in barca, un po’ di olio fresco di frantoio, una riunione da organizzare. E facevamo a gara perché sapevamo che tra noi c’era qualcuno che spiava e riferiva; come avveniva ad Alcamo, dove c’era Giuseppe Ferro che faceva la spia.

Un giorno, che era il 15 gennaio dell’89, a Partinico, Riina organizzò una riunione con quattro della famiglia di Alcamo. Loro arrivarono. Morirono tutti strangolati. E così si faceva a Castellammare, a Trapani, e il gruppo di fuoco partiva sempre da qui, con Matteo in testa che andava – come quando fu per Mommo ’u Nano, nell’86 a Paceco. [...] DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Don Ciccio, padre di Matteo, capomafia e latitante di lungo corso pure lui. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA", DI GIACOMO DI GIROLAMO su il Domani il 16 febbraio 2023

Francesco Messina Denaro era diventato il capo della provincia in una riunione, nel 1982, nella cantina messa gentilmente a disposizione dai cugini Salvo, a Salemi. Ed è stato un capo all’altezza della nostra fama e della nostra storia perché di lui non si è saputo nulla o quasi, fino alla morte; solo sospetti, solo si dice, solo qualche indagine.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Francesco Messina Denaro era diventato il capo della provincia in una riunione, nel 1982, nella cantina messa gentilmente a disposizione dai cugini Salvo, a Salemi. Ed è stato un capo all’altezza della nostra fama e della nostra storia perché di lui non si è saputo nulla o quasi, fino alla morte; solo sospetti, solo si dice, solo qualche indagine. Figuratevi poi se qualcuno aveva il coraggio di andare a far mettere a verbale che Messina Denaro Francesco era capomafia.

Un maresciallo lo sentì un giorno, per capire cosa ci fosse di vero in quelle voci di paese, a Castelvetrano, e gli chiese: ma lei come vive? E lui: faccio il campiere, sono un pensionato. Altre volte andavano a cercarlo, e non lo trovavano. E siccome noi non avevamo paura di niente e di nessuno, ma solo un po’ di fastidio, perché tutti quei bussare a casa delle persone perbene, magari mentre stanno inghiottendo un poco di veleno o nella notte, sono cose che non si fanno, Matteo – che è stato sempre una bella penna, eh – scrive al comandante dei carabinieri di Castelvetrano per dirgli che è inutile che vengono a casa, o che convocano in caserma suo padre, perché è fuori per motivi di lavoro. Ai carabinieri tanto bastava.

Non sapevano che il padre era invece in casa, e aveva un nascondiglio. Si stava lì buono buono, quando lo cercavano. E non era neanche latitante. Avrebbe potuto assicutarli, carabinieri, poliziotti, e anche guardia di finanza, ma gli piaceva molto l’idea di non prenderli in giro. E poi, si sa, un nascondiglio fatto bene è anche un buon posto per riflettere.

A conoscerlo invece erano i tantissimi disperati che ogni giorno allungavano la fila davanti casa perché accontentasse i loro desideri: un figlio che non doveva partire militare, perché erano sue le uniche braccia del raccolto, un’altra figlia zita con uno che non si decideva a maritarla, un travaglio per un cugino fuori, un padre di famiglia che era troppo che stava in carcere.

Nell’85, poi, spuntò a Castelvetrano quel crasto di commissario, Calogero Germanà, che poi nel ’92 Matteo cercò di ammazzarlo. E gli fece lo sgarbo, a Don Ciccio: la perquisizione a casa. E poi aggiunse una spiata e fece due più due sulla troppa droga che girava dalle nostre parti – e che in effetti era così tanta che i nostri giri ormai avvenivano alla luce del sole. E alla fine, nel 1989, scrisse questo rapporto in cui arrivò alla conclusione che Francesco Messina Denaro era il capomafia della provincia di Trapani e il figlio Matteo «lo supporta nella sua azione criminale».

Non solo, capì pure che, quando avevamo fatta la guerra a Partanna, c’era Matteo a guidarci. Ma non bastò, perché quando nel ‘90 il dottore Borsellino chiese una misura di prevenzione per Messina Denaro, magari la libertà vigilata, un obbligo di firma, il Tribunale di Trapani decise con le quattro parole più belle che un mafioso possa sentirsi dire: «Non luogo a procedere».

La condanna per mafia è arrivata solo a Natale del ’92, quando tutto era già stato compiuto, e Don Ciccio era già latitante da un po’. Arrivò poi il battaglione dei pentiti, Di Maggio, Brusca, Di Matteo, La Barbera, Patti, Sinacori, Ferro, Milazzo, e chi ne ha più ne metta. Mutolo: «Francesco Messina Denaro era la persona più fidata di Riina». Brusca: «Mi ricordo le sue riunioni con i catanesi». Di Carlo: «Era il capo della provincia di Trapani». Le loro parole servivano non a dare giustizia, ma a costruire la leggenda.

Nel frattempo Don Ciccio si dette alla latitanza, se poi latitanza si può definire il fatto che stai nella casa accanto a quella dove stavi prima, nel tuo letto di malato, senza nessuno che ti viene a cercare, per ozio, per complicità, per rispetto.

Quando morì, avremmo voluto scrivere qualche elogio funebre, come fecero i familiari di Calogero Vizzini: «Nemico di tutte le ingiustizie, umile con gli umili, grande con i più grandi, dimostrò con le parole e con le opere che la mafia sua non fu delinquenza ma rispetto alla legge e difesa di ogni diritto e grandezza d’animo. Fu amore». Ma, ormai lo avete capito, a noi le pupiate non ci piacevano, per i vivi come per i morti. La megghiu parola e chiddra ca ’un si rice, e vale anche per gli elogi funebri.

E più di mille parole valse per noi la beffa finale, di fare trovare il corpo di Don Ciccio agli sbirri, già morto, freddo, muto e pronto per il suo funerale. Valeva più di tutto.

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA", DI GIACOMO DI GIROLAMO

Storie di successioni mancate, di donne conquistate e di uomini ammazzati. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 17 febbraio 2023

Lui si era innamorato di una tedesca – che poi era austriaca, ma per noi era tedesca –, una ragazza che lavorava alla reception del Paradise Beach Hotel di Selinunte, e anche lì c’è scappato il morto, questa volta per gelosia: il vicedirettore che era pure lui innamorato della zita di Matteo...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

E a proposito di miti. Non ci ricordiamo il periodo esatto in cui le condizioni di Don Ciccio si aggravarono. Era stanco, era vecchio, era malato. Ma già c’era un capo, che gli anziani stavano forgiando come in certe leggende nordiche, o come quell’altro mito della dea partorita dalla testa di Zeus.

Perché dalle cosce della mamma, certo, dal seme fertile della nostra storia, anche, e dalla lingua di pietra dei nostri padri era venuto fuori Matteo; ma soprattutto era venuto fuori dalla testa del signor Riina, che in lui vedeva non un capo qualsiasi, ma il capo, l’erede, quello che avrebbe affrontato la prova più dura ed esaltante di tutte: l’attacco allo Stato, la resa dei conti. E di tutti i segreti che custodivamo questo era quello più potente, tanto che, paradossalmente, di Matteo Messina Denaro si è cominciato a parlare solo molto tardi, solo con la sua latitanza.

È dovuto scomparire per farsi notare, diavolo di un Siccu. Forte e dritto come un palo del telegrafo, lo avevamo visto iniziare con i primi omicidi, poi con la guerra di Partanna, aveva fatto da paciere ad Agrigento, e in un vìriri e svìriri, in men che non si dica, a un certo punto Riina non ecideva nulla senza averne prima parlato con Matteo, e quasi nessuno ricordava più che fine avesse fatto Don Ciccio; a noi interessava solo di Diabolik, perché non c’era cosa che non si muoveva se lui non diceva ai o bai.

E anche Mariano Agate, il boss di Mazara del Vallo, a un certo punto capì l’antifona; chissà, magari pensava che, con la malattia di Don Ciccio, il capo sarebbe stato lui – gli toccava per anzianità – e non il giovin Messina Denaro.

Ma si sbagliava, perché noi abbiamo sempre saputo scegliere le competenze, privilegiare il ricambio generazionale, e lo facciamo in maniera veloce e silenziosa, e Agate fece il giusto passo indietro. Poi faceva trasi e nesci dal carcere, e se non era in carcere aveva comunque la libertà vigilata, e quindi si levò di mezzo da solo, e avvenne senza cerimonie e giuramenti e sacramenti e chiamate di santi.

Non aveva bisogno di punciute, Matteo (che poi, a dire la verità, a noi il sangue ha sempre fatto impressione), né di baci, abbracci, padrini, formule da recitare, santine in mano. Era nel suo destino diventare boss, la sua infanzia alla fine era stata questa: ingannare il tempo, nell’attesa di diventare il capo.

Anche nel rapporto con le donne sembrava prematuro, Matteo. Mentre noi sognavamo amplessi clandestini in macchina con le ragazze dalle cosce color madreperla dei nostri paesi – cosce sempre chiuse per noi come le porte della chiesa di padre parroco quando ci veniva l’ansia della confessione – lui aveva un giro tutto suo, addirittura fino a Palermo, con il nostro amico Lillo Santangelo, che lì studiava Medicina.

Era un tipo scialuso Lilluzzo, e lo chiamava sempre a Matteo: vieni qua a Palermo, che ci sono le fimmine vere, ti spiego io come si fa, e lui, Matteo, correva. E molte avventure gli fece passare, prima di essere ammazzato su ordine di Don Ciccio, che era anche suo padrino.

Perché se c’era qualche sgarro da riparare, Don Ciccio non guardava in faccia a nessuno, neanche all’amico di suo figlio, neanche al suo figlioccio, e Lillo Santangelo era stato trovato morto, solo come un cane, sparato da Giovanni Brusca una mattina presto, vicino all’università; che Brusca manco sapeva come si chiamava, era venuto zio Ciccio in persona da Castelvetrano, un giorno, a indicarglielo da lontano. E a dire: iddru.

E a Palermo c’erano queste signore favolose, ci raccontava Matteo, tutte mature, pettinate, pulite, che avevano accenti perbene, e ci dicevano: da dove venite? Castelvetrano? Grazioso come paese. Ma per noi mica era paese, Castelvetrano, era città, come Marsala, Mazara, Trapani. Paesi erano Partanna, Santa Ninfa, Vita.

Manco Salemi era paese, va’, però per loro se non era Palermo era paese, e se non era brutto era grazioso, e stop; poi non ricordiamo altro, perché finalmente si ficcava e ciao. E poi Matteo fu anche quello che ci insegnò i segreti delle straniere, perché lui andava la sera a Selinunte, che d’estate c’era sempre pilu, e le acchiappava; anche se non sapeva le lingue, bastava guardarle.

E noi a chiedergli: Mattè, ma è vero che le francesi ce l’hanno rasata? E le tedesche? È vero che ci hanno le ascelle pelose? E le spagnole come lo fanno? Poi anche questo giro era finito, perché lui si era innamorato di una tedesca – che poi era austriaca, ma per noi era tedesca –, una ragazza che lavorava alla reception del Paradise Beach Hotel di Selinunte, e anche lì c’è scappato il morto, questa volta per gelosia, caso unico nella storia di Cosa nostra: il vicedirettore, Consales si chiamava, che era pure lui innamorato della zita di Matteo e che una volta aveva osato cacciarci dal suo albergo dove la sera andavamo a fare i nostri giochi senza frontiere dell’acchiappo.

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

A scuola di mafia a Corleone da Totò Riina, Matteo era la sua “creatura”. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 18 febbraio 2023

Era una scuola d’élite, e infatti non tutti ne facevano parte, ma solo pochi eletti: Madonia, Graviano, questo gruppo qua, insomma. Con la differenza che tutti erano già noti alle forze dell’ordine. Graviano, per dire, era ricercato dal 1984. Matteo, invece, era l’unico che ancora era invisibile pure per gli sbirri.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Che poi Salvatore Riina lo diceva sempre: Matteo era una sua creatura.

Sin da quando era ragazzino avevano avuto un legame particolare: in pratica, Matteo andava a scuola da Riina. Ed era una classe speciale, quella del maestro Totò: c’era il meglio dei rampolli di Cosa nostra; i predestinati, quelli che avrebbero tramandato sangue e mafiosità e che avrebbero gestito la nostra macchina fabbricapiccioli, dato che facevamo soldi ovunque e comunque.

Era una scuola d’élite, e infatti non tutti ne facevano parte, ma solo pochi eletti: Madonia, Graviano, questo gruppo qua, insomma. Con la differenza che tutti erano già noti alle forze dell’ordine. Graviano, per dire, era ricercato dal 1984.

Matteo, invece, era l’unico che ancora era invisibile pure per gli sbirri. E come sempre accade nella nostra storia, questa alta scuola di formazione e specializzazione in mafia & affini del maestro Riina non era solo un gesto filantropico, ma aveva dell’altro.

Perché i ragazzi dotati come Matteo avevano bisogno della saggezza di Riina per sapere sfruttare meglio il loro prestigio, è vero – perché quello che vale per l’Uomo Ragno vale anche per noi: da un grande potere derivano sempre grandi responsabilità –, ma Riina aveva anche bisogno di farsi degli amici, magari giovani, fidati, sempre per l’ossessione che aveva di spiare tutti e tutto controllare.

E se mettere qualche osservatore, diciamo così, in un mandamento era cosa facile, crescere delle spie in casa, far fare ai figli le spie nei confronti dei padri, be’, questo, bisogna riconoscerlo, era un’idea geniale. E quindi il signor Totuccio voleva una classe di uomini eccezionali e fedeli come carabinieri, se ci potete perdonare l’audace paragone, ma il senso è quello.

Tanto che, più in là, quando ha avvertito, con il sesto senso che hanno i cani di mànnara, che la sua ora era giunta e che qualcuno era pronto a tradirlo come Giuda, e a consegnarlo, ci ha preso in disparte e ci ha detto: se mi succede qualcosa… ci sono i picciotti… Matteo e i Graviano sanno.

Ogni dettaglio, ogni progetto, ogni strategia. Sanno. E dispiace un po’ che poi, in quelle intercettazioni fatte in carcere, mentre passeggiava con questo Alberto Lorusso (il capo dei capi ridotto a fare confidenze a un pregiudicato pugliese, che triste fine…), Riina non si sia lasciato andare alla malinconia dei ricordi, del maestro che si vanta di avere avuto l’allievo diventato famoso, il migliore dei suoi diplomati (ma già si capiva, ah, sapesse, che testa, che sagacia, e giù magari a raccontare aneddoti e storielle… quando mai!), ma anzi, preso dall’aterosclerosi e dal rancore stupido dei vecchi, ha buttato veleno su Matteo e lo ha in pratica rinnegato: so padri bonarmuzza era un bravo cristiano, mi duna ’stu figghiu pi farini chiddru c’aviva a fari… stette quattro, cinc’anni cu mia… andava bene. Minchia, poi si mise a fare pala d’a luci, pala d’a luci a tutti i banni…

E poi un’altra volta, sempre su Matteo: l’unico ragazzo che avrebbe potuto fare qualcosa perché era dritto… ’u patri bono l’aveva avuto, bono era, il ragazzo aveva avuto questa scuola che ci fici io… minchia. E ci siamo tanto interrogati su queste parole amare di Riina del 2013. E c’erano quelli tra noi che erano disgustati, come quando ti capita la mennula, la mandorla acre in bocca, sia per la trappola in cui era caduto colui che si riteneva il più furbo di tutti, sia per il modo in cui aveva trattato Matteo e un po’ tutti noi, come se con l’affare delle pale eoliche non avessimo pagato anche un po’ i suoi avvocati… E c’erano quegli altri che dicevano che si trattava alla fine di un vecchio rincoglionito, che avrebbe anche potuto raccontare tutto a un ladro di polli nell’ora d’aria di un carcere milanese, ma tanto non gli avrebbe creduto nessuno; ormai la sua testa era andata, si poteva anche avvelenare, che da noi poi il veleno ha il sapore della mandorla amara.

Ma c’era infine chi ci spiegava: non lo capite? Non lo capite che lo fa apposta? Per difendere Matteo, per mettere distanza, per riconoscere il segno compiuto di un passaggio? Ma non lo capite che è una dichiarazione d’amore? Il maestro dice addio alla sua creatura, al suo terribile successore, e lo fa a modo suo.

Ci sta dicendo che adesso è pronto a mollare tutto e a dimenticare tutto, altroché, a morire nelle sue stelle buie. E altro che mandorle amare, ci sta lasciando con la promessa che tutto muore e rinasce sempre, come ci insegna a ogni fine gelata di febbraio il mandorlo in fiore.

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

L’ASCESA DEL LATITANTE MESSINA DENARO. Non solo ammazzatine, la mafia trapanese tra droga e logge segrete. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su il domani il 19 febbraio 2023

Ci davamo anche alla bella vita, perché avevamo i soldi, tanti, della droga, davvero tantissimi, che con i nostri amici americani venivano facili facili. E noi eravamo bravi nella logistica, come quando ci fu il fatto del Big John, un vecchio mercantile che arrivò da noi con un carico di 500 chili e rotti di cocaina...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Ma non dovete credere che noi facevamo solo ammazzatine, con Matteo.

Ci davamo anche alla bella vita, perché avevamo i soldi, tanti, della droga, davvero tantissimi, che con i nostri amici americani venivano facili facili. E noi eravamo bravi nella logistica, come quando ci fu il fatto del Big John, un vecchio mercantile che arrivò da noi con un carico di 500 chili e rotti di cocaina – il prezzo: ventimila dollari al chilo – per essere poi lavorata e inviata in tutta Europa, perché avevamo noi l’esclusiva.

Era la notte dell’Epifania e anziché arrivare i Re Magi arrivò questo dono, questa nave cilena battente bandiera panamense, che era partita per noi dai Caraibi. Il più grande accordo criminale di fine secolo: il patto tra Cosa nostra e il cartello di Medellín. Eravamo capaci di tutto.

Il ricordo del traffico delle bionde, che dovevamo gestire con i napoletani, era sbiadito. Avevamo cominciato così, nascondendo l’eroina nei barattoli dei pomodori pelati, ed eravamo arrivati in poco tempo a gestire l’intero ciclo di produzione e vendita della droga, con una raffineria che era un gioiello, messa su nell’84 ad Alcamo.

Un impianto modernissimo, il più grande in Sicilia, una villa e tre capannoni, in Contrada Virgini, nascosto tra le bottiglie di salsa di pomodoro e i topi, dove lavoravamo febbricitanti a turno, senza soste, improvvisando artifizi chimici, grammo su grammo, da vendere poi al dettaglio alle file interminabili di disperati che dipendevano dalla nostra roba, o all’ingrosso nei mercati raggiunti dalle navi che ci aspettavano fuori dal porto.

Se ci avessero intercettati, ci avrebbero sentiti parlare di tropeina e benzoile, di cristallizzazione e di punti di fusione. Altro che Breaking Bad! E poi avevamo gli appalti, e le società, dalla pesca all’edilizia. E pure il contrabbando di sigarette, perché eravamo anche un po’ nostalgici. E il fiore all’occhiello era «Stella d’Oriente», la società ittica di Mazara del Vallo, con Pino Mandalari, uomo di Riina, commercialista e massone.

LA MASSONERIA

Ah, questa cosa della massoneria. Quante ne abbiamo lette. Quante analisi, quante supposizioni. I massoni per noi andavano bene, soprattutto se c’era da aggiustare i processi.

Ma gli anziani, che avevano il pudore del denaro, e non sapevano né leggere né scrivere, avevano comunque da insegnarci: con i massoni bisogna prendere e non dare. E quindi non c’era da fare giuramenti, adesioni, aprire logge; non ne avevamo bisogno, noi di fratellanza ne avevamo una, e ci bastava, ma ci interessava far qualcosa insieme, sì.

Prendere senza dare, appunto, era la regola. I massoni andavano tutelati, perché ci potevano servire. Si diceva che il capofamiglia di Mazara, Mariano Agate, era massone, ma per gli altri non c’era nulla di male, purché rispettasse sempre la regola: prendere senza dare. Anche perché i massoni millantavano amicizie influenti, e quindi potevano essere utili.

Per esempio per la strage di Pizzolungo a Trapani, nell’85, quella della mamma e dei gemellini, eh, lì per esempio ci provammo ad avvicinare i giudici con qualche massone; o per il processo per l’omicidio del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari.

Ma in realtà anche questi agganci a noi ci servivano a poco. E sapete perché? Perché eravamo dentro le aule di giustizia da tempo, lo siamo sempre stati, con garbo, senza disturbare più di tanto, suggerendo e orientando procuratori, pretori, giudici, giudici a latere, giudici popolari, giudici di pace, anche, certo; e giudici amministrativi, consiglieri di stato, magistrati delle acque, dell’infanzia, della minchia, tutti, e lo facevamo da quando gli avevamo fatto capire, noi, crasti, che quella scritta, la legge è uguale per tutti, quella che campeggia bella italica e fiera nelle aule di giustizia, era rivolta al popolo, agli avvocati, agli imputati, all’uditorio. Ma mica era rivolta a loro.

Loro non ce l’avevano mica davanti, non potevano leggerla. E andava bene così. Come in quel canto popolare siciliano di fine Ottocento: «Chi vuole la giustizia se la faccia, nessuno più oramai la farà per te!». E noi avevamo imparato a farla, la giustizia, e a farci amici i giudici.

Eravamo sempre innocenti, con tutte le prove contrarie. Perché avvicinavamo, parlavamo, aggiustavamo. E perché spiegavamo che dalla nostra innocenza, alla fine, dipendeva anche la loro. I nostri avvocati erano i principi del foro, compravano e vendevano le libertà provvisorie e le buone condotte, le assoluzioni e le perizie mediche. Nessuna porta della camera di consiglio era mai davvero chiusa, per noi.

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Rocco Chinnici e Giovanni Falcone, quando la mafia comincia ad avere paura. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA", DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 20 febbraio 2023

Il 14 luglio 1984. Questo aereo veniva dal Brasile. Portava uno dei nostri che era stato arrestato, e che aveva deciso di parlare. Si chiamava Masino Buscetta. Due giorni dopo già riempiva verbali. Su Cosa nostra, la guerra, i Corleonesi. Un tragediatore...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Voi non ci credete, ma i più sinceri e precisi biografi del dottore Falcone eravamo noi. Noi eravamo gli unici ad appuntare i suoi avanzamenti di carriera e i suoi successi, senza invidia, senza ragionare sul personaggio, concentrandoci su quello che faceva, perché per noi era la prima regola, come la mamma ci aveva insegnato: bisogna conoscere il nemico, poi bisogna dargli un prezzo, perché tutti hanno un prezzo, poi, infine, comprarlo.

E se non si può comprare, allora bisogna conoscerlo meglio, perché i primi a essere in vendita sono quelli che ti dicono che «la libertà non ha prezzo», eccetera, e tutti hanno un prezzo, perché tutti, semplicemente, desiderano; e a chi non gli piacciono le femmine gli piacciono gli uomini, o magari gli animali, o magari giocare a carte la sera e mangiarsi lo stipendio e il villino a Mondello.

Non dovete pensare che era difficile, anzi, era pure economico. Perché noi lo avevamo capito da subito: corrompere un giudice può costare caro la prima volta. Dalla seconda in poi, è gratis.

E quindi Falcone lo seguivamo, quasi gli facevamo la corte, da quando si unì al gruppo voluto dal dottore Rocco Chinnici a Palermo, per fare il pool antimafia – come lo chiamavano. E poi dopo che a Chinnici i palermitani gli hanno messo la bomba, ecco spuntare Antonino Caponnetto, e il dottore Falcone sempre lì. Questa cosa del pool a noi aveva cominciato a preoccupare, sempre per quel fatto che noi come Cosa nostra eravamo prima di tutto criminalità organizzata, e in questo aggettivo c’era tutto.

La magistratura, invece, era disorganizzata, per usare un eufemismo. Ognuno che si faceva i cazzi suoi, colleghi che si odiavano, magistrati che si imboscavano, o che pensavano a sistemare le amanti. Quelli, invece, quelli del pool, avevano cominciato a ragionare come… la criminalità organizzata! Si davano i compiti, condividevano le informazioni, mettevano insieme le carte. E così, mettendo insieme i fatti, arrivarono a capire che non c’erano bande in sciàrria, a Palermo, ma famiglie unite, con un capo, un quartiere o un paese, e i capifamiglia, e i capiprovincia.

Ci hanno fatto i raggi X, quelli del pool. Adesso anche loro giocavano di squadra come noi. E studiavano i fatti di prima, e i fatti di dopo, e le minchiatine come le cose serie. Cominciarono a occuparsi meno degli omicidi e più dei soldi, e a fare vai e vieni dalla Svizzera, come dall’America.

E si arrivò a questo rapporto di carabinieri e polizia, anche loro insieme, del 12 luglio 1982, con la storia di Michele Greco e di altre 160 persone, con gli omicidi, la droga, le estorsioni. Tutto messo insieme.

MASINO BUSCETTA IL “TRAGEDIATORE”

L’Italia festeggiava la Coppa del mondo che avevamo vinto il giorno prima ai Mondiali in Spagna, contro la Germania. E loro anziché scendere in piazza e fare casino, che ogni tanto per finire e firmare quell’inchiesta. E poi ci furono altri rapporti, altre indagini; ci si mise pure la Finanza a fare accertamenti. Ecco perché i palermitani decisero che era il caso di uccidere il dottore Chinnici. Ma non servì a nulla.

Anzi, quelli continuavano più di prima: arrivavano alla Spagna, ai gruppi napoletani, ricostruirono omicidi, scoprirono la camera della morte, come la chiamarono i giornali, che poi era il posto dove interrogavamo e poi torturavamo le persone.

E i giornali cominciarono a parlare degli incaprettamenti, che prima si strozzavano le persone, e dopo gli si faceva passare la corda attorno al collo e gli si piegavano le gambe, a tirare, che lui, pure magari se era ancora vivo, non poteva muoversi. E poi si misero addosso ai cugini Salvo, quelli di Salemi, e per un attimo ci tremarono le gambe, che se la cavalleria entrava nella nostra provincia, in quel momento, ci trovava tutti impreparati.

Ma noi non interessavamo, per fortuna: è come a Monopoli, quando ti fermi su un terreno e non lo compri, poi magari ti penti perché scopri che era invece strategico per la vittoria… E quindi ci fu «Pizza connection», che fu un terremoto per le famiglie americane, e le indagini si spostarono sui catanesi e il giro di droga dal medioriente. E se tutto questo sembrava tanto, il peggio doveva ancora arrivare. E arrivò con un aereo.

Il 14 luglio 1984. Non era l’aereo che negli stessi giorni aveva portato Diego Armando Maradona da Barcellona a Napoli, nel tripudio della città intera. Questo aereo veniva dal Brasile. Portava uno dei nostri che era stato arrestato, e che aveva deciso di parlare.

Si chiamava Masino Buscetta. Due giorni dopo già riempiva verbali. Su Cosa nostra, la guerra, i Corleonesi. Un tragediatore. Anche qui, dobbiamo precisare una cosa. Buscetta non era il primo che cantava. È diventato il più famoso, certo, ma come lui, tragediatori, ce n’erano stati a decine, prima. Altri uomini che avevano tradito gli amici, la loro famiglia e se stessi cantando con la polizia.

Non c’era stato ad esempio Giuseppe Di Cristina, che pareva che non trovava pace se non fermava i Corleonesi, e aveva cantato tutto a un carabiniere, nel ’78? Gli aveva spiegato per filo e per segno cosa avevano intenzione di fare, quanto erano diversi: oggi la definiremmo una «variante più aggressiva di Cosa nostra». Ma non fu ascoltato.

La vera novità, adesso, è che per la prima volta c’erano orecchie intente ad ascoltare, c’era qualcuno che verbalizzava non per cestinare od occultare, non per riempire di omissis o depistare, ma, davvero, per prendere appunti, capire, cercando una sintonia. Fino al mandato di cattura del 29 settembre 1984: Abbate Giovanni + 365. In pratica uno per ogni giorno dell’anno.

Lo chiamarono «blitz di San Michele», perché era la festa di San Michele Arcangelo, quello con la spada, che era un po’ il nostro protettore, e invece giusto giusto andò a capitare quel giorno. Noleggiarono anche un aereo, un Dc-9, per portare gli arrestati in carcere. Ai tempi lo Stato era capace anche di quello. Oggi invece neanche c’è la benzina per le volanti, altro che aerei. [...]

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Il maxi processo di Palermo e la sentenza che cambiò il corso della storia. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA", DI GIACOMO DI GIROLAMO su il Domani il 21 febbraio 2023

Il 23 ottobre del 1991 il Maxiprocesso venne iscritto in Cassazione. E non era più assegnato al giudice che noi volevamo. Era un altro. La prima udienza si tenne il 9 dicembre del 1991. Erano i giorni in cui veniva firmato il trattato di scioglimento dell’Unione Sovietica, la dissoluzione di un impero. Ci sembrava un cattivo presagio

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Perché di noi in tanti sapevano già a fine dell’Ottocento; c’erano stati importanti investigatori che ci avevano visto giusto. Al procuratore del re, nel 1898, il funzionario di polizia di Palermo, Ermanno Sangiorgi, aveva inviato in poco tempo 31 rapporti che descrivevano la mafia e quello che oggi chiamate «Mondo di mezzo». Rimasero lì.

Nell’anno 1900 tondo tondo Luigi Sturzo aveva scritto pure un dramma teatrale, La mafia, perché non c’era ancora la tv e il teatro era il modo per arrivare a tutti. E a un certo punto uno degli attori dice: «La mafia serve per domani essere servita, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia ma afferra anche a Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti, sottrae documenti…». Nel 1900! E poi c’erano stati Cesare Mori, e Dalla Chiesa che, ancora prima di essere prefetto a Palermo, aveva scritto un rapporto investigativo, chiamato «dei 114», nel 1971, dopo l’omicidio del procuratore Scaglione. E noi come sempre avevamo scelto il tempo dell’attesa, con il nostro mantra, l’autodifesa: calati juncu. E la piena passò.

Perché ancora una volta il caso prevalse sull’ordine e sull’organizzazione, le invidie e le gelosie come fiumi carsici tornarono a esplodere in superficie e furono violente. Povero dottore Falcone, sperava di prendere il posto di Caponnetto alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo; gli preferirono un altro, Antonino Meli. Il pool venne smantellato. E loro tornarono a essere tutti come piaceva a noi: disorientati.

Il dottore Paolo Borsellino se ne andò a fare il procuratore a Marsala, e questo non lo avevamo messo in conto e fu, scusate l’eufemismo, come avere infilato un dito nel culo. Schivi la granata, e ti colpisce la scheggia. E qui dobbiamo dire che Borsellino a Marsala si era messo a fare indagini, a curiosare, a chiedere, e per la prima volta avevamo il nemico in casa.

E noi pensammo a come farlo fuori, solo che ogni volta che eravamo convinti il piano saltava in aria, un po’ perché i palermitani volevano che si facesse una cosa discreta, un po’ perché qualcuno si buttava pentito, un’altra volta perché ci dissero: statevi buoni, che prima dobbiamo aggiustare ’sta cosa del Maxiprocesso.

E il dottore Falcone? Non lo avevamo perso di vista. Prendeva colpi, ma non perdeva l’ambizione. Voleva diventare procuratore aggiunto. Nel frattempo, quello che chiamavano «il Corvo» spediva lettere ai giornali su certe sue scorrettezze, e chi gli voleva bene cominciò a parlare di «delegittimazione». Scampò per miracolo a un attentato esplosivo tra gli scogli dell’Addaura, dove aveva preso un villino. Divenne procuratore aggiunto, ma il suo capo, Giammanco, non era proprio il migliore dei colleghi, per lui.

L’obiettivo era stato raggiunto: Palermo gli era diventata invivibile. E lui che fa? Cornuto di un giudice, se ne va a Roma, a fare il dirigente degli Affari penali al ministero della Giustizia, su invito del ministro Claudio Martelli. Quelli di noi più ingenui dicevano: bene, ci è finita, se ne va a Roma a fare la bella statuina per il ministro che vuole fare credere che l’Italia sta combattendo davvero la mafia, quando poi a Palermo la mafia vota il suo partito. E invece non sapevano con chi avevano a che fare.

Perché il dottore Falcone cominciò a fare circolari, proposte di legge, di decreti. Un provvedimento, ad esempio, per contrastare il riciclaggio. Un altro, che aggravava le pene per i mafiosi e prevedeva sconti di pena a chi si dissociava. Un altro ancora, per sciogliere i comuni inquinati dalla mafia. E poi un altro per creare un fondo di sostegno a chi denunciava l’estorsione. Minchia, peggio di una retata.

E poi l’istituzione, a novembre del 1991, di una specie di super procura, una polizia speciale, una sigla che abbiamo imparato a vedere spesso nelle pettorine di chi bussa alle prime luci dell’alba per entrarci in casa e fare delle perquisizioni, o portarci in carcere: la Dia, Direzione Investigativa Antimafia. Ma non era meglio che se ne restava a Palermo, il dottore Falcone? Da quella maxi ordinanza del novembre del 1985, che in pratica ricapitolava una specie di storia della mafia, ne nacque un processo, così grande che lo chiamarono Maxi.

Ma non era tanto il numero di imputati a preoccuparci, quanto l’idea di fondo, il teorema che ci vedeva come organizzazione, uniti e definiti. Se si mette nero su bianco ’sta cosa è finita, dicevano gli avvocati. Perché?, gli chiedevamo (mentre bestemmiavamo perché è facile corrompere un giudice quanto è impossibile fare parlare chiaro l’avvocato…).

Perché, rispondevano quelli, mentre preparavano notule di spese per ogni trasferta, colloquio, «studio pratiche» e pure per le «telefonate» – ci mancava solo la voce: spiegazione di come te la stanno mettendo in culo. Perché, ti dicevano, se passa il teorema che noi sappiamo essere infondato, vero? (risatina, noi non ridevamo, l’avvocato si sistemava il riporto e continuava), se passa questa idea, siete fottuti. Ma quale idea? Quella che siete tutti una cosa.

Non capite cosa significa? Che in pratica tutti rispondete di tutto. Perché dietro c’è «l’organizzazione». Ammazzate a uno? E vale per chi lo ammazza, per chi porta la macchina, per chi dà l’ordine… ’U capistivo?! L’avevamo capito. Ed eravamo fottuti.

LE SENTENZE DEL “MAXI”

E così arrivò la sentenza della Corte d’assise di Palermo, il 16 dicembre del 1987. Pochi mesi prima, Maradona aveva fatto vincere al Napoli il primo scudetto della sua storia. E il dottore Falcone aveva fatto vincere all’antimafia il suo primo campionato. Come gli aveva detto una volta Michele Greco, il Papa, durante un interrogatorio: «Lei è il Maradona del diritto, quando prende la palla non gliela leva più nessuno».

La sentenza ci aveva letto nelle viscere delle nostre paure, perché condannava tutti i rappresentanti di Cosa nostra a Palermo e provincia, non solo Riina e Provenzano, ma tanti altri, dai soldati semplici ai capi. E il giudice aveva ritenuto che noi eravamo una cosa sola, una Cosa nostra, che funzionava con le famiglie, le commissioni, i mandamenti, la cupola. E ci aveva fatto la fotografia, con la guerra di mafia, gli omicidi, le strategie.

Poi era venuta la sentenza di appello del 12 dicembre del 1990; l’Italia era un po’ più distratta, c’era meno clamore, e così eravamo riusciti ad avere un bel po’ di assoluzioni. Maradona aveva fatto vincere al Napoli il suo secondo scudetto, quelli del pool invece avevano perso punti. Tornavamo in partita. Riina e Provenzano se ne uscivano bene, e se loro erano tranquilli anche noi dovevamo esserlo. Mancava solo la Cassazione, l’ultima aggiustatina.

[...]In Cassazione, con un’interpretazione rigorosa – appunto – della legge, tra un hic et nunc, un ope legis, un ad hoc, un sed etiam, un’interpretazione a trasi e nesci, eravamo riusciti a fare scarcerare 40 boss imputati del Maxiprocesso. E qualcuno strepitava, parlava di «errori plateali», «volontà di liquidazione del lavoro di pm e giudici», ma perché? Non sono giudici anche quelli? Tutto a posto, dunque, tutto in ordine, commentavamo sazi dei brocioloni addentati nei nostri pranzi domenicali.

Senonché ti spuntò bello bello il ministro della Giustizia Martelli che decise, su suggerimento del dottore Giovanni Falcone, di giocarsi la matta. E la matta era la rotazione dei giudici, come in certi film polizieschi, quando scoprono che la giuria è corrotta e la cambiano all’ultimo, no?

Ecco, quei film non hanno inventato nulla. Il 23 ottobre del 1991 il Maxiprocesso venne iscritto in Cassazione. E non era più assegnato al giudice che noi volevamo. Era un altro. La prima udienza si tenne il 9 dicembre del 1991. Erano i giorni in cui veniva firmato il trattato di scioglimento dell’Unione Sovietica, la dissoluzione di un impero. Ci sembrava un cattivo presagio

A disposizione dello "zio Totò", così i Messina Denaro vanno alla guerra. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 22 febbraio 2023

Mentre i catanesi erano un po’ timidi, noi, in provincia di Trapani, subito mettemmo a disposizione la nostra forza militare e logistica, gli uomini migliori, le armi, i covi, e tutto quello che potevamo. La mamma era pronta ad apparecchiare un posto in tavola in più, se c’era bisogno, a cunzare il letto per qualche amico...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro "Matteo va alla guerra", scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

A settembre gli amici romani ci avevano confermato quello che i più scaltri tra noi avevano già intuito: la decisione del ministro Martelli e del dottore Falcone. E cioè che anche per i processi in Cassazione ci doveva essere la rotazione dei giudici, e che non avremmo avuto sicuramente quel giudice, il dottore Carnevale, che per noi era giusto come papa Giovanni.

Qualcuno ci consigliava: dovete fare come quegli albanesi, prendete una nave e scappate. Oppure restate e fate finta che siete albanesi in Italia. I palermitani erano inferociti. Non possiamo permettere che tutto questo accada: noi siamo il governo più forte del governo.

Fissammo una riunione a Castelvetrano a fine ottobre del 1991. Lì decidemmo: bisognava ammazzare Giovanni Falcone. Ma bisognava anche ammazzare Claudio Martelli. E Maurizio Costanzo, quello del Maurizio Costanzo Show. E allora a un certo punto pare tipo quando c’era il juke box al chiosco del lido di Triscina, e ognuno voleva mettere la sua canzone, e Matteo aveva sempre gettoni per tutti. Ognuno diceva un nome, e Matteo faceva: oh! Come per dire: ecco.

Era seduto alla destra di Totò Riina, come sempre, e c’erano i fratelli Graviano, da Palermo. Tutti parlavano e si lamentavano e facevano nomi, anche di sconosciuti: un secondino vastaso, un commerciante che stava sulle palle. Oppure dicevano: bisogna sterminare i pentiti fino alla ventesima generazione! ’U Zi Totò non riusciva a tenere a bada tutti. Finché Matteo fece di nuovo: oh! Come per dire: calma. E tutti ci calmammo.

Ci vuole tempo, disse allora, ci vuole pazienza, stare accorti, muoversi nell’ombra. Era scuro in volto, Riina, sapeva qualcosa che non ci voleva dire, perché fosse per noi li avremmo ammazzati tutti e subito, quelli della lista. E invece era come se ci fosse un altro tavolo, da qualche altra parte, oltre il sipario di quella commedia che noi stavamo portando in scena, e a quel tavolo ’u Zi Totò non era neanche a capotavola a dare ordini, come dire, ma a fianco di qualcuno. E magari gli ordini li prendeva. Poi disse: va bene. Va bene cosa? Potete andare, ci rivediamo.

Mentre i catanesi erano un po’ timidi, noi, in provincia di Trapani, subito mettemmo a disposizione la nostra forza militare e logistica, gli uomini migliori, le armi, i covi, e tutto quello che potevamo.

La mamma era pronta ad apparecchiare un posto in tavola in più, se c’era bisogno, a cunzare il letto per qualche amico, prendere i soldi dal barattolo che stava nascosto sulla mensola alta dello stipo, i risparmi per le emergenze. La mamma, la nostra mamma, ha un cuore grande.

RIUNIONI E "AVVERTIMENTI"

E ci rivedemmo a Palermo, a casa di Salvatore Biondino. Riina ci disse che aveva una lista, e che gli obiettivi fuori dalla lista dovevano essere concordati con lui. E che bisognava partire per Roma. A Roma infatti c’era Giovanni Falcone, che si era trasferito lì, al ministero della Giustizia guidato da Claudio Martelli, a dirigere gli Affari penali.

E il dottore Falcone aveva convinto il ministro a riportare in carcere quaranta imputati del Maxiprocesso che erano usciti a febbraio per decorrenza dei termini, in attesa del verdetto della Cassazione. Ecco che a tutti noi venne fretta.

Falcone a Roma era pericoloso peggio che a Palermo, per questo bisognava partire. E poi ci avevano detto che aveva tra le mani un altro rapporto, che si chiamava «Mafia e Appalti» e c’erano dentro troppe cose. Angelo Siino aveva nel frattempo parlato di nuovo con Salvo Lima: voleva garanzie dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti. E Lima era stato sprezzante, in un modo che non ci meritavamo, dopo tutto quello che avevamo fatto per lui e il suo partito.

Aveva detto a Siino: «Ma cosa gli pareva a questi quattro pecorai, che il presidente Andreotti si sarebbe dimenticato dello sgarbo che gli hanno fatto alle elezioni quando in Sicilia hanno fatto votare il Psi?».

Nell’86, infatti, era successo che per la prima volta avevamo deciso di voltare le spalle alla Democrazia cristiana. Riina ci aveva detto: «Si cambia cavallo, si vota socialista». Binnu Provenzano non era d’accordo, ma poi si era convinto.

Era per dare una lezione alla Dc. Solo a Palermo eravamo riusciti a fare raddoppiare i voti ai socialisti. Quattro pecorari. Ce lo eravamo segnato.

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Contro i giudici e contro lo stato, ecco la misteriosa “Falange Armata”. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO Su Il Domani il 23 febbraio 2023

Cosa nostra, ma anche una cosa sola, unica, contro tutto il mondo. Ci sembrava di rendere giustizia a quella visione dello scrittore Leonardo Sciascia: tutta l’Italia che diventava il nostro campo minato, tutta l’Italia che diventava Sicilia. Sì, ma se chiedono chi è stato, noi che diciamo?...

Andavamo avanti di riunione in riunione. C’era fretta, era cominciato un conto alla rovescia. A un incontro c’erano tutti i capimafia siciliani, ovviamente anche Matteo. Ormai la guerra allo Stato era decisa. E bastava un’occhiataccia d’u Siccu per zittire quelli che ancora tentavano di capire che fine avessero fatto tutte quelle alleanze che avevamo costruito negli anni, e che furono costruite dai nostri nonni, e che sempre ci portavamo dietro; quel bagaglio di senatori e giudici, eminenze, eccellenze e riverenze, che sono stati sempre al nostro fianco. Dove sono?

Nessuno osava chiedere, nessuno rispondeva. Non funzionano più, si limitò a dire Matteo, beddro spicchio, mentre Zi Totò sembrava un disco rotto, e ripeteva un mantra in continuazione: bisogna fare la guerra per fare la pace, ripeteva. Ma noi eravamo storicamente nemici di ogni forma di guerra e di ogni forma di pace: ci piaceva l’aridità dei sentimenti, se no non saremmo stati Cosa nostra, ma terroristi, banda armata, partito politico, fate voi, ma non certo Cosa nostra.

Ma questo a quanto pare non interessava, dal momento in cui Matteo ci spiegò che avremmo fatto attentati, e per fare attentati bisognava sistemare quel famoso elenco, cominciare a stabilire le priorità. In cima c’era il dottore Falcone, che è già un morto che cammina e non lo sa, ma poi bisognava mettere un po’ tutto in ordine.

A chi volevamo sparare: ai politici, a Salvo Lima, a Ignazio Salvo, a qualche cornuto sbirro, altri magistrati. Scrivevamo. Tipo il gioco nomi-cose-colori-città, scrivevamo di fretta, che le idee buone duravano un attimo. Gli uffici postali. Ottimo! I tralicci dell’Enel. Grande idea! Le questure e le caserme. Giusto! Le sezioni della Democrazia cristiana. Perché no?

Lo vedete che quando volete il cervello vi funziona?, ci esortava Matteo. Continuate! Continuate! Vogliamo il caos. Il rosso e il giallo sono i colori della Sicilia – ci sorprendemmo a immaginare – e diventeranno i nostri colori, rosso come il sangue, come la terra sollevata dall’esplosivo, giallo come il sole che illuminerà la nostra guerra, perché faremo tutto di giorno, senza paura, noi, che in quel momento cominciavamo a sentirci non solo Cosa nostra, ma anche una cosa sola, unica, contro tutto il mondo. Ci sembrava di rendere giustizia a quella visione dello scrittore Leonardo Sciascia: tutta l’Italia che diventava il nostro campo minato, tutta l’Italia che diventava Sicilia.

Sì, ma se chiedono chi è stato, noi che diciamo? Anche per questo ci fu una risposta.

Ci firmeremo Falange Armata. Che significa? Nessuna risposta.

LA FALANGE ARMATA

[…] Antica la promessa, nuova la sigla. Falange Armata divenne la nostra firma. Per le cose piccole come per le cose grandi, le telefonate e gli attentati, e cioè tutto quel teatrino di cartapesta che stavamo mettendo su. Pronto, chi parla? Falange Armata. Chi ha fatto saltare in aria i giudici? Falange Armata. Chi ha mangiato la torta? Falange Armata. Chi c’è dietro la piovra? Falange Armata.

Tra il 1990 e il 1994 sono stati rivendicati con questa sigla almeno una ventina tra omicidi e attentati. Pure le stragi del ’93. E quando al telegiornale si parlava di questi fatti, e della rivendicazione, noi sorridevamo di contentezza per la nostra spirtizza e di soddisfazione, molta soddisfazione.

Alla fine bastava così poco: mettere la firma di un altro, inventarsi un nome, e quelli avrebbero cercato le Brigate rosse – che in Italia ancora erano di moda –, le Brigate nere, le bande armate, l’estrema destra, i comunisti e gli squadroni. In quanto spirtizza sapevamo che sarebbe durata poco, ma ci avrebbe dato un vantaggio, che per alcuni era il vantaggio della fuga, per altri quello del disorientamento.

E i catanesi, che tanto avevano mostrato resistenza al nostro piano, furono i primi, però, a sperimentare l’utilizzo di quella sigla, come nel caso di una piccola prova che fu fatta a Catania, tanto per fare scruscio. Ed è una cosa che ci dispiace che oggi non ne parla più nessuno, perché fu invece una tappa importante del nostro percorso. E ci riferiamo a un attentato niente di meno che a casa del più popolare presentatore tv italiano, che non era Maurizio Costanzo, ma Pippo Baudo. E il 2 novembre del ’91, giorno dei morti, facemmo esplodere della dinamite nella casa di villeggiatura di Pippo Baudo, a Santa Tecla, sotto la celebre Timpa di Acireale, tra il mare e l’Etna.

Un paesaggio grandioso, ideale per fare ritrovare la calma e la serenità a una persona così famosa come lui. E noi la casa l’avevamo letteralmente distrutta. E avevamo scelto Pippo Baudo perché qualche giorno prima lui, siciliano, aveva parlato male della mafia in tv; aveva chiesto addirittura leggi speciali. Ma perché non pensava a Fantastico, a Sanremo, ai miliardi di piccioli che gli davano la Rai e Berlusconi per contenderselo? E quindi i catanesi avevano deciso che Baudo poteva essere il primo a testare la nostra nuova linea, e la nostra nuova firma. Non era né per soldi, né per estorsione. Solo per questo.

Gli pareva che la notorietà e il successo lo rendevano intoccabile? Erano venuti di notte dal mare, erano entrati segando le barre del cancello, avevano piazzato l’esplosivo a ridosso dei muri portanti. Il botto e il bagliore avevano svegliato mezza città. Firmato: Falange Armata. […].

Quel nome, Falange Armata, ci rendeva intoccabili, quasi dei supereroi; era un viavai di armi ed esplosivi, di apparecchi e di telecomandi. Progettavamo attentati: dal giudice a latere del Maxiprocesso, Piero Grasso, a Di Pietro, quello di Mani Pulite. Facevamo così tante telefonate anonime che a un certo punto non trovavamo più gettoni in tasca da utilizzare nelle cabine, e i giornali cominciarono a chiamarci «i falangisti», tracciando origini storiche («La Spagna di Franco…», per esempio. E chi la doveva conoscere? Per noi l’unico Franco era quello di Franco e Ciccio), esaminando i precedenti, che noi neanche sapevamo.

È ovvio che Falange Armata non era farina del nostro sacco. A noi la parola falange ricordava solo il primo dito che stoccavamo dalla mano di qualcuno quando cominciavamo i nostri famosi interrogatori. Parla, cornuto!, e prendevamo il dito medio e glielo piegavamo all’indietro fino a sentire una specie di crack, puntandogli contro la lama del nostro liccasapune. E quella sigla era arrivata a noi in dote, anche se non sappiamo spiegarvi bene in che modo; forse un giorno anche questa sarebbe una storia da scrivere. [...]

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Le manie di grandezza dei boss di Castelvetrano, armati come un esercito. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA", DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 24 febbraio 2023.

Accumulavamo armi come facevano i nostri padri e i nostri nonni. Perché c’era sempre bisogno di armi, in Sicilia. Per difendersi dallo stato, per attaccare, in caso qualcuno ci avesse dato l’ordine, per fare la rivoluzione o per impedire di farla, non importa...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

A proposito di armi: quelle per noi non erano un problema, non lo erano mai state. Così come ci sono le guide turistiche che vi consigliano i posti da visitare in Sicilia occidentale – le saline di Trapani, Erice, il Satiro a Mazara, le calette di Favignana –, noi avremmo potuto scrivere una guida su come girare la Sicilia tra un deposito di armi e l’altro, tra un covo pieno di esplosivo e un magazzino rifornito di kalashnikov, che erano utilissimi per colpire quelli che giravano con l’auto blindata. E non dovete pensare solo a magistrati, politici e scorte.

Le auto blindate ce le avevano anche molti di noi, soprattutto quelli che più si scantavano che li facevamo fuori, e allora ricorrevano a una specie di scorta, e all’auto blindata fatta venire da fuori. E a volte accadeva che magari noi non lo sapevamo che dovevamo fare a uno, ma quello cominciava a girare con l’auto blindata e, insomma, si mangiava la polvere – excusatio non petita, come dicono i latini –, e quindi ci toccava ammazzarlo. Nell’indifferenza generale, avevamo trasformato il nostro territorio in una santabarbara. Lo facevamo da tempo.

Accumulavamo armi come facevano i nostri padri e i nostri nonni, o come da ragazzini facevamo razzia di fuochi d’artificio per le masculiate delle feste del santo del paese, e che a noi invece servivano per i nostri primi crudeli esperimenti sui gatti. Perché c’era sempre bisogno di armi, in Sicilia. Per difendersi dallo stato, per attaccare, in caso qualcuno ci avesse dato l’ordine, per fare la rivoluzione o per impedire di farla, non importa.

Avevamo i pezzi. Ed erano pronti all’uso, perché i più giovani, da noi, prima ancora che con gli omicidi, le sparatine, con gli incendi e le ammazzatine, cominciavano la loro carriera in Cosa nostra così, pulendo le armi, mettendo il grasso o il petrolio, per togliere le ossidazioni, levare i residui di polvere da sparo e le incrostazioni.

E poi bisognava fare l’inventario di pallottole e munizioni. E l’inventario era un compito noiosissimo ma fondamentale, come in quel film sul karate dove c’è il giovane che fa «dai la cera e togli la cera» per imparare a combattere. Valeva anche per noi.

COME DIVENTARE UN “BUON MAFIOSO”

Se volevi diventare un buon mafioso, non ti servivano né la punciuta, né la prova del fuoco – quella prima o poi veniva per tutti – ma, semplicemente, dovevi dimostrare di essere in grado di tenere in buone condizioni un fucile, saper passare il grasso su un mitra, contare i sacchi di esplosivo, e tenere il conto delle famiglie alle quali le armi appartenevano, perché tutto era in comune, è vero, ma ogni famiglia a tempo debito poteva anche – per cortesia – reclamare il suo; e se, ad esempio, Matteo voleva quelle pistole a cui lui teneva tanto, perché un giorno gli andava di fare un omicidio così, con un’arma piccola, e ’sta pistola non spuntava fuori, erano dolori, e capace, non stiamo babbiando, che poi la pistola era per te.

Dalle istruzioni per la manutenzione delle armi, passavamo poi a quelle per gli omicidi. Le armi andavano provate, prima. Perché, a meno che uno non nasce imparato, come Matteo, sparare a un uomo non è affatto facile. Poi bisognava capire quante persone dovevano essere a farlo: due con una moto? Una squadra per bloccare la strada? I colpi dovevano essere vicini, certo, ma non troppo, per evitare gli schizzi di sangue, che erano sempre una camurria. Nell’esecuzione da manuale, i colpi erano sempre tre: uno per fare cadere la vittima a terra, il secondo per ferirla, il terzo in testa per finirla. Senza ferocia, senza accanimento: non siamo gente cattiva.

Ma siccome c’erano sempre impirugli, un conto era il manuale, un conto era la realizzazione. Avevamo depositi dappertutto, e senza particolari precauzioni. Non c’erano caveau, né doppifondi segreti. Ci servivamo delle cave tra Mazara e Marsala che non avevamo ancora riempito di rifiuti, ma che utilizzavamo allora come deposito per armi, auto rubate, carcasse, o come alloggio di fortuna – con una brandina e una cassa d’acqua –, per qualche regolamento di conti o come poligono di tiro per le nostre esercitazioni. Avevamo depositi negli impianti di calcestruzzo, nei magazzini dei nostri frantoi, nei garage dei palazzoni alla circonvallazione di Palermo, vicino l’ospedale, in edifici storici abbandonati, nelle cisterne di acqua che assetavano i campi, nelle stalle, nelle cappelle, nei pozzi. [...].

Noi avevamo i depositi di armi da apparecchiare come presepi. L’ambaradan è lo stesso, e comprende le lucine degli alberi, magari, i cavi e i cavetti per fare l’effetto dell’acqua che scorre, e il cartone pressato per le montagne; insomma, tutto un corredo di cose, di cavi e detonatori, di mirini e silenziatori. E avevamo anche i telecomandi.

I telecomandi camminavano a coppia, come i carabinieri. Uno era ricevente, l’altro trasmittente. Li mettevamo in sacchetti separati, per non confonderli. A Palermo, in Piazza Maio, in un deposito messo a disposizione dalla famiglia di San Lorenzo, ne avevamo ben cinque coppie.

Una venne utilizzata per la strage di Via D’Amelio. Due vennero distrutte dopo la strage per evitare che fossero trovate. Le altre due le prese Matteo, insieme ad alcuni detonatori. Li nascose nella sua Alfa 164 che faceva invidia a tutti per come l’aveva personalizzata che manco Diabolik.

Aveva una specie di portabagagli segreto, che apriva con un pulsante. E una volta aveva chiesto a un amico suo meccanico di fare quella cosa che si vedeva nei film di 007, con i fari che si giravano e diventavano dei mitra. Ma l’amico suo ci aveva provato e riprovato e non c’era riuscito. E poi era sparito. Si vede che tanto amico non era.

La riunione della Cupola a Natale del 1991, così iniziò il gioco di fuoco. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA", DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 25 febbraio 2023

Riina parlava con noi, non parlava di noi. Bisognava chiudere i conti. Durante quella riunione stavamo muti ad ascoltare zio Totò. Matteo ci controllava a vista. Non voleva esitazione nei nostri sguardi, dubbi nelle nostre smorfie, perplessità nei nostri tic.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Incontro dopo incontro si arrivò alla famosa riunione, quella di Natale dell’anno 1991. Che poi era una tradizione, la facevamo ogni anno. Solo che c’era tanta malinconia nell’aria.

Per quanto ci scambiassimo gli auguri di presenza – riportando quelli di chi non poteva esserci, per opportunità, per latitanza, per malattia o perché era ospite dello Stato –, e ci rallegrassimo della nostra buona salute, non credevamo a una sola parola di quelle bugie di circostanza sulla prospettiva di un felice anno nuovo.

I più sentiti auguri di buon Natale a lei e famiglia, riferisco, e tante care cose, grazie, un bacio per guancia. Era tutta una finzione, perché il rumore del passo zoppo della giustizia cornuta ci inquietava e sembrava annientare il battito del nostro cuore: lenta e inesorabile, davvero quella volta si stava avvicinando a levarci il sonno e il benessere. Ogni capo mandamento passava dieci minuti con la Commissione di Cosa nostra, e poi ci sedevamo tutti al completo.

Non ci consolavano né i dolci di ricotta, né il passito mieloso che mandavamo giù a piccoli sorsi interrotti da sospiri di ansia. Ci davano noia persino le frasi fatte sulla pioggia che mancava, o sui tempi andati. Volevamo arrivare subito al punto. E anche Matteo era inquieto. E Riina nella sonnolenza del dopo pranzo, con gli occhi a passulune, si lasciò dire una frase, che era: dobbiamo chiudere i conti. Ci guardammo tutti per un istante. Di chi sarà il turno adesso, ci chiedevamo, c’è un traditore tra noi? E quindi, ancora una volta, qualcuno dal nostro pranzo non avrebbe fatto ritorno al paese suo. Ma Riina parlava con noi, non parlava di noi. Bisognava chiudere i conti.

Durante quella riunione stavamo muti ad ascoltare zio Totò. Matteo ci controllava a vista. Non voleva esitazione nei nostri sguardi, dubbi nelle nostre smorfie, perplessità nei nostri tic. Con quell’occhio leggermente strabico, sembrava giocare a «Un, due, tre, stella»; se il suo sguardo cadeva su di te, e scorgeva anche un minimo movimento, ti poteva finire male.

I tagliancozzi con il marsala erano acidi nei nostri stomaci, e nel silenzio del malaseno si sentiva il borbottio di qualche succo gastrico, un principio di gastrite. Sussultavamo per il rumore dei rami che ogni tanto graffiavano le imposte, spinti dallo scirocco che rendeva le bocche asciutte.

Qualcuno magari avrebbe voluto parlare, dire qualcosa, ma calò un freddo improvviso nella stanza, un’aria così glaciale che le parole ghiacciavano ancora prima di uscire dalla bocca, e il nostro alito faceva un vapore quasi come un arabesco che condensava tutti i progetti di morte.

Tra noi, Nino Giuffrè fece un gesto, come per dire qualcosa, una mano che stava per alzarsi, un leggero raschio della gola come a mettere ordine alle parole. Raffaele Ganci, accanto a lui, gli diede un colpo con il ginocchio e lo guardò dritto negli occhi. In quello sguardo tutti leggemmo l’avviso: «Statti muto». Riina sapeva che sarebbe finita male ancora prima di quella sentenza della Cassazione.

Doveva andare bene e invece andava male, ripeteva, come un ossesso. Bene, male. Bene, male. E pensare che lui personalmente ci aveva rassicurato che avrebbe aggiustato il processo. E Matteo pure era persuaso: vedrete, vedrete, diceva. E lo stesso Matteo quando poi lo interrogavamo per cercare di capire meglio il senso di quell’oracolo, quel fare la guerra che si profilava all’orizzonte dell’anno nuovo, ci diceva: ognuno si aiuti come può.

IL GELO NELLA STANZA”

Calò un gelo improvviso nella stanza. Nessuno osava alzarsi, muoversi, interrompere quello che stava facendo. Chi aveva gli occhi a terra, continuava a tenerli, chi, con la testa calata, guardava il signor Totuccio, continuò a fissarlo, chi guardava il muro con gli occhi aperti come la civetta, continuò in quella sua espressione ebete. Una mosca testarda tirava colpi alla finestra.

Prendeva la rincorsa per poi schiantarsi contro il vetro con forza. Matteo con lo sguardo controllava tutti, lentamente spostava la testa, quasi volesse pesare ogni nostro respiro. Qualcuno di noi era come in trance. Nessuno fiatava. Neanche quando ’u cristianeddru, per spezzare quel silenzio, aggiunse: «Siamo al capolinea».

Che lui intendeva la resa dei conti, ma anche Matteo, se avesse parlato, avrebbe utilizzato la stessa espressione, perché vedeva il capolinea, davvero, nel senso del «Signori, si scende» delle ultime corse della notte, per Riina e tutti gli altri. E già pregustava il nuovo corso, quello che sarebbe nato dalle rovine, i nuovi patti silenziosi e pieni, i nuovi affari.

Stiamo parlando del dottore Falcone, minchia, mormorò qualcuno più tardi, stiamo parlando dell’onorevole Lima, buttanalamiseria, stiamo parlando di personaggi di un’importanza notevole. Chiddru chi veni ni pigghiamu, tagliò corto lui. Quello che viene ci prendiamo.

Eravamo di fronte alla grande sconfitta di un capo che era convinto che sarebbe riuscito ad aggiustare le cose, e che invece andava incontro a una disfatta totale, e, come nella storia di Sansone che muore con tutti i filistei, aveva deciso di portarci tutti nel baratro con lui, ma con il nostro assenso. Ma sì, disse il primo, è l’ora della vendetta. Basta nasconderci, aggiunse un secondo.

Facciamo vedere chi siamo, arrivò chiaramente da una voce in penombra. Qualcuno lasciò partire un applauso, qualcuno si alzò in piedi, ad altri ancora si illuminarono gli occhi. Il piano stragista era divenuto il nostro piano. Non temevamo più l’avvicinarsi dei demoni. E a Matteo gli occhi brillavano ancora di più. Qualcun altro, con voce un po’ incerta, quasi avesse timore di interrompere la bella atmosfera che adesso c’era, disse: «Picciotti, se permettete dobbiamo passare a parlare del fatto di Ocello».

Ce ne eravamo dimenticati. Pietro Ocello, capo mandamento, era stato ucciso. Bisognava provvedere, trovare un sostituto, vedere se andava bene il nome di Benedetto Spera. Passammo a parlare di questo, business as usual, avrebbero detto gli inglesi.

Concludemmo con gli auguri di Natale, prima quelli di Riina a ogni capofamiglia, e poi un brindisi finale, esortandoci l’un l’altro a fermarci ancora un po’, altri cinque minuti, senza fretta: «Facciamoci le buone feste come si deve. Siamo persone per bene, manteniamo le tradizioni».

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA", DI GIACOMO DI GIROLAMO

E la mafia trapanese sale a Roma per colpire il giudice Giovanni Falcone. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 26 febbraio 2023

Quel piano, che avevamo deliberato con le riunioni della Commissione regionale, e che aveva mosso i primi passi in un incontro organizzativo generale di Castelvetrano, trovò la sua attuazione nelle riunioni operative tra fine 1991 e inizio 1992, quando si cominciò a definire innanzitutto la missione da compiere a Roma per cercare di ammazzare qualcuno dei nostri obiettivi...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

L’assetto di guerra prevedeva alcune conseguenze pratiche nella nostra organizzazione. Perché qui dobbiamo aggiungere, per rendere più chiaro il concetto, un’altra cosa. E cioè che insieme avevamo deciso e deliberato, è vero, ma che non tutti sapevamo tutto.

C’erano una serie di riunioni a gruppetti che ci servivano per le cose spicce, le cose pratiche, e quindi era importante che partecipassero solo i diretti interessati. Per contenere anche il desiderio che molti avevano – per tanti conti in sospeso che costellavano le nostre vite – di farsi giustizia da sé. E per evitare scenate di gelosia che alla mamma mai erano piaciute.

A Giovanni Brusca – così lo capite meglio – fu spiegato per filo e per segno come avremmo fatto saltare in aria l’autostrada dove passava il dottore Falcone, come fare per riconoscere l’auto, quando ammaccare il bottone del telecomando. Ma sull’attentato al dottore Borsellino, Brusca non sapeva nulla, né mai avrebbe saputo.

Era a conoscenza solo dello stretto necessario, appunto, e cioè che l’avremmo fatto. Ma siccome non lo riguardava direttamente, altro non gli era stato detto: il come, il dove, il quando, la chi, la come. Nulla. Lui si doveva occupare solo di Falcone, e in quel modo lì.

Era una strategia molto utile, perché ci metteva al riparo da fughe di notizie, sia al nostro interno, sia nel caso – che poi si sarebbe verificato – che qualcuno, come fecero poi in tanti, si fosse buttato pentito, o magari avvertisse la necessità pressante di vuotare il sacco delle confidenze. Cosa sai? Lo stretto necessario.

C’era anche chi non l’aveva presa bene, quando aveva scoperto che i tavoli erano più di uno, come i circoli e le stanzette, e che insomma alla fine eravamo stati tutti esautorati, chi più, chi meno; minchia, e insomma, un momento così importante, e poi di punto in bianco non contava più la famiglia o la Commissione provinciale?

Non c’era più da dare conto al mandamento o a qualche don ottantenne che si pisciava sui piedi e che però voleva dire ancora la sua?

UN’IDEA BRILLANTE

Il fatto è che Matteo nostro aveva avuto un’idea brillante, di quelle che solo a un capo possono venire, e questa idea era tanto bella… da non avere nome. E non dovete turbarvi, di questa cosa senza nome, perché alla fine la vera conquista di Matteo, in questi anni, se vogliamo mettere già un punto fermo a questo memoriale, è stata quella di aver sottratto la nostra definizione, e di averci trasformato in qualcosa senza nome, che non è la mafia, ma qualcosa di diverso. Cos’è? Boh. Fatta da chi? Boh.

Siamo spariti dal dizionario, grazie a Matteo, ma anche dalle Faq: mentre voi vi raccontate la favola bella delle coppole e dei pizzini, delle lupare e dei don, noi siamo già da un’altra parte. Dove? Boh. E tutto questo è merito di Matteo, ma siamo arrivati a capirlo solo molto dopo; sul momento nessuno di noi capiva la grandezza di idea che era, appunto, la «cosa senza nome» all’interno di Cosa nostra che si era inventata Matteo.

E c’era chi la chiamava Supercosa, la Cosa nostra di Cosa nostra, e tutti ci volevamo entrare, era il privé della mafia. Ma i pass li dava Matteo. E mentre noi ballavamo in pista, sulle rovine dell’Italia e sulle nostre, c’era questo salottino appartato, dove si prendevano le decisioni che contavano davvero e si guardava lo scanazzo. E fu trapanese l’idea della Supercosa.

Perché fu trapanese la deliberazione, l’organizzazione, l’esecuzione del programma dei mesi a venire, di quel ’92 che si annunciava, per usare un eufe[1]mismo, un po’ movimentato.

Fu in una di queste riunioni dell’élite di Cosa nostra messa su da Matteo che Riina disse una frase che oggi ci farebbero le magliette e le cartine dei cioccolatini – quelli dentro al tubetto – e la frase era: «È arrivato il momento in cui ognuno di noi si deve assumere le proprie responsabilità», come se fosse un Che Guevara siciliano. Minchia che solennità, sembrava che a parlare era un capo di Stato, un papa, un Rockefeller, Draghi.

E come si abbassò la temperatura nella stanza dopo quelle parole! Tutti sentimmo di nuovo freddo, mentre fumavamo le nostre sigarette; il freddo che avevamo nelle ossa dell’umidità dei rifugi e delle intemperie a cui la vita ci sottoponeva, noi che avevamo in comune con lo zio Totò la sfortuna di essere stati sventurateddri.

Solo Matteo sembrava non battere ciglio: aveva lo sguardo stanco ma concentrato dell’autista di un bus quando vede davanti a sé l’ultimo chilometro, prima del capolinea. E forse per non farci montare la testa, che sembravamo tutti gli ambasciatori di qualche governo di caprari esuli, il signor Totuccio aggiunse una frase in dialetto: «Chiddru chi veni ni pigghiamu».

Ma avrebbe potuto dire anche: «Soccu arrinesce si cunta», il siciliano abbonda di modi di dire e proverbi per commentare la fatalità della vita. Perché di questo si trattava: si navigava a vista, da quel momento. Ricapitolando. ù

Quel piano, che avevamo deliberato con le riunioni della Commissione regionale, e che aveva mosso i primi passi in un incontro organizzativo generale di Castelvetrano, trovò la sua attuazione nelle riunioni operative tra fine 1991 e inizio 1992, quando si cominciò a definire innanzitutto la missione da compiere a Roma per cercare di ammazzare qualcuno dei nostri obiettivi.

Se a Castelvetrano avevamo deciso di fare effettivamente quella spedizione nella Capitale, nei successivi incontri preparammo la cosa. E le regole erano due: armi tradizionali per l’attentato, esplosivo solo con il benestare di Riina. Solo che a un certo punto le riunioni cambiarono forma. E non c’erano più rappresentanti provinciali, inviati da Catania o Caltanissetta. Matteo aveva fatto il suo primo, invisibile, colpetto di Stato all’interno di Cosa nostra.

Dato che eravamo in modalità operativa, non è che potevamo sentire il parere di ognuno pure per decidere con che auto muoversi a Roma, no? Ecco allora che i ritrovi, proprio perché erano operativi, furono composti da un gruppo di mafiosi fedeli a Riina e Matteo. Con loro c’erano infatti Salvatore Biondino, Vincenzo Sinacori, Giuseppe e Filippo Graviano. Eccola, la Supercosa. E anche lì, per fare sentire tutti coinvolti, ognuno il suo compito ce l’aveva.

Matteo aveva dato l’incarico a Vincenzo Virga di trovare l’esplosivo, che proveniva dalle cave di Custonaci e che era arrivato a Roma grazie a un camion messo a disposizione da uno di Mazara del Vallo, un certo Battista Consiglio, che era un uomo di cui noi ne facevamo uso e consumo.

Tanto che a Mazara era venuto Gioacchino Calabrò, uomo d’onore di Castellammare del Golfo, che faceva il carrozziere, e aveva costruito un’intercapedine dentro il camion di Consiglio. A proposito di Mazara, poi, Mariano Agate aveva messo inizialmente a disposizione un suo appartamento che aveva a Roma.

A Vincenzo Sinacori, che era per Matteo proprio un caro amico, e che era nel gruppo di fuoco, pur non rappresentando la famiglia di Mazara, furono dati incarichi delicati: portare a Roma le armi, fucili, pistole, e kalashnikov, e parlare con le famiglie napoletane e con Ciro Nuvoletta, per coinvolgerli nella missione. Francesco Geraci, il giovane gioielliere di Castelvetrano amico di Matteo, era stato già avvisato che avrebbe dovuto partecipare alla missione romana, anche se lui non era uomo d’onore.

Ma Matteo aveva già cominciato a invertire le regole, inventarne di nuove. «Geraci ci serve – ci aveva spiegato – perché è una persona pulita, non lo conosce nessuno come uomo d’onore». E fu in occasione dell’ultimo incontro, prima di partire per Roma – quando Agate doveva darci le chiavi dell’appartamento, e le armi e le munizioni erano nascoste a casa di Antonio Scarano – che Riina e Matteo ci dissero che quello che avevano costituito non era solo un gruppo di lavoro, ma qualcosa di estremamente importante e riservato, e doveva intendersi come una «Supercosa».

Erano le settimane in cui per noi dal dottore Falcone arrivavano notizie una più brutta dell’altra, e l’ultima era che aveva inventato una Super Procura contro la mafia, una specie di crema della crema degli investigatori e dei magistrati. E noi, allo stesso modo, avevamo creato questa Super Cosa, fatta solo da persone scelte da Riina e Matteo che rispondevano solamente a loro, senza il filtro del capo mandamento.

Non volevamo scimmiottare quello che faceva il dottore Falcone, ma su questo Matteo era chiaro: se volevamo sopravvivere, per tutto quello che sarebbe accaduto da lì a breve, non potevamo continuare con le regole di prima, le famiglie, i mandamenti, le mega riunioni e i fine settimana a cacciare lepri e a mangiare ricci. Basta.

Bisognava essere rapidi, silenziosi, fare circolare le informazioni il meno possibile, anche perché in giro c’erano già tanti pentiti, e altri ne sarebbero arrivati. Non c’era bisogno che i capi mandamento sapessero tutto.

Questo gruppo, aveva concluso Matteo, è un gruppo di persone che è meglio che essere uomo d’onore. Un gruppo che organizza pure le gite, tipo agenzia viaggi. La più importante, dicevamo, a Roma. Bisognava partire. E partimmo. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Matteo in missione nella capitale, tra piani di morte e dolce vita. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA", DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 27 febbraio 2023

Il nostro Matteo aveva un piano – ha avuto sempre un piano – ed era quello di farci fare la bella vita a Roma. Ecco perché ci voleva eleganti. Perché si andava nei bei locali la sera, e in bei negozi a fare shopping, nelle belle vie a passeggiare e a fare girare la testa alle ragazze; ma solo quello, perché avevamo una missione – elegante, sì, ma pur sempre una missione...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

E quindi partimmo per Roma. Matteo, che pensava a tutto, come sempre, ci diede un consiglio, prima di fare le valigie: «Abbigliamento adeguato». La cosa ci mise un po’ d’ansia.

Come dice un vecchio adagio, puoi portare una persona fuori da un luogo, ma non un luogo fuori da una persona. Che avrà in testa il capo – pensammo – noi che siamo bravi solo a sparare, a strangolare, a prendere a lignate; non sono cose che si fanno con il vestito buono della domenica, né con le scarpe marroni: fai uno e basta, finisce lì, anche perché quasi mai è una cosa pulita, e poi i vestiti o sono sporchi di lanzo o di piscio – perché la gente, voi non lo sapete, ma quando la strozzi mica tira l’anima via in un colpo e amen! Quello si muove, si contorce, grida, vucia, e poi se la fa sotto perché, ricordatelo, è intessuto di merda l’animo degli uomini: quella esce, dopo l’ultimo rantolo.

Non l’anima, non il vapore, non la voce degli angeli, ma, semplicemente, merda – oppure se dai fuoco a un’auto, o a una casa, e aspetti che la vampa si accenda e salga – e, cari miei, dipende come tira il vento – i vestiti si impuzzano, che il giorno dopo li puoi andare a buttare.

Però Roma è Roma, ci siamo detti, e capace che nelle città grandi gli omicidi si fanno in abito da sera. Ma in realtà il nostro Matteo aveva un piano – ha avuto sempre un piano – ed era quello di farci fare la bella vita a Roma. Ecco perché ci voleva eleganti.

Perché si andava nei bei locali la sera, e in bei negozi a fare shopping, nelle belle vie a passeggiare e a fare girare la testa alle ragazze; ma solo quello, perché avevamo una missione – elegante, sì, ma pur sempre una missione – tra gli sciacalli e le iene, gli uomini di potere, molti dei quali divenuti tali grazie a noi, che affondavano voraci i loro denti nella carne putrida di quella che chiamavano cosa pubblica.

E c’era anche il nostro amico Francesco Geraci nella banda dei gitanti, il gioielliere, quello che una volta Matteo aveva aiutato per una vicenda di un’estorsione, e da allora gli era rimasto legato e aveva cominciato anche lui a partecipare agli omicidi, alla guerra, alle gite fuori porta. Ed era stato utile alla causa.

Un giorno il signor Riina in persona lo aveva chiamato, e gli aveva detto: so che sei bravo picciotto, e amico di Matteo, e che hai una gioielleria; io ho un po’ di cose da conservare, non è che hai una cassetta di sicurezza, qualcosa per me? E lui gli aveva addirittura fatto costruire, sotto la sua gioielleria, un piccolo caveau, con tanto di ascensore, dove i Riina avevano messo di tutto: i collier della signora Bagarella, gli orecchini di Lucia, gli orologi Cartier, e pure delle spille di Italia ’90 tempestate di diamanti, e Geraci ci aveva confidato che, a occhio e croce, tutto questo bendidio valeva tipo due miliardi di lire.

E un pomeriggio Matteo lo va a trovare e gli racconta del progetto degli attentati ai personaggi famosi. Baudo, Costanzo, Martelli, Santoro, gli dice, in preciso ordine alfabetico, per non fare disparità. E se capita, anche Enzo. Biagi, aggiunge. «E per fare cosa?» gli chiede il gioielliere. E Matteo: «Dobbiamo creare scompiglio, caos, destabilizzare». Francesco sta in silenzio e poi gli dice: «Buono è». Geraci in effetti ci serviva per tantissime cose, ci completava.

Anche questa, se ci pensate, è stata un’idea geniale di Matteo: non portarti, per una missione delicata, un tuo simile, un clone, uno che obbedisce e basta. Portati uno che sa cose che tu non sai, che aggiunge esperienza, know-how, come si direbbe nei corsi moderni dove si parla tutto in inglese. E in effetti ancora prima di partire Geraci ci disse: «Picciotti, io ce l’ho un posto dove possiamo andare a comprare roba buona per il viaggio». E il posto era Alongi, in centro a Palermo. Alta moda, roba fina.

Solo lui spese circa 12 milioni di lire, roba da sticchio e quasette di seta. Oggi al posto di Alongi c’è un negozio che vende i mattoncini per le costruzioni, che costano quanto un abito da sera. Segno dei tempi, certo. […].

ROMA, 24 FEBBRAIO 1992

E partimmo dunque per Roma, il 24 febbraio del 1992. In quel giorno, pensate, nasce in Italia la Protezione Civile. E noi ci sentivamo un po’ la protezione civile di Cosa nostra, corpi scelti per accorrere dopo un cataclisma, ma con idee più originali del piantare baracche e tende e si salvi chi può.

A Roma non andavamo totalmente impreparati, perché qualche mese prima, in gran segreto, in estate, erano venuti a Roma Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella per seguire i movimenti del dottore Falcone e per capire se si poteva fare qualcosa.

Per Bagarella era anche facile, dato che aveva il soggiorno obbligato proprio in provincia di Roma, a Monterotondo. E avevano scoperto dove il dottore mangiava solitamente la sera e che ogni tanto si faceva qualche passiata da solo, senza scorta. Poi Brusca era tornato, e aveva cominciato a fare altri sopralluoghi: ad esempio per capire a che velocità viaggiava l’auto del dottore Falcone in autostrada, quando dall’aeroporto doveva andare a casa sua a Palermo, in Via Notarbartolo. E un’altra squadra ancora, guidata da Raffaele Ganci e Salvatore Cangemi, stava invece studiando la possibilità di un attentato proprio sotto casa a Palermo, magari con un’autobomba.

Partimmo ognuno con un mezzo diverso, piccoli accorgimenti per non dare nell’occhio. Che poi noi abbiamo sempre contato, oltre che sulla nostra organizzazione, anche sulla pigrizia di chi avrebbe dovuto controllarci. Ma si guardava dappertutto, tranne che in provincia di Trapani. E così Sinacori partì con l’aereo, e il biglietto lo fece un po’ storpiato: Vincenzo Rinacori, con la erre. Tanto bastava.

Matteo, invece, al quale sarebbe bastata come lasciapassare la sua stessa faccia, aveva una carta di identità falsa, a nome Matteo Messina, e sì, si era sprecato anche lui a fantasia, ma ve lo diciamo davvero: nessuno si interessava a noi; era quasi per prendere per il culo tutti che cambiavamo iniziali e consonanti, quasi fosse La pagina della Sfinge della Settimana Enigmistica. Matteo, tra l’altro, venne in auto con Geraci.

Altri ancora in treno. Ogni volta che partiva per il continente, Matteo rifletteva sempre su questo fatto, e cioè che il traghetto che faceva la spola tra la sponda siciliana e quella calabrese si chiamava Caronte. E si chiedeva se quel nome, di quel traghettatore infernale, lo avessero messo apposta o no. E man mano che il traghetto si allontanava dalla Sicilia, lui percepiva come un sipario leggero che si alzava, un fiato di estraneità. L’isola da una parte, e poi il resto del mondo. Anche se all’inizio era soltanto Calabria.

Dunque, c’erano Vincenzo Sinacori e Renzo Tinnirello, detto ’u Turchiceddu, perché era scuro scuro di carnagione e sembrava proprio un turco, e poi Giuseppe Graviano e Fifetto Cannella, che tutti chiamavamo Castagna, perché preciso al presentatore televisivo. Dei Graviano vi abbiamo parlato? I fratelli Graviano erano i capi mandamento di Brancaccio, su decisione del signor Riina.

Prima aveva messo a capo Benedetto, il fratello più grande. Poi, siccome non lo vedeva sveglio, gli aveva affiancato Filippo e Giuseppe. Prima ancora il mandamento era a Ciaculli, poi c’erano stati degli arresti, e il signor Riina aveva detto: questi di Ciaculli sono quelli che ci hanno portato sempre danno a Cosa nostra… Addirittura qualcuno lo avevo sentito dire che ci voleva portare un trattore, che voleva portare il paese tutto a suolo, diciamo. E quindi poi appunto aveva deciso così: questo mandamento non si chiama più Ciaculli, si deve chiamare Brancaccio. Giuseppe Graviano era legatissimo a Matteo Messina Denaro. E lo avevamo capito da alcune cose.

Come quella volta che Matteo gli fa al nostro amico gioielliere, Geraci: «Mi devi trovare una collana per un regalo importante, una cosa che vale almeno cento milioni di lire». «Ma è per te, Matteo?». «No, per un amico. Ma i soldi te li do io». Ed era vero. La collana non era per lui, ma per Giuseppe Graviano, che la doveva regalare alla sua zita e aveva chiesto la cortesia a Matteo di vedere un po’ lui, tramite le sue conoscenze.

Geraci trovò la collana e gli fece pure lo sconto: 50 milioni. Pagava Matteo. Graviano fece un figurone. E quando andò da Matteo per dargli i soldi che aveva anticipato, quello non ne volle sapere: «Ma stai scherzando? Noi siamo amici inseparabili».

E dalle cave di Mazara era partito anche l’esplosivo che doveva servirci nel caso in cui avremmo voluto fare una cosa non pulita, ma di quelle potenti, con il botto. Matteo in quei giorni era inquieto. Prima parlava di Maurizio Costanzo e ci diceva che anche lui doveva saltare in aria perché in televisione parlava male dei mafiosi.

C’era stata infatti questa cosa del commerciante ucciso a Palermo, l’estate prima, quello che faceva pigiami e non voleva pagare il pizzo, e Costanzo e l’altro, Michele Santoro, avevano fatto pure una puntata speciale, che manco se giocava il Palermo in coppa Uefa. Poi invece cercava di capire i movimenti del dottore Falcone, che in quel periodo aveva preso servizio al ministero della Giustizia.

Poi ancora era convinto che gli agguati da fare erano tanti. E poi c’era questo Scarano, che nessuno di noi conosceva, e fu uno dei tanti conigli che Matteo, come un prestigiatore, tirava fuori dal suo cilindro. Non sappiamo come si erano conosciuti, ma dal momento in cui ce l’aveva presentato per noi era diventato uno dei nostri, come Geraci.

Era calabrese, Scarano, ed era già stato in carcere tre anni per furto, e in carcere aveva conosciuto il boss Stefano Accardo, di Partanna. Ne era nata un’amicizia, e lui, dopo che era uscito, era andato anche a trovarlo, e si era fidanzato con una picciotta di Partanna. E Accardo gli aveva anche preso una casa al mare alla Triscina, tanto ormai erano amici, e gli aveva anche presentato Matteo, un giorno.

E quando Scarano ci raccontava l’inizio di questa loro amicizia, diceva che, la prima volta che l’aveva visto, mica aveva capito che era ’u Siccu in persona; gli sembrava uno studente: magro, alto, con gli occhiali. Invece in poco tempo si ritrovò coinvolto nella guerra di mafia, con Matteo che gli aveva fatto fare anche due omicidi, giusto per provarlo sul campo.

Era stato Scarano a trovare l’altro appartamento a Roma per noi, il secondo, dove andammo a stare dopo aver scoperto la topaia che era quella «bella sistemazione» che Agate ci aveva promesso e che invece sarebbe stata schifiata pure da una buttana di Campobello. Era stato sempre lui a nascondere le armi nel suo scantinato. E, come sempre, non sapeva nulla, se non che doveva obbedire a Matteo. E quando tutto fu sistemato, Matteo gli disse: ora vattene, e non tornare più qui.

Se ho bisogno, mi faccio vivo io. Il primo appartamento romano era in Viale Alessandrino, e apparteneva a un dentista, La Mantia, che era originario di Mazara e amico di Mariano Agate. Manco a farlo apposta (o fu fatto apposta? ah, saperlo…), Mariano Agate aveva trascorso un periodo di soggiorno obbligato a Roma, e lì aveva incontrato La Mantia per avere poi l’appartamento.

Solo che, minchia, arriviamo là, e ok, noi non è che volevamo l’appartamento extralusso con la Jacuzzi nella stanza da letto e il televisore a cinquanta pollici, ma, minchia, manco i cessi funzionavano! Manco acqua corrente c’era. E quando arrivammo tutti a Roma, ci demmo appuntamento alla Fontana di Trevi per confonderci tra i turisti, perché per noi quello era il posto turistico per eccellenza di Roma. E la prima questione fu quella dell’appartamento.

Chi era arrivato un paio di giorni prima aveva fatto un’esperienza terribile, non si poteva stare. «Non vi preoccupate, c’è Gesù» disse Matteo. Qualcuno di noi pensò a un’improvvisa crisi mistica del nostro capo, che magari credeva in un Gesù tubista che miracolosamente allacciava acqua e corrente con una preghiera, ma in realtà apprendemmo subito che il Gesù di Matteo si chiamava Giacomino, ed era un altro siciliano a Roma, amico di Scarano, che ci venne presentato tra l’altro la prima volta da Matteo proprio di fronte alla Fontana di Trevi.

E questo Giacomino Gesù, contattato da Matteo e Scarano, metteva a disposizione un appartamento con tre camere da letto, un bel salotto con le tende, sempre in una zona buona, e provvisto anche di una bella cucina, cosa che a noi importava poco perché avremmo sempre mangiato fuori, ma era meglio averla, no? La casa era della mamma di Gesù, che non sappiamo se si chiamava Maria, e avremmo magari potuto chiederglielo, però la signora era in Abruzzo da dei parenti e proprio per questo la casa era libera.

Quel Gesù fu molto generoso con noi, e per sdebitarci gli regalammo un po’ di cocaina, così magari se la vendeva e ci tirava su due lire, o faceva un miracolo come il suo omonimo e la moltiplicava come con i pani e i pesci, e ci poteva campare una vita. Amen. E quindi una prima cosa era sistemata.

Le armi e l’esplosivo ce l’avevamo sempre dietro, tipo coperta di Linus. Avevamo scelto tutto con cura, e siccome si trattava di cose importanti non poteva che essere la provincia di Trapani il posto dove cercare.

E così da alcune cave abbandonate, tra Mazara e Castelvetrano, che utilizzavamo come magazzini per quando avremmo dovuto scatenare la guerra, venne fuori l’esplosivo, e poi le armi. Mitra, kalashnikov, fucili. Quindici pezzi, tutti ben conservati, unti di grasso, che ci abbiamo messo ore a pulirli con la benzina, la nausea che ci saliva in testa, e poi, siccome bisognava essere precisi, li abbiamo provati personalmente con Matteo, tra gli uliveti di Castelvetrano, con lepri e piccioni martoriati in nome della nostra efficienza.

E Matteo aveva anche due pistole sue, belle cromate e nuove, e avrebbe voluto provare anche l’esplosivo, ma i mazaresi gli avevano detto che si poteva fidare, e andava bene così.

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA", DI GIACOMO DI GIROLAMO

E Totò Riina ordinò: «Tornate in Sicilia, ci sono in ballo cose più grosse». DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA", DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 28 febbraio 2023

Riina sorprese tutti: non dovete fare nulla, dice, perché ci sono in ballo cose più grosse. E Sinacori tornò subito a Roma che pareva che manco era partito o che l’aveva fatta a piedi correndo come un turco, tanto era trafelato e pallido, quando bussò alla porta del nostro appartamento per dire: picciotti, dobbiamo andare via, lo zio Totuccio mi ha detto che è tutto sospeso...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Le armi – come accennato – erano poi arrivate a Roma a bordo di un furgone frigo che era stato modificato per nasconderle. Arrivò dalla Sicilia Giovan Battista Consiglio con il figlio, che gli aveva fatto compagnia durante il viaggio dato che lui ormai aveva una certa età, e non immaginava tutta la santabarbara che stava nascosta nel camion.

Lo abbiamo aspettato al raccordo anulare, poi da lì siamo andati presso un capannone abbandonato, abbiamo sceso armi ed esplosivo e abbiamo caricato tutto nella macchina di Scarano, che lui si sarebbe portato tutto a casa e nascondeva la roba nello scantinato, tra le damigiane con l’olio buono, gli attrezzi e le cianfrusaglie di sua madre.

Poi abbiamo noleggiato un’auto, una Y10 bianca, targata Roma, con la carta di credito di Geraci che era l’unico ad avere la fedina penale bianca come quell’auto. E diciamo anche che quella carta di credito l’abbiamo prosciugata, in quei giorni. Noi lo prendevamo in giro: Minchia, Gerà, se eri in viaggio di nozze o te ne andavi a buttane ’sto viaggio ti costava meno! Ma Geraci non diceva nulla, anche perché già prima del viaggio aveva dovuto dare su ordine di Matteo 20 milioni di lire a Scarano per il disturbo.

Noi intanto spendevamo: in Via Condotti abbiamo comprato camicie e cravatte, perché ci piaceva fare i pedinamenti eleganti, se no ci avrebbero sgamati subito; Matteo si comprò anche un cappotto colore cammello come in quella canzone «che al Maxiprocesso eravate ’u chiù bello», uè.

Da lì cominciammo a cercare: Falcone, Martelli, Costanzo. Un po’ in Via Arenula, dove c’è il ministero della Giustizia, un po’ nelle zone di Parioli. Siamo stati in giro per una decina di giorni. E, dobbiamo dire, senza grande successo. Ogni mattina si partiva con l’auto, a turno, si andava in Via Arenula, e ogni sera si giravano le zone di Trastevere per capire dove andasse a mangiare il dottore Falcone, se era al Matriciano, o alla Carbonara, o da Sora Lella, o nel locale preferito di Matteo, il ristorante Dei Gracchi.

Eravamo convinti che li avremmo incontrati. Geraci e Sinacori erano quelli che seguivano Costanzo, con l’auto, tra le strade di Roma. Un giorno li ha fermati la polizia. Patente e libretto, prego, come mai a Roma? Faccio il gioielliere, dice Geraci, sono a Roma per incontrare un grossista e per caso ho incontrato questo compaesano mio, ci stavamo facendo un giro. Potete andare, buona permanenza. Grazie.

Per due o tre sere siamo stati a Parioli, abbiamo anche seguito i movimenti di Costanzo, ci mettevamo all’uscita del teatro dove registrava il suo programma, a un certo punto sembravamo quasi fan che aspettavano l’autografo. Nel teatro non siamo entrati. La verità? Ci annoiava. Cioè, a noi il Costanzo Show come programma neanche piaceva, pensate vederlo dal vivo! Una sera ci siamo andati a teatro, ma mica lì, al Bagaglino, che quello ci divertiva anche in televisione, con Pippo Franco e l’attore che faceva sempre la femmina, e un sacco di pilu.

Al Bagaglino, tra l’altro, siccome invitavano spesso i politici, magari avevamo una botta di culo e capitavamo in una puntata in cui invitavano Martelli o qualcun altro che interessava a noi. Comunque, tornando a Costanzo, era quello più facile da fare. Non era scortato, faceva sempre gli stessi movimenti, ci potevamo sparare, ci potevamo mettere l’autobomba, o meglio, piazzare l’esplosivo in un cassonetto che era vicino il teatro, in un vicolo dal quale l’auto ogni sera doveva svoltare. Insomma, potevamo anche chiamare i napoletani.

Qui dobbiamo aprire una parentesi, per una cosa che avevamo notato, e che pensavamo sarebbe stata oggetto di discussione, e invece è finita e morta lì. Noi avevamo le armi, ok, per uccidere il dottore Falcone e tutti gli altri, e all’occorrenza l’esplosivo. Che erano due sacchi belli grossi, tipo cento chili. Solo che non avevamo detonatori, telecomandi, micce, non avevamo nulla, solo la polvere.

Questa cosa ogni tanto tornava nei nostri discorsi, perché qualcuno capitava che lo dicesse: sì, dobbiamo fare l’attentato, ma come? E Matteo diceva di non preoccuparci. E come sempre nessuno osava più continuare. Chi ci avrebbe aiutato? Non lo sapevamo, non lo abbiamo mai saputo… Perché questa è la domanda che vi inquieta più di tutte: ma davvero avete fatto tutto da soli? E la risposta è semplice: noi abbiamo fatto quello che andava fatto. E soli non siamo stati, mai.

La sera poi ci si vedeva in qualche ristorante affollato, e ognuno riferiva a Matteo quello che aveva visto: nessuno ci notava. Geraci faceva sempre teatrino, perché ogni volta, quando c’era da pagare il conto, doveva tirare fuori la sua carta di credito. Ma Matteo glielo diceva: poi ti restituisco tutto.

E a noi picciotti invece ci avrebbero dato cinque milioni di lire a testa. Eravamo eleganti, eravamo bellissimi. Stavamo bene nella capitale d’Italia, eravamo felici. E avremmo voluto anche mandare un telegramma alla mamma per dire di questa città, Roma, grande piena luci gioielli stop.

E IL PIANO CAMBIA ALL’IMPROVVISO

Passeggiando per Roma, a un certo punto, ci venne anche una fantasia. Di conquistarla. Di farla nostra. Avevamo grande stupore nello scorgere il Colosseo, i Fori, le chiese monumentali, il cupolone di San Pietro, tutto arrivato ai giorni nostri, questa Italia di rovine di ogni età e di generi che sembrava offrirsi al nostro desiderio come una buttana, anzi, no… questa città di cadaveri, ecco.

Mai avevamo provato una sensazione così pura e completa. E capitava che ci sorprendevamo fermi, immobili, a contemplare le rovine, immaginando come un giorno, noi, proprio noi, con Matteo, avremmo potuto fare rinascere vita intorno a questi resti superbi e paralitici. Ridando loro magnificenza. Altri anfiteatri, altre chiese, altri palazzi. Altra potenza.

Vi sembrerà strano, ma era un pensiero che ci riempiva di gioia: eravamo di fronte all’infanzia del mondo. E poi Matteo disse: se ci dobbiamo mettere la bomba, ci vuole il permesso di Riina.

E mandò Sinacori a Palermo, per chiedere la specifica autorizzazione. Riina sorprese tutti: non dovete fare nulla, dice, perché ci sono in ballo cose più grosse. E Sinacori tornò subito a Roma che pareva che manco era partito o che l’aveva fatta a piedi correndo come un turco, tanto era trafelato e pallido, quando bussò alla porta del nostro appartamento per dire: picciotti, dobbiamo andare via, lo zio Totuccio mi ha detto che è tutto sospeso. «Dicci a Matteo di tornare indietro», sono state le sue parole. «Dicci ai picciotti di scinnere, me la sbrigo io qua».

Tutto sospeso, ci dice Matteo. Ok. Torniamo giù, in Sicilia, ognuno per i fatti suoi. Scendiamo lenti come i corvi. Qualcuno malignò che Riina era pure insoddisfatto. Troppi costi, troppi rischi, e poi per fare cosa? Per far fare il viaggio di maturità extralusso a un gruppo di picciotti siciliani? Ma Matteo non era preoccupato, perché aveva il piano B, affidato a Giovanni Brusca, ed era quello dell’attentato da fare in Sicilia. Solo che per Brusca magari eravamo noi il piano B, sempre per quella cosa che ognuno sapeva solo lo stretto necessario.

Non fu però un fallimento la missione romana. A parte che abbiamo visto Roma, che non è mai male, perché noi ci teniamo anche a vedere le città importanti e a farci una cultura, che vi pare?, e poi aveva avuto anche dei risvolti pratici. Perché finalmente avevamo visto il dottore Falcone da vicino, che è un po’ come se vedi da vicino una celebrità della quale sei ossessionato, hai magari i poster in camera.

Avevamo misurato i suoi passi, lo avevamo visto come stava composto a tavola, e qualcuno di noi sosteneva di aver potuto anche interpretare il labiale delle sue ordinazioni, ma erano suggestioni. E tutto quell’esplosivo che ci eravamo portati dietro alla fine ci servì, come ci servì conoscere Roma e i suoi quartieri, sotto la guida di Scarano, perché poi l’anno dopo, quando davvero avremmo voluto fare fuori a Roma il presentatore Maurizio Costanzo, quell’esplosivo ci tornò molto utile.

Ci rivedemmo a Palermo, di nuovo nella calda nudità di luce della Sicilia, per aggiornarci. Parlammo poco, ma fu un silenzio vorace. Ognuno sapeva un pezzetto di quello che sarebbe accaduto, lo stretto necessario. Solo Matteo sapeva tutto. E infatti qualche settimana dopo acchiappò a Geraci e gli fece: «È meglio che per un po’ a Palermo non ci vai». «In che senso, Mattè?». «Nel senso che non devi andare a Palermo».

Ma Geraci lavorava, aveva la gioielleria, andava e veniva da Palermo con i suoi fratelli tutti i giorni perché aveva fornitori in zona, e altre faccende. Stava per arrivare maggio, mese di sposalizi e di regali di matrimonio. E allora Matteo gli disse: «Vabbè, fai così, allora, a Palermo ci puoi andare, se proprio devi. Ma non prendere l’autostrada. Esci ad Alcamo, e ti fai tutta la statale, la strada vecchia».

Dopo la strage di Capaci, Matteo poi disse a Geraci: «Adesso puoi andare a Palermo». E gli fece come una specie di sorriso.

Salvo Lima ma non solo lui, la mafia attacca la Democrazia cristiana. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani l’01 marzo 2023

Non solo l’attentato a Salvo Lima. Avevamo deciso di mandare segnali precisi alla fu Democrazia cristiana e ai suoi esponenti, con tutta una serie di attentati: il 31 marzo a Misilmeri, al comitato elettorale di Calogero Mannino, il 1 aprile a Monreale alla sede della Dc; sempre il 1 aprile, ma a Partinico, abbiamo dato fuoco all’auto di un assessore Dc; il 3 aprile a Messina, altra sede della Dc, stessa data a Scicli, a casa del vicepresidente della Provincia di Ragusa, democristiano...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Si era deciso di cominciare da Salvo Lima. Sia per il significato e per quello che rappresentava, l’uomo, il politico, lo statista (si coglie l’ironia?), sia perché, obiettivamente, era quello più semplice da fare. Salvo Lima era nel nostro libro nero da tempo, come i cugini Nino e Ignazio Salvo, perché si guardavano solo il loro giardinello, alla faccia di tutti i servizi e di tutti i favori. Lima lo avevamo pure convocato, e non si era presentato. E la rabbia era tanta che magari avremmo voluto uccidergli pure il figlio.

Fu come quando alla festa del santo patrono c’è il gioco di fuoco finale, con tutti che stanno con il naso all’aria, nel fresco della sera di mezza estate, che già ha fatto buio da un pezzo, e si attende che il santo torni in chiesa e che il parrino dia l’ok al presidente del comitato organizzatore, che dice a quello dei fuochi che si può cominciare. E il primo colpo, solitamente, è una specie di colpo d’avvertimento, una cosa a mezza botta, puuum, pam!, ma serve a svegliare i picciriddri e a fare scantare i cani, a interrompere la noia dell’attesa dei mangiatori di simenza e a dire che lo spettacolo sta per cominciare, puuum, pam!, e dopo c’è la masculiata. Viva il santo!

E fu così, per noi, l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, in Via delle Palme, a Palermo, il 12 marzo del 1992, che veniva di giovedì, e fu poco prima delle dieci del mattino. Come già sapevamo, si fece trovare impreparato, senza possibilità di scampo e di fuga.

Gli sparammo diversi colpi con le nostre scariche di precisione, mentre lui faceva i movimenti di bestia ammazzata: un colpo al sindaco di Palermo, uno al sottosegretario, uno alla punta di diamante della Dc, uno all’europarlamentare. Uno al santo. Uno al traditore. «Tornano, tornano» furono le sue ultime parole. Non un granché come epitaffio. Anche perché noi mica eravamo mai andati via.

Il messaggio fu bello forte per Giulio Andreotti, che l’indomani doveva venire in Sicilia, e anche per farlo desistere nella sua idea di diventare presidente della Repubblica. E sapete quando parli a suocera per fare capire a nuora? La suocera era Andreotti, la nuora era il dottore Falcone, che siccome ci conosceva benissimo sembrava quasi aver capito tutto, e il giorno dopo scrisse un articolo su «La Stampa»: «La mafia vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola».

Sul concetto di «strada» forse aveva avuto una mezza visione, che più di strada era un’autostrada quella che si sarebbe aperta, nel vero senso della parola, da lì a breve. Sulla politica, invece, neanche noi ci capivamo più nulla. Perché eravamo in guerra, e ne avremmo voluti eliminare di politici traditori, ma era cominciata quella cosa del pool Mani Pulite, a Milano, e il popolo fibrillava, e i politici un po’ venivano arrestati, qualcuno si ammazzava, altri scomparivano. Che casino.

Gli occhi di Riina facevano come una saetta, nelle riunioni, sembrava avesse un tic, non stava mai fermo, tutta un’eccitazione. Matteo no, Matteo era calmissimo, come sempre, elegante, come lo conoscevamo noi. Aveva sempre la risposta pronta e una pistola carica. Avremmo capito solo dopo che stava preparando il suo regolamento di conti, la sua piccola battaglia nella grande guerra, la rivoluzione silenziosa nella linea di successione.

Il signor Riina pareva sempre più una "cafittera” pronta a esplodere. Anche su ’sta cosa di Mani Pulite non ci vedeva chiaro, gli dava fastidio, e anche se non ce lo voleva dire, perché non poteva dirlo – se no saremmo diventate le bestie che eravamo, lo avremmo scannato, altro che la rivoluzione silenziosa di Matteo – lui sapeva di essere anche lui una pedina di qualche altro tavolo, ed era manovrato, e qualcuno tirava i dadi per lui, e lo faceva avanzare di casella in casella fino all’esplosione finale, alla dissoluzione.

Non solo lo sapeva, e non poteva dirlo, ma sapeva anche che in questo gioco grande in cui era finito non conosceva il regolamento. E quindi, sì, anche ’sta cosa degli arresti di Mani Pulite ci dava fastidio. Innanzitutto, perché ci mancavano gli interlocutori. Se un poco li ammazzavamo noi, un poco li arrestavano, noi con chi dovevamo parlare? Della Dc tra poco non c’era in giro manco l’usciere, Craxi aveva paura a girare per strada che gli lanciavano le monetine.

Chi restava? Vedrete, vedrete, qualcuno di nuovo affaccerà, dicevano quelli di noi più avvezzi alle cose della politica; i Graviano, in particolare, avevano buoni contatti a Milano, e a Milano già le cose si muovevano per non lasciarci orfani: male che vada avremmo rifatto il trucco a qualche troia.

Ma la cosa che ci dava ancora più inquietudine di questa roba di Mani Pulite, di questi pezzenti con il sorcio in bocca, che si facevano prendere mentre buttavano i soldi nel cesso, era il fatto che il nostro sesto senso ci diceva che anche lì c’era lo zampino del dottore Falcone; che quello magari era un giro largo, e anziché partire dalla mafia per arrivare agli imprenditori, voleva partire dagli imprenditori del nord per poi scendere giù giù e arrivare a noi. Anche là, comunque, ci fate un piccolo torto quando parlate solo dell’attentato a Salvo Lima, in quel periodo.

Capiamo che era la portata principale, ma c’erano tanti contorni, perché avevamo deciso di mandare segnali precisi alla fu Democrazia cristiana e ai suoi esponenti, con tutta una serie di attentati: il 31 marzo a Misilmeri, al comitato elettorale di Calogero Mannino, il 1 aprile a Monreale alla sede della Dc; sempre il 1 aprile, ma a Partinico, abbiamo dato fuoco all’auto di un assessore Dc; il 3 aprile a Messina, altra sede della Dc, stessa data a Scicli, a casa del vicepresidente della Provincia di Ragusa, democristiano.

Erano piccole cose, si dirà; certo, erano puntini, come un segnale in codice morse, e il messaggio era: il peggio deve ancora venire. E Matteo è stato bravo anche in questa pianificazione di piccoli attentati, perché abbiamo delegato le famiglie di ogni parte della Sicilia, abbiamo individuato sedi di partito e comitati elettorali in ogni angolo, ma non in provincia di Trapani.

Ancora una volta, stava in prima fila, Matteo, ma mandando avanti gli altri; voleva mantenerci nel nostro cono d’ombra, coccolati fin quando era possibile dalla mamma, sconosciuti al mondo. Era come se non esistessero obiettivi sensibili da colpire in provincia di Trapani, come se non esistesse la Dc. Come se non esistesse la mafia.

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Salvo Lima e il “suo” partito che cambiò per sempre Palermo. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 17 marzo 2022

Si passa dagli affari mafiosi della miserabile Palermo monarchica, all'industrializzazione dell'attività mafiosa. Questo processo va avanti parallelamente ad un processo politico quanto mai sintomatico: la formazione della "legione straniera" di Lima. Un gruppo consigliare composto da uomini di qualsiasi provenienza, transfughi da qualsiasi partito, unito e tenuto insieme da un'unica prospettiva: il potere e poter mantenere il potere.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Palermo non è certamente il solo caso di caotica espansione urbana avvenuto in Italia nell'ultimo decennio. Però questo processo avvenuto anche a Roma, a Milano, in molti grandi comuni italiani, qui è stato caratterizzato da un elemento originale, cosi che una organizzazione preesistente ha trovato tutte le condizioni per insinuarsi in questo sviluppo della città ed acquistare caratteristiche di compenetrazione organica.

Quando affermiamo che la mafia ha colto l'occasione del caos che si è verificato nell'incremento edilizio e demografico di Palermo per inserirsi in tutte le attività economiche della città, non vogliamo dire che la mafia a Palermo l'ha portata l'ex sindaco democristiano della nostra città dr. Lima, che della politica comunale di questi anni è stato e rimane il più alto esponente e ispiratore.

È un fatto però che il Comune di Palermo, ha seguito, nel corso del processo di trasformazione urbana cui accennavamo più sopra, una linea politica secondo scelte precise rispondenti a una determinata concezione dello sviluppo di questa città.

Questa linea politica, oggettivamente non è stata di oggettivamente non è stato di ostacolo alla proliferazione mafiosa, ma anzi ha favorito il crearsi di condizioni obiettive favorevoli alla compenetrazione organica, al passaggio dalla fase della mafia rurale alla fase della mafia urbana “industrializzata”, che è la fase dei nostri giorni.

Non vi ha dubbio che un diverso indirizzo politico, un rigoroso intervento pianificatore nello sviluppo urbanistico, una rigorosa direzione di interesse pubblico nella rete distributiva servizi-consumi, una gestione programmata nei servizi municipalizzati avrebbe invece obiettivamente ostacolato questo processo.

Ma vi è di più. Alla caotica espansione urbana, alla compenetrazione organica della mafia nella vita cittadina si accompagna, di pari passo, il processo di trasformazione del gruppo politico della democrazia cristiana a Palermo.

LA “NUOVA” DEMOCRAZIA CRISTIANA CHE CAMBIÒ PALERMO

Nel 1956, la democrazia cristiana arrivò alle elezioni attraverso una battaglia politica che vide scalzare le posizioni di potere dei vecchi gruppi di notabilato, rappresentati dai Virga e dagli Scaduto. Assume la leadership del partito il gruppo Lima-Gioia, che parla, di “rinnovamento” e di “moralizzazione”, vengono buttati fuori dalle liste elettorali di questo partito i personaggi più compromessi, si più discussa moralità.

Ed ecco che, primo eletto di questa lista di "rinnovatori" risulta l'on. Barbaccia medico di Godrano, piccolo paese della provincia e noto centro mafioso: strano uomo politico che non ha mai fatto un comizio, non ha mai scritto un articolo, non è mai intervenuto al Consiglio Comunale o al Parlamento nazionale.

Quali interessi e quali forze hanno portato l'on. Barbaccia a capolista di questi "rinnovatori"? Quali interessi e quali forze si sono coalizzati dietro la scalata al potere del gruppo Lima-Gioia nel 1956? Quanto avviene con l'accesso alla direzione del Comune di queste "nuove" forze è illuminante.

Si avvia e si porta a compimento un intricato e complesso processo di assorbimento delle vecchie forze delle destre monarchico-qualunquiste, processo che si concretizza associando alla direzione della cosa pubblica al Comune di Palermo tutta la catena di clientele, di rapporti, di situazioni elettorali, di connivenze che queste forze di destra tradizionalmente rappresentavano a Palermo.

E con il personale politico si assorbe - raccogliendo i frutti della pressione esercitata amministrando i provvedimenti del confino di polizia, regista il prefetto Vicari - la vecchia mafia e la piccola mafia, quella dei capi elettorali popolari di tutti questi consiglieri monarchici che poi diventano consiglieri democristiani.

Parallelamente, si passa dagli affari mafiosi della miserabile Palermo monarchica, dal controllo del commercio dei luppini e degli stracci, all'industrializzazione dell'attività mafiosa. Questo processo va avanti parallelamente ad un processo politico quanto mai sintomatico: la formazione della "legione straniera" di Lima.

IL GRUPPO POLITICO LIMA-GIOIA

La formazione cioè di un gruppo consigliare composto da uomini di qualsiasi provenienza, transfughi da qualsiasi partito, unito e tenuto insieme da un'unica prospettiva: il potere e poter mantenere il potere.

[…] Tra i 18 legionari, Cerami, Di Fresco, Ardizzone, Pergolizzi, Maggiore, Amoroso, Di Liberto sono "arruolati" di prima categoria, nel senso che, provenienti da altri raggruppamenti, nel 1960 sono stati eletti nella lista della democrazia cristiana. Clamoroso il caso del Di Fresco; eletto nel 1956 nella lista monarchica, cinque giorni dopo l'insediamento del consiglio comunale passa al gruppo democristiano!

Gli altri legionari sono arruolati di seconda categoria ,assorbiti cioè nel corso di questa legislatura da altri raggruppamenti politici, dalla destra alla sinistra, come per il Consigliere Volpe, "arruolato" dal gruppo consigliare comunista in occasione del voto per il rinnovo del contratto d'appalto per la manutenzione stradale al barone Cassina, come Arcoleo, proveniente dal partito socialista, e Seminara, ex cristiano sociale, e Guttadauro, Giganti, Arcudi, Sorgi, Spagnuolo, Adamo, Di Lorenzo, Bellomare reclutati dalle destre.

Ognuno di questi “legionari” ha, naturalmente” una piccola ricompensa. Ad Ardizzone la presidenza dell'Ospedale, Cerami alla zona industriale; a Pergolizzi la commissione edilizia, ancora non rinnovata in aperta violazione della legge. A questo fa seguito il collegamento delle parentele: e così troviamo Brandaleone Giuseppe assessore al Comune, e il fratello Ferdinando assessore alla Provincia; Vito Ciancimino assessore al Comune, e Filippo Rubino, cognato di Vito Ciancimino, assessore alla Provincia.

Molto ben “collocata” la famiglia Gioia: i due cognati Gioia e Sturzo, sposati a due figli del defunto senatore Cusenza, ex presidente della Cassa di Risparmio, uno deputato, uno assessore alla Provincia. Barbaccia, fratello dell'onorevole, assessore al Turismo. "Pieno impiego" per la famiglia Guttadauro: un fratello consigliere comunale, un altro fratello, Egidio, rappresentante della provincia all'Ente provinciale del turismo; il figlio dello stesso Guttadauro consigliere provinciale, anche lui democristiano "aggregato" al gruppo Reina.

E ancora, Vito Giganti, "legione straniera" al Comune: il fratello Gaspare delegato della provincia alle scuole professionali. Per chi non è assessore, poi, ci sono le deleghe, le rappresentanze, i comitati. E cosi si amministra la città. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Quando i mafiosi si iscrivono in massa alla Democrazia Cristiana. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani l’11 marzo 2022

La DC e il grande apporto di Calogero Vizzini e della mafia. In questo senso che vanno visti l'articolo pubblicato dall'on. Mattarella il 24 settembre 1944 e il discorso pronunciato a Villalba  dall'on. Alessi in cui si affermava che «dietro l'illustre e onesto casato della famiglia Vizzini vi era tutta la Democrazia Cristiana».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

L’estensione del fenomeno mafioso nella provincia di Caltanissetta, il dominio che l'organizzazione ha assunto in alcuni gangli vitali dell'economia, il potere che essa ha in enti pubblici, l'immunità da essa praticamente goduta in tanti anni, hanno potuto versificarsi per la forza politica determinante che la mafia ha nella provincia di Caltanissetta. E non si tratta solo di forza derivante da appoggi elettorali, dati e poi compensati, ma anche di una compenetrazione tra classe dirigente Dc e mafia con la direzione di sezioni Dc e al livello provinciale.

Dalle prime incertezze circa l'orientamento politico da assumere, nell'immediato dopo guerra la mafia uscì quasi subito per iniziativa di Calogero Vizzini. Già verso la fine del 1944 Calogero Vizzini orientò decisamente le sue preferenze politiche verso la Dc. 

Questo partito, nelle sue sfere provinciali e regionali, ben comprese il grande apporto che alle fortune politiche dei dirigenti e del partito stesso poteva arrecare l'orientamento di Calogevo Vizzini e perciò della mafia in generale, e non esitò ad accogliere i mafiosi nelle sue fila.

E in questo quadro che vanno visti l'articolo pubblicato dall'on. Mattarella il 24 settembre 1944 in cui si prendono le difese dei mafiosi aggressori di Villalba e il discorso pronunciato a Villalba nel 1947 dall'on. Alessi in cui l'oratore affermava che «dietro l'illustre e onesto casato della famiglia Vizzini vi era tutta la democrazia cristiana».

Dopo l'aperta presa di posizione politica di Calogero Vizzini per la Dc, tutti gli altri esponenti della mafia si affrettarono ad entrare in quel partito raggiungendo rapidamente posti di direzione in sede locale e provinciale. A Villalba, praticamente, l'intera mafia entrò nella Dc.

A Vallelunga Lillo Malta passò alla Dc con tutto il suo seguito: i Madonia, i Sinatra, ecc., anche il gruppo Cammarata passò alla Dc. A Mussomeli Genco Russo e tutto il suo seguito si iscrissero nella Dc assumendo la direzione della sezione.

Il processo continuò e si sviluppò con ritmo impressionante: i Di Cristina assumono la direzione della sezione di Riesi; i Cinardo quella di Mazzarino; i Samperi quella di Niscemi; i Valletta quella di Campofranco; i Vario quella di Acquaviva Platani e così via in quasi tutta la provincia.

Di conseguenza la direzione provinciale Dc, ha finito col subire le influenze decisive della massiccia presenza della mafia nelle sezioni locali.

I MAFIOSI NELLA DC DI CALTANISSETTA

Sono stati e sono dirigenti provinciali della Dc di Caltanissetta mafiosi di grande rilievo come: Calogero Vizzini, Genco Russo (è stato segretario amministrativo), Beniamino Farina, Calogero Sinatra, Antonio Di Cristina, Ludovico Cinardo, Angelo Annaloro e numerosi altri.

Un esame dei componenti il consiglio provinciale della Dc succedutisi in tutti questi anni nel dopo guerra darebbe materiale di seria riflessione sulla ipoteca che la mafia ha mantenuto, e tuttora conserva in questo partito nella provincia di Caltanissetta.

Né si può dire che si tratti di elementi sconosciuti come mafiosi che di soppiatto si sono infiltrati nel le file della Dc e nei suoi organi dirigenti locali e provinciali. Infatti si tratta di persone che sono note a tutta l'opinione pubblica come mafiose.

D'altra parte non sono mancate denunce esplicite della presenza di mafiosi in detto partito. Ripetutamente in comizi e manifesti la Dc è stata invitata a disfarsi di così triste convivenza. Nell'ultima campagna elettorale l'on. Volpe venne invitato in tutti i comizi a dichiarare se: a) rigettava i voti ed ogni appoggio della mafia; b) condannava la mafia come fenomeno delittuoso che andava estirpato; e) avrebbe appoggiato in tutti i modi la Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia. L’on. Volpe non rispose a questi inviti, anzi a Mazzarino osò addirittura fare l'apologia della mafia (distinguendola dalla delinquenza) e considerando il mafioso "uomo rispettabile e d'onore".

[…] I comunisti e con essi i socialisti hanno sempre posto l'accento sulla necessità per le forze democratiche cristiane di liberarsi dai collegamenti con la mafia. La collusione del quotidiano Sicilia del Popolo, almeno fino al 1950, trasuda di attacchi alla diffamazione social-comunista contro la Dc, ma nello stesso organo di stampa è possibile notare l'elezione alle cariche provinciali di ben note figure della mafia. Occorre dire che oggi si fa strada anche nei giovani democristiani della provincia la esigenza di una rottura almeno con gli elementi maggiormente compromessi con la mafia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

Quei giorni “sospesi” prima del grande attentato di maggio. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 02 marzo 2023

Era venuto il momento di serrare il pugno. Cominciarono così i preparativi per il fatto grande che avrebbe sconvolto il mondo intero. Prima però le famiglie di Agrigento avevano organizzato tutto per un altro obiettivo: il maresciallo maggiore Giuliano Guazzelli. Anche lui era nel nostro elenco...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Lo avevamo fatto. Avevamo cominciato a uccidere ancora prima di accorgerci che eravamo diventati assassini. Ci rivedemmo, dopo l’omicidio di Salvo Lima. Eravamo già stanchi, ma eravamo solo all’inizio. Le parole furono poche, come se tutto avesse già preso una piega. Altre cose tinte erano in arrivo, e non stava a noi né cambiare né tantomeno fermare il corso degli eventi. Le cose indietro non le lasciamo, ci dissero i palermitani.

Quello che è successo non è niente. E ancora: È una guerra contro lo Stato. Infine: Accadranno cose importantissime. Non per la Sicilia, per l’Italia. Il signor Riina era contento. Si sono aperti dei canali, diceva, e alcuni di noi pensavano, nella loro ignoranza, a dighe e campi da coltivare, e chissà, qualcuno tra noi borbottava anche: vuoi vedere che è già finita e ce ne torniamo tutti a fare i contadini come i nostri padri, finalmente, e tutto questo sbattuliamento della guerra allo stato magari è servito solo per avere un pezzo di terra? Che poi, alla fine, se ci pensate, è da sempre per questo che si fanno le guerre, per la terra, ed è per questo che è nata la mafia, per la terra, ed era sempre questo l’orrore che ci portavamo dietro, il selvaggiume della terra.

Ma non eravamo così ingenui e sempliciotti: sapevamo che i canali di cui si parlava non erano irrigui. Lui, lo zio Totuccio, si riferiva ad altro, al mondo politico. E la teoria era: vedrete che ora succederà un terremoto e qualcuno ci cercherà per avere i nostri voti.

Erano i mesi in cui forze politiche nuove, in effetti, stavano prendendo campo, e tra questi partiti nuovi ce n’era uno del nord che andava molto forte, e Matteo lo seguiva con attenzione perché lui da tempo propugnava l’idea di un partito del Sud, anzi, della Sicilia, tutto nostro, indipendentista, autonomista, sicilianista, e più parole in -ista ci vengono meglio è. E in -ista era l’altra parola con la quale cominciarono ad associarci: stragista. La mafia stragista.

L’ala stragista di Cosa nostra. Qualcuno aveva capito: vedrete che Lima è solo l’inizio. Cose grosse erano in serbo, come recita quel detto: il meglio deve ancora venire. E se dobbiamo ricordare quelle settimane, il periodo tra marzo e maggio, era come essere attraversati da una continua scarica elettrica.

Sembrava che il mondo fosse piccolo, e che avremmo potuto contenerlo nel pugno di una mano. Sì, sembrava che con le nostre mani avremmo potuto sradicare Palermo e il parlamento, ogni aula di giustizia e tutto il ministero. Sembrava che tenessimo in pugno non solo Andreotti ma tutta la Repubblica che stava morendo e quella che doveva nascere; sì, anche quella era nelle nostre mani, rantoli e vagiti, tutto si confondeva, nella nostra annacata.

E quelle nostre mani, che per la prima volta ci sembravano fiere e grandi e non più callose e nodose, non erano mani da contadini o di assassini, erano le mani del potere che tutto può e che decide vita e morte e miracoli. In quelle nostre mani c’era pure il dottore Falcone. Era venuto il momento di serrare il pugno.

Cominciarono così i preparativi per il fatto grande che avrebbe sconvolto il mondo intero. Prima però le famiglie di Agrigento avevano organizzato tutto per un altro obiettivo: il maresciallo maggiore Giuliano Guazzelli. Anche lui era nel nostro elenco. Lo conoscevano bene le famiglie mafiose di mezza Sicilia. E anche se era vicino alla pensione, ci faceva paura la sua memoria portentosa, il modo in cui metteva insieme parentele e relazioni, da Palermo ad Agrigento fino a Trapani.

Fu ucciso sul viadotto Morandi, prima di entrare ad Agrigento, con un armamentario di tutto rispetto: mitra, kalashnikov, un fucile a pompa. Era il 4 aprile. Il giorno dopo si votava per le elezioni politiche. E quei colpi mortali servirono anche per rompere il silenzio elettorale e fare arrivare il nostro messaggio ancora più forte a chi doveva ascoltare.

LA GUERRA ALLO STATO

Vennero giorni sospesi, lattiginosi, tra aprile e maggio del 1992. La Sicilia sembrava immersa in un bicchiere di acqua e zammù, di quelli che a Palermo si bevono per strada per calmare i tormenti dell’estate.

Qualcuno era anche deluso: come? ci avete fatto credere alla grande abbuffata, e invece vi siete fermati all’antipasto, e a un paio di contorni? Dov’è il piatto di portata, il cinghiale arrosto, il vitello grasso, dov’è? Intorno tutto si muoveva come se nulla fosse. Tirava un vento di scirocco, vento pieno di rabbia. E noi la sentivamo, comunque, l’energia. Sembrava che ci fosse come un’onda, potentissima eppure leggera, una marea, ecco, che si disperdeva dal cratere che stavamo preparando.

Sotto quel pezzetto bello e tondo del cielo di primavera, vedevamo Cossiga, Craxi, Andreotti, e i comunisti e la Dc, i giudici della Cassazione e quelli del Maxi, i questori e le squadre mobili, la Rai e Canale 5. Mentre acconciavamo per loro la nostra coreografia, sentivamo bisbigliare, avanzando, sul luogo del disastro, i pompieri e i carabinieri, il papa polacco e i servizi segreti. Scivolavano, come ipnotizzati da un pensiero gelido, «Repubblica» e il «Corriere», i corrispondenti e gli inviati, tutte le vittime e i martiri, le sacerdotesse dell’Ave Maria e il Padre Nostro che sia fatta la tua volontà, ma solo in cielo, però, perché in terra comandavamo noi.

Era nostra la volontà, nostro era il destino, nostro era il dito che muoveva il mondo. Tutti, li aspettavamo tutti, pronti a misurare il vuoto. In tanti erano coinvolti nella preparazione dell’attentato al dottore Falcone, e ognuno sapeva un pezzetto di storia, ma non tutta la messa.

A ciascuno il verso di un salmo che tutti insieme stavamo mandando a memoria. L’Italia continuava come prima, nel suo contorcersi tra arresti eclatanti e crisi economica, le dimissioni del presidente della Repubblica, la guerra in Serbia, la Disney che apriva un mirabolante parco giochi a Parigi.

Il dottore Falcone tenne quello che sarebbe diventato il suo ultimo incontro pubblico, all’università di Pavia. Parlò giusto giusto della famiglia mafiosa di Castelvetrano, «messa con le spalle al muro dalla Procura distrettuale di Palermo». DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

La strage di Capaci e l’applauso dei detenuti dell’Ucciardone. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 03 marzo 2023

I sismografi dell’osservatorio geofisico di Monte Cammarata, in provincia di Agrigento, percepiscono una scossa tellurica. Nello stesso momento Salvatore Gambino, trent’anni, percorre con l’auto un ponte vicino Palermo, che dà sull’autostrada. Improvvisamente, vede un’esplosione, una fumata, e una specie di lava uscire dall’asfalto. Racconterà: «Sembrava l’Etna»...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Autostrada A29 Palermo-Mazara del Vallo. Altezza dello svincolo per Capaci L’Italia è nel caos.

Il governo è precario, in Parlamento non si riesce a scegliere il nuovo capo dello Stato. La Dc preme per Giulio Andreotti, gli altri partiti chiedono una soluzione più istituzionale, come i presidenti delle due Camere, Giovanni Spadolini o Oscar Luigi Scalfaro.

Qualcuno dice: «Se si dovesse fare un colpo di stato, sarebbe il momento giusto». All’Ucciardone si sposa Nino Madonia, il figlio minore del vecchio Don Ciccio Madonia, il mandante dell’omicidio dell’imprenditore Libero Grassi. Arriva una telefonata al «Giornale di Sicilia» e annuncia un «regalo di nozze speciale per lui». C’è grande eccitazione, tra gli sportivi: la Juventus ha già fatto il primo colpo di calciomercato, e ha acquistato dalla Sampdoria il bomber Gianluca Vialli.

Le famiglie mafiose di Agrigento si riuniscono: sono preoccupate. C’è un ragazzo di vent’anni, un picciotto che, dopo essere stato arrestato per la strage di Racalmuto del 23 luglio 1991, ha deciso di pentirsi, perché gli hanno promesso che se collabora gli fanno rivedere la fidanzatina.

Bisogna fare qualcosa, presto, suggerisce qualcuno. Da domani avremo altre cose di cui preoccuparci, lo stoppano. Domenica di lavoro per gli autori de La Piovra 6. Ultimi ritocchi al montaggio dello sceneggiato di grande successo, che va in onda su Rai 1. Gli sceneggiatori commentano: «Non riusciremo mai a stare dietro la realtà». I sismografi dell’osservatorio geofisico di Monte Cammarata, in provincia di Agrigento, alle ore 17:56 percepiscono una scossa tellurica. Nello stesso momento Salvatore Gambino, trent’anni, percorre con l’auto un ponte vicino Palermo, che dà sull’autostrada.

Improvvisamente, vede un’esplosione, una fumata, e una specie di lava uscire dall’asfalto. Racconterà: «Sembrava l’Etna». Nel tardo pomeriggio, sempre all’Ucciardone, davanti ai tv color delle celle, molti detenuti si lasciano andare a un applauso liberatorio. E a parte questo, nessuno si fece male.

DOPO LA STRAGE

Dopo il fatto di Capaci tutto accelera. Noi non lo sappiamo, e neanche abbiamo il modo di interrogarci. Siamo presi da una scossa di adrenalina collettiva, che a descriverla è difficile: qualcosa di orgiastico, roba che mai avevamo provato in vita nostra.

Tutti i giornali parlavano di Capaci, della potentissima e spietatissima Cosa nostra, tutti piangevano il dottore Falcone, e i primi erano proprio quelli che in vita ci avevano tanto aiutato delegittimandolo giorno dopo giorno, isolandolo, preparandoci il terreno. Addirittura si parlava di quello che era successo in Sicilia anche all’estero: Frontline judge murdered by the mafia, Masacre en Sicilia, Massacre à Palerme, Le juge Falcone assassiné, Die sizilianische Mafia erklärt dem Staat den Krieg.

In Italia, invece, i giornali sembravano fare gara a chi la sparava più grossa: «Il segnale della bomba è partito da un aereo», «in campo almeno cinquanta uomini», «la strage è costata alla mafia almeno due miliardi». Si notava l’intenzione di offrire al pubblico la degustazione dell’esattezza, facendo fuori fino agli ultimi avanzi dell’evento, attribuendo subito colpe e responsabilità.

Nessuno, però, parlava di noi, e questo ci sembrava ancora più incredibile. Avremmo voluto uscire allo scoperto e gridare al mondo: siamo noi! Noi siamo stati! Venite qui a prenderci! Passeggiamo alla luce del sole, Matteo un si scanta! È lui l’imperatore! Ma questa provincia nostra di Trapani, il Belice, Mazara, Alcamo, faceva notizia solo per i terremoti, mica per la mafia.

Volevamo investire il mondo con la nostra guerra, come un contagio che si prende nelle vie, nell’aria che si respira. Volevamo essere un nemico terribile, senza confini e senza volto. E fu in questo clima che cercammo di rivederci, anche se era difficile, perché c’erano sbirri per le strade, e qualcuno a Roma e a Palermo aveva cominciato a dire «adesso facciamo sul serio», senza ridere sotto i baffi come era stato fatto negli ultimi cinquanta anni.

E c’era anche chi stava cominciando a capire che non poteva vincere questa partita stando sugli spalti come aveva sempre fatto. E Matteo organizzò un altro incontro; non eravamo tanti, ma quelli necessari. Quelle persone che hanno fatto queste scelte di vita contro di noi le sapevano le conseguenze – era il nostro commento – e come ci piace il dolce, ci deve piacere anche l’amaro.

C’era da portare a termine un compito, tutto il resto non ci interessava. Il signor Totuccio si fermò pochissimo con noi; aveva gli occhi che gli facevano pupi pupi per una stanchezza quasi onirica e disse due cose che ci furono subito chiare, sottolineate dal silenzio di Matteo, che lo lasciava fare.

La prima era: Ci vuole un altro colpetto. Insomma, eravamo nel mezzo del più grande incendio scatenato in Italia negli ultimi cinquanta anni, avevamo ancora le taniche di benzina in mano, e volevamo continuare. Bisogna muoversi, aggiunse.

Il ricordo andò a Leoluca Bagarella, che era quello che si accaniva con i cadaveri, che spesso dovevamo fermarlo mentre a uno già morto lui continuava a dare calci o spararci, con grande spreco di munizioni e di pazienza nostra. Ma noi adesso volevamo la stessa cosa.

Lo stato era a terra, ma bisognava continuare a colpire. Alla corleonese. Come quando facevamo qualcuno, e poi gli uccidevamo i parenti, e poi davamo fuoco alle case e all’azienda, ai mezzi, perché di lui non restasse memoria.

Noi volevamo che dello stato non restasse memoria. Non volevamo fare la storia, la volevamo cancellare. Ed essere poi noi, la storia. La seconda cosa che ci disse era la premessa della prima, nell’ordine di ragionamento contorto che Riina aveva, e che ci rendeva difficile comprenderlo ogni volta. Ed era: Ci cercano.

I più ingenui pensarono agli sbirri, a qualche nuovo super procuratore antimafia di staminchia, a un alto commissario, un prefetto di ferro, un poliziotto di acciaio, i carabinieri, i falchi, pure la forestale, il dottore Borsellino, gli altri dottori, quelli del nord, la Nato, i servizi segreti, l’Onu, Cgil, Cisl e Uil. Chi ci cerca? Io tratto solo cose e persone importanti, aggiungeva. Matteo aveva capito, e poi ci spiegò. A modo suo. Anche lui disse solamente: Ci cercano. Non come chi ha paura, ma come chi è desiderato. Ci cercano. […].

Aveva fretta, il dottore Paolo Borsellino. Lo diceva a tutti: devo fare in fretta. Venne la fretta anche a noi. Dovevamo ucciderlo. Per quello che aveva fatto. Per quello che ancora voleva fare. Voleva indagare sulla morte del dottore Giovanni Falcone, voleva portare avanti le indagini sugli appalti.

Falcone fu ucciso per vendetta. Borsellino fu ucciso anche lui per vendetta, ma anche a scopo preventivo. Perché avevamo imparato la lezione. Perché dovevamo continuare a fare la guerra per poi fare la pace. E il dottore Borsellino si era messo in mezzo. […].

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Tutti i piani mafiosi per uccidere il giudice Paolo Borsellino. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 04 marzo 2023

Un altro attentato allora volevamo farlo nella casa a mare di Borsellino, a Marinalonga, nei pressi di Carini. Era vicino del nostro Angelo Siino, sembrava cosa facile anche lì. Ma siccome Siino conosceva al dottore Borsellino, l’ha visto e l’ha messo in guardia. Siino infatti pensava: qui, se succede qualcosa, il primo che si inculano sono io...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Noi dunque lo conoscevamo bene il dottore Paolo Borsellino, ancora meglio del dottore Falcone, e anche per lui era dall’inizio degli anni Ottanta che pensavamo di combinare qualcosa, perché aveva cominciato anche a fare indagini sulla famiglia Riina, aveva arrestato anche il fratello di zio Totò, Giacomo, a Bologna, e aveva svolto indagini particolari con quel capitano dei carabinieri, Emanuele Basile – che poi era stato ucciso – che aveva portato all’arresto di Francesco Madonia e di suo figlio.

E i palermitani ce lo dicevano sempre: se abbiamo dovuto uccidere il capitano Basile, la colpa è del dottore Borsellino, che se si stava un poco buono e non dava fastidio ai nostri vecchi amici, ai soci di combriccola, non creava tutti questi macelli. E quindi dopo Basile, per noi, era venuto il momento di Borsellino, solo che l’occasione non c’era stata mai. Avevamo anche tentato di avvicinarlo in qualche modo: c’eravamo mossi a Palermo, a chiedere: la famiglia, qualche compagno di scuola, un abboccamento, un’amicizia, ma, come per il dottore Falcone, non c’era possibilità; anzi, Borsellino si era messo in testa che doveva arrivare a prendere i killer di Basile, e non voleva essere accomodante. E ancora doveva esserci tutta la vicenda del Maxiprocesso… Comunque, per lui la sentenza era stata emessa da tempo.

Era stata rinviata solo l’esecuzione. Ogni volta che lo vedevamo, ripetevamo la stessa frase: rompiamoci le corna. Quando Borsellino arrivò a Marsala, ci sembrò quasi una provocazione. E quindi cercammo di capire il da farsi. Studiammo i suoi passi, la scorta, il viaggio che faceva da Palermo, a che ora era a Marsala, dove pranzava, se il caffè lo pigliava al bar. Scoprimmo che amava fare certe passiate tipo il commissario Montalbano, quello di Camilleri, a piedi, al lungomare della Spagnola, dopo pranzo.

Ci si poteva lavorare, come idea. Nel 1988 avevamo tutto pronto, e una mano amica sembrava volerci indicare la strada. Non lo sapete, ma in quel periodo al dottore Borsellino stavano quasi per levare la scorta ‒ a uno dei magistrati più a rischio in Italia ‒ e si discuteva di «alleggerire» la sua protezione. E così fu. Fu revocato il presidio fisso sotto casa sua. Non c’era più nessuno a fare da guardia. Buono.

Poi lui era abitudinario: andava sempre a messa la domenica, comprava ogni giorno i quotidiani alla stessa edicola. Sapevamo pure da quale pollaio comprava le uova fresche. Aveva questo pallino delle uova, gli piacevano a sucare, sarà. Ci faceva il buco, e poi se le beveva ancora calde del culo di gallina.

Magari come noi ci metteva dentro un goccio di vino marsala, quando nei rigori dell’inverno uno starnuto o un raschiamento della gola annunciavano un possibile raffreddore ed era il caso di metterci un rinforzino.

Un giorno era fatta. Fatta, vi dico, fatta. Ci partimmo, ognuno con il suo compito, muovendoci a bordo di un motorino dalla nostra base, che era vicino un negozio di mobili in Viale delle Alpi, a Palermo, e andammo sotto casa del dottore Borsellino.

Lo vedemmo scendere dall’auto, accelerammo mentre lui si guardava attorno, mettemmo le mani nella giacca, il ferro era pronto e muto come sempre, stavamo per sparare, ma Borsellino ebbe come un presentimento, accelerò il passo, entrò nel portone e se lo chiuse dietro con un grande sbam. A noi non rimase che ricacciare indietro la delusione, restare agghiuttuti giusto una frazione di secondo, e poi ripartire, e andare via di là senza fare capire niente a nessuno, prendendoci anche un colpo di «cornuti!» per un sorpasso avventato. Anche qui, non dovete pensare che era tutto improvvisato. Avevamo studiato. E avevamo scelto questa formula, i colpi da un motorino in corsa, perché volevamo confondere le acque.

Insomma, se fosse stata un’autobomba, o un’azione come si deve, come con il prefetto Dalla Chiesa o il dottore Chinnici, tutti avrebbero capito che c’era la nostra firma. In quel modo, invece, volevamo ingenerare confusione: chi ha ammazzato Borsellino? Mah, due picciottazzi a bordo di un motorino rubato. E infatti anche la pistola era stata scelta con cura.

Avevamo il bendidio di armi, e ci piacevano moltissimo i kalashnikov come le P38, ma in quell’occasione avevamo optato per una banale calibro 7 e 65, corta e semiautomatica, un giocattolino, roba da delinquenti di strada. Fallito quel colpo, avevamo ripreso gli appostamenti, soprattutto nei giorni festivi. Chissà perché, non solo era scritto che avremmo ucciso prima o poi il dottore Borsellino, ma che lo avremmo fatto di domenica.

Ma era in corso il processo d’appello del Maxi, e a un certo punto pensammo che uccidere Borsellino poteva comunque essere, in quel periodo, una cattiva pubblicità per tutti noi. Era meglio aspettare. Intanto non solo Borsellino non si calmava, anzi, aumentava il suo lavoro, e la cosa ci dava sempre più fastidio, perché qui dobbiamo dire un’altra cosa. Che i due magistrati, Falcone e Borsellino, non erano la stessa cosa.

Oggi siete abituati a vederli insieme nella vostra toponomastica con cui lastricate i sensi di colpa, ma non è così. Noi li conoscevamo bene. Erano persone diverse, con caratteri diversi, e idee molto diverse, a volte anche in contrasto. Il dottore Borsellino era assai più irruente dell’amico, ad esempio, e anche più operativo.

Il dottore Falcone era più un tipo da grandi strategie, relazioni. Spesso avevamo la sensazione che Borsellino, quando parlava e lanciava i suoi strali sul «calo di attenzione nella lotta alla mafia», avesse dato voce al pensiero di Falcone, che era più cauto. E infatti li chiamavamo «il braccio e la mente».

GLI AVVERTIMENTI DI SIINO

Un altro attentato allora volevamo farlo nella casa a mare di Borsellino, a Marinalonga, nei pressi di Carini. Era vicino del nostro Angelo Siino, sembrava cosa facile anche lì. Andò Di Maggio a casa di Siino a fare una serie di appostamenti, per capire se si poteva fare la cosa.

Il residence, infatti, aveva una sola uscita, e in pratica dalla rete metallica della villa di Siino si vedevano proprio tutti gli spostamenti e i movimenti di Borsellino, le occasioni in cui si allontanava dai due che gli facevano la scorta, tutte le volte che usciva con il vespino.

Tanto che Di Maggio ci aveva preso gusto, sembrava un lavoro facile; e tra un bagno e una mangiata di pesce questo vai e vieni da casa di Siino era durato due settimane. E Di Maggio poi aveva riferito tutto. Ma siccome Siino conosceva al dottore Borsellino, l’ha visto e l’ha messo in guardia. Siino infatti pensava: qui, se succede qualcosa, il primo che si inculano sono io. E allora, mentre c’era Di Maggio, chiamò Borsellino nel bungalow di suo fratello e cercò di parlargli per avvisarlo.

Ma la cosa fu tragica, perché Siino era convinto di poter parlare molto in amicizia, di dirgli: «Ma chi glielo fa fare, ma perché sta facendo tutte queste cose», «Ma dottore, perché…». E invece Borsellino impazzì e si mise a urlare: «Ora lei mi deve dire chi la manda, che cosa vuole dire!». E Siino: «Dottore, non c’è nessuno motivo… era per parlare». Morale: Borsellino si infuriò, e anche Siino ci rimase male. Ma come, pensava, io ti sto dicendo questa cosa, di stare attento, anche perché qui a Marinalonga non hai nessun tipo di scorta, e tu reagisci così? Siino dopo l’incontro si pigliò di confusione.

Lui non era cosa di fare mediazioni e sensalie, ogni volta combinava danno. E qui il danno era grosso. Perché aveva fatto saltare l’attentato al giudice, e come ringrazio quello lo aveva sicuramente già segnalato. Convinto che lo arrestassero, per sì e per no, Siino fece la cosa che sapeva fare meglio: tagliare la corda. E se ne andò con la barca in Tunisia. Anche perché, pensava, se davvero fanno a Borsellino, è meglio che mi levo dai piedi.

E saltò anche questo progetto. In qualche modo avevamo capito che se dovevamo liberarci del dottore Borsellino, l’attentato, alla fine, avremmo dovuto farlo noi, senza delegare ad altri. La cosa non ci calava molto, perché significava uscire dalla nostra invisibilità, ma Borsellino era procuratore a Marsala, a casa nostra, e se avessimo aspettato che se ne ritornava a Palermo, gli amici di lì non ce l’avrebbero mai perdonato.

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Il gioco degli inganni e l’omicidio di un boss vicino ai “servizi”. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 05 marzo 2023

Vincenzo Milazzo si era messo in testa non solo di mettersi contro la nostra strategia, ma anche di diventare lui, il capo. E pensare che con Matteo Messina Denaro erano grandi amici, e che insieme avrebbero potuto fare grandi cose. Ma faceva il gioco delle tre carte, un po’ diceva sì, un po’ diceva no. E conosceva gente nei servizi, così dicevano, e si faceva delle riunioni tutte sue.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

A Marsala i rappresentanti delle famiglie erano Vincenzo D’Amico e Francesco Craparotta. Gli spiegammo il da farsi, la necessità di compiere l’attentato. Gli potevamo mettere a disposizione Vito Mazzara, che era campione sportivo di tiro a piattello, oltre a essere un pezzo importante della storia di tutti i trapanesi. Sparava da vero professionista. E già ci fu un primo no. Loro non si sentivano minacciati da Borsellino.

Avevano agganci con tutti, con i politici, con uomini delle istituzioni, e tutti avevano garantito che loro, comunque, erano intoccabili. Anzi, nell’occasione ci avevano ribadito che non era cambiato molto dai tempi di Mariano Licari, il mitico capomafia degli anni Cinquanta.

Più volte qualche giudice aveva cercato di arrestarlo, per «i reati più obbrobriosi», come scrivevano ai tempi, e più volte carabinieri e polizia avevano ribadito per iscritto che Licari godeva di «stima e reputazione» e «non era mafioso». Ecco perché i marsalesi ci dicevano: Cu ni ci porta? Siamo a posto, non abbiamo nessun tipo di problema con Borsellino. Fare una cosa di questo genere ci porterebbe solo problemi. Non avete nessun problema con Borsellino? ’Stu cornuto? ’Stu tinto? ’Stu disonorato?

E pensare che avremmo fornito tutto noi, c’era già una mezza idea: un’autobomba sotto il tribunale, che poi era un’ex scuola, in una piazzetta angusta. Oppure al commissariato di polizia, dove Borsellino dormiva. Ma loro insistevano: Non possiamo mettere Marsala sottosopra, noi stiamo bene qui, stiamo tranquilli. Perché non cerchiamo un altro posto dove c’è meno clamore? Qua non muore solo Borsellino, muoiono magari decine e decine di persone. Con i marsalesi c’erano problemi ogni volta.

Facevano affari in zone non loro senza dare preavviso, si erano appropriati di soldi che servivano per pagare gli avvocati e sostenere le famiglie dei detenuti, pestavano i piedi alla famiglia di Mazara. Questo primo no di quei disgraziati aveva insomma creato un po’ di tensione. E poi qualcuno se l’era cantata. Perché a un certo punto a Borsellino fu rafforzata la scorta.

Quindi, è vero, c’era chi parlava con la famiglia di Marsala, ma c’era anche chi riceveva messaggi. Quattro cornuti ci ero a cuntare tutti cose, commentò Matteo con disprezzo. Ma c’era anche un’altra cosa. Che i marsalesi avevano detto no a Riina e a Matteo.

Avevano espresso il loro parere contrario. E quindi, lo sapete già come poteva andare a finire, no? Perché a un certo momento le strade erano due: o non si faceva l’attentato, o si eliminavano le persone contrarie e poi si andava a fare l’attentato. E noi l’attentato dovevamo farlo, punto.

L’idea iniziale era di sterminare tutta la famiglia di Marsala. Una strage. Troppo bordello. Allora passammo a più miti consigli. Fu così che l’11 gennaio del 1992 furono uccisi Vincenzo D’Amico e Francesco Craparotta. Si era ancora nel clima delle feste di Natale, anche perché a Marsala si usa aspettare la festa della Santa Patrona, la Madonna della Cava, che è il 19 gennaio, per smontare alberi e presepi, rimettere in soffitta statuine e lucine intermittenti, e chiudere i tavoli di cucù e sciumè. Se la prendono comoda.

Un paio di settimane prima, a Tonnarella, in una villa sul mare a Mazara del Vallo, Matteo organizzò una schiticchiata, una mangiata con Totò Riina. Matteo era elegante, sembrava un figurino. Il signor Riina era di buonumore. Venne con una Alfa 164 bianca, e regalò un milione di lire a ognuno dei partecipanti, per comprare un pensiero per le nostre famiglie – che magari in un altro momento avremmo potuto coinvolgere in una bella tombolata tutti insieme, oppure a giocare all’asso che corre o a bestia.

Ma non era questa la serata adatta. E lì Riina si girò verso Antonio Patti e gli disse: Dobbiamo levarci queste spine a Marsala. E poi offrì spumante: mosciandò per tutti. Il 12 gennaio 1992 un tale, Francesco D’Amico, andò dalla polizia. Mio fratello Vincenzo, disse, questa notte non è tornato a casa. È uscito di casa alle sette del mattino, e non è più tornato. Vabbè, sarà in giro. Il fatto è che abbiamo trovato l’auto, lui no. Malamente, pensò il poliziotto.

A compiere l’omicidio fu Antonio Patti, al quale Matteo aveva promesso che sarebbe diventato il nuovo reggente della famiglia mafiosa di Marsala. E alla famiglia di Marsala, in regalo, sarebbero andate anche tutte le estorsioni fatte nel paese di Petrosino e che finora erano competenza dei mazaresi. E così fu stabilito in una riunione che, dopo gli omicidi, abbiamo tenuto all’hotel Hopps di Mazara.

In contemporanea una signora andò dai carabinieri: mi presento, sono la moglie di Francesco Craparotta. Mio marito questa notte non ha fatto ritorno a casa. Anche gli sbirri sapevano che i due non erano persone qualunque. E qualcosa di grave doveva essere successo. Ma gli faceva strano, perché non c’erano stati segnali di una guerra di mafia in arrivo.

Non sapevano che erano vittime del nostro ragionamento gelido, e che li avevamo uccisi perché erano delle crepe nel nostro svolgimento perfetto delle ammazzatine che volevamo fare. Poi il 7 febbraio, infine, il terzo omicidio. Gaetano D’Amico. Gli sparammo al bar. A questi omicidi partecipava anche un grande amico di Matteo, Vincenzo Milazzo, coetaneo suo, astro nascente della famiglia mafiosa di Alcamo. Che bello che era, Vincenzo. Era tutto: enologo, chimico, sicario, sperto, fimminaro, vincente.

Conosceva tutti nella Alcamo bene: politici, senatori. Faceva la bella vita. Anche lui venne ucciso, da Matteo, a luglio di quell’anno 1992, perché anche lui aveva cominciato ad avere perplessità sulle stragi. E in quel caso Matteo agiva come una specie di ministro dei Temporali. Perché poi avete bisogno di dare etichette, voi. E allora sì, se Siino era il ministro dei Lavori Pubblici di Cosa nostra, se lo zio Ciccio era quello degli Esteri, potete scrivere tranquillamente che Matteo era ed è il ministro dei Temporali, perché arrivava come una saetta e colpiva chi tradiva, in questo caso il povero Vincenzo Milazzo, che si era messo in testa non solo di mettersi contro la nostra strategia, ma anche di diventare lui, il capo.

Amo a virere – diceva – quando cominciano a piovere gli ergastoli… E pensare che con Matteo erano grandi amici, e che insieme avrebbero potuto fare grandi cose. Ma faceva il gioco delle tre carte, un po’ diceva sì, un po’ diceva no. E conosceva gente nei servizi, così dicevano, e si faceva delle riunioni tutte sue. Un tale, non si capisce se per prenderlo per fissa o perché ci credeva davvero, gli aveva anche prospettato l’idea di una guerra batteriologica, avvelenando degli acquedotti, e lui era sbottato: ma siete dei pazzi!

Matteo non poteva permettere che si facessero queste deviazioni, queste trattative nelle trattative, che si poteva finire in un labirinto, come quello che hanno fatto a Gibellina dopo il terremoto. E proprio da Gibellina stava tornando l’amico nostro Vincenzo, quando lo incrociammo con l’auto per dire che Matteo lo aspettava al solito posto per un chiarimento.

E il solito posto era questo malaseno che utilizzavamo per la droga, e quando Milazzo arrivò non ebbe tempo di dire né ai né bai. Aprì la porta. Ci vide tutti in piedi ad aspettarlo, uno di noi con l’arma già pronta. Disse soltanto: Spara, cornuto.

E gli sparammo. Certo, con un po’ di dispiacere. Ma il nostro motto era: non essere deboli. Infilammo il corpo in un sacco nero. Matteo fece una fossa con l’escavatore. E addio Milazzo. Qualche giorno dopo, nella stessa fossa ci infilammo un altro sacco nero. Dentro, c’era la fidanzata Antonella. Lei la strangolammo. Faceva troppe domande, era squieta, ci conosceva tutti. Sì, la strangolammo. Anche lei, su appuntamento, nello stesso posto. Alle donne noi non abbiamo mai sparato.

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

E Totò Riina disse: “A Sarajevo muoiono tanti bambini, che problema c’è?”. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA", DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 06 marzo 2023

Nel delirio ognuno la sparava grossa, su come dare un altro colpetto. Qualcuno diceva: perché non avveleniamo le merendine dei distributori delle scuole? Qualcun altro voleva mettere le siringhe infette di Aids nascoste nella sabbia di Rimini. Qualcun altro voleva distruggere i templi di Selinunte. Oppure mettere una bomba nel centro di Trapani. Ma sarebbero morte tante persone innocenti, avevamo obiettato. E Riina: A Sarajevo muoiono tanti bambini innocenti, per ora. Che problema c’è?

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

In quell’estate del 1992 continuammo a vederci e a riunirci, forse anche con meno precauzioni rispetto a prima, perché avevamo fatto saltare in aria l’Italia e ci sentivamo potenti e intoccabili. La nostra natura predatoria aveva preso il sopravvento. Assistevamo ai funerali di Stato, ai cortei dei «Buffoni! Buffoni!», ai cuori vibranti di protesta. Vedevamo le strade invase da militari e carabinieri.

Peccato che all’epoca non ci fosse ancora internet perché avremmo fatto una diretta in streaming per urlare al mondo: siamo noi. E avremmo voluto continuare, e abbiamo continuato. Eravamo dentro una specie di incantesimo, una ruota che girava nella ruota, un inizio senza fine.

Alcuni proponevano di portare le bombe sul continente. Matteo e i Graviano cominciavano già a valutare questa opzione: tanto a Roma l’esplosivo lo avevamo lasciato, e poi non sarebbe stato un problema spostarlo qua e là. E in effetti verrà il turno dei luoghi d’arte e dei musei. Come se fossimo fatti di acido, avevamo delle visioni: ci ubriacavamo spesso, in quel periodo, cercavamo una magica regressione nel ventre protettore dell’ebbrezza, che ci ricordava quello della mamma.

Arrivavamo già ubriachi agli appuntamenti con le nostre ragazze per portarle in motoscafo a fare il bagno dietro l’isola di Favignana, consumavamo litri di vino bianco con la scusa di accompagnare due fili di busiate allo scoglio nei ristoranti vista mare di Mazara, passavamo i pomeriggi di caldo e polvere scandendo il tempo a suon di birre. Nel delirio ognuno la sparava grossa, su come dare un altro colpetto.

Qualcuno diceva: perché non avveleniamo le merendine dei distributori delle scuole? Qualcun altro voleva mettere le siringhe infette di Aids nascoste nella sabbia di Rimini. Qualcun altro voleva distruggere i templi di Selinunte. Oppure mettere una bomba nel centro di Trapani. Ma sarebbero morte tante persone innocenti, avevamo obiettato. E Riina: A Sarajevo muoiono tanti bambini innocenti, per ora. Che problema c’è?

Ci mancava solo che qualcuno diceva: togliamo i sassi alla Luna, a poco a poco, per farla crollare sull’Italia. Per fortuna che c’era Matteo a riportarci sulla Terra. Lui stava a Bagheria, oppure a Brancaccio. Lì un giorno i poliziotti fecero irruzione nell’appartamento dove era ospitato, convinti però di trovare Giuseppe Graviano. Per fortuna non c’era nessuno, ma a ogni modo a Graviano viene la prescia, appena la polizia se ne va, di svuotare l’appartamento, soprattutto perché c’era un mobiletto con tutte le foto e i documenti di Matteo.

Nella vostra memoria rimane il ricordo di quelle stragi: e Falcone & Borsellino, e Giovanni & Paolo sempre con noi, e i cortei, e le foto – una in particolare che sembrava fatta apposta per il necrologio combinato dei due – ma per noi era chiaro che la cosa non finiva lì. E quell’anno, come vi abbiamo spiegato, fu pieno di altri eventi importanti, che servirono eccome per gli scopi che ci eravamo prefissi, per il cambio generazionale, strategico, che Matteo stava portando avanti. Quindi parlare di quelle stragi senza coinvolgere il resto è come farci un torto.

Perché il mosaico è unico e, anche se avete in mano le tessere più grosse, è dai particolari che si apprezza la visione di insieme, no? E Matteo la visione di insieme l’aveva chiara. Noi con l’adrenalina in corpo a volte ragionavamo davvero come bestie, sembravamo cani da caccia incontenibili dopo aver azzannato le prime fagianelle, e avremmo voluto continuare, per quel senso di onnipotenza che ci dava l’intera operazione. Eravamo diventati, improvvisamente, un’arma mortale, distruttiva, potentissima, da gestire con cura, perché qualcuno si sarebbe potuto fare male.

E non bastava neanche l’esperienza, per gestirci, perché eravamo qualcosa di nuovo, un improvviso fuoco di sant’Antonio nella storia di Cosa nostra, ed è per questo che anche il signor Riina ne è stato travolto, perché è stato vittima dello stesso mostro che aveva creato, convinto di poter dominare il mondo a furia di colpi e colpetti, e invece poi il colpo lo ha preso lui, tradito dai suoi, preso, buttato in carcere, finito, stop. Matteo no.

Aveva pensieri nuovi e splendidi, Matteo, vedeva tutto con chiarezza, sembrava sempre sapere. Ed è per questo che cavalcò questo tsunami con posa plastica da surfista, portandoci tutti dentro il nuovo corso che lui stava creando per noi.

Serviva al cambio di passo, ad esempio, l’omicidio di Ignazio Salvo, uomo d’onore del nostro territorio, e come tale potente e segreto. Grazie a noi la sua fortuna era stata grassa e sfacciata, tanto che lo chiamavamo «Il barone del 10 per cento». Dalla montagna di gesso della sua Salemi aveva costruito con suo cugino Nino un impero. Era caduto in disgrazia, era inaffidabile, e ci siamo andati a casa, il 17 settembre di quell’anno 1992, con un commando di uomini d’onore di tutto rispetto.

Per noi Ignazio Salvo era il tramite per Lima. Ucciso Salvo Lima a marzo, Ignazio Salvo era da mesi un morto che camminava, e lo sapeva, e aveva pure delle guardie del corpo armate fino ai denti, ma erano persone di buon senso e avevano capito che se non volevano appizzarci oltre lo stipendio anche la vita, era meglio lasciarci fare. L’Italia era nella tempesta perfetta, perché tante cose stavano accadendo insieme, e se il destino è un regista, ha proprio talento.

Perché c’era la nostra guerra, c’era Tangentopoli, e c’era la più grave crisi economica mai vista, con la lira svalutata. In effetti era proprio come se la Luna stesse crollando sul nostro Paese. E in quel caos ne approfittammo ancora, perché il caos non è disordine, il caos è una scala. E il gradino successivo era proprio Ignazio Salvo, che fu ucciso a Bagheria, e siccome valeva sempre quanto avevamo deciso mesi prima, non ci fu bisogno di chiedere alcun permesso al capo mandamento della zona.

Per queste operazioni ognuno dava carta bianca nel proprio territorio: ciascuna delle famiglie, all’occorrenza, avrebbe messo a disposizione uomini e mezzi. Era non solo una regola, di più, era l’essenza di Cosa nostra. È come quando viene deliberato lo «stato di emergenza», e saltano tutte le regole e i protocolli, per essere più veloci e operativi.

Arrivammo dal mare, ancora una volta, come i pirati a Palermo «cu li facci d’inferno» e nel buio della notte. Lui era fuori casa, lo sapevamo. Sarebbe rientrato di lì a poco. Lo aspettammo nel giardino della sua villa. Gli svuotammo addosso i caricatori delle nostre pistole automatiche non appena scese dalla sua Mercedes bianca, con le mani ancora in tasca, tra il cancello di ferro battuto e gli scalini della veranda.

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA", DI GIACOMO DI GIROLAMO

Matteo Messina Denaro e l’agguato contro il commissario Rino Germanà. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 07 marzo 2023

E fu quando il signor Riina disse che sì, era venuto il momento di levarci qualche spina che Matteo finalmente accennò un sorriso, e pensò a un uomo in particolare, un ispettore di polizia o commissario o quello che è, catanese, il dottore Rino Germanà, che gli stava molto sui coglioni, anche troppo, per diversi motivi...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Matteo in questa nostra guerra era un generale presente e attento. Ci metteva la faccia, certo, prendeva decisioni, stava soprattutto accorto a che il fronte rimanesse compatto, e niente lo gasava di più che stanare chiunque tra noi non mostrasse la massima adesione al progetto di guerra allo stato.

Stava anche attento, però, a non sporcarsi le mani. Lo faceva per noi, per il nostro bene: più il suo nome rimaneva nell’ombra, più nel nostro territorio potevamo continuare ad agire nella più assoluta indifferenza.

Era incredibile; eravamo in trincea, ma era una trincea tranquilla – in doppiopetto, potremmo dire –, giravamo alla luce del sole, senza che nessuno dicesse né ai né bai, e se qualcosa ci tradiva non era mica per la spirtizza di chi avrebbe dovuto fermarci, ma per la nostra euforia, che a volte ci portava a commettere errori.

Errori Matteo non ne faceva, teneva tutto sotto controllo, sembrava sempre con il pensiero altrove. Però anche lui aveva le sue debolezze. E non parliamo né di auto né di orologi, né di donne o stecche di sigarette intere da fumarsi tra un appostamento e l’altro.

La debolezza di Matteo era consumare qualche piccola vende personale. Anche lui aveva una sua lista nera, solo che non la tirava fuori, non voleva creare confusione nella mischia che c’era. E fu quando il signor Riina disse che sì, era venuto il momento di levarci qualche spina – non solo per senso di vendetta, ma anche per tenerci in allenamento nell’attesa che gli eventi si chiarissero, e per far fare un po’ di festa ai cani che tenevamo al posto del cuore –, che Matteo finalmente accennò un sorriso, e pensò a un uomo in particolare, un ispettore di polizia o commissario o quello che è, catanese, il dottore Rino Germanà, che gli stava molto sui coglioni, anche troppo, per diversi motivi.

Perché era un’anima inquieta, faceva troppe domande, e aveva capito qualcosa della guerra di mafia, e dei Messina Denaro. Ora, in questo caso, la prima cosa che si faceva con un poliziotto che era bravo era di delegittimarlo, con esposti anonimi, lettere, qualche calunnia. La seconda cosa era trasferirlo. E così era stato anche per Germanà.

Però il suo trasferimento per noi fu una punizione, perché nel suo girovagare tra Questura di Trapani e Commissariato di Mazara, tra Castelvetrano e procura di Marsala, in realtà Germanà andava mettendo pezzi su pezzi, ci stava mappando. Aveva scoperto, ad esempio, che eravamo pure dentro le istituzioni, con i nostri suggeritori, e faceva gli schemini con i perdenti e i vincenti della guerra di mafia, e pareva giocasse a quel gioco, nome, cose, città, e a ogni città cominciava ad associare un nome, e una cosa, e poi a tutte le cose il nome dei Messina Denaro.

Lo avevano spostato a Catania, alla fine, ed eravamo tutti convinti che fosse finita lì, anche perché era stato nominato dirigente della sezione della Criminalpol di Caltagirone, incarico prestigioso se non fosse per il fatto che quella sezione non esisteva e non sarebbe mai stata costituita. E nonostante doveva timbrare il cartellino dall’altra parte della Sicilia, lui quando poteva era sempre tra i piedi a Mazara e Castelvetrano, e continuava a girare, a fare domande.

Aveva messo il naso nelle banche, cominciato a indagare su certi notai e logge massoniche. E quindi Matteo decise che la sua spina da levare era Germanà, e che avremmo dovuto ucciderlo. Era tutto pianificato, il 14 settembre del 1992.

L’Italia era nel suo solito caos, con i politici che venivano arrestati, altri che si suicidavano, e ad aggiungere ancora più confusione era arrivata quella specie di guerra civile in Jugoslavia, dove un aereo italiano che doveva portare coperte e aiuti era pure caduto. Quel giorno, al lungomare di Mazara del Vallo, Germanà era a bordo della sua Panda bianca come l’innocenza.

Lo affiancammo con una Fiat Tipo, il motore che accelerava, la marcia in seconda, poi la terza, poi più forte, poi di nuovo la seconda per rallentare, un colpo di clacson, un altro, per farlo girare. Sembrava fatta. Primo colpo di fucile. Mancato. Secondo colpo. Vetro dell’auto in frantumi. Lui, ferito alla testa dalle schegge, accosta e riesce a fuggire. Una scena che pare un cinema. Altri colpi: il commissario è in spiaggia che corre, e ha anche il coraggio di girarsi e rispondere al fuoco. Si getta in mare. Non resta che scappare. Ma questa volta a scappare siamo noi.

E pensare che era stato tutto preparato nel dettaglio, nel villino del fratello di Giovanni Bastone, a Mazara, e Matteo aveva scelto gli uomini migliori tra noi, pure Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano aveva voluto nella squadra: aveva pensato a chi doveva fare da staffetta, a chi avrebbe dovuto «pulire» il luogo dell’attentato. Ma niente, non fu cosa, il diavolo ci aveva messo lo zampino.

E anzi Matteo, dopo, aveva la stessa faccia di uno che il diavolo l’aveva visto in persona, perché ne andava del suo onore e della sua reputazione, e gli veniva in mente quella frase: ci vogliono venti anni per farsi una reputazione, e cinque minuti per distruggerla. È andata male, ripeteva, è rimasto vivo, mentre le radio già davano la notizia, e la storia dell’attentato a Germanà apriva i telegiornali della sera, e qualcuno di noi che commentava, amaro: «Vuol dire che il suo destino era di restare in vita». [...].

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Il covo del capo dei capi svuotato e il “passaggio di consegne” all’erede. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani l’08 marzo 2023

Nel villino dove abitava la famiglia di Riina, quando arrivammo, c’era un gran traffico. Qualcuno era addirittura con il furgone. Avevano scardinato pure una cassaforte da una parete con la fiamma ossidrica. Stavano ripulendo tutto. Biglietti, pizzini, documenti. Tutto. Magari imbiancavano le pareti. Matteo fu chiamato in disparte. Molte carte se le prese lui. Ormai il passaggio di consegne si era consumato.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Sembrava incredibile, ma il 1992 stava per terminare. A noi era sembrato un anno eterno, per tutto quello che avevamo combinato, per l’estate infinita in cui sembrava avessimo intrappolato l’Italia. Poi era arrivato l’autunno, era calata una strana sensazione di tregua. Tante cose si muovevano, lo sapevamo.

Ci interessava poco. La mamma ci aveva insegnato a curarci solo dello stretto necessario, per non fare mala vita, prenderci pensieri che non erano nostri e poi perché per ogni cosa il Signore manda qualche provvidenza. Non si era fatta la tradizionale riunione prima di Natale, e un po’ ci era mancata. Niente passito con i tagliancozzi, niente mangiate, niente dolci con i fichi, niente porcospini.

Ognuno rimaneva a casa sua, chi da latitante, chi da uomo libero ma ancora per poco, tutti confortati e annoiati dai nostri affetti. Guardavamo i presepi, ci sembravano un carcere. Ogni tanto ci concedevamo la tv; le donne quell’anno impazzivano per il film della guardia del corpo, quello con la cantante famosa. E a noi facevano sorridere tutte queste americanate di grandi amori e sparatine, noi che le guardie del corpo sapevamo davvero come farle fuori, senza ultimi baci, canzoni strappalacrime e battute memorabili.

Anzi, se avessimo dovuto mettere in fila tutte le ultime parole che avevamo sentito, a parte i «vi prego, pietà», i «nooo» con abbondanza di vocali e di spavento, i pianti, i singhiozzi, la bava e il piscio, a parte tutto questo, sarebbe venuta una serie di banalità terribili.

A ogni modo, nessuno si azzardava a convocare riunioni: saremmo stati un obiettivo troppo facile, per quella metà di Stato che aveva deciso di farci la guerra (l’altra metà, l’avete capito, ci cercava per ben altro…). «Dopo le feste, dopo le feste», ripeteva Matteo a chi di noi gli chiedeva se c’era in ballo altro, quali erano le prossime tappe della nostra guerra, i fortini da espugnare, le persone da fare: l’elenco era lungo, avevamo appena cominciato.

Ma niente, Matteo ci diceva: pensate a passare delle buone feste a casa, riposatevi, ne avete di bisogno, poi vedremo. E dopo le feste in effetti la riunione fu convocata: non era la Commissione, non era la Supercosa, non aveva più nome né identità ed erano saltate anche le forme, e questa già era una cosa rivoluzionaria. Tant’è che non sapevamo che nome dare a quell’incontro e l’avevamo chiamato «incontro in grande stile».

Si decise per vederci a gennaio, il 15 a Palermo, nella zona di San Lorenzo. Sapete com’è finita, no? Quel giorno Totò Riina venne arrestato. Con Matteo eravamo a Palermo proprio quella mattina. Avevamo appuntamento nello spiazzale di un centro commerciale, in periferia, per cambiare auto e giro.

Piccole prudenze: non sapevamo mai il luogo esatto delle riunioni. Solitamente posteggiavamo in un punto e ci venivano a prendere. Aspettammo qualche minuto. Alla radio si parlava della crisi del partito socialista di Craxi, dei nuovi arresti di Tangentopoli, della crisi economica. I picciotti di San Lorenzo arrivarono con molto ritardo, ma non vennero a prenderci. Già ancora prima di scendere dall’auto ci urlarono: «Hanno arrestato lo zio Totuccio! Andate! Andate! ’U pigliaru!».

Alle otto del mattino di quel venerdì, i carabinieri dei reparti speciali avevano preso Totò Riina fra i palazzi della rotonda di Via Leonardo da Vinci, vicino il Motel Agip. Già giravano voci di come lo avevano catturato: messo a terra, la faccia nella polvere, una pistola automatica puntata alla tempia. Lui che aveva prima mostrato una patente falsa, e poi era stato costretto ad ammettere: sì, sono io. Eravamo nel panico, Matteo invece no. Ci disse: restia[1]mo. Ma dove? Qui, aspettiamo.

Ma aspettiamo cosa? Viremo se è vero, innanzitutto. Ed era vero. Perché poi arrivò la notizia alla radio, con il signor Riina che era stato seguito dai carabinieri su dritta di Balduccio Di Maggio (che si era pentito), e non aveva opposto resistenza ma si era limitato a dire: state sbagliando persona. E i giovani che scendevano in strada a festeggiare. E magari anche da dove ci eravamo nascosti sentivamo gli strombazzamenti lancinanti dalla Questura, le code festose tipo che l’Italia aveva vinto i Mondiali.

E per un momento ci guardammo tutti, per un altro pensiero che ci era venuto in testa. Ed era un ricordo di qualche mese prima, subito dopo l’attentato al giudice Paolo Borsellino.

La gente non sembrava più n noi. C’erano le manifestazioni, le catene umane. E ci eravamo detti: passerà, come sempre. Calati junco. Solo che poi, a un certo punto, erano spuntati pure i lenzuoli bianchi dai balconi, e anche se non ne capivamo il significato, ci sembrava un affronto, ci faceva un po’ paura. Non ricordavamo che il colore bianco potesse essere così minaccioso. Ma la cosa allucinante è che pure nel quar[1]tiere di Brancaccio, regno dei fratelli Graviano, c’erano persone che mettevano lenzuola ai balconi per dire no alla mafia, e questo non era sopportabile.

Su suggerimento di Matteo, che nel frattempo li ospitava al mare da noi, i Graviano acchiapparono a Gaspare Spatuzza, uno che non si scantava di nulla, e gli dissero: segnati nome e cognome e attività e patronimico e magari quanti peli nel culo hanno di tutte le famiglie che osano esporre i lenzuoli a Brancaccio, così si insegnano. Vacci a tuppuliare.

Spatuzza, che venerava Matteo, aveva accettato di buon grado l’incarico, ma era tornato sconfortato qualche giorno dopo: non posso appuntarmi tutti i nomi, sono troppi. Questo pensavamo, mentre intorno tutto il mondo girava, e per la prima volta da un po’ di tempo sembrava non girare a verso nostro. Matteo ci richiamò alla realtà: ora possiamo andare. Ma dove? A Castelvetrano? No, a casa di Riina.

Ma ci vuoi morti? Ma non è che Matteo ci aveva venduti come qualche cornuto aveva fatto con lo zio Totuccio? Era un pensiero che ci faceva sudare freddo. Nel villino dove abitava la famiglia di Riina, quando arrivammo, pensavamo di trovare la polizia, e che gli avremmo fatto questo bel regalo di Natale in ritardo con la nostra cattura, pure. E invece trovammo i nostri. C’era un gran traffico.

Qualcuno era addirittura con il furgone. Avevano scardinato pure una cassaforte da una parete con la fiamma ossidrica. Stavano ripulendo tutto. Biglietti, pizzini, documenti. Tutto. Magari imbiancavano le pareti. Matteo fu chiamato in disparte. Molte carte se le prese lui. Ormai il passaggio di consegne si era consumato.

La mafia siciliana divisa fra nuove bombe e antichi accordi. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 09 marzo 2023

Provenzano credeva di poter inaugurare un nuovo regno, non capiva che anche per lui era cominciato il conto alla rovescia. L’accordo in realtà si stava facendo. Ma a nostra insaputa. Noi non eravamo al tavolo. Eravamo parte dell’accordo.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Matteo era dunque deciso a continuare, perché voleva portare avanti la sua opera di trasformazione, e aveva bisogno che il corpo malato di Cosa nostra, che si offriva alla vendetta dello Stato, emettesse alcuni colpi di tosse. Noi pure volevamo continuare, perché avevamo un imperativo, che non era solo il vecchio adagio del futti futti che dio perdona a tutti, ma uno più spicciolo.

E si sa, le grandi tragedie non accadono con spirito nobile o ampie vedute, quella è virtù di pochi; le grandi tragedie accadono da pensieri banali, piccole intenzioni. E la nostra intenzione era quella di rispondere a quel finimondo che lo stato stava mettendo contro di noi, il carcere duro, innanzitutto, dal quale ci arrivavano racconti terribili: i nostri parenti privati di luce, aria, compagnia, roba che non si fa neanche ai cristiani più tinti; insomma, con tutti i violentatori di picciriddi e i corrotti che sono liberi, voi ve la pigliate con quattro animelle che non hanno fatto mai nulla di male nella loro vita, se non un poco di sventura? I racconti che arrivavano da posti come Pianosa o l’Asinara sembravano davvero descrivere l’anticamera dell’inferno. […].

E noi stavamo per morire, inutile girarci intorno, bisognava respingere quel massacro che stavamo subendo. Dobbiamo portare avanti la guerra, ci incitava Matteo, forza, qualcuno ci verrà a cercare, qualcuno ci verrà a dire: perché non la smettete? E tutti fantasticavamo il momento in cui qualcuno si sarebbe seduto alla tavolata con noi, e ci avrebbe detto: picciotti miei, allora mettiamoci d’accordo, non è che possiamo continuare all’infinito con queste ammazzatine.

E noi avremmo fatto le nostre richieste. Bagarella, ad esempio, aveva il chiodo fisso del 41 bis, il carcere duro, era quello più impressionato. E aveva tante altre idee, che magari se uno gli dava spago capace che ci metteva come richiesta che sua moglie doveva rimanere incinta una volta per tutte. Altri ancora ce l’avevano con i collaboratori di giustizia.

Dobbiamo fare cambiare la legge sui pentiti, dicevano. Ancora una volta, eravamo chiamati a seminare il terrore per stabilire la pace, a destabilizzare per mettere ordine, a depistare per dare una via. Che poi, a pensarci bene, era tutta una follia, non c’era logica – sì, adesso possiamo dirlo, con la serenità dei superstiti –, non c’era alcuna logica. Ma volete fermarvi un attimo a riflettere su questo paradosso?

Noi chiedevamo allo Stato di abolire delle misure repressive che erano nate proprio a causa di quelle stragi che noi avevamo voluto ed effettuato. Il primo provvedimento che trasferisce 55 mafiosi detenuti dal carcere dell’Ucciardone a Pianosa il ministro della Giustizia Martelli lo ha firmato a Palermo, la sera del 19 luglio.

E senza la strage di Via D’Amelio molti provvedimenti in Parlamento non sarebbero passati, perché le resistenze garantiste erano tante. E allora tanto valeva non fare le stragi direttamente… Le cose devono continuare – ci esortava Provenzano – un po’ di pazienza che tutto si risolve in bene.

Provenzano adesso era il primo a essere convinto che bisognava continuare, ma a modo suo. Ci convinse a spostare gli obiettivi fuori dalla Sicilia. E certo, voleva campo libero da noi. Matteo apprezzava e incoraggiava. Provenzano credeva di poter inaugurare un nuovo regno, non capiva che anche per lui era cominciato il conto alla rovescia.

Sognavamo questo incontro: ci saremmo messi il vestito buono, ci avrebbero invitato in qualche stanza dall’argenteria in vetrina, i passi morbidi sulla moquette, noi con le scarpe buone, non quelle marroni, le altre, come Matteo ci aveva insegnato.

L’accordo in realtà si stava facendo. Ma a nostra insaputa. Noi non eravamo al tavolo. Eravamo parte dell’accordo. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

La strategia del terrore, fare attentati in tutta l’Italia. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 10 marzo 2023

Poi ci fu un tale, Paolo Bellini, uno che aveva l’aria di nascondere tanti segreti nel nero della storia d’Italia, che ci contattò per mediare: se lo avessimo aiutato a trovare delle opere d’arte rubate, lui si sarebbe impegnato per favorire le scarcerazioni di alcuni boss...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Si trattava di ampliare il raggio d’azione. Matteo ci convocò e ci disse che aveva bisogno di un nostro parere. La cosa ci turbò, sì, ma ci riempì anche d’orgoglio, perché per la prima volta nella vita ci fu consentito di parlargli da una posizione di parità gerarchica, i nostri occhi alla stessa altezza dei suoi. E anche questo sembrava l’inizio di una fase nuova, e, se lo slogan non fosse stato abusato, avremmo potuto affermare che nasceva «l’uno vale uno di Cosa nostra».

La domanda di Matteo era: Dobbiamo fare degli attentati al nord, cosa ne pensate? Capimmo subito che la domanda era retorica: conteneva già la risposta, e la risposta era sì, perché lui aveva già deciso per noi. Ma non per questo ci precludemmo di capirne di più, e quindi, approfittando dello spazio che ci era stato concesso, porgemmo una domanda: perché? Eh, perché, ci disse Matteo, perché magari ci vengono a trovare e chiedono un compromesso. Altra domanda: chi? Ma Matteo aveva già esaurito le risposte e la pazienza.

Ci fu pertanto una riunione a Mazara del Vallo con Santo Mazzei, che era una figura che avevamo creato noi per fare uno sgarbo ai catanesi. Questo Mazzei aveva l’incarico di andare a Torino da un mazarese, Giovanni Bastone, che lì era sorvegliato speciale e che gli avrebbe fatto trovare dei candelotti di dinamite e dell’esplosivo. Con questo esplosivo Mazzei fece su e giù per l’Italia, il culo stretto per lo scanto di saltare in aria. Fabbricammo una piccola bomba che ci venne anche bene, era graziosa, pareva uscita da un laboratorio d’arte: sembrava una specie di razzo color oro, il nostro Little Boy.

Qualcuno suggerì di scrivere in piccolo qualcosa del tipo «Abbasso la mafia», o «La mafia fa schifo», per sfottere un po’ e anticipare i tempi di qualche anno, quando cioè sarebbe accaduto davvero che i primi a dire «abbasso la mafia» saremmo stati davvero proprio noi.

Su Santo Mazzei vale la pena spendere qualche parola in più, perché lui fu per noi una specie di cavallo di Troia. Avevamo un problema con i catanesi – se non si fosse ancora capito – che non erano proprio entusiasti dell’idea di fare la guerra. E benché davanti ci avevano detto di sì, e avevano fatto le loro cosette – a Pippo Baudo, a questo o a quel politico – erano comunque rimasti sempre mezzo passo indietro, quasi a voler avere una via di fuga. Ecco allora l’idea: inserire nelle figure di riferimento catanesi Santo Mazzei, che apparteneva agli storici clan che si opponevano ai Santapaola. Insomma, gli avevamo messo la guerra in casa.

[…] Santo Mazzei, invece, accettava qualunque cosa gli dicessimo. A cominciare dalla bomba che abbiamo fatto mettere al giardino del museo, a Firenze, quella che poi non è esplosa. Ma ancora prima aveva fatto per noi degli omicidi a Rimini come a Torino. Insomma, era un uomo di fiducia. […].

E anche in questa terza parte della nostra storia, quella che ha portato agli attentati del 1993, c’è un punto zero che avete dimenticato, e porta la data del 5 novembre 1992. È lo stesso giorno che a Racalmuto, il paese dello scrittore Leonardo Sciascia, c’è una sparatoria che lascia a terra tre vittime. Ma noi ci muoviamo silenziosi, altrove, a Firenze. Coso, Mazzei, ha il compito di lasciare il nostro bellissimo ordigno d’oro al Giardino di Boboli, vicino Palazzo Pitti (scopriremo dopo che accanto c’era la statua del magistrato Marcus Cautius, l’inventore della cauzione...). Non deve esplodere. Deve solo fare scantare.

Paga pure il biglietto di ingresso al museo, per entrare nel giardino e piazzare la bomba: se la teneva bella dentro il giubbotto. Così ci fu la telefonata da un Autogrill a un giornale per dire che c’era una bomba. E la bomba fu trovata. Il giorno dopo aspettammo il comunicato alla radio per sentire la notizia: nulla. Al telegiornale dell’ora di pranzo, allora: nulla. E nei giornali non c’era nulla, e vabbè, magari sarebbe uscita il giorno dopo, perché non c’erano arrivati la sera prima. Nulla.

Nessuno ci aveva cacato, manco di striscio. Forse perché l’ordine era di non spaventare ancora di più la gente in quell’anno che era stato complicato per tanti motivi. Per noi però il test era andato bene. Avevamo trovato una strada. Dovevamo solo decidere cosa tirare giù. E questa volta davvero. La Torre di Pisa, diceva qualcuno. Il Colosseo, a Roma, aggiungeva un altro, ma quello è già bucato, boh.

Si inserì anche un momento malinconico, in quel ragionare di luoghi d’arte da radere al suolo, di bombe da mettere nei siti archeologici, ed era non il senso di colpa per l’attacco al patrimonio culturale, ma per una sorta di inutilità. In un Paese che da sempre mostra le sue macerie al mondo, noi avremmo contribuito ad aumentare il catalogo dei ruderi da offrire ai visitatori, avremmo aggiornato l’inventario.

Ma era un pensiero di pochi attimi, poi prevaleva la strategia. E ci rivolgevamo a Matteo perché era quello che sapeva, che teneva le fila. Poi ci fu un tale, Paolo Bellini, uno che aveva l’aria di nascondere tanti segreti nel nero della storia d’Italia, che ci contattò per mediare: se lo avessimo aiutato a trovare delle opere d’arte rubate, lui si sarebbe impegnato per favorire le scarcerazioni di alcuni boss.

Ci arrivarono, ’ste foto di oggetti d’arte rubati. Ma Matteo quando le vide ci disse: picciotti, ma vi pare che qui siamo il gruppo Tnt o Diabolik? Non è un fumetto. Noi abbiamo poche cose E ci diede un’altra foto, una specie di statua di un cane senza testa. Poi foto di anfore a gogo, piccole, grandi, pezzi di cose antiche. Questo avevamo. Ma non interessava.

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Una bomba che non esplode, tutto finisce con un grande mistero. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO Il Domani l’11 marzo 2023

Nel gennaio dell’anno 1994 altro intoppo, davanti allo Stadio Olimpico, dopo una partita di campionato, in Via dei Gladiatori, dove abitualmente parcheggiavano i pullman che portavano i carabinieri impegnati nel servizio d’ordine. Potevamo cominciare l’anno con il botto, davvero, cambiare per sempre le sorti della guerra, colpire l’Italia nel suo ventre più caldo, quello del tifo. Non funzionò il congegno.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Eravamo noi. Superbi, formidabili e feroci. Stavamo creando un nuovo mondo, noi che eravamo considerati da un certo tipo di mondo come dei rifiuti, e invece volevamo imporre leggi nuove, invertire onore e disonore, dimostrare la nostra potenza, avere mandamenti sconfinati: dove finisce la tua zona? Lì dove finisce la città? No, più avanti, più avanti ancora.

Dove ti sembra che finisca, il nostro mandamento ricomincia migliaia di volte, ogni cantiere è nostro, ogni strada sterrata, ogni trazzera, ogni grattacielo l’abbiamo costruito noi, ogni porto è quello dove partono le nostre navi di droga e sigarette, anche l’orizzonte è nostro, che ti pare? Saremmo tornati ai tempi antichi, di quel Pitrè, il letterato, che aveva capito che la mafia è «sentimento di bellezza», come diceva, e noi ci sentivamo davvero belli e fieri, nelle nebbie in cui ci saremmo avvolti, nello stato che avrebbe perso ancora una volta la sua messa a fuoco, nel riconoscerci, nell’indicarci, nel lottarci.

Fu con questo spirito che portammo la guerra fuori dalla Sicilia, raggiunta la mediazione che metteva d’accordo tutti: bisognava continuare, ma non da noi, intaccando qualcosa di immateriale e prezioso, l’immagine dell’Italia. Ecco allora le bislacche ipotesi, noi seduti a un tavolo, con le guide del Touring in mano, come se avessimo dovuto organizzare un addio al celibato, ma per gente allitrata, colta, e senza puttan tour.

A Pisa c’è la torre, a Roma il Colosseo, a Torino la Mole, a Firenze gli Uffizi, a Milano musei e gallerie e la nebbia. Matteo poi ci disse che eravamo pronti, era tutto deciso. Con fare scenico, come ogni tanto amava fare, ricordandosi di essere siciliano, e quindi un po’ tragediatore anche lui, prese un manuale di storia dell’arte di un nipote liceale, lo aprì alla pagina dedicata agli Uffizi.

Noi vedevamo corridoi lunghissimi, stucchi dorati, quadri importanti, giovinetti in marmo. E il suo indice, come a dire: qui. Matteo ci raccontò anche che si era fieramente opposto all’idea che balenava a qualcuno di fare gli attentati in Sicilia, per comodità di logistica ed economia di pezzi. E la cosa camminava, tanto che era venuta anche la proposta di fare saltare in aria un tempio al parco archeologico di Selinunte. Oh, ma siete impazziti? aveva urlato Matteo, che non perdeva quasi mai la calma.

A casa mia? Volete mettere le bombe a casa mia? I palermitani lo avevano toccato in un punto sbagliato. E siccome ormai eravamo sul punto del crollo nervoso, perché tutti sospettavamo di tutti, Matteo capì che in quell’assurda richiesta c’era una trappola: vi siete fatti i bagni a furia di scavare indisturbati come tombaroli e vendendo tutti i reperti archeologici che trovavate in modo indisturbato, e adesso dovete dimostrare che a qualcosa sapete rinunciare anche voi.

La risposta è no? O ci aiutate a mettere le bombe, allora, o le bombe le mettiamo direttamente nel culo a casa vostra, tra i templi e gli altari sacri.

Il resto, lo sapete. Via dei Georgofili, Firenze, 27 maggio 1993. Cinque persone morte. Ma colpimmo anche la Torre dei Pulci, la Galleria degli Uffizi, Palazzo Vecchio, musei, ponti, opere d’arte, e tutti gli edifici intorno, come se avesse agito una mitragliatrice. Via Palestro, Milano, 27 luglio 1993, il Padiglione di Arte Contemporanea. Cinque vittime.

Nella stessa notte colpimmo la Basilica di San Giovanni in Laterano, Roma, con tanti danni ai monumenti. Tre latrati che hanno squarciato l’Italia. E il capo del governo che per un attimo ha avuto paura e pensato al colpo di Stato. Il 14 maggio avremmo dovuto finalmente fare Maurizio Costanzo, in Via Fauro, nell’elegante quartiere Parioli, a Roma. Una Fiat Uno imbottita con 80 chili di tritolo. Ma non ci riuscimmo. Ma ve lo immaginate che se tutto fosse andato bene oggi avreste venerato Costanzo come un «giornalista vittima della mafia», con la vedova che anziché fare Amici in tv avrebbe fatto magari Amici degli amici nelle aule di tribunale, nei convegni antimafia, nelle scuole? Per sua fortuna, quella sera la sua auto ebbe un guasto, e allora aveva noleggiato un’altra macchina. E noi non lo capimmo, all’inizio, che era lui.

Così azionammo il telecomando troppo tardi. Uno, due secondi decisivi. Nel gennaio dell’anno 1994 altro intoppo, davanti allo Stadio Olimpico, dopo una partita di campionato, in Via dei Gladiatori, dove abitualmente parcheggiavano i pullman che portavano i carabinieri impegnati nel servizio d’ordine. Si giocava Roma-Udinese. Potevamo cominciare l’anno con il botto, davvero, cambiare per sempre le sorti della guerra, colpire l’Italia nel suo ventre più caldo, quello del tifo. Non funzionò il congegno. Eppure eravamo diventati così bravi. Era tutto pronto. Spatuzza e Scarano avevano fatto i sopralluoghi mesi prima.

Pentrite T4, tritolo, nitroglicerina, insieme a dei tondini di ferro, per amplificare ancora di più l’effetto dell’esplosione. Avevamo studiato i particolari, quasi sapevamo quanti carabinieri sarebbero morti, e anche come avremmo rivendicato quel 23 gennaio, un’altra domenica delle salme.

Ma niente, il meccanismo si inceppò. Pochi giorni dopo, i fratelli Graviano vennero presi, a Milano, mentre mangiavano al ristorante. Si chiamava «Il cacciatore», che ironia. Erano clienti fissi, i camerieri se li ricordavano sia per le laute mance, sia per un particolare: ogni volta, prima di sedersi a tavola e ordinare il pranzo, recitavano in piedi le preghiere. E noi con le bombe la chiudemmo lì. Matteo ci disse: non sono più necessarie. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

Il piccolo Di Matteo e gli altri omicidi che chiudono l’era corleonese. DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 12 marzo 2023

L’11 gennaio del 1996. Il corpo sciolto nell’acido. Lui che era un canuzzo, per quanto era leggero, e che ci disse, con l’ultimo fiato di voce che gli rimaneva: Ma mi state portando a casa? Fu come se prima del nostro definitivo inabissamento si fosse reso necessario un gesto supremo d’orrore puro, le fauci spalancate del mostro, poi il suo rapido indietreggiare, nascondersi.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del libro “Matteo va alla guerra”, scritto da Giacomo di Girolamo e pubblicato per Zolfo Editore. Un racconto unico, che ricostruisce dal punto di vista dei mafiosi, l'ascesa dell'ultimo dei Corleonesi negli intrighi siciliani.

Più andavamo avanti, più Matteo ci appariva per quello che è: un vero, nuovo, capo. Lo capimmo quando ci convocò, in un’altra occasione. E c’erano tutti, Ferro, Gioè, gli altri. E, come sempre, siccome il tempo era poco, e i cani di mànnara che ci seguivano avrebbero potuto già fiutare i nostri passi, non si fece l’analisi di quello che era successo, non eravamo un circolo di dopolavoro né una sezione di partito, e Matteo come sempre non ci diceva tutto, ma solo il necessario.

E, in quell’occasione, il necessario era che bisognava eliminare alcuni agenti di polizia penitenziaria, che non se ne poteva più del modo in cui trattavano i nostri, perché sì, è vero, erano lontani i tempi dello champagne e delle buttane dentro il grand hotel Ucciardone, quando organizzavamo mangiate da fare restare a bocca aperta le guardie carcerarie, e ci tiravamo addosso le aragoste, ma una mezza misura ci voleva.

Arrivavano racconti agghiaccianti: chi si pisciava addosso per la paura, e non era nemmeno concessa la facoltà di cambiarsi, altri lasciati senza cesso, o con la luce sempre accesa, o senz’acqua, o prelevati di notte, e picchiati, e poi riportati in cella, come se nulla fosse. Lo stato era diventato improvvisamente cattivo con noi, e questo non andava bene.

Ci mancava, il carcere del passato, perché per noi non era solo la bella vita che serviva a irrobustire il mito sfacciato della nostra impunità: il carcere per noi era anche una specie di centrale per la diramazione degli ordini. A volte si trovavano insieme capi mandamento o capi famiglia, e da dietro le sbarre – si fa per dire – trovavano la quiete necessaria per gestire le proprie cose, dare compiti, ordinare omicidi.

A parte che poi, col tempo, ci siamo presi gioco anche della massima sorveglianza. I fratelli Graviano, ad esempio, sono stati dei maghi. Per dire, sono riusciti a mettere incinta le rispettive mogli nonostante la regola dei colloqui separati dal vetro. E poi, tutti a raccontare degli agi dell’Ucciardone, ma vedete che anche al carcere di Trapani il trattamento per noi era da cinque stelle. Se uno voleva parlare con Mariano Agate, ad esempio, quando era rinchiuso lì, veniva ricevuto da lui in una stanzetta appartata, in vestaglia elegante e pantofole che neanche un viceré o Don Raffaè, quello della canzone. E gli veniva offerto anche il caffè, e si discuteva con calma dei problemi che neanche al circolo nobili.

Quando si decise di posare Cola Buccellato, e fare capo della provincia Francesco Messina Denaro, la riunione dove fu fatta? In una cava? In un centro congressi? In campagna? No. Al carcere di Trapani. Cola Buccellato era lì, e Mariano Agate gli venne a fare visita per dirgli che l’avevano buttato fuori, dalla famiglia e da tutto. Mancava poco che lo buttavano pure fuori dal carcere… Ci vorrebbe un altro colpetto, disse qualcuno di noi, con gusto della citazione per il signor Riina e le sue ultime parole famose, adesso che era ospite dello stato e si era fatto muto, e rimaneva intoccabile anche in cella.

No, disse Matteo, stanno accadendo tante cose, e non sto qui a spiegarvele. Dobbiamo solo ammazzare qualche secondino. Io mi occupo di quelli della provincia di Trapani, i palermitani dei loro, e poi ci sono quattro agenti di Sciacca che ho chiesto a quelli di Agrigento di occuparsene. Ci diede incarico di individuare gli obiettivi, le guardie che davano legnate, e capire come agire. Poi di non fare nulla. Aspettare un suo cenno. […]. Tutto, potevamo fare tutto. E molto in effetti abbiamo fatto.

E ci sembrò pertanto di assecondare questa corrente quando decidemmo di eliminare gli agenti della polizia penitenziaria che avevano cominciato a comportarsi male con noi, a non portarci più rispetto, a picchiarci; anche per loro era venuto il momento della lezione, di fare capire chi comandava in Italia. E l’Italia era anche il metro quadrato delle celle dove avvenivano sevizie che ci facevano venire i brividi a raccontarle, umiliazioni che non erano cose di cristiani.

Che poi era facile prendersela con i poveretti tra noi che erano finiti nelle carceri, farli pisciare addosso, tenerli senza luce in cella, o addirittura al buio per giorni, negare un’ora d’aria o una coperta, accanirsi con piccoli velenosi dispetti. Era un modo di giocare sporco che non ci aspettavamo, e che aveva portato indignazione anche in quelli tra noi che erano più propensi al dialogo.

Ma quei secondini solo un linguaggio capivano, la violenza, ed era il linguaggio che noi, in quel momento, sapevamo usare meglio: una violenza forte, una violenza affamata, che infatti ci mangiò. Così era deciso: gli agenti sarebbero stati le nostre nuove vittime. A ottobre del 1992 uccidemmo a Porto Empedocle Pasquale Di Lorenzo, nel 1994 a Catania l’agente Luigi Bodenza. Tra loro c’era anche Giuseppe Montalto, che lavorava all’Ucciardone, a Palermo.

La sua eliminazione fu decisa durante una riunione a Salemi. Aveva intercettato un pizzino in carcere di Mariano Agate per uno dei fratelli Graviano, roba del genere. Fu ucciso per volere di Matteo con due colpi di fucile da caccia semiautomatico il 23 dicembre del 1995, mentre era in auto con moglie e figlia.

E fu Matteo a organizzare tutto con la saggezza ormai del capo, e la meticolosità di chi non lascia nulla al caso, non solo nei preparativi, ma anche nella data: il 23, ci diceva, tutto deve essere fatto il 23, l’antivigilia, così i picciotti in carcere si sarebbero fatti il Natale più allegro. E così fu. Bisogna aspettare il 1998 per l’assassinio, a Palma di Montechiaro, di Antonino Condello. Non ci riuscì di uccidere Balduccio Di Maggio, che si era buttato pentito, ed era stato lui, di fatto, a dare le informazioni per arrestare Totò Riina. Viveva in una località segreta, come tutti i collaboratori di giustizia. […].

Così come non ci riuscì l’attentato a Salvatore Contorno, che stava da anni a Formello, nel Lazio, a farsi in quel borgo la vita sua con moglie e figlio, a tipo che era una puntata di Linea Verde. Non meritava la pace, Contorno, che aveva detto che eravamo diventati una banda di vigliacchi e di assassini, e che noi eravamo i veri pentiti di Cosa nostra, perché avevamo cambiato tutto. Girava tranquillo e senza scorta.

Potevamo ucciderlo con un colpo di lupara, ma anche lì fu deciso che la sua morte doveva essere una cosa eclatante, perché troppi danni ci aveva fatto. Contorno doveva essere dilaniato da una carica di settanta chili di esplosivo, un omicidio che doveva «fare rumore». E vicino casa sua, in un canale di scolo, avevamo messo dell’esplosivo. Non te lo vanno a scoprire i carabinieri? La bomba esplode e lascia un cratere di cinque metri. E un nuovo indirizzo per Contorno.

E sempre sul finire del 1993 avvenne un altro fatto, per noi importante e doloroso, che fu il sequestro di Giuseppe Di Matteo, che era un bambino, il figlio di Santino Mezzanasca. Lo conoscevamo bene, qualcuno lo aveva anche visto crescere. E infatti non fu un rapimento vero e proprio, non ci fu bisogno della forza.

Lo chiamammo, e lui venne, con la scusa che lo portavamo a fare un giro, magari a insegnargli a fare barchette di carta da fare galleggiare nei canali di scolo ancora pieni dell’acqua, che aveva piovuto in quei giorni. Ci conosceva, si fidava. Ci voleva bene. E ci continuò a volere bene pure durante i giorni della sua lunga prigionia, quando eravamo convinti che per liberarlo il padre, che si era buttato pentito, non avrebbe detto tutto quello che sapeva sulla strage di Capaci.

Invece il padre non si fermava: parlava, parlava, parlava. E Giuseppe ci voleva bene, anche quando era diventato tipo un canuzzo pelle e ossa, che lo facevamo spostare da cantina a cantina, in posti segreti, sempre più bui, nel nostro territorio, in cave e luoghi che avevamo messo a disposizione di Matteo – prima a Castellammare del Golfo, poi a Campobello di Mazara, poi in una frazione di Custonaci che si chiama Purgatorio e che sembrava l’anticamera dell’inferno. Sì, perché poi abbiamo dovuto ucciderlo, il bambino – le mani che affondavano in quel collo di burro –, l’11 gennaio del 1996, il corpo sciolto nell’acido.

Lui che era un canuzzo, per quanto era leggero, e che ci disse, con l’ultimo fiato di voce che gli rimaneva: Ma mi state portando a casa? Fu come se prima del nostro definitivo inabissamento si fosse reso necessario un gesto supremo d’orrore puro, le fauci spalancate del mostro, poi il suo rapido indietreggiare, nascondersi.

Perché noi eravamo questo: divoratori di mondi, e di bambini. E nel sacrificio del piccolo Giuseppe si realizzava la nostra dannazione, e capimmo che sognavamo di essere portati via dal mare perché la nostra condanna era proprio questa: eravamo dei non morti, destinati a non annegare mai. Galleggiavamo. Galleggiavamo tutti.

DAL LIBRO "MATTEO VA ALLA GUERRA" DI GIACOMO DI GIROLAMO

La Condanna.

In cerca di “Iddu”.

Le Segnalazioni.

Il Documento di Identità.

L’Arresto.

La Fuga di Notizie.

Gli Agenti.

I Magistrati.

Ispirati da…

Il Carcere di Massima Sicurezza.

Il Difensore.

Il Covo.

Il traslocatore.

Il concessionario.

Lo Statuto della Mafia.

Il Libro mastro.

I Pizzini.

Il Padrino.

Il Pentimento.

I Viaggi.

Il Tesoro delle Mafie.

Il Tesoro di Messina Denaro.

Il Tesoro di Riina.

La Gogna.

Il Carnevale.

L’Omertà.

La sfilata dei testimoni.

Le Fake News.

Pure la famiglia di Denise Pipitone.

Incensurato: colpevole o maldifeso?

Il Regalino. Dire grazie al Tumore.

Il Tumore.

Il Profeta.

La Trattativa: Che Strano…dopo 30 anni.

Un Arresto Politico.

I Commenti.

La piazza anti mafia.

Il Boss di Mafia Appalti.

La Moda.

Il Social.

Un uomo banale, pulito, ordinato.

Chi è Matteo Messina Denaro.

I Parenti.

Le Donne.

I Fiancheggiatori veri o mediatici.

L’Avvocato.

Il Dottore.

Il Geometra.

L’Oncologo.

L’autista agricoltore.

I Latitanti.

Il Dopo.

La Condanna.

(ANSA il 19 luglio 2023) - La corte d'assise d'appello di Caltanissetta ha confermato la condanna all'ergastolo del boss Matteo Messina Denaro, accusato di essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D'Amelio. 

Il collegio, presieduto dal giudice Maria Carmela Giannazzo, ha accolto la richiesta avanzata dai procuratori generali Antonino Patti, Fabiola Furnari e Gaetano Bono. Il padrino, difeso dall'avvocato d'ufficio Adriana Vella, ha rinunciato a collegarsi dal carcere in cui è detenuto per ascoltare il dispositivo.

Mafia, confermato l'ergastolo a Messina Denaro per le stragi del 1992. Il Tempo il 19 luglio 2023

La corte d’assise d’Appello di Caltanissetta ha confermato la condanna all’ergastolo per Matteo Messina Denaro, considerato uno dei mandanti delle stragi del 1992 in cui morirono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La corte presieduta da Maria Carmela Giannazzo dopo cinque ore di camera di consiglio ha emesso la sentenza nel giorno del 31esimo anniversario della strage.

Ergastolo dal 41 bis. Un processo e una condanna pesanti, ancora più pesanti per Matteo Messina Denaro, perché subiti da detenuto dopo una trentennale latitanza. Sulle stragi del ’92 le indagini non si sono mai fermate e questi 31 anni sono stati costellati, tra ombre e misteri, da diversi processi alla ricerca della verità. Alla sbarra anche il mafioso di Castelvetrano, già condannato per le stragi del ‘Continente’ del 1993, è ritenuto uno dei mandanti degli attentati in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli otto agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Emanuela Loi e Eddie Walter Cosina. Catturato in una clinica di Palermo il 16 gennaio di quest’anno, non si mai presentato in udienza.

L’ex superlatitante non era mai stato processato per le bombe del ’92. In primo grado è stato condannato all’ergastolo. Il Pg di Caltanissetta, Antonino Patti, aveva chiesto la conferma della sentenza. E a 31 anni dalla strage di via D’Amelio ecco la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta che ha inflitto il carcere a vita. Un processo iniziato quando il pupillo di Totò Riina era ancora latitante e dopo la cattura quella sedia del supercarcere di L’Aquila, dove è detenuto al 41 bis, è rimasta sempre vuota. Secondo la procura di Caltanissetta «la decisione di uccidere i due giudici non fu un fatto isolato, ma ben piazzato al centro di una strategia stragista a cui Matteo Messina Denaro ha partecipato con consapevolezza dando un consenso, una disponibilità totale della propria persona, dei propri uomini, del proprio territorio, delle famiglie trapanesi al piano di Riina che ne fu così rafforzato e che consentì alla follia criminale del capo di Cosa nostra di continuare nel proprio intento: anzi, più che di consenso si potrebbe parlare di totale dedizione alla causa corleonese». Altra stangata per il boss mafioso: un 2023 da incubo per lui dopo anni di impunità.

In cerca di “Iddu”.

Estratto dell’articolo di Sandro De Riccardis per repubblica.it l'1 luglio 2023.

Un ‘ndranghetista, Rosario Curcio, morto al Policlinico ore dopo essersi impiccato, mercoledì sera, nel carcere di Opera. Un esponente di spicco di Cosa Nostra, Giovanni Battaglia, condannato per la strage di Capaci, deceduto sempre mercoledì sera nel reparto di medicina penitenziaria del San Paolo per cause naturali […] 

Rosario Curcio, 46 anni, originario di Petilia Policastro, era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio e la distruzione del cadavere di Lea Garofalo, testimone di giustizia, sequestrata e poi uccisa il 24 novembre 2009, dall’ex compagno Carlo Cosco, condannato all’ergastolo con altri tre appartenenti al clan. […]

Lea Garofalo sarebbe stata strangolata da Carlo e Vito Cosco nell’appartamento di piazza Prealpi. Poi lui stesso e Rosario Curcio si sarebbero occupati di far sparire il corpo, bruciandolo in un’area di campagna a Monza. Curcio era stato visitato appena tre giorni fa e aveva avuto un colloquio con uno psicologo, da cui non erano emersi segnali di un disagio psichico tale da decidere di togliersi la vita.

Nelle stesse ore, nel reparto dedicato ai detenuti al 41 bis del San Paolo è morto invece Giovanni Battaglia, 75 anni, elemento di spicco di Cosa Nostra e condannato all’ergastolo. Per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, nei giorni scorsi Battaglia era stato scarcerato e posto formalmente agli arresti domiciliari. Colpito da una forma gravissima di diabete, aveva ripetutamente rifiutato le cure. Battaglia aveva partecipato alle riunioni preparatorie […] e alle operazioni necessarie a trasportare l’esplosivo sul luogo dell’esplosione sull’autostrada per Capaci.

Matteo va alla guerra. Quando Messina Denaro andò a Roma per uccidere Falcone e Costanzo. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta l'1 Settembre 2022

Giacomo Di Girolamo ricostruisce con una formidabile inchiesta letteraria il ruolo della mafia trapanese e del suo boss nelle stragi del 1992. A parlare sono proprio i mafiosi impegnati in quella guerra allo Stato, capeggiati dal boss ormai latitante da quasi trent’anni

E quindi partimmo per Roma. Matteo, che pensava a tutto, come sempre, ci diede un consiglio, prima di fare le valigie: «Abbigliamento adeguato». La cosa ci mise un po’ d’ansia. Come dice un vecchio adagio, puoi portare una persona fuori da un luogo, ma non un luogo fuori da una persona.

Che avrà in testa il capo – pensammo – noi che siamo bravi solo a sparare, a strangolare; non sono cose che si fanno con il vestito buono della domenica, né con le scarpe marroni: fai uno e basta, finisce lì, anche perché quasi mai è una cosa pulita, e poi i vestiti o sono sporchi di lanzo o di piscio – perché la gente, voi non lo sapete, ma quando la strozzi mica tira l’anima via in un colpo e amen!

Quello si muove, si contorce, grida, vucia, e poi se la fa sotto perché, ricordatelo, è intessuto di merda l’animo degli uomini: quella esce, dopo l’ultimo rantolo. Non l’anima, non il vapore, non la voce degli angeli, ma, semplicemente, merda – oppure se dai fuoco a un’auto, o a una casa, e aspetti che la vampa si accenda e salga – e, cari miei, dipende come tira il vento – i vestiti si impuzzano, che il giorno dopo li puoi andare a buttare. Però Roma è Roma, ci siamo detti, e capace che nelle città grandi gli omicidi si fanno in abito da sera. Ma in realtà il nostro Matteo aveva un piano – ha avuto sempre un piano – ed era quello di farci fare la bella vita a Roma. Ecco perché ci voleva eleganti.

Perché si andava nei bei locali la sera, e in bei negozi a fare shopping, nelle belle vie a passeggiare e a fare girare la testa alle ragazze; ma solo quello, perché avevamo una missione – elegante, sì, ma pur sempre una missione – tra gli sciacalli e le iene, gli uomini di potere, molti dei quali divenuti tali grazie a noi, che affondavano voraci i loro denti nella carne putrida di quella che chiamavano

cosa pubblica.

E c’era anche il nostro amico Francesco Geraci nella banda dei gitanti, il gioielliere, quello che una volta Matteo aveva aiutato per una vicenda di un’estorsione, e da allora gli era rimasto legato e aveva cominciato anche lui a partecipare agli omicidi, alla guerra, alle gite fuori porta.

Ed era stato utile alla causa. Un giorno il signor Riina in persona lo aveva chiamato, e gli aveva detto: so che sei bravo picciotto, e amico di Matteo, e che hai una gioielleria; io ho un po’ di cose da conservare, non è che hai una cassetta di sicurezza, qualcosa per me? E lui gli aveva addirittura fatto costruire, sotto la sua gioielleria, un piccolo caveau, con tanto di ascensore, dove i Riina avevano messo di tutto: i collier della signora Bagarella, gli orecchini di Lucia, gli orologi Cartier, e pure delle spille di Italia ‘90 tempestate di diamanti, e Geraci ci aveva confidato che, a occhio e croce, tutto questo bendidio valeva tipo due miliardi di lire.

E un pomeriggio Matteo lo va a trovare e gli racconta del progetto degli attentati ai personaggi famosi. Baudo, Costanzo, Martelli, Santoro, gli dice, in preciso ordine alfabetico, per non fare disparità. E se capita, anche Enzo. Biagi, aggiunge. «E per fare cosa?» gli chiede il gioielliere. E Matteo: «Dobbiamo creare scompiglio, caos, destabilizzare». Francesco sta in silenzio e poi gli dice: «Buono è».

Geraci in effetti ci serviva per tantissime cose, ci completava. Anche questa, se ci pensate, è stata un’idea geniale di Matteo: non portarti, per una missione delicata, un tuo simile, un clone, uno che obbedisce e basta. Portati uno che sa cose che tu non sai, che aggiunge esperienza, know-how, come si direbbe nei corsi moderni dove si parla tutto in inglese. E in effetti ancora prima di partire Geraci ci disse: «Picciotti, io ce l’ho un posto dove possiamo andare a comprare roba buona per il viaggio». E il posto era Alongi, in centro a Palermo. Alta moda, roba fina.

Solo lui spese circa 12 milioni di lire, roba da sticchio e quasette di seta. Oggi al posto di Alongi c’è un negozio che vende i mattoncini per le costruzioni, che costano quanto un abito da sera. Segno dei tempi, certo. (…)

E poi Riina e Matteo avevano pensato anche alle alleanze interregionali, perché si giocava fuori casa, e noi avevamo bisogno il più possibile di aiuto. È per questo che avevamo fatto arrivare in Sicilia due napoletani: Ciro Nuvoletta e uno che si chiamava Maurizio. Erano della famiglia della zona di Marano, e con noi erano in ottimi rapporti. Li abbiamo ospitati al Jolly Hotel, poi siamo andati a prenderli, e li abbiamo portati a Bellolampo, vicino Palermo, per una riunione operativa.

Anche loro sarebbero stati della partita, mantenendosi come disse Riina «a nostra disposizione per ogni occasione». Cioè? «Se avete bisogno per qualcuno… potete anche chiamare i napoletani per spararci. Perché, essendo di Napoli, sono più pratici delle zone…».

Matteo sorrideva dell’ingenuità di Riina che, come tutti gli anziani siciliani, era convinto che la Sicilia fosse fatta di mille continenti (vero) e che il resto del mondo fosse una specie di unica penisola dove tutto era condensato, e perciò un napoletano, per Riina, era come un romano di periferia. Ma nessuno, come in altre occasioni, fece delle obiezioni a quel cristiano per correggerlo, e per dire che magari napoletani e siciliani a Roma, insieme, sarebbero stati molto riconoscibili, per una missione che invece doveva essere coperta dalla più assoluta segretezza.

E il motivo per cui non lo avevamo contraddetto era per il fatto che, potevano essere napoletani, potevano essere emiliani, venire da Nuova York come da Carrapipi, ma quei nostri alleati erano innanzitutto uomini d’onore, e come tali avrebbero dato la vita per noi, così come noi avremmo dato la nostra per salvarli e aiutarli.

E partimmo dunque per Roma, il 24 febbraio del 1992. In quel giorno, pensate, nasce in Italia la Protezione Civile. E noi ci sentivamo un po’ la Protezione Civile di Cosa nostra, corpi scelti per accorrere dopo un cataclisma, ma con idee più originali del piantare baracche e tende e si salvi chi può. (…)

Partimmo ognuno con un mezzo diverso, piccoli accorgimenti per non dare nell’occhio. Che poi noi abbiamo sempre contato, oltre che sulla nostra organizzazione, anche sulla pigrizia di chi avrebbe dovuto controllarci.

Ma si guardava dappertutto, tranne che in provincia di Trapani. E così Sinacori partì con l’aereo, e il biglietto lo fece un po’ storpiato: Vincenzo Rinacori, con la erre. Tanto bastava. Matteo, invece, al quale sarebbe bastata come lasciapassare la sua stessa faccia, aveva una carta di identità falsa, a nome Matteo Messina, e sì, si era sprecato anche lui a fantasia, ma ve lo diciamo davvero: nessuno

si interessava a noi; era quasi per prendere per il culo tutti che cambiavamo iniziali e consonanti, quasi fosse La pagina della Sfinge della Settimana Enigmistica.

Matteo, tra l’altro, venne in auto con Geraci. Altri ancora in treno. Ogni volta che partiva per il continente, Matteo rifletteva sempre su questo fatto, e cioè che il traghetto che faceva la spola tra la sponda siciliana e quella calabrese si chiamava Caronte. E si chiedeva se quel nome, di quel traghettatore infernale, lo avessero messo apposta o no. E man mano che il traghetto si allontanava dalla Sicilia, lui percepiva come un sipario leggero che si alzava, un fiato di estraneità. L’isola da una parte, e poi il resto del mondo. Anche se all’inizio era soltanto Calabria. (…)

E dalle cave di Mazara era partito anche l’esplosivo che doveva servirci nel caso in cui avremmo voluto fare una cosa non pulita, ma di quelle potenti, con il botto. Matteo in quei giorni era inquieto. Prima parlava di Maurizio Costanzo e ci diceva che anche lui doveva saltare in aria perché in televisione parlava male dei mafiosi. C’era stata infatti questa cosa del commerciante ucciso a Palermo, l’estate prima, quello che faceva pigiami e non voleva pagare il pizzo, e Costanzo e l’altro, Michele Santoro, avevano fatto pure una puntata speciale, che manco se giocava il Palermo in Coppa Uefa. Poi invece cercava di capire i movimenti del dottore Falcone, che in quel periodo aveva preso servizio al ministero della Giustizia. Poi ancora era convinto che gli agguati da fare erano tanti. (…)

Il primo appartamento romano era in Viale Alessandrino, e apparteneva a un dentista, La Mantia, che era originario di Mazara e amico di Mariano Agate. Manco a farlo apposta (o fu fatto apposta? ah, saperlo…), Mariano Agate aveva trascorso un periodo di soggiorno obbligato a Roma, e lì aveva incontrato La Mantia per avere poi l’appartamento.

Solo che, minchia, arriviamo là, e ok, noi non è che volevamo l’appartamento extralusso con la Jacuzzi nella stanza da letto e il televisore a cinquanta pollici, ma, minchia, manco i cessi funzionavano! Manco acqua corrente c’era.

E quando arrivammo tutti a Roma, ci demmo appuntamento alla Fontana di Trevi per confonderci tra i turisti, perché per noi quello era il posto turistico per eccellenza di Roma. E la prima questione fu quella dell’appartamento. Chi era arrivato un paio di giorni prima aveva fatto un’esperienza terribile, non si poteva stare.

«Non vi preoccupate, c’è Gesù» disse Matteo. Qualcuno di noi pensò a un’improvvisa crisi mistica del nostro capo, che magari credeva in un Gesù tubista che miracolosamente allacciava acqua e corrente con una preghiera, ma in realtà apprendemmo subito che il Gesù di Matteo si chiamava Giacomino, ed era un altro siciliano a Roma, amico di Scarano, che ci venne presentato tra l’altro la

prima volta da Matteo proprio di fronte alla Fontana di Trevi. E questo Giacomino Gesù, contattato da Matteo e Scarano, metteva a disposizione un appartamento con tre camere da letto, un bel salotto con le tende, sempre in una zona buona, e provvisto anche di una bella cucina, cosa che a noi importava poco perché avremmo sempre mangiato fuori, ma era meglio averla, no? La casa era della mamma di Gesù, che non sappiamo se si chiamava Maria, e avremmo magari potuto chiederglielo, però la signora era in Abruzzo da dei parenti e proprio per questo la casa era libera.

Quel Gesù fu molto generoso con noi, e per sdebitarci gli regalammo un po’ di cocaina, così magari se la vendeva e ci tirava su due lire, o faceva un miracolo come il suo omonimo e la moltiplicava come con i pani e i pesci, e ci poteva campare una vita. Amen. E quindi una prima cosa era sistemata.

Arrivò dalla Sicilia Giovan Battista Consiglio con il figlio, che gli aveva fatto compagnia durante il viaggio dato che lui ormai aveva una certa età, e non immaginava tutta la santabarbara che stava nascosta nel camion. Lo abbiamo aspettato al raccordo anulare, poi da lì siamo andati presso un capannone abbandonato, abbiamo sceso armi ed esplosivo e abbiamo caricato tutto nella macchina di Scarano, che lui si sarebbe portato tutto a casa e nascondeva la roba nello scantinato, tra le damigiane con l’olio buono, gli attrezzi e le cianfrusaglie di sua madre.

Poi abbiamo noleggiato un’auto, una Y10 bianca, targata Roma, con la carta di credito di Geraci che era l’unico ad avere la fedina penale bianca come quell’auto. E diciamo anche che quella carta di credito l’abbiamo prosciugata, in quei giorni. Noi lo prendevamo in giro: Minchia, Gerà, se eri in viaggio di nozze o te ne andavi a buttane ’sto viaggio ti costava meno! Ma Geraci non diceva nulla,

anche perché già prima del viaggio aveva dovuto dare su ordine di Matteo 20 milioni di lire a Scarano per il disturbo.

Noi intanto spendevamo: in Via Condotti abbiamo comprato camicie e cravatte, perché ci piaceva fare i pedinamenti eleganti, se no ci avrebbero sgamati subito; Matteo si comprò anche un cappotto colore cammello come in quella canzone «che al Maxiprocesso eravate ’u chiù bello», uè. Da lì cominciammo a cercare: Falcone, Martelli, Costanzo. Un po’ in Via Arenula, dove c’è il ministero della Giustizia, un po’ nelle zone di Parioli. Siamo stati in giro per una decina di giorni. E, dobbiamo dire, senza grande successo.

Ogni mattina si partiva con l’auto, a turno, si andava in Via Arenula, e ogni sera si giravano le zone di Trastevere per capire dove andasse a mangiare il dottore Falcone, se era al Matriciano, o alla Carbonara, o da Sora Lella, o nel locale preferito di Matteo, il ristorante Dei Gracchi. Eravamo convinti che li avremmo incontrati. Per due o tre sere siamo stati a Parioli, abbiamo anche seguito i movimenti di Costanzo, ci mettevamo all’uscita del teatro dove registrava il suo programma, a un certo punto sembravamo quasi fan che aspettavano l’autografo. Nel teatro non siamo entrati. La verità? Ci annoiava. Cioè, a noi il Costanzo Show come programma neanche piaceva, pensate vederlo dal vivo! Una sera ci siamo andati a teatro, ma mica lì, al Bagaglino, che quello ci divertiva

anche in televisione, con Pippo Franco e l’attore che faceva sempre la femmina, e un sacco di pilu. Al Bagaglino, tra l’altro, siccome invitavano spesso i politici, magari avevamo una botta di culo e capitavamo in una puntata in cui invitavano Martelli o qualcun altro che interessava a noi.

Comunque, tornando a Costanzo, era quello più facile da fare. Non era scortato, faceva sempre gli stessi movimenti, ci potevamo sparare, ci potevamo mettere l’autobomba, o meglio, piazzare l’esplosivo in un cassonetto che era vicino il teatro, in un vicolo dal quale l’auto ogni sera doveva svoltare. Insomma, potevamo anche chiamare i napoletani.

Qui dobbiamo aprire una parentesi, per una cosa che avevamo notato, e che pensavamo sarebbe stata oggetto di discussione, e invece è finita e morta lì. Noi avevamo le armi, ok, per uccidere il dottore Falcone e tutti gli altri, e all’occorrenza l’esplosivo. Che erano due sacchi belli grossi, tipo cento chili. Solo che non avevamo detonatori, telecomandi, micce, non avevamo nulla, solo la polvere. Questa cosa ogni tanto tornava nei nostri discorsi, perché qualcuno capitava che lo dicesse: sì, dobbiamo fare l’attentato, ma come? E Matteo diceva di non preoccuparci. E come sempre nessuno osava più continuare. Chi ci avrebbe aiutato? Non lo sapevamo, non lo abbiamo mai

saputo… Perché questa è la domanda che vi inquieta più di tutte: ma davvero avete fatto tutto da soli? E la risposta è semplice: noi abbiamo fatto quello che andava fatto. E soli non siamo stati, mai.

La sera poi ci si vedeva in qualche ristorante affollato, e ognuno riferiva a Matteo quello che aveva visto: nessuno ci notava. Geraci faceva sempre teatrino, perché ogni volta, quando c’era da pagare il conto, doveva tirare fuori la sua carta di credito. Ma Matteo glielo diceva: poi ti restituisco tutto. E a noi picciotti invece ci avrebbero dato cinque milioni di lire a testa.

Eravamo eleganti, eravamo bellissimi. Stavamo bene nella capitale d’Italia, eravamo felici. E avremmo voluto anche mandare un telegramma alla mamma per dire di questa città, Roma, grande piena luci gioielli stop. Passeggiando per Roma, a un certo punto, ci venne anche una fantasia. Di conquistarla. Di farla nostra. Avevamo grande stupore nello scorgere il Colosseo, i Fori, le chiese monumentali, il cupolone di San Pietro, tutto arrivato ai giorni nostri, questa Italia di rovine di ogni età e di generi che sembrava offrirsi al nostro desiderio come una buttana, anzi, no… questa città di cadaveri, ecco. Mai avevamo provato una sensazione così pura e completa. E capitava che ci sorprendevamo fermi, immobili, a contemplare le rovine, immaginando come un giorno, noi, proprio noi, con Matteo, avremmo potuto fare rinascere vita intorno a questi resti superbi e paralitici. Ridando loro magnificenza. Altri anfiteatri, altre chiese, altri palazzi. Altra potenza. Vi sembrerà strano, ma era un pensiero che ci riempiva di gioia: eravamo di fronte all’infanzia del mondo.

E poi Matteo disse: se ci dobbiamo mettere la bomba, ci vuole il permesso di Riina. E mandò Sinacori a Palermo, per chiedere la specifica autorizzazione. Riina sorprese tutti: non dovete fare nulla, dice, perché ci sono in ballo cose più grosse. E Sinacori tornò subito a Roma che pareva che manco era partito o che l’aveva fatta a piedi correndo come un turco, tanto era trafelato e pallido, quando bussò alla porta del nostro appartamento per dire: picciotti, dobbiamo andare via, lo zio Totuccio mi ha detto che è tutto sospeso. «Dicci a Matteo di tornare indietro», sono state le sue parole. «Dicci ai picciotti di scinnere, me la sbrigo io qua».

Tutto sospeso, ci dice Matteo. Ok. Torniamo giù, in Sicilia, ognuno per i fatti suoi. Scendiamo lenti come i corvi. Ci rivedemmo a Palermo, di nuovo nella calda nudità di luce della Sicilia, per aggiornarci. Parlammo poco, ma fu un silenzio vorace. Ognuno sapeva un pezzetto di quello che sarebbe accaduto, lo stretto necessario. Solo Matteo sapeva tutto.

E infatti qualche settimana dopo acchiappò a Geraci e gli fece:

«È meglio che per un po’ a Palermo non ci vai».

«In che senso, Mattè?».

«Nel senso che non devi andare a Palermo».

Ma Geraci lavorava, aveva la gioielleria, andava e veniva da Palermo con i suoi fratelli tutti i giorni perché aveva fornitori in zona, e altre faccende. Stava per arrivare maggio, mese di sposalizi e di regali di matrimonio. E allora Matteo gli disse: «Vabbè, fai così, allora, a Palermo ci puoi

andare, se proprio devi. Ma non prendere l’autostrada. Esci ad Alcamo, e ti fai tutta la statale, la strada vecchia».

Dopo la strage di Capaci, Matteo poi disse a Geraci:

«Adesso puoi andare a Palermo». E gli fece come una specie di sorriso. 

da “Matteo va alla guerra”, di Giacomo Di Girolamo, Zolfo Editore, 288 pagine, 18 euro

Matteo Messina Denaro, il mafioso più misterioso della Sicilia. GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 16 giugno 2022

Messina Denaro non custodisce gli ultimi segreti sulle stragi, perché è lui il “segreto”. Ancora una volta, i fatti, il territorio, le carte parlano. Ed è incredibile, oggi, notare come Matteo Messina Denaro fosse un killer e un capomafia già a trenta anni nel pieno del suo potere, ma assolutamente sconosciuto alle forze dell’ordine...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 22 al 26 giugno a Lamezia Terme.

1992 - 2022: 30 anni dopo le terribili stragi di mafia, su quegli eventi sappiamo molto. Eppure ci sembra di non sapere nulla.  È per questo che, ogni tanto, fa capolino un pensiero: chiedete a Matteo Messina Denaro. È lui il temibile boss di Castelvetrano, latitante dal 1992, pupillo di Totò Riina, a custodire i segreti inconfessabili sugli eventi che portarono alle stragi di Capaci, Via D’Amelio, alle bombe del ‘93. 

Riina lo diceva, a fine ‘92, quasi presagendo la sua prossima cattura: «Se mi succede qualcosa, Matteo e Giuseppe sanno tutto». Giuseppe è Graviano, boss palermitano, altro rampollo della mafia corleonese. Riina poi viene catturato a Gennaio del ‘93. E Messina Denaro ha tempo di portarsi delle cose con sé, ci dicono alcuni pentiti, dall’ultima casa dove era ospite lo zio Totò. Documenti? Pizzini? Agende?  Via via, negli anni, questi segreti sono cresciuti, hanno assunto una forma fisica, sono diventati, addirittura, in qualche articolo, un “baule”.

Ma io non me lo immagino Messina Denaro girare dietro con un baule di segreti, non fosse altro che per scomodità.

Ma, ancora di più, adesso che più invecchio e più cresce in me un senso di disincanto, non riesco neanche ad immaginarlo custode di chissà quali segreti. Primo, perché Cosa nostra per noi ormai non ha più segreti. I collaboratori di giustizia, soprattutto di quegli anni, ci hanno raccontato tutto. Segreti, invece, hanno altri, che Cosa nostra hanno sfruttato, in quel periodo come nel resto della storia dell’organizzazione criminale, e che non parleranno mai, perché mai avremo un pentito di Stato, se così lo vogliamo chiamare, che ci racconta l’altra parte della trattativa perenne tra istituzioni e criminalità organizzata, che è la cifra del nostro paese. 

E poi sono convinto che Messina Denaro non abbia chissà quali segreti perché sono riemerso da poco da un lavoro di grande immersione, un lavoro di carotaggio, di più, una faticaccia da palombaro. Nella confusione di questi tempi, tra decine di “rivelazioni” che durano lo spazio di un tweet, accuse reciproche, sospetti e ricostruzioni “inedite”, ho deciso di fare quello che ogni giornalista scrittore dovrebbe fare. Tornare alla fonte, fare parlare le carte, i fatti, i territori. È tutto lì, mi sono detto. Basta risalire alla sorgente. La sorgente sono i fatti che hanno portato alle stragi del ‘92 - ‘93, la loro organizzazione ed attuazione, le tessere del mosaico messe insieme con cura. E questo viaggio in risalita ed in profondità, alla foce e nell’abisso di quegli anni, ha preso forma di un libro, e il libro si chiama Matteo va alla guerra.

Lavorando, ancora una volta, nelle viscere dei fatti, aumentano le domande - com’è giusto che sia - ma ci sono anche delle pietre angolari importanti. No, Matteo Messina Denaro non depositario degli ultimi segreti sulle stragi, perché Riina non gli ha detto tutto. Perché non diceva tutto a tutti, ma ad ognuno un pezzo della sua storia, ed era comunque la storia che vedeva Riina dalla sua prospettiva. Quando Messina Denaro va a Roma per pedinare Giovanni Falcone ed organizzare il suo omicidio nella capitale, non sa che, nelle campagne vicino Palermo, Brusca fa le prove con l’esplosivo che sarebbe servito per la strage di Capaci. 

Messina Denaro, poi, aveva un compito preciso, in quella guerra, che si può riassumere con questo ordine: sparare alle spalle di chi fugge. Il suo compito cioè era quello di non permettere defezioni, all’interno di Cosa nostra, rispetto alla strategia stragista. Ecco, Messina Denaro custodisce questo tipo di segreti. 

IL SEGRETO

E poi, c’è una terza cosa che va detta. Messina Denaro non custodisce gli ultimi segreti sulle stragi, perché è lui il “segreto”. Ancora una volta, i fatti, il territorio, le carte parlano. Ed è incredibile, oggi, notare come Matteo Messina Denaro fosse un killer e un capomafia già a trenta anni nel pieno del suo potere, ma assolutamente sconosciuto alle forze dell’ordine, ignoto alla magistratura, mai “nociuto”. Il suo alter ego palermitano, Giuseppe Graviano, ad esempio, in quegli stessi anni era già latitante. Messina Denaro non aveva fatto un giorno di galera. I primi “pentiti” che aiutarono Borsellino, procuratore a Marsala, nel ‘90 - ‘91, a ricostruire la mappa della mafia trapanese e del Belice, non fecero mai il suo nome. Mai un giorno di galera, mai una misura di prevenzione, un interrogatorio. Nulla. Sarà infatti latitante solo nel ‘93.

Ricercato in ambito internazionale solo dal ‘94. Il suo profilo criminale, la sua caratura, emergeranno solo negli anni, quando altri pentiti (Sinacori, Geraci, Patti) racconteranno davvero chi era, e cosa aveva combinato. Ma sarà già troppo tardi, per un fuggitivo che oggi sembra imperdibile. Come sia stato possibile tutto ciò, è la vera domanda da farsi, a proposito di quegli anni. Come sia stato possibile questa impunità alla luce del sole, questo agire quasi sfrontato, questo muoversi per l’Italia ad organizzare attentati e procurare esplosivo. Questo è il vero segreto. E la risposta potrebbe non piacere. GIACOMO DI GIROLAMO

Matteo Messina Denaro, un latitante protetto dallo Stato. Enrico Bellavia su L'Espresso il 10 novembre 2021. Chi ha permesso i 28 anni di libertà dell’ultimo stragista in circolazione. Nel libro di Marco Bova la storia dei passi falsi nelle inchieste sulla cattura. Un itinerario sui passi falsi. Le piste colpevolmente abbandonate, le mani leste che hanno sottratto prove, le coperture che hanno protetto la fuga, gli affari che governano l’intima necessità della sua libertà. Un percorso di guerra tra nemici riconoscibili e molti dalla doppia e tripla identità, annidati ovunque. Cecchini anche ai piani alti dei palazzi che contano, la politica, la magistratura, gli apparati investigativi e dei servizi, capaci di sparare a vista con precisione millimetrica per atterrare i cacciatori. Anche per questo, una preda come Matteo Messina Denaro, diventa un «latitante di Stato» come lo è nel titolo del saggio inchiesta che Marco Bova ha scritto per Ponte alle Grazie, con la prefazione di Paolo Mondani. La biografia, al limite del mitologico, della quasi trentennale latitanza dell’ultimo dei padrini stragisti dell’ala corleonese in circolazione, rimane, come è giusto, sullo sfondo in una ricerca che è densa di dettagli. Messi in fila, squadernano una sceneggiatura più sconcertante della pur prolifica produzione sul tema. Ne viene fuori un’analisi puntigliosa delle tracce cancellate che hanno allungato i giorni e gli anni della fortuna di un boss, nato nella culla dell’intreccio tra mafia e massoni. In quella provincia trapanese che coltiva il potere con la formidabile arte di dosare segreti e misteri, per conservare l’essenza di una Cosa nostra capace di adattarsi alle circostanze, pur di mantenere il proprio predominio. Grande distribuzione, turismo, energie rinnovabili, sanità, produzione vinicola, fondi pubblici, tanti e a pioggia, grandi eventi. Nulla sfugge ai mafioimprenditori protetti dal cartello che ha in Matteo e nel suo esteso clan familiare le leve che muovono tutto. Un dialogo telefonico con il sottosegretario Antonino D’Alì, discendente della genia che ebbe il padre del latitante, Francesco, come campiere, condannato a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa, è un capolavoro di inventiva cinematografica. Ma è stato raccontato a verbale in procura generale nel 2015 dal vicequestore Giuseppe Linares. Perché purtroppo non è una fiction. Siamo nel gennaio del 2002, all’indomani di una retata condotta dal poliziotto che per 14 anni, da capo della Mobile, ha dato la caccia a Messina Denaro. «In quella occasione D’Alì si congratulò pacatamente dell’operazione, e mi disse testualmente “Sarebbe il caso che lei se ne andasse”, e mi disse che ero troppo esposto. Il tono era algido». Un consiglio da amico o, se preferite, un’offerta che non si può rifiutare da parte del ras forzista che aveva fatto di tutto per far saltare la poltrona di Linares, riuscendoci con il compianto prefetto Fulvio Sodano. Tra «covi caldi» e «cerchi che si stringono», le cronache riattizzano periodicamente l’attenzione su un latitante che riesce a farla franca da 28 anni, avendo contro, sulla carta, praticamente tutti: polizia, carabinieri, finanza, perfino i forestali. E, naturalmente gli 007 che fissano pure sostanziose taglie che alimentano un indotto della ricerca già di suo consistente. Mettere d’accordo tutti i cacciatori è il primo problema, per evitare sovrapposizioni. È accaduto anche che nella foga di spiare le mosse dei sodali dell’imprendibile i finanzieri abbiano sorvegliato dei poliziotti e poliziotti e carabinieri si siano trovati in contemporanea sullo stesso teatro di osservazione. Per il resto, cimici che smettono di funzionare, che i familiari di Messina Denaro rintracciano con provvidenziali bonifiche, talpe che soffiano dettagli salvifici, punteggiano interi paragrafi di questa «corsa avvelenata». Nel suo lavoro, Bova ricostruisce con l’aiuto del protagonista, morto nel maggio scorso, il carteggio epistolare intrattenuto tra Alessio, alias Matteo Messina Denaro e Svetonio, lo pseudonimo affibbiato dal latitante all’ex sindaco della sua città, Castelvetrano, il professore Antonino Vaccarino, infiltrato dai servizi con l’obiettivo della cattura ma poi inspiegabilmente bruciato. Una delle vittime incruente, almeno tante quante quelle lasciate per strada con il piombo, del sistema Messina Denaro. Capace di stritolare e annichilire gli avversari anche con l’arma della legalità, vera o presunta. Pende ancora a Caltanissetta, per dire, l’inchiesta sulla misteriosa sparizione dell’archivio delle indagini condotte per anni dal pm, poi procuratore aggiunto, Teresa Principato. Nel 2015, il suo braccio destro, Carlo Pulici finì denunciato per molestie, e subì improvvisamente l’ostracismo della procura di Palermo, guidata da Franco Lo Voi, ritrovandosi nel gorgo del désordre giudiziario che servì a sbarrare la strada alla procura di Roma di Marcello Viola, allora procuratore a Trapani. Pulici, assolto da tutto dopo 5 processi, ha dovuto pensionarsi dalla Finanza che aveva tagliato fuori dalle inchieste un altro solerte investigatore, Carmelo D’Andrea. Viola, è uscito a testa alta dall’accusa di aver ricevuto sottobanco proprio da Pulici verbali del pentito Giuseppe Tuzzolino, legati alle ricerche di Messina Denaro che era legittimo che avesse. Ma a Roma non è mai arrivato. Teresa Principato, che al suo braccio destro aveva confidato lo sconforto per le domande a cui era stata sottoposta dai colleghi, ha avuto il suo quarto d’ora di tribolazioni, fino alla migrazione alla procura nazionale antimafia. Tuzzolino è stato bollato come falso pentito senza ulteriori approfondimenti sulla pista americana che pure aveva indicato. Così come è stata abbandonata la fonte Y che aveva iniziato a fidarsi di D’Andrea. E Matteo? Si sarà fatto una compiaciuta risata. Tanto più che il sassolino nell’ingranaggio della macchina delle ricerche gli ha permesso di conoscere una infinità di interessanti retroscena venuti a galla con l’inevitabile contorno di veleni. Era già accaduto nel 2012, durante lo scontro alla procura di Palermo, guidata allora da Francesco Messineo, poi arrivato da commissario regionale proprio a Castelvetrano, sulla opportunità di procedere a un blitz ad Agrigento. A giudizio di Teresa Principato, si era bruciata in quel modo l’ennesima pista per arrivare alla cattura. Come succede, ha precisato la magistrata, quando intorno ai personaggi chiave individuati si spande l’odore delle logge. Lui, il latitante, è dappertutto e in nessun luogo. In Nord Europa e in Africa, in Turchia o a Dubai. A Castelvetrano e a Bagheria. Ad operarsi agli occhi a Barcellona, in vacanza nella Costa del Sol, in viaggio in barca per la Tunisia o per Malta, in volo su un piccolo aereo verso l’Inghilterra. Puntuale, come sempre nelle storie delle latitanze più eccellenti, è pure circolata voce che sia morto. E in tanti lo sperano. Scommettendo, che in caso di arresto aprirebbe la bocca. E per gli eccellentissimi protettori, sarebbe un inferno.

Nel regno di Messina Denaro stanno tornando gli “esiliati di mafia”. Manager, killer, rampolli. Alla testa di aziende impegnate nelle energie rinnovabili, tornati semiliberi o in circolazione dopo la diaspora corleonese. La rentrée degli scappati nel feudo del superlatitante trapanese allarma la Dia. Marco Bova su L'Espresso il 20 ottobre 2021. Le dinasty della mafia siciliana sono tornate nei territori da cui erano fuggite dopo aver perso le guerre sanguinarie scatenate da Totò Riina. Genie che si credevano scomparse riemergono nella capitale come tra masserie e centri industriali di un’isola dagli indecifrabili equilibri criminali in cui tutti cercano Matteo Messina Denaro, senza però più tracce certe della sua presenza. Gli scappati, esponenti di quelle famiglie costrette a una diaspora forzata negli anni della dittatura corleonese, si riaffacciano nelle città e nelle province. Si riprendono ruolo e posizioni costringendo tutti a interrogarsi sui nuovi assetti. La storia degli Inzerillo, negli anni Ottanta leader nel traffico degli stupefacenti, a lungo nascosti negli Stati Uniti e recentemente ricomparsi a Palermo e nelle intercettazioni degli investigatori che li hanno arrestati, non è un capitolo isolato. Il nastro che si riavvolge rivela invece una tendenza generalizzata, confermata dagli analisti della Dia nella relazione semestrale presentata al Parlamento.  Per Cosa nostra una riorganizzazione silente nella quale gioca un ruolo non secondario il ritorno in libertà di killer protagonisti della sanguinosa stagione degli anni Ottanta. Il rischio, paventato dagli analisti, è di una saldatura tra nemici di un tempo, capaci di archiviare rancori, vendette e ostracismi in nome di solide prospettive di affari. Dopotutto c’è il fondato pericolo che con le vecchie famiglie, rientrino dalla finestra anche i grossi capitali del boom economico mafioso. La corrente di risacca rimasta non ha risparmiato il feudo trapanese dell’ultimo stragista Messina Denaro. Come un sismografo, le indagini registrano l’influenza dei blitz che puntano alla sua cattura sulle gerarchie interne alle famiglie. Come a Castellammare del Golfo, culla della Cosa nostra emigrata negli Stati Uniti, in cui i colonnelli dei corleonesi sono stati sostituiti da vecchi boss come Francesco Domingo, di recente tornato in carcere. «Ho fatto una guerra per cacciare via i Saracino e metterci a loro», diceva il capomafia, ignaro di essere intercettato, confermando il proprio ruolo egemone. Ma rifuggiva, pragmaticamente, dall’idea di innalzare ulteriormente il livello dello scontro: «Non c’è più nessuno disposto a fare una cosa di questa, i tempi sono diversi». I pm della Dda di Palermo evidenziano fibrillazioni anche a Marsala, dove può capitare di incontrare per le vie del centro anche due pentiti che hanno testimoniato sulla mafia trapanese. Un ulteriore segno di quella «diversità dei tempi» che è forse la spia di un ritorno all’antico. L’ultimo caso in esame riguarda gli Ingoglia, rientrati a Partanna a trent’anni di distanza dalla faida con gli Accardo, detti Cannata, su cui, negli anni da procuratore a Marsala, indagò Paolo Borsellino. Un conflitto le cui radici si perdono nel tempo ma che per sentenza riconducono alla spartizione dei traffici di droga. Al tempo, gli Accardo erano sostenuti dal vecchio don Ciccio Messina Denaro, ma soprattutto dagli squadroni della morte capitanati dal figlio Matteo. Una faida di mafia con famiglie decimate in una guerra raccontata da alcuni testimoni di giustizia, Rita Atria e Piera Aiello, tornata d’attualità di recente con il ritrovamento dell’audio originale di Matteo Messina Denaro di un’audizione al tribunale di Marsala in uno dei processi su quegli omicidi. Il rientro degli scappati a Partanna è avvenuto quasi alla luce del sole, con la partecipazione ad una tavola rotonda online sugli ecobonus, organizzata lo scorso aprile dal sindaco, di Benedetto Roberto Ingoglia. Proprio il figlio di Filippo, detto Fifiddu, indicato dai pentiti come il boss della città, strangolato in un casolare nelle campagne di Castelvetrano e seppellito nell’Agrigentino da Matteo Messina Denaro il 19 marzo 1988, senza che si trovasse mai traccia del corpo. L’ultimo erede che negli ultimi anni ha anche patrocinato la nascita di un impianto di mini eolico a Mazara del Vallo, era fuggito dalla Valle del Belice nei primi anni Novanta, ben conscio dei rischi che correva. Al procuratore Borsellino aveva detto: «Essendo io rimasto l’unico superstite maschio della famiglia Ingoglia mi è naturale pensare di essere un obbiettivo pericolo». In quegli anni aveva preso a spostarsi tra il nord Italia e Londra mentre intorno a lui si moltiplicavano i segnali di allarme. Gli investigatori notarono che «contemporaneamente a questo inizio di attività delittuosa in Partanna anche in Inghilterra stavano succedendo dei fatti che riguardavano soggetti comunque visti in contatto, o comunque per attività commerciali sia con Ingoglia Antonino, sia con Roberto». Quest’ultimo aveva scelto di allontanarsi ancora, prima in Svizzera, quindi in Brasile, poi chissà dove. Il suo sorprendente ritorno in Sicilia lo vede alla testa, da amministratore delegato, di Energy Italy, un’azienda veronese con numerose filiali che si occupa di energie alternative e opera da general contractor per l’accesso alle agevolazioni per le rinnovabili. Un’azienda attiva dal 2012, le cui origini riportano a un’altra società aperta in Croazia, e sin da allora presente a Partanna anche patrocinando concorsi scolastici a premi. Nella sua rentrée di aprile, Roberto Ingoglia ha ringraziato sindaco e assessori del Comune per averci «messo la faccia direttamente, affinché le persone possano essere tranquille e affidarci i loro lavori». Un riconoscimento della necessaria copertura politica sulle attività di un imprenditore pulito nonostante il cognome ingombrante. Che miete successi, a giudicare dagli investimenti in piccoli impianti di fotovoltaico dinamico e dai numerosi teloni, con su scritto il nome dell’azienda, che campeggiano per le vie cittadine. Uno di questi si trova nella piazza centrale di Partanna dove il nome Ingoglia rimanda al piombo degli anni Ottanta solo a chi ha memoria lunga. «Il nostro è un gruppo limpido, composto da soci trasparenti e validi. Il fatturato che viene dagli investimenti in Sicilia sono quattro soldi rispetto alle attività che abbiamo in tutta Italia. Il mio riavvicinamento è dovuto all'evidenza che in questi anni, anche grazie al lavoro delle forze dell'ordine, qualcosa è cambiato», spiega Ingoglia all’Espresso. Il passato e il presente, però, interroga gli investigatori, interessati a decifrare la posizione assunta da Matteo Messina Denaro rispetto a queste dinamiche. Il ramo di attività è infatti quello che tradizionalmente è stato più a cuore del network del superlatitante. L’intera Valle del Belice costituisce una distesa di terreni che fanno gola alle multinazionali delle energie alternative e le compravendite da tempo sono finite al centro di indagini. Le ultime tracce finanziarie degli Ingoglia si trovano in Lussemburgo e nei rapporti economici con un imprenditore originario di Castelvetrano anche lui sfiorato dalle inchieste. Poi, più nulla. Anche a Trapani, del resto, sono tornati in auge vecchi cognomi con la riemersione economica e commerciale degli eredi di Totò Minore, il boss, ricercato fino al 1993, quando si scoprì che era stato sciolto nell’acido su ordine di Riina già 11 anni prima. Un mistero gelosamente custodito tra le pieghe di una guerra emersa con gli omicidi ma combattuta essenzialmente con le lupare bianche, silenti e capaci di confondere gli investigatori con elementi contraddittori. Come lo è il sostegno economico assicurato a Pietro Armando Bonanno, sicario della mafia di Trapani, protagonista della guerra agli Ingoglia e accusato dell’omicidio, rimasto impunito, del giudice Alberto Giacomelli. Anche lui è tornato a farsi vedere in giro. Da semilibero, del resto, prendeva l’aperitivo con il pm di Modena Claudia Ferretti. Una frequentazione costata alla magistrata il trasferimento a Firenze. Lasciata l’Emilia, Bonanno è ricomparso a Trapani. Ma solo dalle 7 alle 22.30. La notte no. Ancora dorme in carcere.

Da lasicilia.it l'11 settembre 2021. Un uomo che secondo le forze speciali olandesi sarebbe il superlatitante Matteo Messina Denaro è stato arrestato mercoledì scorso a L’Aia. Le notizie, di cui dà conto anche l’autorevole Telegraaf, il più importante quotidiano dei Paesi Bassi, sono ancora frammentarie. L’uomo che secondo la magistratura olandese è il boss di Castelvetrano è stato fermato mentre stava cenando in un ristorante, l’Het Pleidooi, dell'Aia. Il blitz è durante pochi minuti: le forze speciali hanno fatto irruzione e hanno arrestato e portato via tre uomini. Ma l’avvocato della persona arrestata, che dice di chiamarsi Mark, ha sostenuto che si tratta di un turista di Liverpool, in Olanda per vedere il Gran Premio e ha dunque spiegato che si tratta di uno scambio di persona: «Se il mio cliente è un boss mafioso siciliano, io sono il Papa» ha detto. I tre uomini seduti al tavolo sono stati portati via con gli occhi bendati. «Improvvisamente – ha detto il proprietario del locale – sono arrivate sette auto e delle persone sono entrate armi in pugno». Secondo quanto si è appreso – e secondo quanto riporta il Telegraaf che cita fonti della polizia olandese – le forze dell'ordine sono entrate in azione su richiesta delle autorità italiane.

Arrestato in Olanda Messina Denaro. Ma è scambio di persona (con giallo). Valentina Raffa il 12 Settembre 2021 su Il Giornale. Ragusa. Il super latitante Matteo Messina Denaro, sul cui capo pendono diversi ergastoli, è stato arrestato a Deen Hag, nei Paesi Bassi? Il blitz delle forze speciali olandesi avvenuto mercoledì sera in un ristorante a L'Aja, l'Het Pleidooi, non lascerebbe dubbi, ma sull'identità dell'arrestato si insinuano adesso delle perplessità. Il personale e i clienti del locale sbalorditi hanno assistito all'irruzione degli agenti dell'unità speciale della polizia nel ristorante e hanno visto portare via tre uomini che, prima di essere scortati fuori, sono stati bendati. «Improvvisamente c'erano 7 auto davanti all'azienda. Ufficiali con pistole estratte», racconta il proprietario del locale secondo quanto riportato dal quotidiano online Het Parool di Amsterdam. A quel punto la notizia si diffonde velocemente e i giornalisti locali, dopo avere consultato le loro fonti, parlano dell'arresto del secolo. Ne danno notizia anche i più autorevoli quotidiani dei Paesi Bassi. Il clamore iniziale, però, via via inizia a lasciare spazio alla possibilità di un errore di persona, anche se il giallo sull'identità dell'arrestato, che potrebbe essere la primula rossa della Mafia siciliana, latitante da trent'anni, ha tutte le carte in regola per restare in piedi. «Se il mio cliente è un boss mafioso, io sono il Papa» tuona l'avvocato Leon Van Kleef a difesa del suo assistito. Il legale tenta di dimostrare l'errore di persona alla base dell'arresto delle forze speciali su mandato internazionale puntando sul fatto che il sig. Mark L., come sostiene di chiamarsi l'arrestato, sia un turista originario di Liverpool giunto in Olanda per assistere al Gran Premio di Formula 1 a Zandvoort. L'uomo sostiene di vivere attualmente in Spagna. Ad avallo di questa dichiarazione il legale dice che il suo cliente «è stato condannato in Inghilterra negli anni '90. Quindi ci sono le sue impronte digitali». Una prova che non è affatto schiacciante, in quanto di Matteo Messina Denaro non si possiedono le impronte digitali, per cui non è possibile effettuare il confronto. Non si può escludere, dunque, che l'arrestato, al momento della condanna scontata negli anni '90 in un carcere inglese, possa anche avere fornito la sua identità di copertura, una delle tante identità che si pensa abbia assunto nel tempo il super boss che, seppure sparito dalla circolazione da un trentennio, continua a interagire con i mafiosi attraverso pizzini e mezzi anche più attuali e questo grazie a una rete capillare di fedelissimi, spesso messa in serie difficoltà da brillanti operazioni delle nostre forze dell'ordine. Il giallo olandese risulta, pertanto, assai complesso e, stando al portale Het Parool, il presunto boss arrestato è stato condotto all'EBI di Vught, il carcere più sorvegliato dei Paesi Bassi, dove sono rinchiusi criminali di spessore. L'avvocato continua a sostenere l'innocenza del suo assistito arrestato mentre cenava col figlio e un'altra persona. Dice di avere scoperto che si trattava della sua vecchia conoscenza solo quando lo ha visto, perché gli inquirenti lo avevano chiamato al telefono dicendo che Matteo Messina Denaro aveva bisogno del suo avvocato, ma a lui quel nome non diceva niente.

L’operazione fiasco in Olanda. “Prendiamo Matteo Messina Denaro!”, blitz da film in un ristorante: ma era un turista inglese. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Settembre 2021. La soffiata direttamente dall’Italia: Matteo Messina Denaro, “u’siccu”, la “primula rossa” della Mafia siciliana, il più ricercato dei latitanti italiani, sarà in un ristorante con altre due persone, mercoledì 8 settembre. E quindi si imbastisce l’operazione, un blitz imponente, con armi spianate, agenti dei reparti speciali. L’irruzione però si rivela un clamoroso fiasco: a essere arrestato Mark L., turista inglese, che si trovava a l’Aja, nei Paesi Bassi, per il Gran Premio di Formula 1 (che si era tenuto il 5 settembre a Zandvoort). A imbastire l’operazione la polizia olandese e la Procura italiana di Trento. Matteo Messina Denaro, 57 anni, originario di Castelvetrano, provincia di Trapani, è sparito nel nulla nel 1993, quando esplosero le bombe della Mafia a Milano, Firenze e Roma. Le sue tracce si sono perse dopo una vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano. È ricercato anche all’estero per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto. Secondo alcune voci si troverebbe ancora in Sicilia, stando ad altre si sarebbe sottoposto a interventi di chirurgia ai polpastrelli e facciale per modificare sua fisionomia. Decine al mese, costanti, le segnalazioni di avvistamenti che arrivano alle forze dell’ordine. Zero, mai trovato, sembra imprendibile. Doveva essere sembrato un po’ meno imprendibile, il boss, quando alla Procura di Trento, seguendo altre indagini era saltata fuori la segnalazione di un informatore: Messina Denaro sarà al ristorante Het Pleeeidoi mercoledì 8 settembre. La Procura avverte la magistratura dell’Aja, vengono preparate le forze speciali per l’operazione, mentre non è stata informata la Procura di Palermo né la Direzione Investigativa Antimafia. Sarebbero state avvertite a cose fatte, secondo quanto riporta La Repubblica. “Abbiamo operato in maniera corretta – ha commentato al quotidiano il Procuratore Nazionale Cafiero De Raho – Se l’indagine di Trento avesse avuto profili di sovrapposizione con l’inchiesta della procura di Palermo allora sarebbe stato dovuto il coinvolgimento anche di quell’ufficio. Ma l’indagine di Trento, che non riguardava il latitante, era fondata su fatti autonomi. In nessun modo si è intaccato il lavoro dei colleghi di Palermo, perché si è operato in un contesto del tutto avulso e separato”. La frittata comunque è fatta, la storia è dominio di giornali e dei social. E si spreca l’ironia. L’operazione è stata fulminea: una decina di mezzi tra suv neri e auto, agenti dei reparti speciali vestiti di nero, con passamontagna e armi in mano, hanno fatto irruzione nel locale, spinto a terra tre persone ammanettate e bendate e trasportate vi al Nieuw Vosseveld di Vught, considerato il carcere più sicuro e inviolabile dei Paesi Bassi. L’uomo tra i tre che doveva essere Messina Denaro era invece Mark L., arrivato da Liverpool. Il suo avvocato Leo van Kleef è stato chiamato per conto del suo cliente Matteo Messina Denaro. “Ho ricevuto dal carcere una telefonata. Mi hanno detto che un erto Matteo Messina Denaro mi voleva come suo avvocato. Io non lo avevo mai sentito nominare, ho dovuto cercarlo su Google”, ha detto al giornale Het Parool. Il suo assistito era stato arrestato in Inghilterra negli anni ’90 e quindi l’avvocato ha invitato le forze dell’ordine a controllare le impronte digitali nei database britannici. “Gli accertamenti hanno dimostrato che l’arrestato non è l’italiano ricercato – il comunicato della polizia – Questa sera il pubblico ministero ha emesso un provvedimento di rilascio immediato”. Per questo genere di operazioni esiste un protocollo collaudato per le verifiche. Messina Denaro è stato avvistato recentemente allo stadio durante una partita, a passeggio a Milano e in un pub a Dublino, durante una battuta di caccia a Castelvetrano e a Camden Town a Londra. Altre segnalazioni lo vogliono in Bulgaria oppure in Guatemala, secondo altre avrebbe acquistato una flotta di pescherecci in Sicilia. Un collaboratore di Giustizia ritiene si muova tra la Sicilia e la Versilia. Resta introvabile.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

 Salvo Palazzolo per "la Repubblica" il 14 settembre 2021. È nato a Trento il blitz delle forze speciali olandesi che mercoledì scorso è scattato in un ristorante dell'Aja. Il procuratore Sandro Raimondi e la sua squadra di finanzieri della sezione di polizia giudiziaria erano sicuri di aver trovato la pista giusta per catturare l'ultimo grande latitante di Cosa nostra, il siciliano Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993. Agli olandesi era arrivata un'indicazione secca dall'Italia: la primula rossa di Cosa nostra sarà nel ristorante Het Pleidooi, insieme ad altre due persone. Blitz imponente, armi spianate, tre fermati caricati velocemente su un furgone mentre venivano bendati. Peccato che Messina Denaro non era lì: la prova del Dna sul sospettato - il signor Mark L. di Liverpool, in Olanda col figlio per assistere al Gran Premio - ha dato la certezza. E mentre l'avvocato del malcapitato (rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Vught) rilasciava dichiarazioni di fuoco alla stampa, montava un forte imbarazzo. Innanzitutto, delle autorità investigative olandesi, messe sotto accuse sul web per il blitz show finito in farsa: «Noi non c'entriamo niente con questa storia», continuano a ripetere. Imbarazzo e malumori sono arrivati anche in Italia, perché prima del blitz la procura di Trento non ha condiviso alcuna informazione con la procura di Palermo e con i reparti speciali di polizia e carabinieri che da anni portano avanti la delicata indagine sulla Primula rossa di Cosa nostra. Le segnalazioni di Messina Denaro in giro per il mondo sono ormai decine ogni mese, e c'è un protocollo sperimentato per le verifiche. Qualche giorno fa, ad esempio, la polizia di Manchester, ha dato conto di una segnalazione di Messina Denaro a Londra, in un appartamento di Camden Town. La macchina investigativa coordinata dalla procura di Palermo ci ha messo poco per risolvere il caso: la segnalazione arrivava da un mitomane conosciuto da Scotland Yard, che negli ultimi mesi ha già denunciato nel quartiere la presenza di terroristi di Al Qaeda e di un latitante della Camorra. Per la segnalazione in Olanda, invece, la complessa macchina delle investigazioni su Messina Denaro non ha saputo nulla prima del blitz di mercoledì. È stata avvertita a cose fatte, quando il latitante sembrava ormai nel sacco: è stato chiesto di fornire il Dna con cui fare il confronto con il signor Mark. Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, getta acqua sul fuoco dei malumori e difende il procuratore Raimondi: «Abbiamo operato in maniera corretta. Se l'indagine di Trento avesse avuto profili di sovrapposizione con l'inchiesta della procura di Palermo allora sarebbe stato dovuto il coinvolgimento anche di quell'ufficio. Ma l'indagine di Trento, che non riguardava il latitante, era fondata su fatti autonomi. In nessun modo - ribadisce De Raho - si è intaccato il lavoro dei colleghi di Palermo, perché si è operato in un contesto del tutto avulso e separato». Insomma, per il procuratore nazionale non ci sarebbe stata alcuna invasione di campo. «E d'altro canto nessuno ha mosso contestazioni ufficiali», precisa. Dunque caso chiuso. Anche se la storia del londinese scambiato per Messina Denaro continua a impazzare sui social. Fra ironia, polemiche e le domande ancora senza risposta: com' è possibile che il pupillo di Totò Riina, il mafioso che conosce i segreti delle stragi e della trattativa fra Stato e mafia, sia diventato un fantasma? Chi lo protegge ancora?

Mafia: perquisizioni in Sicilia, si cerca Messina Denaro. (ANSA l’1 ottobre 2021) - La Polizia sta eseguendo decine di perquisizioni in Sicilia con l'obiettivo di individuare dove si nasconde il boss numero uno di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993. Nei controlli, disposti dalla Dda di Palermo, sono impegnati circa 150 agenti delle squadre mobili di Palermo, Trapani e Agrigento, supportati dagli uomini del Servizio centrale operativo e dei reparti prevenzione crimine di Sicilia e Calabria. Le perquisizioni sono scattate in particolare nei confronti di una serie di soggetti sospettati di essere fiancheggiatori di Messina Denaro e di personaggi considerati vicini o contigui alle famiglie mafiose trapanesi e agrigentine. I poliziotti stanno operando a Castelvetrano, Campobello di Mazara, Santa Ninfa, Partanna, Mazara del Vallo, Santa Margherita Belice e Roccamena (Palermo) L'immagine del volto del numero uno di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro ripreso da una telecamera di sicurezza: le ha trasmesso il Tg2 in un servizio in onda nell'edizione delle 20.30. Le immagini, afferma il servizio, sono state registrate da una telecamera in strada in provincia di Agrigento, risalgono al 2009 e sono le uniche che inquirenti e investigatori hanno dal 1993. Nelle immagini, che durano pochi secondi e risalgono al dicembre del 2009, si vede un suv blu che percorre una strada sterrata in piena campagna. A bordo ci sono due persone: l'autista e, sul sedile del passeggero, un uomo stempiato e con gli occhiali. Secondo investigatori e inquirenti, afferma il servizio, quell'uomo potrebbe essere proprio Matteo Messina Denaro. Le immagini, sostiene sempre il Tg2, sono state riprese da una telecamera di sicurezza a poche centinaia di metri dalla casa di Pietro Campo, boss della Valle dei Templi e fedelissimo del numero uno di cosa nostra che in quel periodo era protetto dalle famiglie agrigentine e, forse, stava andando proprio ad un incontro con i capi mafia locali.

Mafia, caccia a Messina Denaro: venti perquisizioni in Sicilia. Salvo Palazzolo su La Repubblica l’1 ottobre 2021. Nei controlli, disposti dalla Dda di Palermo, sono impegnati circa 150 agenti delle squadre mobili. Le perquisizioni sono scattate in particolare nei confronti di una serie di soggetti sospettati di essere fiancheggiatori. La polizia sta eseguendo venti perquisizioni in Sicilia con l'obiettivo di individuare dove si nasconde il boss numero uno di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993.  Nei controlli, disposti dalla Dda di Palermo, sono impegnati circa 150 agenti delle squadre mobili di Palermo, Trapani e Agrigento, supportati dagli uomini del Servizio centrale operativo e dei reparti prevenzione crimine di Sicilia e Calabria. Le perquisizioni sono scattate in particolare nei confronti di una serie di soggetti sospettati di essere fiancheggiatori di Messina Denaro e di personaggi considerati vicini o contigui alle famiglie mafiose trapanesi e agrigentine. I poliziotti stanno operando a Castelvetrano, Campobello di Mazara, Santa Ninfa, Partanna, Mazara del Vallo, Santa Margherita Belice e Roccamena (Palermo). Sono perquisizioni che si ripetono periodicamente sul territorio per cercare di cogliere qualche segnale nella rete che continua a proteggere il superlatitante condannato per le stragi Falcone, Borsellino, per le bombe di Firenze, Roma e Milano, è latitante ormai dal giugno 1993. Al centro delle nuove verifiche, mafiosi e favoreggiatori già finiti nella rete delle indagini, ma anche insospettabili su cui adesso si concentra l'attenzione della polizia. La primula rossa di Castelvetrano non è ufficialmente il capo di Cosa nostra, ma è il padrino ormai simbolo dell'organizzazione mafiosa, negli anni Novanta era il pupillo di Salvatore Riina, il regista della stagione delle stragi.

Le perquisizioni nella rete del boss di Cosa Nostra. Operazione Matteo Messina Denaro, blitz a tappeto in Sicilia dopo il video esclusivo del superboss. Antonio Lamorte su Il Riformista l’1 Ottobre 2021. A poche dalle immagini esclusive che ritrarrebbero il “fantasma” della Mafia, il “superlatitante” e “ultimo Padrino di Cosa Nostra” ancora in libertà, la Polizia di Stato sta effettuato controlli e perquisizioni in mezza Sicilia sulle tracce di Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano, scomparso nel nulla dal 1993. Le operazioni proprio a Castelvetrano, Campobello di Mazara, Santa Ninfa, Partanna, Mazara del Vallo, Santa Margherita Belice e Roccamena. Solo qualche ora prima, al TG2 andato in onda ieri sera, erano state diffuse le immagini, che potrebbero essere le ultime, del superboss ricercato. “Eccolo il fantasma”, esordiva il servizio mostrando un uomo con gli occhiali, a bordo di un Suv nella campagna di Agrigento, seduto sul sedile del passeggero. Immagini che risalivano al dicembre 2009, quando “u’siccu” era presumibilmente protetto da alcune famiglie agrigentine, e riprese nei pressi dell’abitazione di Pietro Campo, boss della Valle dei Templi. Per la magistratura e la polizia si tratterebbe proprio del padrino introvabile. Fotogrammi che risalgono a oltre dieci anni fa ma che comunque sarebbero un passo avanti: le ultime immagini di Messina Denaro erano del 1993, poi solo ricostruzioni grafiche e virtuali. Il sospetto, scrivono i giornali locali in queste ore, è che comunque la “primula rossa” della mafia siciliana sia rimasto sempre nel suo territorio. Centinaia le segnalazioni lanciate negli ultimi anni. L’ultima aveva portato a un clamoroso abbaglio: in Olanda, in un ristorante all’Aja, era stato arrestato per sbaglio un turista inglese; un’operazione da film, con dispiegamento imponente di forze e agenti dei reparti speciali, che ha messo in imbarazzo la polizia olande e la Procura di Trento. L’operazione in corso è coordinata dalla polizia di Stato di Trapani, coadiuvata dal Servizio centrale operativo della Direzione centrale anticrimine si ordine della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Perquisizioni partite da una serie di sospetti fiancheggiatori di Messina Denaro e di personaggi considerati vicini o contigui alle famiglie mafiose trapanesi e agrigentine. Impegnati 150 agenti delle squadre mobili di Palermo, Trapani e Agrigento supportati dagli uomini del Servizio centrale operativo e dei reparti prevenzione crimine di Sicilia e Calabria. Questo genere di perquisizioni in realtà si ripete periodicamente sul territorio per cercare di cogliere qualche segnale nella rete considerata prossima al boss. Agli atti di questa inchiesta, come riporta La Sicilia, c’è un colloquio intercettato dagli investigatori tra l’avvocato Antonio Messina, un anziano massone radiato dall’albo per i suoi precedenti penali, mentre parla con Giuseppe Fidanzati, uno dei figli di Gaetano Fidanzati, boss dell’Acquasanta di Palermo e trafficante internazionale di stupefacenti, morto otto anni fa. “Iddu veniva a Trapani accompagnato in Mercedes da Mimmo”, sussurra Giuseppe Fidanzati. Per gli inquirenti “Iddu” sarebbe proprio il superlatitante Matteo Messina Denaro. “U’ siccu” è ricercato in tutto il mondo per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto. È sparito nel nulla nel 1993, quando esplosero le bombe della Mafia a Milano, Firenze e Roma. Le sue tracce si sono perse dopo una vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano. Le segnalazioni si verificano continuamente: la “primula rossa” di Cosa Nostra è stata avvistata recentemente allo stadio durante una partita, a passeggio a Milano e in un pub a Dublino, durante una battuta di caccia a Castelvetrano e a Camden Town a Londra. Altre segnalazioni lo vogliono in Bulgaria oppure in Guatemala, secondo altre avrebbe acquistato una flotta di pescherecci in Sicilia. Un collaboratore di Giustizia ritiene si muova tra la Sicilia e la Versilia. Avrebbe anche modificato tramite chirurgia i suoi tratti somatici e le impronte digitali.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Filmato relativo al 2009: dal 1993 è l'unica immagine (sfocata). Il video del boss Matteo Messina Denaro: “Stempiato e con gli occhiali”. Redazione su Il Riformista l’1 Ottobre 2021. Dal 1993 a oggi gli investigatori avrebbero tra le mani una sola immagine, sfocata, del boss Matteo Messina Denaro. A diffonderla il Tg2 in un servizio andato in onda giovedì 30 settembre nell’edizione delle 20.30. La primula rossa della mafia siciliana, 59 anni, è considerato dalla Direzione Investigativa Antimafia ancora una “figura criminale carismatica della mafia trapanese” anche se negli ultimi anni sarebbero emersi “segnali di insofferenza” da parte dei suoi affiliati, insoddisfatti dalla gestione continua e costante della latitanza del boss. Stando al servizio trasmesso dal Tg2, una telecamera di sicurezza avrebbe ripreso per pochi secondi il volto del boss. Le immagini sono datate 2009 e sono state registrate nell’Agrigentino da una camera posta a qualche centinaio di metri dalla casa di Pietro Campo, boss della Valle dei Templi e considerato uomo di fiducia di Messina Denaro. Nel video si vedono due persone a bordo di un suv in una strada di campagna. Il passeggero, stempiato e con gli occhiali, è l’uomo individuato come Messina Denaro. Messina Denaro, “u siccu”, “il magro”, letteralmente sparito nel nulla nel 1993, l’anno delle bombe a Milano, Firenze e Roma, dopo una vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano: è ricercato in campo internazionale per “associazione di tipo mafioso, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto ed altro”. Figlio di Francesco, capo della cosca di Castelvetrano (Trapani) e del relativo mandamento, nell’ultima tranche dei suoi 59 anni ha visto farsi “terra bruciata” intorno a colpi di arresti e sequestri di beni ma continua a restare imprendibile. Protagonista di un numero imprecisato di esecuzioni e tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo – rapito per costringere il padre Santino a ritrattare le rivelazioni sulla strage di Capaci e poi strangolato e sciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia – Messina Denaro secondo molti inquirenti non sarebbe il capo di Cosa nostra ma sicuramente continua a rivestire un ruolo di assoluto rilievo: la rivista “Forbes” lo ha incluso tra i dieci latitanti più pericolosi del mondo. Difficile distinguere il vero e il falso in quello che di Messina Denaro raccontano informatori e pentiti: che, beffando chi lo bracca da anni, vivrebbe in Sicilia, spostandosi di continuo; che si sarebbe sottoposto in Bulgaria (o in Piemonte) a una plastica ai polpastrelli e al viso; che avrebbe seri problemi agli occhi e ai reni, tanto da aver bisogno della dialisi; che godrebbe della protezione dalla ‘ndrangheta. Di volta in volta, c’è chi lo ha collocato sulle tribune del “Barbera” per un Palermo-Sampdoria, chi su una spiaggia greca, in vacanza con la compagna Maria, chi in una casa di Baden, in Germania. Ma l’unica certezza resta la sua irreperibilità dal 1993. La soffiata direttamente dall’Italia: Matteo Messina Denaro, “u’siccu”, la “primula rossa” della Mafia siciliana, il più ricercato dei latitanti italiani, sarà in un ristorante con altre due persone, mercoledì 8 settembre. E quindi si imbastisce l’operazione, un blitz imponente, con armi spianate, agenti dei reparti speciali. L’irruzione però si rivela un clamoroso fiasco: a essere arrestato Mark L., turista inglese, che si trovava a l’Aja, nei Paesi Bassi, per il Gran Premio di Formula 1 (che si era tenuto il 5 settembre a Zandvoort). A imbastire l’operazione la polizia olandese e la Procura italiana di Trento.

"I latitanti tornano nei loro territori": De Raho dice una cosa ovvia. Matteo Messina Denaro, la caccia diventa uno show: dal video indecifrabile al blitz mediatico. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'1 Ottobre 2021. Prima il servizio in apertura di un tg nazionale, poi i controlli a tappeto il giorno successivo con l’annuncio ai quattro venti di ben 150 poliziotti in campo per perquisizioni e controlli nei confronti di persone ritenute vicine a Matteo Messina Denaro, boss di Castelvetrano (Trapani) latitante dal 1993 e di cui, a parte il frame del video diffuso dal Tg2 (con gli investigatori che considerano improbabile la sua presenza in quell’auto), non si hanno tracce. Dodici ore di show mediatico nella speranza, tuttavia, di poter acquisire qualche piccolo indizio in più sulla rete dei fiancheggiatori di chi si fa beffe dello Stato da quasi 30 anni. Dettagli che potrebbero essere arrivati dalle possibili fibrillazioni tra i fedelissimi di Messina Denaro e quindi dalle utenze sotto intercettazione telefonica o da quelle ambientali, o che potrebbero arrivare dalle nuove attività investigative avviate in queste ore con i controlli, che consistono in venti perquisizioni, effettuati in mattinata. La speranza degli investigatori è quella di dare un’accelerata alle ricerche di “u’siccu”, la “primula rossa” della Mafia siciliana che secondo la Direzione Investigativa Antimafia rappresenta ancora una “figura criminale carismatica della criminalità organizzata” anche se negli ultimi anni sarebbero emersi “segnali di insofferenza” da parte dei suoi affiliati, insoddisfatti dalla gestione continua e costante della latitanza del boss. Dodici ore per provare a far sentire il fiato sul collo a Messina Denaro. Quindi prima assistiamo alla pubblicazione di un video di ben 12 anni fa (una eternità dal punto di vista investigativo) dove l’uomo “stempiato e con gli occhiali”, quasi non identificabile a causa delle immagini sgranate, potrebbe essere lui. Condizionali che vengono quasi smentiti dopo poche ore. Stando infatti a quanto filtra dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, la segnalazione (arrivata da una fonte) è stata scandagliata approfonditamente dagli investigatori senza tuttavia trovare alcuna conferma. Le immagini in questione sono state registrate nell’Agrigentino da una camera posta a qualche centinaio di metri dalla casa di Pietro Campo, boss di Santa Margherita Belice e considerato uomo di fiducia di Messina Denaro. Nel video si vedono due persone a bordo di un suv in una strada di campagna. Secondo chi indaga pare assai improbabile che uno dei maggiori ricercati al mondo circolasse in auto, in pieno giorno, davanti alla masseria di Campo, strettamente controllato proprio per la sua vicinanza a “u’ siccu”. All’alba 150 poliziotti delle Squadre Mobili di Trapani, Palermo, Agrigento e del Servizio Centrale Operativo, su disposizione della Dda palermitana, dotati (si legge nelle veline della polizia) di apparecchiature speciali e supportati dai Reparti Prevenzione Crimine di Sicilia e Calabria, coadiuvati dall’auto dagli elicotteri, hanno effettuato perquisizioni e controlli a Castelvetrano, Campobello di Mazara, Santa Ninfa, Partanna, Mazara del Vallo, Santa Margherita Belice e Roccamena. Zone dove vivrebbero decine di fiancheggiatori della primula rossa, appartenenti agli storici mandamenti mafiosi.  Si tratta di “vecchie conoscenze” degli investigatori per i loro rapporti con il latitante: tra i 20 destinatari dei decreti di perquisizione ci sono anche soggetti già condannati per associazione a delinquere di tipo mafioso. Poi arrivano le parole di Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale Antimafia, che a Radio Rai dichiara una serie di ovvietà: “I capi nella loro latitanza possono allontanarsi dai luoghi di origine ma certamente devono tornare”. Inoltre i latitanti “devono avvalersi di una rete che opera sul territorio, altrimenti non potrebbero mantenere una posizione di comando e capi storici come Matteo Messina Denaro è evidente che non abbandonerebbero mai la loro posizione”. In sostanza “u’ siccu” così come tanti suoi noti predecessori e altri capi camorra e ‘ndrangheta, si troverebbe nel suo territorio nel sud della Sicilia. “Benché non sia ufficialmente il capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro – chiosa de Raho – unitamente a Totò Riina e ad altri capi ha guidato un piano d’attacco al nostro Paese e quindi necessariamente deve essere catturato e assicurato alla giustizia anche per confermare che il mafioso non avrà mai tregua“. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Camorra, il fantasma di Antonio Bardellino: storia del boss scomparso nel nulla. Legato a Cosa Nostra siciliana e progenitore del clan dei Casalesi, ufficialmente è stato ucciso in Brasile nel 1988. Ma il corpo non è mai stato ritrovato. Gli indizi che raccontano una verità diversa. Dario del Porto su La Repubblica il 30 settembre 2021. Buzios, Stato di Rio de Janeiro, Brasile. Fine maggio del 1988, pomeriggio. Un uomo rientra a casa. E' italiano, da un pezzo fa la spola fra la provincia di Caserta, Santo Domingo e il Sudamerica. Parcheggia l'auto, apre il cancello del villino affacciato sull'oceano. All'interno lo aspetta un vecchio amico appena arrivato dall'Europa che si è fatto accompagnare da un tassista di San Paolo.

Matteo Messina Denaro: ecco perché, con Riina, volle le stragi di Falcone e Borsellino. I giudici: “Sapeva della trattativa Stato-Mafia”. Depositate le motivazioni della sentenza con cui la Corte d’assise di Caltanissetta aveva condannato all’ergastolo il boss. Lirio Abbate su L'Espresso il 19 agosto 2021. Il boss Matteo Messina Denaro, “u siccu”, ha partecipato alla deliberazione e all’attuazione delle stragi di Falcone e Borsellino. Ha sostenuto la strategia terroristica mafiosa di Riina e l’attacco allo Stato, al quale i Corleonesi avevano dichiarato guerra. Ed il capomafia è stato uno snodo della trattativa Stato-mafia. Sono alcuni dei punti su cui si sviluppa la lunga motivazione della sentenza di condanna del maggiore latitante italiano, depositata il 18 agosto. La Corte d’assise di Caltanissetta aveva inflitto l’ergastolo lo scorso ottobre a Messina Denaro per le stragi del 1992, così come aveva richiesto il pm Gabriele Paci, che ha istruito il processo, e che dal 18 agosto è il nuovo procuratore di Trapani. I giudici scrivono che il latitante «condivise in pieno l’oggetto e la portata del piano criminale di Riina di attacco allo Stato e di destabilizzazione delle sue Istituzioni allo scopo, da un canto, di colpire i nemici storici, gli inaffidabili e i traditori di Cosa nostra, dall'altro canto, di entrare in contatto con nuovi referenti con cui trattare per giungere ad un nuovo equilibrio». E sottolineano che questo mafioso trapanese-corleonese era a conoscenza della «trattativa Stato-mafia, l'altra faccia della medaglia del piano stragista» scrive la Corte. E aggiunge su questo punto: «Furono resi edotti Matteo Messina Denaro e Graviano (“i picciotti sanno tutto”), con sicuro coinvolgimento del boss trapanese». «In definitiva, Matteo Messina Denaro fu in assoluto un membro del cerchio magico di Riina e, anche solo in tale veste (senza nulla togliere alla comunque accertata reggenza della provincia di Trapani), è uno dei protagonisti dell'attacco sfrontato che Cosa nostra intraprese contro lo Stato al fine di destabilizzarne le Istituzioni e costringerlo tramite nuovi canali referenziati a trovare un compromesso favorevole ad entrambi i fronti». Per i giudici Matteo Messina Denaro «mise fattivamente a disposizione della causa stragista le proprie energie e le sue forze militari e logistiche convogliando in senso unidirezionale tutta la nomenclatura trapanese. Man mano che il piano stragista prese corpo in parallelo Matteo Messina Denaro - in via diretta o indiretta (ovvero anche a mezzo degli uomini d'onore della provincia mafiosa da lui retta) - dimostrò tangibilmente la sua perdurante adesione e in tal guisa, ribadendo la fedeltà a Riina in quel delicato momento per la sua leadership e per l'intera Cosa nostra». La Corte ha fatto un certosino lavoro di ricostruzione dei fatti e della storia criminale dei corleonesi. È entrata nei meandri mafiosi che hanno portato alla genesi delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Il movente. La deliberazione degli attentati e le singole riunioni in cui i boss ne hanno discusso. La creazione da parte di Riina della “Super cosa” che andava al di sopra della commissione di Cosa nostra.

Il piano stragista. La Corte nella motivazione sviscera i rapporti d’affari e criminali fra i corleonesi e i trapanesi. Gli interessi economici-patrimoniali di Riina nelle terre di Messina Denaro. I legami con la massoneria trapanese. E poi la figura di questo boss latitante e il suo ruolo al fianco del capo dei capi. Il protagonismo di “u siccu” nel periodo stragista, sia siciliano che nel “continente”, descrivendo «il motivo genetico dell’avversione di Cosa nostra a Borsellino» e l’attacco al patrimonio culturale e le ragioni «alla base delle sollecitazioni di Messina Denaro all’eliminazione di Borsellino». C’è in lui la consapevolezza di queste bombe. E i giudici spiegano bene, sulla base delle prove prodotte dal pm Paci, della sua responsabilità. «Sarà, si badi, in particolare il duo Messina Denaro-Graviano, a gettare la Penisola nello scompiglio appena l'anno successivo alle stragi del 1992)». Per i giudici che hanno condannato il boss all’ergastolo «Messina Denaro, seppur non ebbe alcun ruolo nella fase esecutiva delle stragi di Capaci e via D'Amelio, mise immediatamente a disposizione la propria persona e quella degli altri uomini d'onore e soggetti a lui legati trapanesi per una morsa a tenaglia dei due magistrati ovunque si trovassero contribuendo al loro stretto monitoraggio e a infuocare gli animi dei complici verso la loro morte che avvenne nella provincia di Palermo, ma che sarebbe potuto accadere anche a Roma, a Marsala o nelle diverse opzioni geografiche che per ipotesi si sarebbero potute presentare». E non mancano i giudici di ricordare le connessioni con la politica e con i politici. E i collegamenti che Messina Denaro ha cercato, e forse attuato dopo le stragi, con nuovi referenti. Il boss, che nelle scorse settimane è diventato nonno, è ricercato ufficialmente dal 1993. È sempre più ricco e potente. Tutte le persone che hanno avuto contatti con lui sono state arrestate, compresi i suoi familiari. E sequestrati i beni. Li ha resi poveri e isolati in carcere. Nonostante ciò, la sua invisibilità non lascia trasparire alcuna crepa.

Tanti soprannomi, un solo volto. Diabolik, U siccu, Alessio, Luciano, “La testa dell'acqua”, Iddu, “U Diu”, il Premier, “il noto”. Tanti soprannomi per indicare un solo nome: Matteo Messina Denaro.

Messina Denaro sette soprannomi per un mistero. Salvo Palazzolo su AMDuemila il 14 Novembre 2019. Tratto da: La Repubblica Palermo. Lo chiamavano “u siccu”, oppure Luciano, poi è diventato Alessio Adesso è “la testa dell’acqua”, Iddu, il premier o anche “il noto”. All’inizio, fra Castelvetrano e Marinella di Selinunte, era solo “u siccu”, niente più che un soprannome. Oppure, Luciano, chissà perché. Ventisei anni dopo, l’imprendibile Matteo Messina Denaro è il “premier”, questo diceva di lui Antonello Nicosia, l’assistente della deputata Occhionero arrestato nei giorni scorsi con l’accusa di essere stato l’ambasciatore della primula rossa nelle carceri. Nei nomi con cui lo chiamano c’è la sua storia misteriosa. Per Totò Riina sepolto al 41 bis era semplicemente "l’unico ragazzo che avrebbe potuto fare qualcosa". E lo diceva in senso dispregiativo: "Questo ragazzo suo padre l’aveva affidato a me, perché era dritto, gli ho fatto scuola io... a me dispiace dirlo". E, d’un tratto, l’enfant prodige di inizio anni Novanta diventò il “signor Messina”: "Questo fa il latitante con i pali eolici per prendere soldi - sbottava il capo dei capi di Cosa nostra all’ora d’aria - ma non si interessa… ". “La testa dell’acqua” come lo chiamano i suoi fedelissimi nelle intercettazioni ha rinnegato la strategia stragista del più sanguinario dei suoi padri - Totò Riina - ed è diventato “Iddu”, come chiamavano l’altro padrino di Corleone, Bernardo Provenzano, che dopo la stagione delle bombe sembrava essere diventato un santone. “Iddu” il vecchio e anche il giovane (che nei pizzini con Binnu si firmava Alessio) conoscono il segreto della trattativa con pezzi dello Stato, sanno perché all’improvviso le bombe terminarono di scuotere l’Italia nel 1993. E Riina non riusciva a darsi pace. Nelle intercettazioni fatte nel 2013 nel carcere di Opera criticava la scelta di fare solo affari e nessun attentato, arrivando persino a dare del “carabiniere” al suo “ragazzo” di un tempo. La stessa espressione che il capo dei capi aveva utilizzato per Provenzano: "Allora qualcuno ti dice cosa fare…". A Riina è rimasto il sospetto che dietro la fine delle bombe ci sia stato un patto, con chissà quale lasciapassare. E a proposito del “ragazzo” diventato ormai il “signor Messina” diceva pure: "Io penso che se n’è andato all’estero". Chissà se era solo uno sfogo con il compagno dell’ora d’aria o sperava di essere intercettato. Magari per vendicarsi, a modo suo, di un’altra soffiata. Di sicuro, ormai da tempo, non ci sono più tracce della “testa dell’acqua”, il premier di una mafia liquida che ha scelto gli affari importanti e ha abbandonato il controllo del territorio mafioso. “U siccu” è diventato un fantasma. Un giorno qualcuno l’ha chiamato “Padre Pio”, uno strano fantasma in aria di santità, un mafioso diventato modello criminale. Ma sempre ben radicato da qualche parte, perché qualcuno di importante continua a pensare a lui. Così in un’intercettazione è rimasta impigliata un’altra espressione molto curiosa: lo chiamavano anche “il noto”, con un termine sbirresco che racconta molto del mistero Messina Denaro. "Ascolta bene - diceva al telefono l’agente dei servizi segreti Marco Lazzari all’avvocato romano Giandomenico D’Ambra - ciò che prevedevamo è stato confermato da Cristiano... ti devi allontanare da zio per un periodo, io già ci ho parlato". Lo “zio” era il boss gelese Salvatore Rinzivillo. L’avvocato chiedeva: "Allontanarmi radicalmente?". Lo 007 dell’Aisi spiegava: "Eh sporadicamente, io già ci ho parlato, già gliel’ho detto che ti avvertivo... non è nulla di particolare, è solo un’attenzione... capito per il noto che stanno cercando giù, si so n’cafoniti, perché... poi ti spiego a voce, tanto ci vediamo... dagli anni 80 fino ad adesso vogliono controllare tutti capito". Il “noto che stanno cercando giù” era proprio il superlatitante Matteo Messina Denaro. E questa intercettazione del Gico della Guardia di finanza di Roma, risalente al 10 marzo 2016, ha provocato un terremoto. Come aveva fatto un agente dei servizi segreti, operativo a Roma, a sapere delle indagini siciliane sul “noto”? E chissà per quanti altri infedeli il capomafia delle stragi di Roma, Milano e Firenze è ancora il “noto”. Nei nomi con cui lo chiamano c’è davvero la sua storia. E qui in Sicilia qualcuno ha cominciarlo a maledirlo, per tutti gli arresti della procura di Palermo che stanno falcidiando la provincia di Trapani. Così Messina Denaro è diventato “questo”, o anche il “purpu”. "Ma questo che minchia fa? Un cazzo, si fa solo la minchia sua, e scrusciu non ci deve essere". C’è una frangia di fedelissimi che la pensa come Totò Riina: "Arrestano i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati e tu non ti muovi? Ma fai bordello... purpo, svita tutti... se avete i coglioni uscite tutti fuori, sennò vi faccio saltare". Ma Matteo, u Siccu, il premier, Padre Pio e tutto il resto sembra davvero essere andato via. L’ultimo che l’ha visto è il suo amico fidato Vincenzo Sinacori, killer pure lui. Era il 1994. Tratto da: La Repubblica Palermo

Mafia e poteri occulti. Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa nostra protetto dallo Stato-Mafia. Giorgio Bongiovanni su Antimafiaduemila il 12 - 18 Aprile 2021. Nei giorni scorsi, su Nove, è andato in onda la videoinchiesta “Matteo Messina Denaro - Il Superlatitante”, prodotta da Videa Next Station per Discovery Italia, sviluppata da Giovanni Tizian e Nello Trocchia in collaborazione con il quotidiano "Domani". Uno speciale che suona non solo come un'occasione persa, ma a tratti appare anche fuorviante sul ruolo che ancora oggi riveste il boss trapanese, ultimo stragista rimasto latitante. E lo diciamo senza nulla togliere all'impegno dei cronisti che hanno raccontato la storia. Perché se da una parte è sicuramente apprezzabile la scelta di aver dato voce ai familiari vittime delle stragi dei Georgofili e di via Palestro, accanto alle intercettazioni più recenti dei suoi sodali che parlano della sua figura, o le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, dall'altra ci sono le scelte discutibili di intervistare personaggi ambigui. Molto si è parlato del primo Matteo Messina Denaro, del giovane "killer" e "latin lover" che ama la bella vita, nonostante la latitanza. Solo qualche accenno sulle grandi connessioni con il sistema politico, imprenditoriale e massonico che, probabilmente, garantiscono la sua latitanza. Nulla su quei mandanti esterni delle stragi che hanno accompagnato Cosa nostra in quella strategia di attacco allo Stato. Per questo il prodotto finale, a nostro parere, è rimasto mediocre. E così facendo il rischio che l'opinione pubblica abbia un'idea incompleta sul latitante più famoso del mondo è altissimo. Ma è soprattutto nel dossier giornalistico "Dopodomani", pubblicato dal quotidiano, che siamo rimasti sconcertati. Perché è qui che abbiamo ravvisato grossolani errori, nella migliore delle ipotesi per disattenzione, nella peggiore per volontà "devianti" e "manipolatrici" sul ruolo che lo stesso Messina Denaro ha ancora oggi nel panorama del Sistema criminale. E ciò avviene per bocca di Giacomo Di Girolamo, autore del libro "L'Invisibile - Matteo Messina Denaro". Come? Nel momento in cui sminuisce in maniera grave l'intera storia del progetto di attentato nei confronti del magistrato Nino Di Matteo, lasciando intendere che si tratti di una bufala generata da collaboratori di giustizia che avrebbero millantato conoscenze e fatti. E lo fa in barba a quei riscontri trovati dagli stessi pm nisseni e alla convergenza nei racconti di collaboratori di giustizia ritenuti attendibili dalle procure. L'inchiesta sull'attentato a Di Matteo è stata archiviata, come è scritto anche sul dossier, ma tacere quelle conclusioni dei pm in cui si mette in evidenza come la condanna a morte non sia stata mai revocata è un'omissione pesante. Un'inchiesta sempre pronta ad essere riaperta in quanto si continua a cercare il tritolo arrivato a Palermo per colpire il magistrato antimafia. Questione di ignoranza? Di pregiudizio? Di superficialità? Comunque è grave. Perché così facendo si fa esattamente il gioco di chi vuole isolare, delegittimare e uccidere quei magistrati scomodi al potere e che da anni cercano la verità su stragi e delitti. Quel gioco che piace anche a Matteo Messina Denaro che resta latitante. Del boss di Castelvetrano (figura ben più importante di un fuggitivo che "si fa solo gli affari propri"); delle protezioni su cui può contare grazie allo Stato-mafia; dell'attentato a Di Matteo e quei contorni inquietanti che riguardano il capomafia trapanese ed i suoi "amici romani" parliamo di seguito in maniera approfondita. Perché la mafia può anche aver cambiato "politica", puntando sulla sommersione, ma non è stata ancora vinta e la strategia stragista non è affatto un lontano ricordo.

Tanti soprannomi, un solo volto. Diabolik, U siccu, Alessio, Luciano, “La testa dell'acqua”, Iddu, “U Diu”, il Premier, “il noto”. Tanti soprannomi per indicare un solo nome: Matteo Messina Denaro.

Il boss di Castelvetrano è latitante dal 1993 ed i ventotto anni di fughe non gli hanno impedito di compiere omicidi, stragi, crimini efferati, né di gestire affari milionari nei settori più svariati. Su di lui sono stati scritti libri, articoli e sono state fatte trasmissioni televisive. Certo è che il suo è un "curriculum" di primissimo piano nell'organizzazione criminale siciliana. Prima accanto al padre, don “Ciccio”, Francesco Messina Denaro. Poi, alla morte di quest'ultimo, si fece largo tra i “corleonesi”, “adottato” da Riina in persona, fino a diventare protagonista dello stragismo della criminalità organizzata siciliana. Autore, secondo gli investigatori, di almeno una settantina di omicidi come mandante ed esecutore, nei primi mesi del 1992, assieme ad altri boss di Brancaccio, il giovane “Diabolik” fece parte del gruppo che doveva uccidere a Roma Giovanni Falcone, a colpi di kalashnikov, fucili e revolver. Salvatore Riina, forse “preso per la manina” da qualcuno come ha poi raccontato il pentito Salvatore Cancemi, cambiò idea all'improvviso, optando per un altro luogo ed una modalità decisamente più eclatante. E così fu “l'Attentatuni” lungo l'autostrada, all'altezza di Capaci, in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. Anche di quell'attentato, così come per la strage di via d'Amelio, è stato ritenuto responsabile, in qualità di mandante, nel processo di primo grado tenuto davanti alla Corte d'Assise di Caltanissetta che lo ha condannato all'ergastolo. Una sentenza che di fatto conferma come vi sia stato un collegamento tra le bombe del 1992 pretese da Totò Riina e gli attentati nel nord Italia. L'opera sanguinaria di Messina Denaro si estende anche ad altri fatti. Sempre in quella calda estate del 1992, poco prima dell'attentato in cui morirono Paolo Borsellino e gli agenti di scorta (Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina), partecipò come esecutore materiali ad uno dei delitti più crudeli di Cosa nostra: il duplice omicidio dei fidanzati Vincenzo Milazzo (capo della cosca di Alcamo che aveva cominciato a mostrarsi insofferente all'autorità di Riina) ed Antonella Bonomo (incinta di tre mesi, ritenuta testimone scomoda degli affari di Cosa nostra). Nel 1993, a soli 31 anni, fu favorevole alla continuazione della strategia degli attentati dinamitardi insieme ai boss Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. E' l'anno delle stragi di Firenze, Milano e Roma che provocarono in tutto dieci morti (tra cui Nadia e Caterina Nencioni, rispettivamente di 9 anni e di 50 giorni) e 106 feriti a cui sono da aggiungersi i danni al patrimonio artistico. Stragi per cui è stato condannato all'ergastolo con sentenza definitiva nel 2002. Basterebbe già questo per far comprendere il peso di Matteo Messina Denaro. Ma vi è molto di più. 

Scalata Cosa nostra. Continuando a scorrere l'elenco di fatti e misfatti è noto che nel novembre 1993 Messina Denaro fu tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, appena 12enne, per costringere il padre Santino a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci. Dopo 779 giorni di prigionia, il piccolo Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere sciolto nell'acido. Un altro omicidio efferato per una nuova condanna all'ergastolo, stavolta in appello. Nonostante la sua longeva latitanza, come dimostrato da decine di indagini e testimonianze, non ha mai perso il controllo nella gestione del mandamento di Trapani e, in seguito agli arresti di storici boss come Bernardo Provenzano (2006) e Salvatore Lo Piccolo (2007) è divenuto indubbiamente il vero punto di riferimento per Cosa nostra. Proprio nella Provincia di Trapani, secondo le relazioni della Dia più recenti, Messina Denaro regna incontrastato senza, in apparenza, inserirsi nelle scelte criminali a livello interprovinciale e regionale. Se nel recente tentativo di ricostruzione della Cupola a Palermo non era stato interpellato, così non era stato nel 2008 (operazione Perseo) quando dispensò in maniera chiara consigli anche condizionando le scelte dell'organizzazione nel Capoluogo. Consigli che non vengono disdegnati neanche oggi, almeno stando a quanto emerso nelle carte dell’operazione antimafia "Xydi". Nell'inchiesta della Procura di Palermo compare anche il nome del boss trapanese.

Procura di Palermo compare anche il nome del boss trapanese. In un'intercettazione il boss Giancarlo Buggea, uomo d’onore della famiglia di Canicattì, parlava della primula rossa mentre legge un pizzino scritto a mano: "Messina Denaro. Iddu, la mamma del nipote che è di qua, è mia commare, hanno sequestrato tutti i telegrammi mandati dalla posta di Canicattì, per vedere, per capire”. Il “nipote” di cui si parla è Girolamo Bellomo, marito di Lorenza Guttadauro, figlia della sorella del superlatitante. La Dda di Palermo indica in Buggea l’uomo “in condizione di intrattenere rapporti direttamente con Matteo Messina Denaro, essendo a conoscenza della segretissima rete di comunicazione e protezione utilizzata dal capo di Cosa Nostra latitante”. In un altro incontro Buggea parlava sempre del boss di Castelvetrano. “Quelli di Trapani lo sanno dov’è?”, gli domandava l’affiliato. “Lo sanno…”, rispondeva il boss. “Con Matteo glielo dovremmo dire, ci volevano altri due che ci andavano”, diceva ancora l’interlocutore. Secondo gli inquirenti si faceva riferimento ad un affare sul quale Messina Denaro deve dare il proprio assenso. La prova che il superlatitante viene riconosciuto come un importante riferimento, non solo a Trapani, dove regna incontrastato. Ma anche fuori. Certo è che da qualche anno a questa parte il cerchio attorno al boss trapanese si è fatto sempre più stretto. 

Ricchezze infinite. Nonostante i numerosi arresti di fedelissimi, familiari e continui sequestri di beni (secondo le stime ad oggi sarebbero stati sequestrati beni per oltre 3,5 miliardi di euro, ndr), il boss trapanese continua ad essere libero e ad intrecciare importanti rapporti con soggetti di altissimo livello nell'ambito politico ed imprenditoriale e ad accumulare infinite ricchezze. Un esempio sarebbe dato dai rapporti che la sua famiglia avrebbe avuto con l'ex senatore di Forza Italia Antonino D’Alì, ex sottosegretario agli Interni dal 2001 al 2006, finito sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Attualmente è in corso a Palermo il processo in appello dopo che la Cassazione ha annullato con rinvio il precedente giudizio di assoluzione (e dichiarato prescritti i fatti precedenti al 1994). Sul piano economico sono noti gli affari del boss di Castelvetrano con Giuseppe Grigoli, re dei supermarket, prestanome e riciclatore di denaro delle cosche trapanesi. E in questi anni è emerso il suo forte interesse nel settore turistico e delle energie alternative. Le inchieste hanno portato al sequestro di beni ad imprenditori ritenuti prestanome del boss: Carmelo Patti, patron della Valtur (brand che dal 2018 ha cambiato gestione e che non ha più nulla a che fare con Carmelo Patti e con una mala gestione), e l'imprenditore dell'eolico, Vito Nicastri. Quest'ultimo è stato condannato lo scorso ottobre dal Gup di Palermo a 9 anni di reclusione, in abbreviato, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Ma indagini più recenti come "Eden 3", che portò a novembre dello scorso anno a tre arresti e a 19 indagati per un traffico di droga tra Campobello di Mazara e Milano, hanno svelato l'esistenza di legami ed interessi anche nel campo del traffico di droga. Tra le figure coinvolte nell'indagine ci sono Giacomo Tamburello, Nicolò Mistretta e l’ex avvocato Antonio Messina, considerati i “vertici del sodalizio” vicino a Messina Denaro. Altro dato interessante, che emergeva nell'inchiesta, è il contatto che alcuni personaggi siciliani hanno avuto con figure come Giuseppe Calabrò, legato alle cosche di San Luca, Vincenzo Stefanelli (indagato), già coinvolto nel sequestro di Tullia Kauten (1981), legato alle ‘ndrine liguri e a Calabrò, e Giovanni Morabito, secondo gli inquirenti legato “all’articolazione milanese della ’ndrina Morabito” di Africo. Un asse, quello tra Cosa nostra e 'Ndrangheta, che si conferma nel racconto di numerosi collaboratori di giustizia, non solo nel traffico di stupefacenti. Negli anni Novanta lo stesso Riina trascorse proprio in Calabria un periodo di vacanza. Un esempio concreto delle sinergie fra Cosa Nostra e ‘Ndrangheta è costituito sicuramente dall’omicidio del giudice Scopelliti, ammazzato il 9 agosto del 1991 a Villa San Giovanni mentre faceva rientro a Campo Calabro. La Procura di Reggio Calabria ha riaperto il fascicolo d'inchiesta scrivendo nel registro degli indagati 17 persone, tra boss e affiliati a cosche siciliane e calabresi: tra i nomi figura anche Matteo Messina Denaro ricercato dal 1993. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo da tempo sta indagando sulla partecipazione della criminalità organizzata calabrese in stragi ed omicidi eccellenti tanto che davanti alla Corte d'assise di Reggio Calabria si è celebrato un processo, denominato 'Ndrangheta stragista, che ha visto lo scorso luglio le condanne all'ergastolo di Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, accusati di essere i mandanti di una serie di attentati contro i carabinieri, in cui morirono anche i militari Fava e Garofalo, avvenuti tra il 1993 ed il 1994. Ma l'asse Sicilia-Calabria emerge anche nella storia recente nelle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia come Vito Galatolo il quale riferì che Cosa nostra acquistò proprio dai calabresi il tritolo per eliminare un altro magistrato: Nino Di Matteo.

La lettera di Messina Denaro e l'attentato contro Di Matteo. Che ne dica il Di Girolamo di turno non si tratta solo di dicerie di qualche collaboratore di giustizia. Ma vi sono anche intercettazioni telefoniche come quelle in cui Galatolo viene registrato a colloqui con la moglie. Alla donna confida di essere stato pesantemente coinvolto nella preparazione di un attentato a un magistrato. E lo fa riferendosi, fra l’altro, alla festa dell’Immacolata dell'8 dicembre 2012, quando si era dovuto allontanare da casa per partecipare urgentemente a una delle riunioni operative. Ciò avviene prima della sua collaborazione con la giustizia. Di questo progetto stragista ci siamo occupati più volte in questi anni. Una vicenda tornata alla ribalta dopo le recenti dichiarazioni del collaboratore di giustizia Alfredo Geraci, ex mafioso di Porta nuova e uomo riservato vicino al boss Alessandro D'Ambrogio di fatto confermando alcuni dettagli già forniti da Galatolo. Entrambi parlano proprio di quel dicembre 2012 quando i boss di Palermo Alessandro D'Ambrogio (capomafia di Porta Nuova), Girolamo Biondino (capo a San Lorenzo), Vincenzo Graziano e Vito Galatolo (Acquasanta) si incontrarono segretamente dopo una riunione con altri capimafia. Un incontro per parlare di un tema preciso: l'attentato da organizzare contro il magistrato di Palermo. Una richiesta che portava una firma di peso: quella del boss Matteo Messina Denaro. Entrambi i pentiti hanno confermato che il boss trapanese avrebbe inviato delle missive in cui spiegava che Di Matteo andava fermato in quanto "si è spinto troppo oltre". Di questi elementi Vito Galatolo, da quando nel 2014 ha deciso di “togliersi un peso dalla coscienza” diventato collaboratore di giustizia, ha parlato in svariati processi. “La prima lettera me la porta Biondino (Girolamo, capomandamento di San Lorenzo e fratello del più noto Salvatore, autista storico di Totò Riina e depositario dei segreti del boss corleonese) e c'era anche Graziano e iniziava così: 'caro fratello, spero che tu stia bene' - ha raccontato il pentito durante il processo sulla trattativa Stato-Mafia - Messina Denaro voleva indicarmi come capomandamento di Resuttana e Biondino per quello di San Lorenzo. Lì si accenna all'attentato, chiedendo la disponibilità dei mandamenti ad eseguirlo, ma non si spiegano i motivi. La prima lettera scritta in corsivo e la seconda lettera in stampatello. Nella seconda invece si spiegano i motivi dell'attentato, poi la strappammo subito. Dell'attentato, mi disse Biondino, non dovevamo parlare a nessuno perché ci avrebbero ammazzato pure i bambini”. Dell'attentato a Di Matteo si parlò poi anche nella seconda lettera. “Qui si spiegò il motivo e c'era il riferimento ai processi. Si doveva dare un segnale che la mafia era sempre pronta a reagire allo Stato - ha detto Galatolo - anche qui si parlava in maniera affettuosa. Oltre all'attentato a Di Matteo si parlava di eliminare anche i due pentiti, “Manuzza”, Nino Giuffré, e Gaspare Spatuzza. Se accettavamo di fare l'attentato avremmo dovuto dire tutto a Mimmo (Biondino) che lui sapeva come organizzare. Biondino nello specifico si doveva occupare dell'esplosivo. C'erano da raccogliere dei soldi anche. Ed ogni mandamento doveva mettere due persone”.

A detta di Galatolo a chiedere a Messina Denaro di uccidere il magistrato sarebbero stati dei mandanti esterni, "gli stessi di Borsellino". Quel progetto di morte, forse anche grazie alle parole dell'ex boss dell'Acquasanta non è stato ancora eseguito ma, come hanno scritto i magistrati nisseni nella richiesta di archiviazione delle indagini, si tratta di un progetto di attentato "ancora in corso". Resta da capire perché una figura come Matteo Messina Denaro, attuale vertice di Cosa nostra, nel pieno della sua latitanza possa decidere di ritornare a quella strategia stragista chiedendo ai palermitani di adoperarsi. Una decisione inquietante e terribile che evoca anche la stagione dei delitti eccellenti, accantonata proprio dopo l'attacco allo Stato dei primi anni Novanta. 

Benestare Riina. Una decisione che, appena un anno dopo quelle missive, fu in qualche maniera avallata dal Capo dei capi, Totò Riina, che dal carcere "Opera" di Milano lanciava i suoi strali contro il magistrato. E' così che si realizza quella che può essere definita "convergenza di due prove autonome". Da una parte le dichiarazioni di alcuni protagonisti di quelle riunioni in cui si parlava del progetto di attentato. Dall'altra la voce di Riina dal carcere. Il boss corleonese auspicava che quel progetto di attentato fosse eseguito il prima possibile. “Io dissi che lo faccio finire peggio del giudice Falcone” diceva il boss corleonese il 16 novembre 2013 al boss pugliese Alberto Lorusso, durante l'ora d'aria. “E allora organizziamola questa cosa. Facciamola grossa e non ne parliamo più - continuava ancora ‘U curtu - Perché questo Di Matteo non se ne va, ci hanno chiesto di rinforzare, gli hanno rinforzato la scorta. E allora se fosse possibile ad ucciderlo, un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo”. Quelle conversazioni, cruente e drammatiche, venivano registrate dagli inquirenti che da qualche tempo avevano messo sotto intercettazione il capomafia. Durante il passeggio Riina parlava liberamente anche degli attentati del passato come quello a Rocco Chinnici, nel 1983. In quei dialoghi di Riina vi erano segni di insofferenza nei riguardi di Messina Denaro. Al contempo, nonostante i dissensi nella gestione quotidiana di Cosa nostra, in quelle registrazioni si evince la perfetta sintonia quando si devono intraprendere strategie importanti come uccidere il magistrato, Di Matteo, che in quel momento stava conducendo con il pool di Palermo (Del Bene, Teresi, Tartaglia, ndr) delle delicatissime indagini e si apprestava ad aprire un processo, quello sulla trattativa Stato-mafia, portando alla sbarra alti vertici delle istituzioni. Una tempistica temporale che non può passare inosservata.

I segreti delle stragi e della trattativa. Tornando a guardare a Matteo Messina Denaro all'interno di Cosa nostra, è innegabile che ad oggi sia, tra le persone in stato di libertà, il personaggio con il più alto spessore in Cosa Nostra. Un boss latitante che comanda strategicamente l'organizzazione criminale in quanto detentore di segreti indicibili. Segreti che danno potere. Un collaboratore di giustizia come Nino Giuffrè ha dichiarato che a lui sono stati consegnati i documenti segreti della cassaforte di Riina. “Probabilmente una parte di questi è finita a Matteo Messina Denaro - ha riferito in diversi processi l'ex boss di Caccamo - Posso dire che si tratta di una intuizione, più che una fonte. Perché non l’ho data per sicura, l’ho data per probabile che una parte di questa, sempre dai ragionamenti che ho fatto che si agganciano alla vicinanza di Salvatore Riina a Matteo Messina Denaro, dalla statura, dallo spessore mafioso di Matteo Messina Denaro e dalle indiscrezioni, diciamo, di Provenzano stesso che asseriva sempre come Matteo Messina Denaro era uno dei soggetti più fidati e più vicini a Riina. L’ipotesi è data da un complesso di piccole cose. Che a casa di Riina c’erano dei documenti me l’ha detto Provenzano, su questo punto non ho dubbi, e d’altronde so perfettamente che Riina mandava delle lettere a Provenzano”. E' dietro a quelle carte riservatissime che si nasconde parte dell'immenso potere di cui gode l'imprendibile padrino. Al processo contro Messina Denaro per le stragi del 1992, il pentito Brusca ha riferito quanto gli fu detto dal Capo dei capi Totò Riina: “Mi ebbe a dire che, qualora lui fosse arrestato o che gli succedeva qualche cosa, i picciotti, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano, sapevano tutto. Queste cose me le dice alla fine del 1992, tra novembre e dicembre. Era il periodo in cui non avevamo più notizie e lui iniziava a preoccuparsi che poteva essere arrestato”. E sempre Brusca ha messo a verbale con i magistrati di Palermo, che Messina Denaro gli disse che Graviano incontrava l'imprenditore Silvio Berlusconi, fornendo persino dei dettagli su orologi che lo stesso avrebbe avuto. Del resto non è un mistero che nel periodo compreso fra la strage di Capaci e quella di via d’Amelio, Messina Denaro ha trascorso diversi momenti della latitanza proprio assieme al capomafia di Brancaccio. Ecco dunque la forza di Messina Denaro nel 2020: la conoscenza di segreti indicibili. Come il perché la strategia delle bombe venne esportata in continente con l’adozione di modalità terroristiche mai appartenute, in precedenza, a Cosa Nostra, colpendo monumenti e causando vittime innocenti, o perché quelle stragi, subito dopo il fallito attentato all'Olimpico, si siano interrotte. Non può spiegarsi tutto con il semplice arresto dei fratelli Graviano, il 27 gennaio del 1994. Messina Denaro conosce la verità nascosta dietro la strage di Pizzolungo, dalla Chiesa, Chinnici, Capaci, via d'Amelio, e di quelle in Continente (Firenze, Roma e Milano) perché è stato parte attiva di quel mondo. Tutti questi segreti costituiscono, ancora oggi, un'arma di ricatto formidabile contro quello Stato che gli dà la caccia. Cosa accadrebbe se Messina Denaro, finisse in manette? E' pensabile che, vista la giovane età ed una vita vissuta tra gli agi (sempre secondo quanto riferito dai pentiti), possa scegliere di collaborare con la giustizia? E se così fosse cosa accadrebbe? Quanti pezzi dello Stato di ieri e di oggi cadrebbero? Nelle lettere a "Svetonio", lo pseudonimo dell'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, il boss di Trapani diceva che si sarebbe ancora sentito parlare di lui. Così è stato in questi anni. Messina Denaro si è dato da fare, non solo organizzando gli attentati. Nel processo di Caltanissetta ha testimoniato anche il collaboratore di giustizia Rosario Naimo, a lungo considerato un “re del narcotraffico” (per decenni a cominciare dalla fine degli anni ’60, si occupava dal New Jersey di maxi traffici di cocaina dal Sud America verso la Sicilia). Il capo dei capi Totò Riina lo descriveva come un soggetto “più potente del presidente degli Stati Uniti”. Non a caso era stato indicato come garante del patto tra siciliani d’America e siciliani di Sicilia secondo il quale agli "scappati" (i perdenti della guerra di mafia) sarebbe stata risparmiata la vita a patto che non rimettessero piede in Italia. Ma dalla Cupola siciliana era anche riconosciuto come un riferimento per i contatti con altissimi ambienti istituzionali americani. E a lui si rivolse Messina Denaro anche per portare avanti i “piani politici” dopo l'arresto di Riina: “Messina Denaro - ha raccontato Naimo - mi dice: “Senta Saruzzo, c'ho un abbraccio da parte di Luchino (Leoluca Bagarella, ndr) che ti saluta e mi ha detto di dirti una cosa nel caso tu possa dare una mano e aiutare”. Mi spiegò che in quel momento avevano degli agganci politici e delle cose per le mani, che si poteva creare una cosa buona per tutti noi. Un partito che potrebbe fare diventare la Sicilia autonoma, e far separare la Sicilia. Disse 'abbiamo agganci ma ci vorrebbe un aiutino dell'America". Quel gancio tra Trapani e gli Stati Uniti non era affatto nuovo. Nino Giuffrè ha raccontato ai magistrati proprio come già ai tempi in cui al vertice vi era il padre di Diabolik fosse un elemento fondamentale nella composizione del Sistema criminale. La mafia trapanese, ha affermato il pentito “è quella più intatta, meno colpita dalle forze dell’ordine, ed è un punto di incontro tra i Paesi arabi, l’America e diverse componenti che girano attorno alla mafia, per esempio la massoneria e i servizi segreti deviati. Oggi a capo di questa zona c’è il personaggio più importante di Cosa nostra: Matteo Messina Denaro. Lui è pupillo di Salvatore Riina”. Trapani, dunque è il fulcro di rapporti con l'esterno (“Posso dire serenamente che vi sono relazioni fra la mafia e i terroristi. Cosa nostra non chiude le porte a nessuno: quando gli interessi convergono, fa alleanze”). Sono questi i legami del Sistema criminale integrato che ha in Cosa nostra una componente essenziale. Nella mafia che si riorganizza i vecchi padrini restano centrali proprio per quel ruolo di protagonisti che hanno recitato negli anni delle stragi di Stato e trattative. E dagli elementi raccolti in questi anni appare evidente che figure come Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella, Salvatore Biondino, i Madonia di Palermo, a cui si affiancano gli Inzerillo, tornati in auge dopo l'esilio imposto da Riina, sono i veri punti di riferimento che comandano la mafia siciliana. 

Latitanza protetta. Ad oggi resta difficile individuare il luogo in cui il superlatitante sia nascosto. C’è chi sostiene che Messina Denaro abbia cambiato volto e voce per sfuggire alla cattura, chi dice che si trovi in Sicilia, nella sua terra, chi ritiene che si sia recato all’estero, in Sudamerica. Tra i possibili luoghi dove il boss di Castelvetrano potrebbe nascondersi non si esclude neanche la Calabria. Resta il fatto che, nonostante una taglia farsa da un milione e mezzo di euro fissata dai servizi di sicurezza, ad oggi Messina Denaro continua ad essere un ricercato e le domande aperte sono continue. Anche perché proprio parte di quei servizi di sicurezza dello Stato, a nostro giudizio, è verosimile che siano gli stessi che lo proteggono. Come è possibile? Perché? E quali sono i segreti che il padrino trapanese custodisce? Possibile che l'archivio segreto di Totò Riina, sparito dal covo di via Bernini e a lui consegnato, sia un formidabile strumento di ricatto con cui garantirsi la latitanza? Possibile che ancora oggi vi sia un "do ut des"? Si potrebbe spiegare in questo modo il motivo per cui il tentativo di eliminazione del magistrato Nino Di Matteo abbia trovato il suo input esternamente a Cosa nostra. E secondo questa chiave di lettura quell'attentato può essere letto come la moneta di scambio utile per prolungare ulteriormente la latitanza. Per questo motivo la guardia non può essere mai abbassata. Quel che appare evidente è che Messina Denaro gode di fortissima protezione. Nel gennaio 2017, il magistrato Teresa Principato, oggi alla Procura nazionale antimafia, quando era procuratore aggiunto a Palermo diede a lungo la caccia al boss trapanese, spiegò in Commissione antimafia che "Messina Denaro è protetto da una rete massonica". Di fronte a questo quadro disarmante la politica cosa fa? In questi anni di Governo di “non cambiamento” abbiamo registrato un certo immobilismo sul fronte della lotta alla mafia. Al di là dei proclami (nel programma stilato da Movimento Cinque Stelle e Pd la lotta alla mafia era relegata ad un miserabile 13esimo posto) c'è stato poco o nulla. Ed ancor più grave è ciò che è avvenuto dopo con il tradimento di Grillo che ha portato i pentastellati al governo accanto a Berlusconi. E il fatto che oggi si parli di una possibile fine per 41 bis ed ergastolo ostativo è l'ennesima prova del disastro. Matteo Messina Denaro non può che esserne felice e vincente perché Cosa nostra ottiene così ciò che ha sempre voluto. La politica non parla della ricerca della verità sulle stragi e sulla trattativa Stato-mafia, di fatto, escludendo i lavori della Commissione parlamentare antimafia, presieduta dal senatore Nicola Morra, è piombato un oscuro silenzio dal giorno della sentenza di primo grado del 20 aprile 2018. In un intervento pubblico a Milano Nino Di Matteo, oggi consigliere togato al Csm, aveva ricordato come “per andare avanti c’è bisogno di tutto e di tutti. Ci sarebbe bisogno di una politica che, non soltanto con la commissione parlamentare antimafia, ma anche con le direttive che i ministri dovrebbero dare alle forze di polizia, spinga per il completamento di quel percorso di verità. E invece quando la magistratura va avanti loro frenano piuttosto che spingere”. Un'inerzia certificata dalla lunga serie di mancati provvedimenti a cominciare dall'incremento delle stesse forze di polizia, necessarie per un'efficace ricerca di latitanti, o quelli per intervenire in materia di carcerario per impedire, nonostante le richieste che arrivano dall'Europa, l'indebolimento del 41 bis. In assenza di misure simili è possibile ipotizzare che vi sia ancora oggi, dopo il sangue versato da martiri ed innocenti, una trattativa in corso tra la politica e Cosa nostra? E' possibile che la stessa si basi su quel "quieto vivere" che trova le sue radici proprio nel patto Stato-mafia stipulato a colpi di bombe tra il '92 ed il '94? I dati raccontano di una Mafia che non è stata sconfitta e che raggiunge profitti pari a circa 150 miliardi di euro l'anno, che è in grado di investire in borsa e di ottenere ingenti capitali grazie al traffico internazionale di stupefacenti. Traffico di stupefacenti che è in mano alla 'Ndrangheta (detiene il monopolio mondiale con un giro d'affari pari a 80 miliardi di euro l'anno) e che incredibilmente entra nel calcolo del Pil, così come viene richiesto dalla stessa Ue. Anche da questo dato si può cogliere il perché, ad oggi, la lotta alla mafia non è vista come una priorità da una politica che resta colpevolmente silente. E' lo specchio di quel che sta accadendo nel nostro Paese in cui la magistratura, sconquassata da recenti scandali giudiziari che hanno coinvolto alcuni rappresentanti, dopo essersi leccata le ferite è riuscita a trovare il coraggio di processare se stessa ed avviare un profondo rinnovamento. Basta osservare le recenti azioni del Consiglio superiore della magistratura. Un organo che abbiamo criticato aspramente in passato, definendolo anche come un Sinedrio, partendo da una serie di interventi sconsiderati rivolti contro i magistrati in prima linea sin dai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Oggi il Csm sta dimostrando di avere un nuovo spirito, cercando di abbandonare le logiche correntizie ed adottando criteri meritocratici nell'assegnazione dei ruoli direttivi, avviando pratiche a tutela nei confronti di magistrati impegnati in delicatissime inchieste, o anche aprendo procedimenti di trasferimento per altri colleghi che si sono resi protagonisti di un modus operandi quantomeno discutibile. Diversamente la politica, marcia nel suo animo, sembra essere allergica alle riforme e all'assunzione di responsabilità. E la dimostrazione è nel dibattito che ancora oggi si manifesta ogni qual volta si parla di riforma della giustizia, di prescrizione, di intercettazioni. O ancora nell'illogica scelta di non inserire la lotta alla mafia ai primi posti dell'agenda politica. In questi anni abbiamo assistito a tante promesse di cambiamento rimaste nell'etere. Abbiamo visto politici onesti, che non sono collusi, essere, loro malgrado, fagocitati o privati di qualsiasi possibilità di azione. E' la logica perversa dei patteggiamenti e delle trattative che lo Stato-mafia conduce nel 21°secolo. Matteo Messina Denaro lo sa bene e ringrazia. Finché non sarà abbattuto il Sistema criminale che infiltra lo Stato la sua latitanza è destinata a durare ancora a lungo!

La voce del boss Matteo Messina Denaro impressa su un nastro magnetico. Ansa / CorriereTv il 12 Agosto 2021. Per la prima volta il Tg1 trasmette un documento audio esclusivo con la deposizione del latitante di Cosa Nostra più ricercato in Italia. 18 marzo 1993, processo Accardo, uno dei tanti processi di mafia nel trapanese. «Senta- gli chiede la pubblico ministero- ricorda se fu sentito dalla squadra mobile di Trapani, dopo la morte di un certo Accardo Francesco da Partanna?». «Guardi- risponde il boss - io, in quel periodo, ho subito decine di interrogatori per ogni omicidio che è successo». Due mesi e mezzo dopo diventerà latitante. La cassetta, custodita nell'archivio del Tribunale di Marsala, è stata trovata grazie al lavoro dell'Associazione Antimafie Rita Atria e della testata "Le Siciliane".

Massimo Arcidiacono per il “Corriere della Sera” il 13 agosto 2021. Dall'archivio del Tribunale di Marsala riemerge la voce di Matteo Messina Denaro, il ricercato numero 1 di Cosa Nostra. È impressa in un audio che il Tg1 ieri sera ha mandato in onda. A ritrovarlo, come sorta di archeologi della memoria, l'Associazione Antimafie Rita Atria e la rivista bimestrale Le Siciliane , dopo una ricerca durata un anno. La registrazione risale al 18 marzo 1993 quando il boss testimoniò al processo Accardo+30 sugli omicidi di mafia a Partanna, dove Messina Denaro già spadroneggiava. Il boss si mostra arrogante, infastidito. La pm fa domande sull'omicidio Accardo, chiede se fosse già stato sentito dalla polizia, lui risponde con distacco: «Guardi, io in quel periodo ho subito decine di interrogatori per ogni omicidio che è successo». È l'ultima volta che metterà piede in un tribunale, ha già partecipato alle stragi di Capaci e via D'Amelio e due mesi dopo si darà alla latitanza. Lo straordinario documento arriva per vie traverse. «Pensavamo - spiega Nadia Furnari dell'Associazione Atria - che la storia di Rita non potesse essere dimenticata. Ci siamo messi al lavoro con l'idea di un libro in cui ricostruire il contesto in cui maturò il suicidio. Cercavamo le dichiarazioni di Rita, non Messina Denaro». Rita Atria si tolse la vita all'indomani della morte di Borsellino, a cui aveva affidato il suo percorso di ribellione, e le sue testimonianze erano proprio nel processo Accardo. «Abbiamo visionato 60 faldoni - ricostruisce Furnari -. A un certo punto tra i testi è comparso il nome del boss e ci siamo accorte che c'erano delle registrazioni». Vecchi Vhs privati del segnale video dai quali non è stato facile salvare quell'audio.  «Sentire la voce di Messina Denaro - ha detto ieri Federico Cafiero de Raho, procuratore nazionale antimafia - è molto importante, acquisire questo tipo di documenti permette di fare confronti». Quei materiali, però, si stanno deteriorando: «Sono in locali umidi, accatastati, servono fondi per salvarli. Lì c'è un pezzo di memoria, la storia della mafia trapanese». Di Messina Denaro e di come è diventato l'inafferrato e spietato erede di Totò Riina.

La voce del super latitante Messina Denaro nella registrazione di un’udienza. Giornale di Sicilia il 12 Agosto 2021. Con un documento audio inedito il Tg1 ha fatto sentire la voce del boss della mafia Matteo Messina Denaro. L'audio risale al 1993, poco prima della latitanza, ed è contenuto in una cassetta che è rimasta "sepolta" per anni nell’archivio del tribunale di Marsala, tornata alla luce grazie all’azione dell’associazione antimafia Rita Atria. In tribunale come testimone, a Messina Denaro viene chiesto se ricorda di essere stato interrogato dalla squadra mobile in seguito a un omicidio a Partanna, nel suo mandamento. "In quel periodo ho fatto decine di interrogatori per ogni omicidio che è accaduto", risponde il boss. In un altro passaggio, Messina Denaro ricorda un episodio: "Stiamo per salire in macchina e l’Accardo mi dice di non prenderla". Dopo aver fatto ascoltare la registrazione, il Tg1 ha intervistato Federico Cafiero de Raho, Procuratore nazionale antimafia. "Sentire la voce di Messina Denaro è qualcosa di molto importante, tuttavia devo dire che nei suoi confronti le indagini si sviluppano da oltre un ventennio, quindi è evidente che Ros, Polizia e Scico hanno documenti anche sonori idonei a fare comparazioni", ha detto De Raho. "E' importante acquisire questo tipo di documenti per fare confronti - ha aggiunto - Le attività sono enormi, negli ultimi anni sono stati arrestati centinaia appartenenti a cosa nostra" legati al boss "e sono quasi 3 mld di euro i beni sequestrati nell’ambito di questa indagine. E’ una rete enorme che si supporta attraverso elementi appartenenti all’organizzazione e che costituisce la rete di fiducia del latitante". In merito alle speranze di catturarlo dopo quasi 30 anni di latitanza, De Raho risponde: "Già due anni fa lo avevo detto, ritenevo che potesse avvenire quell'anno. E’ certo che l'impegno che lo Stato sta investendo è enorme. Ci sono tanti filoni investigativi coordinati dal procuratore distrettuale di Palermo, quindi vi è uno sviluppo investigativo enorme e su questo tutti poniamo grande affidamento".

Matteo Messina Denaro era in Via D’Amelio: lo dice Totò Riina. Analizzando le intercettazioni abbiamo scoperto che Riina indica Messina Denaro tra gli esecutori della strage di Via D'Amelio. Parla anche di un altro uomo che proviene dall’Albania. Ma nelle trascrizioni delle intercettazioni del 2013 c’è un omissis... Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 luglio 2021. Matteo Messina Denaro è stato condannato in primo grado dalla Corte di assise di Caltanissetta per essere stato tra i mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio.

Dalle intercettazioni abbiamo scoperto che Totò Riina lo indica chiaramente. Ma Il Dubbio, analizzando attentamente le intercettazioni di Totò Riina quando era in 41 bis, ha scoperto che il capo dei capi ha chiaramente indicato il superlatitante Messina Denaro, “quello della luce”, così lo definisce, tra gli esecutori della strage di Via D’Amelio nella quale perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Era lì. Tanto che Riina gli ha dato ordine di tenersi preparato. Le intercettazioni di Totò Riina offrono nuovi spunti. Tra le sue parole c’è la chiave di volta del movente delle stragi (che non è la “trattativa” visto che la smentisce diverse volte), omicidi eccellenti commessi, ma anche di come hanno operato per compiere gli indicibili attentati.

Totò Riina parla di un altro uomo proveniente dall’Albania. La strage di Via D’Amelio è stata descritta da Riina a più riprese durante i suoi colloqui con il compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso. Parla anche di un altro uomo, tra gli esecutori, che proviene dall’Albania. Ma nelle trascrizioni delle intercettazioni del 2013 c’è un omissis. Per capire il riferimento alla partecipazione esecutiva di Matteo Messina Denaro alla strage di Via D’Amelio, bisogna contestualizzare.

Matteo Messina Denaro conosce bene i meccanismi decisionali di Cosa nostra. Il superlatitante appartiene a una generazione più giovane rispetto a boss come Totò Riina e Bernardo Provenzano, secondo alcuni non avrebbe più alcun ruolo all’interno di Cosa Nostra, ma è certamente l’ultimo grande latitante della mafia siciliana. Non solo.

Conosce bene i meccanismi decisionali dell’organizzazione visto che ha partecipato alle riunioni, ha contribuito al famoso tavolino a tre gambe (mafia, imprenditori e politici) per la spartizione degli appalti pubblici e custodisce, quindi, i moventi che dettero impulso alla stagione stragista.

Il superlatitante figura centrale nel processo per gli attentati stragisti tra il ’93 e il ’94. La Procura di Caltanissetta, in particolar modo grazie al magistrato Gabriele Paci, ha avuto il merito di attenzionare la figura di Messina Denaro rimasto fino a poco tempo fa estraneo ai processi nei confronti di mandanti ed esecutori delle stragi siciliane del ’92.

Da ricordare che il latitante è stato già figura centrale nel processo svoltosi avanti la Corte d’Assise di Firenze ed avente ad oggetto gli attentati stragisti commessi da Cosa nostra “nel continente” tra il ’93 ed il ’94, all’esito del quale venne condannato all’ergastolo per i reati di strage e devastazione.

Designato dal capo dei capi a fare il “reggente” della provincia di Trapani. Grazie ad un’attenta rilettura degli atti giudiziari, si è potuto ricostruire il fatto che in rappresentanza della provincia di Trapani, l’attuale super latitante è stato designato da Totò Riina – a seguito del progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del padre, Francesco Messina Denaro, storico uomo d’onore trapanese, rappresentante della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano – a svolgere le funzioni di “reggente” della provincia sin dai tempi della guerra di mafia di Partanna deflagrata nell’87 e conclusasi nel ’91, e dunque ben prima della consumazione degli eventi stragisti del ’92.

Messina Denaro per Riina era “quello della luce”, perché si interessava all’eolico. «Si, si, ci combattono da diversi anni con questo Gricoli (ex braccio destro economico di Messina Denaro, ndr) perché sempre … hanno detto … prestanome di … piritumpiti … piritampiti…, pali, pali e pali … pali e pali … sempre a pali vanno …, sempre pali di luce».

È Totò Riina che parla. Lo fa riferendosi a Matteo Messina Denaro, sul fatto che si sia dato allo sfruttamento della green economy. Ovvero all’energia eolica. Riina ce l’ha particolarmente con Messina Denaro per il fatto che si sia dedicato all’eolico. “I pali della luce”, li chiama. E fa una provocazione: «Io …visto che questo è cosi intelligente, così stravagante … solo … com’è che non me lo ha passato a me questo discorso di fare pali della luce? Perché io ho terreni là … ho dei terreni che sono i migliori che ci sono là … non è che gli sembra che sono terreni che non valgono niente. Lui si faceva vendere il posto del terreno, e lui sicuramente non aveva niente altro. Perché non mi faceva, non mi diceva di fare questi pali, di questi pali della corrente?».

Nelle intercettazioni Riina non nasconde la sua delusione per il suo ex pupillo. Riina, a più riprese, ritorna su Matteo Messina Denaro. Sembrerebbe proprio che non gli sia andata giù che il suo pupillo (dalle intercettazioni che non riportiamo per motivi di spazio, si evince che aveva molto puntato su di lui per rispetto del padre) abbia deciso di dedicarsi a questo business. «Stravagante quello e quello … quello dei pali della luce più stravagante ancora di lui. Però sono tutti stravaganti», qui Totò Riina indica Messina Denaro inequivocabilmente come “quello dei pali della luce”. «Ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse», dice sempre Riina in 41 bis. «No, ma per dire che questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque. Fa luce. Fa pali per prendere soldi, per prendere soldi». Totò Riina è chiaramente infervorato con Messina Denaro, perché «si è messo a fare la luce!». Davvero una delusione per lui, che cercava invece un prosecutore della sua strategia stragista.

Il capo dei capi racconta di come ha organizzato la strage di Via D’Amelio. Ma ora veniamo al dunque. Come detto, Totò Riina a più riprese parla anche della strage di Via D’Amelio. Racconta di come è riuscito ad organizzare l’attentato in tre o quattro giorni, perché qualcuno gli disse di fare presto. Non in due giorni, ma tre o quattro giorni.

Importante il numero, perché sarebbe interessante capire cosa ha detto o fatto Borsellino qualche giorno prima, tanto da mettere in allarme quel “qualcuno” che poi ha avvisato Riina di fare presto. Forse Borsellino qualche giorno prima si è esposto in maniera plateale?

Riina ribadisce che “quello della luce” era in Via D’Amelio. Giungiamo ora al punto cruciale. Riina, ai colloqui del 6 agosto 2013, ad un certo punto dice: «Minchia, cinquantasette giorni (i giorni che passano dalla strage di Capaci a quella di Via D’Amelio, ndr). Minchia, la notizia l’hanno trovata là, da dentro l’hanno sentita dire che domenica deve andare (Borsellino, ndr) da sua madre, deve venire da sua madre. Gli ho detto: allora preparati, aspettiamolo lì. A quello della luce… anche perché … sistemati, devono essere tutte le cose pronte. Tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: se serve mettigli qualche cento chili in più». Ora sappiamo, che “quello della luce” è Matteo Messina Denaro. Difficile dare altra interpretazione. Totò Riina ha detto a “quello della luce” che doveva prepararsi, sistemare, farsi ritrovare pronti e se serve, di mettere altro esplosivo in più. Si riferisce alla Fiat 126 imbottita con 100 kg di tritolo che i mafiosi hanno parcheggiato sotto l’abitazione della madre. «Però io ci combattevo, tre giorni, quattro giorni la macchina messa là, andavo a cambiare il posteggio», dice Riina. «Quando io dico che uno deve lavorare! Deve lavorare perché deve capire che se ti serve un posto vicino alla portineria, lo devi lavorare, lo devi cercare, ci devi “combattere” (perdere tempo ndr) te lo prendi, te lo prendi e te lo conservi, metti la macchina», prosegue Riina.

E spunta “quello dall’Albania” esperto di esplosivo. «Esci con una macchina e ci metti quella. E poi vai a trovarlo, vai a cercarlo, …. come quello che venne solo dall’Albania… vallo a trovare un esperto come questo», dice ancora Riina. A chi si riferisce? Chi è quello che venne dall’Albania? Potrebbe essere l’uomo che Spatuzza non riconobbe al garage di via Villasevaglios dove è stata imbottita la macchina? Riina aggiunge: «Ai domiciliari a Palermo, ci vuole fortuna». Chi era? C’è un proseguo, ma è omissato. Forse in quell’omissis si potrebbe trovare una risposta.

Un ricordo del giudice del primo maxiprocesso Alfonso Giordano. Questa inchiesta la dedichiamo al giudice Alfonso Giordano scomparso oggi all’età di 92 anni. È stato il presidente della Corte del primo maxiprocesso. Per la prima volta è stata processata e condannata la mafia. Un uomo coraggiosissimo, accettò l’incarico per gestire il dibattimento, dopo che ben 10 colleghi l’avevano rifiutato, e per bene. Nonostante ciò è rimasto umile fino all’ultimo.

«Messina Denaro era in via D’Amelio»: ora la procura di Caltanissetta vuole vederci chiaro. Dopo l’esclusiva de Il Dubbio sulla presenza di Messina Denaro in Via D’Amelio i magistrati nisseni hanno deciso di riascoltare le intercettazioni di Riina. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 13 luglio 2021. La Procura di Caltanissetta, dopo l’esclusiva de Il Dubbio sulla presenza del superlatitante Matteo Messina Denaro in Via D’Amelio, sta svolgendo alcuni accertamenti. Ricordiamo che Il Dubbio ha scartabellato attentamente tutte le intercettazioni di Totò Riina avvenute nel 2013 durante la permanenza in regime di 41 bis in carcere. Lo indica come “quello della luce”, perché si interessava del mercato e gli appalti sull’eolico.

Per Totò Riina è “quello della luce”. Durante i colloqui del 6 agosto 2013, l’ex capo dei capi afferma chiaramente: «Minchia, cinquantasette giorni (i giorni che passano dalla strage di Capaci a quella di Via D’Amelio, ndr). Minchia, la notizia l’hanno trovata là, da dentro l’hanno sentita dire che domenica deve andare (Borsellino, ndr) da sua madre, deve venire da sua madre. Gli ho detto: allora preparati, aspettiamolo lì. A quello della luce… anche perché … sistemati, devono essere tutte le cose pronte. Tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: se serve mettigli qualche cento chili in più».

I magistrati nisseni riascolteranno il file audio originale. Una frase “spezzata”, dicono dalla procura di Caltanissetta, su cui verranno eseguiti degli accertamenti, tra cui il riascolto del file originale, anche per valutare la corrispondenza tra quanto detto, in siciliano, dal capo dei corleonesi e il testo riportato nelle trascrizioni.In ogni caso, chiariscono dalla procura, qualsiasi sia l’esito, cambierebbe poco dal punto di vista processuale, visto e considerato che il latitante Matteo Messina Denaro, lo scorso anno, è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale di Caltanissetta come mandante delle Stragi del ’92 di Capaci e via D’Amelio.

E restano gli omissis su “quello che venne dall’Albania”. Ci auguriamo, però, che venga riascoltato anche il file audio originale dove Totò Riina indica anche un altro uomo che potrebbe aver preparato l’attentato insieme a Messina Denaro e gli altri già condannati, forse imbottendo di tritolo la Fiat 126: ma in quelle intercettazioni c’è un omissis proprio in quella parte. «Quello che venne solo dall’Albania…vallo a trovare un esperto come questo», ha detto Totò Riina.

Morto Antonio Vaccarino, l’uomo che voleva far catturare Messina Denaro. Antonio Vaccarino, che per 30 anni ha subito un accanimento giudiziario, era in carcere con gravi patologie in attesa di giudizio. A Catanzaro ha contratto il Covid, le innumerevoli istanze di domiciliari sono state respinte, tranne l’ultima che è arrivata troppo tardi. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 20 maggio 2021. È morto dopo trent’anni di accanimento giudiziario, così lo definiscono i suoi avvocati, in particolar modo l’avvocata Giovanna Angelo che lo ha assistito per vent’anni. Parliamo dell’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, morto in ospedale dove era stato trasferito di urgenza dopo che il Covid, contratto nel centro clinico del carcere di Catanzaro, ha peggiorato il suo stato clinico già precario. E pensare che, dopo innumerevoli istanze per differimento pena, finalmente i giudici gli hanno concesso i domiciliari. Sì, ma dopo che oramai non c’era più nulla da fare.

Vaccarino aveva gravi patologie cardiache. «Nonostante tutto – spiega l’avvocata Giovanna Angelo con un animo scosso dall’accaduto -, il professor Vaccarino credeva nelle istituzioni, è sempre stato disponibile con la giustizia, ha dato tutto sé stesso per poter essere utile alla cattura del latitante Matteo Messina Denaro». Eppure, il paradosso vuole che è stato recentemente condannato in primo grado per aver addirittura favorito la latitanza del boss da poco condannato per essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Per questo motivo, da oltre un anno e mezzo, all’età di 76 anni e con gravi patologie cardiache, era in carcerazione preventiva.

Nel centro clinico del carcere di Catanzaro ha contratto il Covid. Era in carcere nonostante fosse affetto da cardiopatia ischemica, ipertensione arteriosa, aritmia per fibrillazione atriale persistente. Come avevano scritto, nelle continue istanze, i suoi avvocati Laura Baldassarre e Giovanna Angelo, «il mancato impianto di pacemaker, consigliato dai periti, e la somministrazione del farmaco Cardior stava esponendo l’uomo ultrasettantenne a rischio blocco cardiaco e, conseguentemente, la morte». Poi è arrivato il Covid che ha infestato il carcere di Catanzaro. Ma si era detto che il centro clinico fosse al sicuro. Invece, alla fine, il terribile scherzo del destino: tra i detenuti del centro, Vaccarino è stato l’unico a subire il contagio.

Le istanze di domiciliari sono state sempre rigettate. Nella penultima istanza, gli avvocati hanno chiesto subito un trasferimento a casa, perché gli stessi medici del carcere hanno detto chiaro e tondo che non sarebbero stati in grado di assisterlo. Eppure la Corte ha rigettato e indicato il trasferimento presso un carcere adeguato. Operazione impossibile. Passano i giorni, fin quando il detenuto Vaccarino viene trasferito in ospedale a causa dell’aggravarsi delle sue condizioni cliniche. Ricoverato in terapia sub intensiva, la Corte d’appello di Palermo, presieduta dalla giudice Adriana Piras, accoglie finalmente l’istanza urgente di concessione dei domiciliari presentata dai suoi difensori, rilevando che sono venute meno le esigenze cautelari. Ma a casa non ci andrà più. Troppo tardi, perché alla fine muore, da solo, sul letto di un ospedale. Parliamo dell’ennesimo arresto che ha subito nella vita. Sei anni di carcere per concorso in rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento con l’aggravante mafiosa, con il coinvolgimento nella vicenda di due carabinieri. Secondo l’accusa – dalla quale scaturì il processo terminato con la sentenza di condanna emessa lo scorso 2 luglio dal Tribunale di Marsala – l’ex sindaco di Castelvetrano avrebbe rivelato a un condannato per mafia il contenuto di un’intercettazione ricevuta da un colonnello della Dia. Quest’ultimo è l tenente colonnello dei carabinieri Marco Alfio Zappalà, colui che lavorava per conto della Procura di Caltanissetta. E proprio lui, coordinato dalla procura, si era rapportato con Vaccarino proprio per avere materiali, che hanno contribuito alla condanna del superlatitante Matteo Messina Denaro.

L’accusa di favoreggiamento su intercettazioni insignificanti. C’è il giornalista Gian Joseph Morici, direttore del giornale on line La valle dei Templi, gran conoscitore delle vicissitudini giudiziarie di Vaccarino, che evidenzia come «né l’uomo al quale Vaccarino avrebbe rivelato i contenuti dell’intercettazione, né i soggetti intercettati, erano indagati, e – particolare di non poco conto – i contenuti di quell’intercettazione apparivano del tutto insignificanti ai fini delle indagini sul latitante Matteo Messina Denaro». Non si comprende, quindi, come possa essere valutata come prova di chissà quale favoreggiamento. Eppure la condanna, seppur ancora di primo grado, arriva.

Recluso a Pianosa per le accuse di un pentito rivelatosi inattendibile. Ma com’è detto, Vaccarino è stato già vittima di malagiustizia nel passato, tanto da finire recluso ingiustamente nel supercarcere di Pianosa subendo indicibili torture. Finì lì dentro per associazione mafiosa grazie alle parole di un pentito – tale Vincenzo Calcara – che in seguito sarà dichiarato inattendibile da diversi tribunali. Vaccarino verrà assolto per l’accusa di 416 bis. Gli era rimasta quella sul traffico di droga, ma di recente è stata accolta la richiesta di revisione del processo perché l’accusa si era basata sempre sulle parole di Calcara. L’avvocata Giovanna Angelo che ha lavorato per quella revisione fin dal 2011. Alla fine è riuscita a ottenerla. Vaccarino è morto, ma molto probabilmente i familiari decideranno di proseguire. Non per giustizia, alla quale comprensibilmente non ci credono più, ma per una questione di “dignità”.

Collaborò con i Servizi per catturare Messina Denaro. Ricordiamo che Vaccarino, nei primi anni del 2000 ha collaborato con i servizi segreti capitanati da Mario Mori per la cattura di Matteo Messina Denaro. Operazione vanificata dopo una fuga di notizie. Il dramma è che per quella collaborazione, chiara e con un fine genuino, ancora oggi c’è chi la tira fuori adombrando ombre. Parliamo in realtà di una operazione d’intelligence durata dai primi di ottobre 2004 fino a una buona parte del 2006. In sostanza Vaccarino era riuscito a intraprendere dei contatti epistolari con il latitante. Poi tutta l’operazione si fermò quando ci fu una fuga di notizie e un’indagine – poi subito archiviata – della procura di Palermo proprio sul fatto che Vaccarino scrivesse i pizzini al superlatitante firmandosi “Svetonio”, pseudonimo indicato proprio da Matteo Messina Denaro.

Una fuga di notizie fece saltare la copertura di Vaccarino. La fuga di notizie svelò tutto e la copertura di Vaccarino saltò. Dopo qualche tempo, esattamente il 2 novembre del 2007, giunge a Vaccarino l’ultima lettera – ma questa volta minacciosa e rabbiosa – di Matteo Messina Denaro. «Non ha neanche da sperare in una mia prematura scomparsa o nel mio arresto – scrive il super boss nella parte conclusiva della lettera – perché qualora accadesse una di queste ipotesi, per lei nulla cambierebbe, in quanto la sua illustre persona fa già parte del mio testamento, ed in mia mancanza verrà sempre qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti, comunque vada lei o chi per lei pagherà questa cambiale che ha forsennatamente firmato. Lei è un essere snaturato che non ha voluto bene neanche alla sua famiglia, si vergogni di esistere».

Matteo Messina Denaro avrà accolto bene la sua morte. Ora che Vaccarino è morto, e la sua famiglia è distrutta dal dolore, sicuramente Matteo Messina Denaro ha accolto con gioia la sua dipartita. Era quello che sperava. Mentre l’avvocata Giovanna Angelo lo ricordo al Dubbio con un commovente messaggio: «Castelvetrano e le Istituzioni tutte abbiamo perso una persona eccezionale. Un Uomo che ha fatto dell’onestà, della correttezza e dell’amore per il prossimo il suo stile di vita. È stato il professore di tutti, il professore di quanti abbiamo avuto il privilegio di stare al suo fianco. Conosco il professore Vaccarino da oltre venti anni. È stato sempre un grande esempio per noi e ci ha lasciato un patrimonio morale immenso. Nonostante le grandi ingiustizie subite ha sempre creduto nelle Istituzioni e nella Giustizia. Mi diceva sempre “bisogna credere nella Giustizia e lottare per la Verità anche a costo della vita”. Che Dio perdoni chi si è reso responsabile di una tale ingiustizia». A proposito di giustizia c’è la quarta beatitudine del Vangelo che recita così: «Beati gli affamati e gli assetati di giustizia perché saranno saziati». Da tempo il giornalista Frank Cimini, che grazie al prolungato contatto con i magistrati, ha preso in prestito questa beatitudine del Vangelo per coniare una nuova massima che, anche in questa terribile vicenda, trova fondamento: «Beato chi ha fiducia nella giustizia perché sarà giustiziato».

Anticipazione da “Oggi” il 12 maggio 2021. Il superboss Matteo Messina Denaro, potrebbe nascondersi a Dubai. Lo scrive il settimanale OGGI, che pubblica un'inchiesta sui latitanti italiani nella città degli Emirati. Alcuni espatriati italiani, uno dei quali vicino ad ambienti governativi, hanno detto che Messina Denaro un tempo conosciuto col soprannome di U Siccu, il magro, oggi all'età di 59 anni sarebbe ingrassato, quasi completamente calvo, e impossibile da riconoscere. La presenza a Dubai del capo dei capi di Cosa Nostra, secondo una delle fonti del settimanale, sarebbe risaputa anche a Roma in ambienti investigativi e politici. Il boss disporrebbe di un autentico passaporto italiano a controllo biometrico, in cui sarebbero riportate ovviamente false generalità, viaggerebbe molto, e da quando è iniziata la pandemia, nessuno più lo avrebbe visto in circolazione a Dubai. Gli altri latitanti italiani invece preferiscono non muoversi. Un trattato per l'estradizione tra Italia ed Emirati esiste dal 2018, ma le condizioni per applicarlo sono talmente complesse che finora è rimasto lettera morta, lasciando praticamente invariate le condizioni per la permanenza di personaggi come il trafficante di droga Raffaele Imperiale, il cognato di Fini Giancarlo Tulliani inseguito da ordini di cattura per riciclaggio, o il nobile milanese Alberico Cetti Serbelloni, condannato per un'evasione fiscale da un miliardo di euro.

Storie. Chi è Messina Denaro il latitante inafferrabile. Rossella Grasso su Il Riformista il 17 Ottobre 2019. Di covi, fughe, "pizzini", catture mancate e dichiarazioni di pentiti è costellata la sua interminabile latitanza. Matteo Messina Denaro, nato a Castelvetrano in provincia di Trapani nel 1962 è ricercato dal 1993, condannato a scontare l’ergastolo per associazione di tipo mafioso, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto ed altro. Detto Diabolik o ‘u siccu’ per la sua costituzione fisica esile, è forse il capo indiscusso della mafia trapanese, secondo Forbes è nell’elenco dei dieci latitanti più pericolosi del mondo e sicuramente tra i più ricchi di tutta la Sicilia. Da ‘fantasma’ ha continuato a gestire gli illeciti tramite suoi fiduciari e i "pizzini" passati di mano in mano. Secondo gli inquirenti potrebbe essere l’ultimo capo di Cosa Nostra dopo la cattura e la morte di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Messina Denaro eredita da suo padre Francesco lo scettro di capo della cosca di Castelvetrano e del relativo mandamento quando morì nel 1998 mentre era in latitanza. La prima denuncia per associazione mafiosa arrivò per lui nel 1989, e nel 1992 si rese responsabile dell’omicidio di Nicola Consales, proprietario di un albergo di Triscina. L’uomo aveva assunto la fidanzata di Messina Denaro, un’austriaca, e si fece scappare qualche commento negativo sul suo lavoro e sulla presenza di personaggi del malaffare intorno a lei. Il mafioso non lo tollerò e lo uccise. Dal ’92, Messina Denaro iniziò a far parte di un gruppo di fuoco, composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani, inviato a Roma per compiere appostamenti nei confronti di Maurizio Costanzo e per uccidere Giovanni Falcone e il ministro Claudio Martelli. Erano quelli gli anni in cui Totò Riina, ‘il capo dei capi’, ordinava ai suoi di uccidere tutti quelli che dicevano anche una sola parola contro il sistema mafioso: showman, giudici, forze dell’ordine o persone comuni, nessuno escluso. Qualche tempo dopo Riina fece tornare il gruppo in Sicilia perché voleva che l’attentato a Falcone fosse eseguito diversamente. Messina Denaro compare, come richiesto dalla procura di Caltanissetta, tra i mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio nel quale persero la vita il giudice Falcone e la moglie, e il collega Paolo Borsellino insieme  agli uomini delle loro scorte. Dall’anno successivo è ricercato per aver commesso quattro omicidi. Quando Riina fu arrestato nel 1993, Messina Denaro continuò nell’organizzazione di attentati dinamitardi, come quelli di Firenze, Milano e Roma, che provocarono in tutto dieci morti e 106 feriti, compresi danni al patrimonio artistico. Nel novembre 1993 Messina Denaro fu tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo per costringere il padre Santino, tra i primi pentiti a iniziare a svelare la verità sulle stragi di Capaci, a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci. Dopo 779 giorni di prigionia, il piccolo Di Matteo venne brutalmente strangolato e il cadavere buttato in un bidone pieno di acido. Aveva solo 12 anni. Dopo la cattura di un altro illustre padrino della mafia, Bernardo Provenzano, l’attenzione degli investigatori si è concentrata su di lui. Nel nascondiglio di Provenzano infatti gli inquirenti trovarono numerosi ‘pizzini’ mandati da “Alessio”, nome con il quale si firmava Messina Denaro, nei quali si parlava degli investimenti proposti da Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, ma anche di altri affari in attività lecite, come l’apertura di una catena di supermercati nella provincia di Agrigento e la ricerca di qualche prestanome per poter aprire un distributore di benzina nella zona di Santa Ninfa, in provincia di Trapani. Secondo alcune intercettazioni in carcere di colloqui di Totò Riina, sarebbe stato proprio lui, il "capo dei capi" a crescere Matteo Messina Denaro, accusandolo tuttavia di aver abbandonato gli interessi di Cosa Nostra per pensare solo a se stesso e alla sua fuga. Per dargli la caccia lo Stato ha già investito decine di milioni, indagini che finora hanno portato a oltre cento arresti di familiari, tra cui la sorella, complici, fiancheggiatori e mafiosi vari, senza però mai sfiorarlo. Gli inquirenti avrebbero puntato a fare terra bruciata intorno a lui lasciandolo solo nella sua fuga. Secondo quanto affermato da alcuni pentiti oggi Messina Denaro sarebbe irriconoscibile perché si sarebbe sottoposto a una plastica al volto e ai polpastrelli per non essere mai identificato. Solo un esame del DNA potrebbe confermare la sua identità.

Gianmarco Oberto per leggo.it il 23 marzo 2021. Conduceva una vita lontana dalle sue origini. Via dalla Sicilia, da quella Castelvetrano dove era nato 37 anni fa e dove sarebbe stato per sempre il nipote del boss superlatitante, l’ultima primula rossa di Cosa Nostra: Matteo Messina Denaro, condannato per le stragi del ‘92, uccel di bosco dal ‘93, con solo una vecchia foto sbiadita che gli investigatori della Dda si rigirano tra le mani da quasi 30 anni. Gaspare Allegra si era laureato in legge e si era trasferito al Nord, ad Albairate, alle porte di Milano. E faceva l’avvocato. È morto domenica, durante un’escursione in montagna nel Lecchese. La tragedia si è compiuta poco dopo le 14,30. Gaspare era con il fratello minore Francesco sulla Grigna Settentrionale, a 1600 metri di quota, nella zona della Bocchetta di Prada, tra i Comuni di Mandello ed Esino Lario. Un’escursione domenicale, in piena zona rossa e quindi in realtà vietata, senza scarpe adatte né attrezzatura. Mentre la coppia stava raggiungendo il rifugio Bietti Buzzi, Gaspare è scivolato - forse a causa della neve ancora presente sul pendio - in un canalone impervio. Il fratello lo ha visto precipitare e ha dato l’allarme. Le ricerche degli uomini del soccorso alpino della Valsassina e Valvarrone sono state lunghe e complicate. Solo dopo diverse ore l’elicottero di Areu alzatosi in volo da Como ha individuato il corpo in fondo al canalone, scivolato per oltre trecento metri. Per il 37enne non c’era più nulla da fare: i soccorritori hanno potuto solo recuperare la salma e trarre in salvo il fratello, illeso e sotto choc. Gaspare era figlio di Giovanna Messina Denaro, sorella di Matteo, e di Rosario Allegra, detto Saro, morto a 65 anni il 13 giugno 2019 nell’ospedale di Terni, trasportato dal penitenziario dove era detenuto al 41 bis. Saro era in carcere nella città umbra dall’aprile 2018, da quando era stato arrestato nell’ambito di una operazione antimafia con altre persone, tra cui il cognato Gaspare Como, marito di Bice Messina Denaro, altra sorella del boss latitante. Rosario Allegra è stato più volte condannato per vari reati, tra cui estorsione e danneggiamenti, «partecipe a pieno titolo - secondo i magistrati - alle attività dell’associazione mafiosa Cosa nostra operante nel territorio di Castelvetrano».

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2021. «Ammia?». Al commissariato di Castelvetrano non potranno dimenticare mai la più stupefacente lagnanza ricevuta dalla notte dei tempi. A protestare con la polizia, quel giorno del dicembre 1991, si presentò infatti Matteo Messina Denaro, detto «U Siccu». Quello che sarebbe diventato il capo dei capi e tra i criminali più ricercati del mondo. Era allora un giovanotto smilzo sulla trentina, che sarà descritto anni dopo, in base all' ultima foto prima che sparisse, come elegantissimo nella giacca nera, camicia di seta sbottonata, sigaretta, sorrisetto, occhiali da sole a goccia fissi sul naso per una malattia a un occhio attribuita anche all' abuso di videogiochi. Aveva già le mani sporche di sangue, diranno le inchieste e le sentenze giudiziarie dopo aver ricostruito la sua scalata ai vertici delle cosche sotto Totò Riina. Ma poteva ancora essere scambiato, pur essendo figlio d'un uomo di mafia, Francesco «Ciccio» Messina Denaro, per un bullo. Un «pupiddu» alla moda, cui piacevano lo champagne, la dolce vita, le belle donne. Per questo era lì al commissariato: per lamentarsi della visita che l'allora capo della mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, in trasferta a Vienna, aveva appena fatto alla sua «fidanzata» Andrea Haslehner, una bella e alta austriaca bionda che lui chiamava Asi e che d'estate si trasferiva come concierge, interprete, barista, al Paradise Beach Hotel di Selinunte, vicino a Castelvetrano. Scopo dell'interrogatorio viennese, a vuoto per i silenzi, i «non ricordo» e le ambiguità della donna: capire i rapporti tra lei e Nicola Consales, il vicedirettore dell' hotel ucciso mesi prima. Perché aveva osato corteggiarla, pare, sotto il naso del boss in ascesa. Fu un errore, per «U Siccu» non ancora latitante, lagnarsi per «i fastidi» dati all' amica viennese? Sì. Ma era anche un modo, forse, per intimidire quanti indagavano su di lui. Certo, a sentire Massimo Russo, il pm che ha dedicato alla caccia al boss tutta la sua vita «ininterrottamente» dal 1994 al 2007, un momento chiave. Uno dei tanti messi a fuoco dal podcast d' inchiesta Armisanti! Vite mafiose e morti ordinarie dell' inviato delle Iene Gaetano Pecoraro e Alessia Rafanelli, su audible.it (Amazon) dal 29 marzo. Cosa sia un podcast lo sapete: è una specie di audio-libro ma a differenza dei libri tradizionali letti da un doppiatore o dallo stesso scrittore, è arricchito come in questo caso da suoni, musiche (di Donato Di Trapani e Francesco Vitaliti), rumori, canzoni, registrazioni di tiggì, testimonianze processuali, voci stesse dei protagonisti, tra cui la stessa Lorenza Santangelo, la madre di «U Siccu»: «Un giornalista che viene a fare a casa mia? Qua non c' è nessuno. Che interesse vi pigghiate?» Cosa significhi «Armisanti» lo spiega l'autore: «In siciliano sono le "Anime Sante". Sia quelle che in vita hanno sparso sangue e dolore, come Bernardo Provenzano, Tommaso Buscetta, Gerlando Alberti jr, Matteo Messina Denaro e Antonino Madonia, sia quelle delle loro vittime che pretendono ancora di avere giustizia». Come quelle raccontate nelle nove puntate del podcast. Tra le quali il chirurgo Attilio Manca «suicida» probabilmente dopo aver operato e salvato Provenzano o appunto Nicola Consales. Ammazzato a Palermo a fucilate, mentre rientrava a casa da Selinunte, il 21 febbraio di trent' anni fa. Ricorda la sorella Antonella: «Stava per essere nominato direttore perché il suo capo stava per trasferirsi in un' altra struttura. Lo vedevo un po' turbato però. Gli dissi: Ninni, non sei contento? E lui: "No, tanto contento non sono"». A turbarlo, racconta Massimo Russo, era stata una frase sfuggita a Nicola, uomo puntuale, preciso, estraneo alla mafia, esperto di turismo, già responsabile di altri alberghi italiani, un giorno d' estate in cui Matteo Messina Denaro, come spesso faceva, era steso ai bordi della piscina contornato da altri «pupiddi» e belle ragazze cui offriva generosamente champagne senza mai pagare: «Se fosse diventato direttore, disse, avrebbe cacciato quei quattro mafiosetti». «U Siccu» lo sentì. O fu informato da altri nei dintorni. Certo è che la prese come un'offesa personale. Confermerà al processo il pentito Francesco Geraci: «Matteo mi disse che il vicedirettore aveva detto che ci avrebbe cacciati via, e lui si era incavolato». Non bastasse, quel vicedirettore in giacca e cravatta pareva avere un debole per quella ragazza austriaca che interessava al giovane boss: «Quando si andava al Paradise Beach», insiste Geraci nell'audio, «lei veniva al tavolo, stava lì». Vero? Falso? «Secondo me mio fratello era interessato a lei, credo però che avesse capito che si stava cacciando in una cosa strana», risponde Antonella. Fatto è che «il giorno dopo la morte di Nicola ci è arrivata a casa una telefonata davvero strana... Era la voce di una ragazza che piangeva disperata e diceva "Ma è vero? È vero? Ninni è morto?". Poi arrivò un telegramma: "Perdona come sai fare tu chi ha sbagliato"». Pensò ad Andrea, la fidanzata austriaca? «Assolutamente sì». Perquisendo la camera 120 di Nicola dopo l'omicidio, fu trovata in cassaforte la chiave della 122, di Andrea Haslehner. E una ricevuta che rivelava come l'uomo fosse andato a Vienna. A trovare la donna? Salta fuori che «Asi» è l'amica del boss trapanese. Al capo della Mobile venuto a interrogarla in Austria, ricorda Massimo Russo, «conferma d' avere un rapporto con Matteo, ma esclude di aver mai incontrato Consales. Attenzione a questo passaggio: "Sì, sto con Matteo". Ma lei conosce Consales? "Si è il mio direttore". Consales è mai venuto a Vienna? "Mai"». Falso. C'è praticamente tutto, nel podcast Armisanti!. L' ascesa del capomafia, la catena di delitti, gli attentati del 1993 nell' estate in cui Matteo e Andrea erano a Forte dei Marmi, la bomba a Maurizio Costanzo, il «suggerimento» ai parenti di Consales di non costituirsi parti civili contro il mandante dell'assassinio, le bugie della ragazza viennese al pm Massimo Russo («algida, distaccata, glaciale, una vera mafiosa») che l'interrogava... È riuscito anche a trovarla, Gaetano Pecoraro, quella donna dei misteri. Ha cambiato nome, si è sposata, si chiude a riccio... Squillo del telefono: «Hallo?». «Andrea Thol?». «Sì?». «Sto raccontando la storia di Nicola Consales...». «Chi è Nicola Consales?».

Le Segnalazioni.

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it – articolo del 7 settembre 2022

Qualche tempo fa, un papà che prendeva il gelato sul lago di Como con i suoi bambini estrasse di scatto il telefonino dalla tasca e fotografò di nascosto un signore seduto ad un tavolino. "Sono sicuro che sia Messina Denaro", sussurrò a una pattuglia. Più o meno negli stessi giorni, una telefonata anonima segnalava ai carabinieri la presenza del superlatitante all'ospedale Bonino Pulejo di Messina.

 Nessuna soffiata, era un paziente che diceva di essere anche lui "sicuro" di aver visto la primula rossa di Cosa nostra. E partirono le verifiche, un ufficiale del Ros indossò anche il camice bianco e lo stetoscopio per filmare il sospettato. Ma non era Messina Denaro. Né a Messina, nè sul lago di Como.

[…] Alla procura di Palermo, c'è un armadio pieno di segnalazioni e di foto inviate da gente di tutte le età, da Nord a Sud. Qualcuno palesemente mitomane, come il cartomante che due estati fa fece il giro delle caserme di Palermo per dire che conosceva il posto esatto dove si nascondeva il padrino di Castelvetrano. […] Mesi fa, un "onesto cittadino di Roma", come si firmava, segnalò che la presunta primula rossa prendeva ogni mattina la metropolitana: si infilava alla stazione Termini e usciva alla Basilica di San Paolo. Un giorno, "l'onesto cittadino" pedinò pure quel signore che vedeva ogni mattina. Un altro abbaglio metropolitano. Ma le segnalazioni sono arrivate anche dall'estero.

All'ambasciata italiana a Washington arrivò la telefonata di una signora di Denver, Colorado, che chiedeva di parlare con un funzionario per rivelare una sconvolgente verità. "Ho scoperto che mio marito, di origini siciliane, è il ricercato Messina Denaro", disse tutto d'un fiato. Il funzionario prese nota, chiese telefono e indirizzo della signora. E dopo avere verificato che effettivamente la donna era sposata con un italiano e che la coppia abitava all'indirizzo segnato sul suo notes non perse altro tempo e inviò il suo telex urgente a Roma. Qualche ora dopo, emerse che la signora, una ballerina di lap dance, voleva solo vendicarsi del marito dopo aver scoperto una sua tresca. Un altro fascicolo archiviato.

[…]

Il Documento di Identità.

Matteo Messina Denaro si muoveva in tutta la Sicilia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Gennaio 2023.

Matteo Messina Denaro aveva anche un’ulteriore identità falsa (si faceva chiamare Francesco) e viveva stabilmente a Campobello di Mazara da almeno 4 anni. È quanto hanno accertato lo S.C.O. il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato e la Squadra Mobile di Trapani.

La posizione di Andrea Bonafede ( quello vero ) che aveva ceduto la sua identità a Matteo Messina Denaro si complica ogni giorno di più, ed ha l’aria di poter diventare la prima puntata di una lunga serie, . È comprovato che l’ Alfa Romeo Giulietta ritrovata sabato dalla Polizia, è stata acquistata da Messina Denaro pagandola 10mila euro in contanti (e nei guai finisce anche il concessionario per la vendita irregolare) , sia stata fatta intestare alla mamma di Bonafede. Fra il boss mafioso ed Andrea Bonafede vi era una conoscenza e frequentazione fin da bambini, la “vicinanza” delle due famiglie mafiose fin dai tempi del padre del latitante e dello zio del suo alias, entrambi mafiosi di rango uniti da battesimi, cresime e comparati. Ciliegina sulla torta la cessione della propria identità al boss.

Con quella identità Matteo Messina Denaro ha potuto effettuare, a spese del Servizio Sanitario Nazionale gli esami istologici all’ospedale di Mazara del Vallo che hanno confermato la diagnosi di tumore al colon il 17 novembre 2020 e si è recato a lungo alla clinica “La Maddalena” di Palermo dove è stato arrestato dal Ros dei Carabinieri, per effettuare i cicli di chemioterapia, usufruendo del medico di base (che a sua volta conosceva bene ed assisteva il vero Bonafede) del suo alter ego.

Il vero Andrea Bonafede ha ammesso di fronte ai pm della Dda di Palermo di aver anche acquistato la casa di Campobello di Mazara di via Cb 31/7, l’ ultima confortevole residenza dell’ex latitante che gli aveva consegnato i soldi per pagarla. L”ex compagna di Bonafede in un’intervista ha raccontato che sarebbe stato di fatto obbligato per evitare ritorsioni. Bonafede al momento indagato per favoreggiamento, procurata inosservanza della pena e per una serie di falsi (in concorso con Matteo Messina Denaro), reati che sono “appesantiti” dall’aggravante mafiosa, adesso rischia seriamente l’arresto e di finire in carcere.

Dagli ultimi accertamenti è stato accertato che mentre nella clinica “La Maddalena” medici e infermieri conoscessero Matteo Messina Denaro sotto le mentite spoglie di Andrea Bonafede, nel paese di Campobello di Mazara, in cui ha trascorso sicuramente 3 dei 29 anni di latitanza, ha utilizzato un’altra identità di copertura. Anche perchè per condurre una vita quasi normale, andare al bar, al supermercato in un paese di appena 11 mila abitanti non poteva certo presentarsi con le stesse generalità del vero Andrea Bonafede di 60 anni impiegato presso un centro acquatico, che in paese conoscevano in tanti.

Matteo Messina Denaro aveva anche un’ulteriore identità falsa (si faceva chiamare Francesco) e viveva stabilmente a Campobello di Mazara da almeno 4 anni. È quanto hanno accertato lo S.C.O. il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato e la Squadra Mobile di Trapani. Resta da capire come abbia potuto farla franca ai continui controlli messi in atto in questi anni, da carabinieri, polizia e guardia di finanza, che in alcuni casi sono stati dei veri e propri assedi tra Campobello, Partanna e Castelvetrano. Messina Denaro è certo, ha vissuto nell’abitazione di via San Giovanni 260, un’abitazione di un centinaio di metri quadri e lo ha fatto almeno dal 2019.

Addirittura viene ipotizzato che Matteo Messina Denaro vi abbia abitato assieme a quel figlio segreto di cui si parla dal 2005 quando la polizia intercettò una conversazione in cui si facevano specifici riferimenti. E proprio questo figlio segreto, metà fantasma e metà erede, tenuto nascosto come un peccato o come un tesoro, ha a suo tempo infatti mutato le relazioni e gli affetti all’interno della famiglia. Gli investigatori della Squadra Mobile che erano sulle tracce del latitante intercettarono una conversazione tra Filippo Guttadauro, cognato del boss, marito della sorella, Rosalia Messina Denaro, e suo figlio Francesco. Le uniche certezze dell’esistenza di questo figlio, nato tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005 in un triangolo compreso tra i Comuni di Partanna, Castelvetrano e Campobello, starebbero proprio nelle intercettazioni rubate ai familiari del boss, che ne parlano più di una volta, facendo capire persino che il padre si sarebbe pure arrabbiato ed avrebbe chiesto la prova del Dna.

Gli approfondimenti investigativi degli inquirenti restano concentrati sull’ultimo alloggio di via Cb 31/7 a Campobello di Mazara , per almeno da sei mesi dimora di Messina Denaro all’interno della quale il capo della mafia trapanese ha lasciato tracce non solo dei suoi gusti letterari ma anche tanto altro .

Nella casa di via San Giovanni 260, a cui la Squadra Mobile di Trapani è giunta dopo la segnalazione di un imprenditore che ha detto di avere riconosciuto nelle foto di Messina Denaro, l’uomo che nel giugno scorso era presente al momento di un trasloco in quella abitazione, pare però fosse stata anche frequentata da una misteriosa donna, di cui al momento non si conosce l’identità. Che fosse la sua ultima amante? O potrebbe trattarsi della madre del suo erede di cui non si conosce l’identità?

“Non è una persona per cui possiamo avere troppa pietà. È uno che ha ammazzato tanto, ha sparso tanto sangue, ha ucciso tanti innocenti, il bimbo (il piccolo Giuseppe Di Matteo, ndr), non credo possa pentirsi, che abbia voglia di parlare” ha detto il vescovo emerito della Diocesi di Mazara del Vallo, monsignor Domenico Mogavero, riferendosi a Matteo Messina Denaro, all’uscita della parrocchia Madonna di Fatima di Campobello di Mazara, a pochi passi da via Cb31, dove c’era il covo del boss arrestato lunedì scorso.

Il vescovo sta affiancando da alcune settimane don Nicola Patti nelle celebrazioni religiose. “Se non ci fossero state tante coperture, per affetto, per amicizia o per paura, sarebbe stato arrestato prima. In questi nostri ambienti non si può dire di no non per paura ma per intimità, per vita trascorsa insieme. Oggi ha vinto lo Stato, ora spero che vinca la nostra gente, che esca dalla situazione di paura e finalmente possano tutti esultare“, ha detto ancora monsignor Mogavero. “Usciamo sulle piazze ed esprimiamo la nostra soddisfazione, ma anche il nostro no alla mafia e a tutti i malavitosi”, ha detto il prelato. “Chi sa, parli, perché potrebbe svelare fatti che possono giovare a tante indagini“, ha aggiunto Monsignor Mogavero che da Vescovo di Mazara del Vallo nel 2013 negò i funerali al boss Mariano Agate di Mazara del Vallo : “Non ci vuole tanto coraggio, ci vuole essere coerenti col proprio ministero“, ha concluso il vescovo visibilmente emozionato. Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per corriere.it il 19 gennaio 2023.

 Le intercettazioni

Se Errico Risalvato è stato solo in odore di mafia, suo fratello Giovanni — di tre anni più giovane, ex consigliere comunale — è stato invece condannato a 14 anni di prigione per favoreggiamento dell’ultimo stragista, e scarcerato pochi mesi fa per fine pena. In un’intercettazione era stato ascoltato dagli investigatori mentre diceva, ricordando il tempo trascorso in compagnia del boss: «Chissà cosa pagherei per fumarmi un pacchetto di sigarette con lui. Minchia, una volta ce ne siamo fumati una stecca!».

 E in un’altra conversazione registrata dalle microspie si entusiasmava all’idea di affiancare il latitante: «Gliel’ho detto un mare di volte, me ne vado con lui! Tanto a mio figlio non manca niente, mia moglie lo stipendio ce l’ha... meglio un giorno da leone che cent’anni da pecora».

L’indagine sulle complicità più recenti dell’ex imprendibile, insomma, si allarga inevitabilmente alla famiglia Risalvato, ma prosegue anche su Andrea Bonafede, l’uomo che gli ha prestato l’identità, nipote del capomafia di Campobello.

 La carta d’identità

Nelle dichiarazioni rese agli investigatori ha raccontato che Messina Denaro gli ha chiesto la carta d’identità e la tessera sanitaria a maggio dello scorso anno, quando doveva operarsi nella clinica palermitana La Maddalena e gli consegnò i soldi per fargli acquistare l’appartamento divenuto poi la sua abitazione. Poco dopo gli ha restituito solo il primo documento, che nel frattempo aveva fatto clonare , non il secondo. Da allora il ricercato numero 1 è diventato Andrea Bonafede, ma c’è il sospetto che quello vero menta almeno rispetto al periodo in cui ha prestato nome e cognome al capomafia. Perché a novembre 2020 Messina Denaro è stato operato all’ospedale di Mazara del Vallo con l’identità di Bonafede.

Inoltre negli archivi delle forze dell’ordine risulterebbero nel recente passato un paio di controlli di routine su una persona che ha esibito quella carta d’identità. Chi era? Il vero Bonafede o il latitante? Difficile rispondere oggi a questa domanda, come alle tante altre che si stanno materializzando nell’inchiesta guidata dal procuratore Maurizio De Lucia sulle protezioni di cui ha goduto il capomafia, almeno nell’ultimo tratto della sua latitanza. Ad esempio quelle relative alla consapevolezza di chi gli ha garantito le cure mediche di cui ha avuto bisogno.

Estratto dell'articolo di Fa. C. per il “Corriere della Sera” il 19 gennaio 2023.

Vincenzo Pisciotta, 70 anni, impiegato comunale in pensione […]

Non è stato ancora interrogato?

«Si vede che non ne hanno bisogno».

 La carta d'identità di Andrea Bonafede, però, è opera sua.

«Sì, nel 2016 ero io l'incaricato comunale dell'ufficio demografico».

 È sicuro che davanti a lei quel giorno non ci fosse Matteo Messina Denaro?

«[…] a Campobello, dopo 40 anni di professione, ero come il pastore del gregge che conosce le sue pecore una ad una. Andrea Bonafede lo conosco bene, se quel giorno mi fosse passata sotto gli occhi la foto di un altro me ne sarei accorto… […] ».

E allora perché sulla carta d'identità di Bonafede c'è finita la foto del boss?

«Le foto delle carte d'identità s' incollano col biadesivo, ma con il calore la colla si scioglie e la foto viene via che è una bellezza. Così si leva e se ne mette un'altra».

 Però poi ci vuole il timbro a secco

«Già, ma anche una timbratrice a secco si può comprare come il biadesivo in cartoleria, io lo so perché ricordo che quando in ufficio si ruppe la macchinetta ordinai di comprarne un'altra che avesse la scritta "Comune di Campobello di Mazara" stampata sul timbro. Una persona con i giusti canali può avere quello che vuole».

Quindi, Bonafede ha messo a disposizione successivamente la sua carta d'identità?

«Credo di sì, di sicuro quella che gli ho rilasciato io con la mia firma era regolare. E sopra c'era la sua foto. Comunque basta andare a vedere negli archivi del Comune e della Prefettura di Trapani. Oltre alla carta emessa, infatti, la procedura vuole che se ne facciano altre due copie che restano lì. Se i carabinieri non mi hanno ancora chiamato, penso che le abbiano già trovate».

 Insomma, non teme di finire indagato anche lei.

«No, perché? Sono tranquillissimo. È vero che Pisciotta è pure il cognome di un boss di Castelvetrano, ma non siamo parenti» .

 Però Messina Denaro qui a Campobello ha avuto parecchi fiancheggiatori.

«Non sono tra questi. E credo che se la gente in giro l'avesse davvero riconosciuto, l'avrebbe denunciato. Magari con una lettera anonima. Campobello non è omertosa, parla a modo suo».

[…]

Il documento utilizzato dal boss arrestato. Messina Denaro e la carta d’identità falsa di Andrea Bonafede: come ha fatto a farsi curare e sfuggire all’arresto. Redazione su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Il “geometra” Matteo Messina Denaro. Sfruttando la carta d’identità di Andrea Bonafede, nato a Campobello di Mazara (Trapani) il 23 ottobre del 1963, il sanguinario boss di Castelvetrano, ultimo ‘Padrino’ di Cosa Nostra, riusciva ad entrare ed uscire dalla clinica privata ‘La Maddalena’ di Palermo, dove questa mattina è stato arrestato dai carabinieri.

La lunga latitanza di MMD, durata 30 anni, si è interrotta stamane mentre il boss era nella clinica per un appuntamento, un ciclo di chemioterapia nella struttura sanitaria in cui era in cura da oltre un anno per un tumore al colon diagnosticato nel novembre 2020.

Il reale proprietario di quella carta d’identità utilizzata da Messina Denaro è stato invece interrogato oggi dai carabinieri: il documento di riconoscimento, scrive l’Ansa, sarebbe stato falciato dal boss apponendo una sua foto al posto di quella del signor Bonafede. L’uomo non avrebbe risposto alle domande degli investigatori.

A fare chiarezza sulla questione è stato poi il generale Pasquale Angelosanto, comandante del Ros dei Carabinieri, nel corso della conferenza stampa sull’arresto dell’ormai ex ‘Primula rossa’ di Cosa Nostra. “L’accostamento della persona con il nome falso al latitante era stato ipotizzato nei giorni scorsi, ma è stato accertato stamattina. Il riscontro lo abbiamo avuto stamattina”, ha spiegato Angelosanto.

A pubblicare le immagini della carta d’identità falsa utilizzata da Messina Denaro è stata l’AdnKronos: tra i dati personali si legge che il ‘proprietario’ è un uomo alto 1,78 metri, calvo e con gli occhi castani, segni particolari “nessuno”. La tessera, di tipo cartaceo, è stata emessa l’8 febbraio 2016 e scade il 23 ottobre del 2026. Soprattutto Bonafede è nipote di un fedelissimo del boss di Castelvetrano.

A Messina Denaro-Bonafede, le forze dell’ordine sono arrivate dopo mesi di indagini che si sono concentrate proprio sulla malattia del boss, confermata dalle intercettazioni di amici e parenti del ‘Padrino’ di Castelvetrano.

Capito che Messina Denaro dovesse utilizzare uno pseudonimo per curarsi, sono iniziate le indagini sui pazienti oncologici con un’età compatibile con quella del super latitante scandagliando le informazioni della centrale nazionale del ministero della Salute che conserva i dati sui malati oncologici.

Il punto di svolta arriva incrociando proprio queste informazioni: nel giorno dell’intervento avvenuto Andrea Bonafede era a Campobello di Mazara. In clinica sotto i ferri c’era dunque qualcun altro. Le indagini proseguono ed emerge un nuovo appuntamento in clinica, fissato per questa mattina, con in programma prelievi e seduta di chemioterapia.

Ad aspettare ‘Bonafede’, alias Messina Denaro, i carabinieri del Ros e del Gis pronti a mettere fina alla lunga latitanza del boss di Cosa Nostra.  I carabinieri hanno questa mattina hanno anche sequestrato tutte le cartelle cliniche relative al boss Matteo Messina Denaro nella clinica “di Palermo: al loro interno c’è tutto il percorso medico del paziente operato a Marsala prima per tumore al colon poi nella clinica palermitana per metastasi al fegato.

«Non ho truccato io la carta d’identità di Matteo Messina Denaro, bastano un biadesivo e timbri da cartoleria». Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2023.

L’impiegato dell’anagrafe (in pensione) che ha timbrato la carta d’identità falsa del boss mafioso

Vincenzo Pisciotta, 70 anni, impiegato comunale in pensione, è seduto sul divano di casa, accanto c’è la moglie Maria e insieme stanno preparando i festeggiamenti per i 40 anni del loro matrimonio, il 27 gennaio. Ci accoglie con un sorriso: «Quando ho sentito il campanello pensavo che fossero i carabinieri…», dice.

Non è stato ancora interrogato?

«Si vede che non ne hanno bisogno».

La carta d’identità di Andrea Bonafede, però, è opera sua.

«Sì, nel 2016 ero io l’incaricato comunale dell’ufficio demografico».

È sicuro che davanti a lei quel giorno non ci fosse Matteo Messina Denaro?

«Sono passati degli anni, all’epoca facevo anche 20-25 carte d’identità al giorno, non ho ricordi precisi. Ma vi posso dire che a Campobello, dopo 40 anni di professione, ero come il pastore del gregge che conosce le sue pecore una ad una. Andrea Bonafede lo conosco bene, se quel giorno mi fosse passata sotto gli occhi la foto di un altro me ne sarei accorto. E poi li avete visti anche voi, no? Il vero Bonafede e Messina Denaro non si somigliano mica, anche se nel 2016 Andrea in testa aveva qualche capello in più».

E allora perché sulla carta d’identità di Bonafede c’è finita la foto del boss?

«Le foto delle carte d’identità s’incollano col biadesivo, ma con il calore la colla si scioglie e la foto viene via che è una bellezza. Così si leva e se ne mette un’altra».

Però poi ci vuole il timbro a secco…

«Già, ma anche una timbratrice a secco si può comprare come il biadesivo in cartoleria, io lo so perché ricordo che quando in ufficio si ruppe la macchinetta ordinai di comprarne un’altra che avesse la scritta “Comune di Campobello di Mazara” stampata sul timbro. Una persona con i giusti canali può avere quello che vuole».

Quindi, Bonafede ha messo a disposizione successivamente la sua carta d’identità?

«Credo di sì, di sicuro quella che gli ho rilasciato io con la mia firma era regolare. E sopra c’era la sua foto. Comunque basta andare a vedere negli archivi del Comune e della Prefettura di Trapani. Oltre alla carta emessa, infatti, la procedura vuole che se ne facciano altre due copie che restano lì. Se i carabinieri non mi hanno ancora chiamato, penso che le abbiano già trovate».

Insomma, non teme di finire indagato anche lei.

«No, perché? Sono tranquillissimo. È vero che Pisciotta è pure il cognome di un boss di Castelvetrano, ma non siamo parenti» .

Però Messina Denaro qui a Campobello ha avuto parecchi fiancheggiatori.

«Non sono tra questi. E credo che se la gente in giro l’avesse davvero riconosciuto, l’avrebbe denunciato. Magari con una lettera anonima. Campobello non è omertosa, parla a modo suo».

Per fortuna è finita.

«So bene cosa vuole dire avere a che fare con un tumore, da 50 anni non ho più una gamba. Credo che il boss abbia fatto in modo di farsi trovare, che fosse stanco di lottare con la malattia. Ha deposto le armi».

L’Arresto.

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” lunedì 30 ottobre 2023.

Nel brindisi di saluto alla vigilia della pensione, il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo ha spiegato che il generale Pasquale Angelosanto è noto a tutti per essere il comandante del Ros che ha catturato Matteo Messina Denaro, ma per lui resta e resterà sempre il giovane capitano dei carabinieri che trent'anni prima arrestò il boss della camorra Carmine Alfieri. L'alfa e l'omega di una carriera spesa quasi tutta nei reparti anticrimine e territoriali dell'Arma, che – compiuti 65 anni d'età – si concluderà domani, martedì 31 ottobre. 

Se la ricorda la cattura di Alfieri, generale Angelosanto?

«E come potrei dimenticarla? Lo prendemmo l'11 settembre 1992, e sebbene fosse ricercato — da nove anni — solo per il lotto clandestino, sapevamo che era diventato il capo della camorra vesuviana. Dopo aver vinto, con la Nuova Famiglia, la guerra contro la Nuova camorra organizzata di Raffele Cutolo». 

Come arrivaste a lui?

«Pasquale Galasso, il boss suo vecchio alleato arrestato nel maggio 1992, pensava di essere stato tradito da Alfieri, avendo avviato grandi investimenti da chi credeva avrebbe voluto escluderlo. Si vendicò indicandoci un possibile rifugio nel comune di Scisciano, in un contesto criminale che già conoscevamo bene. S'era nascosto in un bunker sotterraneo, e quando cominciammo a rompere il pavimento con le mazze da carpentiere sentimmo la sua voce che chiedeva di smettere».

Anche quella, come trent'anni dopo per Messina Denaro, fu un'operazione segretissima per evitare fughe di notizie?

«All'epoca comandavo il Nucleo operativo del Gruppo di Castello di Cisterna, e organizzai la spedizione senza dire nulla sull'obiettivo. Prima con i furgoni andammo da tutt'altra parte e solo dopo, quando non si poteva più comunicare con l'esterno, feci il nome di Alfieri. Tra i miei uomini, scoprimmo poi, c'era un carabiniere corrotto che dava informazioni ai clan». 

Era l'anno delle stragi di mafia, Capaci e via D'Amelio.

«Un periodo di grande tensione e pressione, ma anche di grande impegno e spinta ideale. Nelle bacheche delle caserme c'erano i nomi e le foto segnaletiche dei latitanti, elenchi lunghissimi: quasi tutti i capi di Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta. Nell'ottobre '92 arrivai al Ros per comandare la Sezione Catturandi, e fui aggregato a Napoli. Si lavorava secondo il metodo dalla Chiesa, che seguiamo ancora oggi. Alcuni ufficiali nostri comandanti ei marescialli che avevano lavorato con il generale ai tempi del terrorismo, ci fecero da maestri». 

In che consiste, il metodo dalla Chiesa?

«Studio approfondito del contesto, per inquadrare il singolo delitto nell'ambito in cui è maturato. E tecniche investigative applicate sul territorio: osservazione, controlli e pedinamenti, a cui si sono aggiunte le intercettazioni e altre attività tecniche. Solo così, nel terrorismo come nella criminalità organizzata, si riesce a venire a capo degli omicidi ea prendere i latitanti. Ci vuole tempo e tanta pazienza, ma alla fine i risultati arrivano».

A Napoli continuò a occuparsi di camorra.

«Sì, e con le altre forze di polizia e la Procura scopriamo il mondo degli affari e dei rapporti diretti con la politica. E quando i primi pentiti cominciarono a indicare i responsabili degli omicidi o le persone che “tenevano” i latitanti, noi avevamo già i riscontri necessari grazie alle indagini svolte sul contesto criminale. Di fatto loro aggiunsero solo i nomi. Poi nel 1995 approdai alla Sezione anticrimine di Roma». 

[...] 

Poi tornarono le Brigate rosse.

«Fu un brusco risveglio. La mattina del 20 maggio 1999, la scena dell'omicidio del professore Massimo D'Antona indicava un agguato di matrice terroristica senza che ci fossero organizzazioni in attività da oltre dieci anni. Ma nel pomeriggio arrivò la rivendicazione delle Br-Partito comunista combattente, e fummo costretti a misurarci con la realtà. Rispolverammo le indagini sui piccoli attentati consumati nel decennio precedente, anche dai Nuclei comunisti combattenti che s'erano appropriati della sigla Br-Pcc per tornare a uccidere. Pure in quel caso fu importante l'analisi del contesto».

Però sbagliaste obiettivo, arrestando persone che non c'entravano con le Br.

«Gli errori purtroppo si commettono, e bisogna riconoscerli. Per oltre un anno seguimmo un soggetto che aveva incontrato semi-clandestini con un altro che credevamo di riconoscere in un vecchio brigatista latitante. L'ordinanza di custodia cautelare riguardò i suoi presunti contatti romani che gravitavano intorno al gruppo Iniziativa comunista, ma sbagliammo perché quello non era il latitante e tra di loro non c'erano i nuovi terroristi. [...] 

Dopo l'esperienza nel servizio segreto e la parentesi calabrese, è tornato al Ros, di cui è divenuto vicecomandante nel 2012. È lì che ha iniziato a occuparsi di Cosa nostra?

«Qualche ramificazione l'avevo già indagata nella Capitale, arrestando due epigoni della “decina romana” di Pippo Calò». 

Prendeste subito di mira Matteo Messina Denaro?

«Era in cima alla lista dei ricercati, latitante da vent'anni.

Pur nel suo caso è stato fondamentale investigare sul contesto e fare “terra bruciata” degli affiliati che gli ruotavano intorno. Noi come Arma, da soli o con altre forze di polizia, abbiamo arrestato più di 180 indagati e sequestrato beni per oltre 250 milioni. Queste cifre, cui vanno aggiunte quelle delle operazioni autonome delle altre polizie, dimostrano come lo Stato abbia ripreso il controllo del territorio nella provincia di Trapani».

Però Messina Denaro era lì indisturbato, e la svolta per catturarlo, con lei a capo del Ros dal 2017, è arrivato da un pizzino nascosto in casa della sorella. Il 6 dicembre 2022.

«Certamente, ma l'accesso a casa della sorella non fu casuale, bensì una decisione, presa insieme alla Procura, derivante dall'analisi svolta sulle numerose indagini, tra cui l'ultima che portò a 35 arresti, proprio a Campobello di Mazara, nel settembre 2022». 

Come ha vissuto quel mese e mezzo tra la scoperta del pizzino e la cattura?

«Male. Con la continua paura di commettere errori. Persino durante la messa di Natale non potei evitare di pensare alle mosse da seguire per non farci sfuggire il latitante. Ci stavamo avvicinando, ma bisognava evitare il minimo sbaglio. Negli ultimi tre giorni avevamo quasi la certezza che dietro il nome di Andrea Bonafede ci fosse Messina Denaro, ma finché lui non ha ammesso di esserlo non sono stato tranquillo».

Che cosa ha provato in quel momento?

«Una soddisfazione indescrivibile, insieme all'improvviso calo di tutta la tensione accumulata». 

Come quando arrestò Carmine Alfieri?

«Direi di sì, la stessa emozione per aver raggiunto un risultato tanto cercato. Poi però, in entrambi i casi, dopo qualche ora è iniziato il nuovo lavoro, per ricostruire le reti delle complicità». 

Su quella di Messina Denaro ora toccherà ad altri indagare.

«E lo faranno benissimo. Ma una promessa posso farla anch'io: tra chi ha protetto per tanti anni il latitante abbiamo individuato solo la cerchia più ristretta, c'è ancora tanto da scoprire. Sempre con lo stesso metodo. Il Ros non se ne andrà dalla provincia di Trapani».

Estratto dell’articolo di Giuseppe Pipitone per ilfattoquotidiano.it giovedì 19 ottobre 2023

Matteo Messina Denaro aveva il Covid al momento dell’arresto. Lo ha raccontato Pasquale Angelosanto, comandante del Ros dei carabinieri, che è intervenuto durante la conferenza Sicurezza e Salute in corso nell’Aula Magna Agazio Menniti del San Camillo Forlanini, a Roma. “Il boss era risultato negativo al Covid al tampone fatto in ospedale ma positivo a quello fatto prima di entrare in carcere”, ha detto Angelosanto, tornando al 16 gennaio scorso, quando si concluse la latitanza quasi trentennale del boss di Castelvetrano. […] 
 “Come hanno fatto Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro a fare più di 20 anni di latitanza? Con la collusione e anche noi come carabinieri abbiamo bisogno di anticorpi“, ha spiegato il numero uno del Ros dei carabinieri. Al centro del dibattito al San Camillo la stretta correlazione tra le informazioni messe a disposizione dal sistema informatico sanitario nazionale e le indagini che hanno portato alla cattura del boss delle Stragi.
[…] 
Angelosanto ha ripercorso i passaggi che hanno portato i carabinieri a catturare l’ultimo boss delle stragi rimasto in libertà. Fondamentali sono stati gli appunti sulle condizioni di salute di un presunto Mister X trovate a casa della sorella del boss, Rosalia, durante un’operazione per posizionare le microspie. Appunti che erano all’interno della gamba cava di una sedia. 

“Un diario clinico – ha ricordato il comandante del Ros – con le date dei ricoveri e le operazioni, il dimagrimento, i cicli di chemioterapia“. Ipotizzando che a essersi ammalato potesse essere Messina Denaro i carabinieri si sono quindi rivolti al ministero della Salute.

Incrociando le informazioni cliniche hanno trovato che un solo codice paziente aveva tutte le caratteristiche richieste. “Si chiamava Andrea Bonafede e aveva la stessa età, più o meno, di Messina Denaro”, ha ricordato Angelosanto, riferendosi al geometra di Campobello di Mazara che aveva ceduto la sua identità al capomafia. “Quando però Andrea Bonafede era sotto i ferri per il Servizio sanitario nazionale, per noi, viste anche le immagini delle telecamere, era in giro in autovettura o al cellulare”, ha continuato Angelosanto. 

A quel punto gli investigatori si sono focalizzati sulle terapie in corso alla clinica La Maddalena di Palermo: il presunto Bonafede si sarebbe sottoposto a un nuovo ciclo lunedì 16 gennaio del 2023. A quel punto è scattato il blitz.

"La cattura – Caccia a Matteo Messina Denaro". Rai il 26 Settembre 2023

Chi catturò il boss racconta la vera storia di "Operazione Tramonto"

Il giorno successivo alla morte dell’ultimo dei Corleonesi, Rai 3 dedica la prima serata a un documentario evento in cui per la prima volta gli uomini del Ros raccontano la vera storia dell’“Operazione Tramonto”: “La Cattura - Caccia a Matteo Messina Denaro”, prodotto da Stand by me per Rai Direzione Approfondimento, in onda martedì 26 settembre alle 21:20. 

“La Cattura - Caccia a Matteo Messina Denaro”, realizzato grazie alla collaborazione con il Comando Generale dei Carabinieri, ripercorre gli ultimi 40 giorni prima dell’arresto del boss mafioso – avvenuto il 16 gennaio 2023 – dal punto di vista degli uomini che lo hanno catturato: i Carabinieri del ROS coadiuvati in quella storica giornata dal GIS e dagli altri Reparti Territoriali dell’Arma, con il coordinamento della Procura Distrettuale di Palermo. Nel corso del racconto di quei concitati momenti, torniamo indietro per raccontare gli istanti ed i personaggi più rilevanti nella trentennale latitanza del boss di Cosa Nostra.

Il documentario alterna gli audio originali dell’Operazione Tramonto ad accurate ricostruzioni sul campo e si snoda attraverso interviste esclusive ai protagonisti della lunga caccia a Messina Denaro, tra cui Maurizio De Lucia (Procuratore Capo di Palermo), il Generale di Corpo d’Armata Pasquale Angelosanto (Comandante del ROS), il Colonnello Lucio Arcidiacono (Comandante del I Reparto ROS) e gli operatori del ROS e del GIS, “Ulisse”, “Veleno”, “Pietra”, “Dakota”, “Sandokan”, “Ombra”, “Wolf”, “HG”,  “Grigio”, “Carlos”, alcuni degli uomini e donne che sul campo, il 16 gennaio del 2023, hanno stretto d’assedio il ricercato numero uno in Italia, consegnandolo finalmente alla giustizia dopo trent’anni di latitanza. 

Sono intervenuti nel documentario anche la giornalista Elvira Terranova, l’imprenditrice siciliana Elena Ferraro e Luigi Dainelli, familiare delle vittime della strage mafiosa di Via dei Georgofili.

“La Cattura - caccia a Matteo Messina Denaro” è una produzione Stand by me per Rai Direzione Approfondimento. Prodotto da Simona Ercolani. Regia di Claudio Camarca. Scritto da: Monica Zapelli, Lorenzo De Alexandris, Claudio Camarca. A cura di Riccardo Chiattelli e Tommaso Vecchio. Con la consulenza giornalistica di Francesco La Licata. Produttore Esecutivo Fabrizio Forner. Delegato Rai Mercuzio Mencucci. 

Documentario su Matteo Messina Denaro, i retroscena della cattura. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 27 settembre 2023. 

Il documentario «La cattura - Caccia a Matteo Messina Denaro» alterna immagini e audio originali dell’Operazione Tramonto alle ricostruzioni sul campo e... 

Mentre alcuni cittadini di Castelvetrano si sono dichiarati «in lutto» per la morte di Matteo Messina Denaro, Rai3 ha ricostruito la storia dell’ Operazione Tramonto e ripercorso gli ultimi 40 giorni prima dell’arresto del boss mafioso, avvenuto il 16 gennaio 2023. «La cattura – Caccia a Matteo Messina Denaro», prodotto da Stand by me, è stato realizzato grazie alla collaborazione con il Comando Generale dei Carabinieri. Meglio: è il racconto dell’epilogo di una lunga caccia, snervante e ossessiva, dal punto di vista dell’Arma. E questo è un gesto chiaro, inequivoco per dissipare ogni dubbio, per spazzare via sospetti e congetture, ovvero che il boss si sarebbe «consegnato» spontaneamente ai carabinieri del Ros in cambio delle necessarie coperture per i registi e i mandanti occulti delle stragi: una latitanza di Stato come ha dichiarato l’ex pm Antonino Ingroia.

Il documentario alterna le immagini e gli audio originali dell’Operazione Tramonto alle ricostruzioni sul campo e si snoda attraverso interviste esclusive ai protagonisti della lunga e impegnativa caccia a Messina Denaro, tra cui Maurizio De Lucia (Procuratore Capo di Palermo), il Generale di Corpo d’Armata Pasquale Angelosanto (Comandante del ROS), il Colonnello Lucio Arcidiacono (Comandante del I Reparto ROS) e alcuni operatori del ROS e del GIS, uomini e donne che sul campo, quel giorno di gennaio, hanno stretto d’assedio il ricercato numero uno in Italia — la sua è una storia di sangue e di violenza — consegnandolo finalmente alla giustizia dopo trent’anni di latitanza.

«Trent’anni di latitanza — ha scritto Giovanni Bianconi — sono un segno di potere e di esercizio del potere; una sfida nella quale Matteo Messina Denaro non è soltanto sfuggito alla cattura, ma ha continuato a guidare un pezzo importante di Cosa nostra contando sul prestigio derivante anche dall’essere l’ultimo latitante della mafia stragista che aveva messo in ginocchio lo Stato». Certo il boss si è mimetizzato nel suo territorio, ha goduto di forti coperture e complicità paesane, ma forse c’è da mettere in conto anche incomprensioni e contrasti tra i magistrati delle procure nelle strategie da adottare.

I Carabinieri ricordano il loro maresciallo Filippo Salvi, deceduto per contribuire alla cattura di Matteo Mesina Denaro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 31 Agosto 2023

Il Maresciallo Salvi trovò la morte: durante le operazioni di installazione di un sistema di videosorveglianza a distanza, nell’ambito delle indagini per la localizzazione del latitante Matteo Messina Denaro, lo scorso 16 gennaio i Carabinieri del ROS gli hanno idealmente dedicato il successo dell’arresto del latitante

Questa mattina , presso la caserma Manfredi Talamo a Roma, quartier generale del ROS il Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri, alla presenza del Comandante delle Unità Mobili e Specializzate Carabinieri “Palidoro”, Generale di Corpo d’Armata Gianfranco Cavallo, del Comandante del Raggruppamento, Generale di Corpo d’Armata Pasquale Angelosanto, di altre autorità militari, della Rappresentanza militare e di personale dell’Arma, è stata intitolata un’Aula Multimediale tecnica, ove si svolgono specifiche attività addestrative del ROS, al Maresciallo Capo Filippo Salvi, Medaglia d’Oro al Valore dell’Arma dei Carabinieri “alla memoria”. 

Alla cerimonia hanno preso parte i familiari del Caduto, i genitori Lorenzina Vitali e Giannino Bortolo Salvi, le sorelle Giuseppina e Francesca e il piccolo Filippo. L’evento ha consentito di commemorare la figura del Maresciallo Capo Filippo Salvi, deceduto nell’adempimento del dovere. Nato a Bergamo il 9 giugno 1971, Salvi era stato arruolato nell’Arma il 2 novembre 1992 come Allievo Carabiniere Ausiliario, avviandosi a una carriera che lo avrebbe successivamente e a lungo impegnato nella lotta alla criminalità mafiosa.

Nel corso di una di queste attività d’indagine, il 12 luglio 2007, nel comune di Bagheria (PA), il Maresciallo Salvi trovò la morte: durante le operazioni di installazione di un sistema di videosorveglianza a distanza, nell’ambito delle indagini per la localizzazione del latitante Matteo Messina Denaro, dopo essersi arrampicato con eccezionale coraggio su una parete rocciosa del monte Catalfàno, precipitò accidentalmente nella scarpata sottostante, perdendo la vita a seguito del violento impatto dopo una caduta di oltre 40 metri. 

Il 26 novembre 2015, il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri ha tributato a Filippo SALVI (nel frattempo promosso al grado di Maresciallo Capo) un “Encomio Solenne alla memoria”, a riconoscimento dell’elevata professionalità e dell’altissimo spirito di sacrificio evidenziati nella decennale attività di servizio al ROS. E il suo valore e coraggio sono stati ulteriormente sanciti il 30 marzo 2023, allorché il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella gli ha tributato la Medaglia d’Oro al Valore dell’Arma dei Carabinieri “alla Memoria”.

In tutti questi anni il suo ricordo è restato sempre vivo, tanto che lo scorso 16 gennaio i Carabinieri del ROS gli hanno idealmente dedicato il successo dell’arresto del latitante Matteo Messina Denaro. Su proposta del ROS e su conforme parere della linea gerarchica, lo Stato Maggiore della Difesa ha autorizzato l’intitolazione al Mar.Ca. Filippo Salvi, eccellente operatore tecnico e informatico, di un’Aula Multimediale del Raggruppamento: una struttura all’avanguardia, realizzata per lo svolgimento di attività addestrative e formative tecniche e informatiche in favore dei militari del ROS, degli altri reparti dell’Arma e di personale delle Forze di polizia di altri Stati.

Come sottolineato nel corso della cerimonia dai comandanti delle Unità Mobili e Specializzate Carabinieri “Palidoro” e del Raggruppamento Operativo Speciale, le attività tecniche di supporto alle indagini, oramai irrinunciabili nel contrasto alle espressioni della criminalità organizzata, eversiva, terroristica e di tipo mafioso,  per loro natura sono proiettate nel futuro, come al futuro guardava un uomo straordinario, che resterà nella memoria di chi l’ha avuto accanto a sé o lo conoscerà grazie a questa intitolazione, che ne perpetuerà il ricordo. Redazione CdG 1947

La Cattura” di Messina Denaro nel libro di de Lucia e Palazzolo. Da Adnkronos su L'Identità il 29 Agosto 2023

(Adnkronos) – «L’indagine che ha portato all’arresto di Matteo Messina Denaro è stata parecchio movimentata sino alla fine, nulla era scontato, abbiamo anche rischiato di fallire – racconta il procuratore Maurizio de Lucia – le prime ricerche nel registro dei tumori, per provare a interpretare il pizzino ritrovato a casa della sorella del latitante, non avevano infatti portato proprio a nulla. E sembrava non ci fossero altre strade». I retroscena dell’arresto del padrino delle stragi, avvenuto il 16 gennaio scorso dopo 30 anni di latitanza, diventano un libro edito da Feltrinelli. Si intitola: “La cattura – i misteri di Matteo Messina Denaro e la mafia che cambia”. A firmarlo, il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia e l’inviato di Repubblica Salvo Palazzolo. Un racconto intenso, che rievoca i tanti passaggi ancora inediti di un’indagine complessa condotta dai carabinieri del Ros, la svolta è avvenuta nel dicembre scorso, con il ritrovamento del pizzino a casa di Rosalia Messina Denaro. «Era nascosto nel piede di una sedia – ricorda il procuratore – lì dove i nostri investigatori volevano piazzare una microspia. Invece, hanno trovato il diario clinico del latitante. Ma c’è voluta la banca dati del ministero della Salute per scoprire dove si curava il capomafia che si spacciava per un anonimo geometra di Campobello». Così l’ultimo padrino delle stragi è finito in carcere: «Ma la lotta alla mafia non può fermarsi, istituzioni e società civile devono continuare ad impegnarsi», dice ancora de Lucia. «Ecco il perché di questo racconto. Per non dimenticare che Messina Denaro conserva tanti segreti, legati al passaggio di Cosa nostra dalla stagione delle bombe a quella degli affari, un dato che non possiamo sottovalutare, considerato il momento assai delicato che viviamo, per l’arrivo dei fondi del Pnrr, un’occasione unica di sviluppo che va difesa dai rischi di infiltrazione criminale». Ora, Matteo Messina Denaro è rinchiuso nel carcere dell’Aquila. Il boss condannato per le stragi del ’92 e del ’93, per il rapimento e l’uccisione del piccolo Di Matteo, per il delitto dell’agente della polizia penitenziaria Montalto, continua ad essere un irriducibile. Negli interrogatori fatti con i magistrati di Palermo, ha accettato di rispondere, ma a modo suo. Sfidando chi aveva davanti. «La prima volta che ci siamo trovati faccia a faccia, poche ore dopo la cattura, ha detto: “Con voi parlo, ma non collaborerò mai” – racconta ancora il procuratore de Lucia – Gli ho risposto: “Ma io le ho chiesto di collaborare? Sono venuto qui solo per sapere come è stato trattato e poi, siccome sappiamo che lei è malato, voglio assicurarle che lo Stato le offrirà tutto ciò che è necessario per far fronte alle sue condizioni di salute». Il libro “La cattura” scritto da Maurizio de Lucia e Salvo Palazzolo intreccia l’attualità con la storia di Messina Denaro. E diventa una riflessione sulla mafia di oggi. «Io ho sempre avuto la mentalità di fare soldi», ha detto il padrino dopo l’arresto, durante uno dei suoi interrogatori. Un’altra espressione di sfida, che conferma quanto emerge sull’ormai ex latitante e sull’organizzazione mafiosa da una lunga stagione di indagini. «Messina Denaro ha continuato a ritenere strategica per la sua leadership l’infiltrazione nel mondo degli appalti – scrive nel libro il procuratore di Palermo – Anche perché il contatto con gli imprenditori è il percorso che porta a dialogare con la politica. Storia antica, che conviene tenere ben presente per provare a scoprire i segreti di quello che era diventato il più imprenditore dei mafiosi». 

Da adnkronos.com martedì 29 agosto 2023.

«L’indagine che ha portato all’arresto di Matteo Messina Denaro è stata parecchio movimentata sino alla fine, nulla era scontato, abbiamo anche rischiato di fallire – racconta il procuratore Maurizio de Lucia – le prime ricerche nel registro dei tumori, per provare a interpretare il pizzino ritrovato a casa della sorella del latitante, non avevano infatti portato proprio a nulla. E sembrava non ci fossero altre strade». I retroscena dell’arresto del padrino delle stragi, avvenuto il 16 gennaio scorso dopo 30 anni di latitanza, diventano un libro edito da Feltrinelli.

Si intitola: “La cattura – i misteri di Matteo Messina Denaro e la mafia che cambia”. A firmarlo, il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia e l’inviato di Repubblica Salvo Palazzolo.

Un racconto intenso, che rievoca i tanti passaggi ancora inediti di un’indagine complessa condotta dai carabinieri del Ros, la svolta è avvenuta nel dicembre scorso, con il ritrovamento del pizzino a casa di Rosalia Messina Denaro. «Era nascosto nel piede di una sedia – ricorda il procuratore – lì dove i nostri investigatori volevano piazzare una microspia. Invece, hanno trovato il diario clinico del latitante. Ma c’è voluta la banca dati del ministero della Salute per scoprire dove si curava il capomafia che si spacciava per un anonimo geometra di Campobello». 

Così l’ultimo padrino delle stragi è finito in carcere: «Ma la lotta alla mafia non può fermarsi, istituzioni e società civile devono continuare ad impegnarsi», dice ancora de Lucia. «Ecco il perché di questo racconto. Per non dimenticare che Messina Denaro conserva tanti segreti, legati al passaggio di Cosa nostra dalla stagione delle bombe a quella degli affari, un dato che non possiamo sottovalutare, considerato il momento assai delicato che viviamo, per l’arrivo dei fondi del Pnrr, un’occasione unica di sviluppo che va difesa dai rischi di infiltrazione criminale».

Ora, Matteo Messina Denaro è rinchiuso nel carcere dell’Aquila. Il boss condannato per le stragi del ’92 e del ’93, per il rapimento e l’uccisione del piccolo Di Matteo, per il delitto dell’agente della polizia penitenziaria Montalto, continua ad essere un irriducibile. Negli interrogatori fatti con i magistrati di Palermo, ha accettato di rispondere, ma a modo suo. Sfidando chi aveva davanti.

«La prima volta che ci siamo trovati faccia a faccia, poche ore dopo la cattura, ha detto: “Con voi parlo, ma non collaborerò mai” – racconta ancora il procuratore de Lucia – Gli ho risposto: “Ma io le ho chiesto di collaborare? Sono venuto qui solo per sapere come è stato trattato e poi, siccome sappiamo che lei è malato, voglio assicurarle che lo Stato le offrirà tutto ciò che è necessario per far fronte alle sue condizioni di salute».

Il libro “La cattura” scritto da Maurizio de Lucia e Salvo Palazzolo intreccia l’attualità con la storia di Messina Denaro. E diventa una riflessione sulla mafia di oggi. «Io ho sempre avuto la mentalità di fare soldi», ha detto il padrino dopo l’arresto, durante uno dei suoi interrogatori. 

Un’altra espressione di sfida, che conferma quanto emerge sull’ormai ex latitante e sull’organizzazione mafiosa da una lunga stagione di indagini. «Messina Denaro ha continuato a ritenere strategica per la sua leadership l’infiltrazione nel mondo degli appalti – scrive nel libro il procuratore di Palermo – Anche perché il contatto con gli imprenditori è il percorso che porta a dialogare con la politica. Storia antica, che conviene tenere ben presente per provare a scoprire i segreti di quello che era diventato il più imprenditore dei mafiosi».

Estratto dell’articolo di Maurizio De Lucia e Salvo Palazzolo per “la Repubblica” martedì 29 agosto 2023. 

[…] bisogna svelare fino in fondo le parole della mafia, espressione di una subcultura che pervade la nostra società, non solo quella meridionale.

Da sempre, Messina Denaro ha annotato con cura le parole dei pizzini. Sin da quando scriveva ai boss Lo Piccolo e Provenzano, all’ex sindaco di Castelvetrano Vaccarino. In quei biglietti, non c’erano solo affari e questioni di mafia, c’erano delle vere e proprie riflessioni. Puntava a riscrivere la “storia”, così la chiamava. Eccolo il più grande pericolo che la mafia oggi rappresenta: si è data l’obiettivo di cercare nuovi consensi. 

Soprattutto fra i più giovani. Ecco perché la sfida contro la mafia, sul piano giudiziario e poi culturale, non può fermarsi dopo l’arresto di Messina Denaro. Anzi, deve essere rilanciata. Combattendo proprio le parole dei mafiosi.

Scriveva all’ex sindaco Vaccarino: «La lettura è il mio passatempo preferito». Ne abbiamo avuto conferma trovando nel suo covo decine di libri: da Dostoevskij a Catullo, da Baudelaire a Murakami e Vargas Llosa. Libri e autori straordinari, che dovrebbero avere la forza del cambiamento. E, invece, un capomafia irriducibile come Messina Denaro, autore di stragi e omicidi, puntava a riappropriarsi delle parole più belle, per distorcerne il significato.

Correttezza. Così scriveva di sé: «Oggi vivo per come il fato mi ha destinato, mi preoccupa soltanto di essere un uomo corretto, ho fatto della correttezza la mia filosofia di vita e spero di morire da uomo giusto, tutto il resto non ha più valore». Detto da un mafioso stragista fa davvero paura. Si appropriava pure della parola “umiltà”: «Non c’è arroganza nel mio dire, solo umiltà, non c’è neanche cattiveria e astio verso qualcuno nelle mie parole». Odia invece magistrati e giornalisti: «Quando revocai gli avvocati qualche piccolo e insignificante Torquemada insinuò sui giornali che era un gesto di sfida».

Dopo l’arresto, non ha voluto difendersi, revocando l’avvocato di fiducia, nel processo in cui era imputato per le stragi Falcone e Borsellino. Nei pizzini aveva già anticipato la sua scelta: «Non è mio costume lanciare sfide a suon di scartoffie in quanto do alla sfida un valore più nobile, da vero uomo». 

Eccolo, il vocabolario del mafioso irriducibile che punta a passare per vittima della giustizia. Invocava addirittura una commissione d’inchiesta: «Questo è un punto chiave — annotava in un altro pizzino a Vaccarino — non tanto per cambiare le cose perché tutto rimarrà per come è, ma solo per il fatto di portare le istituzioni ad assumersi le proprie responsabilità, sarebbe una grande vittoria portare le cose in chiaro, far sapere al popolo tutte le torture che ha perpetrato lo Stato, così almeno la finiscono di definirsi paese civile». Lui aveva un altro concetto di Stato, di potere, di amicizia. E pretendeva di avere un rapporto diretto con Dio.

Un giorno raccontò l’incontro con un sacerdote che gli offriva la sua benedizione: «Padre, se io sono stato nel giusto, Dio mi ha già dato la sua benedizione, se io non sono stato nel giusto, mi perdoni, ma lei non può fare alcunché per me». Rifiutava proprio intermediazioni, soprattutto della Chiesa che scomunica i mafiosi.

Ora, abbiamo bisogno di recuperare le parole migliori, togliendole alla mafia. Per un nuovo vocabolario civile.

Niente manette e show mediatici per il gran boss. Un applauso al procuratore. Il procuratore di Palermo ci ricorda che la giustizia italiana non ha bisogno di spettacoli forcaioli, neanche per l’arresto di un “prigioniero eccellente”. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 17 gennaio, 2023.

I carabinieri lo hanno portato via dalla clinica dove si stava curando, a volto scoperto e senza manette, accompagnandolo a braccetto, quasi con delicatezza, sotto una pioggia fine e in un silenzio composto. Attorno non c’è il ronzio degli elicotteri, non ci sono le sirene che urlano e gli stessi ufficiali dei Ros rimangono defilati, appena nascosti dietro il prigioniero eccellente.

Le immagini dell’arresto di Matteo Messina Denaro, la primula rossa di Cosa nostra, l’ultimo grande latitante dei corleonesi, colpiscono per la loro sobrietà e discrezione. Qualcosa di sorprendente in un paese assuefatto al giustizialismo mediatico come il nostro.

Torniamo indietro di trent’anni e in una dissolvenza incrociata sfumiamole con quelle della cattura del “capo dei capi” Toto Riina: sembrano due universi differenti. I meno giovani ricorderanno i cortei delle volanti, l’esultanza dei Ros che spuntavano dai finestrini brandendo le pistole, i cori da stadio sotto la questura, il passamontagna del capitano Ultimo in quello che sembrava uno show degno della polizia sudamericana dopo la presa di un grande boss dei narcos. Stessa musica tre anni dopo per Giovanni Brusca scaraventato in manette dentro la berlina blindata e insultato dalla folla inferocita che lo avrebbe linciato seduta stante. Più recentemente, appartiene al quel filone truculento l’arresto dell’ex brigatista Cesare Battisti atterrato dal Brasile all’aeroporto di Ciampino per poi essere esibito come un trofeo di guerra dai ministri “gialloverdi” Salvini e Bonafede.

Il breve video di Messina Denaro che senza fare una piega entra nel van nero che lo porterà in carcere segna invece una cesura importante da quel mondo fatto di esasperazione e propaganda. Forse perché la Mafia oggi fa molta meno paura rispetto a tre decenni fa quando le strade della Sicilia erano ricoperte di sangue e i corleonesi mettevano a ferro e fuoco il Paese, o forse perché la cultura del garantismo e del rispetto della dignità di tutti, anche dei criminali più feroci, non è poi così minoritaria.

«Catturare un latitante pericoloso senza fare ricorso alla violenza e senza manette è un segno importante per un paese democratico», ha spiegato il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, al quale deve andare tutto il nostro plauso per averci ricordato che la giustizia italiana non ha bisogno di spettacoli forcaioli da dare in pasto al popolino per essere autorevole.

I due arresti 'a confronto'. Messina Denaro e Riina, i due superlatitanti di Cosa Nostra catturati a distanza di 30 anni (e un giorno). Carmine Di Niro su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Uno arrestato nelle sua villa-covo in via Bernini a Palermo, l’altro nella clinica ‘La Maddalena’, sempre nel capoluogo siciliano, a distanza di 30 anni e un giorno.

È il destino comune dei superboss di Cosa Nostra Totò Riina e Matteo Messina Denaro, che assieme a Bernardo Provenzano hanno caratterizzato gli ultimi decenni di storia criminale italiana.

Quella della data della fine della latitanza è una circostanza quasi incredibile. Riina, il boss che tra le altre cose aveva ordinato gli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma anche del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e del presidente della Regione Piersanti Mattarella, venne catturato nella “Operazione Belva” il 15 gennaio 1993 poco prima delle nove del mattino, a meno di cinque chilometri dalla casa dove aveva vissuto molti anni da latitante con la moglie Ninetta Bagarella e dove erano cresciuti i suoi quattro figli.

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Il 10 dicembre 1969 fu tra gli esecutori della strage di viale Lazio, a Palermo, in cui vennero uccisi il boss rivale dei corleonesi, Michele Cavataio, e altre quattro persone. Da quel giorno divenne latitante, restandoci per 24 anni.

Il giorno della sua cattura si era appena insediato a capo della Procura di Palermo Giancarlo Caselli, e la notizia arrivò proprio mentre il magistrato stava incontrando i giornalisti a Palazzo di giustizia per un saluto. La mancata perquisizione del covo di via Bernini, avvenuta solo alcuni giorni dopo quando la villa era stata ormai svuotata e ripulita, sfociò poi in una rovente polemica tra la Procura e i carabinieri e in un processo concluso con l’assoluzione del vicecomandante del Ros Mario Mori e del colonnello Sergio De Caprio, alias “capitano Ultimo”, dall’accusa di favoreggiamento a Cosa Nostra.

Per catturare Messina Denaro, che divenne latitante proprio in quell’anno, ce ne sono voluti altri 30 e un giorno. Questa mattina l’ultimo ‘Padrino’ di Cosa Nostra, il boss che dopo la cattura di Riina, dei fratelli Graviano e di Provenzano è diventato leader della mafia siciliana, è stato fermato dai carabinieri in un blitz all’interno della clinica ‘La Maddalena’ di Palermo.

La ‘Primula rossa’ di Cosa Nostra, come spiega l’Agi, era in cura alla ‘Maddalena’ da un paio d’anni “o almeno uno”, spiega all’agenzia un medico, per un tumore in zona addominale.

Messina Denaro si era recato nella struttura sanitaria per fare un tampone anti-Covid, dovendo essere ricoverato in day hospital. Quando ha capito dell’operazione in corso, il boss ha anche tentato la fuga riuscendo ad allontanarsi fino al bar della clinica, dove è stato catturato.

Per poter usufruire dei servizi sanitari aveva dato un nome fittizio, Andrea Bonafede. “Frequentava la clinica – ha raccontato il medico della ‘Maddalena’ all’Agi – ed era stato operato in Chirurgia, ora veniva seguito in Oncologia. Stamattina alle 6 non c’era nulla, poi i miei collaboratori mi hanno chiamato: ci sono i Ros, mi hanno detto, e si è presentato un militare in assetto di guerra, stiamo cercando una persona, mi ha detto, stia tranquillo. In ogni piano c’era uno di loro, dei carabinieri in assetto di guerra, lui è scappato, è andato fuori al bar e lo hanno preso. Ha tentato la fuga al bar e c’è stato molto trambusto. Era seguito in chirurgia dove è stato operato e oncologia, era venuto qua per un tampone stamattina e poi per seguire i trattamenti con un altro nome, era un paziente noto alla clinica, ha fatto anche dei trattamenti. Un anno sicuramente per il day hospital. Ma non avevamo alcuna idea di chi fosse, figuriamoci se potevamo saperlo o riconoscerlo“.

Dopo la ‘cattura’, il boss di Cosa Nostra è stato trasferito alla caserma San Lorenzo in via Perpignano per le operazioni di identificazione e da qui portato via per traferito in elicottero in una località protetta.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Matteo Messina Denaro arrestato, la diretta: "Protetto dall'alto", il sospetto. Libero Quotidiano il 16 gennaio 2023

Il superboss Matteo Messina Denaro è stato arrestato: una giornata storica nella lotta dello Stato contro la Mafia. Il 60enne capomafia era latitante da 30 anni ed è finito in manette in una clinica di Palermo dove si era recato per delle terapie. Una data altamente simbolica: il 15 gennaio di 30 anni fa era stato arrestato Totò Riina, l'ultimo Capo dei capi di cui Messina Denaro è considerato l'erede.  

Ore 9.28: Messina Denaro arrestato in una clinica a Palermo

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro è stato arrestato mentre era in day hospital alla clinica Maddalena di Palermo.

Ore 9.41: Guido Crosetto, "complimenti!" 

"Arrestato Matteo Messina Denaro! Complimenti alle forze dell'ordine, alla magistratura, alle migliaia di persone che ogni giorno, in silenzio, lavorano per difendere la giustizia. Grazie ai ROS ed ai magistrati per il loro lavoro!". Così il ministro dela Difesa, Guido Crosetto su Twitter.

Ore 9.49: Salvini, "Eroi in divisa" 

"Dopo trent'anni di latitanza è finito in manette il superboss Matteo Messina Denaro. È con profonda emozione che ringrazio le donne e gli uomini dello Stato che non hanno mai mollato, confermando la regola che prima o poi anche i più grandi criminali in fuga vengono braccati e assicurati alla Giustizia. È una bella giornata per l'Italia e che serve da ammonimento per i mafiosi: le istituzioni e i nostri eroi in divisa non mollano mai". Lo dice il vicepremier e ministro Matteo Salvini.  

Ore 9.54: Meloni, "vittoria dello Stato 

"Una grande vittoria dello Stato che dimostra di non arrendersi di fronte alla mafia", così la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni commenta la notizia dell'arresto di Matteo Messina Denaro. "All'indomani dell'anniversario dell'arresto di Totò Riina- aggiunge Meloni- un altro capo della criminalità organizzata viene assicurato alla giustizia. I miei più vivi ringraziamenti, assieme a quelli di tutto il governo, vanno alle forze di polizia, e in particolare al Ros dei Carabinieri, alla Procura nazionale antimafia e alla Procura di Palermo per la cattura dell'esponente più significativo della criminalità mafiosa". "Il governo - prosegue - assicura che la lotta alla criminalità mafiosa proseguirà senza tregua, come dimostra il fatto che il primo provvedimento di questo esecutivo - la difesa del carcere ostativo - ha riguardato proprio questa materia". 

Ore 10.10: la foto di Messina Denaro oggi

A Sky e sui social viene pubblicata la foto di Messina Denaro oggi, a 60 anni, nell'auto dei carabinieri che l'hanno appena arrestato. Il boss era nella Clinica Maddalena di Palermo, nel reparto di oncologia, e non avrebbe opposto alcuna residenza. Gli inquirenti parlano di un blitz perfetto, "senza sbavature". Di Messina Denaro erano disponibili pochissime foto, tutte risalenti alla sua gioventù. Si era dato alla latitanza nel 1993, a 30 anni. 

Ore 10.19: Schifani, "Grande giorno per Sicilia e Italia" 

"Oggi è un grande giorno per la Sicilia e per l'Italia intera, l'arresto di Matteo Messina Denaro è un colpo durissimo inflitto alla mafia. Tutti devono sapere che in questa Terra non ci possono essere spazi né di illegalità né d'impunità". Lo ha detto il presidente della Regione Siciliana Renato Schifani in merito all'arresto del presunto capo di cosa nostra avvenuto questa mattina."Esprimo a nome mio e della giunta - aggiunge il governatore siciliano - un sincero ringraziamento alle forze dell'ordine e alla magistratura . È la conferma che lo Stato c'è e che prima o poi tutti i mafiosi vengono assicurati alla giustizia. Oggi tutti i siciliani onesti devono festeggiare, da domani sarà opportuna una riflessione per capire come sia stato possibile che uno dei mafiosi più pericolosi sia rimasto in circolazione per più di trent'anni", conclude Schifani.

Ore 10.20: Mattarella si congratula con Arma e Viminale 

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha telefonato questa mattina al Ministro dell'Interno e al Comandante dell'Arma dei Carabinieri per esprimere le sue congratulazioni per l'arresto di Messina Denaro, realizzato in stretto raccordo con la magistratura.

Ore 10.45: Registrato con un altro nome 

Messina Denaro si sarebbe registrato alla clinica Maddalena di Palermo con un nome finto, "Andrea Bonafede".

Ore 10.54: "Cerchiamo una persona", il blitz

"Stiamo cercando una persona, state tranquilli". Il blitz dei carabinieri del Ros, del Gis e del comando provinciale di Palermo nella clinica Maddalena è avvenuto intorno alle 9. Oltre 100 gli uomini coinvolti nell'arresto del boss Messina Denaro, che doveva effettuare dei controlli nel reparto di oncologia. Agenti in tenuta anti-sommossa sono entrati nella clinica ma le operazioni sono avvenute quasi sottotraccia: "Stiamo cercando una persona, state tranquilli", hanno rassicurato i medici e il personale sanitario. Fuori, tutta l'area del quartiere San Lorenzo è stata sigillata con carabinieri a ogni uscita della struttura.

Ore 11.13: Messina Denaro ha cercato la fuga

Il boss Matteo Messina Denaro "si sarebbe accorto di qualcosa di strano" e per questo sarebbe uscito dalla clinica Maddalena di Palermo, a poca distanza da casa sua, tentando la fuga. Vicino a un bar, fuori dalla struttura sanitaria, è avvenuto l'arresto da parte degli agenti di Ros e Gis. Il superboss della mafia, latitante da 30 anni, non ha opposto resistenza. Si era recato in clinica per un controllo nel reparto di oncologia. Era già stato operato per un tumore al colon.

Ore 11.34: Meloni vola a Palermo 

Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni volerà a Palermo già questa mattina, a quanto si apprende, per incontrare il procuratore distrettuale di Palermo, Maurizio de Lucia, i magistrati che hanno coordinato le indagini e i carabinieri del Ros che hanno compiuto l'arresto di Matteo Messina Denaro.

Ore 12.00: Le prime parole di Messina Denaro

"Sì, sono Matteo Messina Denaro". Sono state queste le prime parole del boss della mafia quando si è trovato di fronte agli agenti del Ros che, entrati nella clinica di Palermo a botta sicura, davanti ai cancelli fuori al bar gli hanno chiesto: "Chi sei?".

Ore 13.02 I carabinieri da 3 giorni sulle tracce di Messina Denaro

Secondo alcune indiscrezioni le forze dell'ordine che questa mattina hanno arrestato il boss dei boss, da circa tre giorni erano sulle  tracce di Matteo Messina Denaro. 

Ore 13.30 Nordio: chiusa una stagione drammatica

"Oggi con l’arresto di Matteo Messina Denaro si chiude davvero una delle più drammatiche stagioni della storia della Repubblica. Con la cattura dell’ultimo super latitante, si rinnova altresì l’impegno quotidiano nella lotta ad ogni mafia e ad ogni forma di criminalità. Ho voluto subito congratularmi al telefono con il Procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, con il Comandante dei carabinieri Gen. Teo Luzi e con il collega Ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi per questo risultato che è il compimento del lungo e prezioso impegno di tanti magistrati e tanti agenti delle forze dell’ordine: con loro è proseguito il lavoro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di tutti i servitori dello Stato, che hanno pagato anche con la vita la difesa dei valori democratici". Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, commenta la notizia della cattura del super boss di mafia Matteo Messina Denaro.

Ore 14.07 Giorgia Meloni: "Agli investigatori, l'Italia è firea di voi"

"Al procuratore di Palermo e agli investigatori ho detto che l’Italia è fiera di loro e che sappiamo che questo grande risultato lo dobbiamo a loro e al lavoro quotidiano di grande dedizione che hanno condotto". A dirlo è stata la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, rivelando alcuni particolari dell’incontro con il capo della procura di Palermo, Maurizio De Lucia, nel giorno dell’arresto di Matteo Messina Denaro.

Ore 14.27 Giorgia Meloni: "Cosa diremo ai nostri figli"

«Mi piace immaginare che questo possa essere il giorno nel quale viene celebrato il lavoro di queste donne e questi uomini, ed è una proposta che farò. È un giorno di festa per noi che possiamo dire ai nostri figli che la mafia si può battere. Non abbiamo sconfitto la mafia ma questa battaglia era una battaglia fondamentale da vincere ed è un colpo duro per la criminalità organizzata». Lo ha detto Giorgia Meloni prima di lasciare la Procura di Palermo.

Ore 15.35 Maurizio De Lucia: "È un successo dello Stato"

«La mafia non è finita. Non finisce perchè si cattura una persona per quanto importante sia. È un successo dello Stato, ma lo stato deve essere consapevole, che la lotta è ancora lunga e non finisce qui». Lo ha detto ad AGI il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, che ha coordinato le indagini della cattura di Matteo Messina Denaro, latitante da trent’anni. Oggi al palazzo di Giustizia si è recata la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per complimentarsi con i magistrati e gli investigatori. «La presenza del capo del governo qui è stato un segnale importante», ha aggiunto il capo della procura del capoluogo siciliano. Di certo, ha proseguito De Lucia, la cattura di Messina Denaro «significa che lo Stato salda il suo debito verso le vittime della mafia del trentennio scorso, catturando l’ultimo dei grandi latitanti. Ma l’attenzione non può essere abbassata», ha sottolineato ancora.

Ore 16.07 L'ex procuratore di Palermo: "Il fantasma si è materializzato"

L'ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli ha rilasciato alcune dichiarazioni sull'arresto di Matteo Messina Denaro: "Infinitamente grazie a carabinieri e magistrati di Palermo che hanno fatto questo enorme regalo all’antimafia in generale e alla democrazia del nostro Paese. Latitante da trent’anni significa che per 30 anni la polizia giudiziaria in tutte le sue articolazioni e i magistrati ci hanno messo la loro professionalità, intelligenza, pazienza, tenacia, cocciutaggine, correndo dietro a questo fantasma che alla fine si è materializzato".

Ore 16.58 Il cugino festeggia l'arresto

Giuseppe Cimarosa è il cugino di Matteo Messina Denaro. Dopo aver preso le distanze da anni dal boss mafioso, Cimarosa ha esultato per l'arresto: "Questo è un giorno di gioia per me e la mi famiglia. Piango di felicità e di orgoglio. Il mio primo pensiero va a mio padre e a tutte le vittime che sono morte a causa di questo criminale e alle loro famiglie. Tutti i siciliani e, ancor di più, a tutti i castelvetranesi onesti ma anche quelli meno onesti che oggi posso davvero ritenersi liberi da un ombra che li ha tenuti sempre nel buio. Grazie Stato!".

Ore 17.37 La conferenza: "Indossava beni di lusso"

Paolo Guido, procuratore aggiunto di Palermo, ha rivelato che Matteo Messina Denaro indossava beni di lusso. "Non abbiamo trovato un uomo distrutto - ha dichiarato - in apparente buona salute, ben curato. In linea con un uomo di 60 anni di buone condizioni economiche. Non poteva affidarsi a personaggi lontani dal contesto territoriale ma su questo stiamo procedendo ad approfondimenti investigativi”. 

Ore 17.55 La conferenza: "La scena dell'arresto"

La pista giusta era battuta da tempo, ma la certezza che si trattasse di Matteo Messina Denaro è arrivata tre giorni fa. I carabinieri del Gis erano già alla clinica Maddalena dove il boss mafioso si sottoponeva alla chemioterapia da un anno. Messina Denaro è affetto da una forma tumorale aggressiva che attacca il colon. Il boss era all'ingresso della clinica, quando a un certo punto un carabiniere si è avvicinato e gli ha chiesto il suo nome: "Mi chiamo Matteo Messina Denaro", ha risposto. 

Ore 20.02 Nino Di Matteo: "Protetto dall'alto"

Il magistrato Nino Di Matteo è intervenuto a Sky Tg24: “Matteo Messina Denaro è stato catturato a Palermo, in pieno centro, e non possiamo quindi dimenticare il fatto che è stato latitante per 30 anni. Oggi tutti parlando di grande vittoria dello Stato, ma io credo che la grande vittoria dello Stato si avrà, veramente, quando si farà luce su due aspetti della storia criminale di Matteo Messina Denaro: il primo aspetto è quello delle sue conoscenze in merito ai moventi e i possibili ulteriori mandanti delle stragi del ’92 e del ’93, di cui è stato protagonista; il secondo aspetto è quello relativo a una latitanza di 30 anni che è stata troppo lunga per poter essere una latitanza normale. Sicuramente sarà stata, almeno in certi frangenti e da certi ambienti, protetta dall’alto”.

(ANSA il 16 gennaio 2023) -  Il boss mafioso Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. L'inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Tp) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. E' quanto apprende l'ANSA da fonti qualificate.

 Figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano (Tp) Ciccio, storico alleato dei corleonesi di Totò Riina, era latitante dall'estate del 1993, quando in una lettera scritta alla fidanzata dell'epoca, Angela, dopo le stragi mafiose di Roma, Milano e Firenze, preannunciò l'inizio della sua vita da Primula Rossa.

 "Sentirai parlare di me - le scrisse, facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue - mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità". Il capomafia trapanese è stato condannato all'ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell'acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del '92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del '93 a Milano, Firenze e Roma.

(ANSA il 16 gennaio 2023) -  Secondo quanto si apprende, Matteo Messina Denaro, boss latitante da 30 anni, sarebbe stato arrestato all'interno di una clinica privata di Palermo. Il blitz è stato coordinato dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. Messina Denaro è stato arrestato nella clinica privata La Maddalena di Palermo.

(Adnkronos il 16 gennaio 2023) - Il boss mafioso Matteo Messina Denaro è stato arrestato mentre era in day hospital alla clinica MADDALENA di Palermo. 

(ANSA il 16 gennaio 2023) - Matteo Messina Denaro si era recato nella clinica privata dove è stato arrestato "per sottoporsi a terapie". Lo dice il comandante del Ros dei carabinieri Pasquale Angelosanto dopo l'arresto del boss compiuto dagli uomini del raggruppamento speciale assieme a quelli del Gis e dei comandi territoriali.

(ANSA il 16 gennaio 2023) - "Una grande vittoria dello Stato che dimostra di non arrendersi di fronte alla mafia": così il presidente del Consiglio Giorgia Meloni commenta la notizia dell'arresto di Matteo Messina Denaro. "All'indomani dell'anniversario dell'arresto di Totò Riina, un altro capo della criminalità organizzata viene assicurato alla giustizia.

"I miei più vivi ringraziamenti, assieme a quelli di tutto il governo, vanno alle forze di polizia, e in particolare al Ros dei Carabinieri, alla Procura nazionale antimafia e alla Procura di Palermo per la cattura dell'esponente più significativo della criminalità mafiosa". Così il presidente del Consiglio Giorgia Meloni commenta la notizia dell'arresto di Messina Denaro. "Il governo - prosegue il presidente Meloni - assicura che la lotta alla criminalità mafiosa proseguirà senza tregua, come dimostra il fatto che il primo provvedimento di questo esecutivo - la difesa del carcere ostativo - ha riguardato proprio questa materia"

"Grandissima soddisfazione per un risultato storico nella lotta alla mafia". Così il ministro dell'interno Matteo Piantedosi appena appresa la notizia dell'arresto di Matteo Messina Denaro al suo arrivo ad Ankara per incontrare il suo omologo turco. "Complimenti - ha aggiunto - alla Procura della Repubblica di Palermo e all'Arma dei Carabinieri che hanno assicurato alla giustizia un pericolosissimo latitante. Una giornata straordinaria per lo Stato e per tutti coloro che da sempre combattono contro le mafie".

Secondo quanto si apprende il boss Matteo Messina Denaro era in cura nella clinica Maddalena di Palermo, nella quale oggi i carabinieri del Ros lo hanno arrestato dopo 30 anni di latitanza, da oltre un anno.

(ANSA il 16 gennaio 2023) - Matteo Messina Denaro non ha opposto resistenza durante l'arresto. È quanto si apprende da fonti investigative. I Ros hanno dispiegare un ingente numero di forze per mettere in sicurezza la clinica a Palermo dove l'uomo è stato arrestato la scorsa notte.

Dopo il blitz nella clinica a Palermo, l'ormai ex superlatitante Matteo Messina Denaro è stato trasferito in una località segreta. Denaro, a quanto si apprende da fonti investigative, faceva periodicamente controlli in quella struttura, che la scorsa notte durante il blitz del Ros era stata messa in sicurezza con diverse decine di uomini per tutelare tutti gli altri pazienti. Quando è stato arrestato, Messina Debaro non era allettato ma si stava facendo i controlli.

"Dopo trent'anni di latitanza è finito in manette il superboss Matteo Messina Denaro. È con profonda emozione che ringrazio le donne e gli uomini dello Stato che non hanno mai mollato, confermando la regola che prima o poi anche i più grandi criminali in fuga vengono braccati e assicurati alla giustizia. È una bella giornata per l'Italia e che serve da ammonimento per i mafiosi: le istituzioni e i nostri eroi in divisa non mollano mai". Lo dice il Vicepremier e Ministro Matteo Salvini commentando l'arresto del superlatitante.

(ANSA il 16 gennaio 2023) – "Catturare un latitante pericoloso senza ricorso alla violenza e senza manette è un segno importante per un paese democratico". Così il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia alla conferenza stampa sull'arresto di Messina Denaro. "Esprimo il mio grazie al collega Paolo Guido che ha portato avanti le indagini in modo magistrale e il mio affetto e riconoscimento all'Arma e al Ros che abbiamo visto lavorare in modo indefesso", continua.

"Allo stato non abbiamo elementi per parlare di complicità del personale della clinica anche perché i documenti che esibiva il latitante erano in apparenza regolari, ma le indagini sono comunque partite ora". Lo ha detto il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia alla conferenza stampa sulla cattura di Messina Denaro.

 "Matteo MESSINA Denaro finora non parla". Lo dice il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia, nel corso della conferenza stampa sull'arresto di Matteo Messina Denaro, presso la sede della Legione Carabinieri Sicilia, a Palermo.).

 Matteo Messina Denaro "ha goduto di protezioni importanti e le indagini ora sono concentrate sulle protezioni attuali di cui ha goduto". Lo ha detto il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, nel corso della conferenza stampa sulla cattura di Matteo Messina Denaro dopo 30 anni di latitanza".

"Non abbiamo allo stato elementi sul complicità da parte del personale della clinica, i documenti che utilizzava ad una prima lettura sembrano autentici. Gli accertamenti d'altro canto sono appena partiti. L'uomo che lo accompagnava è, come si dice, un perfetto sconosciuto se non per l'omonimia con un altro soggetto noto invece alle cronache, si chiama Giovanni Luppino e al momento è stato arrestato con l'accusa di favoreggiamento. Matteo Messina Denaro non parla, indicazioni non ne ha date e fino a stamattina non sapevamo neanche che faccia avesse. L'obiettivo primario era per noi la cattura". Così il procuratore della Repubblica di Palermo, Maurizio de Lucia, partecipando alla conferenza stampa a Palermo sull'arresto del boss mafioso.

Da ansa.it il 16 gennaio 2023.

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. […]

La certezza è arrivata tre giorni fa. I magistrati, che da tempo seguivano la pista, hanno dato il via libera per il blitz. I carabinieri del Gis erano già alla clinica Maddalena dove, da un anno, Messina Denaro si sottoponeva alla chemioterapia. Il boss, che aveva in programma dopo l'accettazione fatta con un documento falso, prelievi, la visita e la cura, era all'ingresso. La clinica intanto è stata circondata dai militari col volto coperto davanti a decine di pazienti. Un carabiniere si è avvicinato al padrino e gli ha chiesto come si chiamasse. "Mi chiamo Matteo Messina Denaro", ha risposto.

Dopo il blitz nella clinica,  l'ormai ex superlatitante è stato trasferito prima nella caserma San Lorenzo, poi all'aeroporto di Boccadifalco per essere portato in una struttura carceraria di massima sicurezza.

[…]

"Matteo Messina Denaro è stato catturato grazie al metodo Dalla Chiesa, cioè la raccolta di tantissimi dati informativi dei tanti reparti dei carabinieri, sulla strada, attraverso intercettazioni telefoniche, banche dati dello Stato, delle regioni amministrative per portare all'arresto di questa mattina". Lo dice il comandante dei carabinieri Teo Luzi, arrivato a Palermo. "Una grande soddisfazione perché è un risultato straordinario - aggiunge Luzi -. Messina Denaro era un personaggio di primissimo piano operativo, ma anche da un punto di vista simbolico perché è stato uno dei grandi protagonisti dell'attacco allo Stato con le stragi. Risultato reso possibile dalla determinazione e dal metodo utilizzato. Determinazione perché per 30 anni abbiamo voluto arrivare alla sua cattura soprattutto in questi ultimi anni con un grandissimo impiego di personale e di ricorse strumentali".

"Un risultato - conclude Luzi - grazie al lavoro fatto anche dalle altre forze di polizia particolare dalla polizia di Stato. La lotta a cosa nostra prosegue. Il cerchio non si chiude. E' un risultato che dà coraggio che ci dà nuovi stimoli ad andare avanti e ci dà metodo di lavoro per il futuro, la lotta alla criminalità organizzata è uno dei temi fondamentali di tutti gli stati". "E' il risultato di un lavoro corale che si è svolto nel tempo, che si è basato sul sacrificio dei carabinieri in tanti anni. L'ultimo periodo, quelle delle feste natalizie, i nostri lo hanno trascorso negli uffici a lavorare e a mettere insieme gli elementi che ogni giorno si arricchivano sempre di più e venivano comunicati. La Procura era aperta anche all'antivigilia, è stato uno sforzo corale". Lo ha detto Pasquale Angelosanto, comandante del Ros, nella conferenza stampa a Palermo sull'arresto di Matteo Messina Denaro.

Matteo Messina Denaro è stato bloccato in strada, nei pressi di un ingresso secondario della clinica La Maddalena. Lo hanno spiegato i carabinieri del Ros nel corso della conferenza stampa sull'arresto del boss di Cosa Nostra, spiegando che il blitz è scattato quando "abbiamo avuto la certezza che fosse all'interno della struttura sanitaria". Quando è stato bloccato, hanno aggiunto, Messina Denaro "non ha opposto alcuna resistenza" e "si è subito dichiarato, senza neanche fingere di essere la persona di cui aveva utilizzato l'identità". Alla domanda se Messina Denaro abbia tentato la fuga, gli investigatori hanno affermato di "non aver visto tentativi di fuga" anche se, hanno aggiunto, "sicuramente ha cercato di adottare delle tutele una volta visto il dispositivo che stava entrando nella struttura".

"Fino a ieri era certamente il capo della provincia di Trapani, da domani vedremo". Così il procuratore aggiunto Paolo Guido sugli assetti dei vertici di Cosa nostra dopo l'arresto di Messina Denaro.

"Abbiamo catturato l'ultimo stragista responsabile delle stragi del 1992-93". Così il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia ha aperto al conferenza stampa per l'arresto di Matteo Messina Denaro. "Siamo particolarmente orgogliosi del lavoro portato a termine questa mattina che conclude un lavoro lungo e delicatissimo. E' un debito che la Repubblica aveva con le vittime della mafia che in parte abbiamo saldato". "Catturare un latitante pericoloso senza ricorso alla violenza e senza manette è un segno importante per un paese democratico". Così il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia alla conferenza stampa sull'arresto di Messina Denaro.

Alla conferenza stampa sulla cattura di Matteo Messina Denaro il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, ha ricordato che "senza intercettazioni non si possono fare le indagini di mafia".

"Catturare un latitante pericoloso senza ricorso alla violenza e senza manette è un segno importante per un Paese democratico", ha sottolineato De Lucia elogiando il lavoro del Ros.

"Ci è apparso in buona salute e di buon aspetto non ci pare che le sue condizioni siano incompatibili con il carcere". Lo ha detto l'aggiunto di Palermo Paolo Guido alla conferenza stampa. "Era di buon aspetto, ben vestito, indossava capi di lusso ciò ci induce a dire che le sue condizioni economiche erano buone", ha aggiunto. "Ovviamente sarà curato come ogni cittadino ha diritto essere curato", ha concluso. Al momento della cattura indossava anche un orologio molto particolare del valore di 30-35mila euro. 

 Chi è il fiancheggiatore di Messina Denaro. E' un commerciante di olive, agricoltore di mestiere, incensurato. È il profilo di Giovanni Luppino, l'uomo arrestato stamattina insieme al superlatitante Matteo Messina Denaro. È stato lui a portarlo in macchina presso la clinica privata di Palermo per le cure. Luppino è di Campobello di Mazara, paese vicino a Castelvetrano, città natale del boss. Da qualche tempo gestiva, insieme ai figli, un centro per l'ammasso delle olive cultivar Nocellara del Belìce proprio alla periferia di Campobello di Mazara. La sua funzione era quello di intermediario tra i produttori e i grossi acquirenti che, in zona, arrivano dalla Campania.

L' arresto di Matteo Messina Denaro in una clinica oncologica è coerente con risultati investigativi, anche molto datati che lo indicavano affetto da serie patologie. Tracce del boss superlatitante risalenti al gennaio del 1994, lo collocavano infatti in Spagna, a Barcellona, dove si sarebbe sottoposto, presso una nota clinica oftalmica, ad un intervento chirurgico alla retina. Ma non solo: avrebbe accusato - sempre secondo risultanze investigative di alcuni anni fa- una insufficienza renale cronica, per la quale avrebbe dovuto ricorrere a dialisi.

Per non rischiare l'arresto durante gli spostamenti per le cure ed i trattamenti clinici, il boss avrebbe installato nel suo rifugio le apparecchiature per la dialisi. Una importante conferma sulle patologie accusate dal superlatitante giunse nel novembre scorso dal pentito Salvatore Baiardo, che all'inizio degli anni '90 gestì la latitanza dei fratelli Graviano a Milano. In un'intervista televisiva, su La7 a Massimo Giletti il pentito rivelo' che Matteo Messina Denaro era gravemente malato e che proprio per questo meditava di costituirsi.

"Questo è il risultato di anni di indagini di questo ufficio e delle forze di polizia che hanno prosciugato la rete dei favoreggiatori del boss Messina Denaro". Lo ha detto il procuratore aggiunto Paolo Guido che, insieme al procuratore Maurizio de Lucia, ha coordinato l'indagine per la cattura del capomafia di Castelvetrano. "Questo - ha aggiunto Guido - è anche il frutto di un difficile e complesso lavoro di coordinamento tra le forze di polizia che in questo momento devono essere tutte ringraziate".

I Carabinieri del Ros hanno arrestato l’ultimo “padrino” di Cosa Nostra: Matteo Messina Denaro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Gennaio 2023.

Il boss di Castelvetrano era latitante da 30 anni. È stato catturato dal Ros dei carabinieri in una struttura sanitaria in cui era andato per accertamenti clinici. Il presidente Meloni: "Il governo assicura che la lotta alla criminalità mafiosa proseguirà senza tregua"

“Oggi 16 gennaio 2023 i Carabinieri del Ros, del Gis e dei comandi territoriali della Regione Sicilia nell’ambito delle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Palermo hanno tratto in arresto il latitante Matteo Messina Denaro all’interno di una struttura sanitaria a Palermo dove si era recato per sottoporsi a terapie cliniche“. Lo ha reso noto il generale di divisione Pasquale Angelosanto, comandante dei Carabinieri del Ros che ha coordinato le operazioni dalla caserma intitolata al generale Carlo Alberto dalla Chiesa, sede della Legione Carabinieri Sicilia.

Trentaquattro anni dopo la sua prima iscrizione nel registro degli indagati, eseguita da Paolo Borsellino, è caduta l’ultima punta del triumvirato mafioso di Cosa Nostra. É finita oggi, quindi, la latitanza del boss Matteo Messina Denaro, figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano (Tp) Ciccio Messina Denaro, storico alleato dei corleonesi di Totò Riina, era latitante dall’estate del 1993 ed era ritenuto l’ultimo padrino di “Cosa nostra“. Il superlatitante noto anche con i soprannomi “U siccu” e “Diabolik”, legato a Cosa nostra, è considerato tra i latitanti più pericolosi e ricercati al mondo, ha tentato la fuga ma è stato bloccato ed arrestato all’interno di un bar della nota clinica specialistica “La Maddalena” in pieno centro a Palermo, nella zona di Lorenzo dove, secondo fonti della clinica stessa, si stava sottoponendo a cure per un tumore al colon e aveva metastasi epatiche per cui si sottoponeva a cicli periodici di trattamenti chemioterapici. Messina Denaro, che si era presentato per farsi curare con il nome di Andrea Bonafede, da quanto si apprende da fonti investigative, faceva periodicamente controlli in quella struttura, che la scorsa notte durante il “blitz” del Ros era stata messa in sicurezza con diverse decine di uomini per tutelare tutti gli altri pazienti.

Poco prima dell’arresto probabilmente Matteo Mesina Denaro notando la presenza dei carabinieri, ha provato a dileguarsi dirigendosi verso il bar della struttura, che si trova all’ingresso. Un tentativo di pochi istanti venendo bloccato e circondato dai Carabinieri. Un carabiniere che gli si è avvicinato gli ha chiesto avvicinato gli ha chiesto “Come ti chiami?” “Sono Matteo Messina Denaro”. Sono state queste le prima parole del boss arrestato. Insieme al boss mafioso è stato arrestato anche Giovanni Luppino, di Campobello di Mazara (Tp), accusato di favoreggiamento. Avrebbe accompagnato il boss alla clinica per le terapie, ed alla vista dei Carabinieri ha tentato di scappare ma è stato catturato in un bar a poche centinaia di metri dalla clinica.

Ad arrestarlo a Palermo i Carabinieri del Ros che 30 anni fa con un blitz riuscirono anche ad arrestare il capo dei capi, Totò Riina. A coordinare le indagini il procuratore della Repubblica di Palermo, Maurizio De Lucia e l’aggiunto Paolo Guido.  “Il latitante è stato arrestato all’interno di una clinica di Palermo. Non ha opposto resistenza. Si era recato lì per svolgere delle terapie mediche. Non si è opposto all’arresto e del resto il dispositivo allestito poteva fare fronte a ogni emergenza, garantendo la sicurezza di tutti”. ha detto il generale di divisione Pasquale Angelosanto, comandante dei Ros.

Più di cento uomini e un quartiere assediato dai Carabinieri sono stati necessari per catturare Matteo Messina Denaro. Un centinaio di Carabinieri del Ros, del Gis e del comando provinciale di Palermo da questa mattina presidiavano la zona di San Lorenzo attorno alla clinica “La Maddalena”. L’area è stata “sigillata” blindata” con carabinieri ad ogni uscita della struttura sanitaria. “All’improvviso, intorno alle 8.30 si questa mattina, abbiamo visto almeno 200 uomini, tutti vestiti di nero e incappucciati. Sono passati qui davanti e poco dopo abbiamo sentito dell’arresto di Matteo Messina Denaro”, hanno raccontato all’Adnkronos i due baristi del Bar San Lorenzo di Palermo, a poca distanza della clinica Maddalena.

Cappellino, cappotto di montone da uomo e occhiali da vista scuri, così si presentava Matteo Messina Denaro al momento dell’arresto. L’uomo, visibilmente ingrassato rispetto alle ultime foto conosciute su di lui che risalgono a diversi anni fa, tenuto sotto braccio dai Carabinieri ha attraversato a piedi in manette per alcune centinaia di metri il viale della clinica dopo l’arresto arrivando in strada, prima di essere portato via su un mezzo dei carabinieri del Ros.  “Bravi, bravi!“. Urla di incoraggiamento e applausi nei confronti dei carabinieri del Ros, da parte di decine di pazienti e loro familiari, hanno accompagnato l’arresto del superlatitante Messina Denaro avvenuto nella clinica privata.

Matteo Messina Denaro 60 anni, originario di Castelvetrano, aveva negli anni allargato il suo potere ad altri mandamenti mafiosi della Sicilia , specialmente dopo l’arresto di Totò Riina, Bernardo Provenzano e i fratelli Graviano. E’ stato condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia, e come mandante delle stragi del ’92 a Capaci ed in via D’Amelio dove persero la vita i magistrati “simbolo” dell’ Antimafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ed i componenti delle rispettive scorte.

L’ultima “primula rossa” di Cosa Nostra si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina. E mentre gli investigatori della Scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l’immagine giovanile del boss, il suo impero miliardario è stato smontato e sequestrato pezzo per pezzo, così smantellando la sua cerchia di protezione e canale di finanziamento. È così che è stato demolito il mito di un padrino che gestiva un potere infinito ma viveva come un fantasma, anche se la sua invisibilità non gli ha impedito di diventare padre due volte. Di una figlia si sa tutto: il nome, la madre, le scelte che l’hanno portata a separare la propria vita dall’ombra pesante di un padre che forse non ha mai visto. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in casa della nonna, poi con la madre ha cambiato residenza: non è facile convivere con lo stress delle perquisizioni, dei controlli e delle irruzioni della polizia. Dell’altro figlio si sa invece quel poco che è trapelato dalle intercettazioni: si chiama Francesco, come il vecchio patriarca della dinasty, ed è nato tra il 2004 e il 2005 in quel lembo della provincia di Trapani, fra Castelvetrano e Partanna, dove Matteo Messina Denaro ha costruito il suo potere economico e criminale.

Su di lui era stata posta una taglia da un milione e mezzo, ma per fargli attorno terra bruciata gli investigatori hanno stretto in una tenaglia micidiale la rete dei fiancheggiatori. Neanche i suoi familiari sono stati risparmiati: la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, un nipote. E tanta gente fidata, costituita da prestanome spesso insospettabili, che hanno subito ripetuti sequestri patrimoniali.

Gli abbracci tra i carabinieri, la loro esultanza, davanti al luogo della cattura, hanno sottolineato la storica cattura del superlatitante Matteo Messina Denaro, da parte dei Carabinieri del Ros. Il padrino di Castelvetrano è stato portato via un furgone bianco super scortato, fra gli applausi dei palermitani. Il boss è stato portato nella caserma della compagnia dei Carabinieri di San Lorenzo e successivamente verrà spostato alla legione Carabinieri Sicilia, la stessa dove venne condotto Totò Riina . Messina Denaro è stato trasferito all’aeroporto di Boccadifalco per essere rinchiuso in una struttura carceraria di massima sicurezza. La stessa cosa che accadde al boss Totò Riina, arrestato il 15 gennaio di 30 anni fa.

L’arresto ed il trasferimento di Matteo Messina Denaro

Volto coperto a metà, occhiali da sole, un giubbotto di montone e sguardo verso terra, senza manette, portato a braccetto da un carabiniere donna alla sua destra e un carabiniere uomo alla sua sinistra. Così il boss mafioso Matteo Messina Denaro, è stato accompagnato fuori dalla caserma San Lorenzo del comando dei carabinieri di Palermo ed è salito in un van con gli uomini del Ros a borso. Adesso sarà trasportato in elicottero in un carcere di massima sicurezza fuori dalla Sicilia.

Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni, a quanto si apprende, questa mattina sarà a Palermo. Incontrerà il procuratore distrettuale di Palermo, Maurizio de Lucia, i magistrati che hanno coordinato le indagini ed i Carabinieri del Ros che hanno eseguito l’arresto di Matteo Messina Denaro.

I particolari sull’arresto del boss Matteo Messina Denaro sono stati forniti in una conferenza stampa della Procura di Palermo e del Ros dell’Arma nella caserma della Legione dei Carabinieri di Palermo, che il CORRIERE DEL GIORNO trasmette in diretta.

L’arresto, breaking news in tutto il mondo

Fa il giro del mondo come “breaking news” l’arresto di Matteo Messina Denaro. Dal Guardian alla Bbc, dalla Cnn, dal Pais a Le Monde, passando per Al Jazeera, i siti internazionali ne danno ampio risalto ed in molti casi le dedicano l’apertura. Tutti sottolineano che Messina Denaro era “il boss mafioso più ricercato d’Italia e che è stato arrestato dopo 30 anni di latitanza”.

Due mesi fa, a novembre 2022, le rivelazioni choc di Salvatore Baiardo, a suo tempo uomo di fiducia del boss mafioso arrestato oggi, rilasciate a Massimo Giletti nel programma televisivo “Fantasmi di mafia”, su La7: “L’unica speranza dei Graviano è che venga abrogato l’ergastolo ostativo” e sul nuovo governo: “Che arrivi un regalino?…Che magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato e faccia una trattativa per consegnarsi lui stesso per fare un arresto clamoroso?“. E commentando sulla trattativa Stato-Mafia disse: “Non è mai finita”. In realtà secondo un più che autorevole avvocato conoscitore di storie di mafia, altro non era che un un messaggio di “allerta” per Mesina Denaro.

I commenti sull’operazione del Ros

Le telefonate di congratulazioni di Mattarella

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha telefonato questa mattina al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, e al comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Teo Luzi, per esprimere le sue congratulazioni per l’arresto, realizzato in stretto raccordo con la magistratura.

Meloni: “Lotta alla mafia proseguirà senza tregua”

“Una grande vittoria dello Stato che dimostra di non arrendersi di fronte alla mafia”. Così il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. “All’indomani dell’anniversario dell’arresto di Totò Riina, un altro capo della criminalità organizzata – aggiunge la premier – viene assicurato alla giustizia”. “I miei più vivi ringraziamenti, assieme a quelli di tutto il governo, vanno alle Forze di Polizia, e in particolare al Ros dei Carabinieri, alla Procura nazionale antimafia e alla Procura di Palermo per la cattura dell’esponente più significativo della criminalità mafiosa“. “Il Governo -conclude la Meloni– assicura che la lotta alla criminalità mafiosa proseguirà senza tregua, come dimostra il fatto che il primo provvedimento di questo esecutivo -la difesa del carcere ostativo- ha riguardato proprio questa materia”

Rita Dalla Chiesa: “Lo Stato quando vuole c’è“

L’arresto del superlatitante dopo 30 anni Matteo Messina Denaro questa mattina a Palermo, avvenuto questa mattina nella clinica privata Maddalena di Palermo dove il boss si trovava per sottoporsi a una serie di cure, è stato commentato sul suo profilo twitter da Rita Dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ucciso dalla mafia quarant’anni fa. «Dimostra che lo stato, quando vuole, c’è – ha scritto la deputata di Forza Italia -. E vince sul male. Poi qualcuno ci spiegherà… Ma oggi c’è solo la grande vittoria del carabinieri e del ministro Piantedosi. Grazie. Anche a nome delle troppe vittime che non ci sono più”.

Piantedosi: “Una giornata straordinaria per lo Stato”

“Grandissima soddisfazione per un risultato storico nella lotta alla mafia”, ha dichiarato il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi appena appresa la notizia al suo arrivo ad Ankara per incontrare il suo omologo turco. “Complimenti alla Procura della Repubblica di Palermo e all’Arma dei Carabinieri che hanno assicurato alla giustizia un pericolosissimo latitante. Una giornata straordinaria per lo Stato e per tutti coloro che da sempre combattono contro le mafie”.

Crosetto: “Grande giorno per tutti gli italiani“

“È un grande giorno per lo Stato e per tutti gli italiani”. Ad affermarlo è il ministro della Difesa, Guido Crosetto. “L’arresto del super latitante Mattia Messina Denaro – sottolinea il ministro – è un colpo durissimo per la mafia e la criminalità organizzata. Mi congratulo con i Carabinieri e in particolare con il Ros, il Raggruppamento operativo speciale. Complimenti a tutte le forze dell’ordine e alla magistratura, dalla procura di Palermo alla procura nazionale antimafia, che in questi anni hanno lavorato in silenzio ma incessantemente per ottenere questo importante risultato che simbolicamente arriva all’indomani dell’anniversario della cattura del capo dei capi Toto’ Riina. Alle migliaia di persone che ogni giorno, in silenzio, operano a tutela della legalità e a difesa della giustizia va il grazie di tutti gli italiani – conclude il ministro – Questa è la vittoria delle istituzioni e dei cittadini onesti. La lotta alla mafia non avrà tregua”.

Nordio: “Chiusa stagione più drammatica della Repubblica”

“Oggi con l’arresto di Matteo Messina Denaro si chiude davvero una delle più drammatiche stagioni della storia della Repubblica. Con la cattura dell’ultimo super latitante, si rinnova altresì l’impegno quotidiano nella lotta ad ogni mafia e ad ogni forma di criminalità. Ho voluto subito congratularmi al telefono con il Procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, con il Comandante dei carabinieri Gen. Teo Luzi e con il collega ministro dell’interno, Matteo Piantedosi per questo risultato che è il compimento del lungo e prezioso impegno di tanti magistrati e tanti agenti delle forze dell’ordine: con loro è proseguito il lavoro diá Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di tutti i servitori dello Stato, che hanno pagato anche con la vita la difesa dei valori democratici”. Così il ministro della Giustizia Carlo Nordio, commenta la notizia della cattura del super boss di mafia Matteo Messina Denaro.

De Lucia: “Risultato importantissimo“

“L’arresto di Matteo Messina Denaro è senza dubbio un risultato importantissimo, frutto di lunghe e difficili indagini. Fondamentale è stata la professionalità e la dedizione dell’Arma dei Carabinieri e, in generale, di tutte le forze dell’ordine che in questi anni non hanno mai cessato di cercare l’ultimo boss stragista ancora libero”. Lo ha detto all’ANSA il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia.

Capo Polizia, vittoria per tutte le forze dell’ordine

Il capo della Polizia di Stato – direttore generale della Pubblica Sicurezza Lamberto Giannini con un tweet ha espresso “le sue congratulazioni all’Arma dei Carabinieri e alla Procura della Repubblica di Palermo per lo storico arresto di Matteo Messina Denaro. Una vittoria per tutte le Forze dell’Ordine che in questi lunghi anni hanno collaborato per assicurare alla giustizia il pericoloso latitante”.

Caselli: “Ora possibili sviluppi su stragi mafia”

“L’arresto di Matteo Messina Denaro è un evento di portata eccezionale, semplicemente storico che arriva trent’anni dopo l’arresto di Riina e anche dopo gli arresti di Brusca, Bagarella, Provenzano e tantissimi altri”. Così Gian Carlo Caselli, contattato dall’agenzia LaPresse, aggiunge: “Onore ai carabinieri del Ros e alla Procura di Palermo che hanno fatto questo colpo che porta in carcere un latitante talmente importante per Cosa nostra da esser chiamato dai suoi complici ‘Madre Natura’ e che ebbe certamente un ruolo nelle stragi del 93 – prosegue il magistrato che nella sua lunga carriera è stato, tra l’altro, a capo delle procure di Palermo e Torino – E’ un arresto fondamentale anche per gli sviluppi possibili che potrebbero esserci“.

Maria Falcone: “Grande vittoria per l’Italia. Oggi è una bellissima giornata per il nostro Paese“

“L’arresto di Matteo Messina Denaro, l’ultimo ancora libero dei capi criminali responsabili delle stragi del ’92-’93, è una grande vittoria per tutta l’Italia“. Lo afferma la professoressa Maria Falcone, presidente della Fondazione dedicata al fratello Giovanni. “La gratitudine di tutti noi cittadini – prosegue Maria Falcone – va alla procura di Palermo e ai Ros per questo importantissimo successo. È la riprova che i mafiosi, a dispetto dei loro deliri di onnipotenza, alla fine sono destinati alla sconfitta nel conflitto con lo Stato democratico. Oggi è una bellissima giornata per il nostro Paese” .

I carabinieri ringraziano i palermitani: “La vostra gioia è la nostra”

“La vostra gioia si fonde con la nostra per continuare a costruire insieme una società libera dall’oppressione mafiosa. I vostri ‘grazie ragazzi’ gettano le basi per un futuro migliore e ripagano anni di impegno e duro lavoro”. Così in un tweet l’Arma dei Carabinieri ha voluto ringraziare i cittadini palermitani che questa mattina hanno applaudito gli uomini e le donne del Ros, del Gis e dei comandi territoriali dopo l’arresto del boss Matteo Messina Denaro nella clinica La Maddalena.

La vostra gioia si fonde con la nostra per continuare a costruire insieme una società libera dall’oppressione mafiosa. Redazione CdG 1947

Cattura Matteo Messina Denaro, il colonnello Arcidiacono: «L’ho visto e non ho avuto dubbi». Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

L’ufficiale a capo di 100 uomini: «Le manette non servivano. Alla fine lui ci ha ringraziati per come l’abbiamo trattato». «Gli abbiamo dato dell’acqua e chiesto se avesse bisogno di mangiare qualcosa per le medicine»

Come il capitano Ultimo con Totò Riina anche lui ha guidato una squadra di «cacciatori» alla ricerca del superlatitante Matteo Messina Denaro. Ma, a differenza di «Ultimo», a missione compiuta preferisce non indossare il «mefisto» o sciarponi per nascondere la propria identità. Tutt’altro. Il colonnello Lucio Arcidiacono ci mette la faccia e non ha alcun timore a svelare la sua identità. «Sono il comandante di un reparto operativo che ha degli obblighi e ritengo di dover operare in questo modo — replica secco a chi glielo fa notare —, in passato ho più volte testimoniato in vari processi. Non ho nulla da nascondere».

E poi aggiunge: «Anche perché io sono entrato nell’Arma il 28 ottobre del 1993 e un siciliano capisce bene cosa significa». Come a dire: la stagione di sangue culminata con le stragi del ’92-’93 Arcidiacono se la porta dentro come una ferita ancora sanguinante. È questo omaccione nato a Catania 49 anni fa il capo operativo della squadra che, seguendo quello che ci tengono a definire «il metodo dalla Chiesa», ha stretto il cerchio attorno a Messina Denaro. Un passato a capo dei Ros di Catania dove scoperchiò il pentolone delle collusioni tra mafia e politica, anni fa è tornato a Palermo per coordinare la squadra messa su per dare la caccia al boss.

«Io e i mei uomini eravamo sulle sue tracce da almeno 8 anni — spiega—. Prima al reparto anticrimine di Palermo e poi come comandante del primo reparto investigativo che si dedica proprio alla ricerca dei grandi latitanti». Ai suoi ordini almeno un centinaio di militari («ma dei miei non dico nulla») che dopo lunghe indagini fatte di intercettazioni e pedinamenti, soprattutto di natura informatica, hanno intuito che quell’uomo che si spacciava per Andrea Bonafede potesse essere proprio l’ultimo dei grandi latitanti di Cosa nostra. «Tutto è cominciato — racconta — intorno alle 6.30. Sapevamo che Bonafede sarebbe andato alla clinica, ma non avevamo la certezza di chi si celava dietro quel nome. È arrivato a bordo di una Fiat Bravo bianca e si è subito diretto all’accettazione». La cattura però avviene successivamente, fuori dal perimetro della clinica Maddalena. Il sedicente Bonafede «esce su una stradina laterale intorno alle 8.20, probabilmente diretto in un baretto per fare colazione».

Nessuna fuga o resistenza. «Appena ha visto che c’era confusione e il traffico bloccato è solo tornato indietro sulla stessa stradina, ma anche dall’altra parte c’erano i miei uomini». E poi la scena che scioglie ogni dubbio. «Quando l’ho visto l’ho riconosciuto subito, la somiglianza con le foto segnaletiche è impressionante. Mi sono qualificato e gli ho detto se era Messina Denaro. E lui: “Lo sa bene chi sono io”. Poi ce l’ha confermato in modo esplicito». Ha avuto la sensazione che anche lui la conoscesse? «Non lo so». Ma ricorda bene come ha reagito. «Sembrava una persona completamente diversa rispetto allo stereotipo del mafioso. Parla abbastanza bene, ha un tono di voce molto calmo e pacato. Gli abbiamo dato dell’acqua e gli abbiamo chiesto se aveva bisogno di mangiare qualcosa per prendere le medicine. Ci ha risposto che non ne aveva bisogno».

Allo spietato criminale sono state risparmiate le manette. «Ci sono delle regole e vanno rispettate — dice Arcidiacono —. Altrimenti non facciamo il nostro lavoro. Lui ci ha pure ringraziati per come lo abbiamo trattato e forse si è reso conto anche del gran lavoro fatto per catturarlo». La soddisfazione del colonnello Arcidiacono fa a gara con la riconoscenza per i suoi uomini. «In particolare dedico questo successo al nostro maresciallo...». Il riferimento è a Filippo Salvi, morto a Bagheria nel 2007 a soli 36 anni. Precipitò da una collinetta mentre stava piazzando una telecamera. «Non era una delle tante indagini — si commuove Arcidiacono —, era proprio finalizzata alla cattura di Messina Denaro».

Sandra Figliuolo per palermotoday.it il 16 gennaio 2023.

Discreto, sempre lontano dai riflettori, ma da anni sulle tracce di Matteo Messina Denaro, prima alla guida della Dda di Trapani e Agrigento e poi da coordinatore unico - fatto senza precedenti a Palermo - dell'intera Direzione distrettuale, Paolo Guido, 55 anni, originario di Cosenza, oggi era visibilmente commosso. La cattura dell'ultimo dei Corleonesi arriva infatti al culmine di anni di indagini, per le quali aveva la delega dal 2017. Lunghissimo l'abbraccio con i vertici del Ros dei carabinieri, a cominciare dal generale Pasquale Angelosanto, stamattina in Procura. 

"Questo risultato - ha spiegato il magistrato - giunge dopo anni di grande impegno di questo ufficio e delle forze di polizia durante i quali è stata prosciugata la rete di fiancheggiatori del boss Matteo Messina Denaro ed è anche frutto di un difficile e complesso lavoro di coordinamento tra le forze dell'ordine, che in questo momento devono essere tutte ringraziate".

 Negli ultimi anni si è detto e scritto costantemente che "il cerchio attorno al boss si stringe", ma per molto tempo nella rete sono caduti appunto i suoi fiancheggiatori e praticamente tutti i suoi parenti. Solo oggi la svolta che si attendeva da ormai 30 anni.

Paolo Guido è in magistratura dal 1995 e ha indagato anche sulla così detta trattativa, ma - nonostante la fortissima attenzione mediatica sul processo - nel 2012 rifiutò di firmare l'avviso di conclusione delle indagini, non condividendo l'impostazione dei colleghi. Una scelta silenziosa, fatta senza clamore, sulla quale non rilasciò dichiarazioni o interviste. Lontano dai riflettori anche allora.

Mafia, dopo 30 anni di latitanza arrestato boss Matteo Messina Denaro: era in una clinica privata a Palermo. In manette l'uomo che lo accompagnava per le terapie. L'inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Tp) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Gennaio 2023

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro, 60 anni, è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. L'inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano (Tp) è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. È stato arrestato all’interno di una clinica privata di Palermo, "La Maddalena", dove si sottoponeva alla chemioterapia dopo essere stato operato un anno fa all'addome. Sul documento falso esibito ai sanitari c'era scritto il nome di Andrea Bonafede. Dopo il blitz è stato trasferito in una località segreta e condotto nella caserma San Lorenzo dai carabinieri, per poi dall'aeroporto di Boccadifalco essere portato in una struttura carceraria di massima sicurezza, proprio come accadde al boss Totò Riina, arrestato il 15 gennaio di 30 anni fa. Denaro da oltre un anno faceva periodicamente controlli in quella struttura, che la scorsa notte durante il blitz del Ros era stata messa in sicurezza con diverse decine di uomini per tutelare tutti gli altri pazienti. Quando è stato arrestato non era allettato, ma si stava facendo i controlli. Non ha opposto resistenza al momento dell'arresto. «Bravi, bravi!». Urla di incoraggiamento e applausi nei confronti dei carabinieri del Ros, da parte di decine di pazienti e loro familiari, hanno accompagnato l’arresto del superlatitante. Insieme a lui è stato arrestato anche Giovanni Luppino, di Campobello di Mazara (Tp), accusato di favoreggiamento. Avrebbe accompagnato il boss alla clinica per le terapie. È un commerciante di olive.

GLI ULTIMI ATTIMI DELLA CATTURA E LA REAZIONE DI GIORGIA MELONI

«Sono Matteo Messina Denaro». Sono state queste le prima parole del boss, che avrebbe cercato di allontanarsi alla vista dei carabinieri. Un tentativo di pochi istanti fermato sul nascere. La certezza è arrivata tre giorni fa, e i magistrati, che da tempo seguivano la pista, hanno dato il via libera per il blitz, I carabinieri del Gis erano già alla clinica Maddalena e il boss, che aveva in programma dopo l’accettazione fatta con il documento falso, prelievi, la visita e la cura, era all’ingresso, a quanto pare al bar, in attesa dell'esito del tampone per il ricovero in day hospital. La clinica intanto è stata circondata dai militari col volto coperto davanti a decine di pazienti. «Una grande vittoria dello Stato che dimostra di non arrendersi di fronte alla mafia»: così il presidente del Consiglio Giorgia Meloni commenta la notizia dell’arresto di Matteo Messina Denaro. «All’indomani dell’anniversario dell’arresto di Totò Riina, un altro capo della criminalità organizzata viene assicurato alla giustizia».

DUE MESI FA IL PENTITO BAIARDO: «È MALATO, POTREBBE CONSEGNARSI»

Due mesi fa, nel mese di novembre, le rivelazioni shock del pentito Salvatore Baiardo a Massimo Giletti per Non è l’Arena su La7 avevano in qualche modo «previsto» la cattura di Matteo Messina Denaro. L’uomo che all’inizio degli anni '90 aveva gestito la latitanza dei fratelli Graviano aveva affermato tra l’altro nel corso dell’intervista: «L'unica speranza dei Graviano è che venga abrogato l’ergastolo ostativo» e sul nuovo governo: «Che arrivi un regalino? Magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato e faccia una trattativa per consegnarsi lui stesso per fare un arresto clamoroso?». E anche sulla trattativa Stato-mafia era stato tranciante: «Non è mai finita».

EMILIANO: «DA OGGI L'ITALIA E' PIU' FORTE»

«L'Italia da oggi è più forte. L'arresto di Messina Denaro mi commuove e scarica tutta la rabbia che ho accumulato in tanti anni. Ho telefonato al Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri Teo Luzi e al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni per esprimere la gratitudine e l’orgoglio di tutti i pugliesi per questa cattura attesa da decenni». Lo scrive su Facebook il governatore pugliese e magistrato in aspettativa Michele Emiliano.

«L'atroce morte dei martiri di tutte le mafie - e in particolare oggi quella degli eroi siciliani - può trovare giustizia. Non fermiamoci. Fino alla vittoria. Viva la Sicilia, Viva l’Italia, Viva l’Arma dei Carabinieri!», conclude Emiliano.

Catturato Matteo Messina Denaro: il pupillo di Totò Riina protagonista delle stragi. Andrea Riccardi su Il Tempo il 17 gennaio 2023

Per molti era il nuovo «capo dei capi». Per altri era rimasto solo un capo di mandamento. Di certo, Matteo Messina Denaro, detto «u siccu», è stato protagonista assoluto di una lunga stagione mafiosa che ha segnato in maniera indelebile il nostro Paese. Messina Denaro «ha partecipato con consapevolezza» alla strategia stragista degli anni Novanta, di cui furono vittime anche Falcone e Borsellino. Il ruolo del boss di Cosa Nostra nella cupola stragista, di cui era l'ultimo esponente in libertà, è stato definito con molta chiarezza da Gabriele Paci. L'attuale capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trapani indicò la statura mafiosa di "u siccu", nella requisitoria al processo cominciato nel 2017 e concluso dopo tre anni con l'ergastolo: «La decisione di uccidere i due giudici non fu un fatto isolato, ma ben piazzato al centro di una strategia stragista a cui Matteo Messina Denaro ha partecipato con consapevolezza dando disponibilità totale della propria persona, dei propri uomini, del proprio territorio e delle famiglie trapanesi, al piano di Riina che ne fu così rafforzato e che consentì alla follia criminale del capo di Cosa Nostra di continuare nel proprio intento: anzi, piu che di consenso parlerei di totale dedizione alla causa corleonese». Il latitante, originario di Castelvetrano, dove era nato nel 1962, era già stato condannato all'ergastolo per le stragi di Firenze, Roma e Milano in cui morirono dieci persone. Il boss fu anello di collegamento tra le bombe del 1992 pretese da Totò Riina e gli attentati del 1993 voluti da Bernardo Provenzano.

La sua, all'interno di Cosa nostra, fu un'ascesa rapida, e la sua latitanza, il suo essere diventato un fantasma, è stato il «dazio da pagare» per la sua carriera criminale che conosce un punto di svolta quando Totò Riina lo nomina reggente della provincia di Trapani. Il figlio di Francesco "Ciccio" Messina Denaro era il «pupillo» di Totò Riiina. La sua famiglia era storicamente legata a quella di "U curtu". Appena ventenne partecipò attivamente, dalla parte dei corleonesi, alla guerra contro le famiglie ribelli di Marsala e del Belice. «Era il suo successore, una sua creatura. Il futuro di Cosa Nostra in quella provincia (Trapani, ndr) era Messina Denaro, incensurato, sconosciuto alle forze dell'ordine. Ricopriva una posizione invidiabile per quanto riguardava le aspettative di Riina e di suo padre Francesco, ed era libero di muoversi». Così descriveva la sua ascesa criminale il procuratore capo Antonino Patti, nel corso della requisitoria del processo in Corte d'assise d'appello a Caltanissetta. «Nel 91/92 Ciccio Messina Denaro - ha spiegato Patti - non era ancora vecchio e neanche così malato da non poter esercitare il ruolo di capo provincia, ma come reggente scelse il figlio Matteo. Era tutto già stabilito, perché Matteo era capace a livello criminale, attestazione proveniente da Totò Riina il quale gli fece fare un tirocinio di cinque anni. Riina disse, riferendosi a Francesco Messina Denaro, "questo figlio me lo diede per farne quello che dovevo fare"». Matteo Messina Denaro, scrivono i giudici di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza che ha condannato all'ergatolo il boss per le stragi del 1992 - è stato «l'unico a seguire il boss corleonese (...)». «Le famiglie trapanesi, divenute al termine della guerra di mafia dell'81 le più fedeli alleate dei corleonesi spiegavano ancora i giudici sono state le prime ad essere informate da Riina della nuova strategia mafiosa di attacco allo Stato».

Ed è proprio nel 1989 che "U siccu" compare per la prima volta in un fascicolo d'indagine di Paolo Borsellino. Anni più tardi Matteo Massina Denaro avrà un ruolo proprio nell'indicare a Riina i giudici come obiettivi da colpire con le stragi del '93, anno in cui, dopo una vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano, inizia la sua latitanza durata trenta anni. La vita del boss, però, non corre solo parallela alla stagione stragista. Messina Denaro è stato condannato all'ergastolo per decine di omicidi, tra cui quello di Giuseppe Di Matteo, di soli 12 anni. Il ragazzino fu sequestrato per costringere il padre Santino a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci, e infine sciolto nell'acido. Era il 1996. In quello stesso anno, "U siccu" sarebbe diventato padre di una bimba nata dalla relazione con Franca Alagna, la donna del boss, seconda forse, per importanza, solo alla sorella Patrizia, condannata nel 2018 a 14 anni di carcere per associazione mafiosa.

 Matteo Messina Denaro è stato arrestato dopo 30 anni: giornata nera per la Mafia. Il Tempo il 16 gennaio 2023

"Sì, sono Matteo Messina Denaro". Cinque parole che sanciscono la fine della mafia corleonese, della stagione delle stragi del 1992 e 1993, della Cosa Nostra militare. Trent'anni e un giorno dopo l'arresto di Totò Riina, il capo dei capi, i carabinieri del Ros, dei Gis e dei reparti territoriali di Palermo e Trapani hanno catturato il suo delfino, il giovane boss preferito fra tanti da Riina. I magistrati della direzione distrettuale antimafia di Palermo, guidati dal procuratore aggiunto Paolo Guido, finalmente possono togliersi quello che lo stesso procuratore Maurizio de Lucia ha chiamato "l'ultimo debito che avevamo con lo Stato e i cittadini".

L'hanno catturato mentre stava per sottoporsi a una seduta di chemioterapia nel reparto di Oncologia della clinica La Maddalena di Palermo, nel quartiere San Lorenzo. Si era appena accreditato all'accettazione con il nome falso di Andrea Bonafede, si era sottoposto a tampone per il Covid e stava per sottoporsi agli esami ematici propedeutici alla somministrazione dei farmaci chemioterapici. Nel reparto però non ci è mai arrivato. Un colonnello dei Gis, la punta di diamante dei reparti speciali dell'Arma, lo ha bloccato in un vialetto laterale davanti all'accettazione. Non ha opposto resistenza e senza manette è stato fatto salire su un furgone nero. Prima di essere rinchiuso in un istituto di pena siciliano è passato per la caserma della compagnia di San Lorenzo. "Messina Denaro è compatibile con il regime carcerario e abbiamo chiesto per lui il regime speciale del 41 bis", ha sottolineato il procuratore capo de Lucia. Nelle prossime ore la 'Primula rossa' verrà trasferita in una struttura di massima sicurezza in grado di garantirgli il prosieguo delle cure oncologiche. "La terapia che doveva fare oggi, verrà recuperata nei prossimi giorni", ha assicurato il procuratore aggiunto Paolo Guido che ha coordinato la cattura dell'ultimo dei corleonesi.

Matteo Messina Denaro da un anno era in cura nella clinica di Palermo per cercare di sconfiggere il cancro. La malattia si era presentata alcuni anni fa al colon, tanto che si era sottoposto a un primo intervento chirurgico due anni fa per ridurre il tumore al tratto dell'intestino. Ma il male non era stato sconfitto e l'anno scorso i medici della Maddalena gli avevano diagnosticato alcune metastasi al fegato. Gli stessi medici della casa di cura lo operarono per rimuoverle e ora Messina Denaro stava sottoponendosi ai cicli di chemioterapia previsti dai protocolli. Il cancro dunque, una malattia umana, è stata determinante nella sua cattura. Le cure per provare a restare in vita lo hanno esposto, ne hanno minato l'ermetica protezione, l'hanno costretto a cedere sulla maniacale rete di protezione.

Con lui è stato arrestato per favoreggiamento Giovanni Luppino incensurato di Campobello di Mazara (gestiva un centro per la raccolta delle olive a Nocellara del Belice), che faceva da autista al boss. Le indagini sulla cattura hanno avuto un'accelerata decisiva a fine anno quando nelle intercettazioni di familiari e possibili fiancheggiatori è stato fatto il nome di Andrea Bonafede legato a questioni mediche. Il lavoro certosino con il database del sistema sanitario nazionale hanno definitivamente chiuso il cerchio. Per oggi era prenotata la chemioterapia per un uomo siciliano di 60 anni. "E lo stesso uomo tre giorni fa si era sottoposto a una visita oculistica all'occhio sinistro. A quel punto - svela l'aggiunto Guido - abbiamo capito che poteva essere lui".

Messina Denaro, il procuratore capo: "Pagato il debito con le vittime, ma la mafia non è sconfitta". In conferenza stampa, la procura di Palermo e l'Arma dei carabinieri hanno confermato con orgoglio la cattura di Messina Denaro: "Saldato un debito con le vittime". Francesca Galici il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale. il 16 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Poco prima della conferenza stampa indetta per le 17, davanti alla caserma Carlo Alberto Dalla Chiesa di Palermo, sede della Legione carabinieri Sicilia, è stato affisso un cartello. "Grazie", si legge a grandi lettere. Una parola che oggi i palermitani hanno detto più volte, soprattutto ai ragazzi dei reparti speciali dei carabinieri che hanno arrestato Matteo Messina Denaro. "Siamo particolarmente orgogliosi del lavoro fatto questa mattina che chiude il lavoro fatto da tutte le forze di polizia dello Stato", ha dichiarato Maurizio De Lucia, procuratore della Repubblica di Palermo.

Arrestato il boss Matteo Messina Denaro: era latitante da 30 anni

"Abbiamo catturato l'ultimo stragista del periodo 92-93. Abbiamo saldato un debito con le vittime", ha aggiunto il procuratore. De Lucia ha sottolineato come Matteo Messina Denaro sia stato portato via senza manette: "Abbiamo catturato un latitante pericolosissimo senza alcuna violenza né con l'uso delle manette, come un Paese democratico pretende". Per lui è stato proposto il regime 41-bis presso una casa circondariale che non può essere divulgata.

L'individuazione di Messina Denaro

In conferenza stampa è intervenuto anche il generale Pasquale Angelosanto, comandante del Ros dei Carabinieri: "Dopo un percorso investigativo durato molti anni nell'ultimo periodo abbiamo acquisito elementi legati alla salute del latitante, e al fatto che stesse frequentando una struttura sanitaria per curare la sua malattia". Il generale, che questa mattina con un video ha comunicato l'avvenuta cattura, ha sottolineato che "il lavoro è stato caratterizzato da rapidità, riservatezza, e dal modo che ci ha consentito in poche settimane gli elementi per individuare una data, quella di oggi, in cui Messina Denaro si sarebbe sottoposto ad accertamenti".

Il generale ha voluto evidenziare il duro lavoro effettuato negli ultimi mesi, rivelando che "i nostri hanno passato le ultime feste natalizio a lavorare per arrivare a questo arresto". Questo risultato storico "è frutto del lavoro di tanti", ha proseguito Angelosanto, che rispondendo a una domanda dei giornalisti ha spiegato che "l'accostamento della persona con il nome falso al latitante era stato ipotizzato nei giorni scorsi, ma è stato accertato stamattina. Il riscontro lo abbiamo avuto stamattina".

Le condizioni di Messina Denaro

Il colonnello Giuseppe Arcidiacono, comandante provincia dei carabinieri di Palermo, ha dichiarato: "Il latitante si è palesato subito nella sua identità, e guardandolo c'era anche poco da verificare, il volto è quello che ci aspettavamo di trovare". Il colonnello ha sottolineato che Messina Denaro non ha opposto alcuna resistenza e che le sue condizioni di salute generali siano buone, compatibili con quelle di un sessantenne in cura: "non abbiamo trovato un uomo distrutto e in bassa fortuna. Era in apparente buona salute, assolutamente curato. Insomma, un profilo di un uomo di 60 anni in buone condizioni economiche". Per questo motivo, il procuratore Guido ha riferito di condizioni compatibili con il carcere.

"Era ben vestito, indossava capi decisamente di lusso, possiamo desumere da questo che le sue condizioni economiche erano tutt'altro che difficili", ha aggiunto Guido. In queste ore sono in corso perquisizioni, come ha aggiunto il procuratore aggiunto Paolo Guido, e sono attualmente in corso le indagini sulla rete di protezioni. Al momento dell'arresto il boss Matteo Messina Denaro indossava un orologio da 30-35 mila euro. Al momento il boss non ha ancora parlato e non è stato ancora interrogato.

I fiancheggiatori di Messina Denaro

Messina Denaro ha fruito di una importante copertura che ha agevolato la sua latitanza: "C'è una fetta di borghesia mafiosa che ha aiutato questa latitanza, su questo abbiamo contezza e ci sono in corso delle indagini". Al momento, gli inquirenti non hanno "elementi su presunto coinvolgimento o complicità da parte della clinica, il latitante aveva fornito documenti falsi. Naturalmente gli accertamenti sono all'inizio". Gli inquirenti hanno anche sottolineato come sia stato fondamentale il lavoro svolto negli ultimi anni, con gli arresti che si sono susseguiti e che "hanno ristretto la rete di protezione di Messina Denaro". Il procuratore De Lucia ha voluto mettere in evidenza l'importanza delle intercettazioni telefoniche, senza le quali "non si possono fare indagini e le indagini non portano da nessuna parte, questo deve essere chiaro. Anche in questa operazione le intercettazioni sono state fondamentali".

Il futuro dei mandamenti dopo l'arresto

L'arresto di Matteo Messina Denaro crea inevitabilmente un terremoto nei mandamenti mafiosi. "Sono in corso attività di indagine sul territorio trapanese da cui trarremo elementi ma da cui emerge piena fiducia su Matteo Messina Denaro. Fino a ieri continuava a essere il capo della provincia. Da domani vedremo", ha spiegato il procuratore aggiunto Paolo Guido sugli assetti dei vertici di Cosa nostra dopo l'arresto. Matteo Messina Denaro questa mattina proveniva "dall'area trapanese ma di più non posso dire perchè ci stiamo lavorando", ha dichiarato Maurizio De Lucia. Gli equilibri cambieranno necessariamente da domani, considerando che, come ha sottolineato il procuratore De Lucia, "era un capo operativo con un ruolo di garanzia importante per la gestione degli affari" ma non veniva considerato il capo di Cosa nostra.

I parenti intercettati e le cartelle cliniche. I segreti del blitz su Messina Denaro. Tecniche ultra moderne e ascolto delle telefonate. La "terra bruciata" attorno al boss. La profezia (smentita) del pentito Baiardo e il giallo dei due anni di visite. Luca Fazzo il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

«Andrea Bonafede. Data di nascita: 23/10/1963. Statura: 1,77. Fumatore: sì fino a 15 anni fa». É la cartella clinica del dipartimento oncologico di III livello dell'ospedale Maddalena di Palermo il penultimo tassello della caccia a Matteo Messina Denaro. A quel «penultimo miglio», come lo chiamano ieri gli inquirenti, i carabinieri del Ros arrivano incrociando due strumenti. Da una parte un codice alfanumerico, le tecniche ultramoderne di incrocio dei database. Dall'altro l'ascolto metodico, paziente, di ogni intercettazione, anche la più apparentemente innocua. É in questa tenaglia che si frantuma la latitanza trentennale dell'ultimo padrino. Ma questa tenaglia non sarebbe scattata se intorno al boss non fosse stata fatta metodicamente terra bruciata per anni, arrestando chiunque potesse muoverglisi attorno, asciugando il mare in cui ha nuotato per anni indisturbato. Tagliando le entrate a furia di sequestri. E riducendo il numero dei fedelissimi insospettabili, quelli in grado di aiutarlo senza diventare il gancio di traino per le indagini. Come Giovanni Luppino, il coltivatore che gli faceva da autista nel su e giù tra il covo nel Trapanese e l'ospedale palermitano. É l'uomo sovrappeso, che due carabinieri trascinano via dall'ospedale sotto la pioggia, subito dopo la cattura di Messina Denaro.

«Iddu è malato». Di frasi come questa, nelle conversazioni degli ultimi anni ne era stata intercettata più di una. Una pista, ma troppo vaga per essere davvero sfruttata. Poi, più recentemente, il passo in avanti decisivo. Sempre da una intercettazione, si riesce a circoscrivere la patologia di cui soffre il fuggiasco: tumore al colon. Un guaio da cui si guarisce, ma che necessita di cure sollecite. Da lì parte l'intuizione chiave: frugare nei cervelloni del Sistema sanitario nazionale alla ricerca di pazienti sospetti passati per gli ospedali pubblici e le cliniche private. Maschi, intorno ai sessant'anni. Migliaia di nomi. Parte la caccia alle anomalie, alle incongruenze. Indirizzi che non coincidono, giorni di visita incongruenti. All'inizio di dicembre, la rosa ormai è ristretta a una manciata di nomi. L'unico che corrisponde a tutti i criteri è quell'Andrea Bonafede che da due anni, periodicamente, fa visita al day hospital della Maddalena, dove nel gennaio 2021 gli scoprono una metastasi al fegato. Iniziano i quattro cicli di chemio. «Si faceva chiamare Andrea, era elegante e gentile, portava in regalo le taniche del suo olio», raccontano ieri pazienti e medici. A maggio 2021 resezione del fegato, per eliminare parte delle metastasi. «Mettetemi a posto che devo tornare in palestra», scherza Andrea".

Ma quando i carabinieri vanno a Campobello di Mazara a vedere che faccia ha questo Andrea Bonafede scoprono che il geometra, nipote di un vecchio mafioso, sta meglio di loro. E allora chi è che va farsi curare a Palermo a nome suo?

Da quel momento la strada è tutta in discesa. La difficoltà maggiore sta nel tenere i vertici della clinica all'oscuro di tutto, perchè siamo a Palermo, e la soffiata giusta è sempre in agguato. Ma i sistemi informatici della Maddalena sono sotto intercettazione, ogni volta che il nome Bonafede viene digitato, in una caserma dei Ros una luce si accende. Quando viene fissata la visita per la giornata di ieri, la vera sfida è organizzare un bliz che resti invisibile fino all'ultimo istante, un apparato di cento uomini pronto a smaterializzarsi se non parte il «via». Altrimenti la pista è bruciata, come altre volte.

Lui, il boss, non ha mai pensato di consegnarsi. Voleva vivere da uomo libero i suoi ultimi anni, ma per vivere doveva curarsi: e questo alla fine gli è stato fatale. Ieri rispunta una intervista a un pentito, Salvatore Baiardo, che in novembre aveva detto a Non è l'Arena: «Chissà che al nuovo governo non arrivi un regalino, che Messina Denaro sia malato e faccia una trattativa lui stesso di consegnarsi». Risponde secco il procuratore aggiunto Paolo Guido: «Coincidenza, è stata una indagine pura». E tutto sembra dire che è proprio così.

Pedinamenti, intercettazioni, analisi: cosa c'è dietro l'arresto del boss. Carabinieri e magistratura hanno condotto un'indagine tradizionale per arrivare alla cattura di Matteo Messina Denaro, fermato dai reparti speciali dei carabinieri. Francesca Galici il 16 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Al momento non emergono né pentiti, né soffiate, né confidenti nell'arresto di Matteo Messina Denaro questa mattina nella clinica Maddalena di Palermo. La magistratura e i carabinieri sono arrivati alla sua cattura eseguendo quella che oggi viene chiama un'indagine "tradizionale". Lavorando sottotraccia e in totale silenzio per evitare fughe di notizie e che avrebbero annullato i risultati raggiunti, da mesi gli inquirenti erano sulle tracce dell'ultimo boss di Cosa nostra.

Arrestato il boss Matteo Messina Denaro: era latitante da 30 anni

Le intercettazioni

Da almeno tre mesi, le telefonate dei familiari degli esponenti di spicco delle famiglie erano al centro dell'attenzione. Ovviamente, le persone intercettate erano ben consapevoli di essere ascoltate e cercavano in tutti i modi di utilizzare un codice che non fosse comprensibile ma non potevano fare a meno di parlare di determinati argomenti. È da queste telefonate che è emersa la grave malattia di Matteo Messina Denaro ed è tramite le intercettazioni che gli inquirenti hanno scoperto le due operazioni del boss di Castelvetrano, una subita per un tumore al fegato e una per il morbo di Crohn.

L'intervento subìto in pieno Covid

Per altro, uno dei due interventi è stato effettuato durante il periodo del Covid, quando erano poche le operazioni che venivano compiute, a meno che non si trattasse di urgenze. Ed è proprio da qui che sono partiti gli inquirenti, scandagliando i registri della centrale nazionale del ministero della Salute che conserva i dati sui malati oncologici. Confrontando le informazioni ottenute mediante le intercettazioni con quelle ufficiali delle cliniche e degli ospedali sono riusciti a restringere il campo di ricerca. Poi, l'elenco si è ridotto sulla base dell'età, del sesso e della provenienza che, sapevano i pm, avrebbe dovuto avere il malato ricercato. Alla fine tra i nomi sospetti è finito quello di Andrea Bonafede, nipote di un fedelissimo del boss, residente a Campobello di Mazara.

L'alias usato da Messina Denaro per le cure

Le attenzioni si sono concentrate su Bonafede ma dopo un'accurata ricerca, la magistratura e i carabinieri hanno potuto appurare che Andrea Bonafede nel giorno in cui risultava essere stata compiuta l'operazione si trovava da tutt'altra parte. A quel punto, appurato che il suo nome e le sue generalità erano state utilizzate da un'altra persona, è emersa la possibilità che dietro potesse esserci proprio Messina Denaro. Le indagini hanno poi confermato che stamattina Messina Denaro, utilizzando proprio lo pseudonimo di Andrea Bonafede, si sarebbe dovuto sottoporre alla chemio e, certi di essere molto vicini al capomafia. i carabinieri sono andati in clinica. Il boss era arrivato lì con il suo favoreggiatore a bordo di un'auto e vedendo i militari ha fatto per allontanarsi, ma è stato bloccato al bar.

Il lavoro dei reparti speciali dei carabinieri

A catturare Matteo Messina Denaro, latitante da 30 anni e condannato per una serie di omicidi, stragi e altri reati minori, sono stati i carabinieri del Ros, del Gis e i militari della Legione Sicilia in un blitz che ha coinvolto centinaia di uomini e che è durata una manciata di minuti. Dai pedinamenti, al blitz, passando per le intercettazioni e le operazioni sotto copertura, i reparti speciali dei carabinieri ancora una volta si sono rivelati determinanti per l'assicurazione alla giustizia di pericolosi malviventi. Chi si trovava all'esterno della clinica questa mattina li ha visti uscire armati, con le loro uniformi speciali, coperti dai fedelissimi passamontagna mefisto che ne celano l'identità. "Presidente, benvenuta, se vuole salire le faccio conoscere chi ha lavorato sull'arresto di Messina Denaro", ha detto quest'oggi il procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, accogliendo Giorgia Meloni, giunta a Palermo per congratularsi con gli inquirenti per l'arresto.

Arrestato Matteo Messina Denaro: il boss di Cosa Nostra era latitante da 30 anni. Lara Sirignano e Redazione Cronaca su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

L’arresto oggi a Palermo, nella clinica privata Maddalena. Era ricercato da 30 anni e numero uno dei ricercati. Avrebbe tentato di scappare. Il primo omicidio a 18 anni: «Con le persone che ho ucciso io si potrebbe fare un camposanto»

È stato arrestato Matteo Messina Denaro . Il boss, 60 anni, era latitante da 30 e ricercato numero uno in Italia. L’uomo si trovava ricoverato nella clinica privata «La Maddalena» di Palermo in «day hospital», dove, secondo fonti della clinica stessa (leggi tutti i particolari dell’indagine «durata da molto tempo») si stava sottoponendo a cure per un tumore da almeno un anno. L’operazione è stata effettuata dai carabinieri dei Ros di Palermo: ne ha dato notizia il comandante Pasquale Angelosanto.

Secondo la testimonianza della direttrice della clinica stessa, Messina Denaro avrebbe provato a scappare ma sarebbe stato catturato dai carabinieri. Poi però, più tardi nel corso della conferenza stampa iniziata nel pomeriggio, gli investigatori hanno detto che il superboss «non ha opposto alcuna resistenza e ha subito dichiarato di essere il soggetto da noi ricercato. Guardandolo c’era poco da dubitare perché il volto era quello che ci aspettavamo di trovare». A chiarirlo è stato il colonnello Lucio Arcidiacono, a capo del primo reparto investigativo servizio centrale del Ros ch ha coordinato il blitz in prima linea.

Le sue prime parole ai militari — che gli hanno chiesto: «Come ti chiami?» — sono state proprio: «Sono Matteo Messina Denaro». La certezza che fosse lui era arrivata tre giorni fa, sebbene solo stamattina è giunto «l’effettivo riscontro sull’identità» ha detto Pasquale Angelosanto nel corso della conferenza stampa in corso ora (vedi la diretta). I magistrati, che da tempo seguivano la pista, hanno dunque dato subito il via libera per il blitz, scattato alle 9 di oggi, 16 gennaio. Denaro — trovato «in salute e buone condizioni economiche», tanto che «indossava beni di lusso» tra cui un orologio da 35.000 euro — si faceva chiamare «Andrea Bonafede» e sulla carta d’identità — da capire come falsificata, visto che le generalità appaiono a una persona realmente esistente, mentre sul documento compariva una foto del boss — si definiva «geometra». Con lui è stato arrestato anche il suo autista, Giovanni Luppino, risultato un commerciante di olive a Campobello di Mazara e che è «totalmente incensurato» oltre che «perfetto sconosciuto».

Dopo l’arresto, l’ormai ex superlatitante Matteo Messina Denaro è stato trasferito alla Caserma San Lorenzo, in via Perpignano. E da qui all’aeroporto Boccadifalco, dove verrà tradotto in una struttura carceraria di massima sicurezza (al momento top secret). Denaro, a quanto si apprende da fonti investigative, faceva periodicamente controlli in quella struttura , che la scorsa notte durante il blitz del Ros — a cui hanno collaborato anche i Gis — era stata messa in sicurezza con diverse decine di uomini per tutelare tutti gli altri pazienti.

«Matteo Messina Denaro è stato catturato grazie al metodo Dalla Chiesa, cioè la raccolta di tantissimi dati informativi dei tanti reparti dei carabinieri, sulla strada, attraverso intercettazioni telefoniche, banche dati dello Stato, delle regioni amministrative per portare all’arresto di questa mattina». Lo dice il comandante dei carabinieri Teo Luzi, arrivato a Palermo. «Una grande soddisfazione perché è un risultato straordinario — aggiunge Luzi —. Messina Denaro era un personaggio di primissimo piano operativo, ma anche da un punto di vista simbolico perché è stato uno dei grandi protagonisti dell’attacco allo Stato con le stragi. Risultato reso possibile dalla determinazione e dal metodo utilizzato. Determinazione perché per 30 anni abbiamo voluto arrivare alla sua cattura soprattutto in questi ultimi anni con un grandissimo impiego di personale e di ricorse strumentali». «Un risultato — conclude Luzi — grazie al lavoro fatto anche dalle altre forze di polizia particolare dalla polizia di Stato. La lotta a “cosa nostra” prosegue. Il cerchio non si chiude. È un risultato che dà coraggio che ci dà nuovi stimoli ad andare avanti e ci dà metodo di lavoro per il futuro, la lotta alla criminalità organizzata è uno dei temi fondamentali di tutti gli stati».

Ma che ruolo aveva Messina Denaro all’interno di Cosa Nostra? «Era un capo operativo ma la leadership di cosa nostra non era sua esclusiva» ha detto il procuratore De Lucia. E poi aveva «un ruolo di garanzia importante per la gestione degli affari». E ancora: «La sua latitanza si è svolta in varie parti del territorio nazionale, l’ultima parte in Sicilia».

In che condizioni è stato trovato il superboss? «Non era armato né indossava alcuna protezione. Era in linea con il profilo del paziente medio che frequenta la clinica». Lo ha detto l’aggiunto Paolo Guido rispondendo a un giornalista che chiedeva se al boss fosse stata trovata un’arma.

Aveva complicità nella clinica, l’oramai ex superlatitante? «Allo stato non abbiamo elementi su presunto coinvolgimento o complicità da parte della clinica, il latitante aveva fornito documenti falsi. Naturalmente gli accertamenti sono all’inizio» ha detto il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia, nel corso della conferenza stampa. La clinica non sarebbe nemmeno stata «coinvolta nelle indagini». E ancora: per il magistrato «senza le intercettazioni non si possono fare indagini e le indagini non portano da nessuna parte, questo deve essere chiaro. Anche in questa operazione le intercettazioni sono state fondamentali». Quanto alle sue condizioni, per la Procura «sono compatibili con la detenzione in carcere» e «nei prossimi giorni farà la chemioterapia in una struttura adeguata»,

Dove sarà rinchiuso il boss di «cosa nostra» e quale sarà il regime carcerario al quale sarà sottoposto? «Ancora, in questo momento, non possiamo rispondere su quale sarà la struttura penitenziaria a cui sarà destinato Matteo Messina Denaro» ha detto Guido chiarendo che è stato già proposto il 41 bis per il detenuto.

Quanto alla carta d’identità, come detto, «il documento trovato nelle mani del latitante a prima vista sembra autentico, dobbiamo aspettare accertamenti» ha chiarito Angelosanto. «L’indirizzo è quello della persona titolare formale della carta di identità — ha aggiunto riferendosi alla carta di identità in possesso del boss Matteo Messina Denaro — ma il documento deve essere ancora oggetto di una analisi tecnico scientifica», ha ribadito.

Originario di Castelvetrano, aveva negli anni allargato il suo potere ad altri mandamenti mafiosi della Sicilia , specialmente dopo l’arresto di Totò Riina, Bernardo Provenzano e i fratelli Graviano. Ritenuto depositario di mille segreti, Messina Denaro deve scontare ergastoli per decine di omicidi tra i quali quello per l’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo , figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo due anni di prigionia, per le stragi in cui morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e per gli attentati di Firenze, Milano e Roma del 93. Il primo omicidio a 18 anni. «Con le persone che ho ammazzato io, potrei fare un cimitero», confidava a un amico.

Fedelissimo dell’ala stragista di Cosa nostra, quella dei corleonesi, sarebbe stato presente al summit voluto da Riina, nell’ottobre del 1991, in cui fu deciso il piano di morte che aveva come obiettivi Falcone e Borsellino. I pentiti raccontano, poi, che faceva parte del commando che avrebbe dovuto eliminare Falcone a Roma, tanto da aver preso parte ai pedinamenti e ai sopralluoghi organizzati per l’attentato. Da Palermo, però, arrivò lo stop di Riina. E Falcone venne ucciso qualche mese dopo a Capaci.

La sua latitanza comincia a giugno del 1993. In una scritta alla fidanzata dell’epoca, Angela, preannuncia l’inizio della vita da Primula Rossa. «Sentirai parlare di me — le scrive facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue — mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità».

Matteo Messina Denaro è stato condannato all’ergastolo come mandante delle stragi di Capaci e via D’Amelio. «È una grande vittoria dello Stato, che dimostra di non arrendersi di fronte alla mafia», sono le prima parole postate su Twitter dalla premier Giorgia Meloni. «Grandissima soddisfazione per un risultato storico nella lotta alla mafia», ha detto invece il ministro dell’interno Matteo Piantedosi appena appresa la notizia.«È una giornata storica per la Sicilia, una cattura eccellente. Frutto di impegno e di sacrificio. Risultato ed evidenza di uno Stato che c’è, che è accanto ai cittadini e in particolare ai siciliani», afferma invece il presidente di Confindustria Sicilia, Alessandro Albanese.

Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “la Stampa” il 17 gennaio 2022. 

Il generale di divisione Pasquale Angelosanto è il comandante del Ros, Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, nato come prosecuzione delle Sezioni anticrimine create dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa durante gli Anni di piombo.

 […] Come sarà la nuova mafia ora che il super latitante è stato sconfitto?

«[…] L'arresto dell'ultimo dei Corleonesi rompe definitivamente con il passato, proprio perché l'ultimo degli stragisti era lui. E ora che la parentesi corleonese si è chiusa definitivamente, gli assetti sono destinati a cambiare. Ci sarà una nuova mimetizzazione sul territorio, senza più quella contrapposizione allo Stato tipica dello stragismo.

Ci dovremo aspettare più corruzione, più affari, più business e meno stragi. Le mafie evolvono e cercano spazi nuovi, nuove strutture di holding criminale su tutto ciò che produce reddito. Dai grandi appalti con i fondi del Pnrr alla Green Economy».

 […] In che modo avete fatto convergere le indagini sul boss?

«Già in passato avevamo indicazioni che avesse problemi di salute e su queste notizie abbiamo lavorato in modo da individuare le persone che avevano accesso alla struttura sanitaria e che avevano una particolare patologia. Nell'ultimo periodo c'è stata un'accelerazione perché via via che si scremava la lista di persone, ci siamo concentrati su pochi soggetti fino ad individuare il nome di Andrea Bonafede […]».

Per trovarlo è stato prezioso l'aiuto di informatori o collaboratori di giustizia?

«No, abbiamo proceduto esclusivamente grazie alle indagini e alle intercettazioni. Negli ultimi dieci anni, grazie alla nostra attività tecnica e investigativa, abbiamo contribuito molto a ridurre il potere di vari mandamenti. Alcuni nostri interventi hanno indebolito molto Cosa nostra se si pensa che in dieci anni abbiamo arrestato oltre 100 associati e abbiamo provveduto a sequestrare beni per 150 milioni di euro. […]».

 Lo scorso novembre Salvatore Baiardo, che aveva gestito la latitanza dei fratelli Graviano, parlò pubblicamente della grave malattia di Messina Denaro. Questa cosa vi ha aiutato?

«No, perché noi già lo sapevamo e ci stavamo lavorando».

 Ma com' è possibile che sia rimasto latitante per 30 anni? Chi lo ha aiutato?

«È stato protetto dalla sua rete di favoreggiatori e organizzazioni mafiose, oltre a coloro che hanno stretto affari con lui». […]

 Negli anni passati, in precedenti operazioni investigative, l'arresto è saltato all'ultimo minuto. Ci sono state talpe che lo hanno informato, come ipotizzato anche dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Teresa Principato?

«Le talpe ci sono state e sono anche state arrestate per favoreggiamento con l'aggravante mafiosa. Purtroppo si tratta di appartenenti infedeli alle forze di polizia». […]

L’ultimo padrino. Il comandante del Ros spiega il «metodo Dalla Chiesa» dietro l’arresto di Messina Denaro. L’Inkiesta il 17 Gennaio 2023.

«La sua lezione era fondata su due pilastri: lo studio dei fenomeni e l’attività dinamica di controllo sul territorio», dice Pasquale Angelosanto. Trovato il covo del latitante a Campobello di Mazara, paese del favoreggiatore Giovanni Luppino, finito in manette insieme al capomafia

«Ho avuto l’impressione di avere davanti un capo di Cosa nostra sconfitto». Il generale Pasquale Angelosanto, comandante del Ros che ha guidato l’arresto di Matteo Messina Denaro, racconta a Repubblica come si è arrivati all’arresto del boss mafioso latitante da 30 anni.

«Quella che non dimenticherò mai è l’ora più lunga, che è trascorsa dal momento in cui siamo entrati in azione nella clinica a quando siamo stati sicuri che si trattava proprio di Messina Denaro», dice. «Io ci ho creduto moltissimo, perché ci siamo mossi sulla base di un dato che era oggettivo. Sapevamo che un soggetto con determinate generalità aveva prenotato una chemioterapia. L’ipotesi quindi aveva un fondamento solido, ma la certezza l’abbiamo raggiunta soltanto quando l’abbiamo bloccato».

A portarli alla clinica La Maddalena di Palermo è stato quello che tutti chiamano il «metodo Dalla Chiesa». Il Ros, Raggruppamento operativo speciale, è nato proprio per sistematizzare gli insegnamenti del Generale ucciso dalla mafia nel 1982 a Palermo: la capacità di agire come invisibili, infiltrandosi dove i criminali si sentono più sicuri, avendo però il vantaggio degli strumenti tecnologici più avanzati. «La sua lezione era fondata su due pilastri: lo studio dei fenomeni e l’attività dinamica di controllo sul territorio, che sono la base del metodo del Ros», dice Angelosanto. «Dalla Chiesa aveva anche sottolineato l’importanza della tecnologia ed è in questo campo che rispetto a 50 anni fa ci sono stati gli sviluppi più importanti. Credo che su questo fronte noi possiamo conquistare un vero vantaggio e arrivare a essere un passo avanti rispetto alla criminalità organizzata».

Perché «un’indagine di questo tipo si sviluppa sempre su livelli diversi. C’è quello tecnico, soprattutto con le intercettazioni. Quello dinamico, con i pedinamenti e i controlli sul territorio. E quello informativo, per valutare qualsiasi spunto possa contribuire a integrare il quadro delle ricerche. In questo caso ci hanno colpito le discussioni che familiari e fiancheggiatori facevano su una specifica patologia oncologica. Ovviamente, temevano le intercettazioni e non ne parlavano riferendosi al latitante ma quelle attenzioni non ci sono sembrate frutto di un interesse scientifico astratto: era chiaro che tante preoccupazioni erano rivolte a una persona che per loro aveva grande importanza». Il generale dice inoltre che erano convinti che Messina Denaro «si muovesse solo in Sicilia, senza allontanarsi dai suoi territori. Per questo abbiamo ristretto le ricerche alla provincia di Trapani e a Palermo, arrivando a focalizzarci su un soggetto di Campobello di Mazara: il cuore del mandamento di Messina Denaro. Quella ci è sembrata l’ipotesi più solida, su cui concentrare la nostra attività».

Ma prima di arrivare alla cattura, per oltre dieci anni è stata fatta terra bruciata sulla rete di protezione attorno al latitante. Le indagini hanno provocato «un logoramento dell’organizzazione militare e di quella economica che permetteva la latitanza, in modo da depotenziarla», dice il Comandante. «Soltanto noi carabinieri abbiamo arrestato quasi cento persone e sequestrato beni per 150 milioni: sono colpi che ogni volta hanno obbligato la sua rete a creare nuove relazioni e hanno messo in difficoltà i loro metodi di finanziamento». Insomma, «l’effetto complessivo è stato quello di renderlo più vulnerabile».

Ma in questi trent’anni di latitanza, Messina Denaro «è rimasto a capo dei tre mandamenti che compongono la provincia mafiosa di Trapani e ha fatto parte di quella cordata corleonese che ha preso il dominio della Cupola per poi sfidare lo Stato con le stragi. Era l’ultimo uomo in libertà tra quelli che hanno deciso quella strategia. Dalle nostre indagini e da quelle delle altre forze di polizia emergono i tentativi di dare nuovi assetti a Cosa nostra, ricostruendone le strutture di vertice: per due volte hanno cercato di riformare una cupola. Siamo riusciti a intercettare questi piani di assestamento e contrastarli: se saremo bravi, gli impediremo di farla rinascere».

I carabinieri hanno trovato il covo del latitante a Campobello di Mazara, nel trapanese, paese del favoreggiatore Giovanni Luppino, finito in manette insieme al capomafia. Il nascondiglio, secondo quanto si apprende, è nel centro abitato.

E ora si prosegue a indagare per capire chi lo ha protetto. «Le indagini sulle coperture stanno proseguendo, anche in queste ore. Come tutti quelli che si occupano di criminalità organizzata, so benissimo che la forza delle mafie consiste nella capacità di gestire relazioni esterne», spiega Angelosanto. «Queste sono intessute con pezzi della borghesia: imprenditori, professionisti, funzionari della pubblica amministrazione. Ma bisogna sempre tenere presente che sono rapporti personali, non con intere categorie: le generalizzazioni non aiutano le inchieste».

Estratto dell’articolo di S.P. per “la Repubblica” il 17 gennaio 2022.

«Quando me lo sono trovato davanti l'ho subito riconosciuto. Era lui, l'uomo delle fotografie viste tante volte». Il colonnello Lucio Arcidiacono e la sua squadra del Ros dà la caccia a Matteo Messina Denaro da otto anni.

 Cosa ha provato a stargli faccia a faccia?

«Un'emozione grande, mi sono arruolato nei carabinieri un anno dopo le stragi Falcone e Borsellino».

 Lei non ha paura a mostrare il suo volto?

«Sono il comandante di una squadra, ho degli obblighi nei confronti dei miei uomini e della comunità. […]».

 Cosa le ha detto Messina Denaro quando l'ha ammanettato?

«Mi ha detto: "Lei lo sa chi sono io". E poi ha aggiunto: "Mi chiamo Matteo Messina Denaro"». […]

Dopo tanti anni di indagini, se l'aspettava così Matteo Messina Denaro?

«Le indagini di questi anni ci hanno sempre rassegnato l'immagine di un mafioso diverso dagli altri: prima stragista, poi aveva intrapreso un suo percorso, tutto dedito agli affari. Ebbene, oggi abbiamo avuto la conferma: è all'opposto dello stereotipo del classico mafioso di un tempo».

 Cosa l'ha colpito di più?

«Indossava un orologio molto costoso: un Richard Mille da 30 mila euro. E poi parla abbastanza bene, ha un tono di voce calmo, pacato».

Cosa vi ha detto nella sede della vostra squadra, all'aeroporto di Boccadifalco?

«Ci ha fatto i complimenti per come lo avevamo trattato nelle fasi dell'arresto e poi ci ha dato atto del lungo lavoro fatto per arrivare alla sua cattura. […]».

Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2022.

 […] Il colonnello Lucio Arcidiacono ci mette la faccia e non ha alcun timore a svelare la sua identità. […] Allo spietato criminale sono state risparmiate le manette. «Ci sono delle regole e vanno rispettate - dice Arcidiacono -. Altrimenti non facciamo il nostro lavoro. Lui ci ha pure ringraziati per come lo abbiamo trattato e forse si è reso conto anche del gran lavoro fatto per catturarlo». […] «In particolare dedico questo successo al nostro maresciallo...». Il riferimento è a Filippo Salvi, morto a Bagheria nel 2007 a soli 36 anni. Precipitò da una collinetta mentre stava piazzando una telecamera. «Non era una delle tante indagini […], era proprio finalizzata alla cattura di Messina Denaro».

Estratto dell’articolo di Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2022.

 Trent'anni di mistero sul suo volto e di voci su chirurgie facciali che l'avrebbero reso irriconoscibile e poi la sorpresa: Matteo Messina Denaro era quasi identico ai suoi identikit.

Ne hanno presentati vari in Procura, in questi anni di ricerche, carabinieri, polizia e Guardia di finanza, partendo dalla foto con quell'aspetto un po' da viveur: bandana al collo e occhiali a goccia. E, nel giorno della cattura, chi lavora nel laboratorio audio-video del Reparto investigazioni scientifiche di Roma che ha «invecchiato» quell'immagine, si mostra soddisfatto.

«Direi che, tutto sommato, la stima dell'invecchiamento ha colto nel segno», dice il maresciallo del Ris, Antonio Natale. […] Colpisce in particolare la bocca: sia per la larghezza che per l'assottigliamento del vermiglio» […] è visibile la somiglianza anche dell'epitelio tra naso e bocca: quella fossetta sopra la parte alta delle labbra, il cosiddetto "arco di Cupido". Era molto accentuata, ma negli anni si è andata attenuando».

[…] «L'identikit è stato fatto più volte in questi anni secondo il metodo dell'age progression basato su un approccio multidisciplinare, partendo da conoscenze mediche sui dati biometrici e integrandole con editing digitale. E quindi applicando le rughe orizzontali sulla fronte, diminuendo sulle tempie i capelli che nel tempo cadono, accennando alla formazione di borse sotto gli occhi e a quell'ispessimento della punta del naso che, via via, compare. E che infatti lui adesso ha». […] persino il modello degli occhiali era simile a quello di trent' anni fa. Ma allora perché non usare in questi casi l'intelligenza artificiale per scoprire i latitanti attraverso il confronto di identikit e immagini di videosorveglianza?

«La tecnologia lo consente - spiega il maresciallo -. Noi stessi abbiamo un sistema di riconoscimento automatico facciale, il Sari, che lascia passare solo chi lavora all'interno della struttura e ferma volti sconosciuti». E sarebbe in grado di lanciare un alert in caso apparisse un volto specifico? «Il collegamento alla banca dati del nostro Sari è stato usato per cercare l'accoltellatore della ragazza nella metropolitana di Roma, poi arrestato. Teoricamente è possibile», risponde. E lì si ferma. Perché la normativa per le telecamere a circuito chiuso non consente di collegare l'immagine all'identità di una persona. La domanda sul perché è così difficile prendere i latitanti si ferma davanti a quel problema di privacy che, per evitare l'uso di quelle immagini a fini diversi, di fatto finisce anche per proteggere criminali in fuga.

Estratto dell'articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it Il 6 marzo 2023.

E’ stata fino all’ultimo un’indagine complessa. E l’esito non era affatto scontato, si scopre adesso leggendo il rapporto del Ros sull'arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro, bloccato alle 9.15 del 16 gennaio scorso, in via Domenico Lo Faso, una stradina che si trova a 140 metri dalla clinica Maddalena. Quella mattina, gli investigatori sanno una cosa sola, che il falso signor Andrea Bonafede dovrà presentarsi nella struttura sanitaria per un ciclo di chemioterapia. Ma non sanno che faccia abbia Matteo Messina Denaro. Così, quando il sistema informatico registra l’arrivo del paziente, tutti sono pronti a bloccarlo al settimo piano, dove generalmente si svolgono le terapie. Ma il signor Bonafede-Messina Denaro non arriva. Dove sarà mai andato?

 Sono momenti di fibrillazione per la squadra. Da una parte ci sono i carabinieri del Ros guidati dal colonnello Lucio Arcidiacono, ci sono anche gli specialisti del Gis. Come ha spiegato il generale Pasquale Angelosanto, il comandante del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma durante la conferenza stampa, quella mattina ci sono tre cinturazioni attorno alla clinica. “Il latitante non poteva sfuggire”.

 (…)

 Il rapporto dei carabinieri fa trasparire tutta la concitazione di quegli attimi: “Le ricerche sviluppate all’interno della clinica Maddalena non permettevano però di individuare il ricercato e l’attività, una volta appurato che il finto Bonafede era uscito dalla clinica alle ore 8.16, veniva quindi estesa all’esterno dove era dispiegato il dispositivo per la cinturazione”. I carabinieri si erano intanto procurati l’immagine del finto Bonafede e avevano trasmesso la foto a tutti gli investigatori in campo.

Alle 9.15, finalmente la svolta: alcuni carabinieri di Crimor, la squadra del Ros che dà la caccia alla primula rossa di Castelvetrano dal 2007, vedono l’uomo con il giaccone ormai diventato famoso dentro una Fiat Bravo bianca parcheggiata in via Lo Faso. “Il latitante era insieme ad un complice poi identificato in Giovanni Salvatore Luppino”, annotano i militari. I palermitani, bloccati nel traffico di via San Lorenzo, stavano già applaudendo.

Estratto dell’articolo da open.online.it Il 6 marzo 2023.

Tra i messaggi vocali di Matteo Messina Denaro alle amiche che frequentavano la chemioterapia a La Maddalena ce n’è uno in cui insulta la figlia. […] durante la trasmissione Non è l’Arena di Massimo Giletti […] «Io non lavoro più, è vero. Però mi sono reso conto in questo periodo che l’imbelle o l’ebete, alias mia figlia, non ne capisce niente di mercato e di vendite. Non ne capisce proprio un cazzo. Forse capisce solo il cazzo, è questo il punto.

E quindi devo essere io che la sto coadiuvando per cercare di insegnarle cosa fare. Perché questo è lo scotto che si paga al fatto che non sono mai state con me sul lavoro. Quindi io ufficialmente non lavoro più, non vado più in nessuna fiera. Però ancora oggi la devo consigliare perché la vedo che non è in grado. Non sa sfruttare le situazioni. Io sono uno che se posso guadagnare 10 guadagno dieci. Lei invece se può guadagnare dieci guadagna due».

Estratto dell’articolo da open.online.it Il 6 marzo 2023.

«Lui (Matteo Messina Denaro, ndr) era seduto qua e in un tavolo vicino c’era pure la Dia (Direzione investigativa antimafia, ndr)». È quanto racconta un testimone oculare, con ogni probabilità il gestore del ristorante, ad un interlocutore in una conversazione ottenuta dalla trasmissione Non è l’Arena […]  «io ogni giorno ho la scientifica e la Dia a mangiare qua».

«Lei mi sta dicendo che Messina Denaro…», inizia a chiedere incredulo l’interlocutore  […] «Sì, mentre lui stava qui loro (la Dia, ndr) anche». «Sono quattro o cinque e vengono a mangiare a giro – aggiunge poi – Figuriamoci se Messina Denaro con la sua esperienza non sa chi siano. Li conosce per forza» […]

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 7 marzo 2023.

La vera caccia al superlatitante è stata virtuale, dentro i computer del ministero della Sanità. Sì perché il 6 dicembre, dopo il ritrovamento del pizzino con il diario clinico del boss a casa della sorella Rosalia, c’era una sola certezza: Matteo Messina Denaro ha un tumore. Ma non si sapeva dove era in cura, in quel biglietto non c’era alcuna indicazione. Per questa ragione è iniziata una lunga indagine. Sulla banca dati nazionale dei ricoveri ospedalieri. «È un sistema alimentato con informazioni sintetiche e fedeli della cartella clinica per tutti i pazienti dimessi dagli istituti pubblici e privati», scrivono i carabinieri del Ros nel rapporto alla procura.

 Gli investigatori sapevano dal pizzino che il boss era stato ricoverato una prima volta il 9 novembre 2020. E che quattro giorni dopo c’era stato l’intervento. Così, gli investigatori hanno fatto delle domande ben precise al ministero della Salute, hanno chiesto di avere notizie su «tutti i ricoveri a livello nazionale fatti dall’8 al 13 novembre 2020». E poi notizie su «tutte le operazioni dal 13 al 14 novembre 2020». Il pizzino parlava anche di un’operazione fatta il 4 maggio 2021. «L’analisi […] ha permesso di focalizzare l’attenzione su 89 codici pazienti, di cui 22 che avevano generato flussi da strutture sanitarie pubbliche e private dislocate in Sicilia».

Così, si è lavorato per stringere sempre più il cerchio. In modo da far combaciare la cartella clinica elettronica con il percorso segnato nel pizzino. Alla fine, è rimasto solo un sospettato. Ma non c’era ancora un nome. Quando il ministero l’ha fornito sono subito partiti gli accertamenti su questa persona. Era Andrea Bonafede, geometra di Campobello di Mazara, nipote del capomafia che in passato aveva favorito proprio Messina Denaro.

Scavando nella sua vita, è emerso che il 4 maggio 2021, quando risultava sotto i ferri a Palermo, era in realtà in giro per Campobello con la sua Volkswagen Polo. E se non era lui a Palermo, chi c’era allora?

[…] quando il sistema informatico registra l’arrivo del paziente tutti sono pronti a bloccarlo al settimo piano, dove generalmente si svolgono le terapie. Ma il signor Bonafede non arriva. Dove sarà mai andato? Sono momenti di fibrillazione per la squadra. […] Alle 9.15, finalmente la svolta: un gruppo di carabinieri di Crimor vede l’uomo con il giaccone ormai diventato famoso dentro una Fiat Bravo di colore bianco. […]

La Fuga di Notizie.

Fuga di notizie sulla cattura di Messina Denaro: eseguite 2 ordinanze di custodia cautelare. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Luglio 2023

Gli indagati, secondo la ricostruzione investigativa dei Carabinieri e della Procura della Repubblica di Palermo, condivisa dal G.I.P., avrebbero tentato di divulgare, attraverso la pubblicazione su alcune testate giornalistiche on-line, alcuni documenti ancora coperti da segreto investigativo

Nel corso della nottata, in provincia di Trapani e a Milano, militari dei Comandi Provinciali di Palermo e Trapani, supportati dai Carabinieri del Comando Provinciale di Milano, hanno dato esecuzione a 2 ordinanze di custodia cautelare agli arresti domiciliari, disposte dal Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Palermo su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia, per i reati di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, aggravato dalla funzione di pubblico ufficiale, rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio e ricettazione. Nello stesso contesto, sono state effettuate delle perquisizioni, a Milano, sui luoghi nella disponibilità di un terzo indagato, in stato di libertà.

Il provvedimento cautelare riguarda il maresciallo dei Carabinieri Luigi Pirollo in servizio presso il nucleo Operativo della Compagnia di Mazara del Vallo in provincia di Trapani che aveva trafugato più di 700 file dal server dell’Arma, il consigliere comunale Giorgio Randazzo della stessa provincia, nonché Fabrizio Corona, lo spregiudicato ex-agente fotografico, per cercare di vendere il materiale, facendo seguito alle puntuali investigazioni, svolte dagli stessi Carabinieri di Trapani e Palermo, su una presunta fuga di notizie riservate, connesse alle fasi successive alla cattura del noto latitante Matteo Messina Denaro. 

Gli indagati, secondo la ricostruzione investigativa dei Carabinieri e della Procura della Repubblica di Palermo, condivisa dal G.I.P., avrebbero tentato di divulgare, attraverso la pubblicazione su alcune testate giornalistiche on-line, alcuni documenti ancora coperti da segreto investigativo e inerenti le indagini sulle fasi immediatamente successive all’arresto del latitante, verosimilmente carpiti dal maresciallo dei Carabinieri e ceduti da questi al consigliere comunale il quale, probabilmente a scopo di lucro, li avrebbe proposti in vendita a Fabrizio Corona, per realizzare degli scoop.

Corona aveva organizzato un incontro con Moreno Pisto direttore del quotidiano on line “Mow”, per piazzare il falso scoop ma direttore non ha abboccato, e quando ha visionato il materiale lo ha copiato di nascosto avvertendo immediatamente la squadra mobile di Palermo. Il ruolo di Fabrizio Corona era emerso anche per un’altra vicenda collegata a Messina Denaro, che era riuscito a contattare e circuire una delle amiche che il boss aveva conosciuto in clinica, destinataria di numerosi suoi messaggi vocali. 

I messaggi erano finiti in televisione in prima serata, nella trasmissione di Massimo Giletti, “Non è l’arena”. che però al momento non sono oggetto di indagine. In quella occasione erano state attivate delle intercettazioni, e Corona all’inizio dello scorso maggio, era stato intercettato mentre affermava di avere messo le mani su uno “uno scoop pazzesco” di cui era in possesso un consigliere comunale grazie a non meglio specificati carabinieri che volevano vendere del materiale d’indagine dell’ Arma.

I magistrati hanno delegato le indagini, affidandole ai Carabinieri dei nuclei investigativi. a seguito delle quali è stata scoperta una pen drive con tantissimi file sugli accertamenti successivi alla cattura di Messina Denaro, svolti dalla Compagnia dei carabinieri di Mazara del Vallo e dalla Stazione di Campobello di Mazara. Atti riservati, la cui divulgazione potrebbe pregiudicare le indagini sulla rete che ha favorito la latitanza del padrino delle stragi arrestato dopo trent’anni. C’erano anche i verbali dei vicini di casa del boss. Redazione CdG 1947

Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 21 luglio 2023.

Cinquantamila euro in cambio di documenti segreti e una presunta notizia che avrebbe fatto riaprire misteri e veleni come quelli di trent’anni prima, ai tempi della mancata perquisizione del covo di Totò Riina. 

«Uno scoop pazzesco» diceva al telefono il 2 maggio scorso Fabrizio Corona, l’imprenditore ex «re dei paparazzi» che subito dopo la cattura di Matteo Messina Denaro s’era mostrato «particolarmente attivo nella ricerca di scoop da rivendere ai media su una delle donne che aveva avuto modo di conoscere durante le cure alla clinica La Maddalena». 

Così scrive il giudice delle indagini preliminari che ha ordinato gli arresti domiciliari per il maresciallo dei carabinieri Luigi Pirollo, 48 anni, in servizio alla Sezione operativa della Compagnia di Mazara del Vallo, e il trentatreenne Giorgio Randazzo, consigliere comunale di Fratelli d’Italia (ora sospeso dal partito) della stessa città, con le accuse di accesso abusivo a sistema informatico e violazione di segreto per il primo, e ricettazione per il secondo, nell’ambito di un’inchiesta nella quale è indagato anche Corona — perquisito l’altra notte a Milano quando ha fatto rientro a casa — per tentata ricettazione. Inchiesta nata proprio dalle intercettazioni dei dialoghi in cui parlava del consigliere comunale e di carabinieri intenzionati a «vendersi il materiale» connesso all’arresto del boss. 

(...) In uno dei documenti sottratti, secondo l’accusa, da Pirollo era riassunto il piano d’azione del Ros dei carabinieri, coadiuvati dai comandi territoriali dell’Arma, per la mattina del 16 gennaio, dopo aver preso Messina Denaro. 

(...) Ma a parte gli aspetti «dietrologici» della vicenda, resta la tentata vendita di atti segreti che in alcuni casi non erano stati ancora tramessi alla magistratura. Tra questi le segnalazioni più o meno confidenziali su un presunto favoreggiatore di Messina Denaro e un’altra sua «presunta amante».

Oppure un file chiamato «agenda» dov’è riprodotto il contenuto della rubrica telefonica di Bonafede, non allegato agli atti del processo a suo carico, e verbali d’interrogatorio dei vicini di casa di Messina Denaro alias Bonafede. Documenti a cui il maresciallo aveva accesso legittimamente, ma che «utilizzava per scopi e finalità estranee alle ragioni del suo ufficio», mettendo a rischio le inchieste ancora in corso sulla latitanza, le protezioni e «le fonti illegali di approvvigionamento» di cui Matteo Messina Denaro ha goduto fino alla sua cattura.

Estratto dell'articolo di Giuseppe Legato per “la Stampa” il 21 luglio 2023. 

Subito dopo l'arresto dell'ultimo dei vertici stragisti di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro avvenuto a Palermo il 16 gennaio scorso al termine di una trentennale latitanza, «Fabrizio Corona – scrive il gip di Palermo Alfredo Montalto – si dimostra particolarmente attivo» a fare ciò che spesso sostiene sia la sua specialità: «Gli scoop da rivendere ai media». In particolare «su una delle donne che avevano conosciuto il latitante durante il ciclo di cure (chemioterapiche, ndr) a cui entrambi si erano sottoposti alla clinica La Maddalena di Palermo».

Ma la cronaca giudiziaria, si sa, non è gossip. È materiale da maneggiare con cura. E acquisire carte secretate, nel bel mezzo di un'indagine in corso su uno dei più spietati stragisti della storia italiana condannato per gli omicidi di Falcone e Borsellino nonché per le stragi continentali del 1993, non è lecito né esattamente materia da rotocalco patinato. 

È cosi che ieri mattina Corona è finito indagato (per ricettazione): arrestate (ai domiciliari) la fonte della fuga di notizie e l'amplificatore delle stesse. Si tratta di Luigi Pirollo, maresciallo dei carabinieri in servizio al nucleo Operativo della Compagnia di Mazara del Vallo che avrebbe trafugato più di 700 file dal server dell'Arma consegnandoli poi a un consigliere comunale della stessa città, Giorgio Randazzo, già esponente cittadino di Fratelli d'Italia nel 2014 ed eletto nel 2018 nella lista "Lega Salvini premier". Ad «agganciare» Corona per «monetizzare» quella mole di documenti riservati e delicatissimi. Per il Tribunale «spregiudicato» uno e «privo di scrupoli» l'altro. 

(...)

L'architrave del presunto scoop è una roba da terrapiattisti: secondo Corona ci sarebbe stato un ritardato controllo del covo della casa in cui Messina Denaro avrebbe trascorso anni di latitanza: via Cb31 a Campobello di Mazara. E non sarà sembrato vero all'imprenditore ritrovare, 30 anni dopo l'arresto di Totò Riina, un copione da giallo all'italiana come la tardiva perquisizione nel covo del capo dei Corleonesi in via Bernini a Palermo nel 1993. 

(...) 

Infine: nella sottocartella "04" vi era una annotazione di polizia giudiziaria redatta da un militare «che dava conto di una notizia confidenziale su una presunta amante di Messina Denaro trasmessa al Ros il 30 gennaio 2023 ma mai approdata in procura» scrive il giudice. «Informazioni sensibili, non ostensibili – si legge agli atti – seppur trasmesse in procura, ma non ancora utilizzate in alcun procedimento». La storia viene a galla proprio quando la trattativa per «piazzare» il falso scoop approda a una fase cruciale. Corona voleva vendere le carte a Moreno Pisto, direttore del quotidiano online "Mow". Che quando vede gli atti però li copia, senza che nessuno se ne accorga, si consulta con un collega (Giacomo Amadori), si rivolge alla squadra Mobile perché sente puzza di bruciato. E sente giusto. 

Chi è Giorgio Randazzo, il politico che avrebbe voluto vendere i file top secret su Messina Denaro a Fabrizio Corona. Chi è Giorgio Randazzo. Arrestato e ora ai domiciliari, il Consigliere comunale di Mazara del Vallo avrebbe voluto vendere le informazioni su Mattia Messina Denaro a Fabrizio Corona. Redazione Web su L'Unità il 20 Luglio 2023

Avrebbe voluto vendere a Fabrizio Corona ben 786 file top secret riguardanti l’arresto di Mattia Messina Denaro. Per questo il Consigliere comunale di Mazara del Vallo Giorgio Randazzo è stato arrestato con l’accusa di accesso abusivo al sistema informatico e violazione del segreto d’ufficio e di ricettazione. Il politico si trova ora ai domiciliari. Con l’accusa di ricettazione è stato invece arrestato il Maresciallo dei carabinieri Luigi Pirollo, coinvolto anche lui nel caso. L’ex paparazzo è invece soltanto indagato per tentata ricettazione.

Chi è Giorgio Randazzo

Molto noto nella piccola cittadina siciliana in provincia di Trapani, Randazzo è nato nel 1990. Mamma insegnante, padre agente d’affari, il giovane politico nel 2004 è diventato baby consigliere comunale per la scuola che frequentava, per poi candidarsi al Comune nel 2009, appena maggiorenne. Randazzo all’epoca fece il grande passo tra le file del Popolo delle Libertà, per poi passare – dopo l’esperienza nella Giovane Italia – in Fratelli d’Italia, partito con il quale è rieletto Consigliere comunale nel 2014.

Nel 2015 Randazzo è entrato a far parte del movimento Diventerà Bellissima, fondato dall’ex Governatore ed attualmente Ministro, Nello Mesumeci. Ed è proprio con quest’ultimo che Randazzo fa il suo ingresso in Consiglio regionale. Esperienza che terminerà presto (2018) per alcuni dissidi con l’ex Assessore alla Salute Ruggero Razza. Poi il salto nella Lega, con l’obiettivo di diventare il più giovane sindaco leghista di un comune del Sud (forse l’unico nella storia). Così forma un suo gruppo in Consiglio comunale e poi si candida alle elezioni ma dovrà accontentarsi di diventare Consigliere di Mazara. Nel 2021 la rottura anche con il Carroccio e il ritorno a FdI per il quale è dirigente provinciale (2022).

Redazione Web 20 Luglio 2023

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it giovedì 20 luglio 2023.

Dicevano di avere fra le mani un grande scoop, ma erano solo teorie complottiste sulla cattura di Matteo Messina Denaro, portata a termine dai carabinieri del Ros e della procura di Palermo il 16 gennaio scorso. L’unica verità, drammatica verità, è che proponevano la vendita di alcuni file dell’inchiesta. Protagonista di questa brutta storia è un maresciallo dei carabinieri, Luigi Pirollo, in servizio al nucleo Operativo della Compagnia di Mazara del Vallo: ha trafugato più di 700 file dal server dell’Arma. E li ha poi consegnati a un consigliere comunale della sua città, Giorgio Randazzo, che si è messo in contatto con Fabrizio Corona, lo spregiudicato manager del gossip, per cercare di vendere il materiale. 

Adesso, il militare e il politico sono finiti agli arresti domiciliari grazie a un’indagine degli stessi carabinieri, di Palermo e di Trapani: la procura del capoluogo siciliano diretta da Maurizio de Lucia contesta al primo i reati di accesso abusivo a un sistema informatico e la rivelazione di notizie riservate, il secondo risponde di ricettazione. Corona è invece indagato a piede libero, per tentata ricettazione. Sono in corso perquisizioni. 

Questa storia si scopre nel pieno della trattativa per piazzare il falso scoop. Corona aveva organizzato un incontro con il direttore del quotidiano on line “Mow”, Moreno Pisto. Ma il direttore non ha abboccato, anzi quando ha visionato il materiale lo ha copiato di nascosto e poi ha avvertito la squadra mobile di Palermo. I magistrati hanno poi delegato le indagini, affidandole ai carabinieri dei nuclei investigativi. Così è saltata fuori una pen drive con tantissimi file.

Si tratta di accertamenti successivi alla cattura di Messina Denaro, svolti dalla Compagnia dei carabinieri di Mazara del Vallo e dalla Stazione di Campobello di Mazara. Atti riservati, la cui divulgazione potrebbe pregiudicare le indagini sulla rete che ha favorito la latitanza del padrino delle stragi arrestato dopo trent’anni. C’erano anche i verbali dei vicini di casa del boss.  

In questi mesi, Corona era saltato fuori anche per un’altra vicenda legata a Messina Denaro: era riuscita ad ingaggiare una delle amiche che il boss aveva conosciuto in clinica, la destinataria di tanti messaggi vocali. Che erano finiti presto in prima serata, nella trasmissione di Massimo Giletti, “Non è l’arena”. 

Ma questo non è oggetto di indagine. Però in quel contesto erano state attivate delle intercettazioni. All’inizio di maggio, Corona è stato intercettato mentre diceva di avere messo le mani su uno “uno scoop pazzesco” di cui era in possesso un consigliere comunale grazie non meglio specificati carabinieri che volevano vendere materiale d’indagine. 

(...)

Estratto dell'articolo di Giuseppe Guastella per milano.corriere.it giovedì 20 luglio 2023.

«La ricostruzione che leggo sugli organi di informazione è corretta, i fatti sono andati così», dice Ivano Chiesa, il difensore storico di Fabrizio Corona, in merito alla vicenda dei file riservati su Matteo Messina Denaro. «Fabrizio viene contattato da un signore che gli propone del materiale scottante - prosegue Chiesa -. Di per sé la proposta è una notizia, e lui dice che dev'essere prima verificata».  

«Con Pisto (Moreno Pisto, direttore del quotidiano online Mow, ndr) convocano questa persona. Al momento non ricordo se a quell'incontro fosse presente fisicamente anche Corona - racconta Chiesa -. Capiscono che si tratta di materiale all'apparenza molto delicato ed insieme decidono che bisogna presentare una denuncia 

(...) Si rivolgono alla squadra mobile di Palermo e Pisto dice che Corona è d'accordo con lui a denunciare».  

«Non riesco a comprendere perché Fabrizio sia stato indagato per tentata ricettazione da solo - conclude Chiesa -. Fabrizio si è arrabbiato, dicendomi: "Mi sono comportato da persona corretta e vengo trattato in questo modo". È stato grazie a noi che hanno arrestato le due persone».

Gli Agenti.

Il Ros.

Il Gis.

Il Ros.

Il comandante del Ros Angelosanto: «Le liste dei malati e i telefonini spenti: così siamo arrivati a Messina Denaro». Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2023.

L'intervista a Pasquale Angelosanto: la vera indagine inizia ora

«Chi pensa a trattative segrete o addirittura a una consegna concordata umilia gli investigatori e i magistrati che per anni hanno lavorato giorno e notte per catturare Matteo Messina Denaro». Il generale dei carabinieri Pasquale Angelosanto, il comandante del Ros che lunedì con i suoi uomini ha arrestato il boss della mafia ricercato da trent’anni, non appare affatto colpito dai sospetti che hanno segnato l’operazione di Palermo. Ma ci tiene a essere chiaro: «Sono pronto a ripetere ovunque, anche in un’aula di giustizia, quello che sto dicendo. Lo devo ai miei uomini e tutti lo dobbiamo alle vittime delle cosche». 

Ammetterà che è sorprendente scoprire che Matteo Messina Denaro viveva a pochi chilometri dal paese dove è nato, si curava a Palermo e faceva una vita normale. 

«Non è un caso se il procuratore Maurizio De Lucia ha parlato di “borghesia mafiosa”. La rete che lo ha protetto è molto stretta. E non dimentichiamoci che svariate volte, in tutti questi anni, siamo stati vicinissimi alla cattura e poi siamo stati beffati o traditi».

 Si riferisce a uomini delle istituzioni? 

«La storia è segnata da politici, appartenenti alle forze dell’ordine, funzionari dello Stato arrestati o indagati per aver avvisato il boss che il cerchio si stava stringendo». 

E invece questa volta quando avete capito che il cerchio si era davvero stretto?

«Venerdì scorso, il 13 gennaio, quando il signor Andrea Bonafede ha confermato una particolare terapia presso la clinica la Maddalena. Ma la certezza io l’ho avuta soltanto quando il colonnello Arcidiacono mi ha telefonato e mi ha detto: “L’abbiamo preso, ha ammesso di essere lui”».

 Quanto tempo fa avevate imboccato questa pista? 

«Qualche mese fa. Grazie a indagini e intercettazioni sapevamo di quali patologie soffriva Messina Denaro e abbiamo fatto partire le verifiche. Ci eravamo insospettiti perché in determinati momenti i suoi familiari avevano comportamenti anomali. All’improvviso annullavano impegni già presi, spegnevano i telefoni, diventavano irrintracciabili e dunque abbiamo pensato che questo potesse accadere in occasione di interventi chirurgici o comunque di cure mediche particolari. A quel punto ci siamo concentrati sui database sanitari e siamo andati su obiettivi mirati». 

Che vuol dire? 

«Abbiamo cercato nelle province di Agrigento, Palermo e Trapani la lista di chi aveva oltre 55 anni e si stesse curando, anche con l’acquisto di farmaci specifici, per queste patologie. Abbiamo incrociato i dati e ottenuto una lista di circa 150 codici. Ci tengo a dire che non è mai stata violata la privacy dei cittadini perché abbiamo lavorato su codici, non su nominativi. Soltanto quando la cerchia si è molto ristretta abbiamo avviato le verifiche personali. E agli inizi di dicembre siamo arrivati a Bonafede. Il 29 dicembre ha prenotato una visita per il 16 gennaio. Ci siamo preparati per intervenire. Il soggetto corrispondeva anche perché appartenente a una famiglia mafiosa vicina al padre di Matteo Messina Denaro, ma c’era un’anomalia evidente». 

Quale? 

«Quando aveva l’appuntamento fissato spesso era da un’altra parte. Il suo telefonino si trovava a Campobello. E questo è successo anche lunedì scorso. Poco prima della visita il vero Andrea Bonafede era a casa sua. A quel punto abbiamo fatto scattare l’operazione con oltre 150 uomini, la maggior parte dentro e fuori la clinica. All’orario fissato abbiamo chiuso i cancelli e controllato tutte le persone che erano all’interno. Il signor Bonafede si è sottoposto a tampone e poi si è diretto verso il bar. In quel momento è stato fermato». 

Lei era già a Palermo? 

«Ero al comando legionale in attesa della telefonata. Dall’avvio dell’operazione alla cattura sono trascorsi novanta minuti, i più lunghi della mia vita». 

Ammetterà che averlo preso in Sicilia e aver scoperto che viveva nella zona dove è nato alimenta sospetti e misteri. 

«Soltanto chi non conosce davvero la mafia può pensare a una trattativa segreta. Messina Denaro in tutti questi anni ha vissuto lontano dalla sua cerchia stretta di familiari e conoscenti. Noi e la polizia abbiamo arrestato centinaia di fiancheggiatori ma abbiamo sempre avuto la certezza che utilizzassero un’attenzione maniacale negli spostamenti e negli incontri. Inoltre i nostri pedinamenti dovevano essere inevitabilmente larghi proprio per non far scattare l’allarme. E poi c’è un altro elemento che non deve essere ignorato». 

Dica. 

«Io ho sempre raccomandato di non lasciare nulla di intentato, ma anche di non rischiare. Davvero si può pensare che avremmo concordato la cattura in una clinica dove c’erano decine di malati con il rischio che potesse esserci un conflitto a fuoco o comunque che qualcuno potesse essere messo in pericolo?». 

L’indagine è chiusa? 

«È finita la ricerca. La vera indagine comincia adesso e la sua abitazione-covo già individuata è soltanto l’inizio del nuovo lavoro che stiamo già facendo». 

Che significato ha questa cattura?

«È il coronamento di uno sforzo corale su un obiettivo che sembrava impossibile da conseguire, di una interminabile indagine, il sogno di ogni investigatore che si avvera».

Estratto da lastampa.it il 18 gennaio 2023.

Il Comando generale dei carabinieri ha rilasciato un nuovo video, stavolta precedente alle fasi dell'arresto, preso dalle telecamere di sicurezza della clinica Maddalena di Palermo dove Messina Denaro si stava recando per curarsi la mattina dell'operazione dei Ros.

 Nelle immagini si vede come Matteo Messina Denaro sia entrato da solo, dopo aver lasciato l'auto. […] Il boss cammina con il cappello in testa e il volto coperto dalla mascherina e sembra coprirsi ancora di più passando sotto le telecamere di sicurezza. […]

Romina Marceca per repubblica.it il 18 gennaio 2023.

L’immagine che vede chiudendo gli occhi, l’unica parte del viso che il passamontagna lascia libera, è questa: “Noi che accerchiamo, uno stretto all’altro, l’obiettivo che da due anni era la mia ossessione e da trenta dell’intero Paese. Il latitante più ricercato d’Italia era in mezzo a sette di noi. Poi sono arrivati gli altri. Ce l’avevamo fatta. Il nostro cerchio si chiudeva attorno a Matteo Messina Denaro”. Chi parla e nasconde l’identità sotto il mephisto è l’investigatore della Crimor del Ros che la mattina del 16 gennaio ha catturato U’ Siccu. Il suo nome di battaglia è Sandokan. Indole da pirata e animo gentile, dà appuntamento in un luogo appartato. Discrezione è la sua parola d’ordine.

La mattina del blitz era con la sua squadra vicino la clinica La Maddalena.

“Non dormivo da tre notti. La zona attorno alla struttura era sotto monitoraggio continuo, era ripresa dalle telecamere. Pedinamenti e intercettazioni avevano scandito la vita della squadra. All’alba di quel giorno eravamo già tutti schierati e ben mimetizzati, oltre trenta uomini. Tutta la Crimor era lì, e non solo. Sapevamo che il signor Andrea Bonafede sarebbe arrivato in mattinata alla clinica La Maddalena. Noi eravamo certi che fosse la falsa identità di Matteo Messina Denaro”

Poi è scattata l’operazione.

“Alle 9,15 sulle nostre radio, collegate tra loro, è arrivato il segnale. Quell’uomo col montone e il cappellino in testa era l’uomo che si presentava col nome di Andrea Bonafede, accanto a lui un accompagnatore. Erano in una stradina senza uscita. Gli abbiamo urlato: “Fermo, fermo, carabinieri”. Lui si è bloccato, lo abbiamo circondato coi nostri corpi mentre gli dicevamo: “Lo sappiamo che sei Matteo Messina Denaro” e lui ha risposto “Sì”. Era fatta, la caccia era finita”.

 Lei è stato assegnato alla Crimor due anni fa.

“Sono stato un uomo ombra, restare nel buio è un’esigenza per chi deve braccare un latitante. Ho trascorso intere giornate e intere notti in auto, accanto alle bottiglie vuote che si utilizzano se scappa un bisogno. Sul cruscotto panini e acqua, sotto ai sedili i vestiti per cambiarmi. Per tutti noi della Crimor la vita viene scandita dai tempi di chi pedini e la macchina diventa la tua seconda casa”.

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"La notte sogni il tuo obiettivo, non c’è altro nella tua testa". La vita degli uomini invisibili che hanno preso Messina Denaro: “Notti in auto con bottiglie vuote per la pipì”. Redazione su Il Riformista il 18 Gennaio 2023

Sono invisibili, fantasmi, anonimi. Passano intere giornate in attesa, appostati in auto o ad ascoltare ore e ore di intercettazioni inutili dove però una singola parola, un misero dettaglio può fare la differenza e consentire una svolta alle indagini. Sono gli investigatori speciali. Sono i Ros o la sezione Catturandi dei carabinieri, oppure i poliziotti della Squadra Mobile. Persone che per anni seguono sotto traccia, nella più totale discrezione, i latitanti.

“Non dormivo da tre notti” racconta un investigatore della Crimor dei Ros (Raggruppamento operativo speciale) in riferimento alle ore che hanno preceduto l’arresto del ricercato italiano numero uno, l’ultimo capo di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. Il nome in codice del carabiniere speciale è Sandokan e in una intervista a Repubblica racconta la cattura di U’ Siccu, avvenuta dopo ben 30 anni di ricerche.

Sandokan racconta la vita degli uomini ombra, quelli che per lavoro sono costretti a restare nel buio, a non raccontare nulla anche ai propri familiari. “Ho trascorso intere giornate e intere notti in auto, accanto alle bottiglie vuote che si utilizzano se scappa un bisogno” racconta l’investigatore, da due anni nei Ros, a Romina Maresca, giornalista di Repubblica. “Sul cruscotto panini e acqua, sotto ai sedili i vestiti per cambiarmi – aggiunge -. Per tutti noi della Crimor la vita viene scandita dai tempi di chi pedini e la macchina diventa la tua seconda casa”.

Una vita che porta spesso, per non dire sempre, a stare lontano dagli affetti. “C’è chi una relazione stabile o una famiglia non se l’è mai creata. Al momento per me, ad esempio, è impossibile” sottolinea Sandokan. “La notte sogni il tuo obiettivo, non c’è altro nella tua testa. Si dicono tante bugie per tutelare il lavoro perché la riservatezza è la nostra prima regola. I miei genitori hanno saputo che ho catturato Matteo Messina Denaro solo dopo che lui era già arrivato in caserma”.

Per arrivare alla cattura di Matteo Messina Denaro hanno messo insieme per anni i dati riconducibili ad Andrea Bonafede, che aveva ‘prestato’ al boss di Castelvetrano la sua identità. “Abbiamo messo insieme i pezzi. Il riscontro sull’identità è stato fatto subito dopo da operatori del Ros che si dedicano a questo da una vita e lo hanno riconosciuto subito”. Poi due giorni fa la svolta: “Noi eravamo certi che fosse la falsa identità di Matteo Messina Denaro. Alle 9,15 sulle nostre radio, collegate tra loro, è arrivato il segnale. Quell’uomo col montone e il cappellino in testa era l’uomo che si presentava col nome di Andrea Bonafede, accanto a lui un accompagnatore. Erano in una stradina senza uscita. Gli abbiamo urlato: “Fermo, fermo, carabinieri”. Lui si è bloccato, lo abbiamo circondato coi nostri corpi mentre gli dicevamo: “Lo sappiamo che sei Matteo Messina Denaro” e lui ha risposto “Sì”. Era fatta, la caccia era finita”.

La gioia e “l’emozione non può avere il sopravvento” anche se “questa è l’operazione più importante della mia vita. Il 16 gennaio 2023 è una data che non dimenticherò mai, è scolpita nel mio cuore”. Ma per arrivare a un risultato così importante bisogna passare anche per tante delusioni. “Un giorno ci appostammo in una zona. Sapevamo che uno che pedinavamo da tempo aveva un appuntamento con un uomo che ci avrebbe portati dal boss. Ne eravamo praticamente certi, invece arrivati lì ci siamo accorti che non c’era alcun incontro. E’ stato difficile da digerire”.

Delusioni che si superano stando letteralmente insieme, facendo squadra. “Si organizza un briefing e se possibile anche una cena tra colleghi. Noi della squadra, in realtà, viviamo praticamente in simbiosi e quando c’è un ostacolo che ritarda le indagini siamo pronti a mantenere i nervi saldi. Cerchiamo di capire cosa migliorare”.

Il Gis.

"Così abbiamo preso il boss. Ferirlo sarebbe stato un flop". Il comandante del Gis racconta la cattura: "Un'azione pianificata. Interveniamo sempre in modo chirurgico". Luca Fazzo il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.

«Quando ci chiamano è perché serve il chirurgo specializzato: e a Palermo per la cattura di Messina Denaro siamo intervenuti in maniera assolutamente chirurgica. Non voglio vantarmi, ma di chirurghi bravi come noi in Europa ce ne sono pochi».

Giovanni Capone è il comandante dei Gis, i reparti di intervento speciale dei carabinieri che hanno gestito la parte militare della cattura di Matteo Messina Denaro. Era nel posto di comando operativo quando dalla radio è arrivato l'annuncio diventato celebre, «Veleno da Verde zero, lo abbiamo catturato». Veleno" è da sempre il nome in codice via radio dei Gis.

Colonnello, da quante ore eravate partiti dalla base di Livorno?

«Dico solo: da alcune ore».

Sapevate che il bersaglio era Messina Denaro?

«Certo che sì, non siamo partiti al buio anche se tutto è stato gestito con grande riservatezza. D'altronde avevamo fornito supporto ai colleghi del Ros anche nella fase delle ricerche con strumenti ad alta tecnologia, in particolare sui rilevamenti a distanza».

Chi ha deciso il vostro intervento?

«Il comando generale, su richiesta del Ros e sulla base di due caratteristiche dell'operazione: il rilievo strategico dell'obiettivo e la complessità tattica dell'intervento».

Come si organizza un'operazione simile in un ospedale affollato di medici, infermieri, pazienti?

«Era chiaro fin dall'inizio che era una situazione particolare, dove l'obiettivo prioritario era non mettere a rischio l'incolumità di nessuno, compreso l'uomo da catturare. Per questo in quelle ore è stato fondamentale il flusso continuo di notizie dal Ros, ci siamo abbeverati agli elementi che ci fornivano i colleghi per pianificare senza trascurare nessuna ipotesi».

Come vi sareste comportati nel caso che Messina Denaro fosse armato, che avesse una scorta, che si rischiasse uno scontro a fuoco in mezzo alla gente?

«Siamo organizzati in modo tale da congelare in modo immediato ogni tipo di minaccia rendendo inoffensive anche situazioni complesse».

Anche sparando?

«Se avessimo dovuto anche solo ferire Messina Denaro lo avrei considerato un fallimento. Noi siamo pronti a tutti gli scenari ma se diamo la possibilità al cattivo" di mettere mano alle armi vuol dire che potevamo fare di meglio».

Cosa avevate in mano per pianificare l'azione?

«Ogni intervento viene pianificato sulla base di quella che chiamiamo intelligence tattica. In questo caso ovviamente tutte le planimetrie, i rilievi compiuti dal Ros prima del nostro arrivo, e poi quelli compiuti da noi nelle poche ore a disposizione prima dell'intervento. Avevamo la carta di identità con la foto del falso Bonafede, ma non sapevamo quanto la foto fosse attuale, quanto le terapie avessero cambiato Messina Denaro. Quindi una volta isolata l'area uno dei primi obiettivi era essere sicuri che nessuno potesse lasciarla senza avere la certezza che non era chi stavamo cercando».

Alla fine lo avete bloccato all'aperto, sulla sua auto. Quanto sarebbe stato più difficile intervenire in una sala d'attesa piena di gente?

«Avremmo trovato anche in quello scenario il modo per intervenire. Probabilmente è stato più indolore così per tutti quanti».

Quando avete capito che era finita?

«Quel messaggio via radio al mio ufficiale che dirigeva l'operazione è stato un attimo di sollievo e anche di emozione. Ma per noi non era finita, c'era da gestire il trasferimento in caserma, poi in una seconda caserma, poi all'Aquila. Abbiamo potuto chiudere la pratica solo quando è stato consegnato al carcere».

Come ci si prepara a un intervento di questo tipo?

«Facendo addestramento in maniera spinta, usando la tecnologia, e sapendo che a volte ci si trova davanti a casi complessi. E ricordandoci che non si può improvvisare».

Quando si è accorto di voi Messina Denaro?

«Solo pochi minuti prima che lo bloccassimo».

In quei momenti prevale l'adrenalina?

«Per niente. Siamo addestrati a tenere a bada anche la inevitabile accelerazione emotiva e contare solo sulla concentrazione. Proprio come un chirurgo in sala operatoria».

I Magistrati.

Maurizio de Lucia.

Paolo Guido.

Maurizio de Lucia.

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 23 maggio 2023.

Procuratore Maurizio De Lucia, che significato ha il primo anniversario dell’attentato di Capaci senza più mafiosi stragisti in circolazione?

«È una ricorrenza diversa, proprio perché oggi tutti i colpevoli accertati delle bombe del ’92 e del ’93 sono in carcere, al “41 bis”, o deceduti. Dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, l’ultimo stragista latitante, lo Stato ha finalmente un debito in meno da pagare con i propri martiri. Fermo restando che molto resta da fare per chiarire le zone d’ombra che continuano a gravare su quella stagione».

Per esempio?

«Le indagini sulle stragi sono competenza di altri uffici giudiziari che stanno lavorando alacremente, ma chi ha indicato i luoghi delle stragi del 1993, o le vere ragioni dell’accelerazione dell’attentato a Paolo Borsellino, sono due delle domande ancora senza risposta». 

Pensa a interventi esterni a Cosa nostra?

«Sono ipotesi. Di certo Cosa nostra non è e non è stata solo un raggruppamento di contadini corleonesi, ma anche un insieme di intelligenze che nel tempo li hanno aiutati, e dunque non è irragionevole pensare ad altri soggetti che hanno svolto un ruolo di consulenza, per così dire. Ma, di nuovo, è materia d’interesse di altre Procure».

La sua invece sta disegnando il volto di una mafia che fino al momento del suo arresto era incarnata da Messina Denaro. Che immagine ne viene fuori?

«Matteo Messina Denaro è l’emblema della mafia che ha cambiato faccia. Lui rappresenta il passato stragista, ma aveva già avviato la nuova fase degli affari e dei traffici necessari a fare impresa. Ora che è uscito di scena, quell’indirizzo resta. 

L’organizzazione mafiosa è abituata a perdere i propri capi; può non avere altri esponenti con la stessa visione strategica, ma certamente continua a seguire le linee tracciate da Messina Denaro: tornare a occuparsi di traffico di stupefacenti e di appalti».

Un ritorno all’epoca pre-stragi, sembrerebbe.

«[…] Per quanto riguarda gli appalti, c’è la grande occasione dei fondi del Pnrr che si cerca di sfruttare con imprese mafiose presenti sul territorio e attraverso i subappalti».

[…] 

Intanto però si continuano ad avanzare dubbi anche sulla genuinità dell’operazione che ha portato all’arresto di Messina Denaro.

«[…] si è trattato di un’operazione del tutto trasparente, condotta senza misteri da carabinieri che hanno saputo farlo con abilità […]».

A che punto sono le inchieste sulle complicità di cui ha goduto il capomafia?

«[…] C’è differenza tra chi ha portato il cestino del pane a un latitante, commettendo un reato, e chi invece l’ha visto uscire e ha solo fatto finta di niente, come non fosse affar suo ». 

È lo stesso parametro da applicare alla cosiddetta borghesia mafiosa, di cui pure s’è parlato dopo l’arresto di Messina Denaro?

«Lì c’è qualcosa di più, perché nella borghesia mafiosa rientra non solo chi conosce i mafiosi, ma pure chi con loro cerca un dialogo e fa favori per averne altri in cambio che lo aiutino a risolvere i propri problemi […] ».

[…]

A che settori della società appartengono?

«Alla borghesia in senso ampio, in quanto ceto sociale, come al mondo della politica, delle imprese e delle professioni». 

Questo significa che la mafia ha vinto sul risveglio della società civile avviatosi 31 anni fa, dal movimento dei lenzuoli bianchi fino alle manifestazioni di oggi?

«No, significa che la mafia è una struttura elastica e complessa che sa adeguarsi alle realtà che cambiano. La società civile ha fatto enormi passi avanti, perché è vero che dopo trentuno anni parliamo ancora di complicità, ma è anche vero che oggi nelle scuole elementari di Palermo i bambini sanno chi erano Falcone e Borsellino, e non era affatto scontato […] » 

Lei dov’era il 23 maggio 1992?

«A Palermo, magistrato da appena due anni e giovane sostituto procuratore che in un periodo di pochi telefonini e molti telegiornali apprese con sgomento la notizia dell’esplosione sull’autostrada; con altri colleghi corremmo all’obitorio, dove apprendemmo della morte di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, dopo quella dei tre agenti di scorta.

Fu un episodio che ha segnato me e un’intera generazione di magistrati che in seguito hanno lavorato tentando di seguire con scrupolo l’esempio di chi non c’è più. L’essersi ritrovato, trentuno anni dopo, a coordinare la cattura di Matteo Messina Denaro che ovviamente è stata possibile grazie al lavoro di tante altre persone, è la chiusura di un cerchio che conta per me, ma non credo abbia grande valenza pubblica».

Estratto dell'articolo di Filippo Facci per Libero Quotidiano il 4 febbraio 2023.

Ecco la prima cosa che gli studenti del Gonzaga hanno imparato, a margine del loro incontro col Procuratore di Palermo Maurizio De Lucia: gli adulti, specie se importanti, non nominano mai le persone di cui parlano. Così, ieri, quando uno studente gli ha chiesto un commento sulle dichiarazioni di Salvatore Baiardo – il fiancheggiatore dei boss Graviano, quello che su La7 parlò di un Messina Denaro ammalato e prossimo alla cattura – De Lucia ha risposto: «C’è una grande differenza tra il mondo in cui succedono le cose e quello in cui si dice che potrebbero succedere: io parlo del primo. So come è andata, conosco le indagini e non parlo di un signore che è stato condannato anni fa per favoreggiamento di mafiosi e che circola in alcune tv».

Ecco, De Lucia, non ne parla, ma nei fatti ne ha parlato, e la cosa finisce sui giornali: «Che il latitante fosse malato lo si diceva», ha aggiunto, «e io so quando è stato arrestato e come si è arrivati a questo grande risultato: al momento opportuno, visto che ci sono indagini, si potrà dire di più».

 Anche qui: De Lucia non ha nominato Salvatore Baiardo, non ha nominato chi ci ha speculato, non ha nominato neppure Matteo Messina Denaro: ma ha parlato esplicitamente di loro. Gli studenti del Gonzaga potranno approfondire che l’abitudine di evocare qualcuno, senza nominarlo, è maggiormente diffusa nel sud e nell’oriente del Mondo.

È anche vero che c’era troppa gente da nominare, a proposito del gelataio di Omegna – Baiardo – che ha ottenuto quasi più spazio mediatico dei servitori dello Stato che si sono rotti la schiena per la cattura Messina Denaro. Difficile che De Lucia si riferisse ai giornalisti: siano essi Massimo Giletti – che si è limitato a intervistare Baiardo, pur marciandoci un po’ – a gente in cattiva Fede come Marco Travaglio o Saverio Lodato o, se è un giornalista, Roberto Saviano – si parla di gente passata in tv – sino a specialisti come Lirio Abbate che, almeno, sa di che parla.

Facile, invece, che il procuratore De Lucia si sia invece riferito all’antimafia dietrologico-vittimistica dei vari magistrati alla Nino Di Matteo (che pure ha fallito i primi processi Borsellino e il procedimento sulla «trattativa») e dell’ex procuratore Roberto Scarpinato, neo senatore grillino che sul tema mafia & politica ha costruito istruttorie complicatissime ma ha portato a casa davvero poco. Sì, facile che De Lucia parlasse di loro, o anche di loro: «C’è gente che non fa indagini da dieci anni e che viene a dirci come si fanno, questo è un Paese strano: un minuto dopo l’arresto già c’erano i murmurii», intesi come voci, e «non c’è stato neanche il tempo di festeggiare un successo per lo Stato che già erano iniziate le dietrologie».(...)

Il Procuratore di Palermo: “Messina Denaro a tutto pensava tranne che a farsi catturare”. Redazione CdG 1947 e Alessandra Monti su Il Corriere del Giorno il 4 Febbraio 2023

"Ci sono soggetti che non fanno indagini da anni che compaiono sui media per disquisire sulla cattura o fanno dietrologie. "E’ stata una cattura e ne faccio un vanto all’Arma dei Carabinieri fatta nella maniera più urbana e civile possibile: non si sono viste armi ma divise che hanno dato ai cittadini che erano lì, ai pazienti un segno di tranquillità.

Questo è uno strano Paese in cui erano passati pochi minuti dall’arresto, un grande successo per l’Italia, e sono iniziati i ‘murmurii‘: ‘Si è fatto prendere’, ‘Non era più lui’. Sono tutte considerazioni che ognuno può fare, i fatti, però, sono un lavoro impressionante fatto dai carabinieri e un uomo che a tutto pensava tranne che a farsi catturare”. Così, ha commentato il Procuratore di Palermo Maurizio de Lucia sull’arresto del boss mafioso parlando con gli studenti del Liceo Gonzaga di Palermo . 

“La Repubblica ha un debito che non si può colmare – quello verso le vittime della mafia – che impone un adempimento. La cattura dell’ultimo stragista è un debito verso suoi martiri che in qualche misura il 16 gennaio è stato ripagato“., ha detto ancora de Lucia, aggiungendo in risposta a una domanda sulla cosiddetta ‘profezia di Baiardo‘: “C’è una grande differenza tra il mondo in cui succedono le cose e il mondo in cui si dice che potrebbero succedere. Io parlo del primo. Non parlo di questo signore processato e condannato, che circola in alcune televisioni. Che Messina Denaro fosse malato è una voce che girava, altre indicazioni non mi pare siano state date, ma siccome io l’indagine l’ho fatta so quando e come è stato individuato. Uno degli scopi adesso sarà quello di fare totale chiarezza su quello che è avvenuto, lo farò nei minimi dettagli con grande delusione di chi sostiene che la terra sia piatta”.

“Non c’è un momento in cui questo Paese riesce a stare unito e festeggia i successi”, ha aggiunto quindi il Procuratore. “Occorre anche fare una riflessione su come funziona il mondo dei media: le trasmissioni hanno riguardato profili dietrologici o profili che riguardano la vita privata della persona, sono stati diffusi particolari irrilevanti come le eventuali amanti o i farmaci utilizzati. Io mi sono molto irritato per questo: anche l’ultimo criminale ha diritto alla propria dignità, mettere in piazza queste cose che contributo ha dato al servizio che l’informazione dovrebbe fare? Ci hanno fatto vedere dal buco della serratura la vita del boss“.

“Ci sono soggetti che non fanno indagini da anni che compaiono sui media per disquisire sulla cattura (di Messina Denaro, ndr) o fanno dietrologie“, continua, rispondendo agli studenti che gli chiedevano delle polemiche legate alla cattura del padrino di Castelvetrano e ai presunti retroscena sull’arresto. “E’ stata una cattura – e ne faccio un vanto all’Arma dei Carabinieri – fatta nella maniera più urbana e civile possibile: non si sono viste armi ma divise che hanno dato ai cittadini che erano lì, ai pazienti un segno di tranquillità. Non ci sono stati gesti violenti, è stato preso e portato in una caserma senza neppure l’uso delle manette, non so in quale altro Paese a regime democratico si sarebbe fatto in questo modo. Penso che questa volta lo Stato abbia fatto le cose perbene“, ha poi sottolineato.

“A tutto lo Stato va riconosciuto questo successo, ai Carabinieri, ma anche alla Polizia, alla Guardia di finanza. E’ un successo che lo Stato ha il dovere di rivendicare e io, nella mia qualità di responsabile di capo delle indagini, ho il dovere di affermare la qualità assoluta senza speculazioni di nessun tipo”, ha afferma ancora Maurizio de Lucia. “I magistrati del mio ufficio – ha concluso il procuratore di Palermo- continueranno ad utilizzare solo il metodo della ricerca dei fatti nell’esecuzione del loro compito fondamentale: accertare i reati e fare condannare i responsabili. Ci interessa solo questo, accertare la responsabilità degli indagati”.

Sul ruolo di tv e giornali, De Lucia ha sottolineato: “Parlare delle amanti del boss, delle pillole che prendeva non è stato un buon servizio. Diciamo che alcuni media hanno guardato dal buco della serratura abdicando al ruolo importante che hanno. Peraltro a me da cittadino sapere certi particolari non interessa proprio “.

Redazione CdG 1947

Il procuratore De Lucia: «So come abbiamo catturato Messina Denaro; l'Italia non sa festeggiare, troppa dietrologia». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 3 Febbraio 2023.

Il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia

In un incontro con gli studenti del Gonzaga il Procuratore di Palermo ha ribadito l’importanza dell’operazione e criticato i colleghi che «non fanno indagini da dieci anni». Poi la stoccata su Baiardo: «Un signore già condannato che circola nelle tv»

L’auditorium è pieno. Sono tanti gli studenti del liceo Gonzaga, uno degli istituti scolastici più esclusivi di Palermo frequentato dalla cosiddetta buona borghesia della città, venuti ad ascoltare Maurizio de Lucia, il procuratore del capoluogo siciliano che ha coordinato le indagini che hanno portato all’arresto del boss Matteo Messina Denaro. Un confronto di quasi due ore quello tra il magistrato e i ragazzi che, tra domande spontanee e quesiti scontati e, forse, suggeriti dai docenti, ha toccato cronaca e storia del fenomeno mafioso. Come si è arrivati a catturare il padrino di Castelvetrano, la dietrologia a nemmeno 24 ore dall’arresto e le voci di una trattativa con la consegna del boss sul piatto, il mestiere di magistrato, la borghesia mafiosa, le intercettazioni e il 41 bis: i temi trattati sono stati molti.

Le critiche a Baiardo

«C’è una grande differenza tra il mondo in cui succedono le cose e quello in cui si dice che potrebbero succedere. Io parlo del primo. So come è andata, conosco le indagini e non parlo di un signore che è stato condannato anni fa per favoreggiamento di mafiosi e che circola in alcune tv», ha detto, secco, il procuratore rispondendo a uno studente che gli chiedeva un commento sulle dichiarazioni di Salvatore Baiardo, fiancheggiatore dei boss Graviano che mesi fa aveva parlato di un Messina Denaro ammalato e prossimo alla cattura. «Che il latitante fosse malato lo si diceva. Io so quando è stato arrestato e come si è arrivati a questo grande risultato. Al momento opportuno visto che ci sono indagini in corso, si potrà dire di piu’», ha spiegato. E non meno netto è stato verso chi da settimane pontifica sui media sull’inchiesta. «C’è gente che non fa indagini da dieci anni e viene a dirci come si fanno — ha detto probabilmente riferendosi anche ad alcuni suoi colleghi o ex colleghi — Questo è un paese strano: un minuto dopo l’arresto già c’erano i murmurii (le voci, ndr). Non c’è stato neanche il tempo di festeggiare quello che è un successo per lo Stato che già erano iniziate le dietrologie».

L’importanza delle intercettazioni e de 41bis

Nelle risposte del magistrato non sono mancate stoccate ai media che «in alcuni casi, invece di raccontare chi sia Messina Denaro e cosa abbia fatto, invece di parlare dello stragista sanguinario ci hanno intrattenuto su amanti e pillole. Ecco, a me da cittadino guardare dal buco della serratura propria non interessa». De Lucia, che ha raccontato le fasi della cattura e delle indagini che hanno portato i pm sulle tracce del boss, ha ribadito l’importanza delle intercettazioni nelle indagini antimafia e del carcere duro. Infine, nella scuola che forma la futura classe dirigente, ha parlato della borghesia mafiosa che sicuramente è stata al fianco del latitante consentendogli per 30 anni di sfuggire alla cattura. «È una fetta della società compiacente con Cosa nostra. Persone che hanno studiato e che si sono laureate ma cercano un dialogo con la mafia per assicurarsi vantaggi economici e non solo».

Paolo Guido.

Mail di Paolo Cirino Pomicino a Dagospia il 26 gennaio 2023.

 L’arresto di Matteo Messina Denaro ha attivato una intensa attività mediatica sulle modalità della cattura, sui covi dell’imprendibile mafioso latitante e su tutto ciò che di intimo si trovava, su quanti avevano protetto la sua trentennale latitanza e via  di questo passo.

 In questa ricerca spasmodica dei dettagli e delle curiosità è sfuggita la cosa più importante, il nuovo profilo della procura della repubblica di Palermo.

 L’andata in pensione del nucleo storico di quei procuratori (Scarpinato, Teresi, Principato e tantissimi altri) ha portato alla guida di quell’ufficio prima Francesco Lo Voi, da sempre vicino a Giuseppe Pignatone, ed ora Maurizio de Lucia e l’aggiunto Paolo Guido che sono riusciti a chiudere l’anello per catturare Messina Denaro con la strabiliante capacità dei Ros dei carabinieri.

Questa coppia di inquirenti hanno un profilo totalmente diverso dai predecessori.  Parlano poco, non sembra che fantastichino, lavorano sodo parlando con gli atti ed i provvedimenti. Addirittura Paolo Guido nel passato si rifiutò di firmare la richiesta di rinvio a giudizio degli imputati della famosa trattativa Stato-mafia tra cui i vertici dei Ros che oggi sono sull’altare per l’abilità dimostrata.

Un cambio profondo, dunque, della guida della procura di Palermo non può che far piacere perché sostituisce le indagini con le interviste.

 Oggi che si tenta di scoprire quanti concorsero alla latitanza di Messina Denaro forse si potrà anche capire chi sottrasse dalla cassaforte nell’ufficio della PM Maria Teresa Principato, autorevole consorte del neo senatore Roberto Scarpinato già procuratore generale della procura di Palermo, il computer con le pendrive relative che contenevano l’intero dossier in una unica copia di tutte le indagini su Messina Denaro.

Le chiavi di quella cassaforte erano solo due, come racconto’ Paolo Mondani di Report, una l’aveva la Principato, naturalmente, ed un’altra il suo assistente finanziere Calogero Pulici indagato e poi assolto. Pulici aveva come avvocato Antonio Ingroia che si oppose alla archiviazione perché voleva vedere un po’ più chiaramente quella inquietante vicenda.

L’autore del furto non era certamente un collezionista di computer ma, secondo la logica, qualcuno interessato a tutelare la latitanza di Messina Denaro.

 Chissà se con questa nuova guida della procura di Palermo non si possa far luce anche su questo aspetto che lascia in giro inquietanti sospetti. 

Chi è il magistrato Paolo Guido che ha coordinato le indagini: i tratti di Falcone e Borsellino e l’allergia alle telecamere. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Gennaio 2023

È il magistrato che sta facendo tremare Cosa Nostra. Solo lavoro e low profile: non a caso non firmò le richieste sulla presunta trattativa Stato-Mafia

Avete presente l’ex pm Ingroia? L’opposto. Ed il pm Di Matteo? L’opposto. Il magistrato Paolo Guido è ben altro, agli antipodi dello stile dei professionisti dell’Antimafia chiodata e idolatrata che imperversa nei talk show che hanno riempito palinsesti ma di fatto incapaci di portare prove nei processi. A Palermo città in cui non sono pochi i magistrati frequentano i “salotti” e sono mondani come lo era il magistrato Scarpinato, ora diventato senatore del M5S , il procuratore aggiunto Guido viene considerato da tutti l’ “anti-presenzialista”, come dovrebbe essere un vero magistrato.

Dopo aver trascorso notti prima dell’arresto di Matteo Messina Denaro, partecipando alla perquisizione del covo del boss in pieno centro a Montebello di Mazara, Paolo Guido, che ha coordinato l’inchiesta per la cattura del boss mafioso, ha ceduto volentieri il palcoscenico delle telecamere e dichiarazioni alla stampa al procuratore capo (anche perchè lo prevedono le norme ministeriali) ed ai vertici dei Carabinieri del Ros, preferendo restare molto volentieri dietro la scrivania del suo ufficio sempre con la porta aperta, nel palazzo di giustizia di Palermo.

Questo magistrato 55enne che sta conducendo gli interrogatori chiede ai suoi selezionatissimi colleghi e amici con cui parla, che vuole restare al riparo dalla notorietà, preferendo restare nella sua vita riservata, che è proprio la sua, di vero “servitore” dello Stato che non vuole esaltare le folle e suscitare cori da piazza.   All’inizio della sua carriere, Paolo Guido si era occupato dei reati contro la pubblica amministrazione, passando dopo ad occuparsi della criminalità organizzata.

Ha seguito anche l’indagine per concorso esterno sull’ex presidente del Senato Renato Schifani attuale presidente della Regione Sicilia, che venne prontamente archiviata non essendovi alcun riscontro . E adesso, in un momento in cui il teorema “trattativa Stato-Mafia” riecheggia di nuovo per colpa di qualche “masaniello” sotto le mentite spoglie di giornalista, la dichiarazione secca e decisa di Guido sull’arresto di Matteo Messina Denaro “Non c’è stata nessuna trattativa” acquisisce maggiore credibilità ed importanza la circostanza che a coordinare l’operazione del Ros, sia stato proprio un magistrato che non ha mai avallato quello che si rivelò un castello fatto d’aria, mentre invece, come dimostra l’arresto di “Iddu” la legalità e lo Stato hanno assoluto bisogno di sostanza e non di chiacchiere.

Per nostra fortuna ci sono ancora dei magistrati bravi e professionisti, che utilizzano i soldi pubblici per condurre indagini reali, così facendo l’Antimafia dei fatti, mentre ci sono altri magistrati più interessati a montare invenzioni giudiziarie pur di conquistare il palcoscenico e vedere il proprio nome sui giornali ed in televisione. Paolo Guido appartiene alla prima specie. Prima e dopo l’incarico del 2017 a coordinare le indagini contro Matteo Messina Denaro, ha lavorato tra Trapani e Agrigento sempre in modo silenzioso, senza mai creare clamore attorno al suo operato. Tempo fa ha detto: “Messina Denaro è un boss che impone un pesante controllo mafioso sul suo territorio, ma senza forzare. Si occupa dei grandi affari, e lascia vivere i piccoli commercianti, non li tartassa a differenza di quanto accade in altre zone. Perciò crea consenso e viene mitizzato come un potente che ha grandi auto e belle donne“.

Sono in molti a rivedere in Paolo Guido il nuovo magistrato antimafia “stile Falcone-Borsellino”. Nei primi mesi del 2013, da sostituto procuratore, Paolo Guido rifiutò di mettere la firma sotto all’azzardata inchiesta di rinvio a giudizio contro il generale Mori (che guidava il ROS dei Carabinieri) ed il capitano De Donno, predisposta dall’accoppiata Ingroia-Di Matteo sula fantomatica “trattativa Stato-Mafia. E quel allora sconosciuto pm originario di Cosenza, senza aver mai lavorato in Calabria, laureatosi a Roma dove ha mosso i primi passi ebbe ragione anzitempo alla luce di come è finita la vicenda processuale che ha visto l’ azzeramento in Corte d’Appello del teorema azzardato della “trattativa” e l’ ennesima figuraccia dell’Antimafia a parole.

Chi esaltava e conservava la celebre foto del pool di Milano, nel periodo di Tangentopoli, che insieme a Di Pietro e Borrelli attraversavano la Galleria di Milano tra le ali di popolo inneggiante al loro eroismo, la deve dimenticare se vuole capire il comportamento personale e professionale del magistrato “dottor Guido”. A cui dobbiamo tutti dire “grazie“.

Redazione CdG 1947

Il magistrato che ha arrestato Messina Denaro: «Sono cosentino nell’anima». LUCIANA DE LUCA su Il Quotidiano del Sud il 17 Gennaio 2023.

PAOLO Guido stanco e felice. Come quando si è affrontati una battaglia lunga ed estenuante, come quando si è andati avanti senza certezze, applicando rigore e buone intuizioni alla ricerca senza sosta di un fantasma al quale si voleva dare forma e sostanza a tutti i costi.

Paolo Guido, il procuratore aggiunto di Palermo con delega sulle indagini per la cattura del boss latitante Matteo Messina Denaro, dopo tanti anni di lavoro, definisce quella di ieri “proprio una gran bella giornata”.

Dottor Guido, come si sente ora, dopo la cattura di Matteo Messina denaro che avviene dopo tanti anni di lavoro non facili, pieni di entusiasmi ma anche di cadute e ripartenze.

«Mi sento bene perché questo è un momento molto importante sia per lo Stato che per chi da tanto tempo porta avanti la lotta contro le mafie. La giornata di ieri segna un bel vantaggio, un punto a nostro favore e sono molto felice ed orgoglioso, da magistrato, per questo risultato. Matteo Messina Denaro era l’ultimo stragista che rimaneva da prendere e finalmente giustizia è stata fatta. E per me essere protagonista di una pagina di storia tanto bella è motivo di grande orgoglio».

Tutta l’Italia ma soprattutto i cosentini, condividono con lei questo orgoglio.

«Io sono cosentino nell’anima, nella mia città ho i miei amici e ho un profondo legame con la mia terra. Condividere con i calabresi un momento tanto importante non può che rendermi felice soprattutto perché questa occasione ci offre l’opportunità di parlare bene, qualche volta, anche dei calabresi».

Dottor Guido, nonostante l’importanza della cattura di Messina Denaro, c’è chi, in una giornata storica come questa, tira fuori le dichiarazioni del pentito Salvatore Baiardo, che già nel novembre scorso aveva ipotizzato la cattura del boss di Castelvetrano in seguito a un’ennesima trattativa tra Stato e mafia.

«Io posso confermarle che siamo arrivati a identificare e catturare Matteo Messina Denaro esclusivamente sulla base di attività di indagini che ci hanno fornito dei dati investigativi importanti. Non ci sono stati collaboratori di giustizia, non ci sono state fonti anonime, né confidenziali, nessuna informazione proveniente dall’esterno. La cattura del boss è avvenuta solo grazie ad un’attività certosina e direi ortodossa, mi lasci usare questo termine».

Quindi conferma che l’ipotesi di una ennesima trattativa tra Stato e mafia in questo caso non ha ragion di esistere.

«Direi proprio di sì e queste illazioni fanno torto a un’operazione di intelligence e di accertamento sul campo, portati avanti con grandissima professionalità da una struttura di eccellenza che oggi merita il giusto riconoscimento e me lo faccia dire anche per l’attività che la procura di Palermo, nel corso di tanti anni, ha svolto in maniera rigorosa e trasparente. Questa ipotesi è veramente una nota stonata in un momento come questo, perché la cattura di Messina Denaro é la sintesi di uno sforzo collettivo che non è frutto di dietrologie o di altre ipotesi fantasiose e alternative. Io sul lavoro che abbiamo svolto, non nutro alcun dubbio».

Da quanto tempo eravate sulle tracce del boss. Da quando sapevate che Matteo Messina Denaro si curava nella clinica “La Maddalena” di Palermo?

«Noi lo abbiamo saputo da pochissimi giorni. Siamo arrivati a lui con un meccanismo di esclusione e di verifiche progressive, fino ad arrivare a selezionare la persona che non corrispondeva alle generalità che aveva dato. Quando abbiamo avuto, finalmente, questa certezza, abbiamo deciso di intervenire convinti che lo avremmo preso».

Ispirati da…

Estratto dell’articolo di Gianmarco Lotti per firenze.repubblica.it il 19 gennaio 2023.

"L'arresto di Matteo Messina Denaro è una grandissima soddisfazione. Per trent'anni non ho dormito ripensando a quella notte, a quello sportello del Fiorino che si chiude". Chiara Tenerini ha 50 anni, viene da Cecina (Livorno) e da settembre 2022 è deputata di Forza Italia. Il 27 maggio 1993 viveva a Firenze.

 Era a pochi passi dall'auto bianca stipata di esplosivo, che in un istante squarciò la storia della città e d'Italia. Poi un grido di giustizia, durato poco meno di trent'anni, placatosi da poche ore, da quando è stato arrestato il boss mafioso Matteo Messina Denaro. Tenerini è stata testimone della strage di via dei Georgofili, un evento che l'ha segnata e si è portata dentro per anni.

 Come ha reagito dopo l'arresto del boss?

"Per me è stata una liberazione. È un cerchio che si chiude a trent'anni da quella notte. Non ho mai voluto parlarne, l'argomento è uscito fuori solo in campagna elettorale, non perché l'ho tirato fuori io. Ora però sento una grande soddisfazione dopo l'annuncio dell'arresto".

Cosa prova adesso?

"Vorrei incontrarlo. Vorrei avere un confronto con lui. Sarebbe bello se Messina Denaro facesse i conti con sé stesso e ci dicesse qual era l'obiettivo di quella notte, perché sono stati uccisi degli innocenti. A me quella sera ha cambiato la vita".

 Ci racconta il suo 27 maggio 1993?

"Facevo l'università a Firenze, studiavo Scienze forestali. A febbraio io e le mie coinquiline avevamo lasciato piazza San Marco, troppo caotica, per andare in via Lambertesca, a due passi dagli Uffizi. Abitavamo al civico cinque, al primo piano. Il 27 maggio io ero uscita per andare a vedere al cinema la prima visione di un film di Francesca Archibugi [Il grande cocomero, ndr] ed ero rientrata tardi. Ero in casa verso l'una circa. Per non svegliare le coinquiline ho deciso di dormire sul divano letto".

 Poi cosa è successo?

"Ho sentito un boato enorme. Poi le sirene, gli allarmi, le urla. Un inferno vero. Ho controllato che le coinquiline stessero bene poi ho deciso di scendere in strada. 

 (...)

"Ricordo il forte odore di polvere da sparo che impregnava i vestiti anche a distanza di giorni. Ricordo il fumo che pervadeva la strada e le case. Ricordo, soprattutto, quel Fiorino bianco. Ricordo il rumore dello sportello che si chiude e io che lo sento in piena notte, senza pensarci".

 Il ricordo l'ha segnata?

"Per anni non ho dormito. Ho preso farmaci, sono andata da un analista, è stata dura. Se ero a letto e sentivo parcheggiare un'auto, la testa andava a quella notte. Ci sono stati momenti in cui non dormivo, prendevo la macchina e guidavo fino all'alba. Mi ha lasciato un segno grande. Quell'attentato è andato a colpire innocenti nel luogo dove si sentivano più al sicuro, nella propria casa".

Da ansa.it il 18 gennaio 2023.

"L'abbiamo saputo stamani anche noi.

Aver usato la poesia Tramonto di Nadia come titolo dell'operazione che ha portato all'arresto di Matteo Messina Denaro è un simbolo, un bel segnale che viene dato a tutti, non è solo una carezza alle due bambine, nostre nipoti".

 Così da La Romola (Firenze) Luigi Dainelli commenta il nome scelto dal Ros per il blitz di cattura del boss. Dainelli e la moglie Patrizia Nencioni sono zii di Nadia, 9 anni, e Caterina, 50 giorni, uccise il 27 maggio 1993 dall'autobomba di via dei Georgofili coi genitori Fabrizio Nencioni e Angela Fiume, e lo studente Dario Capolicchio. 

"Non so dire - ha proseguito Luigi Dainelli - se qualcuno di loro, dei carabinieri, scegliendo la parola Tramonto abbia voluto ricordare le bambine e aver voluto richiamare attenzione sulle vittime dell'attentato di Firenze, o se si sia voluto anche interpretare qualcosa di più, forse pure il tramonto personale del boss Matteo Messina Denaro che viene segnato dal suo arresto". "Questo non lo so - ha concluso -, ma so che al di là di tutto, facendo così, c'è stato un pensiero di investigatori e inquirenti dedicato alla strage di Firenze. Speriamo che Messina Denaro si decida a parlare, a dire la verità completa sulle stragi. Noi speriamo che con questo arresto si possa saperne di più".

Nadia Nencioni scrisse la poesia Tramonto pochi giorni prima dell'attentato in un quaderno tuttora conservato e riprodotto per raccontare la vicenda nelle scuole. Gli zii Dainelli sono tra i pochissimi parenti della famiglia Nencioni distrutta dall'autobomba. Il 22 dicembre 2017 morì a 94 anni la nonna paterna delle bimbe Lucia Vignozzi. Nel giardino pubblico davanti alle finestre della sua casa a La Romola fu posto il monumento che ricorda anche oggi i suoi familiari morti nell'attentato.

L'autobomba esplosa nel 1993 in via dei Georgofili. Messina Denaro, l’operazione chiamata Tramonto come la poesia di Nadia: morta a 9 anni nella strage di Firenze. Vito Califano su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Si chiamava Nadia e aveva appena 9 anni quando è morta, una delle vittime dell’attentato della Mafia a Firenze nel maggio 1993. Aveva scritto una poesia intitolata Tramonto. E Tramonto è stata chiamata l’operazione dei Ros dei carabinieri che hanno arrestato ieri presso la clinica La Maddalena, nel quartiere San Lorenzo a Palermo, il superlatitante Matteo Messina Denaro, la “Primula Rossa” di Cosa Nostra, ricercato dal 1993, che per l’attentato di Firenze fu condannato all’ergastolo.

La notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 esplose un’autobomba a Firenze, la strage dei Georgofili, nei pressi della Galleria degli Uffizi. Quei 277 chilogrammi di esplosivo uccisero cinque persone, rientravano nella strategia terroristica e stragistica di Cosa Nostra. Nadia Nencioni morì con la madre Angela Fiume, al padre Fabrizio Nencioni e alla sorellina Caterina di appena 50 giorni. Anche lo studente di architettura Dario Capolicchio, 22 anni, originario di La Spezia, perse la vita. Altre 41 persone rimasero ferite.

Solo tre giorni prima dell’attentato la bimba di nove anni aveva scritto una poesia, intitolata Il Tramonto:

Il pomeriggio se ne va

il tramonto si avvicina, un momento stupendo

il sole sta andando via (a letto)

è già sera tutto è finito

Il quaderno su cui scrisse quelle righe è ancora conservato e riprodotto dall’associazione dei Familiari delle vittime della strage di via de’ Georgofili per raccontare la vicenda nelle scuole.

“L’abbiamo saputo stamani anche noi. Aver usato la poesia Il Tramonto di Nadia come titolo dell’operazione che ha portato all’arresto di Matteo Messina Denaro è un simbolo, un bel segnale che viene dato a tutti, oltre ad essere una carezza alle due bambine, nostre nipoti“, ha commentato all’Ansa Luigi Dainelli, zio con la moglie Patrizia Nencioni di Nadia, che vivono a La Romola. “Non so dire se qualcuno di loro, dei carabinieri, scegliendo la parola Tramonto abbia voluto ricordare le bambine e aver voluto richiamare attenzione sulle vittime dell’attentato di Firenze, o se si sia voluto anche interpretare qualcosa di più, forse pure il tramonto personale del boss Matteo Messina Denaro che viene segnato dal suo arresto”.

Di una cosa però lo zio è sicuro: “Al di là di tutto, facendo così, c’è stato un pensiero di investigatori e inquirenti dedicato alla strage di Firenze. Speriamo che Messina Denaro si decida a parlare, a dire la verità completa sulle stragi. Noi speriamo che con questo arresto si possa saperne di più”. A Nadia Nencioni e alla sorellina Caterina è stato intitolato un asilo nido comunale a Corleone, in provincia di Palermo.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Chi era il maresciallo Filippo Salvi a cui è stata dedicata la cattura di Matteo Messina Denaro. Maddalena Berbenni su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

Subito dopo l’arresto, il colonnello del Ros Lucio Arcidiacono ha rivolto un pensiero al carabiniere bergamasco che morì in Sicilia proprio mentre lavorava a un’indagine per catturare il boss. Riina, durante il processo, gli chiese: «Ma chi te l’ha fatto fare di venire qui?»

Ai tempi, il colonnello Lucio Arcidiacono guidava la sezione Anticrimine del Ros di Catania. Sempre Sicilia e sempre lotta alla mafia. Non lo conosceva di persona, Filippo Salvi. Non era tra i suoi uomini. Eppure è a lui che ha dedicato la cattura di Matteo Messina Denaro : non a Falcone o Borsellino, a cui certo è andato subito il pensiero, ma allo sconosciuto maresciallo partito da un paesino della Val Brembana e poi approdato al Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri di Palermo. Morì a 36 anni il 12 luglio 2007 sul monte Monte Catalfano, a Bagheria, proprio mentre stava lavorando alla cattura del pupillo di Totò Riina , latitante da un pezzo già a quei tempi: scivolò in un precipizio mentre stava installando una telecamera per indagare su alcuni soggetti vicini al boss. Un incidente.

Il colonnello: «Era uno di noi»

«Non era un mio collaboratore, ma era uno di noi. I ragazzi lo pensano sempre, ricordarlo era doveroso», ribadisce il colonnello Arcidiacono, oggi comandante del primo reparto investigativo del Ros. È stato lui a riconoscere Messina Denaro fuori dalla clinica Maddalena, ad avvicinarlo e poi a farsi confermare la sua identità. «In particolare dedico questo successo al nostro maresciallo», ha dichiarato nelle interviste successive.

Quando Riina gli disse: «Ma chi te l’ha fatto fare di venire qui»

Filippo Salvi, nome di battaglia Ram (in onore al suo diploma da informatico), era originario di Botta di Sedrina, dove ancora vivono i suoi genitori, Giannino Salvi e Lorenzina Vitali, che tutti in paese conoscono come Renza. La loro casa si affaccia sulla una piazza che l’amministrazione comunale, a luglio 2022 in occasione dei 15 anni dalla morte ha deciso di intitolare al maresciallo Salvi: «È un concittadino che ha dato molto — evidenzia il sindaco Stefano Micheli —. Non l’ho conosciuto di persona, ma ho avuto modo di approfondire la sua storia anche nei viaggi fatti in Sicilia, dove lo ricordano ogni anno».

La mamma, 77 anni, maestra in pensione, è un concentrato di aneddoti su quel figlio che faceva due gradini alla volta, che collezionava Tex Willer, che era tornato da una vacanza in Spagna con due amici senza più la Punto verde «perché s’era incendiata in un incidente, tornarono con gli abiti che ancora puzzavano di benzina e di fumo». E che, a 22 anni, le disse che si sarebbe arruolato nell’Arma tre giorni prima di partire: «È stato un onore inaspettato la dedica di ieri — dice Renza, seduta nella sua cucina —, gli amici non lo hanno mai dimenticato. Mi scrivono ogni mattina per sapere come sto, se va tutto bene. E guai se non rispondo». Da loro Renza, che nell’armadio conserva ancora la divisa del figlio («Non la portava mai, quella dell’unica foto che circola gliel’avevano prestata»), ha poi saputo dell’attività del figlio in Sicilia, dove era arrivato dopo un anno e mezzo passato al Centro raccolta dati dei carabinieri di Roma, lui che aveva un diploma da informatico. «Aveva seguito la cattura di Provenzano e il processo di Riina — ricorda Renza —. Durante un’udienza, mentre passava davanti alla gabbia con i faldoni in mano, Riina gli disse: “Tu non sei un terrone”. Un collega rispose per lui: “No, questo arriva da Bèrghem”. E Riina: “Ma chi te l’ha fatto fare di venire qui?”. E Filippo rispose: “Sono venuto giù per te”».

La piazza al Museo dell’Acciuga

Un’altra piazza «Maresciallo Filippo Salvi» si trova all’interno del Museo dell’Acciuga, ad Aspra, la frazione di Bagheria dove avvenne la tragedia. «È il giusto riconoscimento a un ragazzo che venne da Bergamo per liberarci dalla mafia», dice Michelangelo Balistreri, l’ideatore del museo creato nella vecchia fabbrica di acciughe della sua famiglia. «Raccontiamo la storia della Sicilia attraverso questo piccolo pesce. È un museo vivo, con centinaia di bambini a cui narriamo la storia di Filippo Salvi. La cosa più commuovente — osserva Balistreri — è vedere i suoi colleghi, ma anche ufficiali e prefetti venire in silenzio e senza divisa a visitare la piazza». Su Facebook esiste la pagina «I fratelli di Filippo Ram». In tanti hanno lasciato un messaggio, ieri, subito dopo la cattura dell’ultimo dei boss.

Il Carcere di Massima Sicurezza.

Estratto dell’articolo di Stefano Dascoli e Marcello Ianni per "il Messaggero" giovedì 28 settembre 2023.

[…] ieri è emersa la notizia delle minacce ricevute dall'oncologo che ha curato l'ex capo di Cosa Nostra dopo l'arrivo nel carcere dell'Aquila, lo scorso 17 gennaio. A Luciano Mutti sono giunti messaggi minatori che lo intimavano a curare il boss nella maniera migliore, pena ritorsioni. 

La polizia ha identificato e denunciato a piede libero un ventenne campano rintracciato a Torino. E sempre in Campania, a Castelnuovo di Napoli, un parroco, don Tommaso Izzo, è finito sotto accusa per aver organizzato e poi cancellato una messa in memoria di Messina Denaro.

Sono piovute condanne pesantissime. Il parroco si è difeso dicendo aver accettato la richiesta di un parrocchiano, ma non è stato l'unico a preoccuparsi per l'anima di Messina Denaro: all'Aquila tre monache benedettine di clausura del monastero di Tagliacozzo, Madre Donatella, suor Emanuela e suor Teresa Benedetta, hanno tentato di entrare nell'obitorio per pregare davanti alla salma, ma sono state respinte: «È pur sempre un figlio di Dio» hanno detto, sconsolate.

Gli scatti inediti del boss Matteo Denaro poche ore dopo l’arresto. Alfio Sciacca su il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2023

Realizzate nell’hangar di Boccadifalco dove c’è la sede operativa dei Ros. Si vede il boss mentre firma il verbali di arresto

Tre foto, solo ora diffuse dai carabinieri del Ros. Immortalano il boss Matteo Messina Denaro alcune ore dopo la cattura, mentre firma il verbale di arresto. Le foto sono state scattate all’interno dell’aeroporto di Boccadifalco a Palermo, dove in un hangar c’è la base operativa dei militari del Reparto operativo speciale. Negli scatti il boss appare dimesso e ormai rassegnato, senza alcuno sguardo di sfida nei confronti di chi lo ha appena assicurato alla giustizia dopo oltre 30 anni di latitanza. Come noto Messina Denaro è stato fermato il 16 gennaio davanti alla clinica «La Maddalena» dove era in cura da mesi.

Dopo la cattura venne prima portato nella sede della compagnia dei carabinieri di San Lorenzo e da qui all’aeroporto di Boccadifalco. Il giorno dopo il trasferimento nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila dove è attualmente detenuto al 41 bis.

E proprio nel carcere abruzzese ieri il boss si è sottoposto al terzo ciclo di chemioterapia. Per i trattamenti sanitari di cui ha bisogno è stata allestita una cella-ambulatorio attigua a quella dove è rinchiuso, sotto strettissima sorveglianza. Ad assisterlo durante la terapia un oncologo, un anestesista e un’infermiera, dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila. Secondo le autorità carcerarie il boss è in buone condizione e non sarebbero emerse particolari criticità. Anche il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido lo aveva trovato «in buono stato e ben curato» dopo il primo interrogatorio in carcere, il 14 febbraio scorso.

Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “La Stampa” il 20 Gennaio 2023.

È la tomba dei vivi, il 41bis, ovvero il carcere duro per mafiosi e terroristi. Ciò che davvero fa paura alla criminalità. Fu inventato ai tempi della mafia arrembante e la logica è intuitiva: serviva per spezzare i collegamenti con l'esterno, evitare che i boss continuassero a comandare da dentro le celle, e chiuderla con lo scandalo di certe carceri dove i padroni erano loro.

 Neanche troppo velatamente, c'è però un'altra motivazione meno nobile, ossia piegare le volontà più riottose e spingerle alla collaborazione.

Le condizioni di vita del detenuto soggetto al 41bis sono obiettivamente pesanti. Obbligatoriamente chiuso in una cella singola per l'intero giorno. Ha diritto ad appena due ore al giorno di «socialita» in gruppi composti da massimo quattro persone, tutti allo stesso livello di sicurezza.

 La regola non vale però per i boss più in vista, il Gotha del Gotha criminale, che vengono detenuti nelle cosiddette aree «riservate» e svolgono la socialità con una sola altra persona, e sempre la stessa.

[…]

Colloqui

Ciò che più li spaventa sono le restrizioni nei colloqui: uno solo al mese (invece di sei), di un'ora al massimo, e dietro un vetro divisorio, tranne se hanno figli minori di 12 anni, videosorvegliati da un agente di polizia penitenziaria. Su ordine della magistratura possono essere ascoltati dagli agenti.

 «Nel caso in cui i detenuti non effettuino il colloquio visivo mensile, possono essere autorizzati, dopo i primi sei mesi di applicazione del regime, a svolgere un colloquio telefonico con i familiari, che devono recarsi presso l'istituto penitenziario piu vicino al luogo di residenza al fine di consentire l'esatta identificazione degli interlocutori. La partecipazione alle udienze avviene esclusivamente "da remoto" in videoconferenza», sintetizza l'associazione Antigone.

 A luglio scorso erano 732 i detenuti al 41bis, in leggero calo rispetto al rapporto Antigine del 2020 (759). La maggior parte sono nelle carceri dell'Aquila, di Opera, Sassari e Novara. Nel penitenziario abruzzese, Matteo Messina Denaro incontrerà vecchi sodali. C'è ad esempio Filippo Graviano, condannato anche lui per le stragi del '92 e '93.

[…]

 Ecco, Filippo Graviano è al 41bis da tempo immemorabile come il fratello. Entrambi sono riusciti nell'impresa apparentemente inspiegabile di avere concepito un figlio con le legittime moglie nonostante il carcere duro.

 «Non racconterò mai a nessuno come ho concepito mio figlio mentre ero al carcere duro, perché sono cose intime mie. Dico solo che non ho fatto niente di illecito, ci sono riuscito ringraziando anche Dio e sono rimasto soddisfatto.

Non ho chiesto alcuna autorizzazione, ma ho approfittato della distrazione degli agenti», spiegò Giuseppe Graviano in un processo.

[…]

Le scrivo per annunciarle la sua morte. Lettera a Messina Denaro pubblicata nel 2015: “Voi morti al 41bis avete fatto andare in paradiso l’Antimafia dei bla bla bla”. Nicola Biondo su Il Riformista il 19 Gennaio 2023

Gentile Signor Matteo Messina Denaro, Le scrivo per annunciarle la sua morte.

No, non sono un medico e la morte a cui alludo non è quella fisica. Faccio il giornalista: capire chi comanda e chi invece ha perso il potere fa parte del mio mestiere.

Lei è morto come boss mafioso, come simbolo dell’organizzazione mafiosa. Tutti la chiamano l’invisibile e lei lo è diventato davvero. E non perché chi le dà la caccia non conosca la sua faccia di oggi. Ma perché lei non conta più niente. Il suo corpo che in questo istante respira, si muove o riposa non è più quello di un uomo potente, ma di un ricercato, come ce ne sono tanti, di un braccato. Non è più un cacciatore ma una preda.

Lei per primo qualche anno fa ha ammesso la sconfitta. Volevate piegare lo Stato, essere padroni a casa vostra (qualcuno poi vi ruberà lo slogan) e invece con mezzi più o meno ortodossi, siete stati battuti. Prima la gente faceva la fila in pieno giorno per riverirvi e chiedervi aiuto. Poi ha iniziato a farlo sempre più di nascosto. Troppo rischioso.

A lei hanno arrestato tutta la famiglia, la donna che le ha dato una figlia è andata via da casa, lì dove tutti la onoravano come un dio. Vi siete rivolti agli amici e hanno arrestato pure quelli. La sua latitanza costa decine di migliaia di euro al mese, nessuno fa niente per lei a gratis. Ma sa qual è la sconfitta più grande per uno come lei? Che qualcuno ha fatto carriera sulla vostra pelle. Qualcuno ha capito in tempo che al massimo della vostra forza militare, eravate deboli, debolissimi. Che tutto quel sangue non vi avrebbe portato bene.

Nello stesso momento in cui il mondo si accorgeva di voi, del vostro delirio di onnipotenza, qualcuno iniziava a costruire sapienti parole di cartapesta. Guappi di cartone voi, con le vostre bombe, eroi di cartone loro. Voi con le vostre parole d’onore, loro con i bla bla bla di antimafia e legalità. E mentre voi finivate tutti inguaiati, sbattuti dentro e dimenticati, loro – gli antimafiosi, i buoni – scalavano posizioni su posizioni. Voi finivate all’inferno, loro in paradiso. Ma eravate facce della stessa medaglia, entrambi ipocriti.

Conosco bene la provincia di Trapani, ci vivo. Un tempo ad ogni angolo di paese c’era un ragazzo pronto a impugnare la pistola per farsi largo nella vita, per diventare boss. Adesso non c’è più nessuno. Nessuno invidia la sua carriera, nessuno vorrebbe essere come lei. Chi vuole comandare in Sicilia, a Trapani, non sceglie l’organizzazione: si da alla politica, agli affari. Cosa nostra non è più un trampolino di lancio, è una zavorra. Non avete più appeal, direbbe un pubblicitario.

Se l’organizzazione non fa proseliti, non attira sangue nuovo a cosa serve?

Un tempo la mafia imponeva e controllava qualsiasi opera pubblica o impresa privata. Oggi una ditta qualsiasi arriva a Mazara del Vallo, nel suo mandamento, e per piazzare i pali eolici fa l’elemosina al mafioso locale: 500 euro a palo, una tantum. Non fate più paura a nessuno. Sa quando guadagna un ragazzino del Grande Fratello per ogni comparsata in discoteca? Di più, molto di più.

Un tempo lei uccideva per poco, molto poco. Ricorda quell’albergatore che definì “mafiosetti” lei e i suoi picciuttunazzi che bevevate nel suo locale atteggiandovi a grandi uomini e toccando il culo ad ogni ragazza che passava. Quell’offesa non gliela perdonò e diede ordine di ucciderlo. Mafioso, non mafiosetto, le parole sono importanti per Lei.

Quei colpi di pistola sancirono il passaggio. Con tutti i soldi che ha fatto suo padre, Lei poteva avere ogni cosa senza sporcarsi le mani di sangue. Ho immaginato più volte se invece di cercare l’approvazione di quella banda di assassini di cui suo padre si circondava avesse chiesto di andare via da Castelvetrano, all’estero a studiare. Magari economia visto che le piacciono gli affari e ama girare il mondo. Avrebbe avuto mille privilegi. Ma non le bastava essere Matteo Messina Denaro, godersi la vita anche senza lavorare. Voleva diventare don Matteo: il generale della sua falange, il Cesare di Cosa Nostra. Voleva incutere rispetto, non conquistarselo con qualche talento. Ma se uno come lei non si riproduce e non diventa un mito da imitare non è più nessuno, è morto. E intorno a lei non c’è più nessuno.

Lei è pure diventato un personaggio, con la mania dei ray-ban, la fissa per le belle donne e il lusso. L’incarnazione del boss hollywoodiano, una sorta di Al Pacino con le movenze di John Travolta. E’ finito anche sul Time, nella top ten dei mostri insieme con Bin Laden. Sono soddisfazioni per uno come lei che voleva vivere sempre al massimo.

Come le dicevo, è il mio mestiere saper leggere le cose che cambiano. Sono sicuro che Lei ha visto quel ragazzo di Castelvetrano che va in giro da settimane a vendere il suo brand da antimafioso che si ribella a lei e all’organizzazione. Io so che l’ha visto. E so cosa ha pensato. Che finché lei era don Matteo a quel ragazzo gli affari che lei faceva fare al padre gli convenivano. Gli permettevano di vivere a Roma, di tentare la carriera di attore, di curarsi il look che mostra sempre così raffinato. Ma da quando hanno arrestato il genitore con l’accusa di proteggere la sua latitanza, il babbio è finito. E il pericolo di avere l’intero capitale di famiglia sotto sequestro non è bello, dopo che hai vissuto così bene grazie a don Matteo. E allora si ricicla, facendola apparire come l’unico e assoluto male in una terra dove se non ci fosse Lei tutto sarebbe bellissimo.

E’ questo che mi fa capire che Lei è morto. Perché se un ragazzino che ha vissuto con i soldi che lei ha fatto fare a suo padre la ripudia così, a Castelvetrano, nella sua terra, lei non è più niente.

So che le piacciono tanto le massime latine e gliene consiglio una io che fa al caso: “I benefici sono graditi finché possono essere ricambiati, quando sono troppo grandi, invece di gratitudine generano odio“. Lei ha fatto favori troppo grandi. A tanti politici, a tanti imprenditori. Li ha fatti diventare dei vincenti, li ha protetti e li ha fatti diventare ricchi. Poi lei è diventato ingombrante. Non scrive più, non minaccia, non è più a capo di nessun esercito. E’ solo l’ultimo residuo di un mondo che non c’è più. Il suo nome “tira” ancora, questo è vero. Se si parla di mafia, lei c’è. Se si parla di antimafia, pure. Ma chi le sta dando la caccia lo sa. Lei pensa solo a rimanere più a lungo possibile lontano dalla cella prenotata da tempo per i suoi ultimi anni. Ha abbandonato la sua famiglia ed è stato abbandonato anche da coloro che lei ha reso ricchi.

I giochi, Matteo, sono finiti. E scusa se sono passato al tu, ma ai morituri va fatta sentire la vicinanza dei vivi nel momento del passaggio. Non voglio confortarti, sia chiaro, so che non ti pentiresti mai perché credo che tu non sia pentito di nulla se non di essere stato sconfitto. Ma potresti parlare. Raccontare mille cose: chi ti ha protetto, chi hai aiutato, cosa è davvero la mafia e chi l’ha usata. Certo, rischieresti di non essere creduto. Quante persone “perbene” a cui hai fatto fare fortuna avrebbero buon gioco a negare? Quanti geometri, avvocati, notai, quanti medici, assessori, dirigenti locali e regionali, direttori di banca e imprenditori dopo averti “usato” oggi potrebbero dire davanti alle tue accuse “mi ha minacciato per ottenere qualcosa ma io non volevo”.

Ecco l’eredità che lasci. Una banda di sanguisughe. Che vivranno liberi e faranno magari pure gli antimafiosi e ti sputeranno in faccia pubblicamente. Ecco perché anche tu sai di essere morto. Pensaci Matteo, mentre cambi rifugio dopo rifugio e senti sempre più vicina l’ora della morte targata 41bis. Hai un’occasione, quella di non morire da solo che è sempre una cosa brutta. Nicola Biondo

Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 20 Gennaio 2023.

[…] Da una parte, l’avvocata Guttadauro, alta, scura, capelli non lunghi, tre figli, un’esistenza dedicata ai parenti sotto processo. Una vita e una professione segnate. Dall’altra, l’avvocato Fabio Trizzino, genero di Paolo Borsellino. Storie e vissuti paralleli che potranno incrociarsi come non è mai avvenuto.

 Lorenza […] potrà superare anche i portoni blindati del supercarcere abruzzese, attraversando come se non esistessero le maglie del 41 bis, il regime che impedisce contatti diretti fra detenuti e familiari. Ma non all’avvocato. Anche se nipote diretta. Ed è questo che pone qualche dubbio, che inquieta tanti investigatori e magistrati impegnati in passato a caccia del boss.

La preoccupazione, analoga a quella dei colleghi che adesso setacciano i segreti del boss, è sintetizzata da un ex sostituto della Direzione antimafia di Palermo, Massimo Russo: «Temiamo la beffa e lo scacco matto del padrino appena arrestato […] una mossa che spiazza lo Stato, che rivela un vuoto normativo […] Maglie che si allargano, costringendo a doverci fidare della deontologia professionale dell’avvocata Guttadauro.

 Ma se il 41 bis nasce per escludere rapporti con il mondo esterno al carcere e, soprattutto, possibili intese sotterranee con i parenti anche durante i colloqui, dovremmo pure porci la questione di un parente-avvocato. Cosa che non ha mai fatto nessuno. Matteo Messina Denaro ha trovato il «vuoto» della norma. E lo colma.

[…]

(ANSA il 17 gennaio 2022) - E' sbarcato ieri sera con un volo militare all'aeroporto di Pescara il boss mafioso Matteo Messina Denaro, dopo l'arresto avvenuto a Palermo. L'ipotesi più accreditata, come anticipato da La Repubblica e il Centro, è che il boss venga detenuto nel carcere dell'Aquila poichè è una struttura di massima sicurezza, ha già ospitato personaggi di spicco ed anche perchè nell'ospedale del capoluogo c'è un buon centro oncologico.

Non è escluso che il boss sia stato trattenuto altrove per la notte, o in una caserma o nei vari penitenziari della zona. Secondo quanto si è appreso, autorità ed istituzioni sarebbero state allertate.

(ANSA il 17 gennaio 2022) - E' in vicolo San Vito (ex via Cv31), in pieno centro a Campobello di Mazara, il covo dove si sarebbe nascosto il super latitante Matteo Messina Denaro negli ultimi periodi.

La casa è stata perquisita stanotte. Alle operazioni ha preso parte il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido e ora è presidiata dai carabinieri. Alle 8,30 al covo sono arrivati gli uomini del Reparto investigazioni scientifiche di Messina che stanno passando al setaccio l'abitazione. 

Sul posto anche il capitano dei carabinieri della compagnia di Mazara del Vallo Domenico Testa. Messina Denaro viveva in una casa che negli ultimi mesi, dopo il trasferimento dei proprietari, è rimasta disabitata.

Estratto dell'articolo di Liana Milella per “la Repubblica” il 17 gennaio 2022.

 Avrà "compagni" di tutto rispetto, nel carcere dell'Aquila, Matteo Messina Denaro. Nomi pesanti di Cosa nostra, come quelli di Filippo Graviano, Carlo Greco e Ignazio Ribisi; della 'ndrangheta, come Pasquale Condello; e della camorra come Paolo Di Lauro senior e Ferdinando Cesarano.

 Ma in quel carcere c'è pure Nadia Desdemona Lioce che, per le Nuove brigate rosse, è stata condannata all'ergastolo per gli omicidi Biagi e D'Antona, visto che solo all'Aquila c'è la sezione del 41 bis per le donne. Ma nessuno di loro s' incontra mai. Perché quella prigione è stata pensata proprio, ed ospita solo detenuti al 41 bis. I maschi sono 160. Dodici le donne, 'ndranghetiste e camorriste. Un gruppetto di detenuti comuni, per lo più extracomunitari, pensa al vitto e alla manutenzione delle celle.

Un'oasi di carcere duro in Abruzzo? Proprio così. È il polo italiano del 41 bis. […] Ma […] qui, viste le sue condizioni mediche, c'è anche un buon reparto di medicina oncologica. […]

Il boss di Cosa Nostra nel supercarcere Le Costarelle. Cella 4 metri per 3, palestrato, i tatuaggi “misteriosi”: le prime ore in carcere di Matteo Messina Denaro: “Fino a ora ero incensurato”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 18 Gennaio 2023

Matteo Messina Denaro è arrivato nel supercarcere Le Costarelle dell’Aquila all’1:20 di ieri mattina, martedì 17 gennaio. Non era mai stato in prigione. “Fino a stanotte ero incensurato poi non so che è successo”. E alla domanda sulla residenza ha risposto: “Non ho mai avuto una residenza”. È quanto emerge dai primi resoconti – un po’ retroscena, un po’ indiscrezioni – sulle prime ore da detenuto della “Primula Rossa” di Cosa Nostra.  All’aeroporto militare Boccadifalco di Palermo, prima di salire sull’aereo che lo avrebbe trasferito a Pescara aveva scritto, secondo Salvo Palazzolo su Repubblica, un biglietto: “I carabinieri del Ros e del Gis mi hanno trattato con grande rispetto e umanità. Palermo, 16 gennaio 2023”.

Il superlatitante arrestato lunedì mattina, presso la clinica La Maddalena a Palermo, quartiere San Lorenzo, non si è sottratto al colloquio con la psicologa, è stato visitato. Secondo quanto riporta Il Corriere della Sera non avrebbe chiesto niente: giornali, libri, cibo. Non avrebbe cenato. La biancheria gli è stata fornita dal cappellano del carcere. “Ventiquattro ore in cella da solo, senza nemmeno accendere la televisione, anche solo per avere compagnia, o guardare quello che viene messo in onda su di lui e sul suo arresto. Nulla. Non ha la curiosità di vedere, di ascoltare ciò che viene detto sul suo conto. La tv resta spenta. E lui seduto sul letto con le mani a reggere il viso”, riporta Repubblica.

È solo nella sua cella, grande quattro metri per tre – poco più di 10 metri quadrati. Bagno angolare, letto, tavolo, un mobiletto. Tutto inchiodato a terra, tv chiusa in un box senza accesso ai canali regionali per evitare messaggi in codice. Niente cucinotto: il fornello e il cibo da preparare gli verranno forniti al mattino e ritirati la sera. Nessun altro nella sua ala. Sarebbe proprio l’isolamento, scrive Repubblica, a farlo soffrire di più in queste prime ore da detenuto. Avrebbe rifiutato di uscire a passeggiare nell’ora d’aria, lungo un corridoio protetto da muri alti oltre cinque metri, perché non vorrebbe camminare da solo.

“Sarà un detenuto al 41 bis come tutti gli altri”, hanno fatto sapere dal carcere. 154 in tutto nella struttura, di cui 12 donne. A sorvegliare gli agenti del Gruppo operativo mobile. I detenuti al 41 bis hanno diritto a un solo colloquio al mese con i familiari. Presso l’istituto penitenziario in Abruzzo sono reclusi altri personaggi di spicco della criminalità organizzata: i boss mafiosi Filippo Graviano, Carlo Greco e Ignazio Ribisi, il capo ’ndranghetista Pasquale Condello, i camorristi Paolo Di Lauro e Ferdinando Cesarano.

Malato di tumore al colon, Messina Denaro sarà seguito dall’Ospedale San Salvatore dell’Aquila, che ha un reparto dedicato ai detenuti al 41 bis. Si valuta come poter svolgere il trattamento in una stanza attrezzata nel carcere senza trasportare il detenuto all’esterno. “Meglio non sottoporre gli agenti a rischi e sforzi per evitare che venga bucata la rete di protezione come è accaduto in passato: se Messina Denaro è il capo della mafia, al di là dell’abnegazione degli agenti, lo resta anche in carcere”, ha avvertito Leo Beneduce dell’Osapp.

Le sue condizioni fisiche hanno stupito gli agenti: “U’siccu” sarebbe in perfette condizioni fisiche, anzi piuttosto palestrato. Ha dei tatuaggi sui quali si la stampa potrà ricamare parecchio, qualcuno già li definisce “misteriosi”: una data, 8 ottobre 1981, disegnata in numeri romani; una scritta: “Tra le selvagge tigri”; una citazione, parafrasi di Victor Hugo, “Ad augusta per angusta”. A difenderlo sarà la nipote: l’avvocata Lorenza Guttadauro, moglie di Girolamo Bellomo, detto Luca, già arrestato, figlia di Rosalia Messina Denaro e di Filippo Guttadauro, fratello dell’ex capomafia di Brancaccio Giuseppe Guttadauro. Fino a oggi era sempre stato difeso da avvocati d’ufficio.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Messina Denaro in carcere scherza: «Precedenti? Io fino a oggi ero incensurato, poi non so che è successo». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

Lo stupore delle guardie: fisico «palestrato» e atteggiamento «ironico»

«Siccu» sì, ma non deperito. Anzi, a dispetto della sua malattia, «in perfette condizioni fisiche e sicuramente palestrato». E non depresso, come era apparso all’arresto Bernardo Provenzano, ma «più che reattivo, per niente aggressivo, anzi, a suo modo, ironico». Matteo Messina Denaro ha sorpreso chi ha assistito al suo ingresso nel supercarcere Le Costarelle dell’Aquila, all’1,20 del mattino di ieri. Malgrado fosse la sua prima volta in carcere si è concesso persino qualche battuta. A chi, nel compilare la scheda anagrafica, gli chiedeva: «Precedenti?», il boss, catturato con una falsa identità, ha accennato un sorriso e risposto: «Fino a stanotte ero incensurato poi non so che è successo». E al quesito successivo: «Residenza?», la primula rossa della mafia ne ha abbozzato un altro e risposto: «Non ho mai avuto una residenza». Non si è sottratto al colloquio con la psicologa. E poi ha tolto gli abiti — tutto griffato, dal giaccone di montone, al cappellino uguale, alla camicia — e si è sottoposto alla visita, nella quale è apparso ben curato e senza criticità immediate.

Non ha chiesto nulla. Né attrezzi da palestra, né giornali, né libri, né altro. E alla domanda specifica se avesse cenato o volesse qualcosa da mangiare ha risposto: «Non ho cenato, non avevo fame, ma non mi va nulla. Grazie».

Poi è stato accompagnato nella sua stanza di detenzione. Misure regolari: 4 metri per tre con bagno angolare, letto, mobiletto e tavolo, tutto inchiodato a terra, tv chiusa in un box priva di accesso ai canali regionali, per evitare messaggi in codice, e niente cucinotto. Per motivi di sicurezza fornello e cibo da preparare gli verranno forniti al mattino e ritirati la sera. Non avendo biancheria personale gli è stata portata quella dell’istituto dal cappellano del carcere.

Il personale penitenziario ci tiene a specificare che Matteo Messina Denaro «sarà un detenuto al 41 bis come tutti gli altri». Ne hanno 154 (12 donne e 142 uomini) da sorvegliare gli agenti del Gruppo operativo mobile a Le Costarelle. Uno sforzo enorme che negli anni è cresciuto, come in tutta Italia: nel 2009 erano 564 i detenuti al 41 bis e 742 gli agenti del Gom; ora il rapporto è invertito, con 740 al carcere duro e 635 agenti. A rendere più difficile la sorveglianza anche norme europee che, a tutela della privacy, non consentono più di accendere le telecamere nelle celle 24 ore su 24 sorvegliando il detenuto da remoto come accadeva ai tempi di Riina. Se non per problemi di salute. A meno che le sue condizioni di paziente oncologico lo richiedano, gli agenti dovranno sorvegliare dal corridoio.

Per le sedute di chemioterapia ci si appoggerà all’Ospedale san Salvatore dell’Aquila, che ha un reparto dedicato ai 41 bis. Oggi in una riunione con il primario Mutti si valuterà la possibilità di svolgere il trattamento in una stanza attrezzata nel carcere senza portare il detenuto all’esterno come raccomandano i sindacati della polizia penitenziaria: «Meglio non sottoporre gli agenti a rischi e sforzi per evitare che venga bucata la rete di protezione come è accaduto in passato: se Messina Denaro è il capo della mafia, al di là dell’abnegazione degli agenti, lo resta anche in carcere», avverte Leo Beneduce dell’Osapp.

Il pericolo che vengano inviati messaggi è reale. Per questo chi è al 41 bis ha diritto a un solo colloquio al mese con i familiari. Messina Denaro è più fortunato perché a difenderlo sarà sua nipote Lorenza Guttadauro (nata da sua sorella Rosalia e dal figlio del boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro). Attualmente «u Siccu» è da solo in cella, in un’ala in cui non c’è nessuno. Anche se in generale ai detenuti al 41 bis la norma consente anche la socialità.

(ANSA il 17 gennaio 2022) - Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha firmato questa mattina il 41bis per Matteo Messina Denaro.

Starebbe parlando con i pm Andrea Bonafede, l'uomo che ha "prestato" l'identità al boss Matteo Messina Denaro. Con i magistrati avrebbe fatto mezze ammissioni dicendo di conoscere il capomafia fin da ragazzo e di essersi prestato a comprare, con i soldi del padrino, la casa in cui questi ha passato l'ultimo anno. L'immobile, in pieno centro abitato, a Campobello di Mazara, risulta intestata infatti a Bonafede. Il geometra risulta indagato per associazione mafiosa.

Catturato il boss dei Corleonesi. Con l’arresto di Matteo Messina Denaro è finita l’emergenza di mafia: ora basta col 41bis e leggi speciali. Piero Sansonetti su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

“Come ti chiami?”, gli ha sussurrato il carabiniere. Lui ha alzato gli occhi, lo ha guardato, e ha risposto secco: “Matteo Messina Denaro”. E così è finita la lunga avventura di latitante del capo dei Corleonesi, la più spietata corrente di mafia di tutti i tempi. Lo hanno catturato in una clinica. Era lì per curarsi. Ha un tumore. Messina Denaro è il successore di Totò Riina e di Luciano Liggio. Dal 1993 si è dato alla macchia. Prima di sparire aveva scritto alla fidanzata: “Sentirai molto parlare di me, mi dipingeranno come il diavolo. Non credergli”. Effettivamente i giornali parlarono molto di lui e lo dipinsero come un malvagio molto malvagio. Anche perché si scoprì che sarebbe stato lui, insieme a Brusca, a strangolare un bambino di 12 anni per punire il padre “pentito” e collaboratore dei Pm. Quattro brevi osservazioni su questa giornata di trionfo della lotta alla mafia.

Complimenti al ministro dell’Interno, Piantedosi, ai Ros, ai carabinieri e alla Procura di Palermo. Adesso si sono aperte e cresceranno le polemiche sui retroscena di questa cattura. “Era molto malato”. “Ci sono state trattative?” “Si è consegnato?” eccetera eccetera. Trovo che siano polemiche sull’acqua. Lo hanno arrestato, punto. I complotti lasciamoli al Fatto, che ancora in questi giorni se l’è presa coi carabinieri che 30 anni fa acciuffarono Riina dando il primo colpo micidiale alla mafia dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino. Date retta a me: quando sentite parlare molto di complotti chiedetevi se chi ne parla non ha bisogno di nascondere qualcosa… La Procura di Palermo ha dimostrato che la mafia può essere colpita. Non succedeva da molti anni. Direi dai tempi di Giancarlo Caselli e di Pietro Grasso. Dopo di loro si sono succeduti parecchi procuratori e sostituti, e procuratori generali, molti dei quali abilissimi a rilasciare interviste, meno abili, forse, nel loro lavoro. Il nuovo procuratore, e i suoi vice, sono arrivati pochi mesi fa, in silenzio, senza partecipare ai talk show, senza interviste e articolesse sui quotidiani, e – a quanto pare – hanno lavorato sodo.

Ieri Marcelle Padovani, prestigiosissima giornalista francese, ha dichiarato: “Giovanni Falcone ha sempre pensato che la mafia conosce un inizio, un apogeo e una fine. Oggi, direbbe, siamo alla fine”. È esattamente così. Probabilmente Cosa Nostra – che ha comandato in Italia per molti decenni – era già finita da qualche anno. L’arresto di Messina Denaro è un atto simbolico, un suggello del quale c’era bisogno. Si è chiuso un ciclo. L’emergenza mafia che fu dichiarata negli anni Novanta, quando Cosa Nostra uccideva decine di persone ogni settimana, è conclusa. I dati ci dicono che nei primi 15 giorni del 2023 c’è stato un omicidio di ‘ndrangheta e sette femminicidi. La matematica è scienza esatta e ci dice qual è l’emergenza. L’emergenza sono i femminicidi.

Mantenere le leggi speciali, il 41 bis, l’ergastolo ostativo e tutte le norme straordinarie – e temporanee – in contrasto con la Costituzione (compreso l’abuso delle intercettazioni e del carcere preventivo, e l’uso dell’aggravante mafiosa, anche infondata, come strumento di indagine) non ha più nessun senso. In genere quando osserviamo che in Gran Bretagna si effettuano 2000 intercettazioni all’anno e in Italia quasi 200 mila, qualcuno risponde: ma lì non c’è la mafia. Non c’è emergenza. Bene, guardate questi dati, gli ultimi completi disponibili: nella sola città di Londra nel 2021 ci sono stati 120 omicidi. Nello stesso periodo di tempo, in tutt’Italia ci sono stati 20 omicidi da parte della criminalità organizzata. Quando si discute e si legifera sarebbe bello se si partisse dai fatti e non dai titoli spericolati dei giornali.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

(ANSA il 18 gennaio 2023) - All'interno del penitenziario di massima sicurezza de l’Aquila, Matteo Messina Denaro ha già fatto la sua prima ora d'aria, si è organizzato la cella ed è molto attivo, mostrandosi sempre sorridente con il personale che incrocia nel carcere, secondo quanto trapela da indiscrezioni che aggiungono: "il suo sarebbe un comportamento anomalo rispetto a come si comportano di solito i detenuti al 41 bis". A quanto si apprende da fonti informate, le sedute di chemioterapia potrebbero essere disposte in massima sicurezza in una struttura all'esterno del carcere.

Estratto dell’articolo di Virginia Piccolillo per “il Corriere della Sera” il 18 gennaio 2023.

[…] Matteo Messina Denaro ha sorpreso chi ha assistito al suo ingresso nel supercarcere Le Costarelle dell'Aquila, all'1.20 del mattino di ieri. […]

 A chi, nel compilare la scheda anagrafica, gli chiedeva: «Precedenti?», il boss, catturato con una falsa identità, ha accennato un sorriso e risposto: «Fino a stanotte ero incensurato poi non so che è successo». E al quesito successivo: «Residenza?», la primula rossa della mafia ne ha abbozzato un altro e risposto: «Non ho mai avuto una residenza».

Non si è sottratto al colloquio con la psicologa. E poi ha tolto gli abiti - tutto griffato, dal giaccone di montone, al cappello, alla camicia - e si è sottoposto alla visita, in cui è apparso ben curato e senza criticità immediate. Non ha chiesto nulla. Né attrezzi da palestra, né libri, né altro. E alla domanda specifica se avesse cenato o volesse qualcosa da mangiare ha risposto: «Non ho cenato, non avevo fame, ma non mi va nulla. Grazie».

 Poi è stato accompagnato nella sua stanza di detenzione. Misure regolari: 4 metri per tre con bagno angolare, letto, mobiletto e tavolo, tutto inchiodato a terra, tv chiusa in un box priva di accesso ai canali regionali, per evitare messaggi in codice, e niente cucinotto. Per motivi di sicurezza fornello e cibo da preparare gli verranno forniti al mattino e ritirati la sera. […]

 A rendere più difficile la sorveglianza anche norme europee che, a tutela della privacy, non consentono più di accendere le telecamere nelle celle 24 ore su 24 sorvegliando il detenuto da remoto come accadeva ai tempi di Riina. Se non per problemi di salute. A meno che le sue condizioni di paziente oncologico lo richiedano, gli agenti dovranno sorvegliare dal corridoio. Per le sedute di chemioterapia ci si appoggerà all'Ospedale San Salvatore dell'Aquila, che ha un reparto dedicato ai 41 bis.

Oggi in una riunione con il primario Mutti si valuterà la possibilità di svolgere il trattamento in una stanza attrezzata nel carcere senza portare il detenuto all'esterno come raccomandano i sindacati della polizia penitenziaria: «Meglio non sottoporre gli agenti a rischi e sforzi per evitare che venga bucata la rete di protezione come è accaduto in passato […]

Due ore d’aria al mese per i ristretti. Carcere de L’Aquila, come vivono e come è fatta la struttura che ospita Matteo Messina Denaro. Elena Del Mastro su Il Riformista il 18 Gennaio 2023

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha firmato il 41 bis per Matteo Messina Denaro, l’ex latitante affetto da cancro al colon, 24 ore dopo il suo arresto nella clinica La Maddalena di Palermo. Ed è nel supercarcere de L’Aquila che è stato portato nella notte, prima con un volo militare da Palermo a Pescara e poi scortato in auto verso il capoluogo, dove sorge il penitenziario italiano con il maggior numero di detenuti al 41 bis. Sorvegliato 24 ore su 24, in una cella di poco più di dieci metri quadrati, solo e con a disposizione due ore d’aria al mese.

La salute dell’ex ricercato più famoso d’Italia è grave ma, secondo quanto riportato dall’Ansa, gli sono assicurate le cure tanto che a breve comincerà anche la chemioterapia in una stanza ad hoc allestita nel carcere. Ad assistere il boss sarà il primario Luciano Mutti che terrà sotto controllo eventuali reazioni negative o effetti collaterali della terapia. Messina Denaro “riceverà lo stesso trattamento di tutti gli altri detenuti con patologie sanitarie – spiega il Garante dei detenuti dell’Abruzzo, Gianmarco Cifaldi -. Garantiremo il suo diritto alla salute”.

Probabilmente Messina Denaro è stato accolto nella stanze al piano terra del penitenziario, dedicate ai detenuti più pericolosi. Si tratta di celle tutte uguali tra loro con il letto saldato a terra, un gabinetto e una televisione con i canali bloccati su quelli nazionali. Non è possibile infatti avere accesso alle emittenti regionali, per evitare il rischio che possano in qualche modo essere trasmessi messaggi in codice destinati ai boss. Una videocamera di sorveglianza riprende ogni istante i movimenti del detenuto nella stanza. A controllarle i poliziotti del Gom, il Gruppo Operativo Mobile.

Si tratta di un gruppo speciale di agenti gestiti non dal Provveditorato regionale ma direttamente dal Dap e i cui turni vengono cambiati casualmente ogni giorno, anche tra penitenziari diversi. Le telecamere riprendono pedissequamente ogni angolo del penitenziario senza lasciare nessun angolo cieco o spazi dove potersi nascondere. Vietata la socialità tra i detenuti all’interno del carcere e sono previste solo un paio di ore al mese di aria. C’è comunque la possibilità di accedere alla biblioteca o di leggere i giornali, in alcuni casi censurati se riportano fatti o articoli riguardanti processi nei quali siano coinvolti, anche indirettamente, i detenuti stessi. Esistono solo celle singole e per ogni sezione è predisposta una cella come presidio sanitario. In questo modo i detenuti non devono spostarsi dal proprio corridoio – composto da file di cinque o sei celle per lato – per poter ricevere le cure dei medici.

Sono pochi i penitenziari in Italia dove è possibile effettuare le cure in carcere. Secondo la ricostruzione fatta da LaPresse ci sono 5 città con ospedali dotati di reparti di medicina penitenziaria a sorveglianza rafforzata. In alcuni casi posti letto dedicati al 41 bis, come a Milano con l’ospedale San Paolo, dove il reparto è anche fisicamente separato da quello per i detenuti comuni. Gli altri sono Roma al Pertini, Napoli, Catania e Viterbo, con quest’ultimo orientato in senso infettivologico e che spesso trasferisce altrove pazienti-detenuti con patologie diverse come quelle tumorali. Per detenuti in regime di carcere duro anche gli eventuali trasferimenti vengono trattati con una logistica differente: a occuparsene sono le forze speciali del GOM, e non all’istituto carcerario di provenienza, che intervengono in un numero ritenuto congruo rispetto al ‘calibro’ del personaggio da scortare, rafforzando anche la sorveglianza negli ospedali stessi.

La loro presenza rende necessari alcuni accorgimenti: in caso di esami radiologici come Tac o risonanze magnetiche (da effettuare in reparti ordinari) si cercano orari esterni rispetto al flusso dei cittadini comuni (mattina presto, sera tardi) per non interferire con la normale programmazione, evitare di far sapere chi sia il soggetto in ospedale e perché la presenza di uomini armati potrebbe intimorire i cittadini-pazienti. Tra le prassi ‘informali’ nel mondo della medicina penitenziaria anche quella di registrare il detenuto 41-bis con nomi ‘alias’ o codici identificativi. Più in generale a livello di carceri dotati di Sai (Servizio di Assistenza Intensiva), come Milano e Parma, quello di Opera, a due passi dal capoluogo lombardo, è l’unico caso in cui vengono effettuate dialisi all’interno per patologie croniche.

Tornando al carcere de L’Aquila, qui sono stati ospitati detenuti eccellenti come il boss mafioso Leoluca Bagarella – che sconta l’ergastolo per strage -, Raffaele Cutolo della Nuova camorra organizzata, l’esponente dei casalesi Francesco Schiavone detto Sandokan, l’esponente della Mala del Brenta Felice Maniero. Qui fu detenuto Totò Riina e sconta l’ergastolo Nadia Desdemona Lioce, la brigatista condannata per gli omicidi Biagi e D’Antona. Ora nelle celle sono presenti 159 persone, di cui 12 donne. Sono tutte in regime di 41 bis ad eccezione di una ventina di detenuti che sono destinati però ai lavori di manutenzione o di cucina all’interno del carcere. In nessun modo possono interagire con chi è sottoposto al carcere duro. Questi ultimi, tutti condannati per reati legati alla mafia o al terrorismo, possono incontrare esclusivamente i propri legali o i familiari negli orari previsti dal regolamento.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il Difensore.

(ANSA il 23 marzo 2023) - "Messina Denaro è un imputato come gli altri e lo difenderò come farei per chiunque altro". Lo ha detto l'avvocato Adriana Vella nominata difensore d'ufficio di Matteo Messina Denaro al termine dell'udienza di oggi del processo in cui il boss è imputato come mandante delle stragi di Capaci e via D'Amelio, che si celebra in Corte d'Assise d'Appello a Caltanissetta.

"Il fascicolo è molto ampio - ha aggiunto l'avvocato Vella - e quindi devo studiarlo. Io non ho paura, se una fa il proprio lavoro non deve temere nulla. Mi spaventa solo l'impegno che dovrò affrontare in questi giorni ma non il fatto che difendo Messina Denaro".

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 12 marzo 2023.

Giovedì, era stato nominato difensore d'ufficio di Matteo Messina Denaro […]: l'avvocato Calogero Montante aveva subito rinunciato al mandato, "sono incompatibile con l'incarico […] sono stato difensore del falso pentito Vincenzo Scarantino, nel processo per le stragi". 

Ma la corte d'assise d'appello di Caltanissetta aveva confermato la designazione […]. Ieri, il legale ha ricevuto una telefonata dai toni minacciosi […] ad Agrigento: "Sono un amico di Matteo […] perchè non lo vuoi difendere? Vuoi morire?". L'avvocato ha subito denunciato l'accaduto alle forze dell'ordine. E, attorno a lui, è subito scattato uno stretto cordone di vigilanza da parte di carabinieri e polizia […]. Mentre sono scattate le indagini, per risalire all'autore della telefonata. […] 

Rifiuta la difesa, minacciato il legale d'ufficio. "Vuoi morire?" Protetto, scortato, guardato a vista. Si è alzata una rete di protezione intorno all'avvocato Calogero Montante. Redazione il 13 Marzo 2023 su Il Giornale.

Protetto, scortato, guardato a vista. Si è alzata una rete di protezione intorno all'avvocato Calogero Montante, che nei giorni scorsi aveva cercato di rimettere il mandato di difensore d'ufficio del boss Matteo Messina Denaro nel processo per le stragi di Capaci e via D'Amelio in corso davanti alla corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta.

Il legale anche ieri ha chiesto di poter rinunciare ad assistere il capomafia dopo aver ricevuto minacce. «Non vuoi difendere Messina Denaro? Vuoi morire?» gli aveva detto una voce anonima nel corso di una telefonata minatoria trasferita nello studio di Canicattì di Montante e già denunciata presso la questura di Agrigento.

Per i giudici anche questa non sarebbe valida però a far scattare i motivi di incompatibilità processuale per permettere all'avvocato di abbandonare. Prima di lui si era defilata Lorenza Guttadauro, legale e nipote di Messina Denaro, che aveva cambiato idea rinunciando a difendere lo zio. A quel punto Montante aveva preso il suo posto, scelto come avvocato d'ufficio. Ma aveva spiegato che a suo avviso c'era «incompatibilità» perché in passato aveva difeso il falso pentito Scarantino nel processo Borsellino Quater e perché ricopre la carica di vice procuratore onorario alla Procura di Palermo. Il 9 marzo, al termine di una breve camera di consiglio, la Corte d'assise d'appello gli aveva dato torto, confermandolo e rinviando l'udienza al 23 marzo per le conclusioni della difesa.

«Quando la corte si riunirà nella sua composizione originaria ha detto il legale discuterà in ordine all'eccezione che ho sollevato e poi vedremo. Eventualmente chiederò un termine a difesa. Devo fare il mio dovere di avvocato e la difesa è un diritto irrinunciabile». «Credo che Messina Denaro nominerà un altro difensore di fiducia, non penso che un processo di questo genere possa andare in discussione con un difensore d'ufficio. Almeno è quello che io auspico», aveva invece dichiarato al termine dell'udienza il procuratore generale di Caltanissetta, Antonino Patti. Ma ora le minacce a Montante potrebbero rimettere tutto in discussione.

Il Covo.

Scovato e perquisito il rifugio di Matteo Messina Denaro: “Viveva lì da almeno sei mesi”. Redazione su Il Corriere del Giorno il 17 Gennaio 2023

Il nascondiglio, secondo quanto si apprende, è nel centro abitato. Un appartamento "normale". Non ha niente del bunker la casa dove Messina Denaro ha vissuto, ipotizzano gli inquirenti, per gli ultimi sei mesi, nel paese di Campobello, a soli 8 chilometri da Castelvetrano, paese di origine di tutta la famiglia del boss

Icarabinieri del Ros e la procura di Palermo hanno individuato il covo dove viveva e si nascondeva il boss Matteo Messina Denaro, arrestato, ieri, alla clinica Maddalena di Palermo. È è in vicolo San Vito (ex via Cv31) in pieno centro a Campobello di Mazara, nel trapanese, paese del “favoreggiatore” Giovanni Luppino, finito in manette insieme al capomafia. Il nascondiglio, secondo quanto si apprende, è nel centro abitato. Un appartamento “normale”. Non ha niente del bunker la casa dove Messina Denaro ha vissuto, ipotizzano gli inquirenti, per gli ultimi sei mesi, nel paese di Campobello, a soli 8 chilometri da Castelvetrano, paese di origine di tutta la famiglia del boss. “Una casa ben arredata, con oggetti di lusso, intestata al signor Bonafede la stessa identità usata per il ricovero in clinica”, rivela il colonnello Fabio Bottino, comandante provinciale dei Carabinieri di Trapani. Infatti è stato accertato che il covo di vicolo San Vito dove si nascondeva il boss Matteo Messina Denaro, è di proprietà di Andrea Bonafede, lo stesso titolare della carta d’identità falsa utilizzata dal super latitante

Il suo “accompagnatore” Giovanni Luppino, 59 anni, agricoltore, possessore di meno di mezzo ettaro di oliveti e una piccola azienda. Due figli, attivi nello stesso settore: a Campobello di Mazara hanno un centro per l’ammasso delle olive, con clientela per lo più campana. Castelvetrano, il regno di “Iddu“, uno dei tanti soprannomi di Matteo Messina Denaro, è a un passo. Ma con lui, con le famiglie di mafia trapanesi, inclusi quei Luppino negli anni divenuti noti alle cronache, non risulta che il cinquantanovenne arrestato ieri insieme al superboss avesse rapporti. Com’è arrivato a fare da “accompagnatore” a Messina Denaro ?

Gli investigatori ed i tecnici informatici dei ROS ci stanno lavorando con la speranza che i cellulari che Messina Denaro e Luppino avevano addosso parlino. Rubriche di contatti, messaggi, dati di navigazione, tutte informazioni che potrebbero aiutare a ricostruire una rete e dare un’identità a chi necessariamente deve aver lavorato alla grande fuga del boss. A partire da chi gli ha regalato l’identità di Andrea Bonafede.  Il documento che Messina Denaro usava non è una copia, è un documento reale emesso dal Comune di Campobello di Mazara nel 2016, al quale è stata sostituita la foto. Un rinnovo? Una nuova emissione? C’è stata una manina complice interna all’Ente? Tutte domande a cui si dovrà trovare risposta. E la Procura ed i Carabinieri sono già al lavoro per questo.  

Il vero Andrea Bonafede, geometra e parente di gente di mafia, è stato sentito, ma avrebbe fatto scena muta. E’ grazie a lui, involontariamente, che si è avuto un riscontro fondamentale: ieri mattina con una telefonata ha attivato una cella distante decine di chilometri dalla clinica “La Maddalena” quindi quello in attesa di sottoporsi alle cure oncologiche non poteva essere lui ed è scattato il blitz nella clinica.

Campobello di Mazara è a soli 8 chilometri da Castelvetrano, paese di origine di Messina Denaro e della sua famiglia. L’individuazione del covo e la sua perquisizione sono tappe fondamentali nella ricostruzione della latitanza del capomafia. E non solo. Diversi pentiti hanno raccontato che il padrino trapanese era custode del tesoro di Totò Reina, documenti top secret che il boss corleonese teneva nel suo nascondiglio prima dell’arresto, fatti sparire perchè la casa non venne perquisita.

La perquisizione del covo del boss Matteo Messina Denaro, scoperto dai carabinieri del Ros e dalla Procura di Palermo guidata da Maurizio de Lucia dopo ore di ricerche, a cui sono presenti ed operativi anche i Ris dei Carabinieri è durata tutta la notte . Alla perquisizione ha partecipato personalmente il procuratore aggiunto Paolo Guido che da anni indaga sull’ex latitante di Cosa nostra. L’edificio, che si trova nel centro abitato, è stato setacciato palmo a palmo. All’interno del covo del “boss” Messina Denaro, non sono state trovate armi, i Carabinieri del Ros lo hanno perquisito per tutta la notte e trovato molti abiti di lusso, firmati, diversi profumi, anche questi di lusso, e un arredamento definito “ricercato”. La perquisizione è tuttora in corso .

Alfonso Tumbarello, 70 anni, il medico che aveva in cura Andrea Bonafede, alias Matteo Messina Denaro, è indagato nell’ambito dell’arresto del super latitante. Tumbarello è di Campobello di Mazara ed è stato per decenni medico di base in paese, sino a dicembre scorso, quando è andato in pensione. Tumbarello sino a qualche mese fa è stato il medico del vero Andrea Bonafede, 59 anni, residente a Campobello di Mazara e avrebbe prescritto le ricette mediche a nome dell’assistito. Ieri i carabinieri hanno perquisito le abitazioni di Campobello, di Tre Fontane e l’ex studio del medico che è stato anche interrogato.

Tumbarello ha anche un consistente passato politico: nel 2006, infatti, si era candidato alle elezioni regionali con l’Udc, la lista che proprio quell’anno ottenne la rielezione del governatore Totò Cuffaro, all’epoca sotto processo per il “caso Talpe” che poi lo portò in carcere per favoreggiamento di Cosa nostra. Tumbarello, che era già stato consigliere provinciale per l’Udc, ottenne 2.697 preferenze ma non riuscì a conquistare l’elezione nell’ Assemblea regionale siciliana. Il medico non si rassegnò: cinque anni dopo cercò di essere eletto sindaco della sua Campobello di Mazara, scendendo in campo con il Popolo delle libertà. Anche in questo caso arrivò una cocente sconfitta piazzandosi al quinto posto in una tornata elettorale che poi vide vincere Ciro Caravà. Singolarmente, l’amministrazione Caravà venne poi sciolta per mafia.

Chi lo conosce bene lo identifica come un personaggio vicino all’ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino. E questo apre un altro collegamento: Vaccarino, nome in codice Svetonio, intrattenne una lunga corrispondenza con Messina Denaro durante la sua latitanza. Lo scambio, venne “coperto” dai servizi segreti, sarebbe stato condotto per arrivare a individuare il latitante. Vaccarino era coinvolto in affari di mafia, massoneria, spionaggio e morto nel 2021, a sua volta è stato un politico nella Democrazia cristiana.

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro dopo l’arresto avvenuto a Palermo è atterrato ieri sera con un volo militare nell’aeroporto di Pescara. L’ipotesi più accreditata, è che il boss venga detenuto nel carcere dell’Aquila poichè è una struttura di massima sicurezza, che ha già detenuto personaggi di spicco della criminalità organizzata come Leoluca Bagarella e Totò Riina, ma anche perchè nell’ospedale del capoluogo è presente un buon centro oncologico. Non è escluso che il boss sia stato trattenuto altrove per la notte, o in una caserma o nei vari penitenziari della zona. Secondo quanto si è appreso, diverse autorità ed istituzioni sarebbero state allertate. Redazione CdG 1947

Ecco come si nascondeva il “boss” mafioso Matteo Mesina Denaro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Gennaio 2023

Secondo un autorevole avvocato esperto di mafia le dichiarazioni di Baiardo a Giletti, in realtà, contrariamente a quanto i professionisti dell' Antimafia vorrebbero far credere, altro non erano che un un messaggio di "allerta" per Mesina Denaro

Il nostro giornale ha ricevuto nel pomeriggio odierno una fotografia che pubblichiamo da cui si vede Matteo Mesina Denaro insieme al suo medico curante il dr. Marco Paci medico oncologo (estraneo alle indagini) della clinica “La Maddalena” di Palermo, cioè il luogo dove oggi è stato arrestato il boss capomafia, che si dimostra incurante (scusate il gioco di parole) di essere riconosciuto. Come potete vedere Mesina Denaro faceva ben poco per nascondersi, arrivando persino a farsi dei selfie !

Matteo Messina Denaro utilizzando l’identità Andrea Bonafede era di casa nella clinica “La Maddalena” di Palermo dove ogni volta che tornava per le chemioterapie, distribuiva regali a tutti: “Era molto generoso, come i pazienti più facoltosi. Spesso regalava bottiglie di olio di Castelvetrano a medici e infermieri”, racconta un camice bianco sconvolto sotto la promessa di anonimato. Nessuno poteva immaginare – o almeno così raccontano in clinica – che dietro quell’anziano dal volto scavato dalla malattia si nascondesse il “superlatitante” più ricercato d’Italia. Il capo della mafia trapanese a cui lo Stato ha dato la caccia per trent’anni, di fatto entrava ed usciva indisturbato dalla clinica palermitana, che viene considerata un’ “eccellenza” dell’oncologia in Sicilia.

La prima volta che Mesina Denaro ha fatto ingresso a “La Maddalena” era il 13 novembre del 2020, per una visita pre-operatoria. Sulla cartella clinica risultava il nome di Andrea Bonafede, classe 1963: Qualche giorno dopo, venne operato per l’asportazione di un tumore al colon, rimanendo ricoverato per sei giorni. Da allora sono stati riscontrati almeno altri sei ricoveri in “day hospital” ed un secondo intervento chirurgico a maggio 2021 a causa dell’insorgenza di metastasi epatiche. Sono molti in clinica a ricordare il suo volto: lo avevano visitato anestesisti, chirurghi, oncologi. Lo scorso novembre era tornato a “La Maddalena” per eseguire una Tac, mentre il mese successivo, a dicembre si era ripresentato per sottoporsi ad una risonanza magnetica. Le sue condizioni peggioravano ed i medici gli avevano dato appuntamento per oggi per eseguire un tampone, in prossimità di un nuovo ricovero in day hospital.

Questa mattina ad aspettarlo, ha trovato i Carabinieri del Ros che già alle sette del mattino avevano militarizzato e “blindato” tutte le vie di accesso ed uscita dalla clinica “La Maddalena”. “Sono arrivato molto presto – racconta un dottore – e ho trovato davanti alle porte del reparto un carabiniere con elmetto e pettorina. Ho chiesto come potevo essere utile. Mi ha detto di entrare dentro e non uscire. C’erano Carabinieri davanti alle porte di tutti i reparti. Abbiamo capito subito che stavano cercando un pezzo grosso. I miei collaboratori che dovevano prendere servizio alle 8 sono rimasti bloccati fuori dalle porte dell’ospedale, da cui non poteva entrare e uscire nessuno. Sembrava fossimo in assetto da guerra”.

La cattura di Matteo Messina Denaro ha fermato l’ attività dentro uno dei poli di eccellenza della Sicilia per la cura dei tumori: per un’ora e mezza le sale operatorie ferme, i dipendenti fuori, pazienti in strada in attesa di una visita. Gli interventi in scaletta, non urgenti, sono stati rinviati. I pazienti degli ambulatori sono stati lasciati alla porta mentre la clinica era circondata da decine di carabinieri. I chirurghi sono stati sgomberati come se fosse in atto una di quelle esercitazioni antincendio che, almeno una volta l’anno, vengono messe in scena nelle ditte private. “Era tutto fermo e non sapevamo il perché. Tutto bloccato dalle 8,15 alle 9,40“, racconta un dipendente della clinica.

Alcuni medici ed i pazienti ricoverati sono rimasti in ostaggio dentro la clinica per oltre un’ora, senza capire il perchè. “Quando finalmente ci hanno detto che era stato catturato Matteo Messina Denaro, eravamo increduli e felici“. Come sia possibile che nessuno, in due anni, abbia sospettato qualcosa, non lo sanno spiegare nemmeno i sanitari: “Penso si sia operato alla faccia – si spinge ad ipotizzare un camice bianco – ma in ogni caso è difficile, se non impossibile, riconoscere un latitante da una ricostruzione fotografica. Sul tavolo operatorio, anche i propri familiari sono irriconoscibili“. Quando i pazienti ed i familiari presenti in clinica hanno capito cosa stava succedendo, le urla di gioia sono state incontenibili: “Bravi, bravi”, dicevano fra gli applausi ai carabinieri del Ros, che in quel momento stavano catturando dopo trent’anni di latitanza di Matteo Messina Denaro sotto lo pseudonimo Andrea Bonafede, che un anno fa era stato operato nella stessa clinica. Redazione CdG 1947

Il vero covo di Messina Denaro e i complici del boss: le indagini ora.  Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2023.

Non ci sono «carte mafiose» nella casa di Campobello di Mazara. Ora il vero obiettivo sono gli appoggi di più alto livello, anche sanitari

Finita l’indagine per arrivare alla cattura, comincia l’altra sui complici del boss. Che parte da quelli «di prossimità», cioè coloro hanno aiutato Matteo Messina Denaro nella vita quotidiana e clandestina a Campobello di Mazara, che l’ha protetto fino a lunedì mattina, ma punta molto più in alto. Perché nessuno crede, o si rassegna, all’idea che all’ultimo padrino stragista di Cosa nostra sia bastata la protezione di un vecchio amico d’infanzia o un paio di conoscenti compiacenti per garantirsi la latitanza. 

A partire da quell’Andrea Bonafede che ha accettato di prestare la sua identità al capomafia, e ora si ritrova indagato per associazione mafiosa, con gravi indizi a suo carico. O il medico Alfonso Tumbarello, che ha rilasciato prescrizioni a due Bonafede nati lo stesso giorno e con la stessa tessera sanitaria, ma tutt’affatto diversi e con problemi di salute differenti. O quel Giovanni Luppino che è stato l’ultimo autista del boss. E poi? Chi altro ha garantito la sua vita clandestina? Con chi è stato in contatto per continuare a gestire gli affari da capomafia e il patrimonio occulto da cui ha continuato ad attingere i soldi per vivere, negli ultimi otto mesi a Campobello ma pure — negli anni precedenti — altrove? E soprattutto: dov’è e chi copre il vero covo di Messina Denaro? 

Carte e perizie

Oltre ai complici ancora occulti, è questo il vero obiettivo della Procura. Perché, dal poco che filtra su un’inchiesta appena avviata e ovviamente segreta, che ha bisogno di tempo per essere sviluppata, di «carte mafiose» nell’appartamento di vicolo San Vito non sarebbe stata trovata traccia. O comunque solo alcune, da verificare se attribuibili al boss o ad altre persone, anche con perizie calligrafiche in corso. La caccia a pizzini o altra corrispondenza con «uomini d’onore» o presunti tali, insomma, per ora non ha dato i frutti sperati. Ci sono scatoloni o contenitori vari con altra documentazione risalente all’ultimo anno. Di diverso genere. 

Si tratta soprattutto di referti, analisi mediche e riscontri di visite specialistiche, oncologiche e oculistiche, effettuate in strutture diverse dalla clinica La Maddalena di Palermo. Carte che aprono nuove prospettive d’indagine su altri medici e professionisti che hanno aiutato il latitante anche prima che approdasse a Campobello. Ma il fatto che siano datate 2022 o poco prima è un altro elemento che fa sospettare l’esistenza di un «deposito» dove il boss potrebbe avere conservato il resto del materiale. Se l’ha conservato. Perché la vita segreta di Matteo Messina Denaro è cominciata non uno ma trent’anni fa, e perché di messaggi sulle sue mosse e sulla gestione di alcuni affari il latitante ne avrebbe ricevuti e inviati almeno fino alla primavera scorsa, secondo quanto risulta da altre attività investigative. All’appartamento di Campobello, gli investigatori dell’Arma sono arrivati attraverso le chiavi di un’Alfa Romeo 164 contenuta nel borsello che Messina Denaro aveva con sé.

I movimenti dell’auto 

 Quella chiave ha un codice, dal quale si è risaliti alla targa dell’auto, e inserendo numeri e lettere nel sistema informatico di sicurezza urbana collegato con le telecamere che presidiano il territorio, si è risaliti ai movimenti della macchina. Che hanno portato i carabinieri all’indirizzo dove viveva il boss. Permettendo di trovare immagini di lui che sale o scende dall’auto, trasporta le buste della spesa. Comportamenti normalissimi che poco si addicono a un capomafia divenuto il ricercato numero 1 per tutte le forze dell’ordine italiane; come pure i selfie scattati in clinica, durante le sedute terapeutiche, con infermieri o altri pazienti. Una «visibilissima invisibilità» che lascia perplessi inquirenti e investigatori, e che però potrebbe corrispondere a una precisa strategia: apparire come se non ci fosse niente da nascondere, per evitare di attirare l’attenzione. 

I soldi a Bonafede

L’appartamento — modesto ma ben tenuto, arredato con gusto e pieno di capi firmati, dalle camice alle scarpe ai profumi, che confermano l’attrazione del boss per l’abbigliamento alla moda e una certa eleganza da ostentare — è intestato al vero Bonafede, così come la 164. Ed è emerso che ad acquistarlo al prezzo di circa 20.000 euro, a maggio dell’anno scorso, in coincidenza con l’operazione al fegato nella clinica palermitana, sarebbe stato proprio Bonafede con soldi prelevati dal proprio conto, dove precedentemente aveva versato i contanti consegnatigli da Messina Denaro. Un’altra occasione in cui ha prestato il proprio nome al latitante, ben sapendo chi fosse, per far transitare il denaro del padrino necessario a comprare il suo ultimo rifugio «ufficiale».

 Le verifiche degli investigatori si estenderanno anche alla banca dove sono avvenuti i versamenti e da dove sono partiti i bonifici, per cercare di capire se non ci siano state complicità anche in quei movimenti finanziari che avrebbero potuto suscitare qualche sospetto. Luppino e il dottor Tummarello, invece, sono indagati per favoreggiamento o procurata inosservanza della pena, e per l’autista ci sarà oggi l’udienza di convalida del fermo ordinato dalla procura dopo l’arresto del boss. 

Ma il vero obiettivo sono complici di più alto livello. Quelli che hanno consentito al primo ricercato d’Italia di vivere una latitanza quasi alla luce del sole, nell’ultimo anno ma forse anche prima. Per esempio chi, nell’amministrazione comunale o negli uffici pubblici di Campobello, gli ha consentito di ottenere nel 2016 una carta d’identità con il timbro autentico sulla foto di un’altra persona. Nel 2001, quando Provenzano dovette procurarsi un documento falso per andare a operarsi a Marsiglia, utilizzò la complicità del futuro pentito Francesco Campanella, presidente del Consiglio comunale dì Villabate, che fece mettere un sigillo ufficiale sulla foto del ricercato. L’indagine mira a scoprire se a Campobello è accaduto qualcosa di simile. Come pure per la patente utilizzata dal boss.

I telefoni e l’agenda

 Altri indizi per smascherare le relazioni e gli appoggi del latitante potranno venire dall’analisi dei due cellulari utilizzati da Messina Denaro e delle schede telefoniche trovate nell’appartamento. Negli appunti scritti su un’agenda e altri fogli non si parlerebbe di attività riconducibili a Cosa nostra bensì di riflessioni generiche e su vicende personali del boss, come i rapporti piuttosto tesi con la figlia Lorenza, madre di un bambino di un anno e mezzo, il nipote del boss. E gli altri segni trovati sono relativi alla sua sfera privatissima, da un calendario con le immagini di donne nude a profilattici o pillole per aiutare l’attività sessuale.

  Ma anche i rapporti del capomafia con le donne (più d’una, a quanto pare) vengono ora vagliati dai carabinieri, che stanno controllando l’appartamento dove viveva (ristrutturato di recente) sulle pareti e fin dentro i muri alla ricerca di impronte o nascondigli, a caccia di ogni indizio che possa aiutare a ricostruire la vita segreta del boss. Quella privata, ma soprattutto quella del capomafia, che dopo la sua cattura appare più misteriosa di prima.

Nel "covo" agiato del boss vestiti, profumi e Viagra. Poi i telefonini e l'agenda. Lo cercavano da 30 anni, ma U Siccu viveva alla luce del sole in una casa nel centro storico di Campobello di Mazara, in provincia di Trapani. Patricia Tagliaferri il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Lo cercavano da 30 anni, ma U Siccu viveva alla luce del sole in una casa nel centro storico di Campobello di Mazara, in provincia di Trapani. Non conduceva una vita monastica come Provenzano. Matteo Messina Denaro amava il lusso, la bella vita e le donne, come dimostra l'orologio da 35mila euro che aveva al polso quando è stato arrestato e quanto trovato dagli investigatori nel suo ultimo covo, nello stesso paese di Giovanni Luppino, l'insospettabile commerciante di olive ora accusato di favoreggiamento che faceva da autista al boss e che lunedì lo aveva accompagnato a fare le chemioterapia nella clinica di Palermo dove è stato braccato.

Un appartamento normale, ma ben ristrutturato e confortevole, con un arredamento ricercato, in una palazzina in via Cb 31, circondata da abitazioni, negozi, supermercati, bar e benzinai. «Si capisce che le condizioni economiche del latitante erano discrete. Abbiamo trovato oggetti di un certo tenore, non proprio di lusso ma di un apprezzabile livello economico», ha spiegato il comandante provinciale dei carabinieri di Trapani, Fabio Bottino. Non c'erano armi, ma vestiti e profumi di marca, decine di sneaker anche costose, diversi modelli di occhiali Ray-ban, un frigorifero pieno di cibo, profilattici e pillole Viagra per potenziare le prestazioni sessuali. Per un boss che anche durante la sua lunga latitanza non si è mai fatto mancare amori e relazioni.

Nel covo - passato al setaccio tutta la notte dai militari del Ros alla presenza del procuratore aggiunto Paolo Guidi - sono state trovate anche molte ricevute di ristoranti, dove Messina Denaro era solito cenare indisturbato, a quanto pare senza timore di essere riconosciuto. Ma il colpo grosso per gli investigatori è stato il sequestro di due cellulari - uno lo aveva addosso, l'altro era in auto quando è stato arrestato - e di un'agenda bordeaux sulla quale annotava gli appuntamenti. Oggetti che ora potrebbero essere utili a ricostruire la rete di fiancheggiatori che hanno coperto la fuga del boss negli ultimi anni. Ma è solo l'inizio. Perquisizioni e accertamenti sono ancora in corso: i carabinieri stanno rilevando la presenza di tracce biologiche per verificare se nella casa vivesse anche qualcun altro e di eventuali nascondigli o intercapedini dove potrebbe essere stata nascosta della documentazione. L'obiettivo dei magistrati sono i segreti di Cosa Nostra, a partire dall'archivio di Totò Riina che Messina Denaro sarebbe riuscito a portare via dopo l'arresto del «capo dei capi».

Ci vorranno giorni per avere un quadro completo e comunque quello di vicolo San Vito è soltanto l'ultimo dei covi di una lunga latitanza, gli altri devono essere ancora individuati. Il generale Mario Mori, che guidò il Ros nella perquisizione del covo di Riina a Palermo, ritiene che nel nascondiglio di Messina Denaro non verrà trovato nulla di utile: «Se ha della documentazione, penso che la tenesse in qualche posto non facilmente accessibile o dove, essendo latitante, non avrebbe potuto essere raggiunto dalla polizia».

L'appartamento-covo è di proprietà di Andrea Bonafede, l'intestatario della carta d'identità e dalla tessera sanitaria che U Siccu usava per curarsi presso la clinica di Palermo. Un geometra che per aver consegnato nelle mani del boss di Cosa Nostra la sua identità è indagato per favoreggiamento aggravato.

Ieri, durante l'interrogatorio, Bonafede ha ammesso di conoscere il capomafia da sempre e di essersi prestato ad acquistare la casa con i suoi soldi. Al covo i carabinieri del Ros ci sono arrivati partendo dalla chiave di un'Alfa Romeo 164 trovata nel borsello dell'ex latitante. Attraverso il codice della chiave gli inquirenti sono risaliti al veicolo e grazie a un sistema di intelligenza artificiale hanno ricostruito, con tanto di immagini, gli spostamenti dell'Alfa. Tra le varie riprese anche quella del boss che entrava e usciva dall'abitazione con le borse della spesa: la conferma che quell'appartamento potesse essere quello utilizzato come covo negli ultimi tempi. «Abitava qui da almeno un anno», racconta Rosario Cognata, inquilino al primo piano della stessa palazzina.

Estratto dell'articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” il 18 gennaio 2023.

Il palazzo in stile classico, uno dei pochi in questa città baroccheggiante, sembra disabitato.

Le imposte celesti sono chiuse, i due grandi portoni in legno massiccio serrati. E dire che questo è stato per anni il cuore del potere a Trapani: l'abitazione dell'ex senatore forzista e sottosegretario degli Interni Antonino D'Ali, condannato in via definitiva per concorso esterno per i rapporti con la famiglia dell'ormai ex latitante Matteo Messina Denaro. Poco distante da qui, nella centralissima Corso Italia aveva una filiale la Banca Sicula, negli anni d'oro della Trapani con più sportelli bancari d'Italia per abitante, tanti ne giravano di soldi in queste strade che arrivano tutte al mare.

All'istituto bancario della Sicula, di proprietà della migliore classe imprenditoriale della città, famiglia D'Ali compresa, tra i suoi dirigenti c'era il fratello di Matteo Messina Denaro, il secondo figlio di "don" Ciccio. E in fondo a questa stessa via, salendo verso Erice, c'è il bar dell'ex socialista Franco Orlando, arrestato perché considerato uno dei reggenti della mafia guidata dal boss e per anni frequentatore assiduo del Palazzo comunale. Un triangolo di viuzze simbolo di una borghesia che a queste latitudini si è sempre strusciata con Messina Denaro, con i suoi uomini e anche con i volti segreti della massoneria in una città dove si dice ci siano più logge che quartieri, più cappucci che cappelli.

Il palazzo D'Alì chiuso in una stradina che non ha più il viavai di una volta sembra l'immagine perfetta di una storia al capolinea, quella di una provincia "perbene", che ama il compasso, e che con Messina Denaro e il suo clan ci ha fatto affari, lo ha protetto e gli ha dato risorse da investire nella speranza di ricavarne ulteriori guadagni e quindi ulteriore prestigio sociale. «Borghesia mafiosa », l'ha definita il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, annunciando l'arresto del latitante. «Borghesia che qui in fondo è stata distrutta da questo legame, lasciando il territorio ancora più povero», dice il sindaco Giacomo Tranchida, seduto dietro la sua scrivania dai piedi dorati al Palazzo del Comune, a poche decine di metri da casa D'Ali.

 Qui Matteo lo conoscevano in tanti: «La sua rete di relazioni è nata in questa provincia dove non esiste il racket perché il boss non ha mai voluto creare attenzioni e ha cercato sempre, ottenendolo, il consenso sociale. Il tutto mentre gli imprenditori di vari settori hanno trovato una sponda sicura in lui», dice il magistrato Massimo Russo, originario di Mazara del Vallo, altro centro pulsante del potere di Messina Denaro, e tra i primi a indagare dopo le stragi sul figlio di "don" Ciccio da Castelvetrano, campiere nei feudi D'Ali.

[…]

Niccolò Zancan per “la Stampa” il 18 gennaio 2023.

Mica stava nascosto in un pozzo. «Chiofalo Auto», «Atelier Cremona», «Chiesa evangelica», «Acqua e sapone», «Distributore Ifc Petroli», «Supermercato Qui Risparmio». E negozi di frutta e verdura. Due bar, una gelateria. Il ristorante «La Zagara». «Sì, adesso, dopo l'arresto e le immagini comparse su tutte le televisioni, in molti ammettono di averlo visto qui intorno, in questa zona», dice sconsolato il comandante dei vigili urbani di Campobello di Mazara, Giuliano Panierino. Questa storia è un incubo. Perché o sapevi o non hai capito. Non c'è verso. Non esiste altra possibilità.

«Tutti quelli che mi hanno detto di averlo riconosciuto adesso, giurano di non aver mai sospettato prima che fosse lui».

 […] Sono state trovate diverse ricevute, pranzi e cene. Da almeno un anno il latitante più ricercato del mondo si muoveva per le strade di Campobello di Mazara, che sta a 10 chilometri da Castelvetrano, la città in cui è nato, il centro del suo potere criminale.

 «Non l'ho mai visto», dice il benzinaio. «Non ci ho fatto caso», dice il residente dell'altra parte della strada.

«Io non sono stupita dell'arresto», dice la signora Vita Accardi, insegnante di educazione fisica in pensione.

«Immaginavamo che potesse vivere qui intorno». Abitava sulla strada principale.

Usciva e tornava. Viveva in mezzo a dodicimila abitanti. «Per noi è una profonda vergogna quello che sta emergendo», dice il sindaco Giuseppe Castiglione.

«Prima l'autista, poi il prestanome, adesso il covo. Tutto qui. A Campobello di Mazara. Provo un'enorme amarezza».

[…]

(ANSA il 18 gennaio 2023)  I magistrati della Procura di Palermo e i carabinieri del Ros avrebbero individuato un secondo covo utilizzato dal boss Matteo Messina Denaro. Oltre all'appartamento di vicolo San Vito a Campobello di Mazara, scoperto ieri, il capomafia avrebbe fatto realizzare una sorta di bunker all'interno di un'altra abitazione nella stessa area.

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 18 gennaio 2023.

Finita l'indagine per arrivare alla cattura, comincia l'altra sui complici del boss. Che parte da quelli «di prossimità», cioè coloro hanno aiutato Matteo Messina Denaro nella vita quotidiana e clandestina a Campobello di Mazara […] A partire da quell'Andrea Bonafede […] o il medico Alfonso Tumbarello o quel Giovanni Luppino che è stato l'ultimo autista del boss.

E poi? Chi altro ha garantito la sua vita clandestina? Con chi è stato in contatto per continuare a gestire gli affari da capomafia e il patrimonio occulto da cui ha continuato ad attingere i soldi per vivere, negli ultimi otto mesi a Campobello ma pure […] altrove? E soprattutto: dov' è e chi copre il vero covo di Messina Denaro?

 […]  di «carte mafiose» nell'appartamento di vicolo San Vito non sarebbe stata trovata traccia. O comunque solo alcune, da verificare se attribuibili al boss o ad altre persone, anche con perizie calligrafiche in corso. […] Ci sono scatoloni o contenitori vari con […] referti, analisi mediche e riscontri di visite specialistiche, oncologiche e oculistiche, effettuate in strutture diverse dalla clinica La Maddalena di Palermo. Carte che aprono nuove prospettive d'indagine su altri medici e professionisti che hanno aiutato il latitante anche prima che approdasse a Campobello.

Ma il fatto che siano datate 2022 o poco prima è un altro elemento che fa sospettare l'esistenza di un «deposito» dove il boss potrebbe avere conservato il resto del materiale. Se l'ha conservato. Perché la vita segreta di Matteo Messina Denaro è cominciata non uno ma trent'anni fa […]

 I movimenti dell'auto […] come pure i selfie scattati in clinica, durante le sedute terapeutiche, con infermieri o altri pazienti. Una «visibilissima invisibilità» che lascia perplessi inquirenti e investigatori, e che però potrebbe corrispondere a una precisa strategia: apparire come se non ci fosse niente da nascondere, per evitare di attirare l'attenzione.

[…] L'appartamento […] è intestato al vero Bonafede, così come la 164. Ed è emerso che ad acquistarlo al prezzo di circa 20.000 euro, a maggio dell'anno scorso, in coincidenza con l'operazione al fegato nella clinica palermitana, sarebbe stato proprio Bonafede con soldi prelevati dal proprio conto, dove precedentemente aveva versato i contanti consegnatigli da Messina Denaro.

 […] Le verifiche degli investigatori si estenderanno anche alla banca dove sono avvenuti i versamenti e da dove sono partiti i bonifici, per cercare di capire se non ci siano state complicità anche in quei movimenti finanziari che avrebbero potuto suscitare qualche sospetto. […] Ma il vero obiettivo sono complici di più alto livello.

Quelli che hanno consentito al primo ricercato d'Italia di vivere una latitanza quasi alla luce del sole, nell'ultimo anno ma forse anche prima. Per esempio chi, nell'amministrazione comunale o negli uffici pubblici di Campobello, gli ha consentito di ottenere nel 2016 una carta d'identità con il timbro autentico sulla foto di un'altra persona. […] Come pure per la patente utilizzata dal boss.

Altri indizi per smascherare le relazioni e gli appoggi del latitante potranno venire dall'analisi dei due cellulari utilizzati da Messina Denaro e delle schede telefoniche trovate nell'appartamento. Negli appunti scritti su un'agenda e altri fogli non si parlerebbe di attività riconducibili a Cosa nostra bensì di riflessioni generiche e su vicende personali del boss, come i rapporti piuttosto tesi con la figlia Lorenza, madre di un bambino di un anno e mezzo, il nipote del boss. […]

Così la Guardia di Finanza ha scoperto il secondo covo di Matteo Messina Denaro. Barbara Massaro su Panorama il 19 Gennaio 2023.

Controllo dei dati catastali ed altre analisi. Così gli uomini delle Fiamme Gialle hanno scovato il nascondiglio principale del super latitante Un bunker all’interno di un appartamento situato nella stessa area di Vicolo San Vito a Mazara dove Matteo Messina Denaro aveva il suo quartier generale. Così gli uomini delle Fiamme Gialle e i magistrati della procura di Palermo avrebbero individuato un secondo nascondiglio dell’ex latitante numero uno. Si tratterebbe di un bunker realizzato dentro un’altra casa, a 300 metri proprio da vicolo San Vito. L’ipotesi che potesse esistere un altro luogo in cui il boss si nascondeva era cresciuta man mano che veniva perquisito il primo covo, in particolare alla luce di quanto ritrovato (e non ritrovato) all’interno. Si cerca infatti il cosiddetto “tesoro del boss” e, al momento non è ancora chiaro se si tratti del luogo in cui il capomafia custodiva documenti riservati, pizzini, soldi e informazioni che ora i magistrati cercano. Il bunker si trova a circa 300 metri dall'abitazione di vicolo San Vito. Al secondo covo gli investigatori del Gico della Guardia di Finanza sono arrivati grazie all'analisi di alcuni dati catastali. Proprio lo screening su questa serie di informazioni, assieme ad un'analisi del contesto scaturita da un'attività informativa e investigativa, ha infatti consentito di localizzare il covo. La proprietà è di Errico Risalvato, indagato e poi assolto, nel 2001, dall'accusa di associazione mafiosa. La casa si trova in via Maggiore Toselli, a Campobello di Mazara. Errico è fratello di Giovanni Risalvato, condannato a 14 anni per mafia, imprenditore del calcestruzzo. Quella casa è stata acquistata dal prestanome Andrea Bonafede. Secondo gli inquirenti gli oggetti rinvenuti avrebbero fatto pensare a «una casa di villeggiatura». Pare siano stati trovati diversi abiti griffati, profumi e un frigorifero pieno di cibo. Trapela poi che siano state sequestrate ricevute di ristoranti, pillole per potenziare le prestazioni sessuali e profilattici. Resta il mistero sul cosiddetto archivio di Totò Riina. Secondo i racconti di diversi pentiti ritenuti attendibili, come Nino Giuffrè, già braccio destro di Beppe Provenzano, Messina Denaro avrebbe recuperato almeno parte dei documenti conservati da Riina, portati via dopo la mancata perquisizione del covo del boss.

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 18 gennaio 2023.

Oltre all'appartamento di vicolo San Vito, scoperto ieri, Messina Denaro avrebbe utilizzato anche una sorta di bunker, realizzato dentro un'abitazione di via Maggiore Toselli, pure questa nel cuore di Campobello di Mazara e nella disponibilità di Andrea Bonafede, l'uomo che ha prestato l'identità al superlatitante. Il procuratore aggiunto Paolo Guido ha fatto scattare una nuova perquisizione dopo una segnalazione del Gico del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo, che indagava su un altro filone d'indagine. Una perquisizione in corso, effettuata da finanzieri e carabinieri, alla presenza del magistrato.

Il nuovo covo è una stanza nascosta all'interno di un immobile al piano terra. Ci si accede spostando il fondo scorrevole di un armadio. Dalle prime indiscrezioni, sarebbe una stanza vissuta, con tracce anche recenti. Sono stati sequestrati alcuni oggetti, mentre in azione ci sono anche i carabinieri del Ris, a caccia di tracce biologiche.

Gli investigatori hanno accertato che è di Errico Risalvato, indagato e poi assolto, nel 2001, dall'accusa di associazione mafiosa, la casa di via Maggiore Toselli. Errico è fratello di Giovanni Risalvato, condannato a 14 anni per mafia, ora libero, imprenditore del calcestruzzi.

Via Maggiore Toselli dista un chilometro e mezzo da via Cb 31, quattro minuti in auto. Probabilmente, per Messina Denaro era un rifugio sicuro in caso di emergenza. […]

Estratto dell’articolo di Alessia Candito per “la Repubblica” il 18 gennaio 2023.

Figlia, nipote e moglie di boss. La nomina del legale che lo assisterà, per Matteo Messina Denaro è una scelta di campo e una dichiarazione di intenti. Il superboss ha deciso di affidarsi alla nipote, Lorenza Guttadauro, avvocata dal 2009 e cassazionista da meno di un anno, ma soprattutto persona di famiglia. Traduzione: la collaborazione non sembra essere nei programmi diIddu.

 «Non mi aspettavo questa nomina», ha detto la legale. «Mio zio si è sempre affidato ad avvocati d’ufficio». Nipote di Messina Denaro perché figlia della sorella del boss, Rosalia, e di un altrocapo della mafia palermitana, Filippo Guttadauro, l’avvocata Guttadauro è anche moglie di un nome noto di Cosa Nostra. Il marito, da cui ha avuto tre figli, è Girolamo “Luca” Bellomo, uno dei pupilli dello zio Matteo, nonché finanziatore della sua latitanza.

Un altro zio invece è quel Giuseppe Guttadauro che, intercettato dagli investigatori, ha inguaiato l’ex presidente della Regione siciliana Totò Cuffaro. Insomma, l’avvocata — che ha fatto gavetta nello studio di Rosalba Di Gregorio, uno dei “mastini” del foro palermitano — è una che la mafia la conosce dall’interno.

Dall’arresto al ritrovamento della stanza sono passate 48 ore. Il covo di Matteo Messina Denaro, tra gioielli e scatole vuote nella stanza segreta: il sospetto che sia stato ripulito. Elena Del Mastro su Il Riformista il 19 Gennaio 2023

Il secondo covo di Matteo Messina Denaro è stato trovato ad appena un chilometro di distanza da quella che sarebbe stata la “residenza ufficiale” del boss a Campobello di Mazara. Saranno le indagini e soprattutto le analisi delle impronte digitali a dare conferma su se quell’appartamento con tanto di stanza segreta annessa sia stato davvero il nascondiglio del boss.

Secondo la ricostruzione fatta dal Corriere della Sera, sono numerosi gli indizi che hanno portato gli investigatori alla scoperta del piccolo bunker di via Maggiore Toselli nascosto dietro il fondo scorrevole di un armadio. Lo screening dei dati catastali acquisiti dalle Fiamme Gialle ha aiutato nella scoperta del bunker a tutti gli effetti ricavato in un appartamento al piano terra di una palazzina di Campobello di Mazara. All’interno non sono stati trovati i “pizzini”, il “tesoro” del boss né tantomeno l’archivio di Totò Riina che Messina Denaro avrebbe ereditato con il compito di custodirlo. Invece la Guardia di Finanza ha trovato appunti e carte ancora da interpretare, gioielli e pietre apparentemente preziose, pezzi di argenteria, custodie vuote di gioielli e scatole anch’esse vuote. E qui il sospetto che quel luogo possa essere stato ripulito.

I sospetti su un ipotetico secondo covo sono nati da alcune intercettazioni e dalla notizia di possibili e ripetute visite nei mesi scorsi del boss in quella casa da poco ristrutturata. E’ così che poco prima dell’ora di pranzo gli investigatori del Gico e del Ros sono arrivati a colpo sicuro nell’anonima palazzina a due piani tra i vicoli del paese, di proprietà del 70enne Errico Risalvato. Indagato e poi assolto nel 2001 dall’accusa di associazione mafiosa, è fratello di Giovanni Risalvato, condannato a 14 anni per mafia e ora libero, imprenditore del calcestruzzo.

Quando finanzieri e carabinieri sono arrivati all’appartamento, Risalvato ha subito consegnato le chiavi della porta blindata trovata dietro l’anta scorrevole di un armadio. L’uomo ha sostenuto che si trattasse di un nascondiglio sicuro di beni della sua famiglia, nessun accenno a Messina Denaro. Resta la sorpresa per quelle scatole vuote trovate comunque a 48 ore dall’arresto del boss: un tempo sufficiente per portare via eventualmente il contenuto da proteggere.

Intanto gli investigatori cercano di ricostruire la rete di fiancheggiatori del boss, a partire da Andrea Bonafede che gli aveva dato i documenti per le cure e chi gliele ha prescritte, i medici. Erano a conoscenza che l’uomo malato di tumore che stavano visitando era in realtà uno dei latitanti più ricercati di Italia? Le indagini sono ancora all’inizio.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il bunker di Messina Denaro e il sospetto che la camera blindata dietro un armadio sia stata «ripulita». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2023.

La perquisizione nella palazzina nel centro di Campobello di Mazara di un ex imputato per mafia 

Saranno le impronte digitali a dare la conferma se la camera blindata trovata ieri in un appartamento del centro di Campobello di Mazara, ad appena un chilometro dalla «residenza ufficiale» del capomafia, sia stato il nascondiglio segreto di Matteo Messina Denaro. Finalmente, dopo l’arresto, è possibile fare queste comparazioni: da lì verrebbe la certezza, e i carabinieri del Ris sono al lavoro. 

Se invece non ci fossero tracce dell’ex latitante, nemmeno di altro genere, resterebbero gli altri indizi che hanno portato gli investigatori nel piccolo bunker di via Maggiore Toselli, nascosto dietro il fondo scorrevole di un armadio attaccato alla parete di una stanza. Nel quale però non sarebbe stato trovato il vagheggiato «tesoro del boss»: né soldi, né i tradizionali pizzini della corrispondenza mafiosa, o addirittura l’archivio di Totò Riina che secondo alcuni pentiti sarebbe stato ereditato da Messina Denaro. Pare ci fossero appunti e qualche carta ancora da interpretare, alcuni monili e pietre apparentemente preziose, pezzi di argenteria, custodie di gioielli e scatole altrettanto vuote. 

Il blitz con la Finanza

 Lo spunto investigativo su questo nascondiglio è arrivato ieri mattina dalla Guardia di Finanza, e riguardava possibili e ripetute visite — nei mesi scorsi — dell’ex latitante in quella casa da poco ristrutturata, con annessa camera segreta. Da lunedì il volto dell’ultimo padrino corleonese rimbalza continuamente fra teleschermi, computer e pagine di giornale, e da allora sono arrivate molte segnalazioni su suoi ipotetici movimenti. Il legame con la casa nel centro di Campobello, però, è apparso agli uomini delle Fiamme gialle diretto e preciso, e così la Procura di Palermo ha immediatamente incaricato la Finanza e i carabinieri di fare un perquisizione, alla presenza del procuratore aggiunto Paolo Guido. 

Poco prima dell’ora di pranzo gli investigatori del Gico e del Ros sono arrivati a colpo sicuro nell’anonima palazzina a due piani tra i vicoli del paese, di proprietà di Errico Risalvato, 71 anni, nato a Castelvetrano come Messina Denaro, già arrestato nel 1998, coimputato del boss insieme ad altri presunti complici, processato e assolto nel 2001. Diciotto anni dopo, nel 2019, è stato perquisito in una maxi-operazione della polizia contro una rete di ipotetici favoreggiatori dell’ex latitante, proprio nella casa di via Maggiore Toselli dove ora abita anche la figlia.

Ipotesi ripulitura

 Ieri, all’arrivo di finanzieri e carabinieri, Risalvato ha subito consegnato la chiave della porta blindata protetta dall’armadio a muro. Ed è saltata fuori una camera abbastanza grande da contenere una persona che si vuole nascondere, forse sfuggita (se già c’era) alla perquisizione di tre anni fa. 

Di fronte a quei pochi valori (almeno rispetto alle attese) e alle scatole per lo più vuote, Risalvato ha sostenuto che si tratta di una sorta di ripostiglio-magazzino sicuro, utilizzato da lui e dalla sua famiglia. Nessun accenno a Matteo Messina Denaro. E il fatto che gli inquirenti non abbiano trovato quello che speravano di trovare — come sembra dalle poche indiscrezioni che filtrano sull’indagine segreta — non significa che quel nascondiglio non sia stato utilizzato dal boss. Perché dal suo arresto alla perquisizione, ordinata appena è arrivata l’informazione sull’esistenza del bunker, sono comunque trascorse 48 ore; un tempo sufficiente a chiunque per «alleggerire» la camera blindata dall’eventuale contenuto che si voleva proteggere e portarlo altrove. 

Le intercettazioni

Se Errico Risalvato è stato solo in odore di mafia, suo fratello Giovanni — di tre anni più giovane, ex consigliere comunale — è stato invece condannato a 14 anni di prigione per favoreggiamento dell’ultimo stragista, e scarcerato pochi mesi fa per fine pena. In un’intercettazione era stato ascoltato dagli investigatori mentre diceva, ricordando il tempo trascorso in compagnia del boss: «Chissà cosa pagherei per fumarmi un pacchetto di sigarette con lui. Minchia, una volta ce ne siamo fumati una stecca!». 

E in un’altra conversazione registrata dalle microspie si entusiasmava all’idea di affiancare il latitante: «Gliel’ho detto un mare di volte, me ne vado con lui! Tanto a mio figlio non manca niente, mia moglie lo stipendio ce l’ha... meglio un giorno da leone che cent’anni da pecora».

L’indagine sulle complicità più recenti dell’ex imprendibile, insomma, si allarga inevitabilmente alla famiglia Risalvato, ma prosegue anche su Andrea Bonafede, l’uomo che gli ha prestato l’identità, nipote del capomafia di Campobello. 

La carta d’identità

Nelle dichiarazioni rese agli investigatori ha raccontato che Messina Denaro gli ha chiesto la carta d’identità e la tessera sanitaria a maggio dello scorso anno, quando doveva operarsi nella clinica palermitana La Maddalena e gli consegnò i soldi per fargli acquistare l’appartamento divenuto poi la sua abitazione. Poco dopo gli ha restituito solo il primo documento, che nel frattempo aveva fatto clonare , non il secondo. Da allora il ricercato numero 1 è diventato Andrea Bonafede, ma c’è il sospetto che quello vero menta almeno rispetto al periodo in cui ha prestato nome e cognome al capomafia. Perché a novembre 2020 Messina Denaro è stato operato all’ospedale di Mazara del Vallo con l’identità di Bonafede. 

Inoltre negli archivi delle forze dell’ordine risulterebbero nel recente passato un paio di controlli di routine su una persona che ha esibito quella carta d’identità. Chi era? Il vero Bonafede o il latitante? Difficile rispondere oggi a questa domanda, come alle tante altre che si stanno materializzando nell’inchiesta guidata dal procuratore Maurizio De Lucia sulle protezioni di cui ha goduto il capomafia, almeno nell’ultimo tratto della sua latitanza. Ad esempio quelle relative alla consapevolezza di chi gli ha garantito le cure mediche di cui ha avuto bisogno. 

Primario indagato

Dopo l’ex medico di base di Campobello Alfonso Tumbarello, è stato iscritto nel registro degli indagati pure il nome di Filippo Zerilli, primario di Oncologia all’ospedale di Trapani, al quale i carabinieri hanno perquisito l’ufficio. È stato lui a ordinare l’esame del Dna per il sedicente Bonafede, necessario per prescrivergli la chemioterapia. Gli inquirenti devono verificare, anche attraverso la documentazione acquisita, se quando lo ha visitato il primario fosse consapevole che quel paziente fosse il famoso ricercato oppure no; a differenza di altre situazioni, infatti, non c’è prova certa che abbia conosciuto anche il vero Bonafede. Ma il capitolo dell’indagine sui professionisti che potrebbero aver contribuito alla latitanza dell’ormai ex primula rossa di Cosa nostra è appena all’inizio.

Messina Denaro, Sabella spegne gli entusiasmi: quello non è il vero bunker. Il Tempo il 19 gennaio 2023

La casa principale di proprietà dell'uomo che gli aveva dato l'identità, un appartamento vuoto e un bunker blindato. Sono tre gli alloggi riconducibili alla latitanza di Matteo Messina Denaro trovati dai carabinieri dopo l'arresto del boss. Le indagini ora si concentrano sulla rete che ha permesso al capo mafia di non farsi trovare nei 30 anni trascorsi per lo più nel suo paese, a Catelvetrano o nella vicina Campobello di Mazara. Ma anche sui segreti di Messina Denaro: documenti, agende, archivi che potrebbero svelare molte cose sulla stagione delle stragi e sull'attività attuale della mafia siciliana. Nel bunker blindato trovato ieri sono stati rinvenuti scatoloni pieni di documenti e altri vuoti, forse "ripuliti" dopo l'arresto. È lì la chiave di tutto? Appare scettico Alfonso Sabella, magistrato italiano già sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo di Gian Carlo Caselli, che nel corso della puntata di Tagadà di giovedì 19 gennaio, su La7, commenta gli ultimi sviluppi delle indagini. 

"Da quel poco che ho visto non mi pare che quello fosse un bunker 'residenziale', quello è un bunker più da emergenza", afferma il magistrato secondo cui tutti i mafiosi hanno "in casa loro" un rifugio di quel tipo. "Personalmente ne ho trovati a decine così, con i miei colleghi a centinaia" spiega Sabella che racconta, per esempio, il bunker trovato in casa di un indagato, nascosto dietro una parete amovibili all'interno del camino. "Se c'era una perquisizione improvvisa si infilava lì dentro", afferma il magistrato. 

Insomma, quella "non è la casa di Messina Denaro. Io ho trovato quella di Giovanni Brusca a Fondo Patellaro, a Palermo, che aveva un tunnel sotterraneo. Il primo covo era probabilmente l'abitazione in cui stava in quel momento, ma i boss si muovono continuamente", spiega Sabella che rimarca: il secondo covo, la stanza blindata ricavata da un appartamento, è solo "un bunkerino d'emergenza". 

Messina Denaro. Trovato dalla Polizia un terzo covo disabitato a Campobello di Mazara. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Gennaio 2023.

Gli investigatori dello S.C.O. il Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, anche loro impegnati da mesi come tutte le forze dell' ordine nelle ricerche del latitante hanno fatto l'irruzione nel terzo covo in via San Giovanni 260, ma l'appartamento risulta vuoto, disabitato.

Nell’abitazione di Messina Denaro in via Cb31, dove i Carabinieri del ROS e del GIS hanno fatto irruzione martedì mattina, la perquisizione nel covo non si è mai fermata, consentendo di rinvenire un vero tesoro investigativo composto da appunti e documenti, un sorta di libro mastro, un taccuino con tanti appunti e cifre, risalenti anche ad anni passati, fino al 2016. E poi molti numeri di telefono utili, il boss ricercato dal giugno 1993 annotati su foglietti e post-it. Tanto materiale ed informazioni utili per l’inchiesta coordinata dal procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia e dall’aggiunto Paolo Guido.

“Tutto quanto è stato trovato all’ormai ex latitante” ha spiegato il comandante del Ros, il generale Pasquale Angelosanto, compresi i due telefonini, “è già stato affidato al nucleo specializzato del Ris di Messina per le analisi e gli accertamenti necessari“. Questa mattina sono arrivate alcune squadre dello squadrone eliportato cacciatori di Sicilia, reparto dell’Arma specializzato in perquisizioni e ricerca di bunker, che procederanno a perquisire, non appena i RIS avranno terminato i rilievi tecnici, l’immobile in via Cb31, a Campobello di Mazara dove è stato trovato l’appartamento in cui si nascondeva il super latitante Matteo Messina Denaro.

Il boss mafioso Matteo Messina Denaro evidentemente si sentiva sicuro a Campobello di Mazara. Gli investigatori dello S.C.O. il Servizio centrale operativo della Polizia di Stato, anche loro impegnati da mesi come tutte le forze dell’ ordine nelle ricerche del latitante: l’irruzione nell’appartamento è al primo piano di via San Giovanni 260 è avvenuta oggi pomeriggio, ma l’appartamento è risulta vuoto, disabitato, e verranno comunque effettuati controlli con georadar per verificare se nell’immobile ci siano stanze segrete, cunicoli, zone nascoste. Dalle prime informazioni l’alloggio è vuoto e risulta in vendita. Gli investigatori dello S.C.O. stanno comunque repertando ogni elemento utile.

Un “blitz” quello della Polizia che si è rivelato praticamente quasi inutile sotto il profilo investigativo, di cui si sono occupate praticamente solo le telecamere dei tg di Stato. “Non siamo in grado di dire se qualcuno sia andato prima. Mi auguro che se ci sia stato qualcuno abbia lasciato qualche traccia. È un’ ipotesi, ma allo stato non siamo in grado di confermarla”. Lo ha detto il generale del Ros, Pasquale Angelosanto, a Porta a Porta, rispondendo in merito all’eventualità che qualcuno possa essere entrato nei covi di Messina Denaro subito dopo il suo arresto e prima degli investigatori, portando via documenti importanti.

A Campobello di Mazara sono scattati i sigilli per la casa della madre di Andrea Bonafede, l’uomo che aveva “ceduto” l’utilizzo della sua identità a Messina Denaro, proprietario dell’abitazione di vicolo San Vito, dove il padrino ha passato gli ultimi sei mesi della sua latitanza. Dopo la scoperta ieri del secondo covo, il rifugio-bunker in via Maggiore Toselli ubicato nel centro del paese, in cui sono stati trovati, in una stanza blindata, nascosta dietro il fondo scorrevole di un’armadio, gioielli e scatole, sono state estese le ricerche e adesso è scattato il sequestro dell’immobile di via Marsala, da tempo non utilizzato dalla donna, alla ricerca di tracce e documenti del capomafia di Castelvetrano.

Quella sedia vuota

Un passaggio processuale significativo nel giorno del compleanno di Paolo Borsellino che oggi avrebbe compiuto 83 anni. In primo grado il boss è stato condannato all’ergastolo. Il videocollegamento era stato allestito, la telecamera fissa sulla stanza della struttura di massima sicurezza del carcere di L’ Aquila, con un banco dietro il quale era seduto l’agente e, accanto, una sedia vuota: Matteo Messina Denaro non c’era.

Adesso si attende la prossima udienza fissata per il 9 marzo. Il boss ha formalizzato la nomina dell’avvocata, Lorenza Guttadauro, sua nipote: la penalista, infatti, è figlia della sorella Rosalia Messina Denaro e di Filippo Guttadauro. Il nonno paterno, cioè il padre di Filippo, è Giuseppe Guttadauro lo storico “boss” di Brancaccio. La decisione è stata comunicata nel corso dell’udienza e le la legale siciliana è stata sostituita dall’avvocato d’ufficio Salvatore Baglio che ha seguito il primo grado e che ha chiesto la concessione di un termine a difesa facendo presente che la notifica dell’ordinanza cautelare all’imputato e la contestuale nomina dell’avvocato di fiducia è avvenuta oggi. Una nomina quella della nipote non avvenuta per caso. Infatti i colloqui con i legali non sono registrati e quindi si possono fare arrivare istruzioni fuori dal carcere, pur essendo di massima sicurezza.

Nelle stesse ore a Palermo il Gip Fabio Pilato ha convalidato l’arresto di Giovanni Luppino, il commerciante di olive, incensurato, arrestato insieme al boss Giovanni Luppino che aveva accompagnato in auto nella clinica di Palermo dove erano in programma terapie chemioterapiche. Per la procura presente all’interrogatorio di garanzia il pm della Dda di Palermo Piero Padova. “Nessun elemento può allo stato consentire di ritenere che una figura che è letteralmente riuscita a trascorrere indisturbata circa 30 anni di latitanza, si sia attorniata di figure inconsapevoli dei compiti svolti e dei connessi rischi, ed anzi, l’incredibile durata di questa latitanza milita in senso decisamente opposto, conducendo a ritenere che proprio l’estrema fiducia e il legame saldato con le figure dei suoi stessi fiancheggiatori abbia in qualche modo contribuito alla procrastinazione del tempo della sua cattura che, altrimenti, sarebbe potuta effettivamente intervenire anche in tempi più risalenti”. E’ una delle considerazioni della richiesta di custodia cautelare in carcere avanzata dalla Procura di Palermo a carico di Giovanni Luppino, autista del boss Messina Denaro arrestato lunedì col capomafia. I pm hanno ottenuto dal gip la convalida dell’arresto in flagranza. Si attende la decisione sulla richiesta della custodia cautelare.

Luppino non si è avvalso della facoltà di non rispondere, ma ha negato di conoscere la reale identità di chi accompagnava: “A me è stato presentato come Francesco, cognato di Andrea Bonafede. È stato quest’ultimo a portarmelo e – riferisce il suo avvocato Giuseppe Ferro che ha riportato alcuni passaggi delle risposte di Luppino – per spirito di solidarietà mi sono prestato ad accompagnarlo a Palermo per la seduta di chemio“. Al gip che gli ha chiesto se lo avrebbe accompagnato ugualmente sapendo la reale identità il legale riferisce che Luppino ha risposto: “Solo un pazzo poteva accompagnarlo sapendo che era Matteo Messina Denaro. Per me era Francesco è solo lunedì al momento del blitz dei Carabinieri mi è stato detto chi fosse”. Ma il difensore non ha spiegato come mai Luppino abbia provato a fuggire durante il blitz dei Carabinieri. Redazione CdG 1947

Il terzo covo di Messina Denaro è vuoto, si cercano i soldi del boss (che pagava cene da 700 euro). Giovanni Bianconi, inviato a Palermo, su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.

Nel primo rifugio carte con nomi e numeri da decodificare. C’è anche un poster del Padrino

L’arresto del padrino ha forse mosso le coscienze dei cittadini siciliani; o forse ha semplicemente generato la convinzione che sia meglio dichiarare prima anziché essere costretti a giustificarsi dopo. Fatto sta che dopo la cattura è arrivata alla polizia la testimonianza che ha portato alla scoperta di un’altra casa a Campobello di Mazara dove Matteo Messina Denaro ha vissuto prima di trasferirsi nell’appartamento di vicolo San Vito acquistato attraverso Andrea Bonafede, il quasi coetaneo ora indagato per associazione mafiosa, dove ha abitato fino a lunedì scorso. Dove nel salotto c’era anche una riproduzione incorniciata di un altro Padrino, quello interpretato da Marlon Brando. 

La precedente residenza si trova ad appena 600 metri di distanza, un minuto in macchina e sei a piedi, in via San Giovanni, periferia est di Campobello. Considerata anche la casa dell’ex coimputato Errico Risalvato, completa di camera blindata dietro un armadio a muro, che gli inquirenti sospettano sia stata frequentata e utilizzata dall’ex ricercato numero 1, siamo al terzo covo del capomafia nel raggio di due chilometri. Il piccolo regno dove lo stragista di Cosa nostra ha vissuto nell’ultimo tratto della sua trentennale latitanza. A stretto contatto con vecchie conoscenze tra cui proprio i fratelli Risalvato già inquisiti (e uno dei due condannato) per mafia e favoreggiamento nei suoi confronti.

Il traslocatore

 Stavolta si tratta di un appartamento al primo piano di una palazzina, con annesso garage, preso in affitto da un signore originario di Campobello che vive in Svizzera da quarant’anni, e da allora disabitato. La polizia c’è arrivata attraverso la testimonianza di chi ha organizzato il trasloco da un appartamento all’altro e nei giorni scorsi, vedendolo in tv, ha riconosciuto il volto di Messina Denaro in colui che gli aveva chiesto il lavoro, a giugno dello scorso anno. Così ha detto agli investigatori, che appena ricevuta la notizia hanno avvisato i magistrati; dopodiché, alla presenza del procuratore aggiunto Paolo Guido, gli agenti del Servizio centrale operativo e della Polizia scientifica hanno avviato la perquisizione dell’appartamento. Trovandolo vuoto, pronto a essere ceduto a un nuovo inquilino che però non è ancora arrivato. 

Ora l’indagine dovrà chiarire quando l’allora latitante è arrivato in via San Giovanni, attraverso quali intermediari, con quale identità (probabile che utilizzasse già l’alias di Andrea Bonafede, giacché a novembre 2020 s’è operato a Mazara del Vallo con quel nome) e se il proprietario fosse consapevole della sua identità oppure no. Un’alternativa netta e abissale tra l’essere l’ignaro padrone di casa dell’uomo più ricercato d’Italia oppure un suo complice.

 In ogni caso questa nuova scoperta conferma come l’ultimo mafioso stragista rimasto in attività avesse scelto di tornare nella sua terra d’origine per curarsi dai tumori che l’hanno assalito, ma anche per continuare a gestire i suoi traffici. Di cui la Procura guidata da Maurizio De Lucia cerca tracce nelle carte sequestrate nella casa di vicolo san Vito. 

Perizie sugli scritti

 Il biglietto fatto scrivere a Messina Denaro dai carabinieri subito dopo il suo arresto, nel quale il boss ha dato atto ai militari dell’Arma che l’hanno catturato di essere stato trattato bene, servirà ad eseguire le perizie calligrafiche necessarie ad attribuire gli appunti trovati in quell’appartamento al boss mafioso o ad altre persone, evidentemente in contatto con lui. 

Non ci sono infatti solo le annotazioni nell’agenda dove l’ex imprendibile di Cosa nostra alternava considerazioni personali e persino sfoghi sui suoi rapporti (difficili o inesistenti) con la figlia a realtà di tutt’altro genere: nomi, soprannomi, numeri di telefono. Ci sono anche post-it, fogli sparsi o raccolti in alcune cartelline con note e promemoria, cifre che potrebbero celare nomi codificati e un’apparente contabilità. Sono carte da studiare, da un lato per individuare chi le ha vergate e dall’altro per darne una interpretazione compiuta.

 I contatti telefonici, in chiaro o criptati, andranno attribuiti ad altrettante persone e incrociati con quanto risulterà dall’esame dei telefonini trovati nell’appartamento-covo. Nomi, sigle e soprannomi dovranno essere individuati e decifrati per collegarli al boss in due possibili direzioni: da una parte la rete di protezione per garantire sicurezza e assistenza della sua latitanza; dall’altra l’attività di Messina Denaro in un senso più strettamente mafioso, vale a dire affari, interessi imprenditoriali, racket. Ambiti che in alcuni casi possono coincidere e che comprendono, in ipotesi, anche esponenti dell’imprenditoria, delle professioni e della politica locale. 

La contabilità

 Acquisizioni e intercettazioni registrate nelle più recenti indagini sui fiancheggiatori avevano confermato l’attualità dell’influenza del boss sul territorio; ora si scopre che il suo tenore di vita era molto più alto di quello che si può immaginare per un normale fuggiasco rifugiatosi nella provincia d’origine. Le prime approssimative stime degli investigatori calcolano spese medie mensili di 10.000 euro, e le rendicontazioni confermano (insieme alle molte ricevute conservate) un’attenzione quasi maniacale per le spese. Tipo una cena al ristorante pagata 700 euro, probabile conto pagato a tutti i presenti.

Costi che implicano una grande disponibilità di denaro che finora non è stato trovato né in casa né nella camera blindata occultata nell’altro appartamento di Campobello. Dove sono nascosti i soldi del boss? Il sedicente Andrea Bonafede disponeva di un bancomat collegato al conto corrente postale ufficialmente intestato al vero Bonafede, dal quale sono usciti anche i 20.000 euro utilizzati per acquistare la casa di vicolo San Vito. Ora l’indagine si estenderà a tutti i movimenti di quel conto, ma i maggiori sospetti sono sui contanti che non lasciano tracce.

Lara Sirignano, Valentina Santarpia per corriere.it il 19 gennaio 2023.

Nell’indagine sulla cattura del boss Matteo Messina Denaro spunta un terzo covo. A scoprirlo, su indicazione di una fonte, è stata la polizia. Si tratta di una abitazione che si trova sempre a Campobello di Mazara, paese in cui il capomafia si sarebbe nascosto prima di trasferirsi in vicolo San Vito, dove è stato scoperto il primo appartamento del boss. Gli investigatori hanno isolato la zona e sono in arrivo gli uomini della scientifica per repertare ogni elemento utile all'indagine.

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 19 gennaio 2023.

Il boss Matteo Messina Denaro era molto ordinato. Su una scrivania, aveva una serie di carpette, in cui sistemava appunti e documenti. C’è un vero tesoro nel covo di via Cb 31 dove i carabinieri del Ros hanno fatto irruzione martedì mattina: la perquisizione non si è mai fermata. Un tesoro per le indagini. Gli investigatori hanno trovato un sorta di libro mastro, un taccuino con tanti appunti e cifre, risalenti anche ad anni passati, fino al 2016. E poi numeri di telefono, il boss ricercato dal giugno 1993 li annotava su foglietti e post-it.

 […] Messina Denaro conservava anche un’ampia contabilità, con entrate e uscite a tanti zeri. […]

 Estratto dell’articolo da gds.it il 19 gennaio 2023.

 Il boss Matteo Messina Denaro avrebbe rinunciato a essere presente in videoconferenza, dal carcere de L’Aquila, con l’aula bunker di Caltanissetta a causa della sua prima seduta di chemioterapia a cui viene sottoposto in queste ore all’interno dell’istituto penitenziario.

 A quanto si apprende da fonti informate, sarebbe stata allestita un’apposita stanza non molto distante dalla sua cella dove Messina Denaro si sottopone alle cure.

Al momento non c’è certezza, in virtù di questa necessità medica, su quali saranno le intenzioni del boss di Cosa Nostra in merito all’eventuale sua partecipazione alle prossime udienze del processo.

Estratto dell’articolo di Umberto Lucentini per gds.it il 19 gennaio 2023.

Un santino del Sacro cuore di Gesù. La lista della spesa. Gli scontrini di una farmacia e di un supermercato di Campobello di Mazara. Un portachiavi con un’etichetta che recita «Il mito, la leggenda, sei tu...». Due telefonini. Come un qualunque paziente che va in casa di cura per sottoporsi a cure chemioterapiche, Matteo Messina Denaro aveva con sé un po’ del suo mondo da latitante-ammalato quando è stato bloccato dai carabinieri del Ros, e dai Gis, che hanno portato a compimento l’operazione di cattura della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, coordinata dal procuratore Maurizio De Lucia e dall’aggiunto Paolo Guido.

[…] è subito scatta la perquisizione sia del boss sia dell’auto, una Fiat Bravo bianca guidata da Giovanni Luppino, commerciante di olive arrestato col boss e pregiudicato per traffico di droga. «Tutto quanto è stato trovato all’ormai ex latitante» ha spiegato il comandante del Ros, il generale Pasquale Angelosanto, compresi i due telefonini, «è già stato affidato al nucleo specializzato del Ris di Messina per le analisi e gli accertamenti necessari». Messina Denaro e Luppino sono partiti da Campobello di Mazara per la seduta di chemioterapia che il «paziente Andrea Bonafede» aveva prenotato da tempo dato il «quadro clinico molto serio» come viene definito dai medici che lo avevano in cura anche per il morbo di Crohn.

[…]

I Ris: "Sigle, cellulari e poster del Padrino". Trovato il terzo covo "Qui fino a giugno". Nel primo alloggio del boss scoperti molti appunti, ma non un vero "libro mastro". Sigilli alla casa della madre di Bonafede. Ieri nuovo blitz: ma le stanze sono vuote. Patricia Tagliaferri il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Si muoveva spesso Matteo Messina Denaro, anche se sempre nel raggio di pochi metri a Campobello di Mazara, luogo d'elezione della sua latitanza almeno negli ultimi tempi. Ieri è stato scoperto un terzo covo, in via San Giovanni, a pochi passi dagli altri due. Un appartamento dove il capomafia trapanese ha vissuto fino a giugno. Poi è stato svuotato prima di essere messo in vendita. Gli investigatori del Servizio centrale operativo della polizia - che in queste ore stanno battendo palmo a palmo il trapanese alla ricerca di nascondigli prima che vengano ripuliti - ci sono arrivati grazie a chi si fece il trasloco e adesso stanno cercando di risalire al proprietario. Saranno comunque effettuati controlli alla ricerca di eventuali stanze segrete.

Al momento l'attenzione dei magistrati è puntata su un taccuino scritto a mano trovato nell'ultimo nascondiglio del boss. Si è pensato ad una sorta di libro mastro, o forse solo un promemoria con gli investimenti, con numeri, nomi e sigle che potrebbe servire per ricostruire la fitta rete di relazioni d'affari che Messina Denaro avrebbe intrattenuto negli ultimi mesi, oltre alle complicità e alle coperture di cui ha potuto godere in 30 anni di latitanza. I carabinieri del Ris lo hanno trovato nel «rifugio» di via CB 31 - sempre nel paese in provincia di Trapani a otto chilometri da Castelvetrano, la città natale del boss - nel cui salone aveva attaccato un poster de Il padrino, il film interpretato da Marlon Brando. Il taccuino viene considerato un reperto molto importante, anche se deve essere ancora decifrato, pieno di spunti preziosi per l'inchiesta della Procura di Palermo perché contiene appunti e cifre che si riferiscono agli anni passati e risalgono fino al 2016. All'attenzione degli investigatori anche i numeri di telefono che il capomafia di Castelvetrano annotava scrupolosamente su foglietti e post-it e un'ampia contabilità, con entrate e uscite a più zeri, che adesso sarà passata al setaccio per ricostruire le attività dell'ex latitante che nel 2020 aveva un patrimonio stimato in quattro miliardi di euro investiti nei più svariati settori, dall'eolico al turismo. Così come si spera di ottenere informazioni rilevanti dai tabulati dei due telefonini che il capomafia aveva con sé al momento dell'arresto. Nell'appartamento di via CB 31 gli investigatori hanno scoperto un ambiente occultato in cui c'era altra documentazione, tra cui svariati pizzini con nomi, numeri di telefono e spese di viaggio. Mentre nel secondo nascondiglio, quello rintracciato mercoledì a poca distanza dagli altri, in via Maggiore Toselli (di proprietà di Errico Risalvato, che nel 2019 subì una perquisizione assieme ad altri presunti fiancheggiatori di Messina Denaro, fratello di un imprenditore considerato molto vicino al boss) con tanto di stanza bunker nascosta da un armadio dove sono stati rinvenuti gioielli, pietre preziose e pezzi di argenteria, il Ris è a caccia di tracce organiche e impronte digitali per avere la certezza che fosse effettivamente riconducibile a Messina Denaro. Significativa, per gli inquirenti, la vicinanza geografica dei tre covi e della casa sequestrata alla mamma di Andrea Bonafede, l'uomo che per anni ha prestato la sua identità a Messina Denaro. Tutto nel raggio di un chilometro nel quartiere Guaguana di Campobello di Mazara, dove il boss di Castelvetrano ha vissuto negli ultimi mesi e dove la mafia è ancora fortemente radicata. I sigilli all'appartamento della madre di Bonafede, da tempo non utilizzato dalla donna che vive altrove con una delle figlie, sono stati posti solo ieri. Lasciando il tempo - sostengono alcuni - per far sparire eventuali tracce o documenti. Ipotesi avvalorata dal fatto che la casa, che si trova all'angolo tra via Marsala e via Cusmano, era protetta da un sistema privato di telecamere di sorveglianza.

La scoperta seguendo le tracce di un trasloco. Trovato il terzo covo di Messina Denaro a Campobello: il boss ha vissuto lì fino a giugno. Redazione su Il Riformista il 19 Gennaio 2023

Siamo a tre, uno al giorno. Sono le case-covo trovate dalle forze dell’ordine nell’ambito delle indagini che seguono la cattura lunedì del boss Matteo Messina Denaro, l’ormai ex ‘Primula rossa’ di Cosa Nostra latitante per trenta anni.

L’ultimo è stato scoperto ancora una volta a Campobello di Mazara, nel Trapanese, dove è ormai evidente che il boss di Castelvetrano abbia avuto un importante sistema di protezione negli scorsi mesi.

Anche il terzo covo è situato nel centro del paesino di 11mila abitanti: si trova al civico 260 di via San Giovanni, a 500 metri circa dall’appartamento di vicolo San Vito, quello in cui ha abitato più recentemente e acquistato per lui per la cifra di 20mila euro da Andrea Bonafede, il geometra-alias che con la sua identità ha permesso al boss di ricevere le cure mediche per il tumore al colon.

Ad individuare il terzo covo sono stati gli investigatori del Servizio centrale operativo della polizia, pure loro impegnati da mesi nelle ricerche del latitante. L’ultimo (in ordine di tempo) covo di MMD è stato scoperto seguendo le tracce di un trasloco: l’appartamento, ora vuoto, sarebbe stato utilizzato dal boss fino allo scorso giugno.

L’appartamento è in vendita ed è risultato vuoto ad un primo controllo delle forze dell’ordine: gli inquirenti stanno ancora cercando di accertare chi sia il proprietario dell’immobile, che non dovrebbe avere ‘segrete’.

Per ora solo il secondo covo del boss, quello di via Maggiore Toselli, era dotato di un ‘bunker’ per Messina Denaro, nascosto dietro il fondo scorrevole di un armadio attaccato alla parete di una stanza.

I primi documenti

Le novità più ‘succose’ per gli inquirenti arrivano per il momento dall’appartamento di vicolo San Vito (o via CB 31), l’appartamento di Bonafede e ultima abitazione del boss.

Lì sono stati trovati dei documenti che per magistrati e forze dell’ordine rappresentano un libro mastro: si tratterebbe di un taccuino dove l’ultimo boss stragista di Cosa Nostra annotava numeri di telefono, nomi e sigle.

Nomi, numeri, cifre e sigle che adesso dovranno essere decifrati dagli inquirenti ma, per i più ottimisti, potrebbe trattarsi di un reperto molto importante anche se è difficile non ipotizzare che sia in questo primo covo, che nel secondo trovato ieri sempre a Campobello di Mazara (nel terzo trovato oggi, abitato fino a giugno e attualmente vuoto e in vendita, e nei prossimi che emergeranno successivamente), non sia avvenuta una vera e propria opera di bonifica da parte della fitta rete di fiancheggiatori dell’ex primula rossa, scattata subito dopo l’arresto nella clinica La Maddalena di Palermo.

Trovate in 72 ore tre case-rifugio dell'ex primula rossa. Cosa c’è nell’agenda trovata nel covo di Messina Denaro: nomi, numeri di donne e spese nel libro mastro del boss. Redazione su Il Riformista il 19 Gennaio 2023

Qualche spunto per gli investigatori è emerso dopo aver setacciato ogni angolo dell’ultimo covo dove Matteo Messina Denaro si rifugiava (con molta disinvoltura) a Campobello di Mazara, a pochi chilometri dalla sua Castelvetrano. Nell’abitazione, dopo 48 ore di ricerche, i carabinieri del Ros (coadiuvati dai Ris, reparto investigazioni scientifiche) hanno trovato una sorta di libro mastro, ovvero un taccuino dove l’ultimo boss stragista di Cosa Nostra annotava numeri di telefono, nomi e sigle.

Tra i documenti ritrovati nell’appartamento di via CB 31 è spuntato questo taccuino da cui emergerebbe una rete di relazioni del capomafia in fuga per 30 anni. Nomi, numeri, cifre e sigle che adesso dovranno essere decifrati dagli inquirenti ma, per i più ottimisti, potrebbe trattarsi di un reperto molto importante anche se è difficile non ipotizzare che sia in questo primo covo, che nel secondo trovato ieri sempre a Campobello di Mazara (nel terzo trovato oggi, abitato fino a giugno e attualmente vuoto e in vendita, e nei prossimi che emergeranno successivamente), non sia avvenuta una vera e propria opera di bonifica da parte della fitta rete di fiancheggiatori dell’ex primula rossa, scattata subito dopo l’arresto nella clinica La Maddalena di Palermo.

Intanto proseguono le indagini per individuare la rete di fiancheggiatori di Messina Denaro. I carabinieri dei Ros, coordinati dalla procura di Palermo (procuratore della Repubblica, Maurizio de Lucia e l’aggiunto Paolo Guido), stanno visionando con attenzione il taccuino ritrovato nell’appartamento ben arredato in cui ha vissuto fino a poche ore prima della cattura il boss di Castelvetrano. Al momento dall’agenda sembra essere emersa una fitta rete di relazioni, anche o soprattutto sentimentali, che “U’ siccu” avrebbe intrattenuto negli ultimi mesi.

Stando a quanto riferisce l’Agi, alcuni appunti presenti nel taccuino risalirebbero anche al 2016. Nell’appartamento sono stati trovati anche altri documenti, tra cui svariati “pizzini” con nomi, numeri di telefono (donne e medici) e contabilità varia (spese di viaggio soprattutto). Terminati infine i rilievi nel secondo “covo” – in via Toselli a Campobello – hanno terminato i rilievi scientifici nel vano blindato, nascosto da una porta blindata e occultato da un armadio, alla ricerca di tracce organiche e impronte digitali. L’esito -al momento – non è ancora noto ma i rilievi sarebbero a buon punto.

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per corriere.it il 19 gennaio 2023.

Saranno le impronte digitali a dare la conferma se la camera blindata trovata ieri in un appartamento del centro di Campobello di Mazara, ad appena un chilometro dalla «residenza ufficiale» del capomafia, sia stato il nascondiglio segreto di Matteo Messina Denaro. Finalmente, dopo l’arresto, è possibile fare queste comparazioni: da lì verrebbe la certezza, e i carabinieri del Ris sono al lavoro.

 Se invece non ci fossero tracce dell’ex latitante, nemmeno di altro genere, resterebbero gli altri indizi che hanno portato gli investigatori nel piccolo bunker di via Maggiore Toselli, nascosto dietro il fondo scorrevole di un armadio attaccato alla parete di una stanza. Nel quale però non sarebbe stato trovato il vagheggiato «tesoro del boss»: né soldi, né i tradizionali pizzini della corrispondenza mafiosa, o addirittura l’archivio di Totò Riina che secondo alcuni pentiti sarebbe stato ereditato da Messina Denaro. Pare ci fossero appunti e qualche carta ancora da interpretare, alcuni monili e pietre apparentemente preziose, pezzi di argenteria, custodie di gioielli e scatole altrettanto vuote.

Poco prima dell’ora di pranzo gli investigatori del Gico e del Ros sono arrivati a colpo sicuro nell’anonima palazzina a due piani tra i vicoli del paese, di proprietà di Errico Risalvato, 71 anni, nato a Castelvetrano come Messina Denaro, già arrestato nel 1998, coimputato del boss insieme ad altri presunti complici, processato e assolto nel 2001. Diciotto anni dopo, nel 2019, è stato perquisito in una maxi-operazione della polizia contro una rete di ipotetici favoreggiatori dell’ex latitante, proprio nella casa di via Maggiore Toselli dove ora abita anche la figlia.

 Ipotesi ripulitura

Ieri, all’arrivo di finanzieri e carabinieri, Risalvato ha subito consegnato la chiave della porta blindata protetta dall’armadio a muro. Ed è saltata fuori una camera abbastanza grande da contenere una persona che si vuole nascondere, forse sfuggita (se già c’era) alla perquisizione di tre anni fa.

 Di fronte a quei pochi valori (almeno rispetto alle attese) e alle scatole per lo più vuote, Risalvato ha sostenuto che si tratta di una sorta di ripostiglio-magazzino sicuro, utilizzato da lui e dalla sua famiglia. Nessun accenno a Matteo Messina Denaro. E il fatto che gli inquirenti non abbiano trovato quello che speravano di trovare — come sembra dalle poche indiscrezioni che filtrano sull’indagine segreta — non significa che quel nascondiglio non sia stato utilizzato dal boss. Perché dal suo arresto alla perquisizione, ordinata appena è arrivata l’informazione sull’esistenza del bunker, sono comunque trascorse 48 ore; un tempo sufficiente a chiunque per «alleggerire» la camera blindata dall’eventuale contenuto che si voleva proteggere e portarlo altrove.

Messina Denaro, i covi, i messaggi criptati e i pizzini dell’autista. L’ultima frase: «È finita». Giovanni Bianconi, nostro inviato su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

Le nuove perquisizioni nei covi del boss dopo l'arresto. Nella casa anche un quadro del Joker 

Oltre all’agenda, ai fogli manoscritti e al resto dei documenti trovati nell’ultimo rifugio di Matteo Messina Denaro, sarà l’esame dei telefonini utilizzati dall’ex latitante a svelare — nelle speranze degli inquirenti — la rete di complicità e protezioni del capomafia. Insieme ai controlli sulla lunga lista di nomi e numeri trovati addosso al suo autista Giovanni Luppino, fermato con lui e per il quale ieri il giudice delle indagini preliminari ha ordinato la permanenza in carcere; su quell’uomo, ha scritto il gip, si allungano ombre che «lasciano presagire un coinvolgimento nelle dinamiche mafiose e una possibile partecipazione al sodalizio». Nel frattempo proseguono le perquisizioni non solo nei covi del boss (anche con l’aiuto del georadar, per cercare segnali di eventuale materiale nascosto sottoterra o dentro i muri) ma pure a persone considerate in qualche modo a lui collegate. Compreso un avvocato massone radiato dall’Ordine, proprietario di una casa sul litorale in cui si ipotizza che il capomafia si sia nascosto in passato.

Messaggi criptati

Sui due cellulari recuperati dai carabinieri nell’appartamento di vicolo San Vito, a Campobello di Mazara, in cui Messina Denaro ha vissuto gli ultimi mesi di libertà, potrebbero essere stati installati programmi di messaggistica criptata, anche vocale; sarebbe il segno di un’evoluzione delle comunicazioni criminali anche da parte dell’ultimo padrino corleonese, cresciuto alla scuola di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Dallo sviluppo dei tabulati telefonici si risalirà invece alle chiamate fatte e ricevute, con l’obiettivo di individuare nuovi contatti e attribuire loro un ruolo nella cerchia del boss. La scoperta del covo precedente, quello di via San Giovanni sempre a Campobello, utilizzato fino a giugno 2022, ha consentito di risalire anche a un ulteriore telefono, intestato a un morto: quello con il quale Messina Denaro interloquì con il traslocatore che ha portato la polizia a individuare l’appartamento. Quell’uomo ha conservato il numero e anche un paio di messaggi vocali ricevuti dal sedicente Andrea Bonafede quando l’ha cercato per organizzare il trasporto dei mobili (compresi gli attrezzi da palestra con cui il ricercato si teneva in forma) da una casa all’altra. Arredate allo stesso modo, cucina compresa. E alle pareti i simboli delle sue icone cinematografiche; oltre al quadro con l’immagine di Marlon Brando nel film Il padrino ce n’era pure uno di Joker con il motto del protagonista: «C’è sempre una via d’uscita, ma se non la trovi sfonda tutto».

Il cambio delle case

L’appartamento di via San Giovanni fu affittato nl 2015 dal vero Andrea Bonafede — l’uomo che ha ceduto la propria identità al latitante — probabilmente per sé dopo la separazione dalla moglie. Lì qualche tempo dopo è arrivato Matteo Messina Denaro, forse in data prossima alla prima operazione per problemi oncologici nell’ospedale di Mazara del Vallo, a novembre 2020. Proprio la necessità di cure specialistiche e i problemi di salute sempre più preoccupanti potrebbero aver spinto il latitante a tornare nella terra d’origine, e cercare appoggi tra vecchie conoscenze e sotto le mentite spoglie di una persona realmente esistente. Cambiando più volte dimora. Nella stessa via, al portone accanto, abita Giovanni Luppino, fermato lunedì scorso insieme al capomafia fuori dalla clinica La Maddalena di Palermo, dove l’aveva accompagnato per una seduta di chemioterapia. Era la prima volta che lo faceva e non sapeva che quel sedicente «Stefano» fosse l’uomo più ricercato d’Italia, ha detto al giudice che non ha creduto a una parola della sua difesa. Tranne forse le ultime che gli ha rivolto il boss quando i due si sono visti circondati dai carabinieri; alla domanda se fossero lì per lui il capomafia ha risposto: «Sì, è finita».

"Pizzini sospetti"

 Il fatto stesso che l’agricoltore-autista avesse con sé due telefonini spenti e «in modalità uso aereo», insieme a un coltello a serramanico dalla lama di 18 centimetri «suggeriscono — secondo il gip — che Luppino fosse talmente consapevole dell’identità del Messina Denaro da camminare armato e ricorrere ad un contegno di massima sicurezza per evitare possibili tracciamenti telefonici». Il lungo elenco di appunti, nomi e numeri telefonici che Luppino aveva con sé, da identificare ed eventualmente scandagliare, fornisce ulteriore lavoro per i carabinieri e suscitano nel giudice ulteriori sospetti; si tratta di documenti «dal contenuto oscuro e di estremo interesse investigativo, che potrebbero schiudere lo sguardo a nuovi scenari». Molti dei riferimenti scritti dall’accompagnatore del capomafia potrebbero anche semplicemente riferirsi al suo lavoro di coltivatore di olive e vigneti, ma ce n’è uno che a prima vista lo accosta immediatamente all’ex capomafia, a ulteriore smentita di una versione che il gip bolla come «macroscopicamente inveritiera». In una lista della spesa vergata a mano, insieme a candeggina, detersivo per pavimenti e sacchetti per l’immondizia è segnata pure una «guarnizione sportello lato guida di Giulietta 1,6 ultima serie». Luppino possiede una Fiat Brava, mentre Messina Denaro aveva proprio una Giulietta. Ma al di là di questi particolari, il giudice ha deciso che l’autista del boss deve restare in carcere perché «nell’ambito di un’operazione ancora in corso con la ricerca dei covi e della rete di fiancheggiatori che hanno reso possibile una latitanza così lunga, può senz’altro presumersi che egli sia custode di segreti e prove che farebbe certamente sparire se lasciato libero». Tanto più mentre «occorre svolgere accertamenti sui pizzini dal contenuto sospetto».

Estratto dell’articolo di Fabio Amendolara e Marco Bova per “La Verità” il 21 gennaio 2023.

[…] «C’è sempre una via d’uscita, ma se non la trovi sfonda tutto», era il monito di Joker che Messina Denaro aveva appeso su una parete del suo ultimo covo-alcova (lì sono stati rinvenuti Viagra e scatole di preservativi). Deve essersene dimenticato, però, quando i carabinieri del Ros l’hanno circondato nella clinica di Palermo in cui si stava curando per le gravi patologie che l’hanno colpito (ieri in carcere è stato sottoposto alla prima seduta di chemioterapia).

«È finita», avrebbe detto Messina Denaro al suo autista Giovanni Luppino, il broker di olio d’oliva arrestato insieme a lui lunedì scorso. È stato Luppino a raccontarlo al gip che ieri ha convalidato l’arresto e disposto la misura cautelare del carcere.

 Luppino ha anche detto che fino al momento dell’arresto non conosceva la vera identità del suo passeggero: «L’ho conosciuto mesi fa, me lo presentò il geometra Bonafede con il nome di Francesco e da allora non l’ho più rivisto». Prima del viaggio a Palermo, però, all’alba, quell’uomo si era presentato a casa sua chiedendogli un passaggio per la clinica. All’arrivo dei carabinieri Luppino avrebbe chiesto a Francesco: «Cercano te?». E alla domanda il boss avrebbe risposto «sì, è finita».

 Agli inquirenti, però, questo racconto deve essere apparso come una supercazzola. «La versione dei fatti fornita dall’indagato è macroscopicamente inveritiera», valuta il gip Fabio Pilato, «non essendo credibile che qualcuno, senza preavviso, si presenti alle 5 del mattino a casa di uno sconosciuto per chiedergli la cortesia di accompagnarlo in ospedale per delle visite programmate».

E Luppino non deve aver tenuto in conto che i carabinieri hanno ritrovato nella sua automobile due telefoni cellulari «in modalità aereo», ovvero senza segnale, prima di spegnerli. Particolare che suggerisce come «fosse talmente consapevole dell’identità di Messina Denaro», sottolineano gli inquirenti, «da ricorrere a un contegno di massima sicurezza per evitare possibili tracciamenti telefonici».

 Inoltre, nell’ordinanza, viene evidenziato che era armato di coltello serramanico. Secondo il gip, «può senz’altro presumersi che egli sia custode di segreti e prove che farebbe certamente sparire se lasciato libero. A ciò si aggiunga che occorre svolgere degli accertamenti sui pizzini dal contenuto sospetto rinvenuti al momento della perquisizione».  […]

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 21 gennaio 2023.

Oltre all’agenda, ai fogli manoscritti e al resto dei documenti trovati nell’ultimo rifugio di Matteo Messina Denaro, sarà l’esame dei telefonini utilizzati dall’ex latitante a svelare — nelle speranze degli inquirenti — la rete di complicità e protezioni del capomafia.

 Insieme ai controlli sulla lunga lista di nomi e numeri trovati addosso al suo autista Giovanni Luppino, fermato con lui e per il quale ieri il giudice delle indagini preliminari ha ordinato la permanenza in carcere; su quell’uomo, ha scritto il gip, si allungano ombre che «lasciano presagire un coinvolgimento nelle dinamiche mafiose e una possibile partecipazione al sodalizio».

[…] L’appartamento di via San Giovanni fu affittato nel 2015 dal vero Andrea Bonafede — l’uomo che ha ceduto la propria identità al latitante — probabilmente per sé dopo la separazione dalla moglie. Lì qualche tempo dopo è arrivato Matteo Messina Denaro, forse in data prossima alla prima operazione per problemi oncologici nell’ospedale di Mazara del Vallo, a novembre 2020.

 […] Nella stessa via, al portone accanto, abita Giovanni Luppino, fermato lunedì scorso insieme al capomafia fuori dalla clinica La Maddalena di Palermo, dove l’aveva accompagnato per una seduta di chemioterapia. Era la prima volta che lo faceva e non sapeva che quel sedicente «Stefano» fosse l’uomo più ricercato d’Italia, ha detto al giudice che non ha creduto a una parola della sua difesa. Tranne forse le ultime che gli ha rivolto il boss quando i due si sono visti circondati dai carabinieri; alla domanda se fossero lì per lui il capomafia ha risposto: «Sì, è finita».

[…] Molti dei riferimenti scritti dall’accompagnatore del capomafia potrebbero anche semplicemente riferirsi al suo lavoro di coltivatore di olive e vigneti, ma ce n’è uno che a prima vista lo accosta immediatamente all’ex capomafia, a ulteriore smentita di una versione che il gip bolla come «macroscopicamente inveritiera». In una lista della spesa vergata a mano, insieme a candeggina, detersivo per pavimenti e sacchetti per l’immondizia è segnata pure una «guarnizione sportello lato guida di Giulietta 1,6 ultima serie». Luppino possiede una Fiat Brava, mentre Messina Denaro aveva proprio una Giulietta. […]

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 20 Gennaio 2023.

[…] dopo la cattura è arrivata alla polizia la testimonianza che ha portato alla scoperta di un’altra casa a Campobello di Mazara dove Matteo Messina Denaro ha vissuto prima di trasferirsi nell’appartamento di vicolo San Vito acquistato attraverso Andrea Bonafede, il quasi coetaneo ora indagato per associazione mafiosa, dove ha abitato fino a lunedì scorso. Dove nel salotto c’era anche una riproduzione incorniciata di un altro Padrino , quello interpretato da Marlon Brando.

 […] siamo al terzo covo del capomafia nel raggio di due chilometri.

 […] Stavolta si tratta di un appartamento al primo piano di una palazzina, con annesso garage, preso in affitto da un signore originario di Campobello che vive in Svizzera da quarant’anni, e da allora disabitato.

La polizia c’è arrivata attraverso la testimonianza di chi ha organizzato il trasloco da un appartamento all’altro e nei giorni scorsi, vedendolo in tv, ha riconosciuto il volto di Messina Denaro in colui che gli aveva chiesto il lavoro, a giugno dello scorso anno.

 Così ha detto agli investigatori, che appena ricevuta la notizia hanno avvisato i magistrati; dopodiché, alla presenza del procuratore aggiunto Paolo Guido, gli agenti del Servizio centrale operativo e della Polizia scientifica hanno avviato la perquisizione dell’appartamento. Trovandolo vuoto, pronto a essere ceduto a un nuovo inquilino che però non è ancora arrivato.

[…]

nelle carte sequestrate nella casa di vicolo san Vito […] Non ci sono infatti solo le annotazioni nell’agenda dove l’ex imprendibile di Cosa nostra alternava considerazioni personali e persino sfoghi sui suoi rapporti (difficili o inesistenti) con la figlia a realtà di tutt’altro genere: nomi, soprannomi, numeri di telefono.

 Ci sono anche post-it , fogli sparsi o raccolti in alcune cartelline con note e promemoria, cifre che potrebbero celare nomi codificati e un’apparente contabilità. […]

I contatti telefonici, in chiaro o criptati, andranno attribuiti ad altrettante persone e incrociati con quanto risulterà dall’esame dei telefonini trovati nell’appartamento-covo. Nomi, sigle e soprannomi dovranno essere individuati e decifrati per collegarli al boss in due possibili direzioni: da una parte la rete di protezione per garantire sicurezza e assistenza della sua latitanza; dall’altra l’attività di Messina Denaro in un senso più strettamente mafioso, vale a dire affari, interessi imprenditoriali, racket. […]

Le prime approssimative stime degli investigatori calcolano spese medie mensili di 10.000 euro, e le rendicontazioni confermano (insieme alle molte ricevute conservate) un’attenzione quasi maniacale per le spese. Tipo una cena al ristorante pagata 700 euro, probabile conto pagato a tutti i presenti.

[…]

Mafia: trovata l'auto di Messina Denaro

(ANSA il 21 gennaio 2023) - È stata ritrovata dalla polizia la Giulietta del boss Matteo Messina denaro. Proprio grazie alla macchina gli investigatori riuscirono a risalire al primo covo del boss individuato a Campobello di Mazara.

 Nel borsello trovato al capo mafia dopo l'arresto c'era una chiave. Dal codice della chiave, i pm sono arrivati alla Giulietta, poi gli investigatori hanno ricostruito, grazie un sistema di intelligenza artificiale, gli spostamenti del veicolo del capo mafia risalendo al suo nascondiglio di vicolo San Vito. Ma solo ora la Giulietta è stata ritrovata. Sul posto c'è il procuratore aggiunto Paolo Guido.

La Giulietta era parcheggiata in una sorta di garage, a poca distanza dalla casa di Giovanni Luppino, l'incensurato che ha accompagnato con la sua auto, una Fiat bravo, Matteo Messina Denaro alla clinica dov'è entrambi sono stati arrestati lunedì. L'ipotesi investigativa è che il capomafia, il giorno del blitz, sia andato in auto dal suo covo in vicolo San Vito a casa di Luppino - che vive a poca distanza dal luogo in cui la Giulietta è stata scoperta - e che insieme all'autista poi si sia diretto alla casa di cura per le terapie.

Ritrovata la Giulietta di Messina Denaro: "Comprata di persona". I movimenti del boss ricostruiti grazie all'auto. Era "nascosta" nel garage del figlio di Luppino. Valentina Raffa il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ragusa. Viaggi all'estero, spostamenti alla guida di una Giulietta nera o con l'autista, cene si sospetta non da solo visti gli importi esosi delle ricevute, e colazione al bar. Matteo Messina Denaro, almeno negli ultimi due anni in cui ha vissuto a Campobello di Mazara, nel Trapanese, sembra incredibilmente avere condotto una vita normale, quella di un cittadino agiato. Che, evidentemente, non è incappato in nessun controllo in strada dove, anche se si nascondeva dietro la falsa identità di Andrea Bonafede, il suo prestanome, ora indagato a piede libero, con molta probabilità sarebbe stato riconosciuto. Le indagini sono complesse e a più livelli. È un puzzle in divenire, enorme e complicatissimo, quello che stanno cercando di comporre gli investigatori dell'Arma, coordinati dalla procura di Palermo, per far luce sui 30 anni di latitanza dell'ex primula rossa.

I primi tasselli sono stati inseriti a partire dal giorno dell'arresto, il 16 gennaio, nella clinica «La Maddalena» di Palermo, dove da tempo il boss dei boss si sottoponeva a sedute chemioterapiche. Ieri una nuova tessera: la Giulietta nera del padrino. Era parcheggiata, dalla mattina dell'arresto, in un garage di fronte alla casa del suo uomo di fiducia che gli faceva da autista, Giovanni Luppino, arrestato in flagrante insieme al padrino. Il garage, intestato al figlio di Luppino, è anche adiacente all'abitazione di via San Giovanni n. 260 in cui l'ultimo stragista del '92 e '93 ha vissuto fino a giugno 2021. In quella data, poi, si è trasferito in vicolo San Vito, dove ha abitato fino all'arresto. All'auto si è arrivati dalla chiave che il capo mafia aveva nel borsello. Grazie al codice della chiave, infatti, gli investigatori, usando un sistema di intelligenza artificiale, hanno ricostruito gli spostamenti di Messina Denaro. Il giorno dell'arresto il boss dei boss ha guidato fino a casa di Luppino per poi parcheggiare in garage e recarsi in clinica a Palermo a bordo della Fiat Bravo guidata dall'autista di fiducia.

Ad acquistare la Giulietta è stato Matteo Messina Denaro in persona recandosi in una concessionaria di Palermo nel gennaio 2022. I documenti dell'auto, intestata alla madre del vero Bonafede, sono stati trovati nel covo di vicolo San Vito in cui viveva il padrino.

La macchina è stata posta sotto sequestro dalla polizia e sono stati effettuati accertamenti per individuare all'interno tracce che possano condurre a qualche fiancheggiatore. Sul luogo il procuratore aggiunto Paolo Guido, che coordina l'inchiesta. L'abitazione adiacente al garage e il cortile interno sono stati setacciati con un geo-radar per individuare intercapedini o buchi nei quali potrebbero essere nascosti documenti di rilievo. Si sta passando a setaccio il materiale acquisito nelle perquisizioni. E si viene a scoprire che il boss dei boss ha viaggiato fuori dall'Italia. Nella casa di vicolo San Vito c'erano biglietti aerei per l'Inghilterra e il Venezuela. Nell'abitazione, la stessa in cui erano affisse le stampe del film Il padrino e di Joker, c'erano anche molti libri. Di storia, filosofia e una biografia del premier russo Putin. I tasselli del puzzle mano a mano saltano fuori, ma sarà difficile completarlo. Mancano le tessere che rivelano i volti dei «pezzi grossi», quelli che siedono dietro le scrivanie, che infamano la divisa che dovrebbero onorare, quelli, forse, che si trovano scritti nella famosa agenda rossa del giudice Paolo Borsellino, sottratta dopo la strage di via D'Amelio.

Matteo Messina Denaro, nel covo le biografie di Hitler e Putin: i libri che portava con sé da un covo all’altro. Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2023.

Decine i volumi trovati nella casa di Matteo Messina Denaro. Nei carteggi si definiva «il Malaussène di tutti», citando il «capro espiatorio» del romanzo di Daniel Pennac. Nelle lettere a “Svetonio” il rimpianto di non essere andato oltre la terza media

Sfoggia una formazione classica, parla bene, ma ha solo la terza media. Non ha proseguito gli studi e se ne è sempre rammaricato. Matteo Messina Denaro, l’ex primula rossa di Cosa nostra arrestato lunedì dopo 30 anni di latitanza, ama i libri. Tanto da portarseli dietro da un covo all’altro. Nell’ultimo, scoperto a Campobello di Mazara il giorno dopo la sua cattura, ne sono stati trovati a decine. Biografie di dittatori del passato e autocrati del presente. La vita di Vladimir Putin e quella di Hitler, romanzi, testi di filosofia e di attualità.

L’interesse per la cultura

D’altronde l’interesse del boss per la cultura non è una novità per chi, in trent’anni, gli ha dato la caccia. Nelle cinque lettere scritte tra il 2004 e il 2006 all’ex sindaco di Castelvetrano Antonino Vaccarino, narcotrafficante, massone, amico fedele del padre don Ciccio Messina Denaro, incaricato dagli 007 di carpire la fiducia del latitante per arrivare al suo arresto, il capomafia, ignaro delle vere intenzioni del suo amico di penna, ostenta conoscenza della letteratura latina. E, nel carteggio in cui si mette a nudo, a Vaccarino attribuisce il nome di Svetonio, lo storico romano del De viris illustribus. «Tutte le persone che hanno contatti con me hanno dei nomi convenzionali, il suo è Svetonio, ciò la preserva da rischi inutili», scrive al suo interlocutore. Lui, più modestamente, si firma Alessio.

La citazione di Pennac

«Non amo parlare di me stesso e poi oramai è da anni che sono gli altri a parlare di me; credo, mio malgrado, di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto, ma va bene così, sono un fatalista e penso che era tutto scritto così, un uomo non può cambiare il proprio destino, l’importante è viverlo con dignità», dice a Svetonio, mostrando di conoscere il protagonista dei romanzi di Pennac, Benjamin Malaussène di professione «capro espiatorio».

Il rimpianto di non aver studiato

Usa uno stile forbito Alessio, tanto che per alcuni le lettere non sarebbero state farina del suo sacco: cita Jorge Amado, si richiama a Orazio e Virgilio. L’essere autodidatta però gli pesa. «Parlando dei miei mancati studi — scrive — si è toccato un punto dolente; veda, io qualche rimpianto nella mia vita ce l’ho, il non avere studiato è uno di essi, e stato uno dei più grandi errori della mia vita, la mia rabbia maggiore è che ero un bravo studente, solo che mi sono distratto con altro, se potessi ritornare indietro conseguirei la laurea senza margine di dubbio». «Oggi mi ritrovo ad avere letto davvero tanto. Ed essendo la lettura il mio passatempo preferito, a livello culturale mi definisco un buono a nulla (visto che non ho le basi) che se ne intende un po’ di tutto», dice.

L’ultimo messaggio a Vaccarino

Dopo l’arresto del boss Bernardo Provenzano, che aveva conservato decine di suoi pizzini, tutti finiti nelle mani della polizia, il capomafia di Castelvetrano annuncia a Vaccarino che non potranno più sentirsi. Solo dopo tempo scopre che Svetonio l’ha tradito. E allora, tolte le vesti di Alessio e messi da parte i classici, manda a Vaccarino un ultimo inquietante messaggio. Di certo farina del suo sacco: «La sua illustre persona fa già parte del mio testamento… in mia mancanza verrà qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti».

La Polizia scova l’autovettura di Messina Denaro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Gennaio 2023.

Tra i libri trovati nel covo di via Cb31, a Campobello, ultimo rifugio del capomafia, c'è anche una biografia del leader russo Vladimir Putin. Sono decine i libri rinvenuti nel covo di Messina Denaro, sugli argomenti più disparati, tra i quali anche alcuni testi storici.

Èstata ritrovata dalla Polizia la Alfa Romeo Giulietta del boss Matteo Messina Denaro. Proprio grazie alla chiave di un auto gli investigatori del Ros Carabinieri riuscirono a risalire al primo covo del boss, individuato a Campobello di Mazara. Nel borsello trovato al capomafia dopo l’arresto c’era una chiave. Dal codice della chiave, i pm sono arrivati alla Giulietta, poi gli investigatori hanno ricostruito, grazie ad un sistema di intelligenza artificiale, gli spostamenti del veicolo del capo mafia risalendo al suo nascondiglio di vicolo San Vito. Ma soltanto oggi è stata ritrovata la Giulietta di colore nero . Tra i libri trovati nel covo di via Cb31, a Campobello, ultimo rifugio del capomafia, c’è anche una biografia del leader russo Vladimir Putin. Sono decine i libri rinvenuti nel covo di Messina Denaro, sugli argomenti più disparati, tra i quali anche alcuni testi storici e di filosofia (Senofonte, Platone). Nel primo covo di Matteo Messina Denaro, sono stati trovati diversi biglietti aerei intestati ad Andrea Bonafede. Le destinazioni, secondo alcune indiscrezioni, erano Inghilterra e Sudamerica (molto probabilmente Venezuela).

La macchina del boss mafioso è stata trovata all’interno di un cortile in via San Giovanni 260, di fronte al secondo covo di Matteo Messina Denaro individuato a Campobello di Mazara. Nel terreno intestato al figlio dell’autista Giovanni Luppino, una sorta di autorimessa privata, dove era parcheggiata la Giulietta tra trattori e rottami vari. Dietro l’angolo, alla fine di via San Giovanni, abita invece la figlia di Luppino. l’incensurato che con la sua auto, una Fiat Bravo, aveva accompagnato Matteo Messina Denaro alla clinica di Palermo dove entrambi sono stati arrestati lunedì.

Tra gli appunti trovati addosso a Giovanni Luppino, c’era anche un biglietto con il nome dell’oncologo Vittorio Gebbia, il medico della clinica La Maddalena che aveva in cura il boss Matteo Messina Denaro,. Ma c’erano anche numeri per le prenotazioni nella clinica. Gebbia ha sempre dichiarato di non sapere che fosse il boss ma che lo conosceva come Andrea Bonafede.

l’arresto di Giovanni Luppino, autista di Matteo Messina Denaro

L’auto di Matteo Messina Denaro è intestata alla madre di Andrea Bonafede. Al veicolo si è risaliti attraverso i codici della chiave che potrebbero ora permettere anche di ricostruire alcuni spostamenti del boss. A gennaio del 2022 il boss Matteo Messina Denaro avrebbe personalmente acquistato, in una concessionaria di Palermo, la Giulietta Alfa Romeo oggi individuata e sequestrata dalla Polizia, utilizzata dal boss mafioso nell’ultimo anno di latitanza. I documenti della macchina non erano all’interno dell’autovettura, e sono stati ritrovati dai Carabinieri nel covo di vicolo San Vito individuato martedì scorso.

Secondo quanto appurato dagli inquirenti il boss mafioso Matteo Messina Denaro avrebbe acquistato la Giulietta, nel gennaio del 2022 presso una concessionaria di Palermo. Avrebbe ceduto in permuta una Fiat 500 e versato 10mila euro in contanti. Il contratto di acquisto è intestato a una anziana disabile, Giuseppa Cicio, vedova di Giacomo Bonafede e madre di Andrea Bonafede, la cui identità è stata usata dal boss fino al momento dell’arresto.

al centro il procuratore aggiunto Paolo Guido

Sul posto si è recato il procuratore aggiunto Paolo Guido per coordinare la perquisizione dell’auto. La zona è stata transennata e sono al lavoro gli specialisti della Polizia Scientifica per isolare e repertare ogni elemento utile alle indagini. L’ipotesi investigativa è che il capomafia Messina Denaro, il giorno del blitz, sia andato in auto dal suo covo in vicolo San Vito a casa di Luppino – che vive a poca distanza dal luogo in cui la Giulietta è stata scoperta – e che insieme all’autista poi si sia diretto alla casa di cura per le terapie.

Due cellulari, pizzini, ventidue fogli manoscritti con nomi in codice ma anche con nomi e cognomi di alcuni medici. E ancora post-it con numeri di cellulari. 200 euro, la foto di una donna, biglietti da visita. È l’ importante materiale sequestrato a Giovanni Luppino , accusato di favoreggiamento e procurata inosservanza di pena, da ieri in carcere su disposizione del gip.

Il materiale sequestrato dai Carabinieri, è ritenuto dai pm che hanno convalidato il provvedimento “indispensabile al fine della prosecuzione delle indagini per finalità probatorie trattandosi di beni rinvenuti nella disponibilità dell’autista e accompagnatore personale del noto capo mafia latitante da 30 anni e dovendosi sui beni in sequestro procedere a tutti gli accertamenti anche di tipo tecnico utili a consolidare elementi di prova a carico nelle indagini in corso sul predetto latitante nonché sulla sua stessa «rete di protezione» che ne ha di fatto garantito la latitanza“. Redazione CdG 1947

Da gds.it il 25 Gennaio 2023.

Continuano le perquisizioni a lungo raggio da parte dei militari dell'Arma in quelle che potrebbero essere state le abitazioni rifugio utilizzate da Matteo Messina Denaro e in questo contesto anche nelle abitazioni di persone vicine all'ex boss dei due mondi di Castelvetrano.

 In una delle ultime perquisizioni eseguite da personale del Ros e del Comando nucleo investigativo di Trapani sono stati rinvenuti chiusi in una scatola gli occhiali da sole Ray-Ban di Matteo Messina Denaro con i quali è stato sempre fotografato. Occhiali che nascondevano lo strabismo di cui pare soffrisse e una bottiglia di champagne.

La scatola è stata rinvenuta durante una perquisizione nella casa natale del boss, quella dove viveva fino al giorno prima che si desse latitante con i genitori, il fratello e la sorella.

 Matteo Messina Denaro e i suoi problemi agli occhi

A proposito della miopia dell'ex boss, oggi pare del tutto attenuata anche se le recenti cronache riportano che lo stesso si sia sottoposto a visite oculistiche nell'ultimo periodo anche a La Maddalena, dove lunedì 16 gennaio è stato arrestato. Le cronache riportano che il 6 gennaio 1994, otto mesi dopo essersi dato latitante, Matteo Messina Denaro si sia presentato con il proprio nome alla clinica Barraquer di Barcellona per una visita agli occhi. Qui si sarebbe sottoposto ad un controllo facendosi registrare come "Matteo Messina". La circostanza era in un verbale di interrogatorio del collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori, di Mazara del Vallo.

Il collaboratore condivise con il boss di Castelvetrano la latitanza tra il settembre 95 all' aprile del 1996. Sinacori raccontò della forte miopia di cui era affetto Messina Denaro e rivelò che il boss «si sarebbe dovuto recare in Spagna». All'epoca della confessione di Sinacori Matteo Messina Denaro era in procinto di effettuare un secondo viaggio all'estero per un intervento seguito a quella visita del 1994.

Nel covo del boss Messina Denaro champagne, libri e collezioni di occhiali griffati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Gennaio 2023

A Castelvetrano, i carabinieri, durante la perquisizione del covo di Matteo Messina Denaro, trovano una collezione di Ray-Ban e le tracce di una vita all'insegna del lusso

Perquisizioni dei carabinieri nella casa di famiglia di Matteo Messina Denaro, a Castelvetrano, dove il boss ha passato gli anni precedenti alla latitanza e dove viveva con la madre. Trovati i classici occhiali da sole Ray-Ban, con i ‘vetri’ marroni, altre lenti, una foto nota di un boss giovane con quegli occhiali, accanto al quella del padre Francesco, una bottiglia di champagne Crystal , libri tra i quali “Facce da mafiosi“.

Sui social compare invece lo sfogo di chi ha “incrociato”, senza saperlo, il boss superlatitante. È la responsabile dell’Area legale della clinica La Maddalena di Palermo, dove Matteo Messina Denaro si recava sotto falso nome per sottoporsi a cure chemioterapiche.  “Le responsabilità e le risposte sono scritte tutte nella cartella clinica della Repubblica italiana. Per la quale – mi pare evidente – non c’è schema di terapia che possa condurre a guarigione“. Lo scrive, nella sua pagina Facebook, Alessia Randazzo.

“Al signor Andrea Bonafede – aggiunge – avrei da dire una sola cosa: se, facendoti prestare una vita che non meriti, nel cammino della malattia ti fossi specchiato in ognuno dei tuoi errori, adesso parla, fallo ora che sai che non manca molto al momento in cui quel bambino e tutti gli altri te li ritroverai davanti”. Poi se la prende con le illazioni piovute sulla clinica: “Ci sono persone che da oltre vent’anni escono di casa ogni mattina per servire e non per apparire e che con il loro lavoro hanno dimostrato concretamente che il miglior medico in Sicilia non è più l’aereo. Non è la prima, né sarà l’ultima volta che saremo chiamati a pagare un prezzo per i nostri sforzi, per quel peso quotidiano che ci opprime l’anima, ma che abbiamo imparato a trasformare in abbraccio. Le spalle oramai si sono fatte larghe“. 

Redazione CdG 1947

Bonafede "uomo d'onore". In silenzio per 15 minuti. Non parla nemmeno il prestanome. Trovata la collezione di Ray-Ban di Messina Denaro. Valentina Raffa il 26 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ai «niente saccio» (niente so) degli indagati fa eco, nell'interrogatorio di garanzia di ieri, la scena muta di Andrea Bonafede, il prestanome dell'ultimo stragista del'92 e '93 Matteo Messina Denaro accusato di associazione mafiosa. Non ha ceduto dinanzi al Gip e al pm Piero Padova. Appena quindici minuti di silenzio ed era tutto terminato. Avvalersi della facoltà di non rispondere era nei suoi diritti, ma ciò appare in linea con quello che pensa di lui il Gip, ovvero che sia un «uomo d'onore riservato», fidatissimo del boss dei boss, e, come tale, non parla. E non lo fa neanche il capomafia, che ieri sarebbe dovuto comparire in videoconferenza dal carcere dell'Aquila all'udienza preliminare del processo Xydi celebrato a Palermo. È il procedimento che vede coinvolti padrini e gregari della mafia agrigentina, e tra gli imputati spicca il nome dell'avvocata Angela Porcello, legale dei boss, che è stata condannata a 15 anni e 4 mesi per associazione mafiosa. La posizione del capomafia era stata stralciata in quanto latitante.

Le indagini proseguono per ricostruire la latitanza, che si sarebbe concentrata in un territorio ristretto trapanese e, almeno negli ultimi 10 anni, in un fazzoletto di terra attorno alla sua Castelvetrano. Era lì, riverito dai suoi fedelissimi, ben voluto dai tanti che «ci hanno mangiato» con le sue intuizioni speculative in diversi settori, dal commercio alle energie rinnovabili, al turismo, attività che si affiancavano a quelle più palesemente illecite come droga e estorsioni.

I Ros hanno perquisito la casa di via Alberto Mario, a Castelvetrano, in cui il padrino viveva con la madre. Tra le sue cose c'era la collezione di occhiali Ray-ban, uno dei quali indossato in una delle poche foto che si hanno, e poi una sua foto esposta su un mobile accanto a quella del padre «don Ciccio», capo del mandamento di Castelvetrano, dello champagne e una copia del libro «Facce di mafiosi» di Flavia Mantovan, 20 opere olio su tela, tra cui una ritraente Messina Denaro con Ray-ban e una corona. Frequentava la casa materna almeno nel 2012. Lo conferma al telefono l'ex dirigente generale di polizia Antonio del Greco, con un passato nelle Squadre mobili di Milano e Roma e un'esperienza nella Dia. Come ha dichiarato a Striscia la Notizia, del Greco ha ribadito che in quell'anno il super latitante viveva vicino a Castelvetrano. «Ero direttore della V zona di polizia di frontiera, operavo negli aeroporti dice del Greco -. A Palermo un conoscente mi disse che un parente del Trapanese aveva informazioni su Matteo Messina Denaro. Incontrai questa persona che sostiene che il latitante era miope e portava gli occhiali, per cui la foto che circolava andava corretta. Disse che andava a far visita alla madre e alla donna con cui aveva una figlia di 11 anni. Possedeva ristoranti, alberghi, supermercati, il porto di Marsala, intestati a prestanome. Diede anche dettagli sulle sim in uso a lui e informò che era di sua proprietà una struttura alberghiera vicino Trapani usata da funzionari di polizia e agenti. Ecco che veniva a sapere quando c'erano operazioni in zona. Possedeva due motoscafi che usava in caso di fuga per rifugiarsi in Tunisia». Del Greco inviò un'informativa ai superiori e restò in attesa di evoluzioni. Non ce ne furono. «La fonte si era resa disponibile ad accompagnare gli investigatori sui luoghi dice del Greco . Mi sollecitò perché il boss avrebbe potuto cambiare casa. Oggi ecco tanti riscontri».

I dettagli nel video dei Carabinieri. Quanto costa lo champagne di Messina Denaro, un Louis Roeder Cristal del 1999 da 350 euro. Piero de Cindio su Il Riformista il 25 Gennaio 2023

Si continua a scavare nella vita segreta del padrino di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro alla ricerca di indizi e prove utili a ricostruire gli anni della latitanza e le attività di Cosa Nostra. I Carabinieri di Trapani stanno passando al setaccio tutte le abitazioni sospette di Castelvetrano alla ricerca di altri nascondigli, tra le case perquisite c’è anche quella della madre del boss siciliano dove pare abbia trascorso gli ultimi anni prima di iniziare la sua latitanza durata trent’anni. Nella casa in via Alberto Mario i Carabinieri hanno trovato tra i vari oggetti anche una bottiglia di champagne impolverata.

Si tratta di un Louis Roeder Cristal del 1999 dal valore di circa 350 euro almeno secondo le ricerche sui portali specializzati. Lo Champagne fu creato da Louis Roederer II nel 1876 in esclusiva per lo zar Alexandr II. La Russia era storicamente un mercato importantissimo per la maison di Reims, che nel 1872 arrivò a esportare nel Paese addirittura 660mila bottiglie, ben un quarto dell’intera produzione.

Ritrovato anche il catalogo “Facce di Mafiosi”, la mostra della pittrice Flavia Mantovan tenutasi nel maggio del 2009 al Castello di Salemi. Nella casa che l’ha visto diventare uomo e boss anche le foto incorniciate di Matteo Messina Denaro da giovane e del padre Francesco, “Don Ciccio“, capo della cosca di Castelvetrano scomparso nel 1998. Tra gli oggetti impolverati di una vita tutta da ricostruire anche i famosi occhiali da sole a goccia che abbiamo visto indossati dal padrino nei pochi scatti fotografici che lo ritraggono. Non solo, anche dei documenti scritti a mano e firmati dal boss. Un altro pezzo del puzzle che va a incastrarsi con le altre cose finora rivenute nei cinque covi del boss. Poster del padrino, di Joker, ma anche la tazzina con la scritta: il padrino sono io. Piccoli pezzi di un’esistenza ancora da ricostruire e già al tramonto.

Piero de Cindio. Esperto di social media, mi occupo da anni di costruzione di web tv e produzione di format

 Da tgcom24.mediaset.it il 26 gennaio 2023.

 Nel covo di Matteo Messina Denaro, nel vicolo San Vito a Campobello di Mazara, ultimo rifugio del boss, i carabinieri hanno trovato anche una pistola revolver "Smith & Wesson" calibro 38 special, completa di 5 cartucce.

 L'arma, con matricola cancellata, è stata trovata durante una perquisizione. In casa il capomafia teneva anche 20 cartucce dello stesso calibro.

L'arma, consegnata al Ris per le analisi, era carica e occultata in un sottofondo di un mobile della cucina che è stata smontata totalmente. Gli accertamenti tecnici diranno se è stata usata per alcuni degli omicidi contestati al boss.

Il traslocatore.

Il traslocatore di Messina Denaro: «Gli dissi che ero in ritardo. La sua voce cambiò subito, ora ho brividi». Fabrizio Caccia, inviato a Mazara del Vallo (Trapani) su Il Corriere della Sera il 24 Gennaio 2023.

Il proprietario della ditta che spostò i mobili da un covo all’altro: conservo il suo vocale

Matteo Messina Denaro la mattina del 24 maggio 2022 chiamò al telefono lui, Gianni Jihed, 33 anni, origini tunisine ma nato qui a Mazara del Vallo, sposato con Valentina, tre figli piccoli, titolare dell’azienda di traslochi «Casa Nuova», per spostare il suo covo di Campobello di Mazara (località che dista una quindicina di chilometri)da via San Giovanni 260 a vicolo San Vito. La ditta di traslochi è sull’elenco, il boss ha chiamato come un cliente normale.

Ricorda quella telefonata, signor Jihed? 

«Adesso sì che me la ricordo, dopo tutto il casino che è scoppiato». 

Lui come si presentò?

 «Non fece nomi, aveva una voce molto rilassata, disse che aveva bisogno di un trasloco a Campobello e mi mandò le foto dei mobili su Whatsapp con l’indirizzo di via San Giovanni 260». 

Mobili di lusso? 

«Macché, un letto, una lavatrice, il frigo con il famoso magnete “Il padrino sono io” e due armadi completamente vuoti. Roba economica tanto che gli feci un prezzo basso». 

Cioè? 

«Cinquecento euro, pagò in contanti alla consegna, mi disse che per la fattura mi avrebbe mandato poi i documenti e il codice fiscale che in quel momento non aveva con sé». 

Poi glieli ha mandati i documenti? 

«No. Su Whatsapp io lo registrai semplicemente come Preventivo Campobello». 

E come andò il trasloco?

 «Io ho tanti lavori, non potevo farlo subito, così prendemmo appuntamento per la mattina del 4 giugno alle 7.30. Lui disse che i mobili si trovavano al primo piano della casa di via San Giovanni, perciò insieme al camion mandai anche il rimorchio con la scala aerea. Ma non andai io personalmente, per quella consegna incaricai due miei dipendenti e altri due li chiesi in prestito a un’altra ditta. Tutti ragazzi trentenni come me, che non l’hanno riconosciuto. Il camion del trasloco è parcheggiato qui fuori, se lo volete fotografare». 

E il 4 giugno come andò? 

«Quella mattina alle 7.10 gli mandai un Whatsapp per avvisarlo che saremmo arrivati con circa 20 minuti di ritardo. Mi inviò allora un messaggio vocale che ancora conservo sul telefonino e a risentirlo oggi mi fa davvero accapponare la pelle. Stavolta la sua voce era molto infastidita, il tono sempre calmo ma completamente diverso. Disse: “L’importante è che non tardate ancora. Vi stiamo aspettando fuori…”». 

Parlò al plurale? C’era forse una donna con lui? 

«No, era solo. Uno dei due miei dipendenti, Mohamed, tunisino, mi ha detto che una volta entrati a casa in via San Giovanni Messina Denaro però tornò subito affabile e fece i complimenti ai quattro ragazzi: “Lavorate bene” ha detto. Poi ha offerto loro dell’acqua e il caffè».

 Mohamed notò qualcosa di particolare durante il trasloco?

 «Gli armadi sul camion erano vuoti, non c’erano vestiti né carte nei cassetti, anche il poster di Joker il mio operaio l’ha visto già nella casa nuova, pronto da appendere. Alle sue cose deve averci pensato il boss direttamente».

 E poi? 

«E poi quando è stato scoperto il covo di vicolo San Vito, uno degli operai dell’altra ditta l’ha riconosciuto in tv e l’ha detto a suo padre che è venuto subito da me. Mi ha detto: ma che hai mandato mio figlio a fare un lavoro per Matteo Messina Denaro? Era giovedì scorso, il 19 gennaio, io allora ho chiamato Mohamed e gli ho detto: guarda la tv, ma la casa del boss è quella dove voi avete portato i mobili? E quando me l’ha confermato, non ho capito più niente. Ho chiamato un mio amico avvocato, Antonio Mariano Consentino, per chiedergli consiglio e lui mi ha portato subito alla polizia che così ha trovato sul mio cellulare anche l’indirizzo del covo di via San Giovanni». 

Adesso ha paura? 

«Cosa dovrei temere? In questa città tutti mi conoscono, ho portato col camion aiuti in Ucraina, ho fatto un lavoro anche per Anna Corona, il nome non dovrebbe suonarvi nuovo se avete seguito il caso della piccola Denise Pipitone. Pure a Mazara 2, il quartiere più difficile, sono benvoluto. Io lavoro, faccio traslochi, non sono una spia».

Il concessionario.

Il concessionario di Messina Denaro: «Valutai la sua auto 10mila euro. Il giorno dell’arresto mi tremavano le gambe». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.

Giovanni Tumminello, il concessionario di Palermo presso il quale Matteo Messina Denaro ha acquistato la sua auto: «Entrò in concessionaria con occhiali e cappello, ma era tranquillo. Parlò anche di filosofia, faceva battute, mi disse che da giovane aveva avuto una macchina sportiva potente»

Accendere la tv e riconoscere nelle immagini dell’ultimo boss stragista di Cosa nostra l’insospettabile cliente che, un anno prima, si era rivolto a lui per acquistare una macchina.

Una vicenda che ha segnato profondamente Giovanni Tumminello, concessionario d’auto di Palermo da cui il boss Matteo Messina Denaro ha comprato l’auto con la quale negli ultimi mesi si spostava.

Quando ha capito che l’uomo che si era presentato nel suo autosalone era in realtà il capomafia trapanese?

«Il 16 gennaio, data che non scorderò mai. Intorno alle 11, mentre lavoravo, ho visto la notizia dell’arresto del capomafia in tv. Quando hanno mostrato l’immagine della carta di identità e rivelato il nome falso che Messina Denaro usava, Andrea Bonafede, mi sono quasi sentito male. Sono andato dall’impiegato che lo aveva incontrato per primo. Ci siamo guardati e in un attimo ci siamo resi conto che l’anonimo cliente al quale, un anno fa, avevamo venduto una Giulietta, in realtà era un superlatitante. Ho continuato a lavorare, pur con grande inquietudine. Ma confesso che alla fine della giornata, in auto da solo, mi tremavano le gambe».

Come ricorda l’Andrea Bonafede che conobbe?

«Un uomo normale. Entrò con occhiali e cappello, ma faceva freddo, era gennaio e non mi sembrò strano. Non era particolarmente elegante, né griffato. Ci propose la permuta con una Fiat 500 che, disse, apparteneva alla madre e chiese di vedere una Giulietta che aveva notato sul nostro sito. Fu tutto ordinario. Io valutai la sua macchina, che, tra parentesi, era pulitissima e tenuta benissimo: ricordo che profumava. Gli dissi che gli avrei dato 10mila euro. Lui acconsentì. I giorni dopo ci scambiammo dei messaggi su whatsapp. Un profilo comune il suo, senza foto. Poche parole, mi confermò l’interesse per la macchina».

Ma come è Messina Denaro?

«Ricordo una persona gentile, educata. Gli regalai un tagliando, mi ringraziò. Volle che gli spiegassimo bene il funzionamento della Giulietta. Chiacchierammo un’oretta nella mia stanza (alla parete ci sono decine di calendari dei carabinieri ndr) in attesa che la macchina arrivasse in concessionaria. A me sembrò addirittura colto. Fece citazioni storiche, non ricordo a che proposito ma venne fuori Garibaldi, parlò anche di filosofia. Certi clienti si dilungano su cose personali o discutono di auto, lui no. Mi disse solo che da ragazzo aveva avuto una macchina sportiva potente».

Come avvenne il pagamento?

«Il 10 gennaio mi fece un bonifico bancario con l’intera somma. Disse che l’intestataria del contratto doveva essere sua madre, ma che data l’età non poteva portarla a Palermo. Sbrigammo tutte le pratiche e, avuti i documenti, è andato via con la Giulietta».

È sempre venuto solo?

«Sì».

Le è apparso guardingo, preoccupato?

«Al contrario: mi è sembrato tranquillo, faceva battute, gli ho offerto il caffè. In questi giorni ho riguardato tutti i documenti che ho consegnato agli inquirenti con i quali, attraverso il mio avvocato, Giuseppe Seminara, mi sono messo in contatto appena ho capito chi fosse il cliente».

Cosa le ha lasciato questa esperienza?

«Da una settimana non ho più una vita. Sono passato sui media da un fiancheggiatore di un capomafia, a quello che l’ha fatto arrestare. Ecco, quel che vorrei ora è riprendere un’esistenza normale. Non ho nulla da rimproverarmi. Era impossibile capire chi fosse. Messina Denaro sembrava davvero un uomo qualunque».

Lo Statuto della Mafia.

R. L. V. per “il Messaggero” il 25 Gennaio 2023.

Pietro Badagliacca, che di anni ne ha 78 (di cui 14 trascorsi in carcere per mafia) all'inizio degli anni Duemila scontava la misura di sicurezza dell'obbligo di dimora a Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani.

 «Io intanto prendo i pizzini, tanti saluti da papà dice che già ha parlato con quello di Trapani», raccontava nel 2005 Angelo Badagliacca ad Antonino Rotolo, storico boss di Pagliarelli ed ergastolano. «Ma per parlare direttamente con Matteo?», chiedeva Rotolo, facendo chiaro riferimento a Messina Denaro.

 Nei confronti del padrino trapanese nutrivano un profondo rispetto. Niente a che vedere con le critiche feroci rivolte ad altri pezzi da novanta della Cosa Nostra che fu. […]

[…] si sentivano i custodi dell'ortodossia mafiosa, i difensori dello «statuto di Cosa Nostra». Altri in passato hanno parlato di regole scritte «conservate a Corleone» e mai trovate. […]

 Qualcosa di scritto ha lasciato Salvatore Lo Piccolo, capomafia del mandamento palermitano di San Lorenzo. Quando lo arrestarono aveva una valigetta piena di pizzini, di cui cercò maldestramente di disfarsi nel water. C'era anche un decalogo del perfetto mafioso.

 «Non si guardano le mogli di amici nostri», «non si fanno comparati con gli sbirri», «chi ha tradimenti sentimentali in famiglia», «chi ha un comportamento pessimo e non tiene ai valori morali». Ed altro ancora, come se ci fosse della moralità nell'essere mafiosi […]

Estratto dell'articolo di L. Sir. Per il “Corriere della Sera” il 25 Gennaio 2023.

Cosa nostra resta attaccata al passato, mette ai suoi vertici i vecchi boss, rievoca con nostalgia il tempo in cui a comandare erano uomini con «principi»: è una mafia legata indissolubilmente alle antiche regole quella raccontata dall’ultima indagine dei carabinieri del Nucleo Investigativo di Palermo diretto dal colonnello Salvatore Di Gesare, che, a distanza di una settimana dalla cattura del boss Matteo Messina Denaro, tornano a colpire i clan.

[…]

«C’è lo statuto scritto … quello che hanno scritto i padri costituenti», dice durante un summit, in un casolare nelle campagne di Caltanissetta.

Una sorta di Magna Carta mafiosa, insomma, di cui gli investigatori hanno sentito parlare anche in altre indagini, ma che non è mai stata trovata.

Per anni i Badagliacca hanno avuto stretti contatti con Bernardo Provenzano […] E con Matteo Messina Denaro […]

 gli ultimi a finire nella lista degli indagati, dopo la cattura del boss trapanese, sono stati Antonino e Vincenzo Luppino, i figli dell’uomo che gli faceva da autista. Dall’inchiesta di ieri emerge però uno spaccato inedito.

 Se i legami con i corleonesi e con l’ala stragista sono sempre stati saldi, ora che i capimafia storici sono morti o in galera, i Badagliacca prendono le distanze dalla stagione del terrore. E, ricordando con nostalgia i boss d’altri tempi, criticano le azioni di Totò Riina e dei suoi. […]

Insomma, la guerra alle istituzioni è stata un errore. «Prima (della stagione di Riina ndr) c’erano buoni rapporti con gli organi dello Stato. Non si toccavano, non si toccavano», sbotta il mafioso Antonino Anello. «Anzi li allisciavano», concorda Gioacchino Badagliacca. Ma l’avversione verso il sangue dei capimafia di Rocca Mezzomonreale è solo apparente.

[…]

Estratto dell'articolo di “la Repubblica” il 25 Gennaio 2023.

«Io mi devo levare qualche scaglia, ma è una cosa mia personale — sbottò il mafioso più giovane della famiglia Badagliacca, Gioacchino, classe 1977 — io gli devo scippare la testa, ma questa è una cosa mia. E sarà l’ultima cosa che faccio».

Voleva uccidere un architetto che aveva sbagliato la pratica di sanatoria di un immobile del padre. Un omicidio per punire uno “sgarro”. Come nei ruggenti anni Ottanta della mafia a Palermo, quando si moriva per nulla. Per uno sguardo di troppo, per una precedenza non data, per un confine non rispettato. I giovani terribili di Cosa nostra vogliono il ritorno al passato.

 […] Badagliacca junior faceva lezioni di mafia ai suoi complici. […] E, intanto, aveva metodi sempre più violenti. A un imprenditore fece recapitare una bambola con un proiettile in testa.

 L’anziano Pietro Badagliacca, classe 1944, invitava il nipote alla prudenza: «Qua non si possono fare questi discorsi, stai sbagliando Gioacchino, ci sono delle azioni che si fanno e che possono portare a delle conseguenze… le forze dell’ordine aumentano i controlli». I vecchi di Cosa nostra hanno imparato la lezione degli anni ’90: quando la mafia alza la testa con la violenza estrema, la risposta dello Stato è sempre decisa. Meglio stare sotto traccia.

Ma i giovani di Cosa nostra scalpitano, aspirano a tornare ai metodi sbrigativi dei Corleonesi. Anche se poi Badagliacca junior, rampante esponente della famiglia di Mezzomonreale, criticava Riina per le stragi: «Cose infami, ma perché queste bombe contro tutti questi giudici… far morire gente innocente, cose brutte, sono cose di uno che non ha onore». Criticava anche Brusca per l’omicidio del piccolo Di Matteo: «Non sono

(ANSA il 24 gennaio 2023) - "C'è lo statuto scritto … che hanno scritto i padri costituenti": così afferma uno dei boss arrestati oggi a Palermo dai carabinieri, non sapendo di essere intercettato. Una rivelazione che i magistrati ritengono importantissima e che conferma l'osservanza da parte dei capimafia di ferree regole, una sorta di "Costituzione" della mafia. I boss continuano a rispettare le vecchie "regole" mafiose e a imporne l'osservanza agli affiliati, dunque.

Le "cimici" piazzate dagli investigatori hanno potuto ascoltare le conversazioni degli indagati che spesso si richiamavano al rispetto di principi mafiosi arcaici, un vero e proprio "statuto" scritto dai padrini. "Principi" che i capimafia continuano a considerare il baluardo dell'esistenza stessa di cosa nostra. Nell'ambito della conversazione registrata, definita dal gip "di estrema rarità nell'esperienza giudiziaria", si è più volte fatto richiamo all'esistenza di un "codice mafioso scritto", custodito gelosamente da decenni e che regola, ancora oggi, la vita di cosa nostra palermitana.

 (ANSA il 24 gennaio 2023) - I carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo hanno arrestato sette persone con le accuse di associazione mafiosa ed estorsione aggravata. Il blitz, coordinato dalla Dda guidata dal procuratore Maurizio de Lucia, ha colpito la 'famiglia' mafiosa di Rocca Mezzomorreale (Pa) e i suoi vertici, già condannati in via definitiva e tornati liberi dopo aver scontato la pena. In cella sono finiti anche uomini d'onore riservati, sfuggiti finora alle indagini, che sarebbero stati chiamati in azione solo in momenti di criticità per la cosca.

Per 5 indagati è stato disposto il carcere, per due i domiciliari. L'operazione, condotta tra Riesi, nel nisseno, e Rimini, ha consentito di smantellare la famiglia mafiosa di Rocca Mezzomonreale, "costola" del mandamento palermitano di Pagliarelli, ed ha confermato, ancora una volta, le storiche figure di vertice, già in passato protagoniste di episodi rilevantissimi per la vita dell'associazione mafiosa, come la gestione del viaggio a Marsiglia del boss Bernardo Provenzano per sottoporsi a cure mediche o la tenuta dei contatti con l'ex latitante trapanese Matteo Messina Denaro.

Mafia, spunta lo statuto scritto voluto dai "padrini costituenti". Badagliacco intercettato parla di un documento con le regole di Cosa Nostra. Il gip: "Una scoperta deflagrante". Stefano Zurlo il 25 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Sembra fiction, ma è la realtà. Il padrino, Giacchino, Badagliacca, che non sa di essere intercettato, si lascia andare a un'affermazione clamorosa: «C'è lo statuto scritto ...che hanno scritto i padri costituenti».

I padri costituenti di Cosa nostra, quelli che praticavano la violenza più feroce ma sapevano anche stare, a modo loro, al mondo. E così i vertici della cosca di Rocca Mezzomonreale, zona sud di Palermo, che pure progettavano omicidi e realizzavano estorsioni con ritmi da catena di montaggio, non risparmiano le critiche più dure a Totó Riina e all'ala stragista dei corleonesi che ha piazzato bombe e seminato sangue ovunque. «Niente cose infami - dice Badagliacca - ma perché pure tutte queste bombe, questi giudici, tutti questi... ma che cosa sono?».

Badagliacca è uno dei sette mafiosi arrestati ieri in un blitz che in qualche modo si collega alla cattura di Matteo Messina Denaro. Il clan sgominato, infatti, composto in gran parte da affiliati storici che avevano già scontato pesanti pene, aveva un ruolo importantissimo nella geografia della criminalità organizzata siciliana. Erano stati sempre loro, in passato, a coprire il boss Bernardo Provenzano e a organizzare il viaggio a Marsiglia per eseguire un intervento chirurgico alla prostata. E gli stessi soggetti hanno mantenuto rapporti con il Trapanese e Messina Denaro fino alla sua cattura.

Siamo insomma nel sancta sanctorum di Cosa nostra e per questo colpiscono quelle parole sul codice scritto, pronunciate nel corso di un summit in un casolare dalle parti di Caltanissetta, e quei riferimenti pesantissimi a Riina: lui e i suoi «pensavano solo a riempire il portafoglio».

«Sì - spiega il padrino - non si interessava a niente. Non è che loro amavano la cosa. Uno che la ama - riflette con accenti quasi mistici Badagliacca - fa le cose per non distruggerla, per tenerla».

Riina uccideva e utilizzava solo la logica del terrore, suscitando lo sconcerto dei mafiosi vecchia scuola: «C'è lo statuto scritto, che hanno scritto i padri costituenti».

Rina e i corleonesi insomma l'avrebbero fatto a pezzi, schiacciando solo il pedale folle del terrorismo.

«Tutte cose sono finite - conclude Badagliacca ricordando che un tempo non era così - c'erano buoni rapporti con gli organi dello Stato. Non si toccavano, non si toccavano». «Anzi, li allisciavano», osserva il suo interlocutore.

Gioacchino e il capofamiglia Pietro Badagliacca discutono anche di come ammazzare un architetto che ha sbagliato alcune pratiche amministrative. E l'anziano Pietro prende con il nipote un impegno solenne e terribile: «Ti prometto una cosa davanti a mio figlio, anche se c' è il pro e il contro... l'ammazzo io all'architetta prima di morire».

Per fortuna i carabinieri sono arrivati prima, salvando la vita al professionista. Certo, la mafia di questa inchiesta pare ancora forte, radicata sul territorio, formata da irriducibili che appena usciti dalla galera tornano alle loro attività e sodalizi sanguinari. E restano quelle intercettazioni dirompenti, soprattutto quella sul codice scritto: «Badagliacca Gioacchino - scrive il gip - rispondeva con una rivelazione dalla portata investigativa deflagrante. Faceva infatti riferimento a un documento scritto, un vero e proprio statuto dell'organizzazione in cui sarebbero stati annotati dai padri costituenti di Cosa nostra i principi e le regole cardine dell'organizzazione, rimasti evidentemente invariati nel corso degli anni».

Quelli dimenticati dai corleonesi e invece punto di riferimento di Pietro e Gioacchino Badagliacca prima di finire in manette.

"Nemmeno Buscetta ne aveva mai parlato. C'era un decalogo, ma Riina lo ha tradito". Il magistrato per anni in prima linea: "I Corleonesi scelsero di attaccare frontalmente lo Stato. Il codice disatteso anche sul commercio di droga". Stefano Zurlo il 25 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Lo statuto? «Mah, per me è una novità assoluta» risponde Giuseppe Ayala, oggi in pensione ma per lunghi anni in prima linea contro Cosa nostra e pubblico ministero al maxi processo di Palermo.

«I pentiti nel tempo ci hanno svelato tante cose sull'organizzazione mafiosa, ma sinceramente nessuno ci hai mai detto che da qualche parte ci sarebbe una sorta di Costituzione della mafia».

Nemmeno Buscetta ha mai indicato un codice scritto?

«No, nemmeno lui che pure per me è stato il più importante collaboratore. Pensi che è lui a svelarci il nome dell'organizzazione».

Cosa nostra?

«Certo, per noi c'era la mafia e non sapevamo che fra di loro i criminali utilizzassero quell'espressione: Cosa nostra. Certo, c'è sempre stato un decalogo, chiamiamolo così, cui boss e picciotti si sono sempre attenuti».

Quel codice che Riina avrebbe tradito?

«Esatto. La mafia, di cui si comincia a parlare con l'inchiesta di Franchetti e Sonnino nel 1876, ha sempre rispettato una regola su tutte: non attaccare frontalmente lo Stato, mimetizzarsi e così condurre col massimo profitto i propri affari illeciti, cominciando dalle estorsioni».

Poi i corleonesi rompono questo equilibrio.

«Ma è una stagione eccezionale e credo che Riina sia il principale artefice di quella cupa stagione di sangue. Bernardo Provenzano ha secondo me una sensibilità diversa e subisce la linea imposta dal boss sanguinario, ma poi, dopo l'arresto del capo dei capi nel 93, sposta progressivamente Cosa nostra su posizioni meno muscolari, diciamo così, e cerca di far spegnere i riflettori sulle attività delle mafia. Una politica che mi pare sia proseguita negli ultimi trent'anni: silenzio, azioni poco eclatanti, zero omicidi eccellenti, e se possibile, estorsioni e tanti crimini odiosi che però non fanno notizia».

Insomma, il codice scritto c'è o no?

«Chi lo sa, ma non sopravvaluterei la notizia. Non è che da qualche parte ci sia il testo firmato dai padrini fondatori, non esageriamo. C'è semmai quel modo di essere che i mafiosi hanno sempre cercato di rispettare. Buscetta, per esempio, era un personaggio carismatico ma non fa carriera perché é un donnaiolo e questo è inconcepibile per la mentalità mafiosa».

Nel fantomatico statuto dovrebbe però esserci anche il divieto di coltivare il traffico di droga. Qui la «Costituzione» è stata abbandonata.

«Per i mafiosi era vietato dedicarsi allo sfruttamento della prostituzione e infatti non ho mai aperto un fascicolo su questo versante, e poi naturalmente era proibito il business della droga. Ma mi pare che poi la voglia di fare soldi abbia prevalso e tutti i buoni propositi, tramandati per via orale o scritta non so, sono saltati senza tanti problemi».

Non c'era quindi bisogno di mettere in forma solenne le «tavole» dell'organizzazione?

«Non possiamo escludere che il padrino intercettato abbia parlato dopo aver letto qualcosa. Per carità, tutto può essere, ma la ragione sociale di Cosa nostra è sempre stata chiara ai suoi membri».

Anche Messina Denaro rispettava questa tradizione?

«Direi di si. Quel che cambia è la tipologia umana. Riina e Provenzano erano fondamentalmente dei contadini, sia pure diventati ricchissimi, Messina Denaro ha un altro profilo. Ama la bella vita, spende 700 euro al ristorante, mette al polso orologi firmati e già che c'è si specchia nel ritratto del Padrino, trovato in uno dei suoi covi. Un'altra storia, ma dentro la stessa cornice: per questo credo che non si pentirà».

Il Libro mastro.

Messina Denaro, trovato il "libro mastro": cosa c'è scritto. Libero Quotidiano il 19 gennaio 2023

Va avanti la perquisizione all'interno del covo di Matteo Messina Denaro in via Cb 31 a Campobello di Mazara. Quello che le forze dell'ordine stanno trovando sarebbe davvero prezioso per le indagini. Stando a quanto trapelato finora, pare che l'ex superlatitante fosse molto ordinato: "Su una scrivania, aveva una serie di carpette, in cui sistemava appunti e documenti", si legge su Repubblica. Gli investigatori avrebbero trovato pure una sorta di libro mastro, un taccuino con appunti e cifre risalenti anche ad anni passati, fino al 2016. I numeri di telefono, invece, sarebbero stati annotati dal boss mafioso su foglietti e post-it. 

L’inchiesta adesso è tutta incentrata su complici e favoreggiatori di Messina Denaro. Si è scoperto, poi, che il boss avrebbe conservato anche un’ampia contabilità, con tanto di dettagli su entrate e uscite. Lui, comunque, si sarebbe sempre sentito al sicuro in quel covo. Sulle indagini, invece, si sa davvero poco: sono coperte da un rigido segreto istruttorio. Intanto le forze dell'ordine sono al lavoro anche nell’altro nascondiglio scoperto a Campobello di Mazara, la stanza bunker all’interno di un appartamento. 

Nel secondo covo sarebbero stati trovati soprattutto gioielli, pietre preziose e pezzi di argenteria. Anche se bisogna ancora accertare l'effettiva appartenenza di questi oggetti a Messina Denaro. Per la documentazione di via Cb 31, invece, non ci sarebbero dubbi: la grafia con cui sono stati scritti appunti e numeri di telefono sarebbe proprio quella del boss. Intanto la polizia ha scoperto un terzo covo del super boss sempre a Campobello di Mazara a due passi dalla sua Castelvetrano.

I covi e i misteri di Messina Denaro: gli appunti, la contabilità (anche una cena da 700 euro) e il poster del padrino. Elena Del Mastro su Il Riformista il 20 Gennaio 2023

Continuano le indagini per ripercorrere e ricostruire i giorni della latitanza di Matteo Messina Denaro. Un terzo presunto covo è stato trovato sempre a Campobello di Mazara, in via San Giovanni 160, dopo quello in vicolo San Vito e via Maggiore Toselli. Nel terzo appartamento, trovato ripulito, il boss avrebbe trascorso i suoi giorni almeno fino a giugno, ma gli investigatori lo hanno trovato vuoto e in vendita. Le indagini hanno portato lì grazie a una ditta di traslochi che aveva effettuato lo spostamento dei mobili.

Nel secondo covo sono stati trovati documenti, appunti, sigle da decifrare e numeri di telefono. La calligrafia corrisponderebbe a quella dell’ex latitante perché corrisponde a quella di alcune lettere da lui scritte. Ma il lavoro delle indagini è solo all’inizio. Secondo quanto riportato dal Messaggero sarebbe stata trovata anche un’agendina bordeaux con gli appunti del boss. Oltre a una serie di riflessioni sulla vita e sulla morte, nell’agendina ci sarebbero riportate anche cifre con molti zeri. Uscite fino a 10 mila euro al mese e scontrini per cene da 700 euro. La scoperta degli scontrini ha già suscitato qualche interrogativo. Perché un boss latitante da quasi trenta anni potrebbe aver deciso di portare con sé tante tracce dei suoi spostamenti ed eventualmente di chi lo ha aiutato?

Nell’agenda ci sarebbero anche tracce di investimenti a partire dal 2016 e indizi sulla rete di fiancheggiatori. Poi ci sono i post it che riportano nomi di località quasi tutte lontane dalla Sicilia che secondo gli investigatori potrebbero essere gli indizi per ricostruire gli spostamenti di Messina Denaro e fare luce su alcuni misteri. Non ci sarebbe invece traccia di un libro maestro né tantomeno dell’archivio di Totò Riina che secondo alcuni U Siccu avrebbe avuto in eredità con il compito di custodirlo.

Tra gli altri oggetti ritrovati nei covi, oltre a gioielli e scatole vuote. In un salotto anche il poster del “Padrino”, il film in cui il protagonista, Marlon Brando, recita il personaggio di don Vito Corleone. l comandante del Ros Pasquale Angelosanto ha spiegato a Porta a Porta: “Non siamo in grado di dire se qualcuno sia andato prima. Mi auguro che se ci sia stato qualcuno abbia lasciato qualche traccia. È un’ ipotesi, ma allo stato non siamo in grado di confermarla”.

La Stampa riporta un altro mistero legato a Matteo Messina Denaro. Ieri il boss non è comparso nell’udienza d’appello di un processo in cui è stato già condannato in primo grado come responsabile delle stragi di Capaci e via D’Amelio. L’udienza è stata rinviata. La sua assenza sarebbe stata giustificata dal fatto che il boss avrebbe dovuto sottoporsi alla prima seduta di chemioterapia a Le Costarelle. Ma alla fine la somministrazione di farmaci chemioterapici l’ha saltata. Le cure erano state organizzate davanti alla sua cella. All’ultimo momento Messina Denaro ha fatto saltare tutto. Perché pare che non fosse convinto della quantità di dosi da ricevere. “Preferirei che mi visitasse il mio medico che mi curava a Palermo”, avrebbe detto riferendosi al professionista de La Maddalena. La seduta è stata sospesa. I magistrati decideranno se autorizzare la trasferta del dottore siciliano.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

I Pizzini.

Estratto da il Fatto Quotidiano il 5 marzo 2023.

Il codice di ‘u Siccu’ è tutto da decifrare. I carabinieri del Ros stanno decriptando la sequenza di nomi, cifre, date, ordini e indicazioni scritti da Matteo Messina Denaro in oltre un migliaio di “pizzini” scoperti nel suo covo a Campobello di Mazara (via Cb31), e nelle due case della sorella Rosalia, detta ‘Rosetta’, tra Castelvetrano e Campobello. Il pool della Dda di Palermo è già riuscito ad identificare il primo nome: “Fragolona” è Rosalia, arrestata venerdì con l’accusa di associazione mafiosa, e che domani sarà davanti al gip per l’interrogatorio di garanzia.

 Nell’ampia corrispondenza, il boss stragista si fa rendicontare dalla sorella il fondo cassa, e le spese correnti.

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Nei pizzini ci molti altri nomi alla quale gli inquirenti dovranno dare un volto. “Condor”, “Complicato”, “Reparto”, “W”, “Ciliegia”, “Fragolina”, “Stazzunara”, “Mela”, “Malato” e “Parmigiano”. Sempre nel pizzino di maggio, Rosalia riceve l’incarico di chiedere “40 mila euro, entro settembre, a “Parmigiano”. Perché “40 mila euro non cambiano la vita delle persone”, dice ‘u Siccu’. Ma chi può in così poco tempo disporre di una somma simile? Forse un imprenditore, molto vicino ai Messina Denaro, oppure un loro socio o prestanome. Infine, un piccolo dettaglio, nella lettera (15 marzo 2022) indirizzata a Rosalia in cui si parla della figlia Lorenza: “Ad oggi i Van Gogh sono due, l’altro fu il 29 novembre 2021”. A cosa si riferisce ‘u Sicco’ per “Van Gogh”? Forse una stampa o un quadro in cui è stato occultato del denaro, dei pizzini o delle istruzioni. O magari è il suo tumore, che si sta espandendo?

I pizzini di Messina Denaro ai suoi uomini: «Io sono qua, anche più di prima». Giovanni Bianconi, nostro inviato, su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2023.

L’operazione nel 2020 e il ritorno a Campobello. Nell’ultima indagine le tracce del suo potere

Il 4 giugno 2021 Matteo Messina Denaro era stato operato da oltre sei mesi — il 13 novembre 2020 — per un tumore al colon all’ospedale Abele Ajello di Mazara del Vallo, con la falsa identità di Alfonso Bonafede. Dunque il latitante era tornato nella sua terra, di origine e di mafia; andando verosimilmente a vivere a Campobello di Mazara, dove il vero Bonafede aveva affittato la casa di via San Giovanni, in cui il ricercato è rimasto fino a giugno 2022, quando s’è spostato in vicolo San Vito. L’intervento era andato a buon fine, ma tra i mafiosi veri e presunti di Campobello — intercettati dai carabinieri nell’operazione «Hesperia», che a settembre ha portato in carcere 35 indagati, oggi imputati, per mafia e altri reati — c’era chi sosteneva che «iddu» fosse morto.

«Chiedi scusa»

Piero Di Natale, quarantunenne di Castelvetrano, considerato dagli investigatori uno dei principali affiliati del clan guidato Franco Luppino (solo omonimo di Giovanni, l’autista di Messina Denaro arrestato insieme a lui), ne parlava con Marco Buffa, cinquant’anni, inquisito per traffico di droga, concorso in associazione mafiosa e porto illegale di armi. Accusandolo di aver messo in giro quella voce sulla fine del padrino; una bugia e un pericolo per lui, giacché al boss — chiamato Ignazieddu — non faceva piacere. E Buffa negava.

Di Natale: «Vedi che è arrivata la notizia di questo discorso... Non parlare in giro di questo fatto che hai detto tu che è morto... Perché già la notizia gli è arrivata... Che c’è stato qualcuno sta dicendo che Ignazzieddu è morto...Vedi che a quello quando pare che non gli arriva... Perché ha sempre sette-otto persone che lo informano...».

Buffa: «Non accusate a me perché vi vengo ad ammazzare tutti e due là... Io non l’ho detto mai questa cosa... Io a te l’ho detto... Ti ho detto: “Secondo me è così”… Finisce a coltellate... Non diciamo minchiate...». Di Natale rivelava a Buffa di aver parlato di questo incidente con Franco Luppino, consigliandogli di «chiedere scusa», e confermava che Ignazieddu era «vivo e vegeto». Con Buffa che si raccomandava: «Appena ci vai… Glielo dico a lui personalmente… Io non le ho mai dette queste cose… Io ho detto solo “secondo me, per me”, gli ho detto “per me non c’è… È morto… Per me…”».

«È vivo e vegeto»

 Un’opinione e niente più. Che però era pericoloso far circolare nell’ambiente mafioso di Campobello, dove evidentemente il peso del padrino continuava a farsi sentire ed era necessario che nessuno lo mettesse in discussione. Questione di potere. Anche perché, dal resto della conversazione, s’intuisce che Matteo Messina Denaro non solo stava combattendo contro la malattia, ma continuava a dare disposizioni attraverso il suo rappresentante diretto sul territorio: Franco Luppino. Sempre attraverso il sistema dei pizzini, secondo l’interpretazione dei carabinieri che stavano intercettando quella conversazione.. È ancora Di Natale a parlare: «Allora in uno degli ultimi... gli ha detto salutami a Sandrone (persona che gli investigatori non sono ancora riusciti a identificare, ndr) e digli che io sono qua come prima, anzi più di prima... E lui è il suo pensiero... Perché io a questo l’ho messo qua... a questo l’ho messo qua e a questo l’ho messo da questa parte... Tu se hai bisogno ti puoi rivolgere a questo, tu con questo se hai bisogno rivolgiti a questo... Io personalmente stavo svenendo per la serie di nomi che ci sono stati...».

Soluzione dei contrasti

Il capomafia, insomma, impartiva ordini e distribuiva incarichi sul territorio «a questo e questo». Rassicurava gli affiliati sulla sua presenza — anche fisica, si scopre adesso — avvertendo che «io sono qua come prima, più di prima». E aveva disegnato una sorta di organigramma del clan indicando i nomi al suo luogotenente Luppino. Di cui Di Natale riferiva: «La stima che c’è e la fede che fanno sopra di questo io non me l’aspettavo... Sino a oggi». Franco Luppino era stato scarcerato da qualche tempo, aveva ripreso in mano le redini di Campobello sotto l’egida di Messina Denaro e a settembre scorso è tornato in carcere nel blitz dei carabinieri che con microspie e telecamere avevano stretto d’assedio il paese. Senza però intercettare né riprendere il superlatitante che viveva a poche centinaia di metri dagli altri indagati. Dopo il suo arresto gli investigatori hanno cominciato a riguardare tutte le immagini registrate per verificare se in qualche fotogramma sia individuabile un volto o una figura che possa riconoscersi in Matteo Messina Denaro. Al quale si fa riferimento, sempre per invocarne un intervento, in un altro dialogo fra due sospetti mafiosi. Il 15 marzo 2021 il settantaduenne Antonino Pace, inquisito per l’affiliazione al clan ed estorsione, parlava con un altro indagato degli equilibri interni a Cosa nostra nella zona di Mazara. Solo una parola del padrino latitante, spiegava, poteva mettere fine ai contrasti: «Tutt’al più può succedere questo... Affinché affacciare quello là, lu siccu, affaccia iddro...». Mentre ascoltavano e trascrivevano, gli investigatori pensavano a contatti diretti con l’inafferrabile che si nascondeva chissà dove, senza riuscire — in quell’operazione antimafia — ad afferrare il filo giusto per arrivarci. Poi a settembre, su ordine della Procura, hanno tirato su la rete togliendogli altri riferimenti sul territorio, a cominciare proprio da Luppino. Il latitante era lì, e con ogni probabilità non s’è mosso nemmeno dopo il blitz. Restando invisibile sebbene visibilissimo sotto le mentite spoglie del suo alias. Fino a una settimana fa.

Nei pizzini inviati a Bernardo Provenzano, Matteo Messina Denaro ha svelato non solo i suoi affari ma anche alcuni segreti di Cosa Nostra. Ilaria Minucci su Notizie.it il 25 Gennaio

Con i suoi affari, Matteo Messina Denaro puntava in alto. Molto in alto. L’obiettivo del boss mafioso era estendere la longa manus di Cosa Nostra dai supermercati alla benzina e in molti altri settori ancora. Si trattava di un business estremamente redditizio che, come dimostrano i pizzini scritti tra il 2003 e il 2006 ritrovati nel covo di Bernardo Provenzano, era particolarmente caro all’ex superlatitante.

I messaggi sono stati raccolti da AdnKronos e, da questi, è possibile tratteggiare con chiarezza la figura dello stragista di Castelvetrano.

Una delle prime questioni riguardava un paesano del boss mafioso che ottenne la gestione di un gruppo di supermercati. L’uomo aveva debiti con dei mafiosi e ricevette richieste di pizzo. A Provenzano, allora, Messina Denaro ha scritto: ”Passo ora a dirle il mio problema che ho nella zona di Ag c’è una persona di Castelvetrano che ha la concessione dei supermercati – e ha proposto la sua soluzione –.

Dunque il mio paesano ha diversi punti vendita in diversi paesi, ora lei deve stabilire un tot l’anno che il mio paesano deve dare per ogni punto vendita, poi si fa la somma del tot che ha deciso lei, così si vede quanto ogni anno il mio paesano deve uscire, solo che i soldi li defalchiamo ogni anno dai soldi che ci deve dare Cpz, fino a togliere tutto il debito che ha con noi.

Tutto si ammortizza con il pizzo che deve uscire il mio paesano fino all’esaurimento del debito – e ha aggiunto –. Questa mia proposta ha delle clausole però che voglio rispettate, nel senso che non c’è margine di trattativa: o accettano o non accettano la mia proposta per come è, se pensano di porre dei cambiamenti già la mia proposta decade e non è più valida”.

Il messaggio a “zio Bernardo” svela alcune delle norme che regolano la mafia e, soprattutto, il sistema del pizzo.

”Dato che il mio paesano ora pagherà il pizzo per ogni punto vendita, è sciolto da ogni obbligo di favoritismi, cioè i punti vendita sono del mio paesano e oltre a gestirli lui fa lavorare a chi vuole lui”, ha sottolineato l’ex latitante. “D’altronde è sempre regola che chi paga il pizzo non ha più niente da dare, quindi niente più posti di lavoro, si pagherà solo il pizzo”.

Il business della benzina

Oltre ai supermercati, Messina Denaro mirava anche alla benzina. A questo proposito, stava lavorando a un progetto che si trovava già in fase avanzata quando ha scritto il pizzino a Provenzano per chiedergli di svolgere il ruolo di mediatore dato l’interesse che il settore suscitava in molti.

”Riguardo alla benzina con tutti i suoi annessi, è una cosa abbastanza grossa ed è tanto che se ne parla, di certo c’è che deve ricadere in territorio di Alcamo e già si sa il punto preciso”, ha scritto il boss di Castelvetrano. “Attorno a questa cosa orbitano un sacco di persone perché chiunque vuole accaparrarsi l’affare ed ognuno ha una sua fazione politica, io fino ad ora sono stato a guardare lasciandoli scannare tra di loro. Ma a decisione presa, farò in modo che tutti gli avvoltoi che girano attorno a questo affare si ritirano”, ha avvertito.

I segreti di Cosa Nostra nei pizzini di Messina Denaro a Provenzano

Tra gli elementi più evidenti che emergono nei pizzini di Messina Denaro ci sono temi come la riverenza per il capo, il “rispetto delle regole di Cosa Nostra” e anche una forte consapevolezza del rischio che si corre data la “guerra” che magistratura e autorità stanno compiendo contro la criminalità organizzata. Eppure, una delle frasi ripetuta più spesso dall’ex superlatitante è: “Sono nato in questo modo e morirò in questo modo”.

Lo dimostrano i pizzini ritrovati nel covo di Provenzano dopo la sua cattura avvenuta l’11 aprile 2006 in una masseria a Corleone, in provincia di Palermo. È in questa circostanza, del resto, che vennero recuperati i messaggi che i due mafiosi si sono scambiati tra il 2003 e il 2006.

In uno dei messaggi scritti a “Zio Bernardo” da Messina Denaro, che si firma “suo nipote Alessio”, si legge: “Lei mi dice che i soldi nella vita non sono tutto e che ci sono cose buone che con i soldi non si possono comprare. Sono d’accordissimo con lei, perché io ho sempre pensato che si può essere uomini senza una lira e si può essere pieni di soldi ed essere fango”.

“Le dico che io ho fatto della correttezza la mia filosofia di vita”, ha scritto. E, sottolineando la riverenza al capo, ha aggiunto: “Ed il fatto che io mi sia rivolto a lei dimostra proprio ciò, ora mi affido completamente nelle sue mani e nelle sue decisioni, tutto ciò che lei deciderà io l’accetterò senza problemi e senza creare problemi, questa per me è onestà”.

In altri messaggi che si pongono sulla stessa scia, invece, si leggono parole come “Qualsiasi sua decisione andrà benissimo perché lei può disporre di me come un figlio” oppure “Mio caro zio, nella sua lettera ho trovato delle belle parole, lei mi dice che siamo tutti e due sulla stessa barca dobbiamo fare di tutto per non farla affondare, mi dice pure di studiare come superare per non essere criticati ma apprezzati, io la ringrazio immensamente di questa fiducia che mi dà, posso dirle che io mi affido nelle sue mani, quello che fa lei per me è ben fatto e se fa lei possiamo solo essere apprezzati” o ancora “Vorrei umilmente dirle che io non sono meglio di lei, preferisco dire che io appartengo a lei, per come d’altronde è sempre stato, io ho sempre una via che è la vostra, sono nato in questo modo e morirò in questo modo, è una certezza ciò”.

Il rapporto tra mafia e politica

Infine, in un pizzino inviato tra il 2004 e il 2005, Messina Denaro ha denunciato le grandi difficoltà vissute da Cosa Nostra, duramente colpita dalla magistratura e dalle forze dell’ordine. In questo contesto, il boss di Castelvetrano ha espresso poca “fiducia” verso la “politica”. A Provenzano, infatti, ha scritto: “Noi sappiamo come sono i politici che non fanno niente per niente e noi non abbiamo più alcuna forza di contrattualità, ecco perché non credo che ci sia qualche politico che si vada a sporcare la bocca per noi, comunque come si suole dire staremo a vedere. Per il nome del politico lo scriva a parte e lo fa avere a 121, poi sarà 121 a dirlo a me e io capirò”.

Ricevuta poi la risposta da “zio Bernardo”, il “nipote Alessio” ha risposto: “Sì ho già ricevuto il nome del politico”.

Il mistero dei pizzini spariti di Matteo Messina Denaro. Erano custoditi su un minipc e non si trovano dal 2015. Nei file scomparsi anche numeri di telefono e verbali. Marco Bova su L’Espresso il 23 Gennaio 2023.

La scomparsa dei file su Matteo Messina Denaro dà una nuova scossa ai veleni dell’antimafia siciliana. Si tratta dei testi sacri sulla caccia all’ultimo latitante, custoditi in un minipc da 10 pollici e due pendrive, ed evaporati nel 2015 dall’ufficio della Procura di Palermo, utilizzato dal magistrato Teresa Principato che in quegli anni coordinava la caccia e dal finanziere Carlo Pulici, suo stretto collaboratore. Tra questi, due documenti excel, con una sfilza di numeri telefonici incasellati con nomi, date e tipologia di intercettazioni: quelle cessate e quelle all’epoca ancora in corso. Ma anche un dossier con tutti i pizzini sequestrati. Come quelli che vedete in queste pagine trovati il 26 ottobre 1996 a due picciotti di Campobello di Mazara. Lettere simili a rapporti di intelligence su una soffiata, un passaporto falso per il Venezuela, nuove falle nella cosca apprese dalla moglie di un poliziotto «da noi c’è un altro pentito». La scomparsa dei dispositivi ha interrogato anche la commissione Antimafia, che allo scadere dell’ultima legislatura, ha ascoltato Pulici in seduta segreta.

Ma l’episodio è tuttora insoluto, nonostante due inchieste della magistratura. Una prima indagine a modello 45 «priva di notizia di reato», è stata archiviata dalla Procura di Palermo. Adesso anche il secondo fascicolo, avviato a Caltanissetta, su esposto dell’avvocato Antonio Ingroia (ex pm della Dda di Palermo) è stato archiviato. Anzi, secondo il gip nisseno, da una lettura complessiva «emerge l’infondatezza della notizia criminis». Inoltre, «non si è in grado di stabilire se il materiale informatico non più trovato, fosse all’interno degli uffici della Procura di Palermo o altrove». Considerazioni che finiscono per rovesciare il mistero, sollevando ombre proprio sull’uomo che ha denunciato la scomparsa dei dispositivi. E che si è già trovato, suo malgrado, al centro del ciclone giudiziario e mediatico nato dalle intercettazioni all’hotel Champagne attraverso il trojan installato nel telefonino di Luca Palamara che hanno colpito un ignaro Marcello Viola, bloccato nella corsa a capo della Procura di Roma e di rimbalzo la pm Teresa Principato, con il risultato di azzerare il lavoro investigativo svolto sul superlatitante.

Pulici ha potuto lavorare nell’ufficio di Principato fino all’estate 2015, quando fu allontanato con un provvedimento del procuratore Francesco Lo Voi, per il «venir meno del rapporto fiduciario». Era stato denunciato dalla moglie di un collega e indagato per «molestie telefoniche»: l’indagine venne archiviata, ma soltanto nel 2018. Ciò nonostante, l’appuntato continuò a lavorare con la pm, fuori dalla Procura. A tre mesi dall’allontanamento dall’ufficio, il 10 dicembre 2015, chiese ai vertici locali della Finanza di poter recuperare i suoi oggetti dall’ufficio del pm Antimafia. Ottenendo risposta positiva in pochi giorni. Ma del minipc, utilizzato anche per la verbalizzazione dei colloqui con testimoni e collaboratori di giustizia, nessuna traccia: soltanto una scatola vuota nella libreria.

Durante l’accesso con due funzionari della Procura, inoltre, emerse che «dal portapenne era stato asportato un mazzo di chiavi legate con un anello metallico al quale erano ancorate anche le pendrive nelle quali erano riversati i file dal computer della dottoressa». Una parte dei medesimi backup, conservata in altri hardisk, è stata ritrovata dai militari della Finanza, nel corso delle perquisizioni al collega del maggio 2016. Nei verbali c’è un massiccio elenco di dispositivi, ma tra questi, nessun minipc da 10 pollici. «La mia fiducia nei suoi confronti era totale. Non vi erano documenti che consideravo troppo riservati per condividerli con Pulici», ha chiarito Teresa Principato, tagliando corto sulla integrità del finanziere. Sulla sparizione dei file resta però il mistero.

Il Padrino.

Estratto dell’articolo di Damiano Michieletto per il “Corriere della Sera” il 26 gennaio 2023.

 […]

Credo che utilizzare termini come boss o padrino sia giornalisticamente del tutto sbagliato, perché sono parole che hanno un’accezione molto positiva. Boss lo posso anche dire verso un mio amico ad esempio, per fargli un complimento rispetto alla sua leadership carismatica: «Sei un vero boss!».

Padrino deriva da padre, è una parola nobile perché attiene all’ambito religioso, ad indicare la persona che nel battesimo e nella cresima garantisce protezione, cura e sostegno morale.

Mi rivolgo quindi ai media: usate altre parole. Usate quelle giuste. Ci sono termini molto più corretti: mafioso, capomafia, stragista, criminale, pluri omicida, assassino… Ci sono termini precisi che indicano delle responsabilità legate ai fatti.

 Non usate termini ingannevoli e, in fondo, adulatori perché soprattutto le generazioni più giovani devono provare solo disprezzo verso le azioni illegali della criminalità organizzata e non percepire fascino o idealizzazione.

Steve Della Casa per “La Stampa – TuttoLibri” domenica 27 agosto 2023. 

Oggi sono trascorsi cinquant'anni da quando Il padrino è uscito con enorme successo sugli schermi di tutto il mondo, e la verità è sotto gli occhi di tutti. Quel film è stato il vero «cambio di passo» che ha consentito all'industria hollywoodiana di uscire dalla crisi che l'aveva attraversata per tutti gli anni Sessanta e che ha fatto pensare a più di un critico (e soprattutto a molti spettatori) che il cinema americano fosse finito, che fosse una cosa del passato. 

 Il padrino è l'opera di un regista indipendente che si trova a lavorare per una major, la Paramount, che gli mette a disposizione cifre che il giovane Coppola (è di lui che stiamo parlando) non si sarebbe mai potuto immaginare. Ma è anche un film che, proprio parlando di mafia, racconta tante storie che riguardano i rapporti tra la mafia e il potere economico (e anche con l'industria del cinema).

 Ed è un film sul quale storie e fantasie, aneddoti e leggende si sono moltiplicate negli anni. Mark Seal ha lavorato per anni raccogliendo e incrociando informazioni, cercando personaggi che non volevano affatto rilasciare dichiarazioni e trovando tanti che non stavano nella pelle dalla voglia di parlare. Ne è uscito un libro gustoso, voluminoso, ricco di sorprese, che esce adesso anche in Italia per i tipi di Jimenez editore. 

Ogni protagonista ha la sua storia, il suo medaglione, raccontato con dovizia di particolari e senza timori reverenziali. Lo scrittore Mario Puzo, ad esempio, è raccontato nella sua dimensione di bulimico e diabetico pasticcione, pieno di debiti, ludopatico, capace di riversare nel suo romanzo più noto tante letture (soprattutto i Valachi Papers, gli interrogatori cioè del primo grande pentito di mafia) ma anche tante persone da lui davvero conosciute, con qualche sorpresa.

Seal sostiene infatti che il personaggio principale, il padrino che dà il titolo al libro e lo darà anche al film, è ricalcato sulla madre di Puzo stesso, mentre anche la moglie di Gay Telese ha una sua presenza nel film. Un ruolo poi lo ha anche Frank Sinatra, per cui Puzo aveva grande ammirazione e che sicuramente è alla base del personaggio di Johnny Fontane, cantante italo americano affiliato ai clan. Come è noto, di questa vicinanza le cronache di quegli anni non fanno mistero, ma Sinatra se ne ebbe molto a male e sottopose Puzo a una vera e propria scenata quando un incauto amico comune insistette per farli incontrare in un ristorante.

Si rappacificherà solo in parte quando Coppola gli prometterà che il ruolo di quel cantante, importante nel libro, sarebbe stato ampiamente ridimensionato nel film. Peraltro, un piccolo mistero ruota sull'assegnazione di quella parte: sembrava fatta per il cantante Vic Damone, che però improvvisamente rinunciò aprendo la strada allo sconosciuto Al Martino, molto apprezzato dai clan: fu soltanto una coincidenza?

Il casting, peraltro, fu oggetto di un vero e proprio assalto alla diligenza, e i racconti si susseguono. Coppola, scelto a sua volta dopo molti rifiuti (Richard Brooks, Peter Yates, Otto Preminger, Arthur Penn…) e molte autocandidature rifiutate tra le quali spicca Sam Peckinpah che aveva tratteggiato un riduzione cinematografica piena di sparatorie e di morti, dovette simulare una crisi epilettica per convincere i produttori a prendere in considerazione Marlon Brando che era considerato un rompiballe e un attore finito (e scopriamo inoltre che tra i nomi presi in considerazione per quel ruolo c'era anche Carlo Ponti, che avrebbe così abbracciato la professione di sua moglie Sophia Loren).

E soprattutto fuoriesce la figura del produttore Robert Evans, già attore e diventato poi il geniaccio che salva la Paramount sull'orlo del fallimento con la doppietta Love Story e Il padrino, due film tratti da best seller che erano considerati improponibili per il cinema. Evans, che parteciperà alla prima di Il padrino entrando nella sala a braccetto con la moglie Ali Mac Graw (quella di Love Story, ovviamente) e di Henry Kissinger, ha dichiarato all'autore del libro di aver lottato tutta la vita contro il sistema e i soldi, contro la mafia e la Paramount, sostenendo che i due termini potrebbero essere sovrapponibili. 

Ed è lui che ha portato Coppola (fino a quel momento regista indipendente che faceva per vivere gli horror con Roger Corman e i nudies che andavano di moda in quegli anni) e Polanski (autore polacco che aveva cercato Hollywood spinto da un grande amore per la classicità) alla Paramount, risultando anche l'ispiratore del bellissimo Chinatown.

Sono migliaia, come dicevamo, le storie e le rivelazioni che si hanno dalla lettura di questo libro. E da questa considerazione esce ancora una volta una conferma: il cinema, come diceva Bertolucci, è l'arte del Novecento, un secolo che non si può raccontare senza il cinema. Dietro ogni grande capolavoro si nascondono sempre grandi storie: succede sempre, quando la fonte è la realtà e la pellicola è stata usata come una spugna capace di assorbirla e poi di restituirla nei suoi racconti.

 Estratto dell'articolo di Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 20 Gennaio 2023.

Il poster di don Vito Corleone attaccato alla parete del covo del super boss quasi fosse un'immaginetta sacra, un simbolo da venerare […]

Ci è cascato anche Matteo Messina Denaro che, nel primo covo dove ha trascorso una parte della sua latitanza, ha scelto Il padrino di Francis Ford Coppola come quadro per decorare le pareti.

 […]

Alcuni tra i più famosi sociologi italiani hanno sottolineato l'importanza dei film per le mafie. La mafia vuole costruire un'identità che tutti possano riconoscere, ma non può farlo legalmente, spiegano. E comportandosi come i gangster sullo schermo, fanno sapere che sono i veri mafiosi. Il paradosso è che i boss (veri) modellano la propria immagine su quella (fittizia) che appare al cinema. E nel caso delle organizzazioni criminali, le pellicole a loro ispirate finiscono per diventare, sebbene in maniera involontaria, una grande macchina pubblicitaria. […]

Francesco Tortora per corriere.it – articolo del 13 gennaio 2017

E' una delle pellicole più celebri della storia del cinema e ha fatto conoscere la mafia italo-americana in tutto il mondo. Tuttavia nel film «Il padrino», capolavoro del 1972 di Francis Ford Coppola con Marlon Brando, la parola «mafia» non è mai pronunciata. Una coincidenza? «Nient'affatto» ha spiegato al settimanale britannico Short List Gianni Russo, uno degli attori dell’opera vincitrice di tre premi Oscar. Sarebbe stato il boss italo-americano Joseph Colombo a imporre alla Paramount di cancellare dal copione i termini «mafia» e «Cosa Nostra» dopo ripetute minacce.

Il furto milionario a Little Italy

L'attore Russo che nel film interpreta Carlo Rizzi, il genero del boss Vito Corleone, racconta che a opporsi fu l'Italian-American Civil Rights League, gruppo politico di New York che combatteva gli stereotipi usati contro gli italo-americani e che al tempo era presieduto proprio dal boss Joseph Colombo.

Appena la casa di produzione americana annunciò che avrebbe girato un film basato sul romanzo bestseller di Mario Puzo, l’organizzazione manifestò la propria contrarietà. Ma, a differenza di un qualsiasi gruppo di pressione, la «Lega dei diritti civili degli italo-americani» arrivò ad usare le maniere forti e le minacce pur contrastare il film: «Ci furono intimidazioni e avvertimenti molto seri da parte della mafia - dichiara Russo -. La famiglia Colombo aveva attorno a sé idioti che sarebbero stati capaci di tutto. Coppola andò a Little Italy con un piccolo caravan per fare i primi test. Quando tornò dal pranzo, il camioncino era sparito e con esso tutta l'attrezzatura che valeva milioni di dollari».

Le minacce e l'accordo con il boss

Le minacce non si fermarono qui. Il produttore Robert Evans ricevette una telefonata anonima nell'hotel di New York in cui soggiornava: «Non vogliamo spaccarti la tua bella faccia – disse una voce anonima -. E non vogliamo neppure far del male a tuo figlio. Andatevene dal nostro quartiere e non girate il film. Avete capito?». Al quel punto il produttore decise di contattare direttamente il boss Colombo per «sistemare» la faccenda. Come racconta Tom Santopietro, storico del cinema e autore del libro «The Effect Padrino», il gangster italo-americano accettò che fosse girato il film, ma a determinate condizioni: «Né la parola ‘Mafia’ né ‘Cosa Nostra’ devono comparire nella sceneggiatura» tagliò corto il boss. Inoltre la produzione promise di donare il ricavato dell'anteprima a un fondo di edilizia ospedaliera promosso dall'Italian-American Civil Rights League.

La vendetta delle famiglie Gambino e Luciano

Non tutti i mafiosi gradirono la benedizione al film e pochi mesi dopo Joseph Colombo fu punito: il boss fu colpito da un sicario con diversi colpi d'arma da fuoco alla testa e al collo e rimase paralizzato per sette anni, prima di morire nel 1978: "Carlo Gambino (capo della famiglia Gambino) e Frank Costello (capo della famiglia criminale Luciano) lo avevano avvertito - sentenzia Gianni Russo -. Dando l'ok al film, aveva acceso i riflettori sulla mafia e sul suo stile di vita".

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo e Francesco Patanè per repubblica.it il 20 Gennaio 2023.

Non solo il poster del "Padrino", anche quello del "Joker". Matteo Messina Denaro aveva una passione per i criminali raccontati dal cinema. E nel salone del suo appartamento di via Cb 31 li aveva messi in bella mostra. Sotto il poster del "Joker" anche una frase: "C'è sempre una via d'uscita, ma se non la trovi sfonda tutto"

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 Se a Palermo cominciano ad arrivare i provvedimenti cautelari a Campobello di Mazara I tre covi e le abitazioni sequestrate ai fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro sono diventati territorio di caccia degli specialisti del Ris e della polizia scientifica. Le tute bianche sono al lavoro per esaminare ogni millimetro quadrato a caccia della più piccola traccia utile a ricostruire la rete di coperture e connivenze, ma anche di covi e rifugi sicuri dell'ormai ex primula rossa. Vicolo San Vito, via Maggiore Toselli, via San Giovanni, via Cusmano. Soprattutto quest'ultima che ieri è stata sequestrata dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, guidati dal procuratore aggiunto Paolo Guido.

Il Pentimento.

«Io, un criminale onesto». La frase-testamento del boss. Come a dire: non uccido bambini. Storia di Roberto Saviano su Il Corriere della Sera giovedì 5 ottobre 2023.

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 6 ottobre. La pubblichiamo online per i lettori di Corriere.it

Matteo Messina Denaro ci ha lasciato, prima di morire, un documento di inestimabile valore e non solo per chi studia le organizzazioni criminali. È un documento che dovrebbe essere raccontato anche e soprattutto a chi non ha dimestichezza con le dinamiche mafiose, perché sia chiaro come gli affiliati e i capi descrivono sé stessi, come si considerano e vogliono essere ricordati. Il testamento di Matteo Messina Denaro è l’interrogatorio che il boss ha reso al procuratore di Palermo Maurizio De Lucia lo scorso febbraio; reso pubblico quasi interamente ad agosto. Ma perché questo documento lo si può considerare il suo testamento? Perché è malato, sa che non gli resta molto da vivere e ha la necessità di chiarire definitivamente una serie di questioni rimaste - nella sua opinione - per troppo tempo monche della sua versione.

NELL’INTERROGATORIO DI FEBBRAIO AL PROCURATORE DE LUCIA LASCIÒ INTENDERE CHE LO FECE RAPIRE, NON AMMAZZARE

Ma partiamo dal principio. Questo interrogatorio è una sorta di prisma, nel senso che le risposte assumono un significato diverso a seconda della prospettiva da cui le si analizza. Una premessa: Matteo Messina Denaro apparteneva ai vertici di Cosa Nostra; probabilmente, quando è stato arrestato, addirittura era il capo di Cosa Nostra. Secondo altre interpretazioni, Messina Denaro avrebbe tentato, fino alla fine, di non essere identificato come il capo; quel che è certo è che stiamo parlando di un uomo d’onore e un uomo d’onore non risponde mai e poi mai, per regola, alle domande di un giudice. Ma è sempre così? Siamo davvero certi che non abbia detto nulla? No. E anzi, ha detto molto più di quanto a prima vista possa sembrare. «Ci saranno cose in cui non rispondo, cose in cui rispondo e spiegherò il motivo per cui rispondo, e cose che spiegherò il motivo per cui non voglio rispondere».

LE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI SEGUONO LE LORO REGOLE. CHE SON ANCHE LE NOSTRE, SERVONO A CAPIRE IL MONDO

Sembra una frase da niente, una cosa detta così, senza significato, eppure questa affermazione di Messina Denaro è pregna di senso, è la regola dell’uomo d’onore: la regola dell’omertà. E qui arriva, diretta, la domanda diretta del procuratore: «Lei è un uomo d’onore?». La risposta potrebbe sembrare scontata, ma non lo è: «No. (...) No, io mi sento uomo d’onore nel senso di altri... Non come mafioso». Per comprendere questa risposta dobbiamo tenere presente che un uomo d’onore non può mai dire di esserlo, nemmeno se a chiederglielo è un altro uomo d’onore. Per regola secolare di Cosa Nostra, un uomo d’onore può presentarsi come tale a un altro uomo d’onore solo in presenza di una terza persona, uomo d’onore a sua volta, conosciuta da entrambe e che userà una formula rivolgendosi a tutti e due: «Stessa cosa».

Ci sono uomini d’onore che condividono per anni la cella con un altro uomo d’onore, ma non essendo mai stati presentati non possono rivelarsi come affiliati. Messina Denaro, quindi, come da regola, afferma di non essere stato “combinato” uomo d’onore, nega di appartenere a Cosa Nostra e dichiara di aver sentito nominare Cosa Nostra solo dai giornali e in televisione. Ma aggiunge: magari ci facevo qualche affare e non sapevo che era Cosa Nostra. E stragi? Omicidi? Traffico di stupefacenti? Commesso niente? La risposta è «no, mai, nella maniera più assoluta». Eccola l’omertà classica che metterà il boss in contraddizione per tutto l’interrogatorio, in una sorta di tensione mistica tra un continuo disvelamento e la consapevolezza che chi ti ascolta sa perfettamente chi ha davanti ed è pronto ad accogliere qualunque elemento, anche il più piccolo, che possa essere utile alle indagini.

E qui il capolavoro. Messina Denaro si definisce un «criminale onesto» che non tocca chi è estraneo all’organizzazione. Vuole riportare verità, la sua verità, sulla morte del piccolo Giuseppe Di Matteo. Non è stato lui a decretarne la morte; lui aveva orchestrato il rapimento, ma la morte no. Ma non aveva detto che non conosceva Cosa Nostra, che non aveva mai partecipato a nulla che riguardasse l’organizzazione criminale, che non ne conosceva gli affiliati ed era del tutto estraneo alle sue attività? Ora dice di un rapimento ordito affinché il padre del bambino, affiliato anch’egli, ritrattasse quanto rivelato agli inquirenti. Eccola la contraddizione. Così comunicano gli affiliati, in un mondo dove non valgono le nostre leggi, ma solo le regole. Vi sembrerà assurdo ma le regole da loro seguite, le contraddizioni in cui si muovono sono anche le nostre. Ecco perché bisogna studiare le organizzazioni criminali: attraverso loro capiamo il mondo in cui viviamo.

Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per “la Repubblica” l'1 ottobre 2023.

La morte di Matteo Messina Denaro non cancella ciò che ha fatto nel passato e soprattutto quello che ha detto negli ultimi mesi di vita, in particolare nell’ultimo interrogatorio del 7 luglio. È rimasto davanti ai pm di Palermo per quasi quattro ore, ha instillato dubbi e lanciato messaggi depistanti. Ha risposto alle domande […]. Ha provato a farli sbandare, ma senza successo, sostenendo che, secondo il suo punto di vista, la magistratura, in passato, ha affrontato inchieste come quelle sulle stragi, senza però arrivare alle vere motivazioni. 

E qui Messina Denaro sparge veleno. Due mesi prima di morire u Siccu ha messo a verbale che secondo lui gli inquirenti non hanno capito la vera origine della strage di Capaci, da cui, secondo il boss, parte la strategia terroristica mafiosa. O ancora peggio, e qui arriva altro veleno, si sono accontentati di quello che avevano, che per lui non corrisponde alla realtà.

Insomma, il boss non ha accettato di collaborare con i pm, non ha voluto chiarire le proprie posizioni, pur ammettendo per la prima volta di essere un mafioso, ma ci tiene a prendere le distanze da altri accusati di mafia. Esclude che Falcone sia stato ucciso per le condanne del maxi processo. Incalzato dai pm, il boss dice: «Voi magistrati vi siete accontentati che il giudice Falcone sia stato ucciso perché ha fatto dare 15 ergastoli al maxi processo?». 

Paolo Guido lo riprende: «Perché fa riferimento proprio alla strage Falcone?». «Perché penso sia la cosa più importante, da dove nasce… quantomeno da dove nasce tutto» risponde u Siccu. «Tutto cosa?» chiede Guido, e lui: «Le stragi, l’input», e il boss sottolinea che fa riferimento proprio a Capaci e via d’Amelio e agli altri attentati del 1993. È un depistaggio?

«Sì, sì, questa strage (Falcone, ndr)…, tutto da là parte» afferma Messina Denaro: «Faccio un altro esempio: dopo non so quanti anni, avete scoperto che non c’entrava niente Scarantino (il falso pentito della strage di via d’Amelio, ndr) […] … Ora la mia domanda è, me la pongo, diciamo, da scemo: perché vi siete fermati a La Barbera (Arnaldo La Barbera, il dirigente della polizia che ha indagato sulle stragi sospettato di aver contribuito al depistaggio, ndr)? Perché La Barbera era all’apice di qualcosa... ha capito cosa… il contesto?». 

Il boss ipotizza: «E se La Barbera fosse ancora vivo, ci sareste arrivati o vi sareste fermati un gradino prima di La Barbera?». Il capomafia crea ombre sul modo di indagare. […]

I pm gli fanno presente che lui le risposte a queste domande le conosce e vorrebbero che ne parlasse a verbale. «Ma se ce le ho io, perché non le deve avere lei? Io che sono, più intelligente?» svia il boss, e Guido lo riporta sui binari dell’interrogatorio: «Perché secondo la nostra ricostruzione e quello che dicono le sentenze, lei è stato uno dei protagonisti di tutta questa storia». 

U Siccu a questo punto riversa la responsabilità sul padre Francesco Messina Denaro che era il capomafia di Trapani e vecchio amico di Riina e attacca le ricostruzioni giudiziarie in cui viene affermato che lui gli è subentrato nella commissione di Cosa nostra mentre il vecchio padrino era vivo. 

«Una cosa che non ho mai sopportato è pensare che mio padre è stato descritto come il cameriere di qualcuno (dei corleonesi, ndr). E quindi mio padre cosa era il cameriere di queste persone o il mio cameriere? Mio padre era mio padre, fino a quando fu vivo, su questo non c’è ombra di dubbio» e aggiunge: «A un tratto con mio padre vivo, io rischio, comando tutto e lui mi diventa il cameriere della consorteria?».

[…] «Ascolti, dottore Guido, e veda che quello che sto dicendo è verità... tutti questi, chiamiamoli pentiti, che hanno detto, sì, qualche pezzo di verità, e hanno fatto fare dei processi, va bene, ma ognuno ha portato acqua al proprio mulino. 

E per farlo dicono cose che possono essere reali e coincidere con quello che cercate voi o con quello che interessa a voi, ben venga, giusto? Ma ci sono cose, però, che, per esempio, nessuno è mai arrivato, perché a me sembra un poco riduttivo dire che a Falcone lo hanno ucciso per la sentenza del maxi processo. Se poi voi siete contenti di ciò, ben venga, sono fatti vostri, ma la base di partenza non è questa... parlo di grandi cambiamenti». E queste sue versioni sono finite con lui nella tomba.

Estratto dell'articolo di Lara Sirignano per corriere.it il 21 maggio 2023.

Non ha ancora un «compagno», un detenuto, come lui al 41 bis, col quale trascorrere l’ora quotidiana di socialità che, per legge, anche chi è al carcere duro può avere. Sta da solo Matteo Messina Denaro . E in solitudine passa anche i 60 minuti (al giorno) all’aperto che la normativa gli concede, camminando in una sorta di cortile tre metri per tre chiuso in alto da una rete metallica piazzata per impedire tentativi di evasione dal cielo. Sveglia all’alba, giornate interminabili.

Il capomafia di Castelvetrano (Trapani), arrestato il 16 gennaio a Palermo dai carabinieri del Ros dopo 30 anni di latitanza e recluso nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila, ha mantenuto la passione per i libri. […] Un impegno che alterna con l’attività fisica. In una delle due stanzette che gli sono state destinate il padrino di Castelvetrano si allena quotidianamente: una panca e poco altro per poter rimanere in movimento.

Guarda poco la tv. Una circolare del Dap del 2017, la prima che regola in dettaglio la quotidianità dei detenuti al 41 bis, limita i canali a disposizione del capomafia: quelli della rete nazionale, vale a dire pacchetto Rai (1-2-3-4-5, news, movie, scuola, storia, rai sport 1 e 2, premium, yoyo, gulp), canale 5, rete 4, Italia uno, la sette, cielo, iris e TV 2000, sintonizzati e abilitati da tecnico di fiducia della direzione del carcere. Impossibile, invece, accedere alle reti locali. Può consultare i quotidiani nazionali fino a un massimo di 5 al giorno. Non può cucinarsi il cibo ma solo riscaldarlo. Il vitto gli viene passato da un altro detenuto al carcere duro che lo riceve da un agente del Gom, il corpo d’élite della polizia penitenziaria. 

Secondo le prescrizioni mediche — Messina Denaro ha un tumore al colon per il quale è stato operato due volte durante la latitanza — periodicamente il padrino viene sottoposto, sempre in carcere, alla chemioterapia. […]

Non si sa ancora quale detenuto sarà scelto come compagno di socialità del boss. La circolare del Dap prevede tra l’altro la limitazione degli incontri tra i vertici delle stesse «famiglie» mafiose, di gruppi alleati e di gruppi o clan contrapposti. A Totò Riina venne affiancato ad esempio un esponente della Sacra Corona Unita.

Un’ovvia precauzione per evitare comunicazioni criminali tra affiliati allo stesso clan. Nel decalogo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria c’è anche un tassativo elenco degli oggetti che il boss può tenere in cella: «Forbicine rigorosamente con punte rotonde, taglia unghie senza limetta, pinzetta e rasoio in plastica». Vietati gli spray e le calzature che possano nascondere oggetti.

Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per "la Repubblica" il 20 maggio 2023.

Il vetro blindato divide Matteo Messina Denaro dalle tre sorelle che sono andate a trovarlo per la prima volta dopo l’arresto, nel carcere dell’Aquila. Ci sono Rosalia (che poche settimane dopo verrà arrestata per mafia), Bice e Giovanna. U siccu le rassicura sulla sua strategia, e con un filo di voce, quasi sussurrando, ma facendosi capire con l’aiuto del labiale, ripete: «Non mi pento». 

[…] questa sua linea l’aveva già chiarita ai pm che lo hanno incontrato la prima volta in cella, affermando che non avrebbe collaborato, salvo fare lunghe e tortuose dichiarazioni in cui si discolpa di ogni omicidio, strage o delitto in cui è stato condannato definitivamente. Sostenendo pure che lui non è nemmeno affiliato a Cosa nostra e quindi dice di non essere un uomo d’onore.

Scarica ogni responsabilità sul padre, Francesco Messina Denaro, amico di Riina. Questo modo di fare rientra nel personaggio mafioso che racconta bugie e non vuole “sporcare” il blasone dei Messina Denaro, tradendo Cosa nostra.

Il boss è consapevole che se parlasse potrebbe cambiare la storia del Paese e a chi glielo fa notare in cella, U siccu si limita a sorridere, e non risponde. Come se volesse vantare questo invisibile potere. È un personaggio che vive nel suo mito. 

Il tumore lo sta corrodendo e lui vuole andare via senza tradire nessuna delle persone che per trent’anni lo hanno coperto e favorito. E lo hanno aiutato a nascondere il suo ricco bottino. Un tesoro a cui il procuratore della Repubblica di Palermo Maurizio de Lucia e il suo aggiunto Paolo Guido stanno dando la caccia. Ma ha fatto male i conti: i complici, quelli dai colletti bianchi, sono già nel mirino degli inquirenti. 

[…] Nonostante ciò, lui si sente sicuro: «Non mi tradisce nessuno».

[…]

I sentimenti non fanno parte della sua natura. Lo ha dimostrato il 26 aprile scorso, nel giorno del suo compleanno, quando è andata a trovarlo in carcere la figlia Lorenza, 26 anni. Ufficialmente è la prima volta che si incontrano. In latitanza non l’avrebbe mai cercata per parlarle. 

Adesso ha davanti una ragazza che ha insistito per andarlo a trovare.

Lui è seduto dietro il vetro della sala colloqui. Lei è emozionata. Lui non lascia intravedere alcuna commozione, è freddo anche quando Lorenza lo chiama papà. In meno di un’ora di colloquio il boss le rinfaccia alcuni comportamenti che lei ha avuto quando era adolescente.

Dal modo con il quale il boss ricostruisce gli episodi del passato è come se l’avesse sempre controllata a distanza. E con tono freddo, ma pacato, chiede se ha ricevuto i regali che in questi anni le ha fatto recapitare, lamentandosi però di non aver mai avuto un segnale di «ringraziamento » […] Lorenza gli fa capire che erano regali costosi, afferma di averli presi, non li ha mostrati ma non li ha rivenduti. Li ha conservati. 

Avrebbero tante cose da dirsi padre e figlia, il tempo nella sala colloqui è tiranno ma basta a Lorenza per non nascondere la gelosia di figlia per un’altra ragazza di Campobello di Mazara di cui ha parlato suo padre in messaggi e lettere. Parlano di una quasi coetanea cresciuta in una famiglia mafiosa, presa come esempio in lettere e messaggi scritti da Messina Denaro, il quale adesso prova ad aggirare la storia e si raccomanda di non dare retta a quello che legge sui giornali o sente in televisione.

La figlia lo ascolta e poi gli spiega che ha riallacciato i rapporti con le zie, le tre sorelle di suo padre, con le quali aveva avuto forti discussioni in passato, dopo la sua decisione di lasciare la casa dei Messina Denaro, dove è stata costretta a vivere per diciotto anni con la mamma. Un modo per dirgli che è rientrata nella famiglia. Alla fine dell’incontro il boss la guarda in faccia e le dice che se vorrà il cognome di Messina Denaro all’anagrafe, lui non si opporrà. E adesso è una decisione che spetta solo a Lorenza.

Messina Denaro: «Sono un agricoltore apolide. I miei beni segreti? Non li dico: non sono stupido». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2023.

Il boss irriverente e ironico di fronte ai magistrati nel primo inedito interrogatorio depositato in procura a Palermo lo scorso 21 febbraio. «Non ho più niente, mi avete già portato via tutto. Cosa nostra? La conosco solo dai giornali»

«Ero un agricoltore, lavoravo in campagna. Sono di Castelvetrano, ma una residenza non ce l’ho più da tempo perché il Comune tanti anni fa mi ha cancellato. Io ormai sono un apolide…Non faccio parte di nessuna associazione. Quel che so di Cosa nostra lo so dai giornali». Toni secchi a tratti irriverenti e ironici e la recita del tradizionale copione dei veri capi di Cosa nostra che impone di negare sempre, negare tutto. 

È un Matteo Messina Denaro rispettoso della «tradizione» mafiosa quello che viene fuori dal primo inedito interrogatorio depositato dalla procura di Palermo che ha sentito il padrino, il 21 febbraio scorso, nel corso di un interrogatorio di garanzia davanti al gip. Uno dei tanti procedimenti penali che lo vedono coinvolto, stavolta con l’accusa di estorsione aggravata. Secondo i magistrati avrebbe minacciato pesantemente la figlia di un prestanome per farsi restituire un terreno che la famiglia Messina Denaro aveva fittiziamente intestato al padre, Alfonso Passanante.

«Ha dei soprannomi?», gli chiede il gip Alfredo Montalto preliminarmente. «Mai avuti. Me li hanno attaccati da latitante i vari giornalisti, ma io nella mia famiglia non ho avuto soprannomi», dice. E quando il magistrato gli chiede delle sue condizioni economiche il boss risponde: «Non mi manca nulla». «Beni patrimoniali?», prosegue il gip. «Li avevo, me li avete tolti tutti e se comunque qualcosa ho, no lo dico. Sarebbe stupido. Certo che ne ho sennò come potevo vivere fino a ora», replica beffardo. E piccata è anche la risposta sulle condanne riportate. «Credo di sì». Ma quando il magistrato lo incalza aggiunge: «Mi ascolti, io ho detto credo di proposito perché anche voi dall’altra parte mi avete chiesto se ho sentenze definitive lo sapete pure voi e allora l’ho preso con un po’ di umorismo». 

Sulla vicenda che gli viene contestata dal pm Gianluca De Leo il boss racconta la sua verità ammettendo di aver scritto una lettera alla vittima per riavere il suo terreno e negando di essersi servito di terze persone per fare arrivare il messaggio che comunque era solo la rivendicazione di una pretesa legittima. «Negli ultimi anni — ha raccontato — vengo a sapere che lei (la figlia di Passanante, ndr) stava vendendo il terreno. Perché lo venni a sapere? Perché il marito si recava in quel sito agricolo con i sensali, che con i vari compratori, infatti avevano quasi l'affare concluso. Tra parentesi avevano l'affare concluso sotto prezzo, tanto non è che era suo, perché lei che cosa voleva fare, prendersi questi soldi di questo terreno, cioè lo rubava, e pagarsi il mutuo. Arrivati a un dato punto, questi sono discorsi per me non onesti, perché le persone agiscono come vogliono, ma va bene così, ognuno poi risponde con la propria dignità delle cose fa, nel bene e nel male. Allora che cosa ho fatto, che volevo dire alla Passanante che il terreno non è suo, che è mio, perché lo comprò mio padre. E allora che cosa ho fatto, l'ho contattata, con una lettera, e gliel'ho firmata, non ho detto pseudonimi, firmato con Matteo Messina Denaro, perché io credevo di essere nella ragione dei fatti». 

Un’ampia parte dell’interrogatorio depositato dalla Procura è coperto da omissis e riguarda, tra l’altro, i rapporti del padrino con i boss corleonesi che Messina Denaro nega di aver mai visto e la vicenda del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito sequestrato e sciolto nell’acido dopo oltre 700 giorni di prigionia. Il capomafia avrebbe smentito qualunque suo coinvolgimento nella tragica storia confutando con asprezza le accuse del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca che — ha detto ai pm — «non ha mai incontrato».

L'interrogatorio del padrino. Messina Denaro: “Sono un contadino, non conosco Cosa Nostra”. Silenzio sul piccolo sciolto nell’acido nel 1993. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista il 9 Maggio 2023 

“Mi chiamo Matteo Messina Denaro, lavoravo in campagna ed ero un agricoltore. La residenza non ce l’ho più perché il Comune mi ha cancellato. Ormai sono un apolide.“ Inizia così l’interrogatorio inedito del boss ascoltato il 21 febbraio scorso dal gip Alfredo Montalto e dal pm Gianluca De Leo.

Toni ironici e irriverenti. Una sola regola, negare tutto anche di fronte alle evidenze: “Non faccio parte di nessuna associazione. Quel che so di Cosa nostra lo so dai giornali. Le mie condizioni economiche? Non mi manca nulla. Avevo beni patrimoniali ma me li avete tolti tutti. Se ancora ho qualcosa non lo dico, mica sono stupido”.

“Ha dei soprannomi?” – gli chiede il magistrato – “Mai, me li hanno attaccati da latitante i vari giornalisti. Ma io nella mia famiglia non ho avuto soprannomi”, risponde il boss che, al contrario di quanto ammette, dai suoi era chiamato U siccu e Diabolik. È un Matteo Messina Denaro che recita alla perfezione il copione dei veri capi di Cosa Nostra.

Piccata è anche la risposta sulle condanne riportate – “Credo di sì”. Ma quando il magistrato lo incalza aggiunge: “Mi ascolti, io ho detto credo di proposito perché anche voi dall’altra parte mi avete chiesto se ho sentenze definitive lo sapete pure voi e allora l’ho preso con un po’ di umorismo”.

Il boss risponde poi alle domande del pm Gianluca De Leo nell’ambito di uno dei tanti procedimenti penali che lo vedono coinvolto, stavolta con l’accusa di estorsione aggravata. Secondo i magistrati avrebbe minacciato pesantemente la figlia di un prestanome per farsi restituire un terreno che la famiglia Messina Denaro aveva fittiziamente intestato al padre, Alfonso Passanante.

Messina Denaro racconta la sua verità ammettendo di aver scritto una lettera alla vittima per riavere il suo terreno e negando di essersi servito di terze persone per fare arrivare il messaggio che comunque era solo la rivendicazione di una pretesa legittima. “Negli ultimi anni vengo a sapere che stavano vendendo il terreno.” – racconta l’ex latitante – “E allora che cosa ho fatto, l’ho contattata, con una lettera, e gliel’ho firmata, non ho detto pseudonimi, firmato con Matteo Messina Denaro, perché io credevo di essere nella ragione dei fatti”. 

Infine un’ampia parte dell’interrogatorio riguarda i rapporti del padrino con i boss corleonesi che Messina Denaro nega di aver mai visto e la vicenda del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito sequestrato e sciolto nell’acido dopo oltre 700 giorni di prigionia. Il capomafia avrebbe smentito qualunque suo coinvolgimento nella tragica storia confutando le accuse del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca che a suo dire “non ha mai incontrato”.

La madre di Giuseppe, Francesca Castellese, denunciò la scomparsa del figlio il 14 dicembre 1993. In serata fu recapitato un nuovo messaggio a casa del nonno, omonimo, Giuseppe Di Matteo, con scritto “Il ragazzo ce l’abbiamo noi, non andare ai carabinieri se tieni alla pelle di tuo nipote” successivamente al nonno fu fatta vedere una foto del ragazzo e gli venne comunicato: “Devi andare da tuo figlio e farci sapere che, se vuole salvare il bambino, deve ritirare le accuse fatte a quei personaggi, deve finire di fare tragedie”.

Giulio Pinco Caracciolo

Le voci sul pentimento di MMD. Matteo Messina Denaro e i complottisti: cosa succederebbe in caso di pentimento del boss mafioso. Alberto Cisterna su Il Riformista il 26 Marzo 2023

Bagliori, qualche lampo, un brontolio lontano. Al netto della solita, angusta cerchia di giornalisti accampati nelle stanze degli inquirenti, si comincia a vociferare con una certa insistenza della possibilità che Matteo Messina Denaro vuoti il sacco e cominci a collaborare con la giustizia. Per carità, sussurri, sibili, mezze frasi del boss rese ancora in modo informale e circoscritto, ma può darsi che qualcosa bolla in pentola. La metafora del fumo e dell’arrosto è abusata, ma se qualcuno ben introdotto nella Sicilia investigativa parla di una borghesia palermitana in fibrillazione per paura che il capo vuoti il sacco nell’aria ci deve pur essere qualcosa.

La questione è interessante, perché già uno dei fratelli Graviano, pur senza collaborare con la giustizia, aveva rilasciato qualche dichiarazione innanzi ai giudici calabresi, aveva lasciato intravedere qualche scenario toccando, anzi sfiorando, le corde di sensibilità di una ben individuata fazione dell’antimafia italiana ancora alla ricerca del terzo livello e dei mandanti occulti. È evidente che la collaborazione con la giustizia di M.M.D. è non solo sommamente auspicabile, ma costituirebbe la prima vera svolta nello scenario del contrasto alle mafie e alle loro collusioni e infiltrazioni che – da quasi due decenni – vede solo figure di secondo e terzo piano approcciarsi ai benefici carcerari e rendere dichiarazioni solitamente (salvo le chiacchiere) collocate al medesimo, modesto livello di importanza.

Potrebbero essere utili due considerazioni, una più generale, l’altra più ravvicinata alla posizione del capomafia siciliano appena catturato. Su un piano generale il regime duro di 41-bis reca, nella sua stessa struttura, l’ammissione di una grave sconfitta dello Stato contro le organizzazioni criminali e una contraddizione. Se lo scopo dichiarato del carcere duro e (spesso in tandem) del pur nuovo regime di ergastolo ostativo è quello di impedire che i boss, dall’interno dei penitenziari, possano continuare a dirigere i loro clan, allora vuol dire che poco o nulla si è fatto in questi anni per destrutturare le cosche le quali sarebbero pronte all’unisono a obbedire ai capi non appena ne fosse reso più lasco l’isolamento in cella o recuperassero brandelli di libertà con qualche misura alternativa. Ovviamente non è così. Dal 1992 in poi i successi sono stati enormi su tutti i versanti e, giustamente, il ministro Nordio e il capo dell’Ufficio legislativo, Mura, sono stati ben fieri a Londra, nel corso di un importante consesso internazionale, di evocare la grande capacità investigativa e operativa della giustizia italiana su questo versante, vero modello per tutti.

Certo non bisogna cullarsi negli allori e bearsi dei risultati conseguiti. Il procuratore nazionale Melillo, in una importante intervista di qualche giorno or sono, ha per la prima volta manifestato la preoccupazione per l’esistenza di un gap tecnologico e formativo tra le forze di polizia italiane e quelle dei paesi più vicini nei settori più avanzati della minaccia mafiosa e terroristica (dark web, monete elettroniche e via seguitando). Ma questa è, per così dire, la prossima frontiera dell’impegno dello Stato, tuttavia guardando allo stato delle cosche i cui capi sono a regime duro i successi brillano e sono indiscutibili. Quindi sia il regime a 41 bis che l’ergastolo semi-ostativo si fondano su una sorta di post verità che è arduo confutare, ossia che fuori da quelle carceri c’è poco o nulla sia in termini di uomini che di patrimoni e che tutto punta, invece, a stimolare collaborazioni di giustizia o meno nobili pentimenti. E qui la cornice generale si incrocia con le scelte di M.M.D. e le sue possibili iniziative. L’uomo è stato pesantemente sbeffeggiato dagli investigatori con la pubblicazione di un nugolo di audio e messaggi, con l’esibizione di materiale sequestrato che mostra all’evidenza che non si è in presenza di un monaco zen votato alla causa mafiosa, ma che – come tanti – ha fragilità, passioni, esaltazioni, cedimenti.

Rispetto alla generazione di Riina e Provenzano, alle loro parsimoniose esistenze e alle loro vite circoscritte ai propri familiari, come dire, MMD ha mostrato un “dinamismo” esistenziale che ne ha pesantemente scalfito l’immagine ieratica e carismatica che pur voleva trasmettere e consegnare ai posteri. Al momento appare come un piccolo viveur di provincia, poco interessato al crimine e molto di più a una sorta di gaudente e godereccio approccio alla vita reso possibile dalla latitanza in un piccolo paese. Certo salterà fuori altro, ma il discorso non può ipotizzare scenari e futuribili, deve piuttosto confrontarsi con lo stato dell’arte odierna. Probabilmente è una belva ferita nell’orgoglio e minata nella salute da un aggressivo tumore, potrebbe scegliere la via più pericolosa, ma anche la più remunerativa per i suoi disegni: squadernare una serie di dichiarazioni (anche facendo finta di ignorare che viene intercettato) che possano scuotere il paese e mettere in fibrillazione le istituzioni non solo siciliane.

Al minimo spiraglio in questo senso un nugolo di articoli, di interviste, di trasmissioni televisive e di talk show sezionerebbe ogni sillaba, ogni parola, ogni sospiro alla ricerca di conferme per le teorie complottiste che per anni sono state alimentate in certi circuiti in mancanza di prove decisive. A settimane giungerà innanzi alla Corte di cassazione il procedimento sulla “Trattativa” il cui epilogo i pubblici ministeri e gli imputati, secondo traiettorie contrapposte, intendono ribaltare o modificare. L’occasione è, per così dire, troppa ghiotta per non lasciarsi sfuggire qualche frase, qualche dichiarazione, qualche sibilo che possa rinfocolare un clima di scontro nel paese; e quello potrebbe essere solo l’inizio di una strategia mediatica volta a ribaltare una bruciante umiliazione. Sia chiaro, non è in discussione che gli inquirenti, con pazienza e fatica, sapranno discernere le menzogne dalle possibili verità, ma ci vorrà un mucchio di tempo e una nazione, già sfibrata da feroci contrapposizioni su questo terreno, vivrebbe l’ennesima stagione di veleni deturpanti l’immagine di persone e istituzioni. È solo uno scenario, per carità, ma è amara la constatazione che una democrazia matura possa essere gettata in un precipizio di sospetti e ricatti da un feroce boss che, ormai, non ha nulla da perdere e che tanto sangue innocente ha versato. Alberto Cisterna

Cosa loro. Per la prima volta Matteo Messina Denaro ha ammesso l’esistenza della mafia. Giacomo Di Girolamo su L’Inkiesta il 27 Marzo 2023

Il boss ha detto ai magistrati che fu Giovanni Brusca a ordinare l’omicidio del dodicenne Giuseppe Di Matteo, confermando l’esistenza di un’organizzazione mafiosa. Finora un capo così importante non lo aveva mai riconosciuto

C’è qualcosa di importante, davvero, nelle parole di Matteo Messina Denaro. Interrogato per una vecchia vicenda marginale, una tentata estorsione, l’ex latitante, in carcere dallo scorso 16 gennaio, ha parlato lo stretto necessario, come fa sempre, da due mesi a questa parte. Il giudice, come da prassi, gli ha elencato le sue condanne. Ma giunti a quella per il rapimento e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, il ragazzino di 12 anni figlio del boss pentito Santino, Messina Denaro ha avuto come un sussulto d’orgoglio: «In quella cosa io non c’entro – ha detto – Brusca ha dato l’ordine di ucciderlo». Da lì sono partite analisi, ricostruzioni, domande. Perché Messina Denaro nega il coinvolgimento in quei terribili fatti? È un segnale in codice? Vuole dire qualcosa?

In effetti, dal suo punto di vista, Messina Denaro dice una cosa corretta. Nelle ricostruzioni giornalistiche di questi mesi, un po’ per sintesi, un po’ per pigrizia, viene spesso citato il barbaro omicidio del ragazzino tra i crimini più efferati commessi da Messina Denaro. Ma va anche detto che il boss di Castelvetrano è stato condannato per aver partecipato all’ideazione del rapimento, e aver fornito il supporto logistico per il sequestro del bimbo. Non lo ha materialmente strangolato lui. Ed è questo il punto.

Per capire i distinguo di Messina Denaro, il suo prendere le distanze da Giovanni Brusca, bisogna tornare ai fatti, a quello che è accaduto, a mettersi nella testa dei boss di Cosa nostra. Tutto va inquadrato nella folle guerra allo Stato decisa da Totò Riina a fine del ’91, quella che porterà alle stragi del ’92 e ’93, agli omicidi eccellenti. Bisogna tenere presente che all’interno della mafia quasi nessuno voleva gli attentati. Riina allora decise di attuare una prova di forza all’interno dell’organizzazione, con i suoi uomini più fidati, per eliminare chi non era d’accordo. Messina Denaro, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano, per fare qualche nome, vivono quel periodo come una sorta di allucinazione collettiva. È una discesa all’inferno che non sanno controllare. Uccidono anche i loro amici, uccidono anche una donna incinta. Tutto, pur di andare avanti nel folle piano della loro guerra.

Quando, dopo le stragi e la reazione durissima dello Stato, alcuni mafiosi arrestati cominciano a pentirsi, tra loro c’è Santino di Matteo, “Mezzanasca”. Sa molto della strage di Capaci. Parla. Per fermarlo Brusca ha un’idea: ha sentito la storia di un bambino rapito a Napoli per questioni di camorra, e propone di fare lo stesso. Rapire il figlio di Santino, Giuseppe Di Matteo, per mandare un segnale al padre e farlo stare in silenzio. Il rapimento è facile. I mafiosi, vestiti da poliziotti, caricano il bambino in auto, ma non c’era bisogno di alcun travestimento, perché lui si fidava di loro, erano gli amici del padre. Da lì in poi tutto precipita: il bambino viene tenuto in ostaggio in condizioni pietose. Il tempo passa, Santino Di Matteo non ritratta le sue deposizioni. Fino al tragico epilogo, il punto di non ritorno di Cosa nostra: Giuseppe Di Matteo, su ordine di Giovanni Brusca, dopo due anni di prigionia, viene strangolato e sciolto nell’acido.

Messina Denaro oggi ci dice che non era d’accordo con il piano, ma intanto ha partecipato alla preparazione del sequestro, ha fornito i “covi” in provincia di Trapani (almeno due).

Ma c’è una cosa ancora più importante nelle sue parole.

E in questa sua frase c’è una grande rivelazione. È la prima volta, infatti, che un boss non pentito della caratura di Messina Denaro ammette tra le righe l’esistenza di Cosa nostra. In quel suo distinguersi da Brusca, infatti, nel dividersi i ruoli, Messina Denaro non fa altro che ammettere implicitamente l’esistenza di un’organizzazione, di un’organizzazione mafiosa. Un “noi”. Non è un dato secondario, tutt’altro: la strategia di Cosa nostra è stata sempre quella di negare se stessa. Lo ha fatto Riina (che si definiva solo uno «sventurateddro», uno sfortunato, che non aveva mai sentito parlare di mafia, se non in tv). Lo ha fatto Provenzano. Lo ha fatto lo stesso Messina Denaro, un minuto prima, nello stesso interrogatorio: quando gli ricordano i suoi rapporti (documentati da decine di pizzini) con lo stesso Provenzano, lui nicchia: «Era un amico di famiglia di mio padre». Lo ha fatto anche Michele Greco, anche lui Capo dei capi, quando alla domanda: «C’è la mafia?», rispose, sardonico «Certo, se c’è l’antimafia…». Messina Denaro, forse per stanchezza, forse per cercare di prendere le distanze da quell’orrore, è venuto meno alla regola d’oro.

Prima di adesso c’è un solo precedente. Riguarda un altro bambino ucciso dalla mafia: Claudio Domino. Gli sparano in faccia, a Palermo, il 7 ottobre del 1986. Ha 11 anni. L’eco dell’omicidio è enorme. Sono gli stessi giorni in cui a Palermo si tiene il primo grande maxi processo alla mafia. Uno degli imputati, l’avvocato Giovanni Bontade, nell’udienza successiva all’omicidio fa una cosa mai vista. Chiede al giudice di parlare, e legge un comunicato a nome suo e di tutti gli altri detenuti alla sbarra dichiarando la loro «estraneità all’omicidio», che per loro anzi è «un atto di barbarie».

La dichiarazione ha del clamoroso: nel prendere le distanze dall’omicidio del ragazzino, Bontade aveva però ammesso l’esistenza dell’organizzazione mafiosa, mentre la difesa si basava proprio sulla negazione fino allo stremo di Cosa nostra. I mafiosi avevano pensato, magari, che in quell’occasione era più importante far sapere che non erano stati loro piuttosto che perdere il forte consenso tra la popolazione ed essere indicati come assassini di bambini. E con quella dichiarazione di Bontade, per la prima volta un mafioso pronunciò la parola «noi», Noi, significava noi mafiosi. Loro stessi ammettevano la loro esistenza. Era senza precedenti. Per via di questo comunicato, nel 1988, i Corleonesi uccideranno Bontade, ai domiciliari per un’ernia. Due colpi alla nuca per lui, mentre fa colazione. Due per la moglie 

Messina Denaro, tutto quello che ha detto finora ai giudici (e perché non viene creduto). Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2023.

Il boss appare cortese e apparentemente disponibile, ma è ambiguo. Già due gli interrogatori dopo l’arresto. Il caso delle dichiarazioni sull’omicidio del piccolo Di Matteo. E ora spunta il mistero sul mazzo di chiavi del covo segreto

Ambiguo, apparentemente disponibile, certamente cortese, ma fermo nel negare la sua appartenenza a Cosa nostra e nel difendersi dall’accusa che ritiene più infamante: l’aver sequestrato e ucciso, dopo 779 giorni di prigionia, il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia rapito da un commando di uomini d’onore, strangolato e sciolto nell’acido. Matteo Messina Denaro non parla. O meglio accetta di rispondere alle domande del procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dell’aggiunto Paolo Guido e poi a quelle del gip Alfredo Montalto che l’ha interrogato nell’ambito di una vecchia inchiesta su estorsioni e mafia. Ma di fatto non dice nulla. Dal 16 gennaio, giorno del suo arresto, è stato interrogato già due volte.

E al contrario della sorella Rosalia, finita in carcere due settimane fa per associazione mafiosa, almeno formalmente non si è trincerato dietro al silenzio. Ai pm e al giudice però non ha concesso niente. A cominciare da ammissioni sulla sua responsabilità nell’omicidio del bambino, che in un drammatico peregrinare di quasi due anni da un covo all’altro, in provincia di Trapani, nel regno di Messina Denaro, dunque, è stato nascosto almeno due volte. Il gip nel lungo interrogatorio di garanzia a cui ha sottoposto il boss ha toccato diversi argomenti, molti non specificamente legati alle contestazioni che al padrino venivano fatte nel procedimento.

Come il delitto Di Matteo, appunto. È ormai processualmente accertato che il boss abbia chiesto al capo del mandamento di Trapani, Vincenzo Virga, di trovare un luogo sicuro dove tenere prigioniero il bambino e un carceriere fidato, poi individuato in Giuseppe Costa. Ed è altrettanto certo che il piccolo Giuseppe arrivò nella sua casa di campagna a Purgatorio, una frazione di Custonaci, rinchiuso nel bagaglio di un’auto e incappucciato. Per lui Costa, poi condannato per omicidio, costruì anche una cella. Ma sul punto Messina Denaro è stato fermo.

Pur mostrando di conoscere le dichiarazioni dei pentiti come Giovanni Brusca ha ribadito che se anche se fosse vero quel che i collaboratori dicono, lui di quel fatto non sa nulla. Certo l’ex latitante non può arrivare a negare di conoscere personaggi come Bernardo Provenzano. D’altronde nel covo di Montagna dei Cavalli in cui il padrino corleonese venne arrestato c’erano decine di pizzini a lui indirizzati. Ma si trattava di amici di famiglia, vecchie conoscenze del padre, don Ciccio Messina Denaro, e non di persone a lui legate dalla comune appartenenza a Cosa nostra, ha spiegato. Sfuggente, ambiguo, appunto. E custode geloso di mille segreti. Come quelli sui covi ancora da scoprire.

Il gip che ha arrestato la sorella Rosalia ne parla esplicitamente nell’ordinanza di custodia cautelare traendo spunto da un pizzino di Messina Denaro in cui si fa riferimento a un portachiavi da dare a «Condor», nome in codice di uno dei fiancheggiatori del capomafia trapanese. «Si comprende chiaramente che Rosalia avrebbe dovuto consegnare a Condor un portachiavi, cioè della chiavi di ingresso di una abitazione clandestina», scrive il giudice. Forse la casa dove sono custoditi i soldi, quella provvista a cui Messina Denaro fa riferimento nella comunicazioni alla sorella e alla quale non rinunciava mai per vivere nell’agio la sua latitanza.

Messina Denaro: "Non feci uccidere io il piccolo Giuseppe Di Matteo". Storia di Redazione Tgcom24 il 21 marzo 2023.

Matteo Messina Denaro ha ammesso di aver ordinato il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, ma non di averne commesso l'omicidio, scaricando su Giovanni Brusca la responsabilità di aver ordinato la soppressione del bambino. Giuseppe Di Matteo, 12 anni, venne rapito, nel maneggio di Villabate (Palermo) dove andava a cavallo, il 23 novembre 1993, per indurre il padre Santino Di Matteo, diventato collaboratore di giustizia, a ritrattare le sue rivelazioni. Dopo un calvario di oltre due anni, l'11 gennaio 1996 Giovanni Brusca diede l'ordine di uccidere il bambino: il piccolo fu strangolato e sciolto nell'acido.

Il boss, come riporta il sito Livesicilia.it, ha risposto così alle domande del gip Alfredo Montalto. Nell'attesa di un ripensamento da parte del padre Santino, Giuseppe venne trasferito da una prigione all'altra nelle province di Palermo, Trapani, Agrigento.

La prima masseria nella quale fu portato, incappucciato e chiuso nel bagagliaio di un'auto, si trovava a Campobello di Mazara, proprio il paese dell'ultimo covo di Messina Denaro. Qui il ragazzino trascorse un periodo della sua orribile prigionia nella casa di campagna di Giuseppe Costa, fedelissimo del boss allora latitante. Poi, l'uccisione.

Dal carcere dell'Aquila, intanto, arrivano notizie sulle condizioni di salute del padrino: ha concluso il ciclo di chemio e sta assumendo farmaci, ma esami e controlli continuano.

Estratto dell’articolo di gds.it il 22 marzo 2023.

Ha ammesso il sequestro ma non l'orrore di avere deciso la soppressione del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido per vendetta nei confronti del padre collaboratore di giustizia. Il quadro non cambia ma, ridimensionando il suo ruolo, Matteo Messina Denaro ha cercato di mostrare il lato umano del più odioso dei crimini che gli vengono attribuiti.

 Se non lui allora chi ordinò quell'atroce delitto? Davanti al gip Alfredo Montalto, che lo interrogava, il boss ha scaricato tutto su Giovanni Brusca, da poco liberato dopo 25 anni di carcere. Fu lui, ha detto, a dare quell'ordine ripugnante.

La storia di Giuseppe Di Matteo è passata attraverso un calvario durato più di due anni. Venne rapito […]

La prima masseria nella quale fu portato, incappucciato e chiuso nel bagagliaio di un’auto, si trovava a Campobello di Mazara, il paese dell’ultimo covo di Messina Denaro. […] un calvario durato oltre due anni. Si concluse in un casolare-bunker nelle campagne di San Giuseppe Jato l’11 gennaio 1996, quando Brusca ordinò di farla finita.

 Di Giuseppe Di Matteo non è rimasta neppure una traccia […] L’interrogatorio del boss non ha sciolto per ora nessun altro nodo dell’inchiesta seguita all’arresto, soprattutto il ruolo dei presunti fiancheggiatori […] Emanuele Bonafede e Lorena Lanceri

[…] I carabinieri hanno trovato un quadro a casa loro, a Campobello di Mazara. Un regalo di Messina Denaro. Dietro il quadro c’è una dedica alla Lanceri. «A Lorena, una donna ma soprattutto un’amica mia», scrive Matteo Messina Denaro, che sarebbe stato legato sentimentalmente alla donna.

 La stessa Lorena Lanceri parla del quadro in una lettera a un’amica. E in un «pizzino» trovato a casa di Rosalia Messina Denaro, sorella di Matteo, assieme ad altre spese sostenute dal boss durante la latitanza si legge la somma di 500 euro accanto alla voce «quadro». […]

Estratto dell’articolo di Riccardo Lo Verso per livesicilia.it il 22 marzo 2023.

In un pizzino indirizzato alla sorella Rosalia, nome in codice “fragolone” – datato 15 marzo 2022 – Matteo Messina Denaro forniva indicazioni precise. Bisognava dare a “Condor altri 4. Quindi W. restano 125”. Parlava di soldi e del fondocassa.

 A “Condor”, però, doveva essere consegnato anche un portachiavi: “Ti allego un disegno di un portachiavi, dallo pure a Condor”. Dovrebbe trattarsi, così scrivono gli investigatori, “verosimilmente delle chiavi d’ingresso di una abitazione clandestina”.

Dunque potrebbe esserci un altro immobile, ancora più riservato, dove il latitante avrebbe nascosto importanti documenti. […]

Matteo Messina Denaro sull'omicidio di Giuseppe Di Matteo: "Ammetto il sequestro, ma non lo feci uccidere io". Matteo Messina Denaro ha risposto alle domande del gip Alfredo Montalto negando di essere il mandante dell'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Marianna Piacente il 21 Marzo 2023 su Notizie.it.

Il sequestro sì, l’omicidio no. Matteo Messina Denaro ha risposto alle domande del gip Alfredo Montalto riguardo l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo: «È stato Giovanni Brusca a ordinare la soppressione del bambino».

Il sequestro di Giuseppe Di Matteo: i motivi

Era il 23 novembre 1993 quando il piccolo Giuseppe Di Matteo venne rapito nel maneggio di Villabate (PA) dove andava a cavallo. Aveva appena 12 anni. Con il sequestro del bambino la mafia voleva indurre il padre Santino Di Matteo, divenuto collaboratore di giustizia, a ritrattare le sue rivelazioni sugli altri boss. Il ripensamento da parte dell’ex mafioso non ci fu e Giuseppe venne trasferito in diversi nascondigli nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento.

Il sequestro di Giuseppe Di Matteo: la dinamica

Incappucciato e chiuso nel bagagliaio di un’auto, il piccolo Giuseppe fu dapprima portato in una masseria a Campobello di Mazara (TP), lo stesso paese dell’ultimo covo del capomafia Matteo Messina Denaro. Qui il Giuseppe fu prigioniero nella casa di campagna dell’allora boss latitante Giuseppe Costa. Dopo due lunghi due anni, precisamente l’11 gennaio 1996, stando a quanto dichiarato da Messina Denaro fu Giovanni Brusca a dare l’ordine di uccidere il bambino, che venne prima strangolato e poi sciolto nell’acido.

Da adnkronos.com il 14 febbraio 2023.

"La mia opinione è che ci siano zero possibilità che Matteo Messina Denaro stia collaborando o inizi a collaborare con la giustizia, perché non ha convenienza, lui deve difendere il suo patrimonio e pensare alla sua salute, il suo problema principale. Che interesse ha, dunque, ad avviare una collaborazione, che significa anche disvelare tutti i beni posseduti?

Perché la prima cosa che viene chiesta è questa". Così all’AdnKronos l’avvocato Luigi Li Gotti, storico difensore dei pentiti di Cosa nostra, da Tommaso Buscetta a Gaspare Mutolo fino a Giovanni Brusca, dopo la trasferta nel carcere dell'Aquila del procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia, e del suo aggiunto Paolo Guida, per interrogare il boss mafioso Matteo Messina Denaro. Per lo storico legale dei pentiti, inoltre, la grave malattia di cui il boss soffre è un incentivo a non collaborare.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Pipitone per "il Fatto Quotidiano" il 26 gennaio 2023.

Dicono che Matteo Messina Denaro sia pensieroso. […] da quando è entrato nel carcere di L’Aquila il boss ha ridotto al minimo le esternazioni.

 […]

A dieci giorni dalla fine della sua latitanza, tra l’altro, non ha neanche mai acceso la televisione nella cella al piano terra del penitenziario abruzzese. Niente giornali o libri, ma solo lunghe ore di riflessione. Ha avuto un colloquio con la psicologa del carcere e uno al telefono col suo avvocato, che è la nipote Lorenza Guttadauro.

Indossa i vestiti che aveva il giorno dell’arresto, mentre i cambi di biancheria intima gli sono stati forniti dal cappellano del carcere. Abiti di ricambio gli arriveranno probabilmente con un pacco spedito dalla famiglia, direttamente da Castelvetrano. Entrato in carcere senza soldi, una piccola somma per le spese correnti gli è stata fornita dall’amministrazione penitenziaria: un paradosso per un boss con un patrimonio quantificato in miliardi.

Estratto dell'articolo di G. Leg. per “la Stampa” il 26 gennaio 2023.

Silenzio, parla Matteo Messina Denaro, Anzi no. Il boss latitante per 29 anni non si è presentato nemmeno ieri mattina alla convocazione dei giudici. Cosi come a Caltanissetta una settimana fa dove avrebbe dovuto comparire come imputato in uno degli ultimi rivoli del processo per la strage di Capaci, la sua sedia è rimasta vuota anche oggi di fronte al giudice dell'udienza preliminare del procedimento Xidy, operazione del Ros che colpi la mafia agrigentina portando in carcere (e pure a una pesante condanna a 18 anni) un'avvocatessa collusa coi boss della zona.

[…] Eppure quegli uomini d'onore intercettati proprio di lui parlavano come il vertice assoluto dell'organizzazione. Imprescindibile per poter decidere di destituire quel vecchio padrino per il quale uomini della "Stidda" chiedevano il ridimensionamento. Le cimici catturarono questo colloquio al termine di un incontro proprio nello studio dell'ex legale poi espulsa dall'ordine: «Non possiamo, solo lui è in grado di decidere, bisogna parlare a Matteo». L'interlocutore sembrò non afferrare e chiese «Matteo chi?». Replica: «Quello di Castelvetrano».

E d'altronde i pizzini ritrovati nel covo di Bernardo Provenzano all'epoca dell'arresto, scritti da Messina Denaro erano stati profetici in tal senso: «Sono nato così e morirò cosi».

 Il boss non si è presentato e il suo alias non ha risposto alle domande del gip nell'interrogatorio di garanzia. Si è avvalso di questa facoltà Andrea Bonafede, [...] arrestato per associazione mafiosa. […] L'accusa è di essere un affiliato riservato.

 […] E sull'evidenza della caduta di un capo, sono apparsi ieri a Palermo dei manifesti pieni di satira. Li ha affissi il Collettivo offline corporation per annunciare le "Elezioni primarie di Cosa nostra".

Estratto dell'articolo di Salvo Palazzolo per "la Repubblica" il 26 gennaio 2023.

Il telefono squilla alle 8 del mattino, è un numero anonimo.

Un uomo, con un filo di voce, dice: «Sono Pasquale Di Filippo. Un tempo, ero amico e complice di Matteo Messina Denaro. Oggi, anche io sono ammalato, vorrei dirgli: c’è un tumore da cui puoi ancora guarire, quello della mafia».

 E si commuove: «Matteo se davvero vuoi bene a tua figlia, parla con i magistrati, svela i segreti di Cosa nostra che non conosciamo, fai i nomi dei politici». Pasquale Di Filippo è stato un mafioso e un killer, dal 1995 è uno dei collaboratori di giustizia più importanti, ha fatto arrestare Leoluca Bagarella e altri latitanti.

Cosa ha provato quando ha visto Messina Denaro in tv?

«È invecchiato, ma per il resto non sono rimasto sorpreso. Conosce Palermo meglio della provincia di Trapani. Me ne accorsi quando il mio gruppo, quello di Brancaccio, fu chiamato a occuparsi di lui, fra il 1994 e il 1995».

 All’epoca Messina Denaro utilizzava particolari attenzioni?

«Andava in giro con un furgoncino dell’azienda acquedotti che guidava Giorgio Pizzo, lui era un dipendente dell’Amap. Un giorno, vennero fermati dalla Finanza a un posto di blocco, ma non furono riconosciuti. Per il resto Matteo faceva la bella vita».

Di cosa è stato testimone?

«In uno degli appartamenti del centro che utilizzavamo per le riunioni trovammo un preservativo. E Bagarella chiese se ero stato io a portare una donna nel covo. Poi, abbiamo capito che era stato Matteo, ma nessuno si permise di dirgli nulla».

[…]

Messina Denaro in isolamento (per Covid). Redazione L'Identità il 20 Gennaio 2023

Il documento è protetto dalla massima privacy, ma non si tratta del carteggio di Totò Riina. E nemmeno dell’elenco dei nomi della Trattativa fra Stato e Mafia. Il fatto è che il boss di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, arrestato il 16 gennaio dal Ros dopo un Covid test alla clinica Maddalena di Palermo, esame che sarebbe risultato negativo, si troverebbe ora in isolamento (oltre che per il regime carcerario necessario per un capomafia condannato a più di un ergastolo) anche per avere contratto l’ultima variante del virus.

Questo sarebbe il motivo per cui Messina Denaro avrebbe lasciato vuota l’ormai famosa sedia in collegamento con l’aula-bunker del processo di appello per le stragi, ieri. Dal carcere massimo riserbo, ma ormai le conferme giungono da più parti. Messina Denaro, come si è appresso dalle indagini della Procura di Palermo, sarebbe stato vaccinato secondo le normative in vigore e sarebbe in possesso, pur sotto falso nome di Andrea Bonafede, l’amico di infanzia a cui ha rubato l’identità nell’ultima parte della sua latitanza, della certificazione di tutte le dosi necessarie alla normale circolazione durante il periodo di limitazioni. Sempre che si possa parlare di normali spostamenti per un latitante.

Estratto dell’articolo di Dario Del Porto e Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 20 Gennaio 2023.

[…]

Sono almeno cinque i capitoli di questo romanzo di sangue che il padrino trapanese potrebbe scrivere se decidesse di collaborare con la giustizia. Ipotesi, al momento, remota.

 A febbraio, dopo l’investitura della “super cosa”, Messina Denaro, Graviano e alcuni loro fedelissimi sono a Roma, per pedinare Falcone e Costanzo. Hanno il compito di ucciderli con le armi che sono state trasportate da Trapani fino alla Capitale. Ma, all’improvviso, dieci giorni dopo, Riina cambia idea: per ricevere i nuovi ordini torna a Palermo il braccio destro di Messina Denaro, Vincenzo Sinacori; il capo dei capi vuole che rientrino tutti in Sicilia.

 È lì che dovrà essere ucciso Falcone. Cosa era accaduto? [...]

 Gli agenti segreti Fra le bombe di Capaci e via D’Amelio sorge un grosso problema in casa di Messina Denaro, in provincia di Trapani: c’è un boss di grande carisma che non ha remore a esprimere i suoi dubbi sulla scelta stragista di attacco allo Stato. Si chiama Vincenzo Milazzo, è di Alcamo, padrino giovane ma di una dinastia di vecchia mafia, almeno quanto quella dei Messina Denaro.

Verrà ucciso, morirà anche la sua compagna. Ed ecco il mistero, accennato dall’autista di Milazzo, Armando Palmeri, poi diventato collaboratore di giustizia: «Negli ultimi tempi, Milazzo incontrò tre volte due persone, mi disse che erano appartenenti ai Servizi segreti, li conosceva da tempo. Gli venne proposto di adoperarsi per la destabilizzazione dello Stato: una finalità da perseguire attraverso atti terroristici da compiere fuori dalla Sicilia. Ma Milazzo era contrario a queste cose». Chi fece sapere al vertice mafioso che Milazzo poteva diventare un pericolo per la linea corleonese?

Il lungomare di sangue Segreti su segreti. Dopo le bombe di Capaci e via D’Amelio, il 14 settembre 1992 si muovono i killer migliori del capo dei capi sul lungomare di Mazara del Vallo: Messina Denaro guida la Fiat Tipo del commando composto da Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano.

 Hanno il compito di uccidere il commissario Rino Germanà, per fortuna non ci riescono. Perché era stata decretata la morte di quel poliziotto coraggioso che indagava sui rapporti tra mafia, politica e massoneria?

 I suggeritori [...] 1993, [...] Decidono di seguire la linea tracciata Riina, ma stavolta prendono di mira il patrimonio artistico. Come hanno deciso dove colpire? [...]Quelle bombe sono un ricatto allo Stato, una strategia raffinata. E se qualcuno avesse suggerito gli obiettivi?

 Un partito della mafia Dopo le bombe di Firenze, Milano e Roma, i mafiosi della “super cosa” si riuniscono all’Euromare village di Campofelice di Roccella. Quel giorno, arriva il senatore Vincenzo Inzerillo, vicino ai Graviano, per questo verrà poi condannato. «È venuto a dire che con le stragi non si conclude niente e che si deve agire in altro modo», racconta Messina Denaro a Sinacori sulla via del ritorno. «Ha proposto che potremmo impegnarci piuttosto nella costituzione di un nuovo partito politico». Quanti segreti custodisce l’uomo adesso rinchiuso al 41 bis.

Estratto dell'articolo di Alfio Sciacca per corriere.it il 19 gennaio 2023.

L’udienza del processo a Matteo Messina Denaro accusato di essere il mandante delle stragi di Capaci e via D’Amelio è stata rinviata al 9 marzo «per consentire al difensore di essere presente». Lo ha deciso il presidente della Corte d’Assise di Caltanissetta Maria Carmela Giannazzo, dopo che oggi il boss ha deciso di non presenziare all’udienza in videoconferenza dal carcere de L’Aquila [...]

Uno dei due difensori d’ufficio del boss, l’avvocato Salvatore Baglio, ha comunicato di avere ricevuto una delega orale dal difensore di fiducia nominato da Messina Denaro, la nipote Lorenza Guttadauro, figlia di una sorella di Messina Denaro, ed ha chiesto i termini a difesa. Il procuratore generale non si è opposto e così l’udienza è stata rinviata.

 […] Si sarebbe trattato della prima volta in un’aula giudiziaria del latitante […]

 «Questa rinuncia non è il caso di interpretarla, avendo nominato il difensore di fiducia. Sapeva benissimo che il nuovo avvocato avrebbe chiesto un rinvio per prendere visione del corposo carteggio processuale», ha detto il procuratore generale di Caltanissetta Antonino Patti al termine dell’udienza.  […]

Estratto dell’articolo di Grazia Longo per “la Stampa” il 19 gennaio 2023.

Ha ordinato la morte di pentiti e collaboratori di giustizia. Il pentimento non è nel suo Dna e infatti, durante il colloquio con lo psichiatra, ieri mattina, ha detto: «Non sono il tipo da pentirmi». La circostanza è emersa durante la visita di routine prevista nel carcere di massima sicurezza Le Costarelle dell'Aquila, dove Matteo Messina Denaro è rinchiuso dall'altro ieri in regime di 41 bis. Durante l'esame psichiatrico non sono state riscontrate patologie, grave invece il suo quadro clinico a causa delle conseguenze del tumore al colon.

Tanto che inizierà oggi stesso la chemioterapia in prigione […] Il trattamento oncologico avverrà in una saletta vicino alla sua cella. […] gli è stata concessa la sua prima ora d'aria. […] ha mangiato […] pasta, petto di pollo, insalata e acqua liscia. Nella cella in cui è controllato 24 ore al giorno dalla telecamera […] Ha trascorso la maggior parte della giornata a letto.

 Quando è arrivato in prigione […] gli sono stati accreditati dall'istituto penitenziario 200 euro per le eventuali piccole spese, il cosiddetto "sopravvitto". […] La prima seduta di chemioterapia di stamattina è solo l'inizio della complessa procedura, medica e organizzativa, che porterà a stilare un programma di cure. I sanitari stanno esaminando esami e documenti inviati dai medici di Palermo, poi verrà stabilita la strategia d'intervento.

La somministrazione dei farmaci per la chemio sarà effettuata alla presenza dell'oncologo […]

«Nonostante la gravità dei reati di cui è accusato, […] È stato deciso di provvedere alle cure in carcere per evidenti ragioni di sicurezza». Oltre agli esami medici e alle terapie, a scandire la sua giornata è stata soltanto la sua ora d'aria e le dormite all'interno della sua piccola cella 10 metri per 10 sorvegliata a vista […] All'interno ci sono il lettino e il tavolo inchiodati in terra, il bagno angolare e la tv. Il boss ritira ogni giorno il fornello e il cibo da preparare, perché non ha la cucina in stanza. […] ha diritto a un solo colloquio al mese con i familiari, ma in questo caso Messina Denaro è riuscito a ricavarsi da solo la sua eccezione: più spesso potrà vedere o sentire il legale da lui nominato, sua nipote Lorenza Guttadauro. […]

Estratto da open.online il 19 gennaio 2023.

«Non sono il tipo di pentirmi». Da quando si trova nel carcere di massima sicurezza Le Costarelle a L’Aquila Matteo Messina Denaro è tranquillo e sereno. Ma rimane sempre l’ultimo dei Corleonesi. Per questo ha già messo in chiaro prima con i magistrati e poi con lo psichiatra del carcere che non intende «parlare né collaborare».

 Ma la vita al 41 bis per il mafioso che fino ad ora non era mai entrato in carcere per ora trascorre senza particolari scossoni. Una cella tre metri per quattro che confina con quelle di Filippo Graviano e Carlo Greco. Un’ora d’aria e, quando sarà il momento, visite videosorvegliate una sola volta al mese. Ma lui non sembra scomporsi più di tanto. E si mostra sempre sorridente con il personale del carcere: «Un atteggiamento davvero anomalo rispetto a come si comportano di solito i detenuti al carcere duro», commenta chi lo ha visto in cella.

Il bigliettino per i Ros

D’altro canto che si tratti di un Messina Denaro molto diverso da quello raccontato da anni di indagini su Cosa Nostra è indubbio. Lo testimonia l’appunto scritto di sua mano e spontaneamente all’aeroporto di Boccadifalco: «I carabinieri del Ros e del Gis mi hanno trattato con grande umanità».

 Oggi, racconta il Quotidiano Nazionale, il boss che viveva nel lusso si è ritrovato anche a dover chiedere i soldi allo Stato. È arrivato in carcere senza moneta e l’amministrazione gli ha assegnato una piccola indennità: 200 euro per le eventuali piccole spese. Il cosiddetto “sopravvitto”, precisa oggi La Stampa. Al centro dell’attenzione naturalmente c’è il suo stato di salute. Oggi, dopo una seduta saltata, comincerà la chemioterapia in prigione. Le sostanze da somministrargli sono due: Gemcitabina e Doxorubicina. Il trattamento oncologico avverrà in una saletta vicino alla cella. E il boss riscopertosi gentile in prigione ha già espresso gratitudine: «Vi ringrazio perché sono molto malato».

 Le prime parole in carcere

Non è stato sempre così. Quando è arrivato a Le Costarelle ha risposto «Fino a stanotte ero incensurato. Poi non so che è successo» a chi gli chiedeva i precedenti per compilare la scheda del detenuto. Alla domanda sulla residenza ha sorriso: «Non ne ho mai avuta una».

 (...)

 «Protetto da imprenditori e massoni»

Intanto il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia parla di lui in un’intervista al Fatto Quotidiano: «Quando lo abbiamo catturato non ci ha detto nulla. C’è stato soltanto un fugace contatto nel quale siamo stati noi ad assicurargli la garanzia delle cure e delle visite a lui necessarie. Lo Stato è lo Stato, non si mette alla pari con i mafiosi». Il procuratore punta il dito su chi lo ha protetto in questi anni: «L’ambiente trapanese è da sempre permeato di rapporti fra mafia e pezzi di ambienti che io chiamo genericamente della borghesia mafiosa. Ma lo faccio per non dare specificazione ad elementi che invece riguardano particolari settori. Dall’imprenditoria al mondo della sanità. E certamente va considerato che la provincia di Trapani è la seconda in Sicilia, dopo quella di Messina, per presenza di logge massoniche. Tutti questi elementi ci inducono a spingere i nostri accertamenti e le nostre verifiche. È quello che contiamo di fare in queste ore».

Solo la sedia vuota. Messina Denaro conserva i segreti sulle stragi. In tribunale processo aggiornato al 9 marzo. Il pg:"Deve parlare". Il capomafia chiede una nuova visita medica, e salta anche la chemioterapia. Valentina Raffa il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ragusa. Una sedia vuota. «Messina Denaro Matteo. Detenuto assente». Le parole della presidente della Corte di Assise di Appello, Maria Carmela Giannazzo, dall'aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta, dove l'ultimo stragista del '92 e '93 si sarebbe dovuto collegare in videoconferenza dal carcere di massima sicurezza dell'Aquila in cui si trova rinchiuso, fiaccano la speranza di chi abbia voglia di fare luce sulle stragi di Capaci e di via D'Amelio. Ma si continuerà a sperare fino all'ultimo.

Si trattava dell'udienza conclusiva del processo d'appello in cui Messina Denaro è imputato come mandante delle due stragi in cui morirono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la moglie di Falcone, Francesca Morvillo, e le scorte. Per Messina Denaro sarebbe stata la prima udienza in presenza, vista la lunga latitanza che lo ha tenuto lontano dalle aule giudiziarie per 30 anni, e si sarebbe svolta in un giorno significativo come quello del compleanno di Borsellino, che oggi avrebbe compiuto 83 anni. In primo grado il boss è stato condannato all'ergastolo. Ieri Messina Denaro (che ha chiesto una visita medica facendo slittare la prima seduta di chemioterapia) ha formalizzato la nomina dell'avvocato Lorenza Guattadauro, sua nipote in quanto figlia della sorella Rosalia e dello storico boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro. La decisione è stata comunicata nel corso dell'udienza nella quale la legale è stata sostituita dall'avvocato d'ufficio Salvatore Baglio, che ha seguito il primo grado e che ha chiesto la concessione di un termine a difesa rappresentando che la notifica dell'ordinanza cautelare all'imputato e la contestuale nomina dell'avvocato di fiducia era avvenuta in quel momento. L'udienza, in cui è prevista la discussione, è fissata per il prossimo 9 marzo. Una discussione però era già pronta. L'avevano preparata l'avvocato Baglio, aiutato dal collega Giovanni Pace, che in questi anni hanno difeso il super latitante, ma non lo hanno incontrato prima dell'udienza. Cosa avrebbero detto? «Non siamo d'accordo sulla responsabilità penale di Matteo Messina Denaro in merito alle stragi di cui è chiamato a rispondere in questo processo dice l'avvocato Pace - Non era così alto in grado da partecipare alla fase deliberativa». Parole che probabilmente saranno pronunciate il 9 marzo dalla legale di fiducia. «La Corte e la procura aggiunge l'avvocato d'ufficio ovviamente la pensano diversamente, prova ne è la sentenza di primo grado di condanna all'ergastolo». Condanna di cui il procuratore generale facente funzione di Caltanissetta, Antonino Patti, ha chiesto ieri la conferma.

Il sentore è che l'ex primula rossa si porterà nella tomba i suoi segreti, che potrebbero inguaiare il cosiddetto «terzo livello» di cui parlava Falcone, ovvero la gente titolata, i rappresentanti delle istituzioni, finanche gente in divisa, che hanno favorito e coperto i 30 anni di latitanza di cui si sa poco, solo che gli ultimi due li ha vissuti a Campobello di Mazara, nel Trapanese. «Che collabori lo speriamo tutti, ma nessuno può saperlo ha detto il procuratore generale al termine dell'udienza - È depositario di conoscenze sulla stagione stragista del '92 e '94 ancora oggi non sondate e sconosciute da altri collaboratori per il rapporto stretto che aveva con Riina. Messina Denaro è uno dei mandanti delle stragi del '92, ma anche uno di quelli che già nella fase iniziale aveva messo mano a questo progetto, con la missione romana del '92 dove addirittura è protagonista materiale insieme a Graviano e agli altri».

Patti ha anche parlato dell'arresto, messo in discussione da ipotesi su una probabile trattativa e auto-consegna del padrino: «Il momento dell'arresto - ha detto - è un momento che abbiamo accolto con soddisfazione. È il coronamento di sforzi che l'autorità giudiziaria palermitana e le forze dell'ordine hanno per decenni dedicato e le circostanze dell'arresto possono sembrare banali, ma dietro c'è un lavoro e una professionalità che secondo me non devono essere minimamente messe in discussione con discorsi dietrologici che lasciano il tempo che trovano».

Messina Denaro, la sedia vuota al processo e spunta il terzo covo a Campobello. Storia di Nello Scavo, inviato a Palermo, il 20 Gennaio 2023 su Avvenire.

Nel linguaggio di Cosa nostra è un messaggio inequivocabile. Matteo Messina Denaro ha “marcato visita”, chiedendo e ottenendo in carcere il controllo urgente di un medico specialista. Intanto le videocamere del penitenziario inquadravano una sedia vuota, in collegamento con il tribunale di Caltanissetta, dove è in corso il processo per le stragi degli anni Novanta. Fino a quando gli schermi non si sono spenti.

Il silenzio del padrino serve anche a proteggere la rete di protezione, quella sul terreno e quella nei Palazzi. Ieri il Ros dei Carabinieri ha trovato il terzo covo del boss sempre a Campobello di Mazara. Una corsa contro il tempo perché gli investigatori sanno che i “ripulitori” di Cosa nostra devono già essersi messi al lavoro per cancellare tracce e minimizzare i danni.

Al momento della cattura, il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia parlò di “terremoto” dentro e fuori Cosa nostra. E le prime scosse potrebbero arrivare in poche settimane. Si è appreso che nel primo covo individuato, quello di via San Vito, sono stati rintracciati documenti con sigle e numeri di telefono che vengono verificati anche incrociando i rilievi con gli archivi di altre inchieste. Nel materiale rinvenuto, anche un poster con il volto de “Il padrino”, interpretato da Marlon Brando.

A Caltanissetta, dove si svolgono i processi per le stragi di mafia e depistaggi di Stato, nessuno si faceva illusioni. «Che Messina Denaro collabori lo speriamo tutti - ha detto il procuratore generale Antonino Patti, al termine dell’udienza di ieri - ma nessuno di noi può saperlo. È depositario di conoscenze sulla stagione stragista del ‘92 e ‘94 ancora oggi non sondate e sconosciute da altri collaboratori». I capi corleonesi Riina e Provenzano, infatti, condividevano con pochissimi le informazioni più scomode. «Il livello di conoscenza di Messina Denaro per il rapporto stretto con Riina era probabilmente superiore a tutto quello che ci hanno raccontato i collaboratori», ha ribadito Patti.

Video correlato: Messina Denaro, l'imprenditrice che ha denunciato la famiglia del boss: «Bisogna avere fiducia nello Stato» (Corriere Tv)

In questi anni tutte le forze di polizia hanno indagato sul latitante. Non sempre il coordinamento tra procure e forze investigative ha funzionato. Coordinamento che dopo la cattura del boss viene rilanciato proprio per amplificare l’onda d’urto investigativa e massimizzare i risultati e infliggere un colpo mortale alla vecchia guardia e a quella nuova. Se per il ritrovamento del secondo covo, quello con il caveau nascosto in via Tomaselli è stato decisivo l’apporto della Guardia di finanza, ieri la Polizia di Stato ha scoperto un terzo rifugio, sempre a Campobello di Mazara in via San Giovanni, a poche centinaia di metri dagli altri due rifugi.

L’appartamento è stato trovato vuoto e si stanno verificando i passaggi proprietari. Il boss potrebbe averlo usato fino allo scorso giugno. L’esplorazione a ritroso sta permettendo di ricostruire gli ultimi mesi della latitanza dell’ultimo di una generazione di capibastone che si era messa in testa di poter dominare dai nascondigli le istituzioni italiane, a seconda dei casi dirottando in proprio favore o comprandone le decisioni.

I ritrovamenti di queste ore confermano come la vecchia guardia corleonese, pur proiettata nel nuovo mondo degli affari e della bella vita, abbia continuato a sentirsi al sicuro solo a pochi passi da casa. Difficile che un Messina Denaro potesse essere preso sul serio, guadagnando l’indefettibile fiducia dei suoi uomini, se avesse trascorso l’intera latitanza lontano dal proprio feudo.

Omertà e complicità sul terreno, con i silenzi plateali degli ultimi giorni e i “non so” di tanti che avrebbero potuto riconoscerlo o insospettirsi, non devono però far trascurare le coperture eccellenti, i depistaggi, le soffiate di cui ha goduto il capomafia in questi tre decenni, a suo agio tra le campagne e nelle relazioni favorite attraverso l’accesso al mondo opaco della massoneria. Se le indagini dicono che Messina Denaro ha mantenuto il controllo dei mandamenti di Trapani e dell’Agrigentino, senza mai assurgere al ruolo di “capo dei capi”, fino all’epoca di Riina precluso a chi non fosse della provincia mafiosa di Palermo, la lunga irreperibilità ha coperto di sinistra allure l’imprendibile “Diabolik”, negli ultimi anni intento più a proteggere gli affari che a impartire giudizi di vita o di morte.

Giovanni Luppino, l’autista di Messina Denaro, non si è chiuso nel silenzio. Ha detto di essere stato ingannato dal vero Andrea Bonafede, l’uomo che aveva dato copertura e la propria identità al boss, il quale aveva chiesto a Luppino di accompagnare il proprio cognato, malconcio a causa di un tumore, per una giornata di cure nella clinica “La Maddalena” di Palermo. E lui s’è prestato per fare un favore. «Se avesse saputo che quell’uomo era Messina Denaro - gli hanno chiesto gli inquirenti - lo avrebbe portato in ospedale?». «Solo un pazzo avrebbe potuto accettare di accompagnare un latitante e correre un rischio così grande», ha risposto Luppino. Tuttavia quando è stato immobilizzato mentre il Ros catturava “u’ siccu”, Luppino aveva addosso un coltello a serramanico, dalla lama di 18,5 centimetri. E per lui l’arresto è stato convalidato.

La prima udienza del boss. La sedia vuota di Messina Denaro, il boss assente in videocollegamento al processo sulle stragi: “Speriamo collabori”. Redazione su Il Riformista il 19 Gennaio 2023

“Detenuto assente”, scandisce nell’aula bunker la presidente della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta Maria Carmela Giannazzo, dove per la prima volta poteva intervenire, in videocollegamento, Matteo Messina Denaro.

Il boss di Cosa Nostra, arrestato dopo 30 anni di latitanza lunedì mattina nei pressi della clinica ‘La Maddalena’ di Palermo, dove si recava per tenere le cure mediche necessarie dopo l’operazione per il tumore al colon, è infatti imputato nel processo d’appello come mandante delle stragi di via d’Amelio e di Capaci, dove morirono Paolo Borsellino e Giovanni Falcone.

Nell’aula per l’udienza, affollata di cronisti e report anche stranieri, l’ex Primula Rossa della mafia non si è presentato in videocollegamento e l’udienza è stata dunque rinviata al 9 marzo “per consentire al difensore di essere presente”.

Nell’aula bunker infatti questa mattina, poco dopo le nove, si sono presentati gli avvocati d’ufficio del capoclan mafioso, Giovanni Pace e Salvatore Baglio, i due legali che hanno assistito brevemente Messina Denaro prima che quest’ultimo nominasse il suo avvocato di fiducia.

Quest’ultimo è la nipote Lorenza Guttadauro, dal cognome e dalle parentele importanti: è la figlia della sorella di Messina Denaro, Rosalia, e di Filippo Guttadauro. Il nonno dunque, il padre di Filippo, è il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, mentre il marito della lega è Girolamo Bellomo, arrestato nell’operazione Eden 2 e condannato a 10 anni in appello.

Nessuna prima volta dunque in una aula di giustizia per il boss di Castelvetrano, detenuto al regime di 41bis, il carcere duro, nel penitenziario de L’Aquila. Assenza legata probabilmente “al suo stato di salute e alle cure che si stanno prestando all’imputato”, ha spiegato il procuratore generale di Caltanissetta Antonino Patti all’Adnkronos.

“La rinuncia a comparire non deve essere intesa come un disinteresse – ipotizza il pg Patti – Il difensore di fiducia deve avere il tempo di prendere conoscenza delle carte, era un diritto sacrosanto quello di chiedere il termine a difesa. Potrebbe aver rinunciato perché già sapeva quello che sarebbe avvenuto all’udienza“.

Quanto alle possibilità di una sua futura collaborazione con gli inquirenti, Patti spiega che “lo speriamo tutti, ma nessuno di noi può saperlo”. Messina Denaro “è depositario di conoscenze sulla stagione stragista del ’92 e ’94 ancora oggi non sondate e sconosciute da altri collaboratori“, ha aggiunto il procuratore generale.

Secondo quanto riferisce invece l’Ansa, il boss proprio in queste ore è stato sottoposto all’interno dell’istituto penitenziario alla prima seduta di chemioterapia: per farlo sarebbe stata allestita un’apposita stanza non molto distante dalla sua cella.

«Dubito che Matteo Messina Denaro si penta, se lo facesse deluderebbe i tanti professionisti dell’antimafia».

Il Generale Mario Mori, ex comandante dei carabinieri del Ros

Il Generale Mario Mori che nel 1993 arrestò Totò Riina, ha subito una serie di processi dai quali è stato sempre assolto. Ha deciso di togliersi qualche "sassolino" dalle scarpe. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 18 gennaio 2023.

«Ci sono diversi personaggi in questo Paese che da molti anni ormai, per sbarcare il lunario, propalano ricostruzioni fantasiose sulle vicende di mafia senza contraddittorio alcuno. Anche adesso, dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, hanno ricominciato con il solito disco incantato».

Il generale Mario Mori, ex comandante del Ros (Raggruppamento operativo speciale), il reparto che ha condotto le indagini che hanno portato all'arresto questa settimana di Matteo Messina Denaro e che nel 1993 arrestò, sempre a Palermo, Totò Riina, ha deciso di togliersi qualche “sassolino” dalle scarpe.

Signor Generale, chi sarebbero questi personaggi?

Tanto per cominciare alcuni sono magistrati, che hanno fatto anche carriera, e che perseverano in una narrazione che non ha fondamento. Adesso dicono: “Lo sapevano tutti che Messina Denaro era a Palermo ed aveva protezioni”. Io gli risponderei: “E cosa avete fatto in questi anni? Perché non l'avete detto prima?”. Troppo facile in questo modo.

Oltre ai magistrati?

Ovviamente i giornalisti, non tutti ci mancherebbe altro.

Diversi di loro hanno ritirato fuori subito la storia dell’agenda rossa di Paolo Borsellino sulla quale sarebbero state scritte indicibili verità e per questo fatta sparire dopo l'attentato di via D'Amelio?

Sull'agenda rossa di Borsellino credo sia necessario fare chiarezza.

Prego.

Premesso che ci sono stati processi che hanno smontato questo teorema, io mi domando, ma se Borsellino, che non era certo un magistrato di poco conto, fosse stato a conoscenza di elementi importanti sulle sue indagini, cosa avrebbe fatto? Lo segnava e basta nella sua agenda? Sono stati fatti accertamenti puntuali e non è emerso nulla a tal proposito negli ultimi mesi di vita di Borsellino.

Come crede sia nata questa storia?

Mi pare un po’ come la frase poco elegante con cui Silvio Berlusconi avrebbe apostrofato Angela Merkel. Nessuna sa dove sia stata pronunciata ma viene sempre citata da tutti.

Oltre all'agenda rossa non poteva mancare il fantomatico “papello” con le richieste di Cosa nostra allo Stato.

Guardi la storia del papello è la più grande sciocchezza che esista. È stato dimostrato nelle sentenze che era una bufala. Ma ad anni di distanza continua a tornare d'attualità.

Infine, per concludere, ci sarebbero i servizi segreti “deviati” dietro la latitanza di Messina Denaro. Lei è stato anche direttore del Sisde, il servizio segreto civile. Cosa risponde?

Quella è una giustificazione che va bene per tutte le occasioni. I servizi “deviati” non esistono, al massimo qualche suo appartenente può aver tenuto dei comportamenti illeciti. Scusi, ma se un carabiniere commette un reato, allora tutta l’Arma è deviata?

A differenza di quando venne arrestato Riina gli investigatori hanno subito perquisito la casa di Messina Denaro.

Penso che la perquisizione sia servita anche ad evitare che qualsiasi soggetto “strano” che potesse fare illazioni.

Da ex comandante del Ros, come è stata condotta l'indagine?

Penso che sia stata condotta molto bene e con grandissima professionalità da parte di tutti. Conosco bene il generale Pasquale Angelosanto in quanto era capitano quando comandavo il Ros. I magistrati, il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e l'aggiunto Paolo Guido mi sono sembrati invece coscienziosi e riservati.

Secondo lei, Matteo Messina Denaro si pentirà?

Il discorso è complesso. Personalmente mi auguro si penta ma ho dei seri dubbi in considerazione dell'età e della sua malattia.

Se si pentisse?

Potrà dire qualcosa sulla stragi. Ma non credo molto di più. Saranno delusi i tanti professionisti dell’antimafia.

Lei, comunque, ha un conto aperto con loro...

Ripeto, c’è una compagnia di giro che ci sguazza in queste vicende, con ospitate televisive, scrivono libri, fanno disinformazione.

Come è adesso il livello degli investigatori in Italia?

Io faccio parte di un’altra generazione. Ora è cambiato tutto con il codice di procedura penale del 1989. Prima l’ufficiale di pg era molto più responsabilizzato. Adesso è più esecutore degli ordini del magistrato. Sarebbe opportuno una sua maggiore autonomia.

Ha sentito qualcuno dopo l'arresto di Messina Denaro?

Si, ho sentito il colonnello Giuseppe De Donno che era con me al Ros e che ha vissuto insieme a me anni di processi (Mori e De Donno sono stati sempre assolti da tutte le accuse a loro carico, ndr).

Cosa vi siete detti?

Che siamo dei sopravvissuti per tutto quello che abbiamo visto in questi anni.

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L'agenda rossa di Borsellino, i documenti di Riina e i legami Stato-mafia: cosa sa Messina Denaro. Il Tempo il 16 gennaio 2023

“Che cosa sa Matteo Messina Denaro di così prezioso?”. Tra le tante domande sorte dopo l’arresto del boss di Cosa Nostra c’è anche quella sui segreti celati dall’uomo arrestato a Palermo. A rispondere alla domanda è Saverio Lodato, giornalista e scrittore sulla mafia, interpellato da Lilli Gruber nel corso della puntata del 16 gennaio di Otto e mezzo, programma televisivo di La7: “È in grado di rispondere a tutti gli interrogativi che l’opinione pubblica si è posta negli ultimi anni. Messina Denaro sa dov'è l'agenda rossa di Paolo Borsellino, lui ne sa qualcosa. Sa dove sono i documenti non trovati nel covo di Totò Riina perché non perquisito 30 anni. Potrebbe raccontare dove sono finiti e perché sono stati messi in atto gli appostamenti necessari per assassinare Giovanni Falcone da lui stesso a Palermo dopo che Riina lo aveva inviato a Roma per fare l’attentato lì, salvo poi decidere che era meglio si facesse a Palermo. Potrebbe dire dove sono finiti i soldi che non sono stati trovati dopo l'arresto di Riina e Bernardo Provenzano, con ogni probabilità ci si appagò che erano stati catturati. Il boss conosce la storia delle complicità tra un pezzo dello Stato con la mafia, è questa la ragione del trentennio per cui ha camminato indisturbato per Palermo, si è fatto visitare, operare e oggi andava a fare un’ennesima visita”.

“Collaborerà?” chiede in maniera rapida Gruber al suo ospite, che ha le idee chiare: “Lui è uno dei latitanti più giovani che vengono arrestati nel panorama mafioso, ha 60 anni. La prospettiva è di farsi 20 anni di carcere, non gli giova questo. Ma dipenderà tutto - sottolinea Lodato - dal sapergli fare le domande giuste, dovremo avere un apparato istituzionale in grado di capire che questa è una gallina dalle uova d’oro se si vuole chiudere definitivamente con lo sconcio della convivenza di Cosa Nostra in Italia dopo un secolo e mezzo. Qualcuno sennò ci dirà tra 10 anni che qualcuno ha preso il suo posto e lo stiamo cercando e tra altri 20 anni lo arresteremo. Grande occasione e grande giornata, se apre una nuova stagione. Si potrebbe chiedere a Messina Denaro - chiosa l’esperto - dove sono i 200 chili di tritoli arrivati in Sicilia per far saltare in aria il giudice Nino Di Matteo, uno dei giudici più scortati d’Italia proprio dopo la decisione di Riina, di cui si incaricò Messina Denaro, di far fare a Di Matteo la fine del tonno”.

Marino Bartoletti su Instagram il 16 gennaio 2023.

Aveva strozzato con le sue mani la moglie incinta di un rivale (che aveva appena ammazzato), aveva ideato il rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell'acido perché suo padre "non parlasse", aveva organizzato gli attentati dinamitardi del 1993 di Roma, Milano e Firenze ( seguiti standosene in vacanza a Forte dei Marmi), non era estraneo alla strage di Capaci, aveva sulla coscienza (assieme a Brusca e Bagarella) decine di morti e, per fortuna, anche qualche "operazione" fallita, come quella contro Maurizio Costanzo.

 Da stamattina Matteo Messina Denaro, l'ultimo "latitante eccellente" della mafia è stato assicurato alla giustizia. È una bella notizia (che arriva in coincidenza con l'anniversario dell'arresto di Totò Riina e nei giorni in cui va in onda il bell'omaggio televisivo al generale Dalla Chiesa): purtroppo difficilmente la "giustizia" degli uomini basterà a ripagarlo delle barbarie commesse.

Le stragi, il "papello" e l'agenda rossa. Così si apre il vaso dei misteri di mafia. Da via Fauro a Capaci, fino al tentato omicidio del commissario Germanà con Bagarella e Graviano. Messina Denaro è al centro dei misteri di Cosa Nostra. E la sua cattura potrebbe riservare sorprese. Stefano Zurlo il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Spietato, era spietato. Ma a differenza di altri boss di prima grandezza, Matteo Messina Denaro ha sempre unito la ferocia a una certa duttilità, una sorta di intelligenza politica che lo ha reso diverso da Totó Riina e da altri generali di Cosa nostra. «Noi lo dobbiamo adorare», si dice in un'intercettazione che la dice lunga sulla sua capacità di aggregare consensi e redistribuire ricchezze fra gli affiliati.

Insomma, il copione non è scontato e potrebbe pure riservare qualche sorpresa. Anche perché non campava a pane e cicoria, come Bernardo Provenzano, e nemmeno si presentava con tono dimesso come Riina. In un covo appena abbandonato, alla fine degli anni Novanta, gli investigatori trovarono PlayStation, una sciarpa di seta, capi di cashmere. Se pensiamo che Messina Denaro è malato e non ha mai fatto un giorno di prigione, possiamo immaginare qualche azzardo ulteriore. E allora si apre il pozzo senza fine dei misteri di Cosa nostra. Si torna alla stagione spaventosa delle stragi. In particolare le bombe di via Fauro, degli Uffizi e di via Palestro a Milano. Gli esecutori sono legati ai fratelli Graviano e a lui. Se nel '92, fra Capaci e via D'Amelio, Messina Denaro è in alto ma non ancora al vertice, l'anno dopo la situazione è cambiata ed è lui, o dovrebbe essere lui, a dettare la linea. C'è di mezzo il papello che nel '92 è stato inviato dal gotha mafioso allo Stato. E le bombe sarebbero la colonna sonora di quella richiesta, un tentativo in dodici punti di piegare le istituzioni alle esigenze dei capi dell'organizzazione stragista.

In parallelo, ci sarebbe stata la trattativa, anzi le trattative con pezzi della politica, senza distinzioni di schieramenti. Il processo di Palermo che ha esplorato questi filoni non è approdato a nulla, ma potrebbero esserci rivelazioni e spiegazioni che finora non sono arrivate. Un fatto è probabile: quando Riina fu catturato, esattamente trenta anni fa il 15 gennaio '93, il covo fu ripulito dai soldati di Cosa nostra e il papello sarebbe stato consegnato proprio a lui. Dunque, gira e rigira si torna sempre a quel periodo tragico, in cui Cosa nostra cerca di ricattare lo Stato e tenta una prova di forza che si rivelerà disastrosa per l'organizzazione criminale.

1993 e 1992. Muore Paolo Borsellino e sparisce nel nulla l'agenda rossa in cui il magistrato potrebbe aver scritto intuizioni, paure, ipotesi sulla morte di Falcone e pure qualche premonizione sulla propria imminente fine. Chi sottrasse l'agenda rossa, la scatola nera di quella stagione cupa come la chiama Salvatore Borsellino, fratello di Paolo? Nodi intricati e fra loro collegati. L'ipotesi prevalente è che venne portata via da un uomo in divisa e sparì nel nulla. Forse, Borsellino, che aveva la percezione di essere un morto che cammina, aveva annotato i suoi dubbi, dubbi che restano ancora oggi: il giudice saltò in aria perché aveva messo le mani sulla lista che portava agli appalti targati Cosa nostra oppure per via della famigerata trattativa? Non sono quesiti teorici, ma questioni molto concrete. Sarebbe interessante avere una mappa più completa dei «soldati» di Cosa nostra, di eventuali complici e fiancheggiatori. In definitiva, senza cedere a facili complottismi e tentazioni ideologiche, sarebbe fondamentale sapere se ci siano stati suggeritori esterni a Cosa nostra che abbiamo avallato o anche solo tollerato la strategia del tritolo.

Ma il personaggio è tutto da decifrare: Messina Denaro agiva nell'ombra e non ci sono per lui racconti, disarmanti e quasi da fumetto, come quello di Riina che bacia Giulio Andreotti. Lui era accorto e stava un passo indietro, altrimenti non si spiegherebbe l'interminabile latitanza. Anche nei decenni successivi in cui Messina Denaro è artefice della riconversione di Cosa nostra in una direzione più soft, cercando in qualche modo una forma di convivenza con lo Stato. E però, riandando al 92, c'è un episodio che dovrebbe essere chiarito una volta per tutte: il tentativo, clamorosamente fallito, di uccidere il commissario Calogero Germanà sul lungomare di Mazara del Vallo il 14 settembre 1992. Il commando è composto da Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro. Perché i tre si espongono in prima persona per eliminare l'obiettivo? Dopo trent'anni si attende sempre una risposta.

I Viaggi.

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 22 gennaio 2023.

Ha sempre avuto una grande passione per i viaggi. Nell'estate 1993, mentre scoppiavano le bombe che aveva ordinato - tra Firenze, Roma e Milano - era in vacanza in Versilia con i suoi complici, i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano.

 Da allora Matteo Messina Denaro è latitante, e per lui non è stato mai un problema. L'anno dopo, era in Spagna. Questa volta, però, non per piacere o per affari. Si fece operare nella clinica oculistica Barraquer di Barcellona. E all'accettazione diede addirittura un pezzo del suo nome e cognome, Matteo Messina.

[…] Di sicuro, il Sud America e l'Inghilterra sono due mete che ritornano nei misteri della primula rossa di Castelvetrano. Quella passione che faceva andare su tutte le furie Totò Riina, il capo dei capi, mentre stava in carcere: "Ma cosa fa per ora questo Matteo Messina Denaro, che non so più niente?". Così diceva al compagno dell'ora d'aria nel 2013, e non sospettava di essere intercettato dalla Dia nell'ambito dell'inchiesta "Stato-mafia".

 "Io penso che se n'è andato all'estero", sussurrava con disprezzo. "Se ci fosse suo padre... - sbottava il capo dei capi - questo figlio lo ha dato a me per farne quello che dovevo fare. È stato quattro o cinque anni con me. Impara bene, minchia, e poi tutto in una volta...". All'improvviso, dopo avere partecipato alla stagione delle stragi, l'unico erede della dinastia Corleonese rimasto in libertà sparisce. Matteo Messina Denaro si dà agli affari internazionali.

[…] Un'altra fonte aveva spostato le ricerche in Venezuela: "Sono stati recapitati cinque milioni di dollari in Sudamerica per aprire un'azienda di pollame ufficialmente intestata a un siciliano, Gaspare Bianco", diceva un piccolo pentito di mafia, Franco Safina. Alla fine degli anni Novanta, il padrino sarebbe andato di persona a verificare l'investimento. All'epoca, aveva i documenti forniti da un falsario romano suo amico, Mimmo Nardo.

[…] Domande su domande. Il signor Bonafede-Messina Denaro rispunta per certo in Sicilia nel 2019, in coincidenza con l'inizio della sua malattia. Di fronte all'appartamento preso a Campobello di Mazara, in via San Giovanni 260, c'è adesso la sua Giulietta, l'hanno trovata i poliziotti del Servizio centrale operativo.  […]

Il Tesoro delle Mafie.

Arresto di Messina Denaro, i tesori spariti dei boss: affari per 200 miliardi, confiscati solo spiccioli. Antonio Fraschilla su La Repubblica il 23 Gennaio 2023.

Dall’ultimo padrino a Provenzano e Riina: la cassaforte della mafia spa non è mai stata trovata. Al Sud i pochi beni sequestrati. Ma è nelle città del Nord che c’è il boom di transazioni sospette

Nel covo di Matteo Messina Denaro hanno trovato scontrini per cene da 700 euro in ristoranti di lusso, ma di denaro contante solo pochi spiccioli e nessuna traccia di conti intestati a terzi ma a lui riferibili. Dove sono i soldi del superlatitante che ha inguaiato decine di imprenditori nei più svariati settori, che hanno subito solo per lui confische e sequestri per quasi 4 miliardi di euro? E dove si trovano i

Estratto dell'articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” il 23 gennaio 2023.

Nel covo di Matteo Messina Denaro hanno trovato scontrini per cene da 700 euro in ristoranti di lusso, ma di denaro contante solo pochi spiccioli e nessuna traccia di conti intestati a terzi ma a lui riferibili. Dove sono i soldi del superlatitante che ha inguaiato decine di imprenditori nei più svariati settori, che hanno subito solo per lui confische e sequestri per quasi 4 miliardi di euro? E dove si trovano i tesori dei tanti boss arrestati dalla Sicilia alla Lombardia, da Bernardo Provenzano e Totò Riina ai capi delle famiglie Piromalli e Mancuso in Calabria passando per gli Schiavone e gli Amato-Pagano in Campania?

 A queste domande decenni di indagini di fatto non hanno saputo dare una risposta. Perché se è vero che prendendo a riferimento solo gli ultimi cinque anni la criminalità organizzata ha fatturato almeno 200 miliardi di euro, secondo le stime di uno studio della Banca d’Italia, e se è anche vero che secondo altri centri di ricerca, come l’Eurispes, si potrebbe quintuplicare questa cifra (arrivando a mille miliardi nello stesso arco di tempo), la certezza è solo una: appena una piccola parte è stata confiscata e sequestrata anche dopo gli arresti dei capimafia.

Negli ultimi cinque anni secondo la Direzione investigativa antimafia è poco più di 35 miliardi di euro il valore dei beni messi sotto sigilli.

 […]

Il fatturato di mafia spa La Cgia di Mestre, riprendendo proprio l’ultimo studio di Banca d’Italia che stima una cifra intorno al 2% del Prodotto interno lordo per calcolare gli affari delle tre grandi mafie in Italia, ha ribadito come almeno 40 miliardi di euro ogni anno vengano fatturati da Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta. E questa cifra riguarda soltanto “l’emerso” per così dire, e cioè i profitti stimati da traffico di droga, scommesse e racket. A questi numeri andrebbero sommati quelli del “sommerso”, cioè delle attività sulla carta lecite che però sono frutto di capitali mafiosi, e qui si entra già nella sfera dei conti impossibili da quantificare.

Una seconda certezza però è che i soldi delle mafie seguano i flussi finanziari normali, e cioè siano concentrati nelle regioni ricche del Nord Italia e all’estero. […]

I pochi sequestri Ma a fronte di un flusso finanziario “anomalo” che va verso il Nord, le confische riguardano soprattutto beni della ristretta cerchia dei boss e legati al territorio di origine.

La gran parte dei beni è stata confiscata recentemente in Sicilia (circa 8 mila tra beni immobili e aziende), Calabria e Campania (3.300 beni): la Lombardia non arriva a 2 mila beni, meno di mille l’Emilia Romagna e ancora meno il Veneto. Come se nelle regioni ricche del Paese non circolassero i soldi della mafia, quando invece le segnalazioni sospette sono concentrate soprattutto in queste regioni. La spia che anche dopo gli arresti trovare i soldi delle mafie e recuperarli in qualche modo è impresa difficile.

Cgia, la Mafia ha un giro d'affari di oltre 40 miliardi l’anno. Il Quotidiano del Sud il 21 Gennaio 2023

Secondo lo studio della Cgia di Mestre, il giro d’affari prodotto ogni anno dalla mafia si aggira attorno ai 40 miliardi di euro

In massima parte è gestita dalle organizzazioni mafiose e conta un volume d’affari annuo stimato in 40 miliardi di euro, pari a oltre il 2 per cento del nostro Pil. Stiamo parlando dell’economia criminale riconducibile alla Mafia Spa che, a titolo puramente statistico, presenta in Italia un “giro d’affari” inferiore solo al fatturato di Gse (Gestore dei Servizi Energetici), di Eni e di Enel.

Sono dati, quelli relativi alle attività economiche criminali, che sono certamente sottostimati, in quanto non siamo in grado di dimensionare anche i proventi ascrivibili all’infiltrazione di queste organizzazioni malavitose nell’economia legale.

A dirlo è l’Ufficio studi della Cgia di Mestre. Dal 2014, l’Unione Europea, con apposito provvedimento legislativo4 consenta a tutti i paesi membri di conteggiare nel Pil alcune attività economiche illegali: come la prostituzione, il traffico di stupefacenti e il contrabbando di sigarette.

Grazie” a questa opportunità, nel 2020 (ultimo dato disponibile) abbiamo “gonfiato” la nostra ricchezza nazionale di 17,4 miliardi di euro (quasi un punto di Pil). Da un lato lo Stato combatte e contrasta le mafie, dall’altro riconosce a queste organizzazioni criminali un ruolo attivo di “portatori di benessere economico”. In buona sostanza è come se sul piano statistico ammettessimo che anche una parte dell’economia illegale riconducibile a Mafia Spa è “buona e accettabile”; insomma, una componente “positiva” della nostra ricchezza nazionale.

A livello territoriale la presenza più diffusa delle organizzazioni economiche criminali si registra nel Mezzogiorno, anche se ormai molte evidenze altrettanto inquietanti segnalano la presenza di queste realtà illegali nelle aree economicamente più avanzate del Centro-Nord. La letteratura specializzata evidenzia che, storicamente, i territori dove l’economia locale è fortemente condizionata dalla spesa pubblica e il livello di corruzione della pubblica amministrazione è molto elevato sono più vulnerabili dal potere corruttivo delle mafie. Induttivamente è possibile riconoscere un’area geografica più a rischio di un’altra, anche dal riscontro di una elevata presenza di reati spia.

Nei territori dove il numero di denunce all’autorità giudiziaria per estorsione/racket, usura, contraffazione, lavoro nero, gestione illecita del ciclo dei rifiuti, scommesse clandestine, gioco d’azzardo, etc. è molto alto, la probabilità che vi sia una presenza radicata e diffusa di una o più organizzazioni criminali di stampo mafioso è molto elevata. Secondo la Banca d’Italia la penetrazione territoriale della Mafia Spa non riguarda solo il Sud; purtroppo presentano un indice di presenza mafiosa molto preoccupante anche realtà del Centro-Nord, in particolar modo le province di Roma, Latina, Genova, Imperia e Ravenna.

Meno colpite delle precedenti, ma comunque con forti criticità si segnalano, sempre nella ripartizione centrosettentrionale, anche le provincie di Torino, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Varese, Milano, Lodi, Brescia, Savona, La Spezia, Bologna, Ferrara, Rimini, Pistoia, Prato, Firenze, Livorno, Arezzo, Viterbo, Ancona e Macerata. Meno investite da questo triste fenomeno sarebbero, invece, le province del Triveneto (con leggeri segnali in controtendenza a Venezia, Padova, Trento e, in particolar modo, Trieste). Anche la Valle d’Aosta e l’Umbria presentano un livello di rischio molto basso.

Nel Mezzogiorno, infine, secondo i ricercatori della Cgia gli unici territori completamente “immuni” dalla presenza del fenomeno della mafia e dei relativi affari sarebbero le province di Matera, Chieti, Campobasso e le realtà sarde di Olbia-Tempio, Sassari e Oristano.

Oltre ai 17,4 miliardi di euro “prodotti” dalle attività illegali (attraverso il traffico di droga, contrabbando di sigarette e prostituzione), il nostro Pil nazionale “assorbe” altri 157 miliardi di euro: di cui 79,7 sono “nascosti” dalla sottodichiarazione, 62,4 miliardi dal lavoro irregolare e 15,2 miliardi dalla voce Altro (ovvero, mance, affitti in nero). I 174,4 miliardi di euro complessivi (17,4 più 157), compongono la cosiddetta economia non osservata che è interamente conteggiata nel nostro Pil nazionale.

Ancorché non sia possibile quantificarne la dimensione, è evidente che anche una parte importante di questo stock (157 miliardi) sia riconducibile alle organizzazioni criminali di stampo mafioso, a dimostrazione che i 40 miliardi di volume d’affari richiamati all’inizio di questo documento addebitati a Mafia Spa sono, purtroppo, sottostimati.

In collaborazione con Italpress

Il Tesoro di Messina Denaro.

Estratto dell’articolo di Ida Artiaco per fanpage.it il 23 Febbraio 2023.

Continuano le indagini dopo l'arresto di Matteo Messina Denaro. L'obiettivo degli inquirenti è quello di scoprire quante più informazioni possibili sugli anni della latitanza e su Cosa Nostra.

 Al momento, gli investigatori sono sulle tracce dei finanziatori del padrino […] I pm che hanno coordinato l'indagine che ha portato alla sua cattura stanno cercando di capire come i soldi arrivassero a Messina Denaro che riusciva a mantenere un tenore di vita elevatissimo.

Addosso al capomafia il giorno dell'arresto sono state trovate delle carte di credito riferibili a conti correnti intestati ad alias sui quali, però, non ci sarebbero state disponibilità tali da consentirgli le spese – fino al 15mila euro al mese – abitualmente sostenute.

 L'ipotesi è che le somme siano state di volta in volta consegnate al boss nel covo in cui si nascondeva, nell'appartamento in via Cb 31 a Campobello di Mazara, nel Trapanese, dove avrebbe vissuto a partire da giugno.

Le indagini si stanno concentrando al momento sulla cerchia stretta dei favoreggiatori storici e della famiglia del capomafia, che avrebbero potuto far arrivare i soldi a Messina Denaro.

 […]

SLOT MACHINE DENARO. Rita Cavallaro su L’Identità il 28 Gennaio 2023

Una vita nel lusso con i soldi delle slot machine. I carabinieri del Ros stanno ricostruendo la valanga di soldi che ha garantito al capo dei capi Matteo Messina Denaro una latitanza dorata. Scontrino dopo scontrino, tra abiti griffati e cene in ristoranti chic, il tenore di vita dell’ultimo dei padrini si aggirava attorno ai 7mila euro al mese, senza contare le spese in contanti sulle quali non c’è certezza. E tra le attività che rimpinguavano le casse del capo di Cosa nostra, oltre alle infiltrazioni in aziende dell’eolico e perfino dell’aloe, ci sono le slot machine e le scommesse online. Gli affari sulle macchinette venivano gestiti dai suoi fedelissimi, arrestati il 6 settembre scorso nell’operazione Hesperia dei carabinieri del Ros. Nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere per i 35 emissari di Denaro a protezione della latitanza, si fa riferimento a due inchieste della Dda, che hanno portato in galera, nel 2019, l’imprenditore Calogero Jonn Luppino, re delle scommesse online condannato per associazione mafiosa a 18 anni di prigione. Un re incoronato direttamente dai vertici della Cupola, come rivelano le intercettazioni agli atti, con la banda dei picciotti impegnata ai imporre, attraverso le minacce e l’intimidazione, le macchinette della società dell’imprenditore ai bar e ai locali della zona. “È stato accertato l’intervento di Francesco Giuseppe Raia”, scrive il gip di Palermo Walter Turturici facendo riferimento al capo del clan di Marsala, che a sua volta eseguiva gli ordini di Denaro, “per il controllo del settore dei giochi sul territorio di Marsala, settore nel quale il Luppino era un vero e proprio leader che aveva espanso la propria attività su tutta la provincia trapanese grazie a Cosa nostra, che ne percepiva ingenti guadagni”. Con questo sistema, gli affiliati avevano scalzato le altre società e imposto il giro di giochi e scommesse di Luppino sulla maggior parte degli esercizi commerciali. E dietro la società Alicos giochi slr, riconducibile a Jonn Luppino che veniva chiamato “quello dei videogiochi”, c’era la famiglia del capo dei capi. L’imprenditore, infatti, si incontrava con Rosario Allegra, il cognato di Matteo Messina Denaro, per fare il punto sulla situazione. Il Ros ha documentato le conversazioni, tra cui una del 16 novembre 2017 nell’ufficio di Luppino, durante la quale i due commentavano il clima teso che stava attraversando i mandamenti mafiosi, in un conflitto interno di Cosa nostra trapanese culminato con l’omicidio di Giuseppe Marciano a Campobello di Mazara, il 6 luglio 2017, i cui mandanti ed esecutori sono ancora ignoti. Una situazione che incideva pure sugli affari e che si sarebbe risolta con la scarcerazione di Francesco Luppino, l’uomo d’onore designato dal super latitante come suo braccio destro. “Lui ora esce”, dice Jonn Luppino. “Speriamo… secondo me se esce prende in mano… la situazione lui la deve prendere in mano”, risponde il cognato del boss. Cosa che era avvenuta, con zio Franco che aveva riportato la pace nei mandamenti e riorganizzato la squadra degli affiliati, facendo così rifiorire gli affari e il mercato delle vacche delle slot machine. Gli investigatori stanno cercando di ricostruire il giro milionario di denaro e cercano di seguire i soldi per individuare anche il minimo indizio che possa condurli al tesoro di Cosa nostra. Gli introiti dai giochi, però, avevano avuto una battuta d’arresto nel febbraio 2019, quando Jonn Luppino era stato sottoposto a custodia cautelare. La cattura dell’imprenditore era stata un duro colpo per il sodalizio, come emerge da un’intercettazione di Hesperia del 9 marzo 2020 in cui l’emissario di Franco Luppino, Piero Di Natale, e Vincenzo Spezia, figlio del boss defunto Nunzio, “lamentavano la sofferenza economica patita dal sodalizio, colpito dai plurimi arresti degli imprenditori che lo finanziavano attraverso il gioco, in evidente riferimento a Calogero Jonn Luppino”, scrive il gip . “Chi deve portare? Non porta niente nessuno… non porta niente nessuno… neanche il gioco… non c’è niente… con il gioco fesserie ci sono… con queste sale giochi c’è… non guadagna più nessuno”, dice Spezia. “Si guadagnava prima … quando c’è stato quello e c’è stato…”, si ferma Di Natale, senza fare riferimenti al boss. Tra l’altro sempre Spezia, negli ultimi mesi, aveva avuto ben undici incontri segreti con Franco Luppino, tra cui quello del 20 ottobre 2019, in cui pretendeva ordini diretti dal capo dei capi prima di mettere in atto un’azione estorsiva, tanto da chiedere a Luppino di mandare un pizzino al super latitante. “Prendi e ci vuoi scrivere pure o solo tu … siamo arrivati ..ppii.. chi è che deve stringere… pi..andare a parlare con quello che manca”, diceva Spezia nell’intercettazione ambientale registrata dal Ros. Inoltre aveva affrontato anche la questione gioco con il braccio destro del boss e aveva raccolto i timori di zio Franco per un imminente arresto a causa dell’asserita collaborazione instaurata da “quello dei videogiochi”. Luppino gli aveva detto: “Si è pentito… sta accusando a me pure… sta mettendo in mezzo pure a me… a momenti capace che mi arrestano…”. E Di Natale manifestava tutto il suo astio verso l’imprenditore: “Prima ci mangia e poi ci sputa… cazzi suoi! anche per lui stesso… se comincia a parlare male anche delle persone che… sue… che erano vicine a lui e succedono dico… cioè non… per lui… secondo me è sbagliato perché sostanzialmente alla fine o parla bene o parla male la galera lo stesso se la fa… dico, può andare solo a discapito suo, non ha senso”.

E Jonn Luppino non ha mai parlato.

(ANSA il 21 gennaio 2023) - A gennaio del 2022 il boss Matteo Messina Denaro avrebbe personalmente acquistato, in una concessionaria di Palermo, la Giulietta oggi individuata e sequestrata dalla polizia, usata dal capomafia nell'ultimo anno di latitanza. I documenti della macchina sono stati trovati nel covo di vicolo San Vito individuato martedì dai carabinieri.

Estratto dell'articolo di Laura Anello per lastampa.it il 21 gennaio 2023.

E chissà se un giorno, in questa storia di Matteo Messina Denaro che supera la trama di un film, scopriremo che fine ha fatto la Natività di Caravaggio, trafugata dalla mafia nel 1968 dall’Oratorio di San Lorenzo a Palermo e al primo posto nella lista dell’Fbi delle opere d’arte più ricercate al mondo.

 Per ora ci dobbiamo accontentare di sapere che fine ha fatto il più modesto ritratto di Matteo Messina Denaro medesimo, realizzato dalla pittrice ed ex modella Flavia Mantovan insieme con altre «facce di mafia» – così si chiamava la serie - ed esposto al Museo di Salemi dedicato a Cosa Nostra, che Sgarbi aprì tra le polemiche nelle vesti di sindaco, assessore Oliviero Toscani.

 Correva l’anno 2009 e sembra un secolo fa, quando solo pensare di musealizzare padrini, boss e stragi era una provocazione. Tanto più a Salemi, cittadina a un passo da quella Castelvetrano che ha dato i natali all’ex imprendibile.

Ebbene, quel quadro che raffigura il boss con la corona sulla testa da numero uno e le fiamme riflesse negli occhiali, «le fiamme delle stragi di Capaci e via D’Amelio di cui era ritenuto mandante» come spiega l’autrice, si trova nel posto insieme più incredibile e più ovvio possibile.

 Dove? A casa della signora Lorenza Santangelo, madre di Matteo Messina Denaro, appeso sulla parete del salotto buono, come un maxi-santino, come una magnifica foto ricordo. Bello di mamma. […]

E così come nessuno si chiedeva chi fosse - in un paesino di undicimila abitanti come Campobello di Mazara dove tutti conoscono l’albero genealogico di tutti - quell’uomo sorridente e gentile venuto fuori dal nulla, nessuno nella catena che ha portato il quadro a casa della madre di Matteo Messina Denaro si è chiesto chi fosse il misterioso compratore disposto ad acquistare quel quadro «senza problemi di budget».

 E pazienza se l’autrice, secondo l’impietoso critico d’arte, fosse ai tempi della realizzazione «un poco principiante» (valutazione che non gli impedì di portarla due anni dopo alla Biennale di Venezia), fatto sta che quel quadro godette subito di questa immediata fortuna non appena rientrato a Roma.

«Si rivolse a me un gallerista romano che ora non c’è più, Carmine Siniscalco, dello Studio S, per chiedermi espressamente quel dipinto», ha raccontato il presidente dell'associazione culturale «Horti Lamiani», nome d’arte Daniele Arzenta, che aveva sostenuto la mostra a Salemi di Flavia Mantovan. «Mi disse che il suo misterioso acquirente non faceva questione di prezzo, che era pronto a versare anche una cifra cospicua. Siniscalco mi confessò poi che lo aveva venduto ottimamente, anche se non mi disse a chi». […]

Estratto dell'articolo di lastampa.it il 17 gennaio 2022.

Il denaro non è soltanto una parte del suo cognome, ma uno strumento del suo potere invisibile e intatto. Libera e Lavialibera, la rivista dell'associazione, hanno provato a fare i conti in tasca a Matteo Messina Denaro che ha basato la sua leadership non soltanto sulla violenza, ma soprattutto sui soldi e sui rapporti con politica e massoneria.

 Libera e Lavialibera hanno stimato al 2020,un tesoro pari ad oltre 4 miliardi di euro in una provincia, quella di Trapani, dove la media dei redditi pro capite è tra le più basse d’Italia. Parliamo di aziende, conti correnti, beni mobili e immobili sequestrati e confiscati in seguito alle attività investigative grazie a prestanomi, gregari, imprenditori, persone a vario titolo riconducibili a Matteo Messina Denaro.

[…] Nel portafoglio della «società» di MMD il settore più «redditizio» sono gli impianti eolici, circa 1,5 miliardi sequestrati a Vito Nicastri, altri 1,5 miliardi per i villaggi vacanze di Carmelo Patti e i 700 milioni confiscati nel 2013 nella grande distribuzione gestita da Giuseppe Grigioli, oltre 43 punti vendita in provincia di Trapani e Agrigento e i 500 milioni a Rosario Cascio, ritenuto il «cassiere» di Matteo Messina Denaro contabilizzati nel settore dell'edilizia e costruzione.

 […]

Gli affari di Messina Denaro e il centro commerciale confiscato che ora dà lavoro. Storia di Antonio Maria Mira, Castelvetrano (Trapani) su Avvenire il 18 Gennaio 2023.

Sull’enorme tetto del centro commerciale Belicittà di Castelvetrano, confiscato a Giuseppe Grigoli, imprenditore della grande distribuzione prestanome di Matteo Messina Denaro, sarà realizzato un grande impianto fotovoltaico da 250 kwh, prodotto dalle aziende Libeccio ed Eolo, confiscate a Vito Nicastri, il “re dell’eolico” imprenditore delle energie rinnovabili, anch’esso prestanome del boss di “Cosa nostra”.

Gli affari di Messina Denaro e il centro commerciale confiscato che ora dà lavoro© Fornito da Avvenire

Entrerà in funzione tra poche settimane, come ci rivela l’avvocato Pietro Bruno, presidente del consiglio di amministrazione della società Grigoli distribuzione srl in confisca definitiva e gestita dall’Agenzia nazionale per i beni confiscati.

I due grandi affari di Messina Denaro, rinnovabili e centri commerciali, assieme al più recente dell’azzardo, diventano esempio di come «ora è ancora più importante usare nel modo migliore i beni confiscati. Ma bisogna fare rete per avere risultati migliori nella restituzione al sociale dei beni dei mafiosi. E noi siamo la dimostrazione che si può fare».

Belicittà è uno dei 10 centri commerciali della società Grigoli distribuzione srl, la cassaforte immobiliare del “Gruppo 6 Gdo”, di Giuseppe Grigoli, arrestato, condannato per mafia e poi collaboratore di giustizia. Gli fu confiscato un “impero” da 700 milioni, grande distribuzione e turismo.

Video correlato: «Arrestare Messina Denaro è stato un errore, per 30 anni ci hanno mangiato tutti» (Corriere Tv)

Fiore all’occhiello Belicittà, a Castelvetrano, il paese di Messina Denaro, il primo centro commerciale realizzato nella Sicilia occidentale: 10mila metri quadrati, iniziato a costruire nel 2007, confiscato definitivamente nel 2013. E ancora attivo, diversamente purtroppo da tante aziende mafiose che dopo la confisca chiudono o falliscono. Merito di bravi e motivati amministratori. Ma non è stato facile.

Il gioco di fattoria da cui avrai più dipendenza nel 2023. Senza installazi

L’avvocato Bruno ci accoglie nell’ufficio con enorme vetrata dal quale i mafiosi osservavano e dominavano il territorio. «Era l’ufficio di Francesco Guttadauro, nipote di Messina Denaro, mentre i mobili erano della moglie di Grigoli. Dopo la confisca, quando siamo arrivati ci hanno pignorato proprio questi mobili per alcuni debiti non pagati. Quelli che se li erano aggiudicati ce li hanno poi offerti indietro al doppio del prezzo pagato. Io gli ho risposto “te li puoi tenere”».

C’era una gran brutta aria allora. «In una prima fase il vecchio proprietario cercò di rimpossessarsi della società, poi mettendoci i bastoni tra le ruote, anche presentando il progetto per un nuovo centro commerciali vicino». Perché l’affare non andava mollato. Ma non sono solo i mafiosi. Anche altri hanno remato contro. «Le banche, anche nazionali, ci hanno chiuso i rubinetti. Anzi rivendicavano i debiti, ben 35 milioni, accumulati dalla società per realizzare il centro commerciale». Perché i mafiosi non hanno problemi a ottenere prestiti, «i debiti sono tollerati, ma quando arriva lo Stato cambia tutto».

Altro problema fare pulizia tra gli esercizi commerciali e il personale. «Belicittà era anche un grande centro di potere, dove elargire assunzioni e concedere spazi. Posti di lavoro come arma di ricatto. Siamo dovuti intervenire anche su questa eredità del passato. Abbiamo cacciato alcuni “fedelissimi” di Messina Denaro che non pagavano l’affitto, tra i quali un “figlioccio” di Matteo, che oltretutto pagava i dipendenti in nero. Abbiamo aspettato la scadenza del contratto, lo abbiamo avvertito, ma non aveva neanche la licenza. È dovuto andare via. Non se lo aspettava. E ancora adesso se scopriamo qualche contiguità risolviamo il contratto».

Oggi Belicittà dà lavoro a 150 persone negli esercizi commerciali oltre ad altri 250 nell’indotto (vigilanza, manutenzione, pulizia). Ed è anche migliorato come struttura. «Non c’era l’aria condizionata né wi-fi, mancava la dotazione di sicurezza del sistema elettrico. Abbiamo realizzato il parcheggio, installato le torri faro, organizzato la raccolta dei rifiuti».

Ma Belicittà è diventato e vuole essere anche altro. «Vogliamo donare al territorio oltre che all’azienda». Con iniziative concrete e simboliche. La donazione di una nursery al Tribunale di Marsala, le divise alla squadra calcio del dopolavoro della Guardia di Finanza, la “partita della legalità” tra magistrati e forze dell’ordine. «Non siamo lasciati soli, la vicinanza delle istituzioni c’è, soprattutto delle forze dell’ordine. Mentre l’Agenzia potrebbe fare di più…».

Ora l’accordo con l’altra azienda confiscata al “re dell’eolico”, l’ex elettricista di Alcamo Vito Nicastri, condannato per concorso in associazione mafiosa. Un regno da 1,5 miliardi, ora in mano allo Stato. Una società che lavora, assume personale, produce. «Così chiudiamo il cerchio. Se una cosa può essere utilizzata per il bene di tutti noi la utilizziamo - riflette convinto l’avvocato Bruno -. I mafiosi si stupiscono che siamo ancora aperti e attivi. Sicuramente a Messina Denaro rode aver perso il centro commerciale nel suo paese e ancor più che sia ancora in vita», aggiunge soddisfatto.

Nel grande patrimonio c’è di tutto. A quanto ammonta il patrimonio di Matteo Messina Denaro: 4 miliardi sparsi tra prestanome, immobili e opere d’arte. Elena Del Mastro su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

“Follow the money”, per Giovanni Falcone era questo il modo per ricostruire i business mafiosi e arrivare ai potenti capi che sfuggivano a tutti. Nel tempo chi si è trovato a indagare sul patrimonio dei Messina Denaro si è trovato davanti un pozzo senza fondo e una grande capacità di far sparire i soldi e coinvolgere gli imprenditori. Secondo una stima riportata dal Sole 24 ore, il patrimonio dei Messina Denaro ammonterebbe a quattro miliardi. Una stima probabilmente per difetto e non per eccesso del patrimonio sequestrato e confiscato a prestanome del boss arrestato a Palermo dopo 30 anni di latitanza.

In questo tesoretto negli anni è stato trovato un po’ di tutto: la grande distribuzione commerciale, impianti eolici, villaggi turistici, immobili, opere d’arte che sarebbero state addirittura trafugate da un compaesano della famiglia Messina Denaro. Secondo quanto ricostruito dal Sole 24 ore, uno di questi imprenditori prestanome faceva sparire i soldi investendo in supermercati, ville, palazzine e appezzamenti di terreno. A quest’ultimo sono state confiscate 12 società, 220 fabbricati (palazzine e ville) e 133 appezzamenti di terreno per 60 ettari. Secondo gli investigatori, un’altra parte dei soldi arrivava al boss grazie all’energia eolica. Il settore era curato da un imprenditore trapanese, ex elettricista e pioniere del green in Sigilia, a cui sarebbe stato sequestrato un patrimonio di un miliardo e mezzo di euro.

Poi c’erano gli investimenti nei villaggi turistici. Un muratore di Castelvetrano era diventato il capo del colosso turistico. Finito nei guai per evasione fiscale i Tribunale gli ha sequestrato beni per 1,5 miliardi, una delle misure patrimoniali più ingenti mai eseguite, disse la Dia: i sigilli vennero messi a resort, beni della vecchia Valtur, una barca di 21 metri, un campo da golf, terreni, 232 proprietà immobiliari e 25 società.

E sono questi i sequestri più clamorosi. Negli anni si sono susseguite piccole o grandi operazioni con sequestri tra 300mila euro e un milione. In un altro caso sono stati 25 i milioni di euro sequestrati a un imprenditore accusato di essere un prestanome del superlatitante e di averlo ospitato a casa. In quel caso sono stati sequestrati oltre a 99 beni immobili, pari a una estensione di 150 ettari, 17 fra trattori e autocarri, 8 automobili fra cui due Suv, 86 conti correnti e rapporti bancari, una casa di cura per anziani e due società di cui una gestiva un famoso albergo.

Tra i business nelle mani dei fedelissimi del boss c’era anche il gioco online. Secondo quanto si legge nell’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia (Dia), il settore “ben si presta come strumento di riciclaggio dei capitali illeciti oltre che come fonte primaria di guadagno al pari del traffico di stupefacenti, delle estorsioni, dell’usura ecc”.

Dietro l’affermazione degli investigatori secondo i quali “c’è stata certamente una fetta di borghesia che negli anni ha aiutato Matteo Messina Denaro”, si riferiscono probabilmente a quel sistema messo su in un clima di pace apparente, affidando a insospettabili compiti e soldi. E così Messina Denaro è riuscito a penetrare nel tessuto economico e sociale, prendendo il controllo dei settori più disparati, da quello edile a quello del turismo, dalla gdo alla ristorazione, dalla sanità all’agricoltura, spazzando via ogni tipo di concorrenza. Sono state ingenti, nel tempo, anche le somme depositate in conti correnti di paesi stranieri, compresi ovviamente anche i paradisi fiscali.

Un impero fondato da una parte sui legami familiari, mettendo al comando dell’organizzazione mafiosa i suoi congiunti di sangue. Dall’altra teste di legno della società civile che operavano nell’economia legale. Per il momento resta impossibile per gli investigatori ricostruire precisamente a quanto ammonti il patrimonio di Messina Denaro. Quello che si sa e che si conteggia è solo quanto gli è stato sequestrato negli anni attraverso i prestanomi, un tesoretto tra i 4 e i 5 miliardi di euro. Ma potrebbe essere molto di più. Basti pensare che solo al momento dell’arresto indossava un orologio del valore di 35mila euro.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il Tesoro di Riina.

Estratto da adnkronos.com il 21 gennaio 2023.

 "Riina era un cretino. […] Era solo un violento. Per essere un capo non devi essere violento, devi essere intelligente". Lo ha detto il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, intervenuto in Senato presso la Sala Caduti di Nassirya alla presentazione del portale 'Scelgo la vita'.

 E mentre Cosa nostra ingaggiò, con lo stragismo, la "guerra stupida contro lo Stato" ad approfittarne fu la 'Ndrangheta, al punto, ha ricordato, che ad oggi "è leader nell'importazione di cocaina in Europa". […]

Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “La Stampa” il 21 gennaio 2023.

 […] Cosa Nostra non è finita ma anzi riparte dalla stagione di Messina Denaro, soprattutto con un'attenzione diversa agli affari. Si parla molto di suoi investimenti nelle energie rinnovabili. Lo raccontò Totò Riina in una memorabile intercettazione nel carcere di Milano: «A me dispiace dirlo, questo signor Messina... Questo che fa il latitante, che fa questi pali eolici, i pali della luce... Se la potrebbe mettere nel c. la luce, ci farebbe più figura».

 Il boss credeva nel lusso. Camicie firmate. Orologio da 36 mila euro al polso. Etichette prestigiose del vino di Marsala nel portafoglio investimento, come per l'olio di qualità e l'ottimo vino catarratto. Messina Denaro aveva capito il valore dei marchi doc. E l'importanza della grande distribuzione.

Tanto che sarebbe un uomo da 5 miliardi di euro, manovrati grazie ai prestanome. Quanto siamo lontani dai «viddani» di Corleone, uomini di campagna, soddisfatti di pane e ricotta, nascosti in casolari sperduti tra le campagne. Secondo un pentito, Messina Denaro si sarebbe comprato persino un palazzo a Venezia, con vista sui canali, grazie a un prestanome. Cose inimmaginabili per i vecchi capi di Cosa Nostra.

 […] Quindi dopo di lui verrà una mafia imprenditrice, svincolata dall'edilizia e dal movimento terra. […] La mafia che riparte da Messina Denaro, dunque, egemonizza il territorio ma ragiona sui suoi sentimenti. Non si esalta nello scontro per lo scontro. Usa la violenza solo quando serve. E diffida della politica.

[…] Resta il nodo di fondo: come sarà la mafia siciliana del futuro? Forse mutuerà l'organizzazione orizzontale della 'ndrangheta, che riserva al vertice solo ruoli di coordinamento. Messina Denaro qualche anno fa strinse un patto con i capi della 'ndrangheta in Piemonte per «lavorare insieme e diventare un'unica famiglia». È quanto emerge nel processo Carminius-Fenice. Sarebbe una notevole rivoluzione per Cosa Nostra, abituata a dominare e ora non più.

Cos’è “l’archivio Riina”, il mistero della Cosa Nostra stragista nei documenti: è caccia nei covi di Matteo Messina Denaro. Redazione su Il Riformista il 20 Gennaio 2023

Non è stato trovato niente nel terzo covo del superlatitante Matteo Messina Denaro a Campobello di Mazara. Il terzo nel giro di due chilometri. La polizia ci sarebbe arrivata dopo la testimonianza di un uomo che ha riconosciuto il volto del boss di Castelvetrano dopo l’arresto di lunedì scorso a Palermo. La perquisizione dell’appartamento è stata disposta dal procuratore aggiunto Paolo Guido. Gli agenti non hanno trovato niente, vuoto. A suscitare l’interesse sui controlli di questi giorni la ricerca di documenti che possano raccontare qualcosa della mafia siciliana: su tutti il cosiddetto archivio Riina.

Le perizie calligrafiche sono partite sugli appunti, le annotazioni e gli sfoghi personali in un’agenda, i post-it e i fogli sparsi con note e promemoria. Forse solo contabilità, supporti organizzativi, cenni alla rete di protezione in cui si è mosso in quest’ultima fase di latitanza il boss di Cosa Nostra latitante da trent’anni quasi. Carte comunque da studiare ma che al momento non sembrano neanche lontanamente avvicinarsi alla raccolta di documenti di cui si parla da anni: dall’arresto del Capo dei Corleonesi e della Mafia stragista Riina.

Qualcosa di imprendibile, di inafferrabile, così irraggiungibile che si dubita anche della sua stessa esistenza. Nessuna traccia del “tesoro” che potrebbe celare i presunti segreti e i misteri irrisolti della stagione stragista di Cosa Nostra. Al momento i ritrovamenti sono più dozzinali, buoni più per il pettegolezzo che per le aule giudiziarie: profumi e indumenti di lusso, scarpe di marca, pillole per aumentare le prestazioni sessuali, profilattici e arredamento raffinato. Ritrovamenti che dicono qualcosa sulla vita quotidiana del boss, certo.

Il 6 giugno del 2012, nel processo Borsellino Quater parlava il collaboratore di Giustizia Antonino Giuffrè, ex membro della Cupola di Cosa Nostra, capo mandamento di Caccamo, ritenuto attendibile più volte dai giudici parla: “Lui ha i documenti che sono stati portati via dal covo di via Bernini dopo l’arresto di Totò Riina”. Lui era Messina Denaro. Come riporta La Stampa, il boss di Castelvetrano sarebbe entrato in possesso delle carte rimaste per 18 giorni nella cassaforte di via Bernini a Palermo quando trent’anni fa il capo dei Corleonesi veniva arrestato.

Degli stessi documenti ha parlato Giovanni Brusca: “Riina era maniacale nel mettere insieme e conservare tutti i documenti, prendeva appunti anche alle riunioni e li metteva da parte. Ordinò lui di fare sparire tutto”. Brusca ha parlato anche di un block notes in cui Riina segnava tutto, il suo “ufficio volante”. Lo stesso ha ipotizzato che i documenti siano stati bruciati. Di fatto nessuno li ha mai visti o ha riferito di essere al corrente con certezza della loro sorte.

È una trama rinverdita e battuta con il tono del mistero, del giallo irrisolto, anche dell’arma silenziosa, del ricatto. È la versione oscura dell’agenda rossa di Borsellino, sparita dal luogo della strage in via D’Amelio a Palermo e mai più ritrovata. Salvatore Baiardo, prima vicino ai fratelli Graviano, ha detto a Report che “ci sono più copie di quell’agenda, una ce l’ha lui”. Sempre Messina Denaro.

La mancata perquisizione del covo di via Bernini, avvenuta solo alcuni giorni dopo quando la villa era stata ormai svuotata e ripulita, sfociò poi in una pesante polemica tra la Procura e i carabinieri e in un processo concluso con l’assoluzione del vicecomandante del Ros Mario Mori e del colonnello Sergio De Caprio, alias capitano Ultimo, dall’accusa di favoreggiamento a Cosa Nostra. Salvatore Riina è rimasto in carcere fino alla sua morte avvenuta il 17 novembre 2017. Il suo archivio disperso, resta introvabile.

Messina Denaro "libero grazie ai ricatti": la verità sul "tesoro di Riina". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 17 gennaio 2023

Matteo Piantedosi aveva avuto un presentimento: spero di essere io al Viminale quando arresteremo Messina Denaro, si era lasciato scappare. Ma che il cerchio intorno al grande latitante di Cosa Nostra si stesse stringendo lo dicevano tutti, almeno in Sicilia. Soprattutto da quando si era saputo della sua malattia. E non è un caso infatti che il boss sia stato catturato in una clinica privata, La Maddalena di Palermo, dove si era recato per fare un tampone, spiega la direttrice, sorvolando sul fatto che il padrino, sotto la falsa identità di Andrea Bonafede, beffarda e ricercata omonimia con l'ex Guardasigilli grillino originario proprio delle sue parti, fosse in cura da un paio d'anni.

Nel 2022 è perfino uscito un libro, "Il male non è qui", a firma della Iena televisiva Gaetano Pecoraro, giornalista di Palermo che spiegava come la partita tra lo Stato e Messina Denaro fosse da sempre truccata, perché il capo della mafia poteva contare su troppe connivenze, amicizie, complicità. L'imprendibile vantava un potere di ricatto enorme che si estendeva in modo trasversale su tutta la Regione, geograficamente, ma anche politicamente e a livello di tessuto sociale.

Per decenni si è detto che il boss era imprendibile perché nessuno conosceva il suo dna e neppure la faccia attuale. Le fotografie dell'arresto però rivelano un aspetto certo più senile ma non troppo diverso dai pochi identikit diffusi e che tutti i siciliani dovrebbero aver ben stampati nella testa. Perché allora nessuno lo ha mai riconosciuto, visto che l'aspetto di "U siccu", con Diabolik uno dei soprannomi con cui è conosciuto, tra i primi dieci latitanti al mondo, è stampato nella testa di ogni buon siciliano? E visto che, come ogni vero boss mafioso, non si è mai mosso dal suo territorio, condizione irrinunciabile per conservare il potere? L'epica celebra un carisma straordinario di cui Messina Denaro sarebbe dotato, nulla di paragonabile a Totò Riina, "U curtu", che governava con la crudeltà, o a Bernardo Provenzano, che si era autorecluso in un casolare, dove viveva come un topo, comunicando attraverso i famigerati pizzini.

PERSONALITÀ MAGNETICA Una personalità magnetica, come conferma anche Giacomo Di Girolamo, giornalista del Trapanese, che in una radio locale ha dedicato per anni una coraggiosa rubrica quotidiana alla latitanza di Diabolik, intitolata "Matteo, dove sei?", spiegando come il boss fosse quasi oggetto di venerazione, con migliaia di persone che sognavano di poterlo toccare, come fosse una reliquia vivente. La realtà parla di un vero esercito armato che lo proteggeva, estendendo intorno a lui un cordone di decine di chilometri di territorio presidiato dai suoi soldati, che si muovevano a bordo di Suv scuri, alla moda dei trafficanti colombiani, fermando qualsiasi sospetto. Chi lo ha cercato, e studiato, per decenni spiega che una latitanza così lunga e operativa è potuta esistere solo grazie ad appoggi molto in alto nel potere della Regione, alla «borghesia mafiosa», come l'ha definita il procuratore capo che ha acciuffato l'inafferrabile, Maurizio De Lucia. Quando Riina fu catturato, esattamente vent' anni fa, anche lui nel "blue Monday", il lunedì della tristezza, il terzo di gennaio, ritenuto nel mondo il giorno più brutto dell'anno, e sicuramente ormai di Cosa Nostra, nessuno perquisì subito il suo covo.

I malpensanti sostengono che non fu un caso, perché l'agenda dell'uomo che pensò e attuò la strage di Capaci era troppo ricca di nomi eccellenti.

Il racconto vuole che sia stato proprio Messina Denaro a impossessarsene, e da qui il suo enorme potere di ricatto, che ha fatto sì che per trent' anni mezza Regione lavorasse per tenerlo in libertà. Chissà quante volte, prima di ieri, "U siccu", malato di tumore, ha dovuto ricorrere alla sanità privata siciliana, dove nessuno lo ha mai riconosciuto per i due anni che è stato in cura. Se c'è una Sicilia scesa in piazza ieri ad abbracciare i carabinieri per l'arresto eccellente, ce n'è un'altra, parimenti numerosa e in parte altolocata, che ha protetto il boss per decenni con un abbraccio omertoso.

L'IRRUZIONE

Solo due volte prima di ieri, nel 1996 e nel 1997, lo Stato è andato vicino alla cattura del grande latitante. La prima fece un'irruzione nella casa della madre del boss, appena diventato padre, e trovò la tavola apparecchiata per tre. Ma l'irruzione avvenne troppo presto e il terzo commensale non si presentò mai a tavola. La seconda fu seguendo una donna, che usciva a tarda sera da una casa nella quale la polizia fece irruzione, trovando segni di una fuga precipitosa appena avvenuta. Poi nulla per oltre 25 anni, fino a quando Diabolik è caduto, fiaccato dalla malattia e forse indebolito dal fatto che, dopo trent' anni, il suo potere di ricatto sulla società siciliana si è inevitabilmente e pesantemente ridotto. Resta da vedere se ora il boss parlerà. Se si guarda a Giuseppe Graviano, suo amico arrestato nel lontano 1994 e che da allora poco o nulla ha detto, pesando ogni parola come merce di scambio, non c'è da aspettarsi troppa loquacità. 

Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “la Stampa” il 17 gennaio 2022. 

È il 6 giugno del 2012, processo Borsellino Quater. L'avvocato di parte civile della famiglia del magistrato ucciso nella strage di via D'Amelio, Fabio Repici, chiede al collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, ex membro della Cupola di Cosa Nostra già a capo del mandamento di Caccamo […] se Matteo Messina Denaro, sia entrato, in qualche modo, in possesso di qualcosa.

[…] La replica […]: «Lui ha i documenti che sono stati portati via dal covo di via Bernini dopo l'arresto di Totò Riina». […] Conosce i segreti di quelle carte, rimaste, si dice, per 18 giorni nella cassaforte di via Bernini a Palermo quando 30 anni fa il capo dei Corleonesi finiva in manette e il covo non veniva perquisito […]

 Di quella miniera potenziale di informazioni in grado di riscrivere la storia di un momento complicatissimo del Paese in cui mafia e (pezzi di) Stato si parlarono, ha raccontato anche Giovanni Brusca, pure lui capo, anche lui fedelissimo del boss sanguinario: «Riina era maniacale nel mettere insieme e conservare tutti i documenti, prendeva appunti anche alle riunioni e li metteva da parte. Ordinò lui di fare sparire tutto».

L'imprenditore che si occupò addirittura di ritinteggiare indisturbato le pareti di casa, disse intercettato: «Per fortuna abbiamo salvato il salvabile». E anche Riina stesso non si dava pace per quanto avvenuto: «Io non capisco perché non sono venuti a fare la perquisizione» diceva intercettato nel carcere di Opera durante l'ora d'aria.

 Ci sono poi gli attentati del 1993 a Firenze, Roma e Milano inseriti nella più ampia cornice di interlocuzioni avvenute tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato, di cui Messina Denaro è stato assoluto protagonista […]forse si spiega anche così, (sennò come?) la capacità di sottrarsi per decenni a mandati di cattura e carcerazioni irrevocabili prodotte proprio dallo Stato che pure la caccia gliela ha data […]

Carte, misteri, segreti branditi […] come katane. […] E quell'agenda rossa di Borsellino, mai ritrovata ma portata via dal luogo della strage in una borsa marrone, che oltreché nelle mani di qualche servitore infedele dello Stato potrebbe essere anche dell'ex primula "nera". Lo ha raccontato Salvatore Baiardo un anno fa a Report. […]: «Ci sono più copie di quell'agenda, una ce l'ha lui». […] dei segreti di Riina soprattutto non militari, Messina Denaro è sicuramente un custode. E rafforza l'assunto la rivendicazione di paternità mafiosa, fatta dall'ex sanguinario capo dei Corleonesi poco prima di morire […]

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per corriere.it il 17 gennaio 2022. 

Il fatto di essere l’ultimo latitante della stagione stragista di Cosa nostra, rimasto in circolazione fino a ieri mattina, ha trasformato Matteo Messina Denaro in un forziere di segreti. Che probabilmente resteranno tali anche dopo il suo arresto, ma che sono stati la chiave di volta del suo potere. Vero o virtuale che fosse. Un forziere che può aprire solo lui.

 Lui sa e potrebbe spiegare […] per quale motivo nel marzo del 1992 Totò Riina decise di cambiare idea sull’omicidio già programmato di Giovanni Falcone. Matteo faceva infatti parte del commando inviato a Roma con l’intento di trovare e uccidere il magistrato durante la settimana, mentre era nella capitale per lavorare al ministero. Ma dopo qualche giorno […] Riina decise di richiamare tutti in Sicilia perché aveva trovato un’altra soluzione: la strage di Capaci. […] una nuova «strategia della tensione».

[…] Chi e perché fece quella scelta? Con quale prospettiva politico-strategica da parte della mafia? Nel frattempo Riina era stato arrestato, a gennaio di quell’anno spartiacque, nel famoso blitz rimasto orfano della perquisizione del covo da dove era uscito il boss la mattina della cattura. E da lì è scaturito un altro mistero […]: l’archivio del capo corleonese […]è quello che hanno raccontato pentiti considerati attendibili come Nino Giuffrè, l’ex braccio destro di Provenzano: «Credo che parte dei documenti presi a casa di Toto' Riina siano finiti a Messina Denaro» […]

Altri, ritenuti meno credibili, hanno anche ipotizzato che allo stesso Matteo sia arrivata la famosa agenda rossa di Paolo Borsellino sparita da via D’amelio subito dopo la strage. Ma a sottrarre quel documento dalla scena del crimine, se così andò, non furono uomini della mafia; […]

La Gogna.

La colpa del contaminato. Il fastidioso giustizialismo degli antimafiosi di professione. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 22 Aprile 2023

Per legge un imputato ha il diritto di non rispondere a un magistrato inquirente. Per i mass media invece, chi è parente di un boss ha l’obbligo di parlare per manifestare infedeltà alla famiglia. Essere fedeli a un criminale potrà essere brutto: ma non è vietato né punibile

«Resta in silenzio, confermando la fedeltà della sua famiglia a Messina Denaro». Così, l’altro giorno, un servizio del Tg2 a proposito dell’arresto di Laura Bonafede, una delle “fiancheggiatrici” del boss mafioso. Dicevo qui proprio lo stesso giorno come non da oggi, ma ormai senza freno, spadroneggi l’idea e purtroppo anche la pratica di rispondere alla pretesa mafiosa con l’uso di un protocollo sostanzialmente identico: siccome quelli procedono per famiglie, ammazzandole, lo Stato dell’antimafia procede a sua volta per famiglie, arrestandole. Un protocollo ben imparato e fatto proprio, evidentemente, dall’informazione secondo cui un indagato non ha il diritto di difendersi, ma l’obbligo di parlare per manifestare infedeltà alla famiglia. 

Probabilmente al redattore di quel telegiornale, e a chi ha il compito inadempiuto di controllarne i servizi, sfugge un dettaglio: e cioè che non rispondere al magistrato che ti inquisisce è appunto un diritto, e che non è consentito a nessuno attribuire alla scelta del silenzio una colpa supplementare. 

A causa di questi fraintendimenti sta la stramaledetta cultura antimafia che ha contaminato ormai irrimediabilmente il discorso pubblico in argomento, e lo ha fatto in forza del presupposto secondo cui la cerchia familiare e amicale del mafioso può liberarsi dal sospetto che la assedia solo subordinandosi alla pretesa di confessione esercitata dal potere pubblico. Altrimenti, appunto, vuol dire che rimani fedele alla famiglia.

È evidente che quella signora, come qualsiasi presunto connivente, ben può essere responsabile dei delitti che le sono imputati, ma l’impressione è ancora una volta che per il sentimento generale e forse anche per l’approccio di giustizia la colpa del “contaminato” risieda altrove: vale a dire nel fatto stesso di avere avuto rapporti col mafioso, in buona sostanza di avergli procurato vivande e di non averlo denunciato.

Il fatto è che il delitto di ”fedeltà alla famiglia”, per fortuna, non è ancora codificato (anche se poco ci manca), e se la responsabilità penale è ancora personale bisogna stare molto attenti a non commettere un errore anche più grave del male che si vuol curare: incolpare qualcuno per ciò che è anziché per ciò che fa. Essere fedeli a un criminale potrà essere brutto: ma vietato e punibile, no.

Vincenzo Iurillo per “il Fatto quotidiano” il 22 gennaio 2023.

C’è qualcosa che non funziona nel sistema dell’informazione, se in nome della legge bavaglio sulla presunzione d’innocenza i comunicati sui blitz spesso partono privi dei nomi degli arrestati, mentre della cattura del boss Matteo Messina Denaro conosciamo ogni dettaglio, persino i più intimi, sulle sue metastasi tumorali e sulle pillole azzurre che teneva sul comodino, e le telecamere quasi partecipano in diretta alla perquisizione di uno dei covi.

Se ne è accorto il Garante della Privacy, Pasquale Stanzione, che è intervenuto per avvertire i media annunciando iniziative: “Anche in casi di vicende di assoluto interesse pubblico, riguardanti persone che si sono macchiate di crimini orribili, la pubblicazione integrale di referti, o la diffusione di dettagli particolareggiati presenti nelle cartelle cliniche relativi a patologie, non appare giustificata”.

 Autorità di cui fa parte il professore Guido Scorza, esperto di diritto delle tecnologie e iscritto all’albo dei giornalisti, che al Fatto aggiunge poche ma inequivocabili parole: “Su Matteo Messina Denaro si è superato ogni limite”.

A ricordare il principio costituzionale che siamo tutti uguali davanti alla legge è l’avvocato Caterina Malavenda, specializzata in diritto dell’informazione: “Matteo Messina Denaro, come tutti, ha diritto al riserbo sui dati riguardanti la sua salute. La cautela sulla privacy delle persone importanti, che oramai è quasi automatica ed a volte persino eccessiva, va garantita anche ai pregiudicati e in genere alle persone comuni”. È cronaca, precisa, “far sapere che ha un tumore, essendo la ragione per cui si recava nella clinica dove lo hanno arrestato, mentre si potevano evitare i dettagli sullo stadio della malattia o sui farmaci”.

La Giustizia dello Stato non può mai essere spettacolo né vendetta. Con immagini arresto Messina Denaro i Ros riscattano l’ignobile passerella di Enzo Tortora ammanettato. Alessandro Butticé su Il Riformista il 20 Gennaio 2023

Pur avendo per anni indossato un’uniforme di un Corpo di polizia, e soprattutto per questo, resto un irriducibile sostenitore del rispetto dei diritti umani. Sempre e comunque. E del principio che la Giustizia dello Stato non può mai essere vendetta, né spettacolo.

Contrariamente a molti, alcuni – rarissimi casi, invero – anche tra miei vecchi colleghi, ho quindi molto apprezzato, e considerato esempio di grande professionalità dei Carabinieri, vedere le foto del boss mafioso Matteo Messina Denaro tradotto in carcere senza manette.

Assolutamente inutili, viste le circostanze soggettive dell’arrestato. Si tratta di un malato oncologico. Ma anche oggettive dell’arresto. Perché avvenuto in una clinica completamente circondata, e con dispiegamento di ingenti forze di sicurezza. Compresi i GIS.

I Carabinieri, con questa lezione di professionalità e sobrietà, non casuale, come dichiarato in conferenza stampa dallo stesso Comandante dei Ros, hanno riscattato una vergognosa pagina della storia nazionale. Mi riferisco alle immagini, che hanno fatto il giro del mondo, e sono ancora visibile in rete, dell’ignobile passerella organizzata per i giornalisti col povero Enzo Tortora ammanettato.

E non parlo a caso di ignobile “passerella”. Perché chi ha qualche esperienza di polizia giudiziaria o di cronaca giudiziaria, sa come e quante volte queste vere e proprie ignobili “passerelle” siano state organizzate dalle forze dell’ordine a beneficio dei fotografi e dei video-operatori. Spesso costringendo gli arrestati, fossero anche i peggiori criminali, come non era il caso del povero Tortora, a subire l’umiliazione delle ripetizioni delle scene. A beneficio della sete di vendetta o del sadismo guardone di certa opinione pubblica giustizialista e forcaiola.

Ma non è questa Giustizia. Non quella di uno Stato democratico. Che non può mai essere vendetta. E nemmeno spettacolo.

Perché il rispetto dei diritti fondamentali di ogni essere umano non è negoziabile. E non è negoziabile nell’interesse di tutti. Perché a chiunque, un giorno, potrebbe capitare quello che è accaduto ad Enzo Tortora. E a tanti altri, prima e dopo di lui. Anche se meno famosi di lui.

Mi fa quindi piacere che i Carabinieri, con un Governo Meloni demonizzato da molti professionisti dell’antimafia e dell’anti-fascismo d’accatto, non solo abbiano arrestato il super boss mafioso latitante da trent’anni. Ma che l’abbiano fatto con grande professionalità e senza eccessivi clamori coreografici, che nulla hanno a che fare con la Giustizia.

Sono portato a pensare che la presenza nel Governo di un Magistrato di grande valore come Carlo Nordio, oggi Ministro della Giustizia, non sia completamente estranea a questo radicale cambio di rotta rispetto al passato recente. Nel sacrosanto rifiuto di trasformare la giustizia in vendetta o spettacolo.

Alessandro Butticé. Da sempre Patriota italiano ed europeo. Padre di quattro giovani e nonno di quattro giovanissimi europei. Continuo a battermi perché possano vivere nell’Europa unita dei padri fondatori. Giornalista in età giovanile, poi Ufficiale della Guardia di Finanza e dirigente della Commissione Europea, alternando periodicamente la comunicazione istituzionale all’attività operativa, mi trovo ora nel terzo tempo della mia vita. E voglio viverlo facendo tesoro del pensiero di Mário De Andrade in “Il tempo prezioso delle persone mature”. Soprattutto facendo, dicendo e scrivendo quello che mi piace e quando mi piace. In tutta indipendenza. Giornalismo, attività associative e volontariato sono le mie uniche attività. Almeno per il momento.

Il caso del Procuratore. Chi è Maurizio De Lucia, il procuratore di Palermo che non ama i proclami. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Maurizio De Lucia, 61 anni, campano, dallo scorso settembre è il procuratore di Palermo. Il magistrato, fin dal primo giorno nel capoluogo siciliano ha adottato un “basso profilo”: poche esternazioni, poche conferenze stampa, rapporti con i media solo per lo stretto indispensabile. Uno stile molto simile a quello del procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, e di Milano, Marcello Viola, e che ha messo in crisi i giornalisti specializzati nel copia e incolla. Al momento pare aver avuto ragione, portando a compimento l’arresto di Matteo Messina Denaro.

De Lucia, prima di insediarsi, aveva però avuto piccolo “inciampo” in relazione alla vicenda di Antonello Montante, condannato in appello ad 8 anni per associazione a delinquere. Il procuratore di Palermo era stato indagato e archiviato per avere “passato” notizie all’ex presidente di Confindustria siciliana dell’indagine che lo riguardava a Caltanissetta. Il 9 maggio 2018, in particolare, la Procura di Caltanissetta aveva trasmesso alla Procura di Perugia tre conversazioni intercettate il 10 marzo 2016, il 29 aprile 2016 e l’8 settembre 2016 tra Montante e Diego Di Simone Perricone, un ex poliziotto della squadra mobile di Palermo, transitato nella sicurezza di Confindustria grazie a Montante. Caltanissetta aveva già trasmesso nel 2016 alla Procura di Perugia alcuni messaggi telefonici rinvenuti nel computer sequestrato a Montante il 22 gennaio 2016 dalle quale si desumeva un rapporto di conoscenza diretta tra quest’ultimo e De Lucia.

Dalle telefonate risultavano tre incontri tra il poliziotto e De Lucia presso la sede della Direzione nazionale antimafia aventi ad oggetto proprio l’indagine a carico di Montante, dialoghi che Di Simone aveva, in maniera criptica e frammentaria, riportato al capo di Confindustria. Ritenendone la possibile rilevanza penale la Procura di Caltanissetta aveva trasmesso tali atti a Perugia ritenendo che sui magistrati operanti nel distretto di Roma dovesse indagare la Procura del capoluogo umbro anche se la legge sull’istituzione della DNA stabiliva che la competenza fosse nella Capitale. Il procuratore di Perugia dell’epoca, Luigi De Ficchy, assegnò a se stesso il procedimento e sulla prima trasmissione, quella del 2016, a quanto risulta dalla richiesta di archiviazione, non svolse alcun accertamento.

antimafia

Sulla seconda trasmissione, quella del 2018, decise invece di iscrivere De Lucia per rivelazione di segreto e favoreggiamento per poi richiedere, a maggio del 2019, l’archiviazione, accolta dal gip Lidia Brutti il mese successivo. Come disse Vincenzo Armanna, collaboratore di giustizia della Procura milanese nel processo Eni Nigeria, la vicenda Montante è “la sintesi tra politica, forze dell’ordine, magistratura, burocrazia, Confindustria e aziende di Stato… con un bel passaggio su mafia e Vaticano… Montante spiega bene cos’è l’Italia”. Chissà, allora, l’arresto di Matteo Messina Denaro permetterà di far luce su quelli che sono i veri rapporti di forza fra mafia e politica. Aldilà di tanti teoremi.

Paolo Comi

L'arresto di MMD. “Sull’arresto di Messina Denaro è stata esemplare la sobrietà di De Lucia”, intervista a Stefano Giordano. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 20 Gennaio 2023

Stefano Giordano è l’avvocato penalista che a Palermo ha difeso, tra i tanti, anche Bruno Contrada. Cresciuto alla scuola del padre, Alfonso Giordano, giudice del maxiprocesso contro Cosa Nostra, chiede che la civiltà giuridica dopo la festa per l’arresto di Messina Denaro prenda le misure contro derive ed eccessi sin troppo noti.

Con l’arresto di Messina Denaro una stagione storica si chiude.

Assolutamente sì. Era già sostanzialmente chiusa, ora si chiude formalmente.

Cosa l’ha colpita di questo arresto?

Due cose. La normalità e la straordinarietà.

Partiamo dall’ultima?

È straordinario che un latitante così ricercato abbia potuto contare su una rete di connivenze come quella che evidentemente lo ha protetto fino a pochi giorni fa. Non è un caso che Matteo Messina Denaro viene arrestato a Palermo e non a Campobello di Mazara. E non parlo, come ho sentito in questi giorni, di chissà quali apparati dello Stato, parlo piuttosto di piccoli affiliati a Cosa Nostra. Molti che evidentemente sapevano, hanno finto per anni di non vederlo, di non riconoscerlo.

E la normalità?

Lo stile con cui i Carabinieri hanno portato avanti le indagini ed eseguito il fermo e come la Procura di Palermo, con Maurizio De Lucia e Paolo Guido, ha gestito questa fase delicatissima. Con serietà e sobrietà, rispettando le regole ma anche la persona, scongiurando ogni inutile coloritura, diversamente da quanto si era visto in passato. Le manette non andavano messe, e correttamente non le hanno messe. Aspetti che contano e fanno capire come ci sia anche chi interpreta il suo ruolo di magistrato con quello stile che fu anche di mio padre.

In linea con le indicazioni di Nordio e prima ancora, dell’Europa…

E a differenza di quanto avevamo visto con Caselli, per esempio. Mi ha colpito quando De Lucia in tv ha criticato i gossip usciti sulla stampa sui dettagli dei rinvenimenti personali di Messina Denaro. “Abbiamo dato disposizioni sulla tutela della dignità del detenuto”, aveva detto in conferenza stampa Paolo Guido. Parole che vanno salutate con favore. Perché sono normali, ma da noi suonano come eccezionali.

Si può voltare pagina, quindi, anche sulle leggi speciali varate nel 1992 come leggi transitorie?

Il 41bis venne introdotto da un decreto di Martelli, nel ’92, come transitorio ed era stato approvato nel giudizio di costituzionalità proprio in virtù della sua transitorietà. L’errore costituzionale qual è stato? Di rendere la disciplina, in forza dell’infiltrazione mafiosa nelle carceri, definitiva. Era opportuno, nel momento delle stragi, dare una stretta. Adesso si tratta di bilanciare i diritti fondamentali della persona con quella che è la pericolosità specifica del soggetto. Sono dell’idea che il 41bis andrebbe riformato, lasciando ai giudici la possibilità di decidere se un determinato soggetto deve necessariamente sottostare al 41bis o meno. Senza quell’automatismo che scatta oggi. Anche perché è cambiata la pericolosità delle mafie: la ‘Ndrangheta è più perniciosa di Cosa Nostra. Ha messo le radici in Lombardia, attaccando i gangli dello Stato sul fronte finanziario.

E dunque come immagina si possa fare un tagliando a quella legge?

Prevedendo ogni sei mesi una verifica della sussistenza delle condizioni soggettive di ciascun detenuto. La pericolosità di ogni elemento cambia nel tempo. Ci sono degli abusi del 41bis, non fingiamo di non saperlo. E come per l’ergastolo ostativo, bisogna prevedere un termine di revisione. Il difensore deve poter chiedere una revisione periodica, anche perché il 41bis è una pena accessoria, a sé stante e ulteriore rispetto alla pena comminata in aula. Anche se la soluzione più coerente con la Costituzione sarebbe, ed è auspicabile per il futuro, la fine delle leggi speciali e l’abolizione dell’ergastolo ostativo.

E sulle intercettazioni, arriveremo alla normalità dello stato di diritto?

La vicenda è stata strumentalizzata. Le intercettazioni preventive devono rimanere uno strumento di indagine utile e direi imprescindibile. Invece le intercettazioni a strascico di cui oggi si fa un uso esorbitante sono un mostro giuridico per il quale la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, nella sentenza Grassi contro Italia, ha già condannato l’Italia. Bisogna mettere fine a questa deriva.

Gli inquirenti del caso Messina Denaro le ricordano la scuola di suo padre, di Alfonso Giordano?

Molto da vicino, anche se mio padre era giudicante e non inquirente. Ci sono magistrati che parlano, spesso a sproposito, anche evocando complotti, e poi ci sono magistrati che fanno. Operando con un metodo che si dimostra, come si può vedere, efficace e vincente.

Adesso che il boss è in carcere sembra già si debba guardare oltre, costruendo un nuovo fantasma. Serve già un nuovo nemico pubblico numero uno?

Assolutamente sì. Sono già partiti i complottisti, ho sentito le elucubrazioni fantasiose del dottor Di Matteo che parlano di intrighi sotterranei, di poteri occulti misteriosi. Queste cose a mio parere fanno male allo Stato. Perché il cittadino non crede più nello Stato, quando vede in tv i magistrati che, il giorno in cui viene arrestato Messina Denaro, parlano di un’altra trattativa che è ancora in corso. Da avvocato e da figlio di magistrato non posso che indignarmi.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

L'arresto e il sensazionalismo. Messina Denaro messo alla gogna da giornali e tv in barba alle norme deontologiche. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Gennaio 2023

Il giorno dopo la cattura di Matteo Messina Denaro l’incredulità e la gioia lasciano spazio agli interrogativi aperti. La vita del boss, che si presumeva sotterranea e segretissima, si rivela essere stata – almeno negli ultimi tempi – disinvolta. Leggera. Il volto del boss non sarebbe stato modificato da alcuna plastica facciale. Abitava nella placida cittadina di Campobello di Mazara, nell’appartamento che risultava intestato ad Andrea Bonafede, di cui era diventato l’alter ego. Usciva spesso. Ma è all’interno di quella casa, il covo del boss, che vogliono guardare tutti. La cronaca sfuma nel voyeurismo.

L’Ansa dettaglia il rinvenimento di “Sneakers griffate, vestiti di lusso, un frigorifero pieno di cibo, ricevute di ristoranti, pillole per potenziare le prestazioni sessuali, profilattici». AdnKronos rilancia pubblicando l’esame istologico delle sue cellule tumorali, includendo la foto del documento clinico: “Cinque frammenti di adenocarcinoma”. E giù dettagli. Ecce homo. E adesso i suoi concittadini lo riconoscono. A ben guardare quella foto, sì: ora ricordano di averlo incontrato. Andava a cena al ristorante, passava al bar. A un chilometro dalla stazione di Polizia e uno e mezzo dal comando locale dei Carabinieri. Lì ha scoperto, un anno fa, di essere gravemente malato: tumore al colon-retto. E dunque l’inizio delle cure a Palermo, andandoci in macchina, in pieno giorno. «Non c’è stata trattativa, non si è consegnato. Ma non c’è stata neanche una gigantesca operazione di intelligence: si è lasciato prendere, da malato terminale. Ha pensato che forse è meglio lasciarsi curare in carcere», è la sintesi che fa Nello Trocchia.

Col punto interrogativo le considerazioni di Nino Di Matteo, il magistrato dell’inchiesta sulla presunta trattativa: «Come e perché è stata possibile una latitanza così lunga nonostante l’impegno di migliaia di agenti e di decine di magistrati? avevamo identikit fedeli, ha vissuto a Palermo, è stato preso in una clinica in pieno centro». Così pure Gian Carlo Caselli: «È d’obbligo rivolgersi alla politica, va colpito il lato oscuro del pianeta mafia, le ‘relazioni esterne’, quell’intreccio di complicità e collusioni che sono la spina dorsale del potere mafioso». Il senatore grillino Roberto Scarpinato, uno che avrebbe dovuto contribuire alla cattura del boss, se non avesse fatto il salto in Parlamento, va in tv a discettare di una grande Spectre: «C’è una struttura superiore alla mafia, la mente delle stragi del ’92 e ’93 di cui, come Riina, Messina Denaro, è stato solo un braccio e non la mente», in sintesi «un sistema criminale più complesso che ha ordito la strategia stragista. Bisogna capire chi ha armato le mani di questi mafiosi che in molti casi si sono prestati a fare da manovalanza per disegni politici che avevano un’altra strategia e miravano al cuore dello Stato». Insomma, il latitante più pericoloso del mondo non tira già più, va declassato. Diventa “il boss di Castelvetrano”.

A vederlo nelle sue vulnerabilità, al cospetto di una fine incipiente, non fa più paura. Va trovato un nuovo Golem, un nuovo spettro. E di contro, nuovi eroi. Per il centrodestra a guida Fdi, la cattura del ricercato numero uno segna una data storica, che Giorgia Meloni pretende addirittura di “Ricordare nel calendario come Giornata contro la mafia”, senza accorgersi che ne esiste già una (il 21 marzo, istituita dal Parlamento nel 2017). Roberto Saviano se la prende con la destra: in un’intervista a La Stampa ha detto che Cosa Nostra, nel fare affari, avrebbe una ‘predilezione per la destra testimoniata da una infinità di atti e documenti’. Apriti cielo. Prende le distanze anche un esponente dei Cinque Stelle come l’ex ministro Sergio Costa, vicepresidente della Camera e generale dei Carabinieri in aspettativa: «Il merito va agli investigatori e alla magistratura. Non è un successo della politica ma di chi in tanti anni si è dedicato a questa caccia all’uomo». Anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si è congratulato con tutta la filiera: con il ministro degli Interni, con l’Arma dei Carabinieri, con la Polizia, con la magistratura.

Saltando, sembrerebbe, il ministro della Difesa, Guido Crosetto. Esulta – ed esalta – la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola: “Il mondo oggi è un posto più sicuro”, twitta mentre è alle prese con il Qatargate. L’elicottero che deve tradurre Messina Denaro atterra a Pescara. Da lì un’autocolonna blindata lo scorta, su e giù per l’Appennino abruzzese, fino a L’Aquila. Il boss è stato assegnato al regime del 41bis, ma con un piano cure già stabilito in continuità con la terapia prescrittagli a Palermo. Sarà sorvegliato 24 ore su 24, in una cella di poco più di dieci metri quadrati nel supercarcere dell’Aquila. Lì è stata allestita ad hoc una sala per la chemioterapia. Ad assistere il boss sarà il primario Luciano Mutti che terrà sotto controllo eventuali reazioni negative o effetti collaterali della terapia. Messina Denaro «riceverà lo stesso trattamento di tutti gli altri detenuti con patologie sanitarie – ha detto il Garante dei detenuti dell’Abruzzo, Gianmarco Cifaldi – Garantiremo il suo diritto alla salute».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Messina Denaro e il selfie con il medico. Perché il boss non temeva di far circolare la sua foto? Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2023.

Tanti gli interrogativi sul misterioso scatto. Dall’identità del sanitario al perché il boss non temesse di far girare foto che potevano essere confrontate con gli identikit in circolazione

Da due giorni in tanti sono sulle tracce del misterioso sanitario che si è fatto immortale in un selfie al fianco del superlatitante Matteo Messina Denaro. Ma di cosa ci sia dietro quello scatto si sa già abbastanza. È noto che quello accanto al boss è un medico, un giovane chirurgo che lavora presso la clinica La Maddalena. Lo scatto risale a circa un anno fa e per la verità ormai circola anche il nome del sanitario in questione. Nonostante in tutte le foto pubblicate su giornali, siti e televisioni il volto del medico è accuratamente mascherato, l’interessato, che raggiunto dal Corriere non ha voluto rilasciare dichiarazioni, è comprensibilmente entrato in una spirale di terrore, per la sua vita e il suo futuro professionale. La clinica La Maddalena, che in questi giorni ha totalmente tagliato i ponti con la stampa e osserva un silenzio granitico, a quanto pare gli avrebbe chiesto chiarimenti e viene ventilata persino un’azione disciplinare.

Ma in questa caccia al nome della parte non visibile di quello scatto si è finito per trascurare la parte visibile, cioè la faccia del boss Matteo Messina Denaro. La verità di cosa ci sia dietro quello scatto (forse) la capiremo solo con il tempo. Ma il misterioso medico potrà sempre argomentare che non sapeva chi aveva accanto e chi si celava dietro a quello che lui conosceva come il signor Andrea Bonafede. Che in fondo non c’è nulla di male a fare un selfie con la persona che riceve le sue cure e magari era stato precedentemente operato da lui. Ma la domanda interessante, molto più interessante, è un’altra. Perché un pericoloso latitante ricercato da 30 anni in Italia e all’estero è così disinvolto da farsi fotografare assieme ad una persona che di quello scatto può farne qualunque uso: farla vedere in famiglia, agli amici, condividerla sui social? Perché Messina Denaro non si preoccupava che in quel telefono senza fili che spesso diventano i social qualcuno possa notare la straordinaria somiglianza con gli identikit del boss? Perché non temeva che il selfie potesse finire persino nelle mani di un carabiniere, un poliziotto, un magistrato?

A ben vedere è questa la cosa più inquietante di quello scatto. Invece di nascondersi in qualche covo tra le montagne Messina Denaro faceva apparentemente una vita normale, faceva shopping, andava al bar di Campobello di Mazara, seppure sotto falso nome. E se gli capitava non aveva alcuna preoccupazione a farsi fotografare con un medico. Troppo strano stando a tanta letteratura sui latitanti che evitano i telefoni (lui addirittura ne aveva due), comunicano con i pizzini, si nascondo in cunicoli sotterranei. E poi l’ultima delle domande. Quest’abbassamento delle cautele nella sua latitanza è costante nei trenta anni in cui è stato «uccel di bosco» oppure è solo recente? Se fosse vera la seconda delle ipotesi, senza nulla togliere al lavoro di magistratura e forze dell’0rdine, nessuno può vietare di ipotizzare che magari da un certo momento in poi lo stesso boss, malato e bisognoso di cure, abbia allentato le cautele rendendosi più facilmente «arrestabile». Ma come detto, appunto, solo con il tempo (forse) si saprà la verità .

Messina Denaro e il selfie con il medico. Un’ “esclusiva” del CORRIERE DEL GIORNO sfruttata dai “giornaloni”… Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Gennaio 2023.

Nella imbarazzante caccia al nome del medico da parte degli inviati in Sicilia, nominativo che noi conosciamo perfettamente dallo scorso 16 gennaio, in molti hanno trascurato un dettaglio che è balzato subito nelle riflessioni degli investigatori, e cioè la presenza nella foto incriminata della faccia visibile del "boss" Matteo Messina Denaro.

E’ stato il nostro giornale, il primo a pubblicare la fotografia “amichevole” fra Matteo Messina Denaro ed un medico della clinica La Maddalena (immediatamente da noi fatta pervenire agli inquirenti) , seguita all’indomani dal quotidiano La Verità. Da due giorni in tanti sono sulle tracce del sanitario immortalato in un selfie al fianco del superlatitante Matteo Messina Denaro. Il sanitario dopo la nostra pubblicazione ci ha ricoperto di minacce via social, facendoci scrivere da un legale, il quale non è molto informato ignorando che secondo consolidata giurisprudenza ed il Garante per la Privacy, il diritto di cronaca prevale su quello della privacy.

Cosa ci sia dietro quello scatto che risale a circa un anno fa si sa già abbastanza. È noto che quello accanto al boss è un medico, M.P. un giovane chirurgo che lavora presso la clinica La Maddalena. In tutte le foto pubblicate successivamente al CORRIERE DEL GIORNO su giornali, siti e televisioni il volto del medico è stato accuratamente mascherato. Il medico contattato dal  CORRIERE DELLA SERA non ha voluto rilasciare dichiarazioni, comprensibilmente terrorizzato, sia per la sua vita che per il suo futuro professionale. 

La clinica “La Maddalena” di cui è dipendente, in questi giorni ha totalmente tagliato i ponti con la stampa osservando un silenzio “granitico” “blindato”, secondo quanto filtrato gli avrebbe chiesto chiarimenti e giustificazioni valutando una possibile azione disciplinare.

Nella imbarazzante caccia al nome del medico da parte degli inviati in Sicilia, nominativo che noi conosciamo perfettamente dallo scorso 16 gennaio, in molti hanno trascurato un dettaglio che è balzato subito nelle riflessioni degli investigatori, e cioè la presenza nella foto incriminata della faccia visibile del “boss” Matteo Messina Denaro. Cosa si celi dietro quella fotografia molto confidenziale probabilmente lo capiremo nel prosieguo dell’indagine. Il medico M.P. potrà sempre sostenere che non sapeva chi aveva accanto e chi si nascondeva dietro a quello che era conosciuto in clinica come il signor Andrea Bonafede.

Il CORRIERE DELLA SERA sostiene che “”non ci sarebbe nulla di male a fare un selfie con la persona che riceve le sue cure e magari era stato precedentemente operato da lui“. Quello che i colleghi del “CORRIERONE” non sono stati capaci di osservare e raccontare è che l’oncologo che aveva in cura il finto Andrea Bonafede al secolo Matteo Messina Denaro, era un altro e non quello che compare in quella fotografia. Ma la domanda molto più interessante, è un’altra. 

Come mai un pericoloso latitante ricercato da 30 anni in Italia e all’estero si fa fotografare assieme ad una persona che di quello scatto può farne qualunque uso: ed infatti non a caso è arrivato persino ad un componente della famiglia del giudice Paolo Borsellino, a qualche magistrato ed al nostro giornale che per primo l’ha pubblicata ? Come mai Messina Denaro non si preoccupava che qualcuno potesse notare la straordinaria somiglianza con gli identikit del boss mafioso, realizzati dalle forze dell’ ordine ? Domande a cui stanno lavorando in procura. Redazione CdG 1947

Il Carnevale.

Estratto dell’articolo da ilfattoquotidiano.it il 20 febbraio 2023.

Passamontagna, giubbotti antiproiettili con tanto di scritta SWAT (le squadre d’assalto speciali americane), montone e cuffia chiari. La scena è curata in ogni dettaglio. Talmente precisa che è impossibile non capire subito cosa riproduce: la cattura del boss Matteo Messina Denaro.

 La messinscena, impressionante per l’attenzione ai dettagli, è stata organizzata dagli abitanti di Borgotaro, comune di nemmeno 7mila abitanti in provincia di Parma, in occasione del carnevale. […]

 Estratto dell’articolo da lastampa.it il 20 febbraio 2023.

Qualcuno aveva messo in guardia: dopo aver spopolato sul web, a carnevale il "Messina Denaro style" potrebbe riversarsi sulle strade. E così è stato. A Napoli qualcuno ha pensato di travestire i propri figli con lo stesso outfitt del boss mafioso nel giorno dell'arresto. Ma non solo: sul web sono circolati video di una bambina travestita da contrabbandiera di sigarette, con tanto di pacchetti e stecche in bella vista sul tavolino in plastica allestito per le vie di Napoli. […]

L’Omertà.

Da tgcom24.mediaset.it il 27 gennaio 2023.

Momenti di tensione per Stefania Petyx a Campobello di Mazara, ultimo covo del super boss Matteo Messina Denaro, arrestato a Palermo lo scorso 16 gennaio. L’inviata di "Striscia la notizia" era in missione per chiedere ai cittadini un selfie contro la mafia, ma invece di ricevere solidarietà è stata insultata, minacciata, spintonata per poi essere quasi investita da un motorino di uno dei residenti a cui aveva chiesto un parere.

Nella puntata di giovedì 26 gennaio sono andate in onda le primissime immagini dell'aggressione subita dall'inviata, mentre il servizio completo andrà in onda nella puntata di venerdì 27 gennaio, sempre su Canale 5.

Estratto dell'articolo di Mattia Feltri per “La Stampa” il 27 gennaio 2023.

 Ieri mattina, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, ha dichiarato l'Italia uno dei paesi più sicuri d'Europa e, a maggior ragione, del mondo. […] Ieri ho cercato la frase di Curzio e, fra le varie agenzie di stampa, e fra titoli cupi e allarmistici, ho fatto una fatica boia a rintracciarla.

 […] Comunque: in una trentina d'anni siamo passati da quasi duemila omicidi l'anno a trecento, e stavolta soltanto Svizzera e Norvegia hanno un tasso di omicidi più basso del nostro. […]

E mi sembra il momento giusto per un quiz: sapete qual è la più sicura delle dodici grandi città italiane, quelle con più di 250 mila abitanti? Palermo. Da anni. A Roma, che dopo Madrid è la capitale più sicura d'Europa, ce ne sono 0.6 ogni 100 mila abitanti. A Palermo 0.2.

 E intanto continuano a calare anche furti e rapine, e mi piacerebbe se, quando troviamo del tempo libero, dopo esserci scandalizzarci del mutismo dei vicini di casa di Messina Denaro, uno di noi spianasse il microfono davanti a un palermitano e a bruciapelo […] gli chiedesse: scusi, ma perché voi avete meno omicidi di Firenze e Bologna? Perché non sparate? Perché ci rovinate tutta la nostra mitologia?

Estratto dell'articolo da repubblica.it il 27 gennaio 2023.

"Ma siamo sicuri che Messina Denaro sia un assassino?". E' il provocatorio tweet scritto da Vittorio Feltri, direttore editoriale di Libero e capolista a Milano per Fratelli d'Italia alle elezioni regionali in Lombardia, che ha scatenato numerose reazioni negative su Twitter e nel mondo politico. "Messina Denaro se è un assassino perché mai nel paesello dove abitava non è stato identificato e denunciato?" ha poi aggiunto scatenando altre reazioni.

Online c'è chi chiede un intervento di Twitter o dell'Ordine dei Giornalisti "per mettere fine a queste letture che offendono tutte le vittime della criminalità".

Reazione immediata anche da parte di Pierfrancesco Majorino, candidato alla presidenza della Regione per il centrosinistra: "Feltri deve scusarsi immediatamente e FdI deve subito prendere le distanze ritirando la sua candidatura - ha commentato - . La sua è una frase indegna e non ho parole per esprimere il mio disgusto. Non ci sono giustificazioni di sorta". […]

L'ex direttore de Il Giornale è poi successivamente intervenuto sulle reazioni: "Questo signore viveva lì, in quel paesino, e nessuno se n'è accorto? Non fatemi ridere. Uno vive non so per quanti anni in un paese di 13-14mila abitanti, che è un quartiere piccolo di Milano e nessuno se ne accorge... Normale non è. La mia domanda non è così stolta. E poi è una domanda, uno non può neanche porsi una domanda? Allora siete cretini o non siete capaci di fare il vostro mestiere".

Estratto dell'articolo di Chiara Baldi per corriere.it il 28 gennaio 2023.

Vittorio Feltri, 79 anni, capolista di Fratelli d’Italia a Milano alle prossime elezioni regionali in Lombardia, di nuovo al centro di una bufera per un tweet: «Siamo sicuri — ha cinguettato — che Messina Denaro sia un assassino?». Parole che hanno suscitato l’indignazione di molti sui social, a cominciare da Pierfrancesco Majorino, candidato alla presidenza della Lombardia per il centrosinistra e il Movimento Cinque Stelle. […]

 È una frase gravissima e il ritiro della candidatura è una questione di dignità e rispetto per tutte le vittime di mafia e per tutti i cittadini. Ci sono limiti alla decenza che non si possono mai superare. Feltri lo ha fatto».

Da parte sua, Feltri ha rincarato la dose, aggiungendo al primo tweet una serie di altri cinguettii. «Messina Denaro se è un assassino perché mai nel paesello dove abitava non è stato identificato e denunciato?», ha scritto, chiedendosi anche se «ci voleva la Meloni per arrestare Messina Denaro?».

 E in serata, moderando i toni, ha chiarito: «La mia è stata una voluta provocazione da giornalista per sottolineare che, essendo Messina Denaro ovviamente un assassino, doveva e poteva essere preso molto prima nel suo paesello».

Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per "La Stampa" il 26 gennaio 2023.

La strada percorsa per anni da Matteo Messina Denaro indisturbato latitante che entra al supermercato, prende il caffè, compra dei farmaci e viaggia a bordo di una Giulietta come un cittadino qualunque, è diversa adesso che ci sono i bambini dell'istituto comprensivo Pirandello a urlare a squarciagola: «La Sicilia è nostra e non di Cosa Nostra».

Via Vittorio Emanuele non è più la lingua d'asfalto dell'imprendibile boss, ma è dei cittadini di Campobello di Mazara, di Castelvetrano, di Mazara del Vallo, in cinquecento ieri alla marcia che il fratello dell'agente Nino Catalano ucciso dall'autobomba di via D'Amelio paragona, in un momento di commozione, alla stagione delle lenzuola bianche di Palermo. Le sue parole accendono i cuori dei ragazzi: «Io lo sento che mio fratello è qui, che Falcone e Borsellino sono qui, che i nostri morti stasera sono con noi. Ho aspettato 30 anni affinché anche in provincia di Trapani accadesse questo».

Intanto mentre i carabinieri del Ros continuano a scandagliare il covo più abitato da Matteo Messina Denaro in vicolo San Vito, cosi battezzato in nome del santo patrono della città, la gente fuori cammina, sfila, urla: «La Sicilia è casa nostra». Le foto di Falcone e Borsellino riempiono i cartelloni degli alunni, le testimonianze dei sindaci. Quella di Giuseppe Castiglione, primo cittadino di Campobello, è un'arringa a favore dello Stato, delle forze dell'ordine, della Sicilia («Viva la Sicilia») ma anche un appello ai giornalisti: «Mandatele in giro in tutta Italia queste immagini che sono la migliore risposta a chi ci ha accusato di omertà. Respingiamo al mittente le accuse dei diffamatori della nostra città, qui c'è la Campobello che si ribella, qui c'è la sua rivincita e la sua ripartenza».

[…]

Il corteo, partito dalla chiesa della Madonna di Fatima ha raggiunto l'ultimo covo del boss intorno alle 18.30, si è fuso con quello proveniente da Castelvetrano oggi più orgoglioso di qualche giorno fa: «Ha visto che non siamo in 25?». Fasce tricolori, uomini di chiesa, sindacati, scuole hanno creato un serpentone di colori e contenuti.

[…] 

Lara Sirignano per il "Corriere della Sera" il 26 gennaio 2023.

 Hanno sfilato in corteo per le strade di Campobello di Mazara e Castelvetrano, l’ultimo rifugio di Matteo Messina Denaro e il paese in cui il padrino è nato. Siciliani che non ci stanno a passare per omertosi e hanno gridato il loro no alla mafia. In 500 si sono ritrovati in vicolo San Vito, dove il boss s’è nascosto per un anno e dove da giorni gli investigatori inseguono le tracce della sua presenza.

«Qui oggi c’è la città che si ribella — ha detto il sindaco di Campobello, Giuseppe Castiglione — bisogna stare a fianco delle istituzioni». Una presa di posizione per rispondere a chi, dopo la cattura di Messina Denaro, si è chiesto come una intera comunità abbia potuto non accorgersi che un latitante di quel calibro vivesse da uomo qualunque in paese.

 […]

Tony Sperandeo, rissa con Cruciani: "Per favore, lascia perdere". Libero Quotidiano il 27 gennaio 2023

Botta e risposta durissimo tra Tony Sperandeo e Giuseppe Cruciani a Dritto e Rovescio, il talk show di Rete 4 condotto da Paolo Del Debbio. Al centro del dibattito c'è di fatto la cattura di Matteo Messina Denaro. In collegamento da Campobello di Mazara, un sindacalista afferma che nel territorio del trapanese lo Stato non è mai arrivato e che la mafia ha trovato terreno fertile proprio per questo motivo, offrendo occupazione lì dove mancava l'intervento delle istituzioni. Cruciani ha replicato in modo duro alle parole del sindacalista affermando che non si può giustificare la presenza di Cosa Nostra aggrappandosi all'alibi dell'assenza di lavoro.

Subito dopo però è intervenuto Tony Sperandeo che ha voluto dire la sua. Rivolgendosi proprio verso Cruciani, l'attore ha affermato: "Lo Stato in Sicilia non c'è mai stato. Lacia perdere, per favore. Adesso che sono arrivati tutti per la cattura di Matteo Messina Denaro, io chiedo una sola cosa, quella di restare e di non andare via per aiutare i siciliani a combattere davvero la mafia tutti i giorni. Ribadisco, lo Stato in Sicilia non c'è e per questo Giuseppe ti dico di lasciar perdere...". In studio gli animi si sono subito surriscaldati ma di fatto dopo qualche minuto tutto è tornato alla normalità.

Estratto dell’articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 23 gennaio 2023.

[…]

il ritrovamento del viagra in casa di Matteo Messina Denaro ha come “alleggerito” sia la biografia nera del feroce criminale e sia lo stupore per il suo arresto “gentile”.

 L'idea prevalente è che il viagra abbia rovinato la reputazione dell’ammazzacristiani perché aggredisce il mito della virilità del siciliano: “non ce la faceva, altro che Diabolik”. L’ipersessualità, che è una vecchia categoria dello spirito italiano, alimenta pure le barzellette sulle generalità del siciliano che dopo nome, cognome, luogo e data di nascita, alla domanda “sesso?”  non risponde “maschile”, ma “enorme”.

Trattandosi di un luogo comune, per giunta pittoresco, non è facile smontare questa sciocchezza, che è coltivata dagli stessi siciliani, come una specialità antropologica, sintetizzata nella parola “minchia”, una separatezza che ci renderebbe uguali, noi siciliani nel mondo, ma diversi da tutti gli altri abitanti della terra. In questo codice della minchia una finestra chiusa in Sicilia significhi paura, un uomo che ride è Liolà,  i cittadini che si fanno i fatti propri  sono omertosi,  e una donna vestita di nero non lancia un segnale sexy come a Parigi ma è lutto e delitto.

Nulla di tutto questo è vero. Neppure che il pranzo è una mangiata, che la salsa e il mare siciliani sono i megghiu do munnu, un amico è un complice, un amore è tragedia, un bacio è tradimento, uno sguardo è un ingravidamento e il sesso è, appunto, enorme.

Sono omaggi a Vitaliano Brancati e si capisce che anche il viagra in casa di Messina Denaro sembri un romanzo postumo sull’impotenza nascosta del boss: “Matteo il caldo”. Perciò si ridacchia pensando al “gallo” di Castelvetrano costretto a surrogare la mascolinità e a usare la pillola per caricare la lupara.

[…]

Dagospia il 23 gennaio 2023. Da “La Zanzara – Radio24”

“Odio i mafiosi e ho paura dei mafiosi. Quando incontro certe persone al nord mi faccio sempre la domanda: ma non è che questo sarà un capobastone e ce ne accorgiamo dopo un po' di tempo dai giornali? La mafia va sradicata, e lo Stato deve fare scelte radicali. Non si può fare un esercizio di civiltà coi mafiosi. Con gli altri delinquenti si può usare la civiltà e rieducarli, con i mafiosi è stupido, è un atteggiamento che non serve. Non ci vuole né la pena di morte, né il 41 bis, né carcere ordinario. Li rimettiamo in libertà dopo averli lobotomizzati”.

Lo dice l’imprenditore brianzolo Gianluca Brambilla a La Zanzara su Radio 24. “Ho il terrore dei mafiosi – dice ancora – ho paura per me e la mia famiglia. Facciamo già la castrazione chimica e adesso possiamo castrare la violenza con la chimica. Messina Denaro lo consegniamo alla sua famiglia lobotomizzato, così va in giro per il suo paese per strada completamente sedato. Deve essere neutralizzato cerebralmente, e dato ai suoi familiari. O parli ed esci, oppure vieni lobotomizzato se vuoi fare il mafioso fino in fondo. In milioni al nord la pensano come me. Noi al Nord abbiamo paura dei meridionali, e nessuno lo vuole dire, nessuno lo vuole ammettere. I meridionali li incontriamo nella pubblica amministrazione, a scuola, ovunque”.

“I meridionali – prosegue – sono diversi antropologicamente, hanno la fissazione del potere. Noi abbiamo come cifra la ricchezza, mentre i meridionali vogliono condizionare gli altri, comandare. Dire a uno terrone significa cretino, deficiente, ritardato, pirla. L’altro giorno Dolce, quello di Dolce e Gabbana, è tornato dalla Sicilia e ha detto: la mia terra è puttana, non sarei mai quello che sono se fossi rimasto in Sicilia.

Io una gelateria in Sicilia? Non lo farei mai, avrei una paura incredibile. Per fare cosa? La fine di Bramini…”. Poi attacca pure il ministro degli interni Piantedosi: “Ma non è nato a Bolzano, l’Italia è stata meridionalizzata. E’ un dramma estirpare la mafi dall’Italia perché la complicità, guarda quanta ce n’era in Sicilia per Messina Denaro…”. Aggiunge Brambilla: “Non bisogna festeggiare dopo la cattura di un latitante dopo trent’anni. Va dato il giusto tributo alle forze dell’ordine, ma il trionfalismo non ha senso. Abbiamo fatto per trent’anni una grandissima figura di merda”

Il giudice di Campobello di Mazara: «Io, in servizio a Milano, non esulto per l’arresto di Messina Denaro: i miei genitori non escono di casa». Storia di Giovanni Viafora su Il Corriere della Sera il 29 gennaio 2023.

Lorenzo Lentini, giudice penale del tribunale di Milano, tra i maggiori esperti di reati finanziari in Italia (con un passato in Consob), lei è proprio di Campobello di Mazara.

«Sì, per altro unico giudice che il paese abbia mai avuto. Così almeno mi dicono».

Un paese che oggi è sotto i riflettori.

«Non ho mai rilasciato interviste. Parlo oggi perché intendo discostarmi da questo coro unanime di attacchi e di battutine nei confronti della cittadinanza. Rivolgo un pensiero di solidarietà a chi sta vivendo il dramma di questa sovraesposizione mediatica. Mia madre non esce di casa dal giorno dell’arresto. Mio padre ha ricominciato a farlo da qualche giorno».

Beh, è pur sempre il Comune dove è stato arrestato il capo della mafia. Ci si chiede: com’è stato possibile per lui nascondersi indisturbato così a lungo?

«Non era difficile. Con un minimo di accorgimenti si poteva farla franca. Basta costruirsi un alias. La gente comune cosa ne sa? Io stesso non escludo magari di avergli stretto la mano in una qualche recente visita. Quel viso, stravolto dalla malattia, non era riconoscibile».

Non la colpisce l’omertà?

«Le persone che vengono intervistate non sono pazze. Non vanno ridicolizzate. Sono persone che hanno fatto i loro conti, di convenienza, che ritengono per qualche motivo che la presenza di quel soggetto fosse garanzia di introiti economici per il territorio o di maggiore sicurezza. Se uno dice pubblicamente certe cose dimostra di non credere nello Stato, ma nell’anti-Stato. Ecco, lo Stato dovrebbe farsi più di una domanda».

Cosa intende?

«Che se uno ha un figlio disoccupato, ma l’ufficio di collocamento non trova soluzione, cosa si fa? Queste persone vanno recuperate, offrendo servizi. Va fatto capire che fuori dalla legalità si perde, la paura non giustifica tutto. Senza un programma serio per il Sud il fenomeno non verrà mai sconfitto. Perché morto un papa se ne fa un altro».

Ed è ancora così?

«Assolutamente».

Alla notizia dell’arresto cosa ha pensato?

«Sorpresa, ma neanche tanto. Era chiaramente possibile, visto che lui aveva vissuto parte della sua latitanza a Castelvetrano. In ogni caso non ho esultato. Si tratta di provvedimenti giudiziari che vanno eseguiti. Non è una partita di calcio».

Era il ricercato numero uno, però. Stragista.

«Stiamo parlando di una persona con problemi di salute molto gravi. Quale pena giudiziaria potrebbe essere più severa e disumana di quella che gli ha riservato il destino?».

Il paese è piccolo: lei conosce i favoreggiatori coinvolti? Il proprietario del covo, l’autista...

«Con alcune delle persone menzionate dalla stampa c’è un legame di amicizia. La cosa che posso augurarmi è che emerga un malinteso».

Oggi le vive e lavora a Milano. Da tempo ormai si parla di un’infiltrazione consolidata delle mafie. È così?

«I veri interessi sono qui al Nord. Da questo punto di vista c’è più mafia a Milano che a Campobello».

Cosa resterà dopo la buriana?

«Spero che questa crisi stimoli le istituzioni a intervenire veramente. Io tornerò presto in paese, come sempre. Sono e resto campobellese».

Ciò che nel resto del mondo è irrilevante in terra di Sicilia diventa “mafioso”. Michele Gelardi su Il Riformista il 22 Gennaio 2023.

Per i siciliani vige un diritto penale speciale? In effetti, alcune pronunce giudiziali lasciano molto perplessi e sembrano suggerire l’amara conclusione che a Palermo può costituire reato ciò che a Bolzano sarebbe penalmente irrilevante. Un caso esemplare riguarda un ex consigliere del Comune di Palermo, Giuseppe Faraone, condannato per tentativo di estorsione in concorso con una cosca mafiosa della quale non faceva parte. Accanto al concorso esterno in associazione mafiosa, del quale non si scorge traccia in alcuna parte del mondo, ci tocca salutare questa new entry: concorso “esterno” nel fatto “interno”. Il giurista potrebbe obiettare che la correità dell’extraneus nel fatto dell’intraneus non è una novità. Verissimo. Ma siffatta correità presuppone che i due soggetti abbiano concordato il fatto criminoso, successivamente realizzato dall’intraneus.

Ebbene, nel diritto speciale siciliano non c’è bisogno di alcuna decisione comune, di alcun programma criminoso concordato: l’extraneus concorre nel fatto dell’intraneus a prescindere da qualsivoglia intesa e apporto causale. Il fatto assolutamente certo, pacificamente riconosciuto dalle parti processuali e acclarato in sentenza, è che Faraone non apparteneva ad alcuna cosca mafiosa; né strinse con chicchessia alcun pactum sceleris preordinato all’estorsione; né aveva alcun interesse personale all’illecito profitto. Secondo l’accusa, egli si sarebbe limitato a “consigliare” alla vittima di soccombere obtorto collo alla richiesta estorsiva. In verità, egli nega qualsivoglia consiglio, tacito o esplicito, criptico o palese, e intende adoperarsi per la revisione del processo. Ma non è questo il punto; si tratta di capire come mai una res inter alios acta, che non costituirebbe reato in alcuna parte del mondo, in Sicilia acquista le sembianze di un grave reato di mafia, commesso tuttavia da un non mafioso. Nella sentenza di condanna a carico dell’ex consigliere comunale, pronunciata secondo il rito speciale siciliano, emergono almeno tre anomalie.

Della prima si è già fatto cenno. Nella sostanza l’accusa riguardava un fatto altrui. Il terzo non può concorrere nel fatto altrui, se non interagisce in alcun modo con l’autore (o gli autori, nel caso di specie). Una relazione deve pur instaurarsi; una collaborazione deve pur estrinsecarsi in qualche modo. Ebbene, manca nelle pagine processuali qualsiasi traccia di siffatta relazione “collaborativa”. Manca l’appartenenza del condannato alla cosca mafiosa, alla quale si attribuisce il tentativo di estorsione; non emerge in alcun modo un disegno criminoso comune; non emerge alcuna cointeressenza economica. Nel deserto probatorio, mancano perfino gli indizi della “collaborazione”. E l’anomalia risiede proprio in ciò: il diritto penale speciale della Sicilia non esige, ai fini della responsabilità concorsuale, l’apporto materiale o l’istigazione del concorrente; basta un semplice “consiglio” disinteressato che non modifica di una virgola il fatto altrui. A tutto concedere, in mancanza di qualsivoglia cooperazione, si potrebbe pensare al favoreggiamento. E tuttavia tale reato meno grave postula comunque il dolo del favoreggiatore, ossia la consapevolezza di costui di favorire una determinata persona o gruppo di persone, non già un soggetto ignoto, le cui vicende non destano alcun interesse.

Nel caso di specie, manca pure tale consapevolezza. In conclusione, il fatto per il quale è stato condannato Faraone, negato tenacemente da lui, si sarebbe tutt’al più concretizzato in un “consiglio” sbagliato e inopportuno, penalmente irrilevante sotto ogni latitudine e longitudine di questa terra. Peraltro, il malcapitato è stato condannato con l’aggravante del metodo mafioso. Si deve supporre che tale metodo sia transitato per automatismo, ignoto al diritto penale dei paesi civili, dalla cosca a colui che non apparteneva a quella e alcun’altra cosca. In sintesi, al non mafioso viene attribuita l’aggravante prevista per il mafioso. E infine si deve citare la terza anomalia, che farebbe sorridere, se non fosse tragica. Il condannato, che tuttavia si proclama innocente, ha scontato quattro anni di detenzione, in via preventiva, mentre, ne avrebbe scontati tre, in via definitiva. Beffardamente il Giudice siculo-italiano gli riconosce un “credito” di un anno di detenzione.

Ovviamente tale credito potrà essere riscosso in caso di nuova detenzione, cosicché il riconoscimento del credito equivale di fatto all’augurio di una nuova detenzione. Occorre altro per concludere che la terra sudtirolese è più felice di quella siciliana, dal momento che i suoi figli, i quali per avventura dessero un consiglio sbagliato, non correrebbero comunque alcun rischio di incappare in processi kafkiani speciali, caratterizzati dalla presenza della lettera M, la quale ha il potere di stravolgere le regole del diritto universale?

Michele Gelardi Ex docente di Diritto penale

Estratto dell’articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto quotidiano” il 22 gennaio 2023.

Franco Maresco è il padre di Cinico tv, della Sicilia in canottiera, delle beffe, dei peti alla quotidianità […]. “Sono in grande imbarazzo”, dice.

 Che è successo?

L’arresto di Messina Denaro dà un’impressione di totale squallore; è una vicenda avvolta da retorica e da strafottenza mediatica.

 Si parla anche di strafottenza da parte della borghesia e della popolazione che ha taciuto la presenza del boss?

[…] Da sempre la borghesia palermitana è connivente, da sempre i medici e le cliniche hanno curato certi personaggi […].

Solo la borghesia?

(Quasi inorridito) Noooo, anche il clero e l’aristocrazia. Tutti presenti.

 Quando c’è stato il cambio di prospettiva?

Dall’arresto di Totò Riina: lì si è scoperta la tristezza che avvolge tali personaggi; (ci ripensa) quando ero ragazzo il boss manteneva una sua liturgia formale, era parte di una mitologia, di mistero, un atteggiamento descritto da Leonardo Sciascia nel suo Don Mariano (Il giorno della civetta, ndr). E il carcere era vissuto come un luogo di inevitabile eroismo.

 E adesso cosa è successo?

Che le persone si sono riconosciute in Matteo Messina Denaro, nel suo abbigliamento, nell’ostentare l’orologio costoso, nel non negarsi un selfie o una pasticca di Viagra.

[…] Il bar è un’altra certezza.

A Palermo ce n’era uno frequentato contemporaneamente dai giudici e da boss come Bontade e Inzerillo; poi c’era il bar Commercio con all’interno della salette riservate per alcuni.

 Insomma, da Riina in poi...

Qui i riferimenti sono molti e complessi, ma penso a La società dello spettacolo descritta da Guy Debord: viviamo in un mondo digitalizzato dove non esiste più il mistero; quando ero ragazzo certe situazioni non si conoscevano, e chi ne era parte proteggeva quel mistero con la vita stessa. Adesso siamo all’interno di una banalizzazione dell’esistenza.

[…] Quando andavo alla Vucciria, vedevo le persone con una postura differente a seconda del programma televisivo che andava in quel momento.

E i presenti manifestavano un interesse diverso anche verso la mia telecamera.

 […] Simbolicamente la mafia è battuta?

Non lo so, si è certamente conclusa un’epoca. Ma hanno preso un residuato bellico.

 Rispetto all’arresto di Riina o Provenzano sembra ci sia stata meno enfasi nella popolazione.

Anche meno e non sono questi giorni a dimostrarlo, ma come sono andate le elezioni palermitane, con il coinvolgimento di Cuffaro e Dell’Utri. Qui tutti zitti.  […]

Latitanti e società dello spettacolo. PIETRANGELO BUTTAFUOCO su Il Quotidiano del Sud il 24 gennaio 2023.

La società dello spettacolo evoca Franco Maresco che ne capisce a proposito di Matteo Messina Denaro. Con Guy Debord tra le dita, il grande maestro di cinema, a colloquio con Alessandro Ferrucci sul Fatto Quotidiano, indica l’esatto orizzonte in cui decifrare il mistero di trent’anni di latitanza senza latitare. Ci si nasconde solo alla luce del sole, ovvero, sotto i riflettori. Ma c’è qualcosa di più. Il dettaglio del selfie, infatti, svela una natura bisognosa di ribalta e quando i primi fotogrammi della cattura sono planati nel flusso della comunicazione, con il nemico pubblico numero 1 stretto tra i carabinieri, il primo rumore di fondo – anzi, la colonna sonora – sono stati gli applausi dei palermitani in sintonia con le sirene. Tutto il corredo conseguente, gli orologi costosi, il montone dalla griffe buonista – nientemeno che Brunello Cucinelli – le tracce dei viaggi aerei, l’acquisto della Giulietta, i magneti sul frigorifero e il poster di Vito Corleone a far da cortocircuito conclama la differenza epocale ed esistenziale tra lui che è digitale e l’analogico Totò Riina. Quando ‘u Curtu è preso al laccio, lo ricorderete, il fermo immagine c’inchioda a un’apnea, fino alla gravitas della foto dell’ormai detenuto scattata sotto il ritratto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Di Matteo Messina Denaro, invece, resta il selfie.

Nessuno, neppure Banksy, avrebbe potuto immaginare un colpo di scena così pop. Perfetto per Tik-tok. Il pericoloso criminale che, tra gli altri immani crimini, ha strozzato un bimbo per poi scioglierlo nell’acido, s’aggrappa al nostro immaginario marchiandoci col suo selfie. Il padrino della realtà sopravanza quello della verità cinematografica, a Francis Ford Coppola toccherà di fare un remake del Padrino aggiornandone i codici. C’eravamo affezionati, insomma, all’idea che fosse morto. Oppure – con la geniale ipotesi sollevata da un altro maestro del cinema, Roberto Andò – che fosse scappato in Sud America per operarsi, evirarsi per la precisione, travestirsi e diventare “Sotto falso nome” star delle telenovelas.

Messina Denaro, il vescovo di Mazara: «Basta omertà». Ma il parroco difende il paese: «Qui si pensa a lavorare». Alfio Sciacca, inviato a Palermo su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.

Il sacerdote di Campobello Don Nicola Patti non ci sta: «A Campobello in pochi hanno coperto il latitante, non etichettiamo l'intera comunità»

Don Nicola Patti, parroco di Campobello di Mazara

«Sicuramente una cerchia di persone ha coperto la latitanza di Matteo Messina Denaro, ma la stragrande maggioranza degli abitanti di Campobello è gente che pensa solo a lavorare». Don Nicola Patti, 52 anni, è l’arciprete e parroco della Chiesa madre nel paese dove a ogni angolo salta fuori un covo del boss. Per non dire dei tanti prestanome, autisti di comodo, medici compiacenti. Eppure il parroco di Campobello non accetta che venga etichettata tutta la sua comunità.

Il vescovo

Questo nello stesso giorno in cui su Avvenire il vescovo della sua diocesi, Mazara del Vallo, Angelo Giurdanella, usa invece parole durissime. «La mafia non bisogna individuarla solamente nel boss — ammonisce—. Ma anche nelle coperture di cui gode, come successo per Messina Denaro. Dunque è spesso uno stile di vita che esprime una mentalità nei comportamenti del fare quotidiano… occorre combattere l’omertà, la sfiducia attraverso le testimonianze vere». Sbaglia il suo vescovo a parlare di omertà? «Non penso che le mie parole siano in contrasto. Ho detto che in paese c’è una cerchia di persone che ha aiutato Messina Denaro. Ma non siamo tutti omertosi: la stragrande maggioranza qui la mattina pensa solo ad andare in campagna a coltivare i propri uliveti».

Il boss

Quei nomi li aveva mai sentiti, erano mai entrati in chiesa? «Il medico Tumbarello lo conosco come tutti in paese, Bonafede solo di vista, Luppino non l’ho mai visto. E comunque nessuno di loro frequentava la mia chiesa». Sul profilo Facebook della parrocchia due giorni fa don Nicola ha postato un video di Chi l’ha visto? per ricordare il giorno del compleanno del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido proprio da Messina Denaro. Ma dice comunque di non aver mai avuto la percezione della presenza incombente del boss o che circolasse indisturbato. «Per me quest’arresto è stato un fatto inaspettato. Nel senso che si dicevano le cose più disparate: che era all’estero, era morto. Chi poteva immaginare che fosse qui, invece che in un casolare di campagna!» Possibile che in due anni nessuno l’abbia mai incrociato e riconosciuto? «Voi insistete su questa storia della somiglianza con l’identikit, ma è vero fino a un certo punto: nessuno poteva immaginare e dunque riconoscerlo. E poi lui è riuscito sempre a camuffarsi».

La riflessione

Don Nicola ammette che «dopo quello che è successo occorre aprire una riflessione all’interno della comunità su questi temi». Ma prima dell’arresto del capomafia come scorreva la sua vita di parroco? Nelle omelie ha affrontato i temi della mafia? Ha mai avuto minacce? E poi, in paese, c’era paura del boss? «Minacce, grazie a Dio, non ne ho mai avute. Quanto alla paura a Campobello non c’era alcuna paura. Un giornalista della zona ha scritto un libro su Messina Denaro dal titolo «L’invisibile». Se la cosa non si vede non hai paura. Non c’è la percezione a pelle del fenomeno. La gente pensa solo al lavoro e alla propria vita. Da parte mia ho fatto tante omelie parlando di legalità, ma con messaggi in positivo indicando un percorso educativo soprattutto per i giovani». Infine la sua chiave di lettura sulla cattura del boss: «Non penso certo che sia il frutto di un accordo. Forse Messina Denaro era più debole per via della malattia e magari ha scelto un posto più comodo per lui. Anche se non penso che abitasse a Campobello chissà da quanto tempo»

Applausi e omertà, Palermo a due facce. La città esulta per la liberazione dal boss. Ma è la stessa che l'ha sempre protetto. Domenico Ferrara il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Palermo è un Giano bifronte che sorride. Da entrambi i lati. Il primo è sorriso di gioia, di liberazione, di rifusione. Il secondo è sarcastico, agro e beffardo. Sono le due facce di una città il cui tempo si ripete. Ciclicamente. Le due facce di una terra eternamente spaccata da un confine talmente labile da risultare a volte invisibile. Gli applausi dei cittadini che hanno assistito all'arresto del boss Matteo Messina Denaro sono scroscianti e commuovono l'anima. Rendono giustizia alle famiglie delle vittime della mafia, ai servitori dello Stato che non ci sono più e a quelli che lottano ancora giorno per giorno contro un cancro immarcescibile, alle persone oneste, a quelle che si ribellano e che non si girano dall'altra parte. Ma c'è qualcosa che fa più rumore. Ancora una volta.

È il silenzio della connivenza, la cui eco emerge dirompente a ogni arresto. Prima Riina, poi Provenzano, ora Messina Denaro. La rete di copertura ogni volta offre rifugio. E non è fatta soltanto di affiliati a Cosa Nostra. Ma comprende parte della società civile che preferisce abbassare lo sguardo e stare zitta nel nome di un parossistico quanto atavico quieto vivere. Se per un anno Diabolik si è recato chissà quante volte in una clinica privata in pieno centro a Palermo vuol dire che si sentiva tranquillo. Ed era tranquillo perché la convinzione che quella rete di copertura non subisse alcuno strappo lo rassicurava. Dai medici che lo avevano in cura, e a cui pare regalasse olio, agli infermieri passando per le persone che lo hanno visto o che sapevano dove fosse in questi trent'anni di latitanza per arrivare a chi gli ha offerto alloggio e protezione. La stessa protezione offerta dai mafiosi. Con l'unica differenza che una è dettata dalla paura, l'altra dalla parvenza di coprire un buco e di assolvere a un compito abdicato dallo Stato.

Basta vedere alcuni servizi televisivi andati in onda negli ultimi anni per avere un'idea. Soprattutto a Castelvetrano, nel Trapanese, città che ha dato i natali al boss, al giornalista di turno che pronunciava il cognome Messina Denaro rimbombava un assordante silenzio. La gente preferiva non rispondere, scappare, evitare di commentare. Anche la gente con la fedina penale pulita e animata da rettitudine. È quello il vero fallimento su cui interrogarsi. Perché una persona perbene preferisce non invischiarsi in argomenti del genere? Perché li considera pericolosi? È indubbio che parte della risposta risieda nell'insicurezza, nella paura di subire angherie e nell'incapacità dello Stato di colmarle.

Eppure di passi avanti ne sono stati fatti, eccome. Sono sempre più i cittadini che denunciano il pizzo e sempre meno le ancore a cui la criminalità organizzata trova appigli. Ma la denuncia è considerata ancora un atto coraggioso, quasi al limite dell'incoscienza. C'è uno strato di subcultura, inconscio ma consolidato, che porta a trasformare i diritti in favori da chiedere e i doveri in incombenze pericolose. Camurrie, insomma. Eppure è in questa logica che ancora si annida e ha origine quello che Paolo Borsellino definiva «il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità» e che impedisce di «sentire la bellezza del fresco profumo della libertà». Finché ci sarà anche un briciolo di consenso, il Giano bifronte continuerà a esistere. E a sorridere. Da entrambi i lati.

Castelvetrano dopo l’arresto di Messina Denaro: «Se lei fosse il figlio di Hitler non lo difenderebbe comunque suo padre?» Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

Silenzio dove anni fa comparvero murales per «u Siccu». Il cognato: lui, per noi, rimane un grande affetto

«Se lei fosse il figlio di Hitler non lo difenderebbe comunque suo padre? Lo Stato è lo Stato, d’accordo, ma lui per noi rimane un grande affetto, noi due da piccoli giocavamo insieme...». Alle quattro del pomeriggio Vincenzo Panicola esce di fretta dalla casa di via Cadorna perquisita in mattinata dai Ros. Con lui ci sono i figli e uno dei ragazzi è la fotocopia perfetta dello zio Matteo da giovane, cappello in testa e gli occhiali scuri. Vincenzo Panicola è il marito di Patrizia Messina Denaro , la sorella di «u Siccu».

Lei è tuttora in carcere perché accusata di essere l’anello di congiunzione tra le altre famiglie di Cosa nostra e suo fratello Matteo. Panicola si è già fatto 8 anni di prigione, ora è libero e dice di fare l’agricoltore, ma è sinceramente difficile credergli. Il figlio con lo zuccotto e gli occhiali scuri fa lo strafottente: «Anche Alessandra Mussolini difende sempre suo nonno, che volete da noi? Ma quali boss, il nostro frigo è vuoto, a Castelvetrano non c’è lavoro».

In piazza con gli altri c’è l’avvocato Franco Messina, presidente del comitato Orgoglio Castelvetranese con la maglietta «Non sono mafioso», che dà appuntamento a domani, sempre in questa piazza, per una manifestazione «con tutta la società civile». Il parroco sta pensando di organizzare «una preghiera per le vittime delle stragi e i magistrati, le forze dell’ordine, che in questi anni hanno perso la vita o l’hanno rischiata per combattere la mafia».

Anche per il sindaco, Enzo Alfano, del Movimento 5 Stelle, questo è un giorno bellissimo: «Mi sono svegliato pensando all’ennesima bufala, sono 30 anni che l’arresto di Messina Denaro veniva annunciato. Poi però mi ha chiamato mio genero che fa il poliziotto e mi ha detto: guarda che è vero!».

A Belvedere c’è chi non festeggia per niente e non ha alcuna voglia di fermarsi a parlare davanti alle telecamere, omertà e silenzio cupo anche alle Tre Fontane dove anni fa comparvero i murales dedicati a «u Siccu», a «Diabolik», ai mille nomi del mito del boss spietato e imprendibile, raffigurato con la bandana. Murales che oggi non esistono più, cancellati per sempre proprio come il suo nome dall’anagrafe comunale.

Elio Indelicato, direttore di Castelvetrano News, giornale online con molti contatti nel territorio, racconta che adesso in tanti qui sono preoccupati: «Un commerciante mi ha confessato di aver paura che da domani gli chiederanno il pizzo, adesso che Matteo Messina Denaro è stato arrestato e finirà la pax ordinata dal boss».

Paese di lavoratori, di contadini, dove si coltiva la Nocellara del Belice, l’oliva che dà un olio superlativo e lo stesso Matteo Messina Denaro, è emerso dalle indagini, portava in dono ai medici che l’avevano in cura. «Suo padre Francesco (don Ciccio, morto nel ‘98, ndr) aveva gli uliveti vicino a Partanna — racconta Vincenzo Catalano, contadino in pensione —. Ma poi glieli hanno sequestrati, non so se è continuata la produzione». Impossibile chiederlo a donna Lorenza Santangelo, la mamma di Matteo, moglie di don Ciccio, che sulla porta di casa, in via Alberto Mario numero 8, tiene inchiodata una targa: «Per mio marito». Lei e la figlia Rosalia ieri sono salite su un’auto dei carabinieri e nessuno le ha più viste.

Anche Bice e Giovanna, le altre due sorelle, barricate in casa. Sono loro le vere donne di Matteo Messina Denaro, quelle che non l’hanno mai abbandonato. Nemmeno Franca Alagna, da cui ebbe Lorenza nel ‘95, risponde al citofono della sua casa sul corso. Le luci sono spente, niente aria di festa.

Una donna anziana si affaccia dalla finestra: «Qui non c’è nessuno e non scrivete di noi».

Stasera Italia, Vittorio Feltri smaschera l'omertà su Messina Denaro. Libero Quotidiano il 18 gennaio 2023

A Campobello di Mazara tutti sapevano e nessuno ha mai fiatato. Vittorio Feltri, direttore editoriale di "Libero", ha parlato della cattura di Matteo Messina Denaro durante la puntata di "Stasera Italia" in onda il 18 gennaio su Rete4. Grande è la soddisfazione per la cattura del boss ma trent'anni di latitanza sono stati possibili soltanto grazie al clima di terrore che ha consentito al boss di vivere una vita normale nonostante fosse ricercato da tutte le forze dell'ordine.

"Il risultato è soddisfacente per tutti - ha detto Vittorio Feltri a Barbara Palombelli - Abbiamo festeggiato questo evento ma non dobbiamo dimenticare che questo signore era ricercato da trent'anni e nessuno lo trovava. Nonostante abitasse in un piccolo centro dove tutti lo conoscevano, dove tutti lo frequentavano e nessuno ha mai fiatato. E questo ci fa immaginare come la mafia abbia terrorizzato un'intera società che è la società siciliana"..

Da video.corriere.it il 18 gennaio 2023.

«Io non giudico, cosa mi interessa a me... e che ha fatto Matteo Messina Denaro? Se è un bene o un male che lo abbiano arrestato? Non devo decidere io». Risponde così un vicino della casa natale, a Castelvetrano (Trapani), del boss di Cosa Nostra ai giornalisti di «#Cartabianca», il programma condotto da Bianca Berlinguer su Rai3.

 Un altro abitante di Castelvetrano dice alle telecamere sull’arresto del boss, avvenuto il 16 gennaio mentre Messina Denaro si trovava in day hospital alla clinica «La Maddalena» di Palermo: «È stato sempre qua perciò per me hanno fatto un errore ad arrestarlo, per 30 anni ci hanno mangiato tutti, ora non è più buono questo?»

Estratto da open.online il 18 gennaio 2023.

«Per me hanno fatto un errore ad arrestarlo. Per trent’anni ci hanno mangiato tutti, dopo trent’anni non è più buono», dice un uomo intervistato dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro in un servizio a Cartabianca su Raitre che ha fatto saltare i nervi in studio a Pif, oltre che a diversi utenti sui social che subito dopo hanno rilanciato il video. […]

 Nel suo sfogo, Pif ha poi aggiunto: «Ti farei vedere la foto della bambina morta a Firenze e ti direi vaff! Mi fa più schifo di Matteo Messina Denaro. Queste persone qua mi fanno più schifo del mafioso, perché nel 2023 non è possibile. Vaff!». E poi incalza la conduttrice: «Mi dica il nome e cognome di questo qua e gli dico vaff! Querelami, sei senza dignità! Quando vede queste dichiarazioni qua mi arrabbio e non ci sono giustificazioni».

Pif si dice più impaurito da quel signore «che magari non è mafioso», rispetto a un mafioso vero: [….] “Mi fanno più schifo dei mafiosi veri. Ma stai zitto, ma un minimo di dignità! Ma con quale coraggio guardi i tuoi figli? Ma che uomo sei? Nel 2023 non c’è giustificazione davanti a questo atteggiamento qua. La gente di Castelvetrano dovrebbe uscire, essere orgogliosa e non frequentare più né Matteo Messina Denaro né questa persona qua. Mi sono coronizzato davvero scusami”.

Pif "La gioia della gente dice che l'omertà è finita ma ora per i cittadini serve un codice morale". Giada Lo Porto su La Repubblica il 17 Gennaio 2023.

Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, attore e regista palermitano, autore de "La mafia uccide solo d'estate", commenta l'arresto di Messina Denaro. "Me lo immagino a camminare fra noi"

"Il cerchio si è chiuso con un grande "800A" alla mafia di Totò Riina, volendo utilizzare un'esclamazione palermitana. È un giorno bellissimo e non importa avere atteso tanto. Utilizziamo questo tempo per gioire e non per scrivere sui social che "ci sono voluti trent' anni"".

Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, attore e regista palermitano, autore de "La mafia uccide solo d'estate", commenta così la cattura del boss Matteo Messina Denaro: "Era solo questione di tempo".

Lei dunque ha sempre pensato che prima o poi lo avrebbero preso?

"Messina Denaro era legato alla vecchia mafia ma essendo più giovane era difficile pensarlo in una sperduta campagna a mangiare pane e cicoria, ascoltando cassette di Pupo. Era lì, in mezzo ai palermitani. Me lo immagino, poco prima del blitz, a dare la precedenza a una vecchietta in fila per gli esami e a regalare bottiglie di olio ai medici. Grazie alle nuove tecnologie l'arresto era solo questione di tempo".

Il rischio che la latitanza continuasse c'era però.

"L'incognita c'è sempre e provo grande gioia nel sapere che sia finita così. Se fosse morto prima della cattura, dal punto di vista simbolico, sarebbe stato gravissimo per Palermo e l'Italia intera. La mafia vive anche di simboli. Se fossi stato a Palermo mi sarei catapultato davanti alla caserma con una bottiglia di champagne. Questo è un arresto sano, differente da quello di Riina".

Cosa intende con "differente"?

"È chiaro che con Riina c'era qualcosa che non andava visto che non si andò subito a perquisire la casa. Questo, ne sono convinto, è un arresto sano".

Ha detto che il cerchio con i corleonesi si è chiuso: e i conti con la mafia?

"C'è ancora molto da fare, i conti con la mafia restano aperti. Messina Denaro è però l'ultimo dei corleonesi. Possiamo dire che lo Stato ha sconfitto dal punto di vista militare la mafia di Totò Riina e che la sua strategia è stata perdente".

Com' è cambiata la percezione della mafia a Palermo in questi trent' anni?

"Molto dice l'esultanza della gente subito dopo la cattura, ma non mi stupisce. Da anni è cessata anche l'omertà dei siciliani".

Da quando è cessata?

"Il primo vero cambiamento si è visto subito dopo l'arresto di Bernardo Provenzano. Ricordo che i poliziotti che lo catturarono si aspettavano di essere insultati dai parenti dei mafiosi. Invece arrivarono diversi cittadini ad applaudirli e loro rimasero stupiti.

Fu un bel segnale".

Castelvetrano ha festeggiato l'arresto di Messina Denaro in piazza con un flash mob. Anche questo è un segnale forte.

"Penso ai ragazzini del paese.

Assistere a un festeggiamento per l'arresto di un boss spesso osannato - non da tutti - a casa sua è una lezione immensa per le nuove generazioni. Riuscire davvero a fare questo flash mob è una rivoluzione culturale". Come la fa sentire pensare che ogni palermitano avrebbe potuto inconsapevolmente avere avuto accanto Messina Denaro in questi anni, trovarsi nella stessa stanza durante la chemioterapia per esempio? "Fa un effetto strano e sono sicuro che era anche il più gentile di tutti, passava inosservato". Cosa intende? "Vede, mia madre negli anni Settanta insegnava nelle scuole dei paesini dell'entroterra palermitano ad alta densità mafiosa. Mi raccontava che spesso il figlio del mafioso era il più educato. Nell'immaginario collettivo si ha ancora l'idea del mafioso che ti punta la pistola in faccia, non è così da moltissimo tempo". Lei ha più volte attaccato il nuovo sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, per essere stato appoggiato da Dell'Utri e Cuffaro. Oggi cosa dice? "Continuo a dire che è inammissibile che un candidato accetti chi porta voti mafiosi. Aggiungo, che bisogna cominciare a giudicare anche i cittadini che votano questa politica qui. Non serve solo il codice penale, serve un codice morale. Magari il mondo mafioso e il mondo non mafioso che si incontrano non commettono alcun reato, ma a ogni cittadino onesto questo deve fare schifo. Anche quando dicono: "eh ma io sono garantista". C'è un codice morale interiore che non ha bisogno di sentenze". La sera prima dell'arresto Sky ha mandato in onda "La mafia uccide solo d'estate... "Era un messaggio (sorride, ndr). La domanda che mi sono sempre posto è cosa abbiano potuto pensare i mafiosi vedendo il film". Secondo lei ? "Forse si saranno domandati come abbiamo saputo certe cose. Magari avranno sorriso. Come oggi sorridono i siciliani onesti".

Tanti gli onesti, ma sfida dura. Quanto ancora pesa l’omertà. Vincenzo R. Spagnolo su Avvenire giovedì 19 gennaio 2023

Ricominciamo dai numeri: trent’anni, ossia 1.560 settimane o, se preferite, 10.950 giorni, uno più uno meno. Tanto è durata la latitanza del boss siciliano Matteo Messina Denaro. E non è stata una vita da recluso, autoseppellito in un bunker sotterraneo come Michele Zagaria o in una villetta sperduta come i Lo Piccolo, sfamato a cicoria e ricotta in una masseria come Bernardo Provenzano, o ingobbito dentro un’intercapedine di una casa in costruzione, come non pochi ricercati di ‘ndrangheta. Per quel che si sta scoprendo in questi giorni, a parte qualche sortita in luoghi di vacanza, il sanguinario padrino castelvetranese potrebbe aver trascorso molti di quei quasi undicimila giorni senza spostarsi dalla sua Sicilia, fra Trapani e Palermo. Senza quasi nascondersi veramente, al massimo celandosi dietro fattezze modificate: un cappello, un paio d’occhiali fumé, un documento intestato a un’altra persona, per età e corporatura simile a lui.

Già perché il garbato ed elegante – a detta delle pazienti che con lui condividevano i cicli di terapia – geometra Andrea Bonafede (un «furto d’identità», come è stato definito, o più probabilmente un prestito compiacente) potrebbe essere solo l’ultimo personaggio da lui interpretato, di finzione in finzione, per poter vivere una vita riservata, ma alla luce del sole, fatta di passeggiate per strada, di acquisti nei negozi, di colazioni al bar e cene in trattoria, perfino di imprudenti selfie scattati in clinica, in una esistenza scandita, nell’ultima fase, da interventi chirurgici in un ospedale pubblico e da cure oncologiche in un nosocomio privato. Tutte attività che non possono essere portate avanti in un rifugio, tre metri sotto il pavimento.

Il fatto è, e pare banale dirlo, che per condurre quel genere di vita, nessun latitante per quanto potente può bastare a sé stesso. Per avere un documento falso ma valido, occorre che qualcuno lo falsifichi per te. Per riposare la notte in un appartamento sicuro, serve che qualcuno te lo metta a disposizione. Per prenotare una visita o un ciclo di cure, come ogni cittadino sa bene, è indispensabile un’impegnativa del medico curante. Professionalità di persone forzate al silenzio dalla paura, da reti amicali o da convenienze? Sia come sia, senza una coltre di omertà, parola logora e abusata ma purtroppo – è amaro constatarlo – ancora tristemente attuale, una latitanza non arriva al trentennio. Qualche anno fa, a chi le chiedeva perché durasse tanto la caccia al super boss, l’allora procuratrice aggiunta di Palermo Teresa Principato rispose senza peli sulla lingua, descrivendo la provincia trapanese come un «territorio in cui è molto difficile scindere il bene dal male», a causa di «un intricato amalgama tra criminalità mafiosa, massoneria deviata e imprenditori, professionisti, anche gente insospettabile».

Non solo: Principato ipotizzò pure «segnali di talpe che hanno riferito notizie a Messina Denaro sulle sue vicende giudiziarie. Ecco perché ritengo che il boss si sottragga con una certa facilità alle nostre ricerche». Da allora, a suon di inchieste, investigatori e magistrati hanno via via assottigliato le file di quell’esercito di fiancheggiatori. Era rimasta comunque una rete sufficiente a garantire al padrino di cambiare identità, curarsi e tornare tranquillo a casa ogni sera a Campobello di Mazara, nel singolare “disinteresse” di passanti e vicini di casa, fino al blitz dell’altro ieri. Ma cu mancia fa muddrichi, recita un detto siciliano, chi mangia fa briciole, ossia lascia piccole tracce, che a quanto pare sono bastate ai Carabinieri del Ros, novelli Pollicino, per arrivare a lui.

«Non c'è dubbio che lui abbia goduto di protezioni in passato, noi stiamo indagando sulle protezioni di adesso», considera il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, convinto che «c'è una fetta di borghesia mafiosa che certamente lo ha aiutato, su questo abbiamo contezza e ci sono in corso indagini». Chissà che le memorie dei telefoni cellulari, l’agenda e gli altri documenti trovati nei due covi finora scoperti a Campobello non aiutino a ricostruire almeno una parte di quella rete di silenzi e complicità.

Anche perché, con la cattura del boss, non è che sia crollato di colpo anche il suo impero miliardario di interessi illeciti, affari sporchi, riciclaggio e investimenti. Perché la medesima coperta d’omertà che finora lo aveva protetto, continua a proteggere le attività imprenditoriali che, dietro prestanome, portano rivoli di denaro alla sua cosca. In fondo non serve minacciare, se si può corrompere e assicurare ricchezza a molti. Insomma, è giusto e doveroso gioire per la cattura del Siccu. Ma non è dato sapere, al momento, se vorrà collaborare con la giustizia, rivelando segreti sulle stragi e decine di brutali omicidi.

E non è nemmeno detto che la cattura eccellente faccia incrinare quel muro di silenzi che ha reso possibile la sua vita trentennale da “fantasma”. La mafia ha subito un duro colpo, ma non è vinta. In questi decenni, va ricordato, la società civile ha sviluppato molti anticorpi. E gli onesti, in Sicilia e altrove, non sono soli né pochi, sono la maggioranza. Ma finché resisteranno sacche d’omertà e d’interesse, estirpare la malapianta resterà impresa non semplice.

Questione criminalità, il vero nemico da sconfiggere è l'omertà. C’è un deficit di empatia nella società di oggi, questo è evidente, facciamo tutti più fatica a metterci nei panni dell’altro. La Redazione su dabitonto.com il 19 Gennaio 2023

Chiariamolo subito: negli ultimi anni l’attività di forze dell’ordine nella nostra città è stata massiccia ed ha consentito di sferrare duri colpi alla criminalità. Lo Stato c’è, questo è fuori discussione ma fa molta fatica ad incontrare la complicità dei cittadini. L’omertà, è uno dei mali che affligge la nostra cultura: dai banchi di scuola tra gli studenti fino ai contesti lavorativi. Non mi interessa qui dividere le opinioni, non mi interessano gli schieramenti sul recente episodio che riguarda la latitanza del capo mafia Messina Denaro in questi lunghi e tristi 30 anni. Mi interessa invece condividere con voi l’unico antidoto (a mio avviso) perché di vergognosi ‘casi simili’ non ce ne siano più. L’unico antidoto, non mi stancherò mai di ribadirlo, ancora una volta è l’educazione. Quando incontro genitori e docenti e parlo di bullismo, molti si stupiscono quando sostengo che la cosa che più alimenta il perpetuarsi del bullismo non è il fatto che esistano ragazzi prepotenti o violenti, non è il fatto che ci siano ragazzi fragili e vittime, ma è il fatto che ci siano gli astanti. Gli spettatori, quelli che vedono, sentono, sanno e non fanno nulla. In nome dell’omertà che autotutela. Se ci pensate, l’omertà è anche quella a cui vengono educate le giovani generazioni nei paesi ‘comandati’ dalla mafia perché, si sa, quella è più utile delle armi. L’omertà è quella che si vede ancora troppo spesso in tanti contesti, quando c’è il cartellino timbrato da un collega, ma che vuoi dirgli, mica vorrai fare il delatore? Quando c’è l’insegnante dell’aula accanto che urla, insulta o fa discriminazioni verso alcuni alunni ma che puoi fare, mica puoi denunciare una collega? Quando c’è un operatore che maltratta gli anziani in casa di riposo, impreca loro contro tutto il giorno, ma vabbè, cerchiamo almeno di non lasciarlo solo in turno, perché mica vorremo denunciarlo alla responsabile? E invece, direi proprio di sì. Magari si cominciasse a rompere qualche centimetro dei muri di omertà che ancora stratificano la nostra società, dalla scuola al lavoro! Per noi adulti, cambiare certe “abitudini” la vedo un impresa titanica, ma a questi adulti, io dico, almeno di sforzarsi ad educare i loro figli a rompere il silenzio, perché l’unico silenzio utile nella vita è quello destinato all’ascolto dell’altro, o all’ascolto di sé. Quando invece il silenzio è quello subito, quello mosso dalla paura, dal timore di perdere la nostra tranquillità (un’illusione di tranquillità!), quando il silenzio è quello vigliacco del “io mi faccio i fatti miei”, allora dobbiamo ammetterlo che stiamo fallendo. Clamorosamente. L’omertà è la cosa che fa più male dentro le trame di certi film, che poi purtroppo è vita reale. Perché per ogni centimetro di omertà che riusciamo a combattere, per ogni centimetro di onestà che riusciamo a conquistare, ci sono vite che si salvano. Abbiamo una infinità di vicende come quella di Stefano Cucchi ad esempio, che è morto in una coltre di omertà. Allo stesso modo (l’accostamento è forte ma rende l’idea) ci sono tanti ragazzi nelle scuole che soffrono perché sono sistematicamente offesi, derisi, umiliati, aggrediti, perseguitati, nel silenzio di tutti. E a volte muoiono. E quando anche non si tolgono la vita, muoiono dentro. Lentamente. C’è un deficit di empatia nella società di oggi, questo è evidente, facciamo tutti più fatica a metterci nei panni dell’altro. Perché dare attenzione all’altro implica fatica, perché per sentire come sta l’altro io mi devo decentrare, e quel cambio di prospettiva è un gesto intenzionale. Non posso più guardare solo i miei bisogni, se sono decentrato diventano prioritari e urgenti anche quelli dell’altro. La fantasia che mi faccio è che se almeno una delle persone che in questi anni ha incrociato lo sguardo di Messina Denaro avesse avuto più empatia e meno pregiudizio, più onestà e meno omertà, forse il suddetto sarebbe in carcere da tempo. Forse. Se ci impegniamo ad educare di più i bambini e i ragazzi a praticare l’empatia, nelle scuole e in famiglia, avremo in futuro degli adulti migliori. Se ci impegniamo ad educare le nuove generazioni a coltivare l’onestà, quella vera, non solo quella del “proprio dovere” ma quella che risponde ad un’etica della responsabilità, avremo in futuro dei cittadini migliori. Se a bambini e ragazzi insegniamo che non vanno protetti quelli che sbagliano, ma vanno richiamati a rispondere delle loro azioni, stiamo donando loro un germe che li proteggerà a vita. Che permetterà loro, da adulti, di impedire il perpetuarsi di ingiustizie. Se insegniamo loro a non seguire solo il proprio tornaconto personale, avremo forse una società migliore, più trasparente, forse un po’ meno corrotta. Nel mondo ci saranno sempre persone che commettono azioni scorrette. L’unico modo per arginarle, e quindi paradossalmente anche per aiutarle, è rompere il silenzio. L’omertà è un brutto veleno nelle relazioni, ma un antidoto c’è.

Dall’arresto di Messina Denaro a chi difende i prof: l’applauso all’italiana che (spesso) nasconde l’omertà. La folla di Palermo che ringrazia i carabinieri per la cattura del boss dimentica i trent’anni di latitanza «consentiti» in città. Lo stesso per la scuola: il rispetto per gli insegnanti vale ma per i figli degli altri. Se toccano i nostri partono i ricorsi. Francesco Chiamulera su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

La professoressa Maria Cristina Finatti dopo esser stata colpita da pallini di gomma sparati dagli allievi e i carabinieri dopo la cattura di Matteo Messina Denaro

A Palermo grandi applausi di strada per l’arresto di Matteo Messina Denaro. Poco dopo il momento in cui il boss di mafia veniva portato via dai carabinieri del Ros, la folla è esplosa in «grazie», battimani e abbracci alle forze dell’ordine, e ci si chiede se non siano più o meno gli stessi palermitani che hanno consentito (in senso lato, ovviamente) al capomafia una latitanza lunga trent’anni nel comfort e nella protezione della sua città.

Applausi all’italiana: come le ovazioni che puntualmente si riscontrano in conferenze, dibattiti, presentazioni di libri quando l’oratore si mette a parlare di scuola, e difende il (giusto) principio del rispetto verso gli insegnanti. Per riscuotere subito ondate di calda approvazione popolare. Basta agitare il feticcio della cattedra rialzata, evocare il buon vecchio maestro di una volta, dire: autorità-tà-tà, difendere professori, presidi, dirigenti, provveditori, per vedere tutti gli uditori della Penisola a spellarsi le mani e a reclamare pene severe, scuola inflessibile, docenti finalmente rispettati. Però poi se una professoressa viene letteralmente impallinata dagli studenti, come successo all’Istituto Viola Marchesini di Rovigo e raccontato da questo giornale; e se per i giovani autori materiali della cosa viene decisa una banalissima, innocua sospensione di pochi giorni, ecco che partono i ricorsi dei genitori. I distinguo, le levate di scudi. Per mio figlio, mai! Alla faccia della diversità antropologica dei veneti nordici rispetto ai siciliani.

E che dire dell’omertà del liceo Nievo di Padova, dove la tragedia di Domenico Maurantonio, caduto da una finestra durante una gita scolastica nel 2015, è finita più o meno nel silenzio di una classe intera, che si è rifiutata di dire in modo chiaro che cosa era accaduto quella notte? A proposito, si diede per caso seguito alla draconiana e sacrosanta idea di qualcuno di far ripetere un anno a tutti gli alunni di quella classe, così, giusto perché la portata del fatto non passasse inosservata? No, ovviamente. Immaginiamo la levata di scudi generale dei genitori della Padova Bene: perdere un anno prezioso? Mio figlio no, mai! Quindi: viva i docenti, sempre, fortissimamente. Tranne quelli dei propri ragazzi. Verrebbe voglia di ricorrere all’inglese: Not In My Backyard. Tradotto: gli italiani, come scriveva Cossiga, sono sempre gli altri.

Omertà, omertà, omertà…Genitori e farfalle. Due soli esempi, gli ultimi dalle cronache: i genitori della classe di studenti che si svagavano sparando ad aria compressa alla prof e la Federazione ginnastica ritmica che, con le atlete in essere, conferma fiducia e dedizione all'istruttrice che le ex atlete hanno denunciato. Lucio Fero il 13 Gennaio 2023 su blitzquotidiano.it   

Quel furbacchione dell’italiano tipo (va bene, ok: un tipo di italiano, non tutti, però il tipo dominante) son svariati decenni che si è inventato la somma aspirazione, il sogno di popolo e di ogni singolo cittadino e cioè: onestà, onestà, onestà! Questo il grido, questa la canzone: ah, se solo gli italiani potessero essere liberati nella loro corsa naturale e spontanea, per quanto repressa dai vari Poteri, verso l’abbraccio totale con l’onestà…

Quel furbacchione dell’italiano tipo/variante dominante in realtà nella sua concreta e quotidiana applicazione alla vita canta altra canzone e omaggia altro culto, difende altro valore. Valore che considera irrinunciabile. Eccolo: omertà, omertà, omertà. Ogni famiglia, ogni gruppo di interesse, ogni comunità le è fedelissima. All’omertà, omertà, omertà. Due solo esempi, gli ultimi in ordine di tempo dalle cronache.

Spara alla prof, i genitori…

Una simpatica scolaresca si svagava un po’ dal peso delle lezioni in classe facendo un po’ di tiro a segno con la prof. Un fucilino di aria compressa, un paio di colpi, neanche tre. E poi lo stress degli anni della pandemia…La prof se l’è presa, troppa suscettibilità. E comunque ha tirato su un gran casino, vuole denunciare! Se invece che strillare avesse saputo conquistare l’attenzione degli alunni…Ma, si sa, questi prof non sanno quasi mai il loro mestiere. E comunque come si permette e le viene in mente, che vuol fare, rovinare la carriera scolastica o peggio di qualche ragazzo/ragazza? Il caso di Rovigo non è un caso, è la regola: i genitori fieramente si comportano da sindacalisti, avvocati difensori e complici dei figli. Soprattutto quando i figli fanno il peggio. I genitori si regolano secondo suprema legge di primaria lobby, secondo omertà familiare.

Farfalle, l’importante è lo sciame

Ginnastica, ritmica, palestre. Arrivano molteplici e documentate denunce da parte di ex giovanissime e giovani atlete di metodi da…Full Metal Jacket. Il sergente istruttore che non conosceva e non praticava il confine e la differenza tra l’istruire e il torturare. Dalle ex atlete, da quelle che sono fuori pioggia di cattivi ricordi e conferme della violenza come via alla performance. Dalle atlete che oggi sono dentro, dentro il gruppo, la comunità, invece grandi manifestazioni di solidarietà verso la loro istruttrice capo, colei che nelle denunce interpreta il ruolo del sergente istruttore. Se sei fuori ricordi di essere stata umiliata, costretta a vomitare poco cibo ingerito, derisa e punita per qualche etto in più di peso. Se sei dentro tutto questo non c’è o non conta.

Quale la differenza? Dentro vige il valore supremo dell’omertà di squadra e di missione. La Federazione sportiva della disciplina conferma alla guida della preparazione atletica la signora che nei racconti e nella memoria (e nelle denunce) di chi è fuori è l’ideologa e l’organizzatrice dello strizza farfalle (si chiamano così le atlete della disciplina) fino a spezzarle. se capita spezzarle. La Federazione spiega: “Ci sono le Olimpiadi da preparare, non abbiamo tempo per altro”. Per altro che non sia il gruppo di interesse di riferimento in effetti nessun gruppo ha tempo e neanche interesse. Onestà? Buona per gli altri, forse. Noi, i cento, mille, diecimila Nio di questo paese si difendono con cento, mille, diecimila omertà.

"Nessuno poteva pensare che fosse qui". Serena Sartini il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Don Nicola, parroco del paese: "Ci sono omertosi. Spero non avrà successori"

«Nessuno poteva immaginare che Matteo Messina Denaro avesse qui il covo. Mai, in questi anni, ci siamo accorti di nulla»: così don Nicola, parroco della Chiesa Madre di Campobello di Mazara, dove è stato trovato e perquisito il covo del superlatitante arrestato due giorni fa, commenta al Giornale la notizia che coinvolge la sua cittadina. «Davvero lo hanno trovato qui?», risponde incredulo appena saputa la notizia. «L'arresto è stato l'epilogo di un fenomeno che in queste zone andava avanti da anni - sottolinea il sacerdote, parroco nella cittadina da 7 anni - qui il fenomeno è così radicato che ha sconvolto la vita di tante persone. Nessuno poteva immaginare che Matteo Messina Denaro avesse il covo qui. Sa come lo chiamano? L'invisibile, perché è stato così astuto nella sua latitanza».

Possibile che in tutti questi anni nessuno a si sia accorto di nulla? Forse c'è ancora troppa omertà. «Quelli che sono dentro la rete sono omertosi, ovviamente - risponde don Nicola - altrimenti non si spiegherebbero 30 anni di latitanza. Ma tra la gente c'è una certa presa di distanza. La cultura dell'omertà è molto calata rispetto al passato». Cosa succederà ora? Chi prenderà il posto di Matteo Messina Denaro? «L'augurio è che non ci sia un successore. La mafia va dove ci sono i soldi. Se l'economia si risanasse, così come il tessuto produttivo, la mafia scomparirebbe. Diamo più spazio alle aziende pulite».

Don Nicola porta avanti, soprattutto tra i giovani, la cultura della legalità e della verità «Come sacerdote, ma con me le catechiste e la comunità parrocchiale tutta, cerco di parlare con le parole del Vangelo - conclude - qui c'è anche tanta gente per bene e onesta. Ma soprattutto tra i giovani dobbiamo lavorare in questo senso».

LA LEGGE DELL' OMERTA'. Curzio Maltese 18 giugno 1997 su La Repubblica. 

C' E' QUALCOSA di strano, se non di malato, nel modo in cui due istituzioni come l' università e l' esercito reagiscono in queste ore ai casi feroci dell' omicidio di Marta Russo e della Somalia. Gli stupri e le torture inflitte a civili dai parà della Folgore e documentati da Panorama sarebbero, lamenta il generale Vannucchi, "un caso gonfiato dalla stampa". Altri generali piangono. Non sulla sorte delle vittime di un sadismo fascista, per carità. Piangono sulle proprie spalline, da vere vittime, scossi per l'onore perduto dell' esercito e dei "nostri ragazzi".

CRIMINALI? No, "criminalizzati". Davanti a fotografie che farebbero rivoltare di sdegno un serpente, il ministro Andreatta argomenta a sangue freddo che "dalla goliardia a questi episodi non c' è salto logico". Che cos' è, una battuta? Chissà come la pensa il ministro circa i nessi logici fra gli scherzi alle matricole e la morte data a Marta Russo da un brillante assistente di Filosofia del Diritto che alla fine del tiro a segno è andato a una festa tanto per tener alto il morale. Ma i colleghi giurano che si tratta di un bravo ragazzo. E i professori si preoccupano di evitare che il buon nome della Sapienza venga infangato dalla solita stampa cattiva. Usando tutti gli strumenti, dalle spinte alle inviate dei telegiornali alle subdole e mafiose telefonate ai colleghi: "Se t' interrogano, se ti chiamano i giornali, non dire nulla". Sembra di assistere a un film di Altman, America Oggi. Ma possibile che di fronte a simili bestialità a nessuna di queste alte autorità morali, politiche, culturali venga alla mente altro che una squallida, torva e quanto mai inopportuna difesa di categoria? E' questo l' aspetto più impressionante, nuovo e tragicamente "moderno" di questi delitti. Il gesto sadico, senza movente, per il puro gusto di uccidere e far soffrire l' altro, è antico come l' uomo. In ogni società e in ogni tempo è esistita una zona buia popolata dalla follia del gioco mortale. E il delitto della Sapienza fa giustizia della sociologia pret-à-porter ampiamente sparsa sui killer del cavalcavia. Davanti alla faccia da assassino di buona famiglia di Giovanni Scattone, come la mettiamo con le desolate periferie urbane, il deserto culturale, l' emarginazione sociale, l' annichilimento morale da videogame e la restante paccottiglia? Sociologi, psicologi, filosofi dovrebbero piuttosto spiegarci che razza di società è quella dove se un medico specula sulla salute dei pazienti, se un soldato tortura un prigioniero, un universitario uccide una ragazza, subito scatta un meccanismo per cui anche i medici onesti, i bravi soldati e i professori che "non farebbero mai male a una mosca" si sentono in dovere di far quadrato intorno al "prestigio della categoria" fino a giungere alla più classica omertà. Oppure a minimizzare il crimine commesso dal "collega", fosse pure il più immondo, precisando che "succede anche in altri ambienti". Come se avessimo ormai stabilito che l' appartenenza a un clan o a una corporazione debba prevalere rispetto a qualsiasi altra, compresa quella al genere umano.

Paradossalmente, la minaccia che viene dalla voglia di uccidere dei parà, dei ragazzi del cavalcavia o del killer, è molto meno pericolosa della malattia sociale che i loro crimini stanno rivelando. Fa paura sapere che in città può esserci un pazzo con una pistola in tasca pronta a ucciderti per caso, noia o gioco. Ma fa ancora più paura leggere e vedere che circolano fra noi centinaia o migliaia di persone "normali" e "perbene" che la pensano come il generale Vannucchi o i professori della Sapienza che aggrediscono le giornaliste colpevoli di violare il tempio della setta. Onesti professionisti, prima di tutto "professionisti" e poi, si capisce, "ottimi padri di famiglia", capaci di seppellire al volo ogni sentimento nel nome di una istintiva e gelida difesa del branco.

Accerchiato e attaccato, chissà perchè, dai branchi nemici, giornalisti in testa, in una specie di guerra civile permanente per bande professionali. Ma siamo uomini o generali (giornalisti, medici, professori)? Quale filosofia e quale diritto potrà mai insegnare un docente che copre un assassino?

Curzio Maltese18 giugno 1997

NON È QUESTIONE DI MERIDIONALI. L’omertà è un prodotto tipico del Sud? Falso, ecco i documenti sui silenzi nordici. ENZO CICONTE storico su Il Domani il 16 marzo 2022.

Era il 10 agosto 1867. Anni dopo nella ricorrenza del luttuoso anniversario, il 10 agosto 1904, il poeta Giovanni Pascoli prende carta e penna e scrive ad un altro orfano, Leopoldo Notarbartolo figlio del più noto Emanuele che era stato direttore del Banco di Sicilia, ucciso il 1° febbraio 1893.

I due hanno avuto la “medesima sorte” dice Pascoli: sono orfani di un padre assassinato. hanno cercato la verità senza trovarla, si sono scontrati con un muro di silenzio.

La conferma ci viene da alcune vicende trovate nei documenti dell’Archivio centrale dello Stato. Prendiamo ad esempio quello che successe a Medicina in provincia di Bologna nel maggio del 1889. Oppure a Torino, all’alba dell’Unità d’Italia.

ENZO CICONTE, storico. Scrittore, docente e politico italiano, è fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose. Fra i suoi libri, Processo alla 'Ndrangheta (Laterza), 'Ndrangheta padana (Rubbettino) e La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza).

OMERTÀ: QUAL È IL VERO PROBLEMA DEL SUD? Lorenzo Di Salvatore su ilsuperuovo.it l’8 Agosto 2018 

Difficile trovare qualcuno che, nominando il sud, non vi associ immediatamente immagini di strade violente e pericolose. Un sud disorganizzato, misterioso, mafioso. Se per quanto concerne la disorganizzazione a livello pubblico non si può che essere d’accordo, descrivere il fenomeno criminale con qualche antico idealtipo è piuttosto riduttivo, se non irrispettoso.

E’ dunque plausibile fare affidamento sui dati ufficiali per farsi un’idea circa la situazione meridionale?

TASSO DI CRIMINALITÀ

Tra i tantissimi dati disponibili, riuscire a trovare risposte efficaci può risultare spesso molto difficile. Prendere in analisi il numero di denunce per sito, ad esempio, può essere una soluzione tanto immediata quanto povera ed illogica. La classifica Istat mostra efficacemente, ad esempio, come la testa di tale classifica riesca a sbugiardare immediatamente la convinzione che al Sud si delinqua maggiormente, con Milano, Bologna e Torino ad occupare le prime tre posizioni. Tuttavia, prendere a campione tale statistica, come già detto, è utile nient’altro che per una pura curiosità personale. Un dato statistico, in quanto tale, non è altro che una verità fredda, nella misura in cui non riesce (e mai potrebbe) essere uno specchio reale di una qualsiasi situazione sociale. Anzi, in questo caso sembrerebbe proprio riflettere un mondo totalmente opposto. Il numero oscuro dei crimini (ossia la quantità dei reati che non vengono denunciati) assume spesso delle quotazioni impressionanti. La stima sale esponenzialmente in base al reato stesso, oltre che alle zone in cui il crimine viene commesso. Secondo la teoria e gli studi portati alla luce dalla Scuola di Chicago, ogni centro può infatti essere diviso in micro-zone in cui i dati circa il tasso di criminalità, le circostanze e il numero oscuro dei reati varia in modo considerevole. Tra le molteplici variabili prese ad analisi, non si può fare a meno di evidenziare altre stime concorrenti alla nostra ricerca, come il numero di criminali tra i residenti, il numero effettivo di reati, la loro intensità, ripetitività, gravità, eccetera. Variabili che cambiano, mutano col passare degli anni da una generazione sociale ad un’altra, in base ai cambiamenti interni ed esterni ai centri presi ad esame. Tutto ciò per spiegare un’importante verità. Quanto sono affidabili dei dati generici per giudicare con certezza qualcosa di vacuo, intangibile, come il tasso di criminalità? Poco, infinitamente poco. I numeri possono esplodere da un momento all’altro, bombe ad orologeria che captano ogni sorta di segnale criminale. Oggi un’organizzazione mafiosa italiana potrebbe spostarsi in Germania, abbastanza violentemente da farci pensare che il problema più del territorio tedesco che la base in cui l’organizzazione nasce e cresce. Nell’era moderna, della digitalizzazione e dell’informazione senza confini, una e una sola è la principale sostanza nutritiva del crimine: l’omertà.

Omertà, il male del sud

Innanzitutto, cos’è l’omertà? Nell’opinione pubblica, è uno degli aspetti insindacabili del sud Italia. L’atteggiamento, da parte di complici ma anche della gente comune, di coprire l’identità di chi ha commesso un reato di qualsiasi natura. Si va dall’anziano che assiste ad un’estorsione, fino al poliziotto che resta in silenzio in seguito ad un’esecuzione mafiosa. In genere, tale comportamento è visto ai più come un atto di completa sottomissione al fenomeno mafioso, visione dovuta anche alla credenza popolare che il termine derivi direttamente dal termine dialettale napoletano per umiltà. Tale comportamento è uno dei maggiori problemi che chi combatte la criminalità nel Meridione è costretto a affrontare ogni giorno. Esso rimpingua quotidianamente il numero oscuro dei delitti, quelli che avvengono nelle piccole strade di paese, al buio, invisibili alle autorità. Ma da cosa nasce questo comportamento sottomesso ed umiliante che i cittadini del sud (ma non solo) sono storicamente tenuti a rispettare? Innanzitutto, è bene spiegare da cosa deriva tale necessità. Se come molti hanno teorizzato l’omertà deriva da un’antica forma di protesta, in cui i cittadini poveri coprivano l’embrionale fenomeno mafioso in cui vedevano l’unico vero Stato che si batteva per i loro diritti, oggi non può essere lo stesso. Parlare di semplice tradizione è sciocco e insensato, soprattutto se pensiamo ai danni effettivi dei crimini mafiosi e che i cittadini stesso sentono sulla loro pelle. Ciò che probabilmente fa nascere questo nuovo sentimento omertoso è, molto più ragionevolmente, da ricercare nell’insicurezza e nella paura della popolazione. Con l’ingigantimento delle organizzazioni criminali, il cittadino è inevitabilmente terrorizzato da possibili ritorsioni che queste possono rivolgergli in caso di denuncia. L’insicurezza dovuta a condizioni precarie ed umilianti porta i cittadini non solo ad avere paura del fenomeno mafioso, ma a vivere in un vero e proprio stato di depressione. Un mondo in cui l’insicurezza oggettiva (dovuta all’effettivo numero di crimini nel luogo di residenza) e quella soggettiva (proveniente dalle proprie percezioni dell’ambiente) occupano due pesi ben diversi. In una società in cui la seconda ha il sopravvento, è innegabile notare un sentimento altamente negativo nei confronti delle autorità, e quindi della giustizia, unito ad un vero e proprio stimolo al laissez faire più o meno distruttivo.

In sostanza, assumendo dunque che è impossibile quantificare con esattezza qualcosa di fluttuante com’è il fenomeno criminale stesso, si evince l’impossibilità di una risposta, come si suol dire, nera o bianca. Tuttavia è possibile attuare un certo tipo di analisi per quanto riguarda la società che, salvo casi eccezionali, non smette mai di mutare la sua natura, anche davanti a situazioni apparentemente insignificanti. Lorenzo Di Salvatore

L’omertà? Non è una piaga del Sud. I risultati di una ricerca controcorrente. SAVERIO PALETTA e Lorenzo Terzi il 21 giugno 2018 su indygesto.com.

Secondo il team di studiosi napoletani guidato da Isaia Sales, il fenomeno è in calo grazie alle nuove politiche di sicurezza

Sud = Mafia = Omertà: una triade perfetta, un’equazione semplice, lineare e potente che ha condizionato e tuttora condiziona il discorso pubblico sulla criminalità organizzata.

Secondo questa superficiale ma diffusissima mentalità, le mafie non sarebbero il prodotto di particolari condizioni storiche e politiche. Esse, piuttosto, nascerebbero da una sorta di predisposizione genetica dei meridionali: costituirebbero, cioè, un problema di «luogo», di «cultura», o addirittura di «etnia». Va da sé che l’omertà, intesa ora come consenso e aperto sostegno, ora come silenzio partecipe di un’intera comunità ai valori mafiosi, è stata identificata quale prova dell’assenza di soluzione di continuità tra fenomeni criminali e società civile a Sud del Garigliano.

Ma è davvero così? L’omertà è veramente in grado di spiegare le difficoltà a debellare le mafie nel Sud Italia? O la compattezza monolitica con cui l’omertà viene riproposta, ormai da un secolo, come la madre di tutti i mali del Sud nasconde qualcosa d’altro? Essa è davvero condivisione dei valori mafiosi? O è uno stereotipo che nulla dice e ancor meno spiega circa le dinamiche reali della criminalità nel Mezzogiorno e in Italia?

Queste sono le domande poste da Antonio Fisichella, ricercatore della Fondazione Giuseppe Fava, e da altri studiosi (Simona Melorio, Simona Balbi, Maria Ausilia Simonelli, Annamaria Iaccarino, Federica Guadagnini ed Emmanuele Martino) nel volume Omertà: silenzio, paura ma non condivisione. I risultati di una ricerca sul campo, edito da Guida nel dicembre del 2017. La monografia raccoglie le conclusioni di un’indagine promossa dal Centro ReS Incorrupta dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e finanziata dalla Fondazione Polis-Politiche integrate di sicurezza per le vittime innocenti della criminalità e i beni confiscati, con la responsabilità scientifica di Isaia Sales. Questi – uomo politico, pubblicista, editorialista de Il Mattino e docente di Storia delle Mafie presso la Suor Orsola Benincasa – è anche autore dell’appassionata e documentata introduzione al libro, nella quale vengono sintetizzati ed esposti in forma efficacemente divulgativa i dati emersi dalla complessa ricerca.

L’intento iniziale, spiega Sales, è stato quello di verificare se corrisponde al vero il significato che la parola omertà ha assunto nel tempo, cioè «di una generale reticenza della popolazione dell’Italia meridionale, intesa come rifiuto a collaborare con la giustizia, come diffidenza e ostilità verso le forze dell’ordine, come connivenza collettiva e oggettiva con la criminalità anche di chi non ne fa parte». Il confronto tra le risposte fornite in assoluto anonimato dalle persone intervistate e i dati Istat riguardanti il numero dei reati e le denunce degli stessi alle autorità giudiziarie ha permesso di sfatare clamorosamente alcuni luoghi comuni che continuano a pesare come un macigno nell’immaginario collettivo sul Mezzogiorno e i suoi abitanti. Nelle zone di mafia, infatti, si riesce a scoprire autori di reato come e più che in altre realtà territoriali da sempre definite «virtuose» e per molto tempo ritenute «a-mafiose».

A tale proposito Simona Melorio, coordinatrice della ricerca per conto di ReS Incorrupta, commenta che l’omertà, lungi dal non esistere, è però certamente un attributo quasi inevitabile dei mafiosi, ma non dei meridionali: «Si può dire che esiste l’omertà, si può dire che le mafie, in quanto ‘consorterie segrete’, spingano i loro associati al silenzio che provano, attraverso la paura, a imporre anche al di fuori dell’associazione criminale, nel tessuto sociale viciniore, ma non si può dire certo che l’omertà, in quanto caratteristica intrinseca di una intera popolazione, paralizza la società civile».

D’altra parte, fa notare Sales, fino alle soglie degli anni Ottanta del Novecento il 99% dei processi ai mafiosi si risolvevano con il proscioglimento dei capi e con leggere condanne per i subalterni. Quasi sempre la formula giuridica impiegata era l’assoluzione per mancanza di prove: ed era appunto la mancanza di prove a dimostrare concretamente il potere di influenza dei mafiosi. La capacità di intimidazione delle cosche si manifestava anche nella spietata efficienza da esse dimostrata allorché si trattava di eliminare coloro che potevano nuocere, del tutto sproporzionata rispetto alla limitata capacità dello Stato di proteggere i potenziali testimoni.

La scelta del silenzio, dunque, non era e non è dettata da una presunta adesione a un codice d’onore, né è possibile attribuire a essa il significato di una condivisione dei valori mafiosi: è piuttosto il frutto amaro di un comportamento razionale in rapporto alle conseguenze nel caso si collabori con le forze dell’ordine.

«È del tutto evidente» conclude Sales «che se la violenza fosse stata stabilmente punita, non ci sarebbero state le mafie».

Negli ultimi decenni, peraltro, si è registrata una significativa inversione di tendenza: quando le istituzioni hanno realmente incoraggiato la collaborazione dei cittadini contro il crimine organizzato, i risultati sono arrivati. Fino a pochi anni fa, nessuno avrebbe potuto immaginare che i parenti delle vittime di mafia si sarebbero mobilitati in modo permanente, al punto da rappresentare uno stimolo quotidiano nella lotta contro i mafiosi, né che sulle mura di Palermo sarebbero comparsi manifesti con queste parole: «Un popolo che paga il pizzo non ha onore».

La società civile meridionale, dunque, ha ampiamente dimostrato di possedere nel proprio patrimonio morale quel «dovere di non aver paura» che Leonardo Sciascia poneva tra i fondamenti della sua «fede socratica» nella ragione, come ricorda Maria Ausilia Simonelli nel bel saggio finale dedicato al grande scrittore siciliano.

Lorenzo Terzi

 Saverio Paletta. Saverio Paletta, classe 1971, ariete, vive e lavora a Cosenza. Laureato in giurisprudenza, è giornalista professionista. Ha esordito negli anni ’90 sulle riviste culturali Futuro Presente, Diorama Letterario e Letteratura-Tradizione. Già editorialista e corrispondente per il Quotidiano della Calabria, per Linea Quotidiano e L’Officina, ha scritto negli anni oltre un migliaio di articoli, in cui si è occupato di tutto, tranne che di sport. Autore di inchieste, è stato redattore de La Provincia Cosentina, Il Domani della Calabria, Mezzoeuro, Calabria Ora e Il Garantista. Ha scritto, nel 2010, il libro Sotto Racket-Tutti gli incubi del testimone, assieme al testimone di giustizia Alfio Cariati. Ha partecipato come ospite a numerose trasmissioni televisive. Ama il rock, il cinema exploitation e i libri, per cui coltiva una passione maniacale. Pigro e caffeinomane, non disdegna il vino d’annata e le birre weisse. Politicamente scorretto, si definisce un liberale, laico e con tendenze riformiste. Tuttora ha serie difficoltà a conciliare Benedetto Croce e Carl Schmitt, tra i suoi autori preferiti, con i film di Joe d’Amato e l’heavy metal dei Judas Priest. 

Manduria: nuova vittima della gogna mediatica”. Azione Liberale, giovane movimento politico nazionale, attraverso il suo presidente, l’avv. Mirko Giangrande, l'1 maggio 2019 si esprime riguardo alla gogna mediatica di cui è vittima la cittadinanza di Manduria, a seguito della morte di Antonio Cosimo Stano. “Negli ultimi giorni nelle case degli italiani è entrata la follia. La follia di un gruppo di ragazzini, molti di buona famiglia, che, in stile “Arancia Meccanica”, ha perseguitato e pestato Antonio Cosimo Stato, un sessantaseienne di Manduria (TA), fino, molto probabilmente, a causarne la morte. Una follia irrazionale ed immotivata, posta in essere solo per puro divertimento e passatempo. Ma al peggio non c’è mai fine. Alla follia si aggiunge follia. Ecco che, puntuale, arriva la gogna mediatica. Noi Avetranesi la conosciamo bene. Incurante di qualsiasi etica, si abbatte sulle cittadine, specie quelle del sud. Manduria sta per entrare nella “lista nera” delle località italiane. È iniziata la fase dell’omertà e si finirà con la complicità. Si addita un’intera cittadina (quasi 35.000 abitanti) come omertosa: come facevano a non sapere? A questa accusa noi non ci stiamo! Quante volte, nel periodo dell’omicidio Scazzi, ce lo siamo sentiti ripetere. Ma che significa? Le persone che erano a conoscenza della situazione (i vicini, il parroco) hanno parlato, hanno agito. Esatto, loro. E le istituzioni? Sarà forse che con l’invenzione dell’omertà si voglia far ricadere sull’ignara cittadinanza le colpe di chi, a livello istituzionale, doveva (ripeto, doveva) intervenire? Ma poi, pur ammettendo il fatto che tale situazione persecutoria fosse veramente di dominio pubblico, è mai possibile che la voce sia arrivata alle orecchie di tutti tranne a quelle di chi doveva intervenire? E’ chiaro, quindi, che dietro al già inquietante fatto di cronaca si nasconde uno sciacallaggio mediatico e giornalistico, mirante a farne di Manduria la cornice omertosa, vile e arretrata. Le istituzioni, i cittadini, la società civile fa ancora in tempo a ribellarsi e a non subire passivamente ciò che Avetrana ha subito quasi dieci anni fa. Altrimenti rimarrà negli annali non come la capitale della Messapia, la Terra del Primitivo, la custode di chilometri di spiagge e mare cristallino ma come un’accozzaglia di vili ed omertosi che ha lasciato morire un pover’uomo, in balia delle angherie di un gruppetto di piccoli delinquenti.” Avv. Mirko Giangrande Presidente di Azione Liberale

Caro Domenico Sammarco, presidente della Proloco, la tua “lettera aperta”, indirizzata alle istituzioni che avrebbero infangato Manduria e i manduriani, è indirizzata solo ai due procuratori. Non manca un altro destinatario che prima di loro lo avrebbe fatto? Come mai ti è sfuggito? Nazareno Dinoi. La Voce di Manduria giovedì 2 maggio 2019.

Antonio Cosimo Stano. Manduria tra gogna mediatica ed ignominia.

I Manduriani ed i loro giornalisti provano sulla loro pelle cosa sia la gogna della vergogna.

Il commento dello scrittore Antonio Giangrande, che tra le altre cose ha scritto il libro “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana”.

Devo dire che a meno di 9 anni di distanza le frasi “omertà del paese”, “tutti sapevano”, sono atti di accusa per un intero territorio e risuonano per tutta Italia per mano di scribacchini che, venuti da lontane sponde, nulla sanno della verità, se non quella filtrata da veline giudiziarie. La denigrazione del paese di origine dei responsabili meridionali di un reato è la pena accessoria di cui tenere conto.

Devo dire che, scartando la gogna di giornalastri forestieri, è proprio dalla medesima Manduria che son venuti attacchi alla stessa Avetrana, quando vi fu l’aggressione con conseguente morte di Salvatore Detommaso, ovvero vi fu il mediatico omicidio di Sarah Scazzi.

«Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti». Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. Lo stesso Dinoi continua con la solita litania anche il 29 marzo 2016: «Il bruttissimo episodio è ora materia degli investigatori dell’Arma che stanno incontrando difficoltà a raccogliere testimonianze dei presenti. Sino a ieri il maresciallo Fabrizio Viva che comanda la stazione di Avetrana ha sentito diverse persone che erano presenti nelle vicinanze, ma nessuno di loro ha detto di ricordare o di aver visto niente. Un atteggiamento omertoso che ha spinto gli amministratori pubblici e il parroco a lanciare appelli a parlare (di questo parliamo a parte). I militari hanno già ritirato le registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei punti commerciali della zona, ma nessuna di loro era puntata sulla zona dell’aggressione. Un testimone che avrebbe visto tutto, avrebbe detto di aver visto delle persone fuggire a bordo di una piccola utilitaria di colore scuro di cui non ricorda la marca. Ancora poco per dare un nome e un significato a tanta violenza.» A quell'ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia.

Chi fa la professione di giornalista dovrebbe sapere che i curiosi, accorsi in massa, non possono essere definiti testimoni. Non si può parlare di omertà se la stessa vittima non ha potuto fornire notizie utili alle indagini, né tanto meno si può parlare di indagini. Le indagini vengono svolte alla notizia di reato e, a quanto pare, al momento del fatto il reato palesato (lesioni) era perseguibile per querela, che non vi è stata. E comunque l’indagine fatta bene, anche successivamente attivata per querela o denuncia per fatto più grave, i responsabili li trova.

Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale.

Nazareno Dinoi, amico dei magistrati di Taranto è direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi e non me ne spiego l'astio. Gli amministratori locali e la loro opposizione, poi, non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.

«La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più - scriveva già il 29 luglio 2015 il nostro Dinoi - Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.»

Detto questo sui corsi e ricorsi storici ed a discolpa dei manduriani andiamo ad analizzare i fatti.

«Chiederemo pene esemplari. Siamo di fronte a una violenza senza limiti». Lo ha detto al Tg1 il procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo in merito alle aggressioni subite da Antonio Cosimo Stano da ragazzini tra i 16 e i 23 anni, tutti di Manduria. «L’intervento è stato tempestivo ma sarebbe stato ancora più tempestivo se chi sapeva avesse avvisato prima le forze dell’ordine – ha aggiunto – Saremmo intervenuti in tempo e oggi Stano sarebbe ancora vivo».

«Se i bulli invece che con quel pover’uomo se la fossero presa con un cane, ci sarebbe stata la rivolta popolare. E invece tutti zitti, in un silenzio assordante che oggi mi lascia amareggiato. Quanto subiva Stano è stato chiuso e isolato in una casa, in una strada, in una comunità: un essere umano che abitava davanti a una parrocchia lasciato solo. Il prete ha detto di essere intervenuto più volte, ma perché non ha segnalato subito ai servizi sociali?». E' lo sfogo, forte e appassionato, del prefetto Vittorio Saladino, uno dei tre commissari prefettizi di Manduria che, all’AdnKronos, parla di un "silenzio assurdo" che ha avvolto e cullato la brutalità delle aggressioni subite nel tempo. «Stano era sconosciuto ai servizi sociali perché nessuno, per quanto ne dicano oggi, ha mai fatto segnalazioni - aggiunge - La cosa strana è che il soggetto era preso di mira da tanto tempo e nonostante questo anche il responsabile dei servizi sociali ne era all’oscuro. Manduria tra l’altro è capofila nell’efficienza dei servizi sociali, è un paese ricco tra i primi posti di quelli con cittadini risparmiatori, preso di mira da turisti inglesi e tedeschi». Nessuna giustificazione, dunque, e l’annuncio: «Alla manifestazione di sabato 4 maggio per la legalità - ha detto Saladino - parteciperemo con il gonfalone come Commissione straordinaria. Le colpe le ha una comunità distratta, chiusa, coi giovani bombardati dai media e da episodi negativi. Come si fa a rendere oggetto di gioco un uomo, un soggetto indifeso?».

Allora, Chi mente?

Silvia Mancinelli 27 aprile 2019 Adnkronos. I vicini avevano segnalato, si erano rivolti alle forze dell’ordine per denunciare i soprusi, subiti troppo spesso da Antonio Cosimo Stano. La prova è in un esposto presentato al commissariato di Manduria e firmato da 7 residenti di via San Gregorio Magno, la stessa strada dove viveva il 66enne, e da don Dario. “Da alcune settimane, durante le ore serali e le prime ore del mattino – si legge in una prima denuncia – si stanno verificando diversi episodi di atti illeciti commessi da ignoti (circa 5/6 persone) a danno del signor Antonio Cosimo Stano”. “Nello specifico – si legge ancora – segnaliamo continui e reiterati danneggiamenti che tali ignoti stanno perpetrando a danno dell’abitazione (…) con lancio di pietre e oggetti vari al prospetto dell’abitazione e dando calci e colpi diretti alla porta d’ingresso e agli infissi della medesima casa”. Secondo quanto denunciato dai residenti, la vittima aveva confessato loro quanto stava subendo: “Il signor Stano, da quanto ci ha riferito, ha subito altresì vessazioni, soprusi e lesioni anche fisiche da parte di questi soggetti, i quali in una occasione sono anche riusciti a introdursi in casa. Tale condotta illecita, lesiva della sicurezza e della quiete pubblica, cagiona, inoltre, stati d’ansia, malessere e agitazione soprattutto nei minori residenti nel vicinato”. “In piena notte sentivamo urlare. Erano grida strazianti, terribili. La sera tardi e in piena notte. Mia moglie e con lei altri 7 residenti di via San Gregorio Magno e don Dario, ha così presentato l’esposto, per paura soprattutto, ma anche per tutelare quel povero Cristo”. A raccontarlo all’Adnkronos è Cosimo, che abita due cancelli più avanti rispetto all’abitazione di Stano, al civico 8. “Non tutti hanno voluto firmare, ma noi non ce la siamo sentita di restare inermi”.

Cesare Bechis, Giusi Fasano su Corriere.it. 26 aprile 2019.  Era un uomo malato, Antonio. La sua mente era confusa e tutti, in paese, lo conoscevano come «il pazzo», «quello del Villaggio del fanciullo», dal nome dell’oratorio della chiesa di San Giovanni Bosco che sta proprio di fronte a casa sua. Dicono che fosse in cura al Centro di igiene mentale ma di fatto era abbandonato a se stesso, non seguito dai servizi sociali, come avrebbero richiesto le sue condizioni, né aiutato nella sua vita quotidiana dai parenti che vivono a un passo da lui. Si manteneva con la pensione che si era guadagnato lavorando all’arsenale di Taranto come operaio e tutti, a Manduria, sapevano che ormai da molti anni passava gran parte del suo tempo a coltivare la sua solitudine, aiutato in questo dalle sue condizioni psichiche. Le segnalazioni sono arrivate, ai servizi sociali. Ma lui è rimasto a casa sua, nella sporcizia e nell’indifferenza, sempre più isolato dal mondo. E i bulli hanno capito che era un bersaglio facile. Lo hanno preso di mira e lo hanno vessato senza pietà. I vicini di casa vedevano le bande arrivare, non sempre le stesse. L’ultima volta, prima di quel 6 aprile, dev’essere stata più dura del solito. Perché quando «quelli» se ne sono andati lui si è chiuso in casa e non è più uscito. Niente spesa, niente cibo, niente di niente pur di non incrociarli mai più. I vicini non l’hanno visto uscire e hanno avvisato la polizia. Gli agenti si sono appostati lì fuori nel tentativo di sorprendere qualcuno dei ragazzini ma quel giorno non si è visto nessuno e alla fine la parte più difficile dell’intervento è stato convincere lui, Antonio, ad aprire la porta per lasciarsi aiutare. Da allora in poi è stato in ospedale fino al giorno della morte, con gravi problemi fisici oltre quelli mentali.

Nazareno Dinoi La Voce di Manduria venerdì 26 aprile 2019. Il povero Stano, insomma, era diventato (e così lo chiamavano nel branco), «il pazzo del Villaggio del fanciullo», dal nome dell’oratorio e della chiesa di San Giovanni Bosco situato proprio di fronte alla sua abitazione. La notizia degli indagati sta scuotendo le coscienze dei manduriani che si interrogano sul «come sia potuto accadere». Molto significativo è l’intervento di un educatore della parrocchia in questione, Roberto Dimitri che su Facebook ha pubblicato un lungo intervento che prova quanto le vessazioni e le violenze su Stano fossero conosciute da molti. Nel descrivere «un tessuto sociale che si sta deteriorando sempre di più», l’educatore confida le sue difficoltà di interagire con i ragazzi e poi ammette: «personalmente – scrive - ho ripreso tante volte i ragazzi che bullizzavano il signore, chiamato le forze dell'ordine e chiamando i genitori, ma senza risultati.

Il Fatto Quotidiano. 29 Aprile 2019. Le aggressioni duravano da almeno sette anni, secondo i vicini: uno dei video sequestrati dalla procura risale al 2013. Eppure, stando a quanto emerso finora, nessun segnale è arrivato alle autorità su Stano, conosciuto in paese come “il pazzo del Villaggio del fanciullo”, in riferimento al nome dell’oratorio di fronte casa sua. “Mai ci è arrivata, né formalmente né informalmente, fosse almeno in maniera anonima, alcuna segnalazione su Antonio Cosimo Stano”, riferisce Raffaele Salamino, responsabile dei servizi sociali del comune di Manduria. “Sarebbe bastata una chiamata – aggiunge – e un assistente avrebbe preso in carico la cosa, coinvolgendo il servizio di igiene mentale”. Un anno e mezzo fa gli operatori del 118 intervennero su segnalazione della polizia davanti alla casa di Stano. L’uomo era a terra, con delle ferite alla testa. Forse, anche in quel caso, era stato preso di mira dai ragazzini. Il 66enne venne medicato sul posto perché, vinto dal paura, rifiutò il trasporto in ospedale.

Quindi già un anno e mezzo fa le istituzioni avevano conoscenza dei fatti e non sono intervenuti. Allora perché si continua a nascondere una omissione di atti di ufficio ed accusare la cittadinanza ed il clero di omertà?

A due anni dalla morte di Sarah Scazzi Don Dario De Stefano sul suo profilo facebook il 25 agosto 2012 ha annunciato il suo trasferimento alla parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Avetrana in segno di disapprovazione ha reagito. Una raccolta di migliaia di firme tenta di far smuovere il vescovo di Oria dalla sua decisione di trasferire Don Dario De Stefano, il parroco della parrocchia Sacro Cuore di Avetrana. Sua destinazione la parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Don Dario va via, viva Don Dario e fortunati quei manduriani che lo avranno come parroco. Non è una nota stampa, né un commento ad un fatto di cronaca, ma un ringraziamento pubblico a Don Dario De Stefano, parroco della parrocchia del Sacro Cuore di Avetrana e futuro parroco della parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Lo faccio io che dovrei essere l’ultimo a farlo, in quanto molto cristiano sì, ma poco frequentante le chiese. Anche se non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Eppure non frequento molto la sua casa perché si accompagnano a Gesù in quei posti cattive compagnie. Laici peccatori che sulle panche consacrate sembrano angioletti che con un piccolo obolo si lavano la coscienza od usano le amicizie ivi coltivate a fini elettorali. E’ vero: il parroco raccoglie le pecorelle smarrite, ma mi trovo in disagio a frequentare interi greggi di ovini smarriti. Don Dario è un personaggio votato alle iniziative sociali, ma non alle lotte sociali. Eppure sono convinto che Don Dario, nonostante abbia nessun rapporto con me, merita di essere ringraziato. Una mia poesia dialettale contiene queste strofe: 

“Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè quistu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.”

Bene! Don Dario al suo arrivo era un giovane di Oria ambizioso, tenace, diplomatico fino ad un certo punto e con tanta voglia di fare. Io che guardo l’aspetto materiale, ossia i fatti, elenco alcune delle sue opere che resteranno alla storia sua e di Avetrana. Opere che vanno oltre la competenza parrocchiale, di cui tutta Avetrana ne ha tratto benefici: il rinnovo della sua chiesa e la costruzione del campanile, l’oratorio dove i giovani si educano e passano il loro tempo libero; i campi scuola; “il presepe vivente”; “la grande calza della Befana”; la squadra di calcio di Avetrana; la festa compatronale di Sant’Antonio; “Certe notti qui…”, ossia la “Notte Bianca”: evento agostano dove Avetrana per una notte è invasa dai turisti estasiati da decine di piccole e grandi manifestazioni culturali, culinarie, musicali, ecc…Non dimentichiamoci che ha gestito anche le funzioni religiose per la povera Sarah Scazzi ed avrebbe potuto fare di più se non fosse che la madre di Sarah è dei Testimoni di Geova ed il vescovo ha evitato inutili polemiche con nuove iniziative in suo ricordo. Questo è solo piccola cosa di quanto lui abbia fatto per la sua parrocchia e per tutta Avetrana. Non è stato facile per Don Dario fare tutto ciò in un piccolo paese con piccole vedute, molte maldicenze e con il braccino corto, specie da parte degli imprenditori che fanno affari con gli eventi organizzati da Don Dario.

Non sono mancati sin dall’inizio tra i suoi fedeli fazioni contrarie che spinte da gelosie prima hanno cercato di allontanarlo, per poi, non riuscendoci si sono allontanati loro stessi. Così come Don Dario è stato frenato e si è scontrato con degli amministratori poco illuminati e spesso incapaci a sostenere le sue o le altrui iniziative. Così come è stato vittima dei contrasti politici tra le avverse fazioni.

Intanto, a parità di fondi finanziari gestibili, ha fatto più Don Dario (orietano) in nove anni che tutti i politici avetranesi messi insieme per tutta la loro vita. Lui ha tirato dritto. Si è accompagnato con giovani fidati che lui stesso ha cresciuto. (In nove anni i bambini diventano ragazzi). Naturalmente lui ha i suoi pregi, ma anche i suoi inevitabili difetti, che sono infimi e non si notano pensando alla sua instancabile operosità. Avetrana perderà un attivissimo parroco, nella speranza che il nuovo, con la scomoda eredità, non lo faccia rimpiangere. Ecco perché a lei ed ai suoi lettori, per i passati di Don Dario posso dire: Don Dario va via, viva Don Dario e fortunati quei manduriani che lo avranno come parroco. E pensate un po’ cosa sarebbe una diocesi guidata da gente come lui…….. 

Il parroco di Avetrana che, come spiega Nazareno Dinoi su “La Voce Di Manduria”, smaschera i difensori “preventivi”. Don Dario De Stefano è furioso. Qualcuno gli ha fatto leggere il suo nome su un articolo che lo indica come colui che ha segnalato alla famiglia Misseri, per la difesa di Sabrina, l’avvocato del foro di Taranto, Vito Russo. «Io ho consigliato chi? Assolutamente no. Non conosco questo avvocato», commenta il sacerdote visibilmente contrariato.

Rilegge la notizia e la pressione gli alza. «Ecco un’altra delle cose che non mi piacciono di questa storia, ormai non se ne può più», sospira don Dario il cui volto è stato tra quelli più diffusi nei primi giorni della scomparsa di Sarah Scazzi. Da qualche settimana però, il parroco di Avetrana, fugge ai mezzi d’informazione perché, si dice, la curia vescovile di Oria ha consigliato di tenersi lontano dal circolo mediatico. Non può però tacere o celare la rabbia e, seppure con molto risparmio di parole, si lascia sfuggire dei commenti.

«Come si chiamerebbe questo avvocato? Russo? E di dov’è, chi lo ha mai conosciuto?». Il nome e il volto del legale, ben noto oggi grazie alle trasmissioni televisive, era saltato fuori all’improvviso la mattina del 15 ottobre quando la villa dei Misseri fu circondata dai carabinieri del Ris, inquirenti e investigatori che indagano sulla morte della quindicenne. Via Deledda fu dichiarata off limit e a nessuno fu consentito avvicinarsi al luogo delle operazioni.

Nemmeno all’avvocato Russo che con la sua grossa auto fu invitato da un carabiniere ad attendere poco distante da lì. Qualche giornalista lo riconobbe così il suo nome cominciò a circolare senza che nessuno riuscisse a spiegarsi la ragione della sua presenza.

Anche l’avvocato Daniele Galoppa, il giorno dopo, difensore della controparte, Michele Misseri, si chiedeva come mai il suo collega il giorno prima si trovasse a venti metri da via Deledda se Sabrina, sua futura assistita, non era stata nemmeno interrogata né poteva sapere che dodici ore dopo sarebbe stata addirittura arrestata per la confessione del padre che coinvolgeva nel delitto. In effetti fu lo stesso avvocato Russo, successivamente, a dichiarare pubblicamente che la sua venuta ad Avetrana era stata caldeggiata dal suo «amico don Dario». Il religioso, però, è pronto a smentire.

«Per favore non mi mettete in mezzo a queste cose, per questi comportamenti mi rifiuto di rilasciare interviste, questo modo di fare non mi piace proprio». E non che le richieste siano poche. «Sto dicendo di no a tutti e mi dispiace perché per colpa di pochi debbano patire tutti», afferma don Dario che torna sull’argomento.

«Questa notizia dell’avvocato o è una sua invenzione o un’invenzione del giornalista». L’avvocato Russo, informato del risentimento del parroco, spiega meglio e raddrizza il tiro. «Come? Don Dario non mi conosce? Ho qui i tabulati di due telefonate che personalmente gli ho fatto il giorno prima il mio arrivo ad Avetrana», informa il legale non spiegando, però, il contenuto e il tono di quelle conversazioni».

Si accusa una comunità di omertà. Perche? Perché è molto facile accusare una comunità di omertà. Ma non è omertà, è solo assuefazione al disservizio. Perché, come è ampiamente dimostrato, ma non dai media asserviti al potere, è inutile denunciare: o le indagini si insabbiano o i responsabili restano impuniti.

Questa è l’Italia e tutti lo sanno, ma fanno finta di ignorarlo.

Omertà! Omertà! Ergo: tutti mafiosi.

Una dissertazione dedicata ai giornalisti di cronaca nera che raccontano il meridione d’Italia.

L’uso dell’intercalare rende l’idea dello stato d’animo di un meridionale che si sente diffamato su ogni articolo o servizio tv.

Gli spocchiosi ed ignoranti giornalisti del nord, o quei pennivendoli rinnegati meridionali, vanno a fare domande nel cazzo alla gente del Sud.

Gli intervistati li ignorano o li sbeffeggiano.

I cronisti di rigetto parlano di omertà.

Cosa ne sanno i pennivendoli e startv, inviati sul posto, della reticenza.

Ignoranti non conoscono i pettegolezzi paesani.

Qui la gente non è reticente o omertosa.

La gente qua parla e sparla sempre, altro che omertà. La notizia, vera, falsa o alterata/ingrossata è sulla bocca di tutti. Dalle comari, in visita ai vicini, ai loro mariti, fino alle orecchie di parroci e carabinieri ed infine il Sindaco. Tutto si mostra e si sputtana in piazza, senza alcun timore. Perché nel meridione ancora esistono le piazze come punto di ritrovo sociale. Il detto comune, appunto, per legittima difesa contro le malelingue è: fatti i cazzi tuoi!

Che puntualmente non avviene.

Nessuno si nasconde dietro la tenda della finestra a sbirciare i fatti del vicino ed a delare nell’anonimato alle autorità.

Nulla è segreto.

Che ne sanno i pennivendoli, loro che vivono in casermoni e che non conoscono i loro dirimpettai.

La nostra, gente del sud, non è omertà.

O abbiamo da lavorare, nonostante quello che al nord pensano, e non abbiamo tempo da perdere in chiacchiere o in innumerevoli citazioni di testimonianze nei tribunali per udienze rinviate per una malfunzionante giustizia.

O abbiamo il timore di passare da carceriere a carcerato per una parola fuoriposto usata dalla giustizia contro di noi.

Oppure non ci piace essere presi per il culo con domande del cazzo da giornalisti improvvisati in cerca di notorietà per un immeritato scoop.

Oppure, semplicemente, non sappiamo, perché, come tutti, viviamo in casa nostra e non in quella degli altri.

Quindi, anziché mandarli affanculo platealmente, educatamente preferiamo il silenzio.

E’ educazione, non è omertà!

Ce l’hanno tutti con il Sud e le sue genti! Verità o vittimismo? Antonio Giangrande

“Giornalisti, mafiosi ed omertosi siete voi!”

Quando il rigurgito del brodo primordiale dell’ignoranza produce conati di vomito di razzismo.

Un fatto di cronaca diventa lo stimolo per condannare una comunità.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.

Il giornalista per essere tale deve essere abilitato: ossia deve essere conforme ed omologato ad una stessa linea di pensiero.

E’ successo ad Avetrana dove i pennivendoli a frotte si son presentati per dare giudizi sommari e gratuiti, anziché raccontare i fatti con continenza, pertinenza (attinenza) e verità. Hanno estirpato dichiarazioni a gente spesso non del posto e comunque con una bassa scolarizzazione, o infastidita dalla loro presenza, cestinando le testimonianze scomode per il loro intento. Certo è che a Brembate di Sopra, per il caso di Yara Gambirasio, hanno trovato impedimento alle loro scorribande per la meritoria presa di posizione del sindaco del luogo.

E’ successo a Melito Porto Salvo dove il fatto di cronaca è divenuto secondario rispetto all’intento denigratorio dei pseudo giornalisti, sobillato dai soliti istinti razzisti di genere o di corporazione o di interesse politico. E certo, che come a Mesagne per la vicenda di Melissa Bassi, dove la mafia era estranea, non poteva mancare l’intervento di “Libera” per dare una parvenza di omertà e ‘ndranghetismo sulla vicenda. Non c’è migliore visibilità se non quella di tacciare di mafiosità una intera comunità.

Nel render conto della vicenda nei miei libri sociologici ho avuto enorme difficoltà, fino all’impossibilità, a trovare un pezzo che riportasse la testimonianza di tutte quelle persone per bene di Melito, assunte tutto ad un tratto, dalle penne malefiche e conformi, a carnefici di una ragazzina.

Il tarlo che pervade i pennivendoli è sempre quello: MAFIA ED OMERTA’.

Eppure il sindaco di Melito ha espresso totale solidarietà alla 13enne abusata e ciononostante non poteva non difendere il suo paese e la sua comunità, cosa che a Mesagne ed ad Avetrana non è successo. “Nel paese c’è una parte di omertà e una parte di ‘ndrangheta ma il paese non è tutto ‘ndrangheta e non è tutto omertà, nel paese c’è una parte sana che è la stragrande maggioranza”. Così il sindaco di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, commenta le polemiche che si sono scatenate intorno alla vicenda della ragazza vittima di violenza sessuale di gruppo. Libera, nei giorni scorsi, ha organizzato per la ragazza una fiaccolata a cui però hanno partecipato poche persone. “Alla fiaccolata, è vero, ha partecipato solo il 10% della popolazione, io avrei gradito una presa di posizione forte ma non posso condannare chi non se l’è sentita di venire, devo rispettare la volontà di ognuno”, ha detto il sindaco. Quello che è successo, ha sottolineato il primo cittadino, “è la cosa peggiore accaduta nella storia melitese in assoluto, da parte mia c’è una ferma e piena condanna e totale solidarietà alla ragazzina. La cosa principale adesso è salvaguardare il suo interesse con ogni forza e ogni mezzo. Come sindaco e come genitore mi sento corresponsabile per quello che è accaduto e in questa vicenda ci sono responsabilità di tutti, la scuola, la chiesa, la società civile – ha aggiunto – Tutti ci dobbiamo interrogare”. “Adesso quello che posso fare è spendermi per vedere cosa si può fare per la ragazza – ha detto il sindaco – ho già fatto la delibera di indirizzo per la costituzione di parte civile quando si farà il processo. Ci siamo impegnati per sostenere le spese legali. L’indirizzo è quello di aiutare la famiglia. I ragazzi che hanno causato questa situazione vanno condannati a prescindere, quello che è stato fatto è inimmaginabile ma auguro loro un futuro migliore e apro loro la porta del perdono”.

Questa presa di posizione ai pennivendoli è di intralcio. Su “Stretto web” del 13 settembre 2016 si legge. “Il Comitato di redazione della Tgr Calabria, in una nota a firma dei suoi componenti, Livia Blasi, Gabriella d’Atri e Maria Vittoria Morano, “respinge con forza – è detto in un comunicato – gli ingiustificati e reiterati attacchi da parte del primo cittadino di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, al servizio pubblico, colpevole, a suo dire, di sciacallaggio mediatico. Il riferimento è al modo in cui il nostro giornale avrebbe trattato la vicenda di abusi e violenze di gruppo ai danni di una ragazzina”. “In particolare, in occasione della marcia silenziosa organizzata da Libera – aggiunge il Cdr – dal palco, il sindaco ha fortemente criticato i servizi realizzati sul caso dalla Tgr Calabria sostenendo: “Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi”, come riportato anche dall’inviato de “La Stampa”, Niccolo’ Zancan, autore di un reportage pubblicato in data 11 settembre sul quotidiano torinese. Testimone degli attacchi, il service per le riprese “Bluemotion”, nella persona della nostra collaboratrice Giusy Utano, presente alla fiaccolata per conto della Tgr Calabria e alla quale va tutta la nostra solidarietà”. “La posizione assunta dal primo cittadino di Melito – è detto ancora nella nota – ci colpisce e ci sorprende. La Tgr Calabria, infatti, come testimoniano i servizi andati in onda e visionabili sul sito on-line della testata, ha trattato sin dal primo momento il caso con tutte le cautele possibili, nel rispetto sia della vittima che dei suoi presunti carnefici. Nostra volontà, inoltre, è stata quella di raccontare di una comunità ferita e darle voce e questo abbiamo fatto. Ne è emerso un contesto assai complesso in cui non sono mancati atteggiamenti di chiusura, di condanna, di riflessione ma anche di vicinanza e solidarietà ai ragazzi del branco. Fedeli al dovere di cronaca, abbiamo “fatto parlare” le immagini e dato spazio alle diverse testimonianze raccolte. Pertanto, non crediamo che questo corrisponda a denigrare la comunità di Melito. D’altronde, lo stesso Sindaco, ai nostri microfoni, ha sottolineato come nella vicenda tutti abbiano la loro parte di responsabilità. “Sono mancate – ha detto – la famiglia, la scuola, la chiesa, la società’ civile, la politica, le associazioni sportive. Nessuno può dirsi esente da responsabilità. Tutti dobbiamo recitare un mea culpa’”. “A questo punto – conclude il Cdr della Tgr Calabria – ci chiediamo, qual è l’offesa da noi arrecata alla comunità di Melito? E’ evidente che non ne abbiamo alcuna in una vicenda di per sè talmente dolorosa da essere capace, da sola, di scuotere l’opinione pubblica e sollecitare non poche riflessioni”.

L’offesa più grande arrecata alla comunità non è quello che si è voluto far vedere, anche artatamente, istigando i commenti più crudeli e sprezzanti su di essa, ma quello che si è taciuto per poter meglio screditarla. L’omertà è in voi, non nei Militesi. Avete omesso di raccontare quel paese pulito con una comunità onesta, coinvolta inconsapevolmente in una cruda vicenda. Ecco perché non ci dobbiamo meravigliare di trovare e leggere solo articoli fotocopia con un fattore comune: ’Ndrangheta ed omertà. Lo stesso atteggiamento avete avuto con Avetrana. Sembra un film già visto.

Cari giornalisti, parlare di un semplice fatto di cronaca come quello contemporaneo di Tiziana Cantone, suicida per il video hot nel napoletano, senza coinvolgere la Comunità locale? Non ce la potete proprio fare? Godete ad infangare le comunità del sud? E che soddisfazione si trae se a scrivere nefandezze è proprio quella gente del sud che condivide territorio, lingua, cultura, tradizioni, usi di quella stessa gente che denigra?

Un’ultima cosa. In queste stravaganti e bizzarre liturgie delle fiaccolate che servono per far sfilare chi è in cerca di notorietà io non ci sono mai andato: a Mesagne ed a maggior ragione ad Avetrana, perché cari giornalisti: mafiosi ed omertosi siete voi ed io dai mafiosi mi tengo lontano!”

Dr Antonio Giangrande

L’esempio di Don Peppe Diana, che predicava la legalità contro la camorra. Il sacerdote di Casal di Principe, ucciso nel 1994, fece sue le parole di condanna usate 40 anni fa dai vescovi campani contro la criminalità organizzata. E non abbassò lo sguardo. Nicola Graziano su L’Espresso il 16 gennaio 2023.

Si girò di scatto al suono acre delle parole del sicario e non ebbe nemmeno il tempo di capire che, immediatamente, cinque violentissimi colpi fecero versare sangue nella sacrestia della sua chiesa a Casal di Principe. Erano trascorsi quasi dodici anni da quando la Conferenza episcopale campana, nel 1982, aveva diramato un duro documento contro la camorra. E forse la colpa di don Peppe Diana era stata anche quella di riprendere, assieme ai sacerdoti della Forania di Casal di Principe, il contenuto di quel documento dal titolo “Per amore del mio popolo non tacerò”.

Uccidendo don Diana si volle colpire chi, con i fatti e il coinvolgimento dei giovani, denunciava continuamente il disfacimento delle istituzioni civili, che consentiva l’infiltrazione del potere camorristico, chiedendo un’analisi sul piano culturale, politico ed economico capace di abbattere il muro di omertà e silenzio che in quegli anni si ergeva nell’intero Agro aversano.

Erano anni cupi quelli in cui la faida interna alla camorra aversana germogliava morti ammazzati per il controllo delle estorsioni e delle tangenti, che creava facile ed effimera ricchezza attirando i giovani in balia di una disoccupazione galoppante.

Sono passati 40 anni dal documento della Conferenza episcopale campana e per celebrare tale decorrenza quest’ultima, presieduta da monsignor Antonio Di Donna, si è nuovamente riunita ad Aversa.

Ancora una volta — davanti a un fenomeno criminale che ha completamente modificato il modo di atteggiarsi scegliendo di non mietere più vittime per strada, ma di praticare percorsi d’infiltrazione criminale nelle istituzioni, gestendo fette di economia e appalti in tutto il Paese — la Chiesa si interroga sulla dimensione sociale della fede e sulla necessità di tener presente che per essere buoni cristiani non ci può essere distanza dai peccati contro la giustizia quali l’evasione fiscale, la facile corruzione, l’assenza dello spirito di servizio negli operatori sociali, l’indifferenza verso il bene comune.

È un nuovo appello, un rinnovato grido di dolore che la Chiesa rivolge al suo interno e al suo esterno, consapevole però di non poter supplire a un necessario impegno di tutti, dalla società alle istituzioni, dalla politica alla scuola, dalle famiglie alla magistratura.

Sulla mia pelle di cittadino dell’Agro aversano ho imparato che non vi è possibilità di lasciare vuoti, per cui è il quotidiano impegno di tutti che diventa motore propulsivo per superare il silenzio e l’indifferenza verso il male criminale.

Se vogliamo tenere a distanza queste nuove e pericolose iniziative criminali è necessario continuare il lavoro incessante di contaminazione dei giovani con valori di legalità diffusa, il che significa predicazione laica dei diritti fondamentali su cui si basano la Libertà e la Bellezza.

Una predicazione nelle scuole, nelle università, nelle associazioni, nella politica, nelle famiglie che possa generare quel senso di appartenenza al bene comune che, se non protetto, viene stritolato nel malaffare criminale.

Ancora una volta la Chiesa si interroga e ci interroga. A noi spetta dare una risposta perentoria e immediata sulla scia della continuità di quanti hanno scelto di non abbassare lo sguardo e lottare per il Futuro della nostra terra e delle nuove generazioni.

La sfilata dei testimoni.

L’amante segreta di Messina Denaro: «Ci siamo visti, non sapevo fosse lui». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2023.

Incontri fino a pochi giorni prima del blitz. In molti dagli inquirenti per paura di essere coinvolti. Nell'ultimo covo del boss 5 diversi documenti di identità, intestati ad altrettante persone

È andata dagli investigatori dopo aver visto la foto dell’uomo che ha frequentato per mesi. «Non avevo idea della sua vera identità, a me si è presentato con un nome diverso. Non potevo sapere che fosse Matteo Messina Denaro».

Parla con gli inquirenti la donna che ha avuto una relazione con il capomafia arrestato due settimane fa a Palermo, dopo 30 anni di latitanza. E racconta una storia d’amore come tante, se non fosse per il protagonista maschile.

La testimone si è presentata spontaneamente dopo essersi resa conto — ha detto — che il suo amante era il capomafia di Castelvetrano. La coppia si sarebbe vista fino a pochi giorni prima del blitz a casa di lui, l’appartamento di vicolo San Vito, a Campobello di Mazara, in cui il boss ha trascorso l’ultimo periodo da uomo libero, il covo in cui gli inquirenti hanno trovato documenti, telefoni e pizzini.

Assicura di non aver mai nutrito sospetti, parla dell’ex amante come di un uomo gentile e attento. Chi indaga, però, non è convinto che dica tutta la verità e sta cercando riscontri ai suoi racconti. Ma la donna del padrino, che al momento non è indagata, non è l’unica a essersi rivolta agli investigatori.

La «sfilata» dei testimoni

Dal giorno in cui Messina Denaro è finito in manette in tanti si sono presentati ai carabinieri. Una sfilata di testimoni dopo 30 anni di silenzio. Il ritrovato senso civico, per alcuni di loro, dipenderebbe, però, dal timore di conseguenze giudiziarie.

Nella casa del boss, nei suoi cellulari sono stati trovati, infatti, molti numeri di telefono: contatti con persone che Messina Denaro ha frequentato nell’ultimo anno vissuto quasi da uomo qualunque. Risalire alle identità degli interlocutori del capomafia non è difficile.

Perciò in molti anticipano le mosse della giustizia e si presentano a riferire di occasionali, brevi o lunghe frequentazioni con il padrino. L’ha fatto nei giorni scorsi il traslocatore incaricato di portare i mobili del boss dal covo di via San Giovanni al suo ultimo nascondiglio, l’ha fatto il proprietario della concessionaria di Palermo in cui Messina Denaro, con i documenti del suo ultimo alias Andrea Bonafede, ha acquistato la sua Giulietta.

Lo fanno i ristoratori che l’hanno visto nei loro locali, i pazienti della clinica La Maddalena a Palermo che l’hanno incontrato durante la chemioterapia e anche diverse donne.

Una rivelazione, quest’ultima, che non ha sorpreso gli investigatori che sanno da tempo che il capomafia ha un debole per il sesso femminile. Tutti giurano, comunque, di non aver mai sospettato di aver davanti il grande ricercato.

Le false identità

Che Messina Denaro usasse false identità è, però, certo: i pm lo hanno sempre sospettato e ora ne hanno la conferma. Nell’ultimo appartamento occupato dal boss sono stati trovati cinque documenti di riconoscimento intestati ad altrettante persone, compatibili per età con il capomafia, vive e, a quanto pare, incensurate.

Le carte di identità scoperte avrebbero assicurato all’ex latitante generalità sicure per almeno 15 anni. E gli avrebbero consentito di viaggiare anche all’estero e occuparsi dei suoi affari milionari. Sui cinque documenti contraffatti indagano i magistrati della Dda di Palermo che dovranno accertare se il capomafia avesse a disposizione tessere precompilate e si sia limitato a mettere la sua foto o se abbia goduto della complicità di chi era incaricato del rilascio. E se gli alias fossero a conoscenza dell’uso che il boss faceva delle loro generalità.

Su due personaggi i pm però non hanno dubbi: Giovanni Luppino, l’insospettabile che ha accompagnato in auto Messina Denaro a fare la chemioterapia il giorno del suo arresto. E Andrea Bonafede che, tra mezze ammissioni e tante bugie, ha anche confessato di avergli prestato l’identità. Entrambi sono in carcere.

Caccia alle amanti di Messina Denaro a Campobello. E la gente inizia a parlare…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Gennaio 2023.

Perquisite le abitazioni delle due donne, il cui numero di telefono è stato trovato su un bigliettino che era in tasca dell'ex super latitante. Nei cellulari del capomafia e nella sua agenda sono stati trovati numeri di telefono e messaggi che provano la rete di relazioni e “coperture” vissute nel lungo periodo di latitanza. Non è stato complicato per i carabinieri identificare chi ne facesse parte, e quindi per prevenire conseguenze legali spiacevoli in molti hanno anticipato le mosse degli investigatori ed hanno deciso di presentarsi spontaneamente e parlare.

In casa dell’ex super latitante sono stati trovati abiti femminili, diverse pillole di viagra ed una parrucca Considerato che gli inquirenti hanno escluso che si possa trattare di suoi travestimenti, ora stanno scandagliando il paese di Campobello di Mazara alla ricerca delle amanti di Matteo Messina Denaro che potrebbero consentire l’apertura di nuove piste investigative.

I due numeri di telefono trovati su un bigliettino corrisponderebbero ai cellulari di due donne di Campobello, che i Carabinieri hanno già perquisito ed interrogato. Sarebbero delle presunte amanti (anche se le donne in questione negano) di Matteo Messina Denaro: tutte e due cinquantenni, una bionda con i capelli corti e l’altra mora con i capelli lunghi, entrambe occupate. La seconda, è proprietaria di un’auto di lusso, un SUV da 70mila euro che parcheggiata sotto casa. Ma un familiare sostiene che “non è stato un regalo di nessuno, l’ha comprata lei un anno fa sfruttando un’occasione” cercando di allontanando l’ipotesi investigativa che fosse stato un regalo di Messina Denaro.

La donna, una piccola imprenditrice, questa settimana è stata vista uscire dalla caserma dei Carabinieri di viale Risorgimento in compagnia di un’amica: “È andata a dare qualche chiarimento“, ha confermato ieri il parente ben informato al Corriere della Sera . Gli inquirenti, secondo quanto appreso, si sarebbero già recati a casa sua “a scattare qualche foto agli ambienti” e lo stesso avrebbero fatto perquisendo la casa dell’altra donna, quella bionda coi capelli corti, di professione commerciante.

L’ imprenditrice dai capelli neri e lunghi è stata vista entrare in questi mesi, solitamente intorno alle 11, dai commessi del negozio adiacente a vicolo San Vito, che infastiditi dicono : “Che significa? Qui ci viene tutta Campobello a comprare creme e profumi, perché vi meravigliate?”.

Analoga meraviglia fuori esce dai carabinieri della locale stazione di Campobello di Mazara : “Noi non l’abbiamo riconosciuto? Vero, ma eravamo in 14 a vigilare su un paese di 11 mila anime che diventano 40 mila d’inverno con i raccoglitori di olive e 60 mila d’estate con i turisti. Senza considerare i tanti, tantissimi, che qui rientrano dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Germania per godersi le loro pensioni. Facce nuove tra cui bene poteva confondersi il boss sessantenne“.

Le cene del “boss”

Il motivo per cui Matteo Messina Denaro conservasse nei suoi covi a Campobello di Mazara le ricevute anche dei ristoranti è un rebus ancora tutto da chiarire. Di ricevute in casa di Messina Denaro però ce n’erano diverse, ed infatti i ristoratori di Campobello di Mazara non possono escludere di aver avuto come cliente il latitante, almeno nel corso degli ultimi mesi. Il boss sarebbe stato cliente almeno un paio di volte di una pizzeria aperta a pranzo, tra le poche che offrono pasti per chi lavora in zona. Ma di tutti i ristoratori disposti a parlare di Campobello, nessuno dice di essere riuscito a riconoscerlo. Di certo c’è una ricevuta che tra le altre ha acceso la curiosità degli inquirenti, cioè quella ricevuta da 700 euro per una cena.

Un conto come quello da 700 euro però dovrebbe restare ben impresso nella memoria di un ristoratore di quelle zone, ed infatti il titolare del ristorante “L’ Ancara“, Davide Fontana, spiega: “Non escludo che possa essere venuto a mangiare una volta anche da noi, ma quel conto non può essere che di un locale di Mazara del Vallo. Conti del genere li facciamo per tavolate di molte persone ed io ricordo bene tutti i clienti che mi pagano cifre del genere“. È in quella località che si trovano una decina di ristoranti diventati ormai locali “importanti” e seguaci del rinomato “Gambero rosso“, come lo sarebbe stato anche il boss mafioso.

Anche chi è originario di Castelvetrano e dice di aver visto in faccia il boss mafioso da ragazzo. Che si possa trattare di un locale di Mazara del Vallo sembra certo anche il proprietario di una pizzeria vicina a vico San Vito, la strada del covo di Messina Denaro: “Si fa presto a raggiungere quella cifra – spiega – con un chilo di gamberoni rossi, circa una ventina, un antipasto di pesce crudo e un’altra portata di pesce si arriva facilmente a 250 euro a persona. Se poi ci bevi bene sopra si possono anche superare i 700 euro in due”. Difficile da immaginare che due persone possano mangiare così tanto, e che in quel paese si possano trovare vini di così elevata qualità e prezzo.

Su quel documento vi è il totale riserbo degli investigatori dei carabinieri, e cresce la certezza che un conto del genere in realtà sarebbe stato speso nel centro storico della vicina Mazara del Vallo. Quel conto da 700 euro che meritava evidentemente una certa attenzione potrebbe portare a delle importanti rivelazioni utili per le indagini, cominciando da chi sedeva al tavolo insieme al boss mafioso.

La vita privata di Messina Denaro ed i suoi amori

La gente di Campobello di Mazara ha iniziato a parlare: “Messina Denaro era molto più grande di età, però dicevano fosse innamorato pazzo di lei – racconta un’impiegata comunale parlando della donna con il Suv -. Alla fine degli anni Ottanta andavamo tutti a ballare al Blues, un locale di Campobello che ormai non c’è più, il biglietto d’ingresso costava tanto, 40 mila lire. Lui entrava coi suoi cappotti lunghi, gli stivaletti, sempre elegantissimo. Poi restava in disparte con la sua comitiva, non dava confidenza a noi del popolo“.

Sarebbero state almeno 6 le donne della latitanza di Matteo Messina Denaro, ed una figlia su cui è noto ben poco. C’è ancora tanto da ricostruire sugli ultimi anni della vita privata del boss arrestato dopo 30 anni di latitanza, mentre i carabinieri stanno già riscontrando qualcosa dalle carte trovate nel primo covo di Campobello di Mazara affidate ad una sorta di diario all’interno del quale sono state ritrovate riflessioni sulla vita e sull’amore, le date degli incontri con la figlia, brani di lettere ricopiati ancora tutti da interpretare.

I conflitti di famiglia di Messina Denaro

Dalle discussioni familiari emergono le difficoltà testimoniate di un uomo perennemente in fuga: “Devi dire a tuo fratello che ha una figlia che a dicembre ha compiuto 11 anni e che è arrivato il momento che qualcosa pure a lei la scriva, perché adesso la ragazzina inizia a fare domande sul padre e lui non può continuare a ignorarla come ha sempre fatto, dimenticandosi anche del compleanno della figlia“. Il fratello tenta di trovare scuse alle mancanze di Matteo: “Si vede che nel posto in cui si trova non può scrivere, non può mandare nulla“. E’ lui stesso del resto a difendere le sue scelte, in un’altra missiva nella quale rivendica per sé perfino il ruolo di difensore di una “giusta causa“.

“Devo andare via e non posso spiegarti ora le ragioni di questa scelta. In questo momento le cose depongono contro di me. Sto combattendo per una causa che oggi non può essere capita. Ma un giorno si saprà chi stava dalla parte della ragione…”. Nella corrispondenza sequestrata in casa di Filippo Guttadauro, cognato e ufficiale di collegamento tra il boss latitante e il suo mondo, ci sono anche le appassionate lettere d’amore inviate a Matteo Messina Denaro da Maria Mesi una delle donne alle quali è stato legato sentimentalmente: “Ti amo e ti amerò per tutta la vita. Dal profondo del mio cuore ti amo, ti mando tantissimi baci. Tua per sempre“. E un’altra missiva, questa volta inviata alla donna, il boss svela una passione inedita quella per i videogiochi: “Desidero tanto farti un regalo. Sai, ho letto che è uscita la cassetta di Donkey Kong 3 e non vedo l’ora che sia in commercio per comprartela. Quella del Secret of Mana 2, ancora non è arrivata…“.

Le storie di Messina Denaro

Una delle donne di cui si sa di più è Maria Mesi, che venne arrestata per favoreggiamento. Fu lei che nel 1995 fece consegnare a Messina Denaro una lettera: “Ti prego non dirmi di no, desidero tanto farti un regalo. Ho letto sulla rivista dei videogiochi che è uscita la cassetta di Donkey Kong 3 e non vedo l’ora che sia in commercio per comprartela. Quella di Secret Maya 2 ancora non è arrivata. Sei la cosa più bella che ci sia”. Quella volta i due si videro realmente – Messina Denaro era un grande appassionato di videogiochi – tanto che la Polizia sfiorò la cattura in un covo a Bagheria, in via Milwaukee 40. Quando gli agenti entrarono, il boss si era già dileguato. 

E poi la biondissima Andrea Haslener che Matteo Messina Denaro chiamava “Asi”, con cui il boss è stato fidanzato quattro anni dal 1989 al 1993. Lei lavorava come receptionist all’hotel Paradise Beach di Castelvetrano. Poi nel 1995 una storia con Franca Alagna, da cui nacque sua figlia Lorenza, costrette entrambe di fatto a una vita da recluse. Nel 2013 la figlia e la madre chiesero di poter lasciare Castelvetrano e il boss diede il suo assenso. Lorenza ha avuto anche un figlio, il “nipotino” del boss, nato lo scorso anno.

La memoria ritrovata

Dopo trent’anni passati in silenzio con omertà mafiosa in tanti adesso hanno ritrovato la memoria e si sono presentati agli investigatori a raccontare i loro rapporti, le frequentazioni, gli incontri, a volte occasionali, con il boss Matteo Messina Denaro. Una vera e propria passerella di testimoni, tra Palermo, Campobello, Trapani, timorosi probabilmente di finire tra i sospettati di collusioni e connivenze mafiose con il boss mafioso di Castelvetrano. 

Nei cellulari del capomafia e nella sua agenda sono stati trovati numeri di telefono e messaggi che provano la rete di relazioni e “coperture” vissute nel lungo periodo di latitanza. Non è stato complicato per i carabinieri identificare chi ne facesse parte, e quindi per prevenire conseguenze legali spiacevoli in molti hanno anticipato le mosse degli investigatori ed hanno deciso di presentarsi spontaneamente e parlare. Inoltre, come già raccontato nei giorni scorsi, nei covi del boss sono state trovate anche altre carte d’identità intestate a prestanomi, da fonti investigative risulterebbero cinque , che Matteo Messina Denaro avrebbe utilizzato nel corso della latitanza.

Dai pazienti che Messina Denaro ha incontrato alla clinica Maddalena di Palermo dove è stato arrestato lo scorso 16 gennaio, con i quali il boss faceva la chemio e condividevano una chat, alle persone che l’avevano incontrato in un negozio, proprietari di ristoranti, il concessionario di auto che gli ha venduto l’Alfa Romeo Giulietta, trovata dalla Polizia. Una donna ha dichiarato di aver vissuto con il padrino una relazione amorosa di qualche mese, senza sospettare che il suo amante fosse il ricercato italiano “numero uno”. La donna al momento non sarebbe indagata. Il denominatore comune delle molte testimonianze, tutte tardive, è che nessuno avrebbe conosciuto la reale identità di Massimo Messina Denaro considerando che il boss, durante la latitanza, aveva identità false. Adesso sarà compito degli investigatori capire se tutti raccontano la verità.

L’inviata di Striscia la Notizia Stefania Petyx aggredita a Campobello: la solidarietà del sindaco Lagalla

“A nome dell’amministrazione comunale esprimo solidarietà e vicinanza alla giornalista palermitana di Striscia La Notizia Stefania Petyx e alla sua troupe, aggrediti mentre stavano girando un servizio a Campobello di Mazara. Un gesto di violenza ingiustificabile e da condannare fermamente” ha dichiarato il sindaco di Palermo Roberto Lagalla, dopo che l’inviata di Striscia La Notizia, ieri, mentre stava girando un servizio è stata aggredita da un uomo di Campobello di Mazara, il paese dove è stato catturato Matteo Messina Denaro, che addirittura ha cercato di investirla e picchiare l’operatore video.

Redazione CdG 1947

La sfilata dei testimoni che scoprono ora il boss. Una donna: "Noi amanti". Corsa in caserma: "Non sapevamo fosse lui". Sentite una commerciante e un'imprenditrice. Valentina Raffa il 30 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Il lupo perde il pelo ma non il vizio. E così Matteo Messina Denaro, che da giovane era uno sciupafemmine, ha continuato anche durante la latitanza a mantenere alta la fama del latin lover.

Le donne non gli sono mancate nemmeno nell'ultimo periodo di clandestinità vissuta a Campobello di Mazara, almeno quattro anni che la procura di Palermo sta cercando di ricostruire tassello dopo tassello, ricostruendo le sue conoscenze, le coperture e anche i suoi spostamenti, che i fiancheggiatori hanno cercato di celare.

Sono tre le donne fino a ora sentite dai carabinieri. Il passaggio di rappresentanti del gentil sesso nell'ultima casa dell'ex super latitante, quella di via CB 31, in vicolo San Vito, in cui si era trasferito nel giugno 2021, è stato accertato grazie al rinvenimento di vestiti femminili, sui quali sarebbe stato isolato Dna di donna. Ma gli investigatori hanno trovato anche una parrucca bionda, che si esclude sia stata utilizzata dall'ultimo stragista per camuffarsi, e, ancora, il Viagra e i profilattici.

«Non l'ho frequentato», sostengono le due signore fino a ora interrogate. Ma le loro parole non sembrerebbero convincere fino in fondo gli inquirenti. A loro i carabinieri sono arrivati dai numeri di telefono che il capomafia aveva con sé il 16 gennaio, giorno dell'arresto avvenuto a Palermo. E potrebbero anche essere rimaste delle tracce di conversazioni whatsapp sui due cellulari sequestrati al boss dei boss. Entrambe sono di mezza età e risiedono a Campobello di Mazara. Una fa la commerciante, è bionda e ha un taglio corto. Sostiene che quando i carabinieri sono entrati per perquisire il suo negozio cercavano armi. «Magari hanno ricevuto una falsa segnalazione» ha raccontato.

L'altra è una piccola imprenditrice con i capelli lunghi neri. Quest'ultima sarebbe stata vista bazzicare nei negozi intorno alla casa di vicolo San Vito, ma i negozianti ribattono che il paese è piccolo e non ci sono tante opzioni di scelta per muoversi.

Le indagini dei carabinieri proseguono per capire, malgrado la loro negazione, che tipo di frequentazione abbiano intrattenuto entrambe le donne con l'ex primula rossa e per quanto tempo. Ma fino a questo momento le case delle due signore non sono state oggetto di perquisizione.

Ammette invece di avere avuto una relazione sentimentale con Messina Denaro una terza donna, anche lei di mezza età, che si è presentata spontaneamente ai carabinieri di Campobello di Mazara. «Ho frequentato l'uomo che ho visto in tv» ha ammesso. Ecco come ha descritto l'ex super latitante, dando a intendere ciò che poi ha specificato: «Non sapevo chi fosse realmente se non dopo l'arresto».

La casa della donna è stata perquisita. I carabinieri sono al lavoro per scoprire se l'ultimo stragista le abbia mai fatto confidenze. Ogni parola, ogni silenzio in questo momento possono essere importanti per ricostruire la ragnatela che lo ha protetto nella sua latitanza.

Sono tanti però i cittadini, anche di Palermo, che in queste ore si sono recati dai militari per riferire ciò di cui sono a conoscenza. C'è chi ha conosciuto il padrino di Castelvetrano nella clinica «La Maddalena» dove lui si sottoponeva alle sedute di chemioterapia relazionandosi concordano tutti i racconti - con gli altri pazienti e anche con i medici come se fosse un malato oncologico qualunque.

«Il suo numero di telefono non era top secret dice una paziente -. So con certezza che alcune mie amiche conversavano con lui via whatsapp». C'è chi avrebbe solo visto il capomafia, ma anche queste dichiarazioni potrebbero servire per ricostruire gli spostamenti e le frequentazioni di Messina Denaro. La gente finalmente si fa avanti con i carabinieri, anche se tutti sostengono di non avere riconosciuto in quell'uomo il super latitante se non a cattura avvenuta.

Ogni singola informazione e dichiarazione viene passata a setaccio dai carabinieri. C'è poi tutto ciò che è stato rinvenuto nei covi utilizzati dal boss dei boss e posto sotto sequestro che va analizzato e vanno effettuati anche esami tecnici. «Dalla mole del materiale che abbiamo sequestrato nei covi dice un investigatore abbiamo davanti almeno 2 anni di indagini serrate».

Le Fake News.

L’ombra del potere. L’arresto di Messina Denaro, la morte di Lollobrigida e l’Italia che non distingue un mafioso da una star. Giacomo Di Girolamo su L’Inkiesta il 21 Gennaio 2023.

Forse è una deformazione della stampa nostrana, ma dallo scorso 16 gennaio si racconta la vita di uno dei boss della criminalità organizzata inseguendo gossip e aneddoti di colore

Che giorno, quel giorno. Quel 16 gennaio del 2023. Che vertigine. I messaggi, le telefonate, l’incredulità, il racconto dell’arresto più clamoroso degli ultimi anni, tutti a Palermo, una conferenza stampa partecipata come non mai, e ancora, altre telefonate, i primi articoli, le reazioni, la notte senza prendere sonno, l’eccitazione, metto i momenti in fila. Mi sfugge qualcosa. Un fotogramma che è passato rapidissimo, non ci ho fatto caso. Eppure è lì. Ma cosa?

Ma certo. Il 16 gennaio, il giorno della cattura di Matteo Messina Denaro, è successa anche questa cosa, in Italia: è morta Gina Lollobrigida.

Cosa lega Matteo Messina Denaro e Gina Lollobrigida? Eh. Partiamo da Genco Russo. Giuseppe Genco Russo. Boss di Mussomeli, provincia di Caltanissetta, era considerato da tutti il nuovo “capo dei capi” dopo la morte di Don Calò Vizzini.

Siamo alla fine degli anni Cinquanta. Genco Russo amava apparire. Gli americani (a proposito di connivenze mafiose…) lo aveva messo sindaco di Mussomeli, dopo lo sbarco in Sicilia. Si faceva intervistare dai giornali, guadagnava titoli e prime pagine. Anche quando andò al confino, al Nord Italia, si inserì benissimo nella sua comunità, stimato e rispettato, e visto anche come una star, un po’ esotica, certo, di sicuro un personaggio.

Anni dopo arrivano i pentiti di mafia, quelli veri. Uno dei più famosi, Antonio Calderone. È lui che a un certo punto si trova a parlare di Genco Russo. E dice che non era ben visto tra la gente di Cosa nostra. «Lo sa come lo chiamavamo?», racconta in un processo. «Gina Lollobrigida». E perché? «Si metteva troppo in mostra, dava interviste, si faceva fotografare… e allora noi dicevamo: l’avete visto oggi sul giornale a Gina Lollobrigida». Anche perché, continua Calderone, mica Genco Russo era il vero capomafia. A guidare Cosa Nostra, a quel tempo, c’era un’altra persona. E chi? Un certo Fazio di Trapani. Non lo conosceva nessuno.

Il vero mafioso non fa la star, non è la Lollobrigida. Non appare, non parla, non rilascia interviste (ogni tanto, magari, però, gli scappa un selfie).

Ecco, Messina Denaro è un capo proprio perché non si comporta come Gina Lollobrigida. Questo aspetto deve essere chiaro. Sono giornate in cui scopro che in Italia sono tutti esperti di mafia, anche chi in Sicilia ci viene solo in vacanza, e magari in provincia di Trapani non ha messo mai piede.

Se io volessi guadagnare click e follower potrei alzare l’asticella dell’indignazione e abbondare di punti esclamativi gridando allo scandalo per il boss che stava “nascosto” sotto gli occhi di tutti, nel centro di Campobello di Mazara, che non aveva mai fatto nulla per cambiare il suo aspetto, confondere le acque. Che vita tranquilla. Me la potrei prendere con la comunità omertosa, con i siciliani del «niente saccio».

Da qui a parlare della Sicilia arretrata culturalmente, il passo è breve. Invece non mi stupisce, la vita apparentemente placida di Messina Denaro, perché è la stessa che facevano prima di lui Riina e Bernardo Provenzano, è la stessa che faceva suo padre, che stava da latitante in Via Roma a Castelvetrano, mica in Amazzonia. Ma Provenzano abbiamo dimenticato che è stato latitante quarantatré anni? E non è l’analfabeta masticatore di cicoria che l’immagine della sua cattura ci ha consegnato. È quello che frequentava la Palermo bene presentandosi come l’ingegnere Lo Verde.

Così come Salvatore Riina amava la spiaggia di Tonnarella, a Mazara, e le gite in barca, mentre decideva le stragi del 1992, e al telefono parlava con funzionari della Corte di Cassazione, notai, imprenditori.

È questa la vera forza della mafia, il suo essere nelle cose, se no staremmo parlando di altro, di banda armata, che ne so. E una latitanza dura trenta anni proprio per questo, perché è inutile girarci intorno, la resilienza – la parola più abusata del decennio – l’ha inventata la mafia, e un boss è boss perché ha un territorio, e lui è lì, in medias res, è in quel territorio, che lo difende, lo coccola, all’occorrenza si gira dall’altra parte.

Perché Salvatore Riina si fidava tanto dei Messina Denaro? Lo diceva lui stesso: «La provincia di Trapani è la roccia di Cosa Nostra». Un boss che si nasconde non ha bisogno di “bunker” (non lo è neanche quel covo mezzo nascosto, di emergenza, trovato a pochi passi dall’abitazione). E una latitanza dura così tanto anche perché ha delle coperture istituzionali. Qualcuno che ti fa una soffiata, fascicoli che spariscono, penne usb che “squagliano”, sospetti movimenti di funzionari, promozioni fatte per allontanare, processi aggiustati, indagini fatte male, procure che si pestano i piedi.

E bisogna dirlo con serenità, perché anche in questo c’è la definizione della mafia. Che mafia è senza relazioni? Che mafia è senza potere? Qui tocco il punto più delicato della vicenda, perché avverto una deriva, progressivamente, in queste ore. Forse è un difetto della stampa italiana, non so. Forse non riusciamo a reggere la tensione. Fatto sta che se uno apriva tutti i principali siti italiani, lunedì sera, la notizia era che a Palermo avevano arrestato uno con un orologio da trentacinquemila euro. Se leggeva i giornali martedì, la prima cosa che sapeva era del viagra e dei preservativi trovati a casa sua.

Così come oggi, in tv, l’argomento è la vicina, la palestra, il bar. Il rischio è che stiamo trasformando Matteo Messina Denaro in Gina Lollobrigida. È un errore imperdonabile. Questo è il momento, invece, per chiedere uno sforzo in più di attenzione, di competenza, per ascoltare chi davvero le cose le sa. Per cominciare a mettere alcuni punti fermi.

Innanzitutto sulla “eccezionale normalità” di questa storia di mafia che raccontiamo, sulla violenza di relazione che è il cuore della mafia stessa. Sul fatto che non esiste la «borghesia mafiosa», che capisco è una bella espressione per i tweet e i titoli, e poi viene dal verbo del Procuratore, ma, insomma, è la mafia stessa che è borghesia mafiosa.

Lo capite o no che la mafia in Italia è un problema della classe dirigente e che non sarà mai sconfitta davvero fino a quando la classe dirigente di questo Paese non avrà il coraggio di processare se stessa? Lo capite che non sto dicendo niente di nuovo, che è tutto già noto, perché lo diceva pure Don Luigi Sturzo, perché era questo che scriveva Franchetti quando, nella sua inchiesta in Sicilia del 1876, parlava di «facinorosi della classe media»? Mica parlava di «violenti pastori» o «contadini armati in bande». No: facinorosi della classe media. Cioè, la borghesia mafiosa.

Eccola, è quella dei Messina Denaro che hanno fatto affari dappertutto ed erano in tutti i salotti. Anzi, se li contendevano. Senza che mai nessuno indagasse su di loro. Fino al 1989, quando Paolo Borsellino, procuratore a Marsala, e Rino Germanà, vice questore, decidono di capirci qualcosa in più, i Messina Denaro per la giustizia erano illustri sconosciuti. Ma non per la bella borghesia di Castlevetrano, della quale erano fieri membri. Così come per i Minore a Trapani, e via dicendo. A proposito: non appena Germanà tocca i Messina Denaro, viene promosso. Lo promuovono capo della Interpol a Caltagirone, dall’altra parte della Sicilia (dove, tra l’altro, la sezione dell’Interpol neanche esisteva).

Qualcuno dirà: è la stampa bellezza. Tira più un preservativo nell’armadietto del bagno che tutto questo ragionare, lo so. Ma la corsa ossessiva al particolare, da consumare all’istante, ci porta alla pornografia, mica al racconto delle cose.

Eppure è un’occasione irripetibile. L’arresto di Messina Denaro è un big bang. Cambia la storia della mafia, cambia la storia dell’antimafia. Abbiamo preso l’ultimo boss di una mafia perdente, giunta al suo ultimo rantolo. C’è poco da festeggiare, perché altri sistemi criminali sono attivi nel Paese. Io ci lavoro da tempo, la chiamo Cosa Grigia. È la sublimazione della mafia, la cifra del nostro tempo: il vero potere, oggi, è l’ombra del potere. Le storie non mancano. A patto che evitiamo di inseguire Gina Lollobrigida.

Padre-padrino di una figlia mai vista. Unico cruccio di un uomo senza scrupoli. Lorenza ha 27 anni e non ha mai conosciuto Messina Denaro. Giallo sulla visita in cella: il legale lascia aperta ogni possibilità. Valeria Braghieri il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Dicono che sia tipico di certi mafiosi tenere due «anime» opposte strette tra i denti. Roba che dentro a chiunque altro non riuscirebbe mai a convivere. La peggiore delle crudeltà e il più feroce dei romanticismi impastati in un appiccicume di fabbrica, impossibile da spiegare agli «altri», ai comuni mortali. Sciogliere un bambino nell'acido e poi commuoversi sulle note di Strangers In The Night di Frank Sinatra. Le stragi a cielo aperto e i pizzini nascosti, avvolti come i messaggi d'amore dei Baci Perugina. A tanto arriva la dicotomia.

Ci è tornato in mente leggendo ciò che Matteo Messina Denaro, che peraltro come titolo di studio vanta la seconda elementare non conclusa, ha scritto a proposito della figlia Lorenza, mai conosciuta, al discusso politico Antonino Vaccarino nel 2021. «Veda. Io non conosco mia figlia, non l'ho mai vista, il destino ha voluto così, come posso sperare io in una favola? Nel dire ciò non sto piagnucolando non ne sono il tipo e poi ho già razionalizzato il tutto, voglio solo dire che, se ho ancora qualcosa da sperare, è che se anche la vita ha tolto a me per dare a mia figlia mi sta bene e, se così è, quello che mi è rimasto è ancora tanto e spero che si prenda tutto da me per darlo a lei. Se io le dovessi dire cosa si prova nel non conoscere i propri figli non saprei cosa dirle, posso però affermarle, con assoluta certezza, che essere genitore padre o madre che sia, e non conoscere i propri figli è contro natura».

Sembra incredibile che una riflessione del genere sia scaturita dalla penna di un uomo tanto brutale. Eppure pare proprio che la figlia Lorenza sia il nodo indistricabile della vita del boss. Tanto che in uno dei covi perquisiti in questi giorni, gli agenti hanno trovato un altro appunto di Messina Denaro: «Perché Lorenza non vuole vedermi? Perché è arrabbiata con me?». L'amore che non c'è toglie l'aria. Anche ai mafiosi, evidentemente. Lui si è reso introvabile al mondo per trent'anni della sua esistenza, lei si è resa irreperibile per lui per i ventisette della sua. Tanti ne ha oggi Lorenza, che di cognome fa Alagna come la madre Francesca, che è nata il 17 dicembre 1996, che il 14 luglio 2021 ha dato alla luce un bambino avuto dal suo compagno Nino che lavora a Selinunte. Lorenza ha dichiarato di non aver alcune intenzione di usufruire dei permessi per andare a trovare suo padre al 41 bis, anche se il legale il suo legale smentisce questa posizione, sottolineando però che «non sono mai intervenuti contatti» con il boss «fin dalla nascita». È cresciuta per diciott'anni con la madre e la nonna paterna nella casa dei Messina Denaro a Castelvetrano. Da lì dentro l'hanno protetta dal mondo esterno. Cercando di ovattare l'impatto di quel cognome, di parare ogni spiffero gelido che venisse da fuori, dove tutti sapevano chi fosse suo padre: un po' come quando si mette la gommapiuma attorno alle finestre, perché non ci passi il freddo. Lorenza è cresciuta senza mai conoscere e vedere suo padre.

Ha fatto il liceo scientifico, si è iscritta all'università... Qualcuno giura di ricordare addirittura alcuni suoi temi contro la mafia scritti a scuola. Anche se apertamente non ha mai neppure rinnegato quel papà che per lei è sempre stato un'entità gassosa, una notizia al tg, una foto su un giornale o chissà. Solo Lorenza può sapere cosa sia stato e cosa sia per lei Matteo Messina Denaro. Ma in ogni caso...

A diciott'anni se n'è andata da quella casa dove ogni tanto irrompevano le forze dell'ordine in cerca di qualcosa, di qualcuno. È scappata a cercarsi una vita più normale a pochi passi da dove ha sempre vissuto. Ha fatto un figlio, lo ha chiamato Francesco e non lo ha mai fatto vedere a suo nonno. Ora Lorenza, con gentile determinazione, continuerà la sua vita senza il boss, come ha fatto sin qui. In fin dei conti, per lei, è passato da una latitanza a un'altra. Da un posto blindato all'altro. Troppa roba, oggi, a cui mettere mano. Troppi nodi da sbrogliare dopo aver fatto senza per tutta la vita. Anche se lui vorrebbe tanto conoscere chi ha messo al mondo. Ma Messina Denaro ha chiuso gli scurini in faccia al cielo. E per come la vede Lorenza, la porta in faccia a lei.

Messina Denaro, il legale della figlia: "Non ha mai rinnegato il padre". Storia di Redazione Tgcom24 il 21 gennaio 2023.

La figlia naturale di Matteo Messina Denaro, Lorenza Alagna, non lo ha mai rinnegato. A riferirlo il suo legale, Franco Lo Sciuto, che ha smentito categoricamente le "affermazioni false" circolate fino a questo momento: "Lorenza Alagna non ha mai rilasciato alcuna dichiarazione che potesse dimostrare la volontà di rinnegare ogni contatto con il padre in seguito all'arresto". Poi ha aggiunto "una doverosa precisazione": il superboss non avrebbe avuto mai contatti con la figlia "fin dalla nascita".

"Lorenza non ha mai rilasciato dichiarazioni" - "Sono state diffuse notizie senza fondamento - aggiunge il legale - riguardanti una presunta manifestazione di volontà da parte di Lorenza Alagna atta a rinnegare ogni contatto con il padre". L'avvocato ha dichiarato che la donna si è sempre "astenuta da ogni contatto con i giornalisti".  

"Basta intromissioni" - "La sfera del rapporto padre-figlia è intangibile e insindacabile, non possono tollerarsi indebite intromissioni: queste dinamiche devono restare estranee alle cronache e alle critiche da parte di giornalisti, sociologi, opinionisti, mass-mediologi e di tutte quelle figure che, a vario titolo, dispensano sapere e giudizi sui mass-media"- ha continuato l'avvocato minacciando azioni legali nei confronti di ulteriori interventi "inopportuni" e fonte di "turbamento per Lorenza".

"Lorenza non ha mai rinnegato il padre. La sfera dei loro rapporti è intangibile". Alessandra Ziniti su La Repubblica il 21 Gennaio 2023.

La figlia di Matteo Messina denaro affida ad un legale una nota in cui sottolinea di non aver mai rilasciato alcuna dichiarazione che lasciasse intendere di voler rinnegare ogni contatto con il padre. E attacca l'ex insegnante che ha parlato di lei in tv

Lorenza "non ha mai rinnegato il padre". La figlia di Matteo Messina Denaro affida a un legale, l'avvocato Franco Lo Sciuto, una precisazione ma anche un accorato appello a non avventurarsi nella "sfera intangibile dei rapporti padre-figlia".

Assediata dai cronisti, protetta dalla cintura affettiva della famiglia materna, la ragazza (che non ha mai rilasciato alcuna dichiarazione) ha deciso di intervenire dopo che questa mattina un'agenzia di stampa aveva attribuito a generiche fonti familiari la sua decisione di non andare a trovare il padre detenuto nel carcere de l'Aquila. 

"Sono state diffuse attraverso i mezzi di informazione a tiratura nazionale e di divulgazione online, sin dai giorni immediatamente successivi all'arresto e con ritmo sempre più incessante ed insistente, notizie destituite di ogni fondamento, riguardanti una presunta manifestazione di volontà da parte di Lorenza Alagna di rinnegare ogni contatto con il padre - scrive l'avvocato Lo Sciuto in una nota - Si smentisce in modo categorico tutto ciò che è stato pubblicato falsamente. Lorenza Alagna mai ha rilasciato alcuna dichiarazione che potesse indurre a ritenere la volontà di rinnegare ogni contatto con il padre a seguito dell'avvenuto arresto, con la doverosa precisazione che mai e poi mai sono intervenuti contatti con lui fin dalla nascita".

Le critiche agli opinionisti in tv

"La sfera del rapporto padre-figlia è intangibile e insindacabile, e, come tale, deve rimanere rigorosamente riservata - continua il legale - Non possono, pertanto, tollerarsi indebite intromissioni nella sfera di questi rapporti, le cui dinamiche devono restare estranee alle cronache ed alle critiche da parte di giornalisti, sociologi, opinionisti, mass-mediologi e di tutte quelle figure che, a vario titolo, dispensano sapere e giudizi sui mass-media. Ogni ulteriore intervento sul punto dovrà ritenersi indesiderato, inopportuno e fonte di sicuro turbamento per Lorenza".

L'attacco all'ex insegnante

Poi una forte critica a una docente del liceo di Castelvetrano frequentato da Lorenza, che in questi giorni ha rilasciato dichiarazioni ad alcune tv. " Si invita la solerte insegnante di letteratura italiana, che richiama con passione contatti di natura scolastica con Lorenza Alagna e con l'intera classe di liceali, limitatisi, per inciso, ad un mese di supplenza durante i 5 anni di liceo, ad astenersi dalla divulgazione di racconti e commenti in travisamento di fatti sulle testate nazionali, verosimilmente dettati dall'irrefrenabile ed incontrollabile smania di apparire sulle prime pagine dei giornali e delle tv di stato. Le indebite interferenze ad oggi rilevate, hanno persino attinto la sfera dei rapporti riguardanti il nucleo familiare costituito da Lorenza e dal di lei compagno". Lorenza Alagna vuole "rivendicare la incontestabilità e legittimità di ogni scelta personale e intima attinente alla sfera dei rapporti con il padre mai rinnegato".

Lorenza, figlia di Francesca, è l'unica figlia ufficiale del boss arrestato dopo 30 anni di latitanza e fino al 2013 viveva nella casa della nonna paterna con la madre, poi insieme hanno deciso di andare a vivere altrove. Francesca, che porta il cognome materno,  abita a Castelvetrano e il 14 luglio 2021 ha partorito un bimbo che non si chiama come il nonno.

Messina Denaro: “Non svenderò la mia dignità, ho un codice d’onore da rispettare”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Gennaio 2023.

Ecco cosa scriveva il Boss prima dell’arresto: "Non andrò mai via. Lo devo a tanti amici che sono rinchiusi e che hanno ancora bisogno, lo devo a mio padre, e a me stesso per tutto quello in cui ho creduto e per tutto quello che sono stato"

Matteo Messina Denaro deve rispondere di ben 12 ergastoli da scontare sulla propria fedina penale, omicidi, stragi. Essere rinchiuso in una cella di massima sicurezza, praticamente blindato, deve essere traumatico per un boss come lui che fino a lunedì scorso non aveva mai trascorso una sola ora in una cella, e che ha vissuto una latitanza dorata, con spese da 10 mila euro al mese, e potrebbe diventare una occasione per riflettere.

Nella corrispondenza tra il numero uno della mafia trapanese e belicina, Matteo Messina Denaro, alias Alessio, e Antonio Vaccarino l’ex sindaco di Castelvetrano, alias “Svetonio“, che in nome e per conto del Sisde (il vecchio servizio segreto italiano interno), a seguito dell’arresto nel 2006 di Bernardo Provenzano boss della mafia corleonese , tentò di snidare il boss castelvetranese Messina Denaro dalla latitanza, viene di fatto anticipata l’attuale condotta del boss arrestato dal Ros dei Carabinieri.

L’assoluto silenzio che ha contraddistinto questi suoi primi giorni da ergastolano finito in carcere parla più di mille proclami. Corre voce che analogo invito a collaborare con la giustizia gli sia stato rivolto anche dai magistrati ed ufficiali dell’ Arma dei Carabinieri che gli hanno parlato prima che venisse tradotto da Palermo al carcere di massima sicurezza L’Aquila, , e lui avrebbe risposto in modo affermativo, “rifletterò non come pensate voi” con due semplici parole avrebbe fatto intendere che le sue riflessioni sarebbero altre. Nell’epistolario con “Svetonio“, alias di Vaccarino, nel frattempo deceduto, il suo comportamento di oggi veniva ampiamente anticipato.

Matteo Messina Denaro scriveva di condividere il pensiero di Toni Negri, il leader di Autonomia Operaia, affermando che è la magistratura a sovvertire ogni ordine e il boss bollava come “Torquemada da strapazzo” i magistrati, accusandoli di avere avviato “un golpe bianco“. Si definiva un novello Benjamin Malaussene (personaggio di Pennac, “capro espiatorio“), ad un certo punto pareva scrivere di una battaglia perduta, “abbiamo vinto le alluvioni e la pestilenza, con la legge non si è potuto, abbiamo perso” e poi però aggiungeva “la sconfitta forgia non la vittoria“.

Quindi ben altro che pronto a riconoscere la sconfitta con il suo stesso arresto: “… Io non andrò mai via di mia volontà, ho un codice d’onore da rispettare. Lo devo a papà e lo devo ai miei principi, lo devo a tanti amici che sono rinchiusi e che hanno ancora bisogno, lo devo a me stesso per tutto quello in cui ho creduto e per tutto quello che sono stato. Ad onore del vero se avessi voluto già me ne sarei andato da tempo, ne avevo la possibilità, solo che non ho mai tenuto in considerazione quest’ipotesi perché non fa parte di me ciò; io starò nella mia terra fino a quando il destino lo vorrà e sarò sempre disponibile per i miei amici, è il mio modo tacito di dire a loro che non hanno sbagliato a credere in me. …“

In quelle lettere riteneva impossibile poter pensare ad una collaborazione, contestava il ricorso dello Stato ai pentiti, sostenendo che “l’istituzione Stato facendo così ha fallito…Facciano sempre così, tanto ci saranno uomini che avranno una propria dignità“. “Quando uno stato ricorre alle torture per vendetta, quando porta alla delazione gli esseri più deboli, mi dica che stato è, uno stato che fonda la sua giustizia sulla delazione che stato è, di certo le delazioni hanno fatto fare carriera a certi singoli ma come istituzione lo stato ha fallito. Hanno istituito il 41 bis (cioè il carcere duro ndr), che mettano anche l’82 quater, tanto ci saranno sempre uomini che non svenderanno la propria dignità.

L’unica cosa sulla quale ha cambiato idea, è il fatto di aver rinunciato ad un difensore di fiducia, nei processi in cui è stato giudicato da latitante. Sempre a Vaccarino ne ha spiegato la ragione della scelta di affidarsi ai difensori nominati d’ufficio: “Hanno detto – spiegava a Vaccarino alias “Svetonio” – che ho voluto lanciare una sfida, non è vero, ho valori più nobili, non potevo partecipare a tutti questi misfatti“. Adesso ha un difensore di fiducia, l’avvocato Lorenza Guttadauro, sua nipote diretta, la figlia della sorella, Rosalia Messina Denaro. Ma in quella corrispondenza c’è qualcosa che si riscopre negli appunti trovati dai Carabinieri nel suo ultimo covo di Campobello di Mazara. Il pensiero mai svanito nei confronti della figlia avuta da Francesca Alagna, che nel frattempo lo ha anche reso nonno. Matteo Messina Denaro ha continuato, così si legge dai suoi appunti, a cercare un rapporto con lei, confidando a Vaccarino che “solo da lei accetterò l’unico giudizio“.

In quella corrispondenza con Vaccarino se la prendeva in maniera brusca con Provenzano, per i “pizzini” che Binnu custodiva con se nella fattoria di Montagna dei Cavalli a Corleone, dove la Polizia andò a scovarlo mentre per i più passava come un “fantasma“. “Ha rovinato a tutti”, scriveva Matteo Messina Denaro, per avere conservato l’archivio dei pizzini che scriveva con la carta carbone.

Lui non è stato da meno. D’altra parte proprio Matteo Messina Denaro nella corrispondenza con Provenzano, gli diceva che lui aveva scelto di ispirarsi al vecchio Binnu. In quei pizzini si riferiva alla condivisa scelta di sommersione della mafia, basta stragi e delitti, Cosa nostra nella mani di Provenzano prima e di Messina Denaro, dopo la cattura di Totò Riina e la stagione delle bombe del 1993, era diventata una “holding” di imprese, di business. Ma come Provenzano anche Matteo Messina Denaro ha commesso i propri errori. Se si fosse fatto curare come privato e non attraverso le strutture convenzionate con la sanità pubblica, non sarebbe mai stato tracciato dentro l’archivio del Servizio Sanitario Nazionale. I carabinieri è stato proprio attraverso nomi e codici sanitari che sono risaliti a lui, riuscendolo a catturare lunedì scorso 16 gennaio dopo 30 anni di latitanza, arrestandolo nella clinica La Maddalena di Palermo.

Secondo alcuni giornalisti evidentemente poco attendibili che avevano scritto che Lorenza Alagna, 27 anni, figlia di Messina Denaro, in questi giorni avrebbe dichiarato che da tempo aveva deciso di rompere i rapporti con quel padre che peraltro non conosce e che non l’ha mai vista. Ma in serata l’avvocato Franco Lo Sciuto per conto di figlia di Matteo Messina Denaro, ha smentito queste ricostruzioni: “A seguito dell’arresto di Matteo Messina Denaro, il bailamme mass mediatico innescatosi non ha risparmiato la di lui figlia, Lorenza Alagna. Sono state diffuse attraverso i mezzi di informazione a tiratura nazionale e di divulgazione online, sin dai giorni immediatamente successivi all’arresto e con ritmo sempre più incessante ed insistente, notizie destituite di ogni fondamento, riguardanti una presunta manifestazione di volontà da parte di Lorenza Alagna atta a rinnegare ogni contatto con il di lei padre. Si smentisce in modo categorico tutto ciò che è stato pubblicato falsamente, stante che, Lorenza Alagna mai ha rilasciato alcuna dichiarazione che potesse indurre a ritenere la sussistenza della volontà in capo alla suddetta di rinnegare ogni contatto con il di lei padre a seguito dell’avvenuto arresto, con la doverosa precisazione che mai e poi mai sono intervenuti contatti con il predetto fin dalla nascita – scrive in una nota l’avvocato – Appare doveroso sottolineare che Lorenza si è sempre astenuta da ogni contatto con i giornalisti, quand’anche gli stessi si siano installati quotidianamente sotto casa a presidio dell’abitazione ed alla ricerca di dichiarazioni scoop in modo da alimentare il vortice mediatico. L’avere allontanato in modo risoluto l’assalto mediatico di taluni giornalisti sotto casa è condotta inequivoca, insuscettibile delle fuorvianti interpretazioni ribaltate nelle testate nazionali. La sfera del rapporto padre-figlia è intangibile ed insindacabile, e, come tale, deve rimanere rigorosamente riservata. Non possono, pertanto, tollerarsi indebite intromissioni nella sfera di detti rapporti, le cui dinamiche devono restare estranee alle cronache ed alle critiche da parte di giornalisti, sociologi, opinionisti, mass-mediologi e di tutte quelle figure che, a vario titolo, dispensano sapere e giudizi sui mass-media. Ogni ulteriore intervento sul punto dovrà ritenersi indesiderato, inopportuno e fonte di sicuro turbamento per Lorenza”.

“Si fa invito alla solerte insegnante di letteratura italiana, che richiama con passione contatti di natura scolastica con Lorenza Alagna e con l’intera classe di liceali, limitatisi, per inciso, ad 1 mese di supplenza durante i 5 anni di liceo, – prosegue la nota dell’ avvocato – ad astenersi dalla divulgazione di racconti e commenti in travisamento di fatti sulle testate nazionali, verosimilmente dettati dall’irrefrenabile ed incontrollabile smania di apparire sulle prime pagine dei giornali e delle tv di stato. Le indebite interferenze ad oggi rilevate, hanno persino attinto la sfera dei rapporti riguardanti il nucleo familiare costituito da Lorenza e dal di lei compagno”. Lorenza Alagna vuole “rivendicare la incontestabilità e legittimità di ogni scelta personale e intima, siccome attinente alla sfera dei rapporti con il di lei padre, mai rinnegato“. Ma resta il fatto inconfutabile che in 27 anni la figlia pur potendo non ha mai incontrato suo padre, Matteo Messina Denaro.

Redazione CdG 1947

Pure la famiglia di Denise Pipitone.

Estratto dell'articolo di open.online.it il 20 febbraio 2023.

L’amica e compagna di chemioterapia di Matteo Messina Denaro lo invita a vestirsi di umiltà. E a penare alle persone che gli vogliono bene. Ma soprattutto, gli chiede di parlare, di collaborare. Di aiutare quelle persone che possono averne bisogno. Come per esempio «Denise Pipitone, può dare un grande aiuto a quella famiglia che sta cercando la verità sulla bimba sparita. Lì c’è ancora una grande voragine aperta in una mamma e un papà».

 Questo è l’appello della donna a Non è l’Arena di Massimo Giletti. Che ieri ha anche mandato in onda una serie di audio sulla malattia dell’Ultimo dei Corleonesi. Lui «per quello che gli viene attribuito possa e debba sapere cosa può essere accaduto a quella famiglia. Potrebbe redimere le sue colpe aiutandoli. Questa è una preghiera che gli farei», dice l’amica.

Ma cosa c’entra Messina Denaro con la scomparsa di Denise Pipitone?

[…]

A fine gennaio proprio Piera Maggio lanciò un appello al boss: «Se è vero che Matteo Messina Denaro controllava tutta la provincia di Trapani, è impossibile che non sappia cosa sia accaduto a Mazara del Vallo, chi ha rapito nostra figlia, che non conosca i responsabili di un gran movimento ovunque di investigatori che sicuramente gli ha creato fastidio. Siamo stati sempre convinti di questo, non perché lo riteniamo responsabile direttamente del rapimento, ma perché non si muoveva una foglia senza che non lo sapesse».

[…] è vero che i boss in generale hanno sotto controllo quello che succede nel loro territorio. E spesso sono in grado di ricostruire fatti accaduti in quei luoghi grazie alla rete di informatori sul territorio. L’ipotesi che Messina Denaro sappia qualcosa del destino di Denise Pipitone non è campata in aria. Anche se in questi anni non è mai emerso il coinvolgimento di Cosa Nostra nel caso.

La famiglia di Denise Pipitone: “Matteo Messina Denaro potrebbe sapere cos’è successo”. Luca Mastinu su Bufale.net il Gennaio 20, 2023

 Arriva dalle agenzie di stampa, il pensiero della famiglia di Denise Pipitone su Matteo Messina Denaro. Il boss di Cosa Nostra è stato arrestato lunedì 16 gennaio e da quel momento le notizie e le indiscrezioni su questi 30 anni di latitanza si rincorrono giorno per giorno.

Negli ultimi giorni, inoltre, è spuntato un appello della famiglia di Denise Pipitone, nelle persone dei genitori Piera Maggio e Pietro Pulizzi, affinché il boss dica quanto sia a sua conoscenza sulla scomparsa della piccola.

Nello stesso giorno della cattura del boss, la famiglia di Denise Pipitone ha pubblicato un annuncio sui social che riportiamo di seguito:

Chiediamo allo Stato italiano, ai magistrati che se ne prenderanno carico. Dopo tutti gli accertamenti e le doverose domande di rito al boss Matteo Messina Denaro, qualcuno cortesemente chieda al boss, se in qualche modo ha avuto notizie sul sequestro di nostra figlia Denise? Grazie

Nei commenti, ancora, Piera Maggio e Pietro Pulitzi hanno specificato:

La nostra richiesta al boss Matteo Messina Denaro, non è per accusarlo di qualcosa, infatti nel caso del piccolo Di Matteo il suo coinvolgimento era ben altro rispetto alla domanda che gli verrebbe posta sul nostro caso dove non è coinvolto personalmente ma che avrebbe potuto sapere per altre situazioni…

Ricordo a tutti che per la ricerca di Denise, dall’inizio fino a un bel po’ di mesi, ci fu un blocco su tutto il territorio in tutti sensi. La ricerca di Denise, probabilmente ha potuto dare fastidio anche su altri fronti… quindi non è scontato ma può essere fattibile che qualcuno abbia voluto sapere o saputo la ragione del perché i propri affari venissero ostacolati da un evento imprevisto e magari capirne la causa dei mali e quindi aver saputo chi li abbia causati…

Raggiunta dall’Adnkronos, Piera Maggio ha aggiunto: “Nel nostro territorio non si muoveva una foglia senza che lui sapesse”, dunque il paese di Mazara Del Vallo – paese dal quale Denise è scomparsa – potrebbe trovarsi nella sfera d’influenza del territorio del boss.

Su questo aspetto l’avvocato di parte civile Giacomo Frazzitta, in un intervento durante il programma Ore14 su Rai 2, ha chiarito con questa dichiarazione:

Quando in un territorio accade qualcosa che suscita grande clamore e non è stata Cosa Nostra, i mafiosi cercano subito di informarsi. Come nel caso della scomparsa di Stefano e Antonio Maiorana, anche se in quel caso ai mafiosi furono dette delle bugie.

Quindi Piera Maggio, all’Adnkronos, aggiunge:

Per mesi la provincia è rimasta sotto i riflettori con una grande attenzione mediatica e un dispiegamento di forze dell’ordine che deve aver dato non poco fastidio ai suoi uomini e a lui stesso. Impossibile per l’uomo che controllava il territorio non scoprire cosa fosse accaduto. So che chiedo un miracolo ma voglio provarci.

La scomparsa di Denise Pipitone

Denise Pipitone scomparve il 1° settembre 2004 da Mazara Del Vallo (Trapani), intorno alle 11:45. Poco prima stava giocando con un cuginetto che poi era stato richiamato dalla madre per il pranzo.

Come racconta la stessa Piera Maggio sul sito Cerchiamodenise.it, la piccola aveva rincorso il cuginetto che nel frattempo era rientrato in casa, aveva fatto capolino e poi si era diretta sulla strada che l’avrebbe riportata a casa, ma proprio in quel momento si persero le tracce.

Dal 2004 la famiglia non ha mai smesso di cercarla.

Incensurato: colpevole o maldifeso?

La sua difesa affidata ad avvocati d’ufficio.

I misteri di un uomo in fuga. Chi è veramente Matteo Messina Denaro: capo della mafia o uomo in fuga? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Eccolo lì, il Capo di Cosa Nostra. Una belva sanguinaria o un uomo sconfitto dalla malattia? Non si dovrebbe mai fare festa quando si cattura un prigioniero. Soprattutto quando il Capo della mafia di tutti i tempi non appare come il capomafia assetato di sangue che tutti immaginano, ma come un uomo malato di tumore, pallido e rassegnato. I carabinieri del Ros che ieri mattina hanno arrestato dopo trent’anni di latitanza Matteo Messina Denaro ci hanno almeno risparmiato la vergogna di quella scorribanda con clamore di clacson e mitragliette fuori dai finestrini con cui i “cugini” della squadra mobile di Palermo avevano esaltato l’arresto di Giovanni Brusca nel 1996.

Le immagini di ieri mattina sono il trionfo della sobrietà. Colui che le sentenze di mafia hanno bollato come il boss dei boss, il successore di Totò Riina nella politica delle stragi dei corleonesi, esce senza manette dalla clinica “La Maddalena” dove era sottoposto a un ciclo di chemioterapia, poi viene sospinto quasi con dolcezza da una carabiniere in divisa all’interno di un’auto in cui poi entrano anche due agenti armati. Niente spintonamenti, niente mano sulle testa in quel gesto violento che normalmente si usa nello spingere dentro il veicolo il prigioniero, il catturato. Di Messina Denaro si notano subito non solo i perpetui occhiali scuri a coprire i problemi di salute degli occhi, ma soprattutto quel berretto che potrebbe nascondere la caduta dei capelli conseguente alle cure oncologiche. Quel che oggi possiamo chiederci è chi è l’uomo che è stato accompagnato con garbo in caserma e poi con un elicottero in località segreta. Viste le condizioni di salute, l’approdo potrebbe essere il reparto speciale per detenuti dell’ospedale San Paolo di Milano. Quello in cui morì Bernardo Provenzano.

Chi è oggi Matteo Messina Denaro? È il capo della mafia o è un malato grave con metastasi al fegato? E il suo arresto è il primo vero successo della premier che si è precipitata a congratularsi in Sicilia e del ministro Piantedosi che si era già vantato di essere l’uomo che un giorno avrebbe posto fine alla latitanza del grande ricercato? O invece, come già qualcuno sospetta, c’è stata una mini-trattativa per la consegna, più o meno spontanea, di un uomo malato e stanco di essere inseguito per fatti di trent’anni prima, organizzati ed eseguiti da una Cosa Nostra dei corleonesi che non esiste più? Certo, le condanne ci sono, e gli ergastoli anche. Matteo Messina Denaro porta stampato sul corpo il titolo “onorifico” di essere stato il capo della mafia. Non importa che quella stagione delle stragi sia finita e che quei boss che furono i capi e i maestri dell’ultimo latitante siano ormai morti.

Può sembrare un paradosso e anche creare scandalo il ricordarlo, ma l’uomo che ieri abbiamo visto pallido e rassegnato quasi tra le braccia delle forze dell’ordine, non è mai stato presente a un processo in cui era imputato. È stato sempre giudicato e condannato in contumacia, secondo un sistema tutto italiano, che non esiste in altri ordinamenti europei, soprattutto per i reati più gravi. Un po’ come era successo a Cesare Battisti, condannato per fatti di terrorismo, che non era affatto innocente, ma che aveva denunciato l’anomalia del nostro Paese, dove domina tuttora la sub-cultura del “pentitismo” che toglie laicità al processo. E favorisce gravissime distorsioni, come quella creata dalla costruzione a tavolino del falso collaboratore Enzo Scarantino, che ha consentito il fatto che una decina di innocenti sia stata in carcere per un decennio.

Del personaggio Matteo Messina Denaro conosciamo solo quello che è scritto nelle motivazioni delle sentenze che lo hanno condannato per le stragi di Capaci e via D’Amelio del 1992 e anche quelle del 1993 di Milano, Firenze e Roma. Cioè dell’anno in cui sarebbe iniziata la sua latitanza. Ma parlare di questo singolare Capo della mafia è possibile solo per ipotesi e abbondante uso del condizionale. In che veste ha partecipato alle uccisioni di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli uomini delle due scorte? E a quella “trattativa” tra lo Stato e la mafia che non è mai esistita ma in cui lui avrebbe svolto un ruolo di grande rilievo? Non si sa, nessuno l’ha visto da nessuna parte, quindi si suppone lui sia stato quello che ha schiacciato i pulsanti del decisore, del mandante, in ogni situazione. Non ha mai avuto un difensore di fiducia, Matteo Messina Denaro. Del resto, a che cosa gli sarebbe servito? Essendo già stato battezzato come Capo di Cosa Nostra, ed essendo possibile nel nostro ordinamento, processare e condannare gli imputati in contumacia, e senza che vengano osservate le regole del contraddittorio in aula del giusto processo, le condanne erano inevitabilmente già scritte. Senza nulla togliere alla professionalità dei vari difensori d’ufficio, e senza bollare come sbagliate le sentenze di condanna. Ma un conto è ritenere che le varie corti d’assise abbiano condannato un colpevole, altro conto è che in quelle aule sia stata fatta giustizia.

Prendiamo le ultime sentenze per le stragi che inevitabilmente sono diventate anche le più simboliche, quelle del 1992 in cui hanno perso la vita Falcone e Borsellino. I simboli della ferocia dei corleonesi ma anche dei clamorosi errori dei pubblici ministeri dell’antimafia, quelli che hanno costruito e poi sposato le chiacchiere del finto pentito Scarantino. I fallimenti di diverse generazioni di magistrati che hanno tenuto prigioniera nelle aule di giustizia la realtà dei fatti per trent’anni. E non parliamo del flop più clamoroso, quello sul processo “Trattativa”. Il ruolo di Matteo Messina Denaro lo si deduce dalle motivazioni delle sentenze. Prendiamo ad esempio quella della corte d’assise di Caltanissetta che lo ha condannato all’ergastolo. Il boss di Castelvetrano «condivise in pieno l’oggetto e la portata del piano criminale di Riina di attacco allo Stato e di destabilizzazione delle sue istituzioni, allo scopo, da un canto, di colpire i nemici storici, gli inaffidabili e i traditori di Cosa Nostra, dall’altro canto di entrare in contatto con nuovi referenti con cui trattare per giungere a un nuovo equilibrio».

È impressionante, e anche imbarazzante, doversi ancorare a quel verbo “condivise” per trovare la prova di una colpevolezza. Così come le argomentazioni che lo collocano al centro di quella “Trattativa” che non ci fu. Cioè quell’accordo tra i corleonesi e importanti apparati dello Stato, quello per cui le stragi sarebbero cessate in cambio di qualche derubricazione dei regimi 41 bis cui erano sottoposti i boss mafiosi in carcere. «Anche a non voler credere -scrivono i giudici- che Messina Denaro fosse a conoscenza di tutti gli snodi e i particolari della Trattativa, il boss trapanese fu presente proprio alla riunione avvenuta a Mazara del Vallo subito dopo la strage di via D’Amelio, riunione dove Riina comunicò che le richieste contenute nel Papello erano state ritenute esose». E via dicendo.

Da oggi si aspetta qualche momento di verità. Matteo Messina Denaro si comporterà come Giovanni Brusca e farà il “pentito”? E che cosa potrà mai avere di nuovo da raccontare, che non abbia già riferito la schiera di collaboratori che le inchieste di mafia ormai contengono al proprio interno? E se invece resterà in silenzio, sarà perché rannicchiato nella malattia o perché avrà ancora la voglia di essere l’unico irriducibile trent’anni dopo come un giapponese a guerra finita?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il Regalino. Dire grazie al Tumore

Il tumore al colon con metastasi che ha ucciso Matteo Messina Denaro: caratteristiche e sintomi. Il boss è morto a causa di un tumore al colon-retto: ecco di cosa si tratta, quali sono i campanelli d'allarme, come si cura e l'aspettativa di vita. Alessandro Ferro il 25 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Caratteristiche del tumore al colon

 Quali sono i sintomi

 Diagnosi e cure

 Studi e sopravvivenza

L'ultimo padrino, Matteo Messina Denaro, è morto a causa di una grave forma di tumore al colon di cui soffriva da anni, dalla diagnosi nel 2020, fin quando le sue condizioni di salute non si sono aggravate irreversibilmente nelle ultime settimane. Durante i mesi della sua cattura che ha trascorso in regime di 41 bis nel carcere de L'Aquila è stato sottoposto ad alcuni interventi chirurgici direttamente collegati al cancro fin quando è arrivato al coma irreversibile negli ultimissimi giorni e i medici hanno optato per la sospensione dell'alimentazione secondo le volontà di Messina Denaro.

Caratteristiche del tumore al colon

Il tumore del colon si sviluppa quando avviene una crescita fuori controllo delle cellule epiteliali della mucosa che riveste la parte interna dell’intestino crasso (il cui nome è, appunto, colon) che si manifesta soprattutto nella sua parte finale (chiamata sigma), nel colon ascendente e più raramente anche nel colon trasverso e discendente, la parte più vicina al retto.

Allarme tumore al colon negli under 50: scoperte le cause

Quali sono i sintomi

Alcuni segnali non vanno sottovalutati, e riguardano soprattutto la perdirta di peso e la comparsa di sangue nelle feci. Altre volte, però, può essere più complicato identificare il tumore del colon retto che può presentarsi in maniera più subdola inizialmente con stitichezza o diarrea. Gli esperti dell'Irccs Ospedale San Raffaele del Gruppo San Donato spiegano che in altri casi "i sintomi possono essere talmente sfumati tanto da non essere riconosciuti dal paziente. La sola anemizzazione ne è un esempio: il paziente si accorge tramite gli esami del sangue di avere dei valori alterati, causati dal sanguinamento spontaneo del tumore".

Diagnosi e cure

Prima di capire quali sono le terapie disponibili, bisogna sottolineare che per scovare il tumore del colon-retto si utilizzano i seguenti strumenti come affermano dall'Istituto Humanitas:

Ecografia addominale e pelvica;

Colonscopia con biopsia per esame istologico;

Tomografia computerizzata torace-addome-pelvi;

Anoscopia;

Rettoscopia.

Per provare a rimuovere il tumore si utilizza l'intervento chirurgico, normalmente il primo step della terapia. Nelle fasi più avanzate, invece, si procede con radio o chiemioterapia. In alcuni casi, ad alcuni pazienti vengono somministrati nuovi farmaci biologici quando non c'è la risposta desiderata con i farmaci antitumorali mirati.

Studi e sopravvivenza

ll tumore al colon-retto è tra i più diffusi nei Paesi occidentali, Italia compresa dove soltanto nel 2022 sono state fatte quasi 50mila nuove diagnosi con una leggera prevalenza della malattia negli uomini (26mila) rispetto alle donne (22mila). Nel nostro Paese convivono con questa malattia oltre mezzo milione di persone tra cui, anche in questo caso, 280mila uomini e circa 230mila donne. "La buona notizia è che oggi disponiamo di uno strumento formidabile per identificare questi tumori ben prima della comparsa dei sintomi per intervenire tempestivamente, ossia lo screening precoce. Mi piace pensare che in un mondo ideale e non troppo futuro il tumore del colon-retto sarà in gran parte curabile proprio grazie all'identificazione precoce tramite gli appuntamenti con la prevenzione", ha spiegato il prof. Silvio Danese, direttore dell'Unità di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva dell'Irccs Ospedale San Raffaele.

Come abbiamo visto sul Giornale.it, i ricercatori stanno mettendo a punto una nuova cura con l'immunoterapia. Ma qual è la speranza di vita? "A oggi la sopravvivenza di un paziente con cancro al colon retto metastatico può raggiungere anche i 24-36 mesi", ha spiegato al Corriere il prof. Carmine Pinto, direttore dell’Oncologia medica all’Ausl-Irccs di Reggio Emilia ma in molti casi si possono raggiungere anche i cinque anni di vita. Tutto dipende dalla tolleranza del malato alle cure, se è in grado di tollerare le terapie e se il singolo paziente riesce a superare, "quanto si è diffuso il tumore, quanto è aggressivo, se e quanto le cure fanno effetto".

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Tumore al colon: 4 segnali da non sottovalutare. Alessandro Ferro il 18 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il tumore al colon-retto si diffonde sempre di più anche nella popolazione più giovane. Ecco i sintomi a cui prestare la massima attenzione e l'importanza della prevenzione

Tabella dei contenuti

 Ecco i 4 campanelli d'allarme

 Cosa dice lo studio

 L'importanza della prevenzione

Sebbene il tumore al colon-retto possa colpire tutte le età, dai giovani agli adulti, negli ultimi tempi alcuni ricercatori hanno riscontrato un preoccupante aumento dei casi tra i soggetti che hanno meno di 50 anni tanto da parlare di "esordio precoce" della malattia. Un importante studio condotto dalla Washington University School of Medicine di St. Louis e pubblicato sul Journal of the National Cancer Institute ha messo in risalto quali sono i campanelli d'allarme che devono far subito richiedere il parere di un medico specialista.

Ecco i 4 campanelli d'allarme

I quattro segnali che possono indicare l'esordio della malattia sono i seguenti:

Dolore addominale: soprattutto se è persistente, può essere un sintomo importante. "È consigliabile prestare attenzione a eventuali crampi, sensazioni di gonfiore o disagio che si protraggono nel tempo", spiegano gli esperti di MicrobiologiaItalia

Sanguinamento: la presenza di sangue nelle feci o nel tratto anale può indicare un problema del colon. Anche con tracce minime bisognerebbe richiedere l'attento parere di un esperto

Diarrea: se gli episodi si fanno frequenti e persistenti ci può essere un legame con il tumore del colon così come quando si verificano lunghe alterazioni del ritmo intestinale

Bassi livelli di ferro: bassi livelli di ferro nel sangue, ossia l'anemia da carenza di ferro, può essere un altro dei sintomi del tumore al colon-retto. "La carenza di ferro può causare affaticamento, debolezza e pallore, tra gli altri sintomi. È importante sottoporsi a un esame del sangue per valutare i livelli di ferro e discutere i risultati con un medico", spiegano i microbiologi

Cosa dice lo studio

La ricerca in questione ha analizzato circa 5mila casi già diagnosticati di cancro al colon-retto negli under 50 per capire quale fosse l'andamento della malattia ma soprattutto i campanelli d'allarme a partire dai due anni precedenti fino a tre mesi prima dalla diagnosi definitiva. "Il cancro del colon-retto non è semplicemente una malattia che colpisce le persone anziane; vogliamo che i giovani adulti siano consapevoli e agiscano in base a questi segni e sintomi potenzialmente molto significativi", ha dichiarato il coordinatore dello studio, Yin Cao.

Tumore al colon: possibile cura senza chemioterapia

I ricercatori hanno spiegato che la sola presenza di uno dei quattro sintomi sopra menzionati raddoppia la possibilità che il tumore al colon sia presente: se poi i segnali negativi fossero due il rischio sarebbe di 3,59 volte che aumenta a 6,52 volte con tre sintomi su quattro. "In questa analisi abbiamo scoperto che alcuni giovani adulti avevano sintomi fino a due anni prima della loro diagnosi. Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui molti di questi pazienti più giovani avevano una malattia più avanzata al momento della diagnosi rispetto a quella che normalmente vediamo nelle persone anziane che vengono sottoposte a screening regolarmente", ha sottolineato la prima firma di questa ricerca, Cassandra D. L. Fritz.

L'importanza della prevenzione

Come abbiamo visto su ilGiornale.it, è di fondamentale importanza aderire alle campagne di prevenzione come quella chiamata "Step Up" che durerà tutto l'anno. Il 2022 ha fatto registrare, soltanto in Italia, 48mila nuovi casi di tumore previsti in aumento quest'anno ma si cerca, in tutti i modi, di arginare questa importante problematica. Quando non concorrono fattori genetici, massima attenzione va riservata al regime alimentare, evitando abuso di alcol e fumo che aumentano esponenzialmente il rischio di veder insorgere questo tumore.

(ANSA l'8 agosto 2023) –  Matteo Messina Denaro è ricoverato nell'ospedale San Salvatore dell'Aquila. Lo si apprende da fonti sanitarie. Il boss mafioso è stato trasferito dal carcere, dove si trova al 41 bis, al reparto di chirurgia con imponenti misure di sicurezza.

(ANSA l'8 agosto 2023) - "Io non mi farò mai pentito": lo dice senza esitazioni il boss Matteo Messina Denaro interrogato dopo l'arresto dal procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e dall'aggiunto Paolo Guido. L'interrogatorio in cui il boss nega di aver commesso stragi e omicidi e di aver trafficato in droga, ma ammette di aver avuto una corrispondenza con il capomafia Bernardo Provenzano, è stato depositato oggi.

(ANSA l'8 agosto 2023) – “Non voglio fare il superuomo e nemmeno l'arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia". Lo ha detto ai pm nel corso di un interrogatorio Matteo Messina Denaro. Il verbale è stato depositato oggi. Il capomafia ha raccontato che fin quando ha potuto ha vissuto rinunciando alla tecnologia, sapendo che sarebbe stato un punto debole. Ma poi ha dovuto cedere.

Ai magistrati, per spiegare il cambio di passo sulla gestione della latitanza il 13 febbraio scorso ha citato il proverbio ebraico: "se vuoi nascondere un albero piantalo in una foresta". "Ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua...", si è detto dopo aver scoperto di avere il tumore "allora - ha raccontato - mi metto a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta, allora se voi dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta". Ma, ha precisato, in paese in pochi conoscevano la sua vera identità. "A Campobello mi sono creato un'altra identità: Francesco". "Giocavo a poker, mangiavo al ristorante, andavo a giocare", ha spiegato. Una vita normale per passare inosservato.

(ANSA l'8 agosto 2023) - "Io mi sento uomo d'onore ma non come mafioso. Cosa nostra la conosco dai giornali". Così Matteo Messina Denaro nel lungo interrogatorio depositato oggi e reso dopo la cattura al procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e all'aggiunto Paolo Guido. "La mia vita non è stata sedentaria, è stata una vita molto avventurosa, movimentata", ha detto ammettendo la latitanza e di aver comprato una pistola, ma di non averla mai usata e di non aver fatto omicidi e stragi.

"E lei non ha mai avuto a che fare Cosa nostra?", gli chiedono i magistrati. "Non lo so magari ci facevo affari e non sapevo che era Cosa nostra", risponde. "Quali reati ha commesso?", lo incalzano. "Non quelli di cui mi accusano: stragi e omicidi. Non c'entro nella maniera più assoluta. Poi mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare".

(ANSA l'8 agosto 2023) - "Una cosa fatemela dire. Forse è la cosa a cui tengo di più. Io non sono un santo...ma con l'omicidio del bambino non c'entro": lo dice senza esitazioni il boss Matteo Messina Denaro interrogato dopo l'arresto dal procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e dall'aggiunto Paolo Guido, parlando dell'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito rapito e sciolto nell'acido. Il verbale è stato depositato oggi. "Lei mi insegna che un sequestro di persona ha una sua finalità, che esclude sempre l'uccisione dell'ostaggio, perché un sequestro a cosa serve? 

Ad uno scambio: tu mi dai questo ed io do l'ostaggio; il sequestro non è mai finalizzato all'uccisione- spiega il boss - Sequestrano questo bambino - quindi io sono come mandante, mandante del sequestro - sequestrano questo bambino, lui (Giovanni Brusca ndr) non dice che c'ero io". 

 "Ad un tratto lui resta solo in tutta questa situazione, passa del tempo, un anno/due anni, dice si trova davanti a televisione ed il telegiornale dà la notizia di... che lui era stato condannato all'ergastolo per l'uccisione dell'esattore Ignazio Salvo, ci siamo?" , spiega. A quel punto secondo la narrazione di Messina Denaro, Brusca, fuori di sé per la condanna all'ergastolo per l'omicidio Salvo, decreta la morte del bambino.

"Ma... allora, a tutta coscienza - dice Messina Denaro - , se io devo andare in quel processo, che è ormai di Cassazione, devo andare per sequestro di persona. Quindi a me perché mi mettete - non voi, il sistema - come mandante per l'omicidio, quando lui dice che poi non ci siamo visti più?" 

"Decise tutto lui, per l'ira dell'ergastolo che prese. - conclude - Ed io mi sento appioppare un omicidio, invece secondo me mi devono appioppare il sequestro di persona; non lo faccio per una questione di 30 anni o ergastolo, per una questione di principio. E poi a tutti... cioè loro lo hanno ammazzato, lo hanno sciolto nell'acido e alla fine quello a pagare sono io? Cioè, ma ingiustizie quante ne devo subire? ". I pm tornano a chiedergli se c'entri nella vicenda e lui ribadisce di no.

(ANSA l'8 agosto 2023) - "Il mafioso riservato è tipo un altro argomento di legge, se vogliamo dire, farlocco, come il 'concorso esterno', io preferirei, se fosse una mia decisione: tu favorisci... il favoreggiamento prende da 4 a 5 anni, se favorisci un mafioso sono 12 anni; meglio così: si leva il farlocco di torno". Lo dice, durante un interrogatorio depositato oggi, il boss Matteo Messina Denaro rispondendo ai pm che gli chiedevano di Andrea Bonafede, accusato di essere un uomo d'onore riservato e di aver prestato al padrino l'identità. Il capomafia critica sia la definizione di uomo d'onore riservato che il concorso esterno in associazione mafiosa.

(ANSA l'8 agosto 2023) - "Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d'arte". Così Messina Denaro rispose, il 13 febbraio nel corso del primo interrogatorio dopo l'arresto, ai pm di Palermo che gli chiedevano se avesse mai trafficato in droga. Il padre del capomafia, Francesco Messina Denaro, padrino di Castelvetrano, è morto da latitante ed è ritenuto uno dei fedelissimi dei corleonesi di Totò Riina. 

"Io sono appassionato di storia antica da Roma a salire - racconta il capomafia ai magistrati - poi mio padre era mercante d'arte e dove sto io c'è Selinunte (sito archeologico del trapanese ndr). Mio padre non è che ci andava a scavare però a Selinunte a quell'epoca c'erano mille persone e scavavano tutte. In genere il 100% delle opere le comprava mio padre che poi venivano vendute in Svizzera e poi arrivavano dalla Svizzera dovunque: in Arabia, negli Emirati e noi vedevamo cose che passavano da mio padre nei musei americani".

(ANSA l'8 agosto 2023) - "Io non è che volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa... Il punto qual è? Che io ce l'avevo con quella metodologia di commemorazione. Allora, se invece del giudice fosse stato Garibaldi, la mia reazione sempre quella sarebbe stata, perché non si possono permettere di bloccare un'autostrada per decine di chilometri: cosi vi fate odiare". Lo dice ai pm nel corso di un interrogatorio Matteo Messina Denaro commentando la chat audio in cui, fermo nel traffico per le commemorazioni della strage di Capaci, imprecava. L'audio era stato inviato a una paziente con cui faceva la chemioterapia durante la latitanza.

(ANSA mercoledì 9 agosto 2023) - "Matteo Messina Denaro si è risvegliato dall'operazione che è andata molto bene, è vigile e attivo. E' in terapia intensiva solo per prassi dopo interventi del genere". Lo dice il garante dei detenuti in Abruzzo, Gianmarco Cifaldi dopo l'intervento a cui è stato sottoposto all'ospedale dell'Aquila il boss mafioso. 

"La degenza in ospedale dipende dalla combinazione tra il consulto sanitario e gli approfondimenti del Dap che deve valutare le azioni per garantire la sicurezza interna ed esterna - afferma ancora Cifaldi - Tutte le azioni vanno a garantire i diritti costituzionali sia per il boss sia per tutte le persone libere".

Quanto alla richiesta di scarcerazione annunciata dai difensori di Messina Denaro in quanto il regime del 41 bis sarebbe incompatibile con le condizioni di salute di Messina Denaro, Cifaldi sottolinea: "garantiamo il diritto alla salute con personale medico qualificato e tutte le Agenzie dello Stato stanno operando nel rispetto del dettato costituzionale, me compreso".

Estratto dell’articolo Salvo Palazzolo per “la Repubblica” mercoledì 9 agosto 2023.

«Io non faccio parte di niente, io sono me stesso — esordisce — Mi definisco un criminale onesto». Nel suo primo interrogatorio, Matteo Messina Denaro parla da capomafia ancora in carica.

«Io non sono uomo d’onore — mette a verbale — mi ci sento». Nega e rilancia. «Io non sono un santo — è l’unica ammissione — però non c’entro niente con la storia del bambino Di Matteo», tiene a precisare. E, poi, torna a sfidare i magistrati che lo hanno arrestato, il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia e l’aggiunto Paolo Guido. L’ennesima sfida allo Stato da parte del capomafia condannato per le stragi del 1992-93, bloccato a Palermo dai carabinieri del Ros il 16 gennaio scorso, dopo 30 anni di latitanza.

«Io mafioso non lo sono — insiste nell’interrogatorio fatto il 13 febbraio, nel supercarcere dell’Aquila — ma conosco la mentalità dei mafiosi». È il più narcisista dei padrini. Gli chiedono: suo padre era mafioso? E lui risponde: «Non gliela feci mai questa domanda».

Fa una pausa e precisa: «Mi auguro che lo sia stato… quantomeno la sua vita avrebbe avuto un senso ». 

Eccolo, il boss che custodisce i segreti delle stragi, delle complicità eccellenti della mafia e dei tesori mai sequestrati. Il procuratore de Lucia gli chiede: conosce Cosa nostra? Risponde: «Dai giornali, certo». Il magistrato insiste: e conosce Bernardo Provenzano, con cui si scambiava pizzini? Lui nega anche l’evidenza: «L’ho conosciuto in tv. Poi essendo tutti e due latitanti ci siamo incontrati, succede: io chiedevo favori a lui, e lui a me».

Ma perché negare anche l’evidenza? Messina Denaro vuole fare arrivare un messaggio soprattutto: «Dottore de Lucia, io non mi farò mai pentito».

È un segnale che deve arrivare chiaro soprattutto all’esterno del carcere. Agli insospettabili complici che continuano a gestire il patrimonio del padrino, perché le relazioni sono il vero tesoro su cui può contare l’organizzazione mafiosa, che non rinuncia alla sconfitta. 

Ecco perché il boss dice, con tono rassicurante: «Io, durante la latitanza, non ho mai avuto rapporti con appartenenti alle istituzioni, completamente». Per allontanare ancora una volta l’idea che abbia beneficiato di complicità. […]

«Il mafioso riservato è tipo un altro argomento di legge se vogliamo dire farlocco — dice ora, atteggiandosi a giurista — come il concorso esterno». Lo strumento di legge voluto da Giovanni Falcone per colpire gli insospettabili complici non piace ai mafiosi.

In realtà, non piace neanche al ministro della Giustizia Carlo Nordio, che nei giorni scorsi si è lanciato in alcune improvvide dichiarazioni, scatenando le reazioni dei parenti delle vittime delle stragi, tanto da costringere la presidente del consiglio Giorgia Meloni a una precisazione. 

[…] Quando gli chiedono se ha mai trafficato in stupefacenti, dice: «Vivevo bene di mio, di famiglia, quindi...». Ed estorsioni? «Non ne faccio di queste cose». I pm lo incalzano ancora: e non ha mai avuto a che fare con Cosa nostra?. Risposta: «Non lo so, magari ci facevo qualche affare e non sapevo che era Cosa nostra». 

Prova sempre a sfuggire alle risposte. «Dunque, reati ne ha mai commessi lei?», gli chiedono un’altra volta. «No — dice — di quelli che mi accusano no».

Il procuratore de Lucia insiste: quindi stragi, omicidi, lei non c’entra niente? Risposta di Messina Denaro: «No, nella maniera più assoluta. Poi, mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare alla fin fine, no?». Ecco come parla un mafioso irriducibile. 

Quando il procuratore chiede: quindi, a parte la detenzione della pistola trovata nel covo, lei si reputa innocente, Ho compreso bene? Dice: «No, no, non voglio dire questo, sarebbe assurdo». E allora?. «Io ho detto la mia… In tutti i processi di reati con c’è mai stato riscontro oggettivo». Il procuratore chiosa: «Questa è una opinione». Il boss dice: «No». 

[…]

Estratto dell'articolo di Riccardo Arena per “La Stampa” mercoledì 9 agosto 2023.  

Un filosofo, un teorico persino del diritto. Soprattutto un malato. Un boss ferito nell'orgoglio per una cattura che non si aspettava, con buona pace dei dietrologi d'accatto, e anche un boss malato, che magari pensava a un'uscita di scena da questo mondo in grande stile, quando – il 13 febbraio scorso – pensò di abbozzare una specie di show con due clienti poco disponibili, i magistrati che dopo trent'anni avevano posto fine alla superlatitanza dell'ultimo grande capo libero di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. 

Come Bernardo Provenzano, come Totò Riina, che sembravano non dover morire mai, il capomafia di Castelvetrano potrebbe essere entrato nell'ultima fase della vita.

[…]

Sta male, e si sapeva. Stava male pure Provenzano, che per oltre un anno ha vissuto quasi da vegetale al 41 bis, è stato male – anche se per molto meno tempo – Totò Riina.

Per i due capi corleonesi si era aperto un dibattito sull'inutilità del regime di carcere duro per le persone gravemente malate o giunte alla fase terminale, per loro l'isolamento e i contatti limitatissimi furono di fatto bypassati solo negli ultimissimi giorni, quando fu consentito ai familiari di vegliare "Binu" Provenzano e poi, un anno e cinque mesi più tardi, a novembre del 2017, anche Riina.

Ma in regime detentivo rimasero sempre: ora uno degli avvocati di Messina Denaro, Alessandro Cerella, sostiene che la situazione è del tutto incompatibile con la reclusione in sé, figurarsi col 41 bis. Ieri l'ex latitante è stato operato per un'occlusione intestinale, complicazione che potrebbe avere un collegamento più o meno diretto con il tumore al colon con cui Messina Denaro convive da ormai tre anni e che – lui ne è convinto – è stata l'unica via attraverso cui è stato possibile catturarlo. E questo anche se «non sono né un superuomo né un arrogante», chiosa. 

Del resto, con i suoi 61 anni il suo commiato non può essere pari a quello degli ultraottuagenari Provenzano e Riina. […]

L'interrogatorio di Messina Denaro – il primo reso ai magistrati della Dda palermitana, di cui de Lucia è il capo e Guido l'aggiunto – è un florilegio di mafiologia, quasi un testamento anticipato con una premessa: «Non mi pentirò mai». Fin qui molto Riina, un pizzico di Provenzano. 

Poi la conoscenza di Cosa nostra attraverso i giornali, la negazione del fondamento del concorso esterno («reato farlocco»), che pare quasi un'anticipazione del dibattito politico-giudiziario di queste settimane. Ma lui non parla a caso, dice a chiare lettere che se si deve attribuire un reato a tutti quelli con cui ha avuto a che fare, «a Campobello di Mazara – dove trascorse la latitanza, indisturbato – dovete arrestare almeno due-tremila persone: di questo si tratta». Ma poi no, di nuovo il sedicente non-mafioso fa capolino («Però mi sento uomo d'onore») quando dice che quasi nessuno sapeva chi fosse lui in realtà, in paese. 

Ma va tolto il 41 bis a uno così? La pericolosità dei supercapi ha sempre sconsigliato qualsiasi allentamento, anche in limine mortis, e per questo il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto mette le mani avanti, dicendo che «tocca ai magistrati verificare se ce ne siano le condizioni». Poi, in fondo Messina Denaro non pensa di essere pericoloso: «Mai commessi stragi né omicidi». Per l'assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo ha una visione del mondo tutta sua: non di omicidio dovrebbero accusarlo ma solo di sequestro, come mandante, che ne sapeva lui che poi Giovanni Brusca avrebbe fatto assassinare il figlio del pentito Santino Di Matteo? 

E di fronte alla condanna all'ergastolo anche per questo reato, parla di «ingiustizie: quante ne devo subire?». C'è molto di Riina, in questo, ricorda le esternazioni del boss corleonese, che si definiva "il parafulmine" di tutte le trame d'Italia. Di certo c'è che ciascuno dei capi dei capi si porta nella tomba i suoi misteri: nessuno dei tre ha mai spiegato, chiarito, parlato apertamente. Messina Denaro ammette i contatti con Provenzano, per qualche affare, «ma mai né stragi né omicidi». Figurarsi.

Messina Denaro, la sfida ai pm: "Le telecamere? Sapevo chi le metteva..." Il Tempo il 09 agosto 2023

Nel suo interrogatorio subito dopo l'arresto Matteo Messina Denaro non solo ha respinto ogni accusa di omicidio, affermando di conoscere Cosa Nostra solo dalla tv, e di affermare che non si pentirà mai. Il capo dei capi ha anche fornito alcune indicazioni su come è sfuggito nella lunga latitanza. "Tutte le telecamere di Campobello di Mazara (Trapani, ndr) e Castelvetrano (Trapani, ndr) le so...", ha detto spavaldo nel suo narcisismo ai pm. Messina Denaro è anche allusivo e conosce pure i nomi di chi lo cercava. Nell’interrogatorio del 13 febbraio scorso, ai pm di Palermo Maurizio de Lucia e Paolo Guido il boss nega qualsiasi rapporto di tipo istituzionale con pezzi deviati dello Stato. Parla, l’ex superlatitante, di un appuntamento col fiancheggiatore Andrea Bonafede, l’uomo che gli prestò l’identità:"«Io - dice - ci sono andato al posto di lavoro, anche perché se ci andavo a casa mi arrestavate, c’era la telecamera che guardava a casa sua". Chiede il procuratore de Lucia: "E lei lo sapeva". Risposta: "Tutte le telecamere di Campobello e Castelvetrano le so, primo perché ho l’aggeggio che le cercava, che non l’avete trovato e poi perché le riconosco".

Ovviamente alla domanda su dove si trovi "sto aggeggio", il detenuto replica in modo vago, per poi andare subito nello specifico, anche in maniera raggelante: "Lo tenevo in un altro posto. E poi perché le riconosco, le telecamere. Le spiego come funziona: c’era pure un’altra cosa. Molte di queste telecamere quando le piazzavano, perché all’inizio quando iniziarono erano tutte di notte, poi anche di giorno, c’era un segnale: il maresciallo dei Ros (ne dice il cognome, ndr), c’era sempre lui appena si vedeva ... con due, tre fermi in un angolo già stavano mettendo una telecamera, anche se ancora non avevano messo mano".

I pm prendono atto della conoscenza, da parte della consorteria mafiosa e della cerchia del latitante, persino dei nomi degli investigatori di punta dei carabinieri del Ros: cosa che dimostra i pericoli corsi da chi ha indagato in prima linea. Cercano così di capire meglio: "Vabbè, ma lei non è che era sempre in giro". Risposta: "No, me lo dicevano". Chi? "Amici miei che non dico". Amici che sapevano chi era Messina Denaro però, insiste l’accusa. Risposta: "Certo, è normale questo, è normale". Insiste il procuratore aggiunto Guido: "Quindi c’era tanta gente che sapeva chi era lei". Messina Denaro: "Ma il punto è che molti ve li siete portati (arrestati, ndr)".

Intanto il boss detenuto a L'Aquila è ancora ricoverato. Sarebbero previsti almeno 2 giorni di semi-intensiva all’ospedale dell’Aquila. Ieri pomeriggio, il capo di Cosa nostra è stato ricoverato al San Salvatore dell’Aquila per una occlusione intestinale. Il boss 62enne è stato sottoposto a un intervento chirurgico per una "ostruzione che non è strettamente legata al cancro", hanno spiegato dalla equipe medica che lo segue. Al momento, non ci sarebbero complicazioni per questa seconda operazione 

Matteo Messina Denaro, ecco i retroscena del blitz che portò alla cattura. Enrico Bellavia su L'Espresso il 09 agosto 2023

La polizia lasciò la casa della sorella per la pista albanese. E i carabinieri centrarono l’arresto. I militari tornarono a frugare nell’appartamento della sorella Rosalia fino al ritrovamento del pizzino decisivo sulla malattia

Una pista considerata ormai battuta e bruciata. Troppo accorti, troppo guardinghi nella cerchia familiare di Matteo Messina Denaro per sperare che da lì, dall’ascolto della sorella Rosalia, le microspie dessero la battuta decisiva per un clamoroso arresto mancato da trent’anni.

Alla testa delle operazioni di ricerca del latitante stragista la polizia decise di concentrare gli sforzi su una nuova dritta, l’ennesima che dava il boss all’estero. Era successo in passato, si favoleggiava anche di un figlio in Inghilterra, lo avevano cercato anche in Nord Africa. Tesi, ancorate a soffiate, rivelatesi infondate ma non del tutto campate per aria.

Considerate la finanziarizzazione che sotto la sua direzione ha avuto la cosca di Castelvetrano, la capacità di relazione con pezzi dell’imprenditoria internazionale e il ponte aperto per i traffici di droga con l’altra sponda del Mediterraneo, approdo di numerosi altri fuggiaschi.

Così la pista albanese, l’ultima nell’elenco delle informazioni riservate con le quali gli investigatori della polizia avevano dovuto fare i conti, dava Matteo da qualche parte su un’altra sponda, ma dell’Adriatico. Fu anche per questo che la polizia cessò di occuparsi di Rosalia e della sua casa. E fu a quel punto invece, probabilmente fidando su un’altra dritta considerata affidabile arrivata a centinaia di chilometri di distanza da Campobello di Mazara, ultimo ricovero del boss, che i carabinieri deciso di riprendere da dove la polizia aveva lasciato: la casa di Rosalia.

Non le parole, non almeno quelle dette, si rivelarono decisive ma un pizzino che stava dentro la gamba di una sedia. Fu così che si seppe della malattia che ha consumato fino alla quarta operazione il boss. Fu così che, incrociando dati sui malati terminali della provincia si è arrivati alla Maddalena di Palermo e all’arresto in clinica il 16 gennaio scorso.

“Mi avete presto per la malattia”, ha detto il boss nel suo primo interrogatorio. E in fondo, spavalderia a parte, ha avuto ragione. Perché senza la necessità di esporsi per le cure, l’obbligo di doversi munire di un telefonino per i contatti con l’ospedale, la vanità di usarlo anche per corteggiare delle compagne di cure, il blitz non ci sarebbe stato.

Invulnerabile, del resto, lo è stato per trent’anni. Sarà per questo che anche nel suo primo interrogatorio ha rivolto un pensiero indiretto anche a quello che viene considerato uno dei più preziosi protettori, l’ex sottosegretario forzista Antonino D’Alì. Il politico condannato a 6 anni per concorso esterno in associazione mafiosa era entrato in carcere a dicembre, appena una manciata di giorni prima della cattura del boss. Per Matteo quel reato è “farlocco”. E lo ha detto ben prima che sulla presunta inconsistenza della fattispecie si pronunciasse lo stesso ministro Carlo Nordio.  

 

"Non sono un mafioso, Cosa Nostra la conosco dai giornali". L’interrogatorio di Messina Denaro: “Da latitante giocavo a poker, mi avete preso per la malattia. A Campobello dovete arrestare 3mila persone…” Redazione su Il Riformista l'8 Agosto 2023 

Da una parte le condizioni di salute sempre più gravi, stando alla denuncia del suo legale e al ricovero delle scorse ore in ospedale, dall’altra le parole rilasciate ai magistrati di Palermo nel suo primo interrogatorio i cui verbali sono stati depositati oggi. Matteo Messina Denaro, 62 anni, considerato l’ultimo capomafia di Cosa Nostra è stato arrestato il 16 gennaio scorso (dopo una latitanza trentennale) all’esterno di una clinica privata del capoluogo siciliano dove si recava da qualche anno per sottoporsi alle chemioterapie dopo la diagnosi di tumore al colon.

Ai magistrati della procura palermitana, che lo hanno interrogato il successivo 13 febbraio, Messina Denaro ha negato qualsiasi tipo di legame con la mafia, rilasciando anche parole di sfida: “Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia“. L’ex primula rossa ha spiegato che per tanti anni ha vissuto lontano dalla tecnologia perché consapevole che sarebbe stato un  punto deboli. Poi ha citato addirittura un proverbio ebraico dopo che è stato catturato nella zona dove ha sempre vissuto: “Se vuoi nascondere un albero piantalo in una foresta” precisando che “ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua…”, allora – ha raccontato – mi metto a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta, allora se voi dovete arrestare tutte le persone che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta”.

Arrestato sotto il falso nome di Andrea Bonafede, il boss ha precisato che in paese in pochi conoscevano la sua vera identità. “A Campobello mi sono creato un’altra identità: Francesco”. “Giocavo a poker, mangiavo al ristorante, andavo a giocare”. Con i pm si è anche lamentato del reato di concorso esterno in associazione mafiosa in riferimento proprio ad Andrea Bonafede, l’uomo accusato di essere un mafioso e di aver prestato al boss la sua identità: “Il mafioso riservato è tipo un altro argomento di legge, se vogliamo dire, farlocco, come il ‘concorso esterno’, io preferirei, se fosse una mia decisione: tu favorisci… il favoreggiamento prende da 4 a 5 anni, se favorisci un mafioso sono 12 anni; meglio così: si leva il farlocco di torno”.

“Una cosa fatemela dire. Forse è la cosa a cui tengo di più. Io non sono un santo…ma con l’omicidio del bambino non c’entro”, in riferimento all’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito rapito e sciolto nell’acido.

Sul suo rapporto con la mafia ha provato a chiarire: “Io mi sento uomo d’onore ma non come mafioso. Cosa nostra la conosco dai giornali. La mia vita non è stata sedentaria, è stata una vita molto avventurosa, movimentata”, ha detto ammettendo la latitanza e di aver comprato una pistola, ma di non averla mai usata e di non aver fatto omicidi e stragi. “E lei non ha mai avuto a che fare Cosa nostra?”, gli chiedono i magistrati. “Non lo so magari ci facevo affari e non sapevo che era Cosa nostra”, risponde, ribadendo che “con stragi e omicidi non c’entro nella maniera più assoluta. Poi mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare”.

Sull’audio dove offende Falcone in riferimento al traffico ‘provocato’ dalla commemorazione della strage di Capaci: “Io non è che volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa… Il punto qual è? Che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione. Allora, se invece del giudice fosse stato Garibaldi, la mia reazione sempre quella sarebbe stata, perché non si possono permettere di bloccare un’autostrada per decine di chilometri: cosi vi fate odiare”.

Infine definisce il padre, Francesco Messina Denaro, un mercante d’arte. “Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d’arte. Io sono appassionato di storia antica da Roma a salire – racconta il capomafia ai magistrati – poi mio padre era mercante d’arte e dove sto io c’è Selinunte (sito archeologico del trapanese ndr). Mio padre non è che ci andava a scavare però a Selinunte a quell’epoca c’erano mille persone e scavavano tutte. In genere il 100% delle opere le comprava mio padre che poi venivano vendute in Svizzera e poi arrivavano dalla Svizzera dovunque: in Arabia, negli Emirati e noi vedevamo cose che passavano da mio padre nei musei americani”.

Non è con Matteo Messina Denaro malato che si misura la forza del paese. Andrea Soglio su Panorama l'8 Agosto 2023

Il boss dei boss ricoverato in ospedale chiede un allentamento del carcere duro. Ma è altrove che l'Italia deve dare segnali di forza

Matteo Messina Denaro è malato, molto malato. Da anni lotta con un tumore e proprio mentre andava a curarsi dal «male» è stato catturato dai Carabinieri. Oggi però le sue condizioni di salute sono peggiorate, si sono aggravate al punto che il suo legale ha subito chiesto lo stop al regime del 41 bis: «Non ci può restare» ha dichiarato il legale spingendo per la una richiesta di stop al carcere duro per il mafioso più pericoloso, violento, spietato che forse abbiamo mai avuto. Fin dal principio sapevamo che questo momento sarebbe arrivato; il momento in cui la sua malattia ci avrebbe portato davanti al bivio: provare pietà o no per un uomo che non ha mai conosciuto, lui, il significato della parola PIETA’? Ovviamente il tema divide. Per fortuna la risposta è molto più semplice del dovuto. MMD non è di certo il primo grosso criminale che vive una condizione simile. Per mesi si è ad esempio parlato e discusso di Alfredo Cospito, anche lui al 41 bis, anche lui malato, anzi, debilitato ai limiti dello stremo da uno sciopero della fame; ecco, lo Stato ha tenuto il punto, non per cattiveria, non per crudeltà ma semplicemente applicando la Legge. Ed è questo che determina alla fine la forza di una nazione. La forza di un paese che garantirà anche a Messina Denaro le cure necessarie per lui come per qualsiasi altro essere umano, senza dimenticare il suo stato nelle strutture e nelle modalità stabilite da medici e giudici.

La cronaca di questi giorni ci ha mostrato i limiti di una legge non applicata o troppo morbida. Nwekw Chukwuka, il nigeriano che ha aggredito, che ha tentato di violentare ed alla fine ha ucciso in maniera animalesca Iris Setti a Rovereto un anno prima aveva già aggredito passanti e persone per strada. Per lui è stato usato forse troppo il cuore, il perdono, la strada del recupero come dimostrò anche lo slogan del sindaco di Rovereto che all’indomani dell’assalto in strada scrisse un invito ai suoi cittadini, spaventati: «Fidiamoci di noi». Abbiamo visto com’è andata a finire. E ci vorrebbe anche un po’ più di forza contro i piromani responsabili delle fiamme che distruggono, ogni estate, ettari ed ettari del nostro paese. Ad oggi il massimo della pena, nove anni di carcere (che tra un permesso ed uno sconto alla fine saranno 6) è stato dato ad un uomo responsabile non di uno, ma di 50 incendi, 50 in cui sono stati distrutti boschi, colline, case e strutture e diverse persone hanno rischiato la vita. Ecco, forse qui si che servirebbe una mano più pesante, non al 50esimo incendio ma subito al primo. Chissà mai che a questi maghi del fuoco non scappi la voglia di appiccare fiamme qua e là. Inoltre li si potrebbe anche condannare, come pena aggiuntiva, allo spegnimento di altri roghi, con i Vigili del Fuoco, tanto per capire cosa si rischia… Come servirebbe una mano pesante (a norma di legge, sia chiaro, quelli che una volta chiamavano schiaffoni ormai sono stati aboliti) per i tre vandali, anzi writer bravi nell’arrivare in cima all’ingresso della Galleria di Milano, il Salotto del capoluogo lombardo per imbrattare il tutto con le loro bombolette spray. Una volta individuati e fermati (speriamo accada in tempi brevi) sarebbe molto utile una condanna esemplare, pubblica, con annessa riparazione del danno a loro spese davanti alle migliaia di turisti abitualmente nella zona il tutto in diretta social, con i volti ed i nomi in primo piano. Certo, un nell’annetto in caserma sarebbe servito, per un corso accelerato di rispetto delle regole, delle cose, dell’Italia ma purtroppo è stato abolito anche questo. Questi sarebbero segnali importanti, di serietà e di forza. Per Matteo Messina Denaro bastano il codice penale e le regole della carcerazione.

Le condizioni del boss. Che operazione ha subito Matteo Messina Denaro, il boss in rianimazione dopo l’intervento. Angela Stella su L'Unità il 9 Agosto 2023 

Matteo Messina Denaro è stato ricoverato ieri pomeriggio all’ospedale San Salvatore dell’Aquila. Il boss mafioso è stato trasferito dal carcere, dove si trova al 41 bis, al reparto di chirurgia con imponenti misure di sicurezza. Lo ha confermato all’Unità il suo avvocato Alessandro Cerella, che dallo scorso giugno affianca la nipote dell’ex primula rossa, l’avvocato Lorenza Guttadauro, nella difesa del capomafia, arrestato lo scorso 16 gennaio a Palermo e rinchiuso nel carcere dell’Aquila. Nella mattinata di ieri lo stesso legale aveva sollevato grosse preoccupazioni per lo stato di salute del suo assistito: “Si è aggravato, le sue condizioni sono disperate. Non mangia, beve soltanto, non sta bene, necessita di un immediato ricovero in ospedale. Con un tumore al quarto stadio, con la difficoltà anche a reggersi in piedi, non può stare dentro una cella al 41 bis. Deve essere assistito da un infermiere dentro una struttura ospedaliera il prima possibile”.

“Io non sono un medico ma le sue condizioni sono critiche – aveva aggiunto Cerella – È seguito in maniera encomiabile dal professor Mutti e dal suo staff. Io ripongo massima fiducia nel loro operato ma i medici non possono vederlo quotidianamente e nelle sue condizioni le cose cambiano di giorno in giorno”. L’ultimo trasferimento in ospedale prima di quello di ieri risale a domenica scorsa quando l’ex super latitante è stato condotto nel nosocomio dell’Aquila per una tac. Lo scorso giugno Messina Denaro aveva subito un intervento urologico. L’avvocato aveva annunciato anche che nei prossimi giorni avrebbero presentato un’istanza al Tribunale di Sorveglianza per chiedere il ricovero urgente in ospedale del loro assistito. Ma la situazione ieri pomeriggio è rapidamente mutata.

“In carcere non può più stare – aveva sottolineato Cerella – Nonostante il nome che porta come a qualsiasi altro detenuto devono essere garantiti i diritti costituzionali e il giudice di sorveglianza, leggendo le carte, dovrebbe capirlo. Il mio giudizio nei confronti dell’amministrazione penitenziaria e del sistema giustizia in generale è fortemente critico. Nei confronti di Messina Denaro c’è un accanimento: con un tumore al quarto stadio non può stare in una cella senza un infermiere a bere succhi di frutta, invece di avere delle flebo. Ha difficoltà persino a stare in piedi, ha bisogno di tutte le cure che spettano a un malato”. Il sospetto, come avvenuto in passato rispetto ad altri boss gravemente malati, tipo Bernardo Provenzano (l’Italia fu condannata dalla Cedu per la proroga del 41-bis emessa qualche mese prima della sua morte), era che lo Stato non volesse prendere la decisione impopolare di concedergli qualcosa. I parenti delle vittime e gran parte della popolazione si sarebbero potuti ribellare. Ma come ci dice il legale “lo Stato ha vinto quando lo ha arrestato, ma perderebbe se gli negasse i suoi diritti, quali quello alla salute. Sono pronto ad arrivare alla Cedu per questa battaglia di civiltà giuridica”, ha concluso Cerella che lo ha visto l’ultima volta lo scorso 3 agosto. Da quanto appreso Messina Denaro è sorvegliato da quattro agenti del Gom ed è costantemente video ripreso: evidentemente l’amministrazione penitenziaria ha ritenuto di prevedere d’ufficio un trasferimento in ospedale. E per ora lo Stato non sta perdendo.

Angela Stella 9 Agosto 2023 

Il boss ricoverato. Come sta Matteo Messina Denaro, il boss mafioso in condizioni critiche: “Tumore al quarto stadio, incompatibile col carcere e 41bis”. Redazione su L'Unità l'8 Agosto 2023

Le condizioni di salute di Matteo Messina Denaro sono ormai critiche. Il boss di Castelvetrano, ultimo grande boss mafioso catturato dalle forze dell’ordine lo scorso 16 gennaio 2023 in un blitz nei pressi di una clinica privata di Palermo, è “incompatibile con il regime carcerario, soprattutto in quello più duro del 41bis”.

“U Siccu” è detenuto nel supercarcere de L’Aquila dal 17 gennaio scorso in isolamento, a seguito della cattura avvenuta dopo una latitanza durata quasi 30 anni: arresto dovuto proprio alle indagini sulla malattia del capomafia. Tra i pizzino ritrovati a casa della sorella Rosalia venne trovato dagli inquirenti anche una sorta di diario clinico del latitante, con le operazioni subite, gli esami e i cicli di chemioterapia.

Tumore al quarto stadio al colon che, come sottolinea l’avvocato Alessandro Cerella, che dal 25 giugno scorso affianca l’avvocata Lorenza Guttadauro nella difesa del boss, lo rende incompatibile col carcere e per questo Messina Denaro “deve essere immediatamente ricoverato”.

Ricovero poi effettivamente avvenuto nel pomeriggio di oggi, martedì 8 agosto, col 62enne Messina Denaro trasportato in ospedale al San Salvatore dell’Aquila, nell’area G8, per l’aggravamento delle condizioni di salute.

Stando a fonti mediche citate dall’Agi, Messina Denaro è stato sottoposto ad intervento chirurgico per un improvvisa occlusione intestinale: nulla a che vedere dunque con con la grave patologia per cui boss di Castelvetrano è da tempo in cura chemioterapica.

Secondo Cerella sarebbe “un vero e proprio bullismo di Stato tenerlo dentro. La nostra richiesta è che esca e vada in un ospedale, non mi importa se si trova a Napoli, Milano, Bergamo, Brescia, ma deve essere ricoverato al più presto. Ha bisogno di un infermiere h24 mentre è sorvegliato h24 dalla penitenziaria“. “Lo stanno lasciando morire, vedono che è un continuo via vai di macchina per l’ospedale. Qualche giorno fa ha subito un piccolo intervento di urologia alla prostata, domenica una tac, adesso si attende l’esito. Quando mi reco da lui, lo vedo debilitato. Se lo lasciano così muore, è questione di giorni, è un cancro al quarto stadio. Ha smesso di mangiare, beve solo integratori e acqua“, aggiunge il suo avvocato.

I due legali avevano annunciato la presentazione presso il tribunale della Libertà dell’Aquila un’istanza di ricovero urgente presso una struttura ospedaliera, anche lo stesso ospedale dell’Aquila dove tra l’altro il boss ha già subito un intervento chirurgico urologico il 27 giugno scorso, con un massiccio dispiegamento di forze dell’ordine attorno al presidio.

Nel carcere abruzzese Messina Denaro è seguito da uno staff medico e per lui è stata allestita una stanza per la chemioterapia: sorte simile era toccata anche all’altro superboss di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, che che nell’ultimo periodo della sua vita venne ricoverato in una struttura carceraria dell’ospedale di Parma.

Redazione - 8 Agosto 2023

Il comandante Alfa: «Nel 1996 vicini all'arresto di Matteo Messina Denaro. La latitanza? Protetto ad alti livelli». Valerio Morabito su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2023 

In un incontro a Montirone, il carabiniere più decorato d'Italia ha parlato di quando ha scelto, all'età di 12 anni, di stare dalla parte della legalità. Una decisione maturata dopo un episodio avvenuto a Castelvetrano  

Legalità è la parola che, più di altre, sintetizza la vita del Comandante Alfa. Carabiniere paracadutista, è stato uno dei fondatori del Gruppo Intervento Speciale (Gis), il reparto d'élite dell'Arma dei Carabinieri. Il suo ultimo libro è «Parola d'ordine: proteggere. La mia vita in difesa degli altri», edito da Longanesi. Nella serata dell'8 giugno è stato ospite nell'auditorium della scuola media di Montirone per il ciclo di incontri, voluto dall'amministrazione comunale, sul tema della legalità. 

Il Comandante Alfa è nato e cresciuto a Castelvetrano, in provincia di Trapani, ovvero lo stesso paese di Matteo Messina Denaro. Quando ha scelto di stare dalla parte della legalità?

«Mio padre non era mafioso e il gruppo di ragazzi, un paio d’anni più grandi di me, non mi volevano accogliere tra loro. Neanche per giocare. Si trattava di giovani che provenivano da famiglie agli ordini di don Ciccio, il boss del paese e padre di Matteo Messina Denaro. Decisi di sfidarli ad una prova di coraggio e chiesi di saltare dal ponte della ferrovia alto 23 metri circa sul fiume Belice. Alla fine saltai solo io. Subito dopo non dissero nulla, ma in seguito bastonarono a sangue il cane che mi aveva regalato il nonno. Ecco, da quel giorno, quando avevo 12 anni, decisi che quei personaggi, codardi, che colpiscono alle spalle, proprio come i mafiosi, li avrei combattuti arruolandomi nell'Arma dei Carabinieri». 

Molti uomini che hanno arrestato Matteo Messina Denaro sono stati addestrati da lei. Cosa pensa di quell'operazione?

«Si, molti uomini che hanno partecipato all'arresto li ho formati io. Credo che l'operazione sia stata perfetta, visto che l'obiettivo era complicato da raggiungere anche perchè si trovava tra persone che non c'entravano nulla con quanto stava per accadere. Ha cercato di scappare, ma è stato preso».

Come è possibile fare trent'anni di latitanza?

«Trent'anni di latitanza non si fanno perché sei bravo e perché le forze dell'ordine non sanno fare il proprio lavoro. Trent'anni di latitanza si fanno perché c'è una protezione ad altissimi livelli che te lo permette. Matteo Messina Denaro, che si è trovato capo ma non è mai stato un vero capo, lo avevamo quasi preso nel 1996. Non eravamo a Castelvetrano. Siamo stati davvero a un passo. Gli investigatori avevano trovato la casa dove doveva incontrarsi con un’amante. Lo abbiamo aspettato per ore, ma non è mai arrivato. Evidentemente è successo qualcosa». 

In tv e sui social, anche per l'arresto di Matteo Messina Denaro, si sono diffuse teorie complottiste riguardo l'ipotesi che il boss si sia fatto arrestare. Cosa ne pensa?

«Una persona malata, con un tumore, si farebbe arrestare per andare al 41bis? Non credo. Il 41bis non è una vacanza, è il carcere duro». 

Lei crede molto nei giovani. Cosa ne pensa della diffusione di baby gang e dei ragazzi identificati come maranza che spesso si rendono protagonisti di episodi di micro-criminalità?

«I giovani vanno coinvolti. Non sono bamboccioni. C’è una piccola percentuale, ma non tutti i ragazzi lo sono. Dobbiamo dargli la possibilità di dimostrare il loro talento. Credo che cambieranno in meglio la nostra Nazione»

Da gds.it il 21 febbraio 2023.

L’arresto di Matteo Messina Denaro ha svelato un’altra delle facce dell’ex padrino di Cosa nostra. Difficile definirla come la parte «umana» dell’ex boss, diciamo piuttosto una parte nascosta fino ad oggi ed emersa solo con l’arrivo della malattia.

 Ed è proprio alle amiche conosciute mentre faceva la chemioterapia a Palermo, dove è stato arrestato lo scorso 16 gennaio, che Messina Denaro, che non aveva avuto alcuna esitazione ad uccidere una donna incinta di tre mesi o a sparare ad un commissario di polizia imbracciando un Kalashnikov o a sciogliere nell’acido un bambino di 14 anni, rivela la sua paura di morire.

Insomma proprio lui che pensava di essere «un felino, invincibile e imprendibile» gli era capitato un fatto così grave. Alle amiche scrive così che quel corpo con quella malattia non gli apparteneva e non lo voleva, perché lui era una persona diversa prima, uno che si divertiva che aveva attraversato il mondo.

 «Ancora io non riesco a capacitarmi, il mio corpo mi ha tradito, non lo sopporto. Io avevo una vita bellissima e non avevo previsto ciò, non ci avevo mai pensato e non lo accetto, ma sono un guerriero e non lo dico per farmi coraggio o per retorica, ma perché non la do vinta a nessuno, neanche all’intruso. Anche se la creatura è dura a morire».

Dire grazie al Tumore. Estratto dell'articolo da tgcom24.mediaset.it il 15 febbraio 2023.

Le condizioni di salute di Matteo Messina Denaro "sono molto gravi". Lo ha detto L'avvocato Lorenza Guttadauro, legale di fiducia e nipote del boss, aggiungendo: "Non credo che la cella possa essere paragonata a un ambulatorio medico. Non so se lo stanno curando bene".

[…]

Proseguono le chemioterapie in carcere Matteo Messina Denaro viene sottoposto nell'ambulatorio del carcere di massima sicurezza dell'Aquila, realizzato in una stanza di fronte alla cella dove è al 41 bis, alle chemioterapie necessarie.

La terapia per la cura del tumore dura circa 4 ore. All'ultima somministrazione, avvenuta a inizio febbraio, il boss sembrava in buone condizioni. La sua salute è monitorata da una equipe di oncologi dell'ospedale de L'Aquila. Ad assistere il boss c'è sempre una infermiera, un oncologo e un anestesista, oltre al personale della struttura penitenziaria.

Estratto dell'articolo di gds.it il 15 febbraio 2023.

«Le condizioni generali del paziente sono buone». È quanto emerge da fonti sanitarie e carcerarie sullo stato di salute del boss mafioso Matteo Messina Denaro, rinchiuso in regime di 41bis [...]

Replicando a quanto riferito in un’intervista dall’avvocato Lorenza Guttadauro, che ha incontrato lo zio in occasione dell’interrogatorio del 13 febbraio davanti al procuratore di Palermo, Lorenzo De Lucia, e all’aggiunto Paolo Guido, secondo la quale Messina Denaro sarebbe molto grave, le stesse fonti hanno ribadito che quanto riportato dal legale «non corrisponde al quadro clinico».

 «Il paziente - spiegano ancora fonti sanitarie - viene seguito con puntualità e sta facendo terapie neoplastiche ambulatoriali che sono compatibili con la sua malattia. Se fosse servito il ricovero, avrebbe fatto cure in ospedale». [...]

Da livesicilia.it il 26 gennaio 2023.

“Non ho ricevuto una educazione culturale ma ho letto centinaia di libri, sono quindi informato sulle cure, vi prego di poter essere trattato con farmaci e terapie migliori”. Avrebbe ripetuto più volte, con toni pacati e cordiali, questo suo pensiero il boss di cosa nostra Matteo Messina Denaro, rinchiuso da dieci giorni nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila.

 A medici e personale penitenziario, le uniche persone con cui gli è permesso di parlare visto il regime del 41bis, “confessa” che le sue preoccupazioni sono legate alla cura del tumore al colon. Seconda chemio nelle prossime settimane

L’ex super latitante Matteo Messina Denaro è in buone condizioni: ha superato i postumi della prima chemio di mantenimento, avrebbe avuto solo qualche problema gastrointestinale, secondo quanto si è appreso gli oncologi prevedono di fare la seconda seduta entro le prossime settimane.

 Il boss ha sostenuto, nell’ambulatorio ad hoc allestito accanto alla sua cella, la prima chemio nei giorni scorsi. I medici che lo hanno in cura, quelli dell’equipe guidata dal professor Luciano Mutti, primario oncologo dell’ospedale aquilano, lo avrebbero rassicurato che si stanno seguendo procedure all’avanguardia come da protocolli internazionali.

Estratto da open.online il 26 gennaio 2023.

Matteo Messina Denaro vuole «cure speciali» contro il cancro in carcere. L’ultimo dei Corleonesi segue la strategia del silenzio nei processi. E rinuncia a comparire davanti alle Corti, dimostrando di non volersi difendere da accuse che ritiene ingiuste. Mentre anche Andrea Bonafede, accusato di favoreggiamento decide di restare zitto davanti al Gip. ‘U Siccu però a Le Costarelle con i medici parla.

 Della sua malattia (il tumore al colon) e delle terapie a cui è sottoposto. Sostiene di conoscere le caratteristiche dei farmaci che gli vengono somministrati. Compresi gli effetti collaterali. E con tono garbato ha chiesto ai dottori se è possibile accedere a cure farmaceutiche «che ci sono solo in Israele». Come se avesse cercato notizie su Internet. E dimostrando così che la paura della morte è stata fondamentale in quell’abbassamento delle difese che ha portato alla cattura dopo trent’anni di latitanza.

Le visite e i telegrammi

A parlare delle strane richieste di cure particolari da parte di Messina Denaro è oggi Lirio Abbate su Repubblica. In questa prima settimana di detenzione al 41bis a L’Aquila Diabolik non ha ancora ricevuto visite. La nipote che ha scelto per farsi difendere, Lorenza Guttadauro, si è limitata a telefonargli. La sua nomina ha suscitato polemiche, perché c’è chi ci ha visto un modo per aggirare le regole del carcere duro. Che non prevede contatti con altri parenti se non una volta al mese e in videoregistrazione. Nemmeno gli altri parenti che gli rimangono, tra cui la figlia Lorenza Alagna e sua madre Franca, si sono ancora presentati. Forse perché i tempi tecnici necessari non sono ancora passati. In compenso ha ricevuto un telegramma. Che ha riletto più volte seduto in cella. Per il resto, il boss ha un fisico allentato. E a quanto pare ha rifiutato la passeggiata da solo nell’ora d’aria. Ha raccontato agli agenti che era abituato a fare un cammino di cinque chilometri ogni giorno durante la latitanza.

 I bambini

«Non creo problemi, ditemi cosa devo fare» sono le poche parole che ha detto in questi giorni ai poliziotti che devono sorvegliarlo. Ma su una cosa tiene il punto: «Non sono la persona che viene descritta», ha detto puntando il dito verso la televisione. E aggiunge che lui non ha «mai ucciso donne o bambini». La frase ha un senso all’interno del contesto culturale di Cosa Nostra. Ovvero quello in cui i Padrini si vantavano di lasciare fuori dalle loro guerre i cosiddetti “deboli”. O gli innocenti. Nel caso di Messina Denaro però l’affermazione scricchiola.

 Perché il boss è stato condannato in via definitiva per aver partecipato al rapimento e all’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Ma anche per aver strangolato la giovane di Alcamo Antonella Bonomo, incinta. L’ultimo dei Corleonesi è poi considerato l’ispiratore della seconda strategia delle stragi di mafia, dopo Capaci e via d’Amelio. Ovvero degli attentati dinamitardi organizzati fuori dalla Sicilia. Tra questi c’è via dei Georgofili a Firenze, dove morirono il vigile urbano Fabrizio Nencioni, sua moglie Angela e le loro due figlie di otto anni e cinquanta giorni.

 (...)

Estratto dell'articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 18 gennaio 2023.

Sa di non avere molto tempo davanti a sé, Matteo Messina Denaro. Una «prognosi infausta» quella che i medici della clinica La Maddalena hanno dovuto comunicargli poco più di due mesi fa quando i controlli, dopo il previsto ciclo di chemioterapia, hanno rivelato l'estendersi del tumore al colon per il quale era stato operato, prima, all'ospedale di Mazara del Vallo, a novembre 2020, poi nel centro di eccellenza oncologico di Palermo.

 Quel giorno del novembre 2022 il paziente che tutti conoscevano come Andrea Bonafede accolse la notizia «con grande dignità», ricorda Vittorio Gebbia, direttore responsabile dell'Oncologia, dove il boss era seguito da un anno e mezzo.

Professor Gebbia, dunque Messina Denaro è consapevole delle proprie condizioni di salute. Come ha accolto la prognosi?

«[…] ha accolto la prognosi e le terapie con grande dignità».

 Mai nessun sospetto? A vederlo non sembra poi molto dissimile dagli ultimi identikit diffusi dagli investigatori.

«Ma scherza? A parte il fatto che noi medici non è che circoliamo con gli identikit dei latitanti in tasca, è facile dirlo ora dopo averlo visto in volto. Io lo avrò ricevuto nel mio studio due o tre volte e le assicuro che, tra le migliaia di pazienti che visito, questo non mi è mai balzato all'occhio per nessun motivo. Per noi era il signor Andrea Bonafede, tutti i documenti e le prescrizioni in regola, nessun motivo di sospetto. Semmai di inquietante c'è altro».

 Che cosa?

«L'intervista rilasciata da questo signor Baiardo (due mesi fa in tv ha ventilato la possibilità che il latitante si sarebbe consegnato perché gravemente malato, ndr ) pochissimi giorni dopo l'aggravarsi delle condizioni del paziente, una coincidenza temporale davvero inquietante considerata la riservatezza delle informazioni e - col senno di poi - la reale identità del signor Bonafede. Erano passati non più di tre, quattro giorni da quando - in seguito agli accertamenti diagnostici dopo un ciclo di chemioterapia - abbiamo rilevato un aggravamento del tumore che ci ha indotto a cambiare terapia e ha reso più severa la prognosi».

[…]

Dottore, quanto è grave Messina Denaro? Il procuratore aggiunto Paolo Guido ha detto di essersi trovato davanti un uomo in buona salute, è così?

«Le sue condizioni sono gravi, la malattia ha avuto un'accelerazione negli ultimi mesi. Non lo definirei un paziente in buone condizioni di salute. Sono certo che continuerà a ricevere tutte le cure di cui ha bisogno. I carabinieri mi hanno chiesto se posticipare di qualche giorni il ciclo di chemioterapia che avrebbe dovuto fare qui avrebbe avuto conseguenze e io ho firmato l'autorizzazione perché un ritardo così contenuto non avrà alcun effetto sul suo stato di salute».

(ANSA il 18 gennaio 2023) - Non solo 'meme' e battute sarcastiche sulla cattura di Matteo Messina Denaro. Sui social emerge anche tanta indignazione per il trattamento sanitario riservato a quello che è stato per trent'anni uno dei latitanti di massima pericolosità e che ora si trova nel carcere dell'Aquila dove potrà continuare a sottoporsi a cicli di chemioterapia. Tra i commenti alle notizie pubblicate dalle varie testate ci sono quelli di tanti abruzzesi.

"L'Abruzzo ha ricevuto un bel regalo... Per il boss le cure subito... E le persone che pagano le tasse, mesi e mesi devono attendere per visite e cure...Viva l'Italia". E poi "Che trattamento gli fanno! Il primario addirittura! Abruzzesi forti e gentili", e ancora in tanti esprimono sconcerto perché, invece, "un onesto cittadino deve aspettare mesi per le visite".

 C'è chi scende più nei dettagli e fa tristemente notare "Chemio in tranquillità con un dottore che lo segue, non come i comuni mortali, tampone poi visita e trattamento in ospedale dalle 5 alle 7 ore, poi macchina e si torna a casa sfiniti". "Dalle mie parti una Rsa costa 2000 euro... penso che conviene un carcere di massima sicurezza" scrivono ancora su Facebook dove c'è anche chi taglia corto: "Gli stanno dando troppa visibilità".

(ANSA il 18 gennaio 2023) - "La convivenza con il carcere non ha dato mai problemi, del resto dentro c'è gente sepolta viva al 41 bis, come se non esistesse". E ora c'è un ospite illustre in più, l'ultimo padrino della stagione stragista di Cosa Nostra.

Da ieri mattina a L'Aquila non si parla d'altro e le parole dell'operaio al bar di Preturo, il paese alle porte del capoluogo dove si trova il carcere di massima sicurezza, spiegano lo stato d'animo con cui i cittadini stanno vivendo questa improvvisa, nuova notorietà legata all'arrivo di Matteo Messina Denaro, che è diventato immediatamente l'ospite più noto dell'istituto penitenziario.

 L'argomento Messina Denaro è al centro in ogni discussione, anche se l'Aquila e la provincia sono purtroppo già abituate a stare al centro delle cronache dalla tragedia del 6 aprile del 2009, quando il terremoto sconvolse la città e provocò oltre 300 vittime. Ma se da un lato l'arrivo del boss di Cosa Nostra ha provocato discussioni anche accese, dall'altro è diventata inevitabilmente l'argomento del giorno. E l'opinione prevalente "per quello che ho potuto ascoltare - spiega Francesca, la titolare del bar - è che Matteo Messina Denaro si sia fatto catturare, visto che è gravemente malato".

In ogni caso, aggiunge, "l'importante è che sia stato preso e che sconti il suo debito con la giustizia". A Preturo, dice ancora la donna, "non ci siamo accorti di nulla, da Pescara è arrivato al supercarcere di notte, passando da una altra strada. Lo abbiamo appreso dai giornali la mattina seguente". Ma anche se oggi nel paese alle porte dell'Aquila - dove durante il terremoto i soccorritori installarono il quartier generale all'interno della scuola della Guardia di Finanza - sembra un giorno di gennaio come tanti altri, con un cielo grigio e la pioggia che cade, basta girare un po' e si capisce che la gente ha voglia di parlare.

"Quello che penso è che lo potevano prendere anche prima - sottolinea Stefano - Mi chiedo come abbia fatto a essere latitante per trenta lunghi anni, nascosto a pochi chilometri dal suo paese natale, dove tutti lo conoscevano. Le cose non tornano".

 Parole che alimentano dubbi tra gli altri avventori del bar. "Se Messina Denaro - dice Simone con un sorriso ironico - ad un certo punto ha deciso si farsi curare dal tumore a spese dalla sanità pubblica, senza pagarsi di tasca sua una clinica privata, ha fatto la mossa migliore. Dopo aver fatto indisturbato quello che voleva per trent'anni".

L’oncologo che cura Messina Denaro: «Vuole sapere la verità sulla malattia e sulle sue condizioni». Margherita De Bac su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2023.

Luciano Mutti, il medico che dirige il reparto di Oncologia dell'ospedale San Salvatore all'Aquila: «Ci siamo stretti la mano, come con tutti i malati. Alla fine mi ha ringraziato»

«Dopo il mio recente rientro in Italia sono giornate un po’ complicate per me. Diciamo che il primo impatto col mio Paese è stato molto intenso», si sbottona quel tanto che può, Luciano Mutti, direttore dell’oncologia del San Salvatore dell’Aquila, l’ospedale che «ha preso in carico» il paziente Messina Denaro Matteo. Ha appena visto il nuovo assistito, due ore di colloquio in una stanza del carcere del capoluogo abruzzese. 

Lo ha anche visitato? 

«Non c’era bisogno. Conosciamo la sua storia clinica. Abbiamo scambiato informazioni con i sanitari della casa di cura La Maddalena di Palermo», dove l’ultimo dei padrini stragisti era seguito per un tumore. «Ma parte della documentazione manca». 

Cinquantanove anni, genovese, Mutti è all’Aquila dal 1° ottobre del 2022 dopo una permanenza di 13 anni in Inghilterra (Londra e Manchester) e negli Stati Uniti (Philadelphia). È tornato in Italia come professore associato di oncologia dopo aver vinto un bando pubblico. È specialista di mesoteliomi, tumori generati da cancerogeni ambientali, soprattutto amianto.

 Cosa vi siete detti?

 «Ci siamo stretti la mano come con tutti i malati. Ero assieme con una collega. Alla fine ci ha ringraziati educatamente. È stato come incontrare una persona normale. Noi dobbiamo dimenticare che è un boss mafioso». 

Nessuna emozione nell’averlo davanti agli occhi? 

«Può sembrare strano ma è così. Le emozioni restano fuori. L’unica anomalia è che per ragioni di sicurezza ci è stato chiesto di trattarlo all’interno del 41bis. Condurlo in ospedale avrebbe significato un dispiegamento di decine di uomini e mezzi. Non era il caso. Abbiamo in cura un’altra detenuta dello stesso istituto penale che però viene accompagnata da noi per fare la chemioterapia». 

Che paziente è Denaro? 

«Ci ha fatto molte domande, tipiche di chi vuole sapere, conoscere la verità. Sa bene da quale malattia è affetto e dei rischi. Ovviamente non posso dire nulla delle sue condizioni di salute. Sono stati già divulgati dettagli che io invece ho appreso direttamente da lui». 

Sui social avanzano il sospetto che verrà trattato meglio di un normale cittadino proprio perché è un boss di cui il mondo sta parlando. 

«Falso. Per i medici è un paziente come un altro. Lo impone la deontologia professionale. Siamo abituati a tenere da parte i nostri sentimenti personali. Per noi non esistono figli e figliastri. Affrontiamo il problema tecnico con gli strumenti messi a disposizione dalla scienza». 

Avete già scelto i farmaci? 

«Sono gli stessi prescritti a Palermo. Il direttore generale della Asl 1 abruzzese, Ferdinando Romano, ha fatto in modo che venisse allestito in tempi record un locale adiacente il luogo di detenzione per la somministrazione di antitumorali. Si comincerà subito». 

Al suo arrivo in carcere, Denaro si è mostrato perfino ironico sul suo «nuovo» stato di ex incensurato. Ha avuto anche lei la stessa impressione? 

«La malattia in genere non lascia spazio all’ironia. A me è sembrato un uomo non incline all’autocommiserazione. Ha ascoltato attento, guardandoci diritto negli occhi, come immagino sia sua abitudine. In lui ha prevalso il desiderio di essere informato in modo chiaro e preciso». 

Da ora in poi continuerà a seguirlo recandosi personalmente in carcere?

 «All’inizio sì. Poi si vedrà».

Se mai dovesse parlare è il presente che sarebbe utile squadernasse. Da Cosa Nostra a Cosa grigia, come Matteo Messina Denaro ha cambiato la mafia: a tradirlo la malattia più che i pizzini. Nicola Biondo su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Alla fine lo ha tradito la malattia più che i “pizzini”. Si conclude così la latitanza trentennale dell’ultimo esponente della mafia stragista, Matteo Messina Denaro arrestato ieri dal Ros dei Carabinieri a Palermo dove si trovava per un controllo medico. La conferenza stampa dell’Arma rivela altri particolari, pochi, sui quali a lungo però si discuterà. Il boss di Castelvetrano era “operativo all’interno di Cosa nostra” ma non era certo il Padrino a capo della Commissione, un capace uomo d’affari con mille legami. Insomma oltre l’arresto, con le indagini che continuano sui sodali, poco quasi nulla che già non si sapesse. Massimo riserbo ripetono i vertici della Procura di Palermo e gli investigatori del Ros.

L’arresto di Denaro è un cerchio che si chiude, una macchina del tempo che riporta a un mondo che non c’è più – quello della fine della Prima Repubblica, delle bombe e delle stragi – e che dice poco a chi ha meno di 40 anni, e nello stesso tempo apre una storia nuova, ancora tutta da scrivere: quella di una mafia sommersa non più blocco di potere, del Potere grande. La cronaca dell’arresto è ancora scarna: il set della cattura è un quartiere storico della mafia, San Lorenzo, dove un tempo insistevano le ville nobiliari più sfarzose (tra cui quella dove Visconti girò la scena del ballo del Gattopardo) e oggi sfregiato dalla speculazione edilizia, primo grande affare che cementò il binomio mafia-politica. E sfregiato dalla latitanza ma soprattutto dalla malattia – stava per recarsi in un reparto oncologico di una nota clinica palermitana al momento dell’arresto – appare il boss di Castelvetrano nella prima foto, la prima da ex-latitante, nel furgone dei carabinieri del Ros: un volto irriconoscibile e lontanissimo se paragonato a quello del mafioso viveur tramandato in questi trent’anni di fuga.

Ecco, la fuga è il mistero insieme ai mille segreti che il pupillo di Salvatore Riina e poi di Binnu Provezano conserva nella memoria, soprattutto quelli delle stragi del 1993 a Milano, Firenze e Roma. E se ne parlerà a lungo anche per le incredibili coincidenze temporali della cattura di ieri: esattamente il 15 gennaio del ’93 sempre i Ros arrestavano Riina assestando un colpo durissimo alla deriva terroristica che pochi mesi prima si era inserita con la mattanza di Falcone e Borsellino nelle dinamiche politiche al massimo livello. Sarà difficile spiegare a chi non c’era o non ricorda cosa è stata la deriva terroristica di Cosa nostra di cui Messina Denaro è stato tra i più fedeli servitori. Quel mondo non c’è più. Lui, figlio d’arte di don Ciccio – uno che è morto da latitante nel suo letto ed è stato fatto ritrovare esanime con il cappotto elegante addosso, è stato il trait d’union tra la mafia antica e quella sgargiante, tra i pizzini e Facebook, tra il governo feroce del territorio e grandi affari all’estero.

“La testa dell’acqua” lo chiamavano alcuni dei suoi sodali, come a dire “l’origine di tutto“. E chissà se è stato proprio così o invece si tratta di un riferimento tra il biblico e l’esoterico di cui il linguaggio mafioso è pieno. Quello che è certo è che è stato arrestato il passato di una mafia di cui conosciamo molto, quasi tutto, e quel che manca solo MMD potrebbe rivelarlo. Ma se mai dovesse parlare è il presente che sarebbe utile squadernasse. Perché se è vero che ha servito e officiato l’assalto allo Stato, Messina Denaro ha incarnato la trasformazione da Cosa nostra a Cosa Grigia (per usare una felice espressione di Giacomo Di Girolamo, tra i più capaci giornalisti che si occupano di mafia), tornando a quel periodo in cui erano le relazioni a fortificare ed espandere l’organizzazione, non i mitra e il tritolo perché la mafia vive di consenso, non solo di paura.

Nicola Biondo

Messina Denaro, il dettaglio che svela tutto: "Quanto gli resta da vivere". Libero Quotidiano il 17 gennaio 2023

Matteo Messina Denaro è stato arrestato dopo 30 anni di latitanza. I carabinieri lo hanno catturato mentre era all’interno della clinica privata Maddalena di Palermo, dove si era presentato con il nome di Andrea Bonafede. Il boss era in cura in quella clinica da oltre un anno, dato che soffriva di tumore al colon e aveva metastasi epatiche per cui si sottoponeva a cicli periodici di trattamenti chemioterapici. 

Dopo l’arresto il “sentimento” comune è che si faccia presto a interrogare Messina Denaro, dato che potrebbe non restargli molto da vivere. Quello al colon è il secondo tipo di tumore più frequente nel nostro Paese ed è anche il secondo fra i più letali: la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è attorno al 65%. Stando alle prime ricostruzioni riportate nell’edizione odierna del Corriere della Sera, il boss mafioso era stato operato già due anni fa. Poi la comparsa di metastasi al fegato ha fatto sì che venisse sottoposto a un altro intervento. 

 Al momento della cattura si trovava in trattamento con chemioterapia: “In casi di metastasi epatiche - si legge sul Corriere della Sera - la chemioterapia è un trattamento standard per prolungare la sopravvivenza e contrastare i sintomi della patologia. Viene di solito prescritta per diversi mesi e si possono aggiungere i cosiddetti farmaci a bersaglio molecolare per prolungare il tempo a disposizione dei pazienti. A oggi la sopravvivenza di un paziente con cancro al colon retto metastatico può raggiungere in media 24-36 mesi”. 

Estratto dell’articolo di Vera Martinella per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2022.

 […] Con oltre 43.700 nuovi casi registrati ogni anno, quello al colon è il secondo tipo di tumore più frequente nel nostro Paese ed è anche il secondo fra i più letali: la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi oggi si aggira attorno al 65%. Il ricorso al bisturi è di solito il primo passo e può essere sufficiente per aspirare alla guarigione definitiva, se la neoplasia viene individuata in stadio iniziale.

[…] Matteo Messina Denaro era stato operato già due anni fa e, dopo la comparsa di metastasi al fegato, era stato sottoposto a un altro intervento. Ed è ora in trattamento con chemioterapia. «In caso di metastasi epatiche la chemioterapia è un trattamento standard per prolungare la sopravvivenza e contrastare i sintomi della patologia […] Viene di solito prescritta per diversi mesi e […] si possono aggiungere i cosiddetti farmaci a bersaglio molecolare per prolungare il tempo a disposizione dei pazienti».

Si può guarire? Quanto tempo resta da vivere a una persona in questa fase di malattia? «[…] A oggi la sopravvivenza di un paziente con cancro al colon retto metastatico può raggiungere in media 24-36 mesi. […]».

Estratto dell’articolo di Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2022.

[…]

la direttrice della «Maddalena», Stefania Filosto, subito avvertita del trambusto. È lei a tranquillizzare via cellulare il marito, Guido, un'istituzione per la sanità siciliana, fresco di compleanno, 94 candeline spente domenica: «Hanno preso un tizio, inseguito, non sappiamo chi è, ma abbiamo applaudito...».

 Il miracolo di una Palermo che vede tanti alzare le braccia e fare con indice e medio la V di vittoria, si è poi moltiplicato quando s' è capito che l'uomo insaccato in un giaccone di montone color miele, un cappuccio calato sulla fronte, infilato dentro un furgone nero, era Matteo Messina Denaro.

 L'avevano registrato venerdì con un falso nome, Andrea Bonafede. Ignari all'ufficio accettazione che, fra i tanti pazienti affetti da tumore, ci fosse invece l'ultimo dei latitanti stragisti di Cosa nostra. «Non avremmo mai potuto immaginare che in coda per fare un tampone ci fosse un boss del suo calibro», dice la dottoressa Filosto quando chiama i dirigenti dell'amministrazione per fornire ai carabinieri del Ros le cartelle cliniche del «signor Bonafede», un paziente come tanti, da sottoporre a un ciclo di chemioterapia dopo un'operazione a quanto sembra subita un anno e mezzo fa in un'altra struttura.

Ecco la direttrice stringere la mano e congratularsi con il comandante del Ros, il generale Angelosanto: «Grazie per quanto avete fatto. Bravissimi. Panico ridotto al minimo...». Un racconto ripetuto tante volte ad amici e collaboratori: «La cosa più bella è l'euforia dei pazienti, dei passanti per questa azione, contenta io stessa per questo arresto quando s'è capito di chi si trattava e non mi vergogno a dire di aver pianto di felicità».

[…]

 Estratto dell’articolo di Fabio Amendolara e Marco Bova per “La Verità” il 17 gennaio 2022.

 Il mammasantissima di Castelvetrano era in coda per il tampone, prima della seduta di chemioterapia: gli occhiali scuri con le lenti ovali che hanno preso il posto dei Ray ban delle poche foto che circolavano, il giubbotto chelsey imbottito di Brunello Cucinelli da 10.000 euro con sotto un pesante maglione di lana al posto delle camicie di seta con cui tutti lo immaginavano e al polso un Frank Muller da 35.000 euro.

 […]

L'adenocarcinoma mucinoso del colon, forma tumorale particolarmente aggressiva, gli era stato diagnosticato da un patologo dirigente dell'ospedale Vittorio Emanuele Secondo di Castelvetrano. La cartella clinica porta la firma del dottor Michele Spicola. E la diagnosi risale al 24 novembre del 2020, in piena pandemia, quando il medico scrive un referto istologico per il geometra Bonafede che sembra una condanna a morte. Nel 2021 Messina Denaro viene operato una seconda volta e subisce la resezione di alcune metastasi al fegato.

E frequentando ospedali e cliniche in questi due anni, con i suoi tre vaccini anti Covid in quanto soggetto considerato fragile, ha lasciato più di una traccia plateale in giro: portava in regalo lattine di olio ai dottori e con uno di questi si è esibito pure in un sorridente selfie in maniche di camicia, colletto all'italiana e logo ricamato sul petto.

 Nel 2020, poi, si è sottoposto a una biopsia al colon all'ospedale Abele Aiello di Mazara del Vallo. E anche questa cartella clinica è finita nelle mani degli investigatori. Come la documentazione dello studio del dottor Filippo Zerilli, oncologo dell'ospedale di Trapani. Per le cure e le ricette mediche, però, si sarebbe rivolto ad Alfredo Tumbarello, già candidato sindaco a Campobello e considerato vicino ad Antonio D'Alì, l'ex senatore ed ex sottosegretario all'Interno forzista condannato (e poi arrestato) per concorso esterno anche per l'ipotizzata vicinanza con i Messina Denaro.

Gli studi professionali di entrambi i medici sono stati perquisiti l'altra notte e rientrano tra i 12 decreti eseguiti dai carabinieri del Ros (cinque a Campobello).

 […]

Il database dei malati oncologici e le intercettazioni delle sorelle hanno “tradito” Messina Denaro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Gennaio 2023

A tradire senza volerlo il boss che ancora teneva le redini di Cosa Nostra incredibilmente sono state le persone che avevano fatto di tutto per affiancarlo, proteggendolo per evitargli le manette. Gli volevano salvare la vita a tutti i costi ed hanno iniziato ad agitarsi troppo: le tre sorelle di Matteo Messina Denaro cercavano un modo di curarlo, e probabilmente è stata proprio una di loro a far sapere inconsapevolmente agli instancabili carabinieri del Ros che nel misterioso covo si stava fronteggiando l’inaspettata emergenza

Matteo Messina Denaro nel cercare di entrare nella vita di un altro uomo  non aveva fatto i conti con la tecnologia. Non tanto quella delle tradizionali indispensabili intercettazioni, ma la possibilità di consentire agli investigatori di analizzare le banche dati dei pazienti oncologici. La cattura è stata possibile mettendo insieme un’informazione “preziosa” raccolta ascoltando le chiacchiere imprudenti delle sorelle del boss che parlavano di tumore, andando a spulciare la lista di tutti i malati di tumore della Sicilia.

C’è voluto non poco tempo, ma la fretta in queste indagini non è mai una buona alleata. Gli investigatori ed analisti dell’ Arma dei Carabinieri non hanno guardato il proprio orologio, e si sono presi tutto il tempo necessario, hanno analizzando una ad una l’identità di tutti i pazienti oncologici: dalle caratteristiche fisiche alle le condizioni di salute, ma anche la provenienza. E quando si sono imbattuti la scorsa primavera nel nome di Andrea Bonafede, hanno intuito che c’era qualcosa di strano. E lo hanno verificato con la più scrupolosa attenzione. 

Il primo sospetto si è acceso quando hanno scoperto che il vero Andrea Bonafede geometra di Campobello di Mazara, stando almeno ai certificati depositati in ospedale, risultava essere stato sottoposto a un piccolo intervento in day hospital alla clinica La Maddalena ma non vi era alcun riscontro, e che in realtà non era mai stato lì. Nelle stesse ore, infatti, lo smartphone di Andrea Bonafede (che per gli investigatori non era proprio uno sconosciuto) ha agganciato una cella telefonica non lontana da casa, in quel piccolo borgo che si trova nei dintorni di Trapani, a 108 chilometri dal capoluogo siciliano. Da lì si è capito che qualcosa di strano c’era.

Ed infatti non a caso, anche ieri mattina, quando Matteo Mesina Denaro si fingeva il signor Bonafede, quello reale era si trovava casa, osservato a vista in modalità “invisibili” dai carabinieri. Il resto dell’indagine, conclusa con abbracci e applausi, si è svolta utilizzando accertamenti tecnici che però chiaramente i Carabinieri del Ros non vogliono e non possono svelare. “Qualche giorno fa abbiamo avuto la certezza che la persona che si presentava con quel nome alla casa di cura aveva prenotato una visita per lunedì mattina e a quel punto abbiamo organizzato il blitz – ha raccontato in conferenza stampa il generale Pasquale Angelosanto comandante del Ros, – Ma fino a quando non abbiamo fermato quell’uomo non potevamo essere sicuri che il paziente in cura fosse davvero il latitante, anzi l’ex latitante. Diciamo che su un aspetto non avevamo dubbi: quello in cura non era il titolare di quel documento e di conseguenza sospettavamo che fosse proprio l’uomo che cercavamo da trent’anni“.

A tradire senza volerlo il boss che ancora teneva le redini di Cosa Nostra incredibilmente sono state le persone che avevano fatto di tutto per affiancarlo, proteggendolo per evitargli le manette. Gli volevano salvare la vita a tutti i costi ed hanno iniziato ad agitarsi troppo: le tre sorelle di Matteo Messina Denaro cercavano un modo di curarlo, e probabilmente è stata proprio una di loro a far sapere inconsapevolmente agli instancabili carabinieri del Ros che nel misterioso covo si stava fronteggiando l’inaspettata emergenza, quella di una malattia gravissima e già in fase avanzata.

A rendere più complicata la vita del boss-fantasma di Castelvetrano sono stati anche gli arresti effettuati nel tempo dalle forze dell’ ordine: in tutti questi anni la rete di supporto a Matteo Mesina Denaro si è molto ridotta. Anche economicamente. “In due lustri l’Arma ha arrestato 100 persone, tutte con l’accusa di aver avuto un ruolo nella latitanza del super boss – ha evidenziato il generale Angelosanto – Le confische, che solo per quanto riguarda quelle effettuate dai carabinieri, superano i 150 milioni di euro hanno dato un altro colpo fatale all’organizzazione mafiosa. A questi dati ovviamente si devono aggiungere anche i sequestri fatti scattare dalla Polizia di stato e dalla Guardia di finanza. Insieme abbiamo complicato e di molto la vita quotidiana di Cosa nostra, diciamo che ne abbiamo compromesso il funzionamento“.

Adesso che il capo degli “stragisti” è finalmente finito in cella i mandamenti mafiosi devono riorganizzarsi. Totò Riina aveva nominato i suoi “eredi” e ora si scoprirà se anche Matteo Messina Denaro avesse previsto il rischio di poter perdere tutto il potere e di lasciare affari, violenze e influenze nelle mani di qualcun altro. Per il momento ha perso la partita più importante: la sua . La differenza tra uno “stragista” e lo Stato si nota quando il boss è in manette. Quando il nemico potrebbe infierire e invece mostra più pietà che durezza. Basta guardare con attenzione i video girati davanti alla clinica La Maddalena: i Carabinieri lo hanno trattato con rispetto, consentendo a quell’uomo seminascosto da un montone e un cappello di lana calato fin sulla fronte di non venire ammanettato. I carabinieri dei reparti speciali del Ros e del Gis gli stanno ai fianchi ma prima lo affidano a una carabiniera che lo porta sottobraccio con rispetto. Lui camminava adagio e prima di salire sul van dell’Arma deve badare a non perdere l’equilibrio. Che stia male si vede chiaramente.

Non si è nascosto, pronunciando il suo verno nome e cognome, perché anche al momento della cattura un boss che si sente anche “simbolo” ha il dovere di mostrarsi duro, di non essersi piegato. “La malattia lo ha reso più vulnerabile – sottolinea il procuratore aggiunto Paolo Guido, che ha coordinato in prima persona questa inchiesta – Tutto sommato comunque non abbiamo trovato una persona in pessime condizioni: diciamo che il quadro è coerente con un sessantenne che affronta quel genere di patologia. In carcere potrà proseguire le terapie“.

Già poche ore dopo l’arresto la Procura di Palermo ha chiesto l’applicazione del regime di carcere duro per il capomafia di Castelvetrano Matteo Messina Denaro. L’istanza è stata inviata al ministero della Giustizia. Il provvedimento dei pm porta la firma del procuratore Maurizio de Lucia e dell’aggiunto Paolo Guido. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha subito firmato e disposto il 41 bis per Messina Denaro.

Il boss capomafia ha nominato come difensore sua nipote Lorenza Guttadauro, nipote a sua volta anche del capomafia palermitano Giuseppe Guttadauro.  “Sono rimasta sorpresa anche io dalla nomina ricevuta da Matteo Messina Denaro, le dico la verità, non me l’aspettavo. Sono sincera“. A parlare con l’Adnkronos è l’avvocata Guttadauro, nipote e legale appena nominata dal capomafia di Castelvetrano dopo il suo arresto avvenuto ieri mattina. Lorenza Guttadauro è la figlia di Filippo Guttadauro e Rosalia Messina Denaro, sorella del boss di Castelvetrano. “Ancora non mi è arrivata la notifica ufficiale – dice la legale – Ho ricevuto una telefonata informale in cui mi veniva comunicata la scelta del cliente, diciamo che sono ancora in attesa. Ora devo capire se questa nomina riguarda anche gli altri procedimenti in corso“. La data dell’interrogatorio di garanzia per l’ex latitante non è stata ancora fissata. Intanto, dopodomani, 19 gennaio, è prevista l’udienza all’aula bunker di Caltanissetta che vede imputato Messina Denaro per le stragi mafiose del ’92. “Non so ancora se lo rappresenterò anche in quel processo“, dice. Finora Messina Denaro ha avuto solo legali d’ufficio.

Lorenza Guttadauro è sposata con Luca Bellomo, che era finito in carcere nel 2014 con l’accusa di essere l’ultimo “ambasciatore” del boss di Castelvetrano. La professionista ha anche difeso la zia Anna Patrizia, sorella di Messina Denaro, e il fratello Francesco, arrestati con l’accusa di essere il braccio operativo del capomafia. Un avvocato che di mafia ne sa parecchio. Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2022.

[…] E il blitz è scattato alle 8.20 di ieri mattina, nella clinica La Maddalena, quando i computer della struttura hanno registrato l'ingresso di Andrea Bonafede, nato a Campobello di Mazara il 23 ottobre 1963, arrivato per sottoporsi alla visita di controllo e al trattamento chemioterapico prenotato lo scorso giovedì. Il sospetto che dietro quel nome si celasse il ricercato numero 1 di Cosa nostra era maturato da qualche mese […] Ma la certezza poteva arrivare solo con il contatto diretto, e quindi la cattura.

Per questo, quando il computer ha confermato l'arrivo di Bonafede, il dispositivo predisposto dai carabinieri è entrato in azione in tutta la sua imponenza, con circa 150 militari.

 Gli specialisti del Gis […] hanno «sigillato» la clinica bloccando tutte le uscite […] il latitante s' è messo in fila per fare il tampone anti Covid […] ma dopo non è salito subito al piano dove doveva andare per il trattamento. Ha deciso di uscire fuori, forse per prendere un caffè […] in quel momento […] un ufficiale Ros gli si è avvicinato, notando la somiglianza con il volto invecchiato del boss ricostruito dai computer […]

[…] non ha nemmeno provato a mentire. «Lei è Messina Denaro?», gli ha chiesto il colonnello del Ros che l'ha avvicinato, e il boss ha risposto: «Lei lo sa chi sono», prima di ammettere: «Sono Matteo Messina Denaro».

 La caccia era finita […] il capomafia e il suo complice Luppino […] sono stati arrestati, caricati nella macchina con i vetri oscurati che li attendeva e portati in una caserma. Senza bisogno di mettergli le manette ai polsi. […] Ma come si è arrivati ad associare il capomafia malato con il nome di Andrea Bonafede, con un'indagine che - per come viene ricostruita - non contempla né «soffiate» né accordi sottobanco di cui immancabilmente già si vocifera?

Di indizi sulla malattia del ricercato numero 1 se ne sono accumulati tanti negli scorsi anni, ma alcune intercettazioni fra persone a lui vicine, negli ultimi tempi, hanno fornito qualche elemento in più: discorsi sul tumore al colon, oltre che sui tradizionali problemi agli occhi; e poi a un doppio problema oncologico, non solo il colon ma anche il fegato. Frasi e mezze frasi non riferite direttamente al boss, ma visto il contesto era plausibile che si parlasse di lui.

 A quel punto, tramite il ministero della Salute e i server che gestiscono le prestazioni a livello nazionale, è stata fatta un'indagine sulle persone che si sono sottoposte a interventi e cure per quelle due patologie; dati acquisiti tutti da remoto, attraverso i controlli sui contenuti dei computer delle singole strutture, e procedendo con varie scremature si è arrivati a una dozzina di nomi da approfondire. Tra i quali, verifica dopo verifica, è emerso quello di un certo Andrea Bonafede, di un'età quasi corrispondente a quella di Messina Denaro, operato nel 2020 al colon in un'altra struttura siciliana e a maggio 2022 a La Maddalena.

Indagando su quel nome, i carabinieri hanno scoperto che il giorno dell'operazione Bonafede non era in ospedale, bensì a casa sua. Sono state recuperate le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza sparse per le vie di Campobello di Mazara, che hanno immortalato quel signore a passeggio col suo cane, fumando il sigaro, mentre doveva trovarsi sotto i ferri. Di qui l'idea che dietro quell'identità potesse nascondersi il boss.

Anche perché il lavoro delle Squadre mobili e del Servizio centrale operativo della polizia aveva trovato da quelle parti tracce fresche del latitante. E il vero Bonafede, seppure finora incensurato , è il nipote di Nardo Bonafede morto qualche anno fa ma già capo della famiglia mafiosa di Campobello, legatissimo a Francesco Messina Denaro, padre di Matteo.

 L'altro elemento che ha rafforzato le convinzioni di investigatori e inquirenti è stata una recente visita specialistica all'occhio sinistro, dello stesso paziente, monitorata sempre tramite i server del Servizio sanitario nazionale. […] in Procura il nuovo capo De Lucia, arrivato a ottobre, ricorda adesso che «Matteo Messina Denaro ha certamente goduto di protezione e appoggi arrivati anche da una fetta della cosiddetta borghesia mafiosa, che si dipana nel settore della sanità locale e non solo».

C'è da capire, ad esempio, chi abbia contribuito a fornire, nel Comune di Campobello, una carta d'identità intestata a Bonafede, con la foto del ricercato e un timbro che sembra autentico. O la patente di guida di recente emissione, sempre con quel nome e quella foto. […]

Dal “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2022.

«Faceva la chemio con me ogni lunedì. Stavamo anche nella stessa stanza, era una persona gentile, molto gentile». Lo racconta una donna, in un video di Tv2000 anticipato ieri sera dal Tg2000 , che spiega di aver condiviso le sedute di chemioterapia con Matteo Messina Denaro all'interno della clinica privata «La Maddalena» di Palermo in cui ieri mattina il boss mafioso è stato catturato dai carabinieri del Ros. «Ci sono anche mie amiche che hanno il suo numero di telefono.

Lui mandava messaggi a tutti - sono le parole pronunciate dalla paziente -. Ha scambiato messaggi con una mia amica fino a questa mattina. Lei è ora sotto choc a casa». «Lui veniva chiamato Andrea», prosegue la donna mostrando un tono di voce che si fa via via più stupito, nel video di Tv2000 che sarà trasmesso integralmente dal programma «Siamo noi» oggi alle ore 15.15.

 Quel che emerge dalla testimonianza della signora è uno scenario di normali confidenze e preoccupazioni scambiate giorno dopo giorno tra quei malati di tumore in cura a «La Maddalena». «Ho fatto terapia da maggio a novembre. Abbiamo fatto la terapia insieme per tutta l'estate e lui veniva anche con la camicia a maniche lunghe».

I parenti, la nuova identità, il tumore così i Ros hanno trovato Messina Denaro. Redazione L'Identità il 17 Gennaio 2023

Alla fine, dopo trent’anni di latitanza, lo hanno arrestato, proprio a casa sua. Nella sua Isola. Esattamente a Palermo. Matteo Messina Denaro, forse l’ultimo “padrino” della mafia siciliana, è stato uno dei criminali più ricercati al mondo. Denaro, 60 anni, latitante dal 1993, è stato messo in manette all’interno della clinica privata “La Maddalena”, dove, secondo le fonti, era periodicamente in cura da circa un anno sotto il falso nome di “Andrea Bonafede”. Il boss oramai moribondo, soffrirebbe del morbo di Chron, oltre ad una patologia tumorale al colon e varie metastasi. E proprio dalla sua malattia, che parte l’indagine investigativa: “Senza pentiti o soffiate anonime” precisa il procuratore capo di Palermo, Maurizio de Lucia, conversando con i cronisti al palazzo di giustizia. Le informazioni vengono captate monitorando i parenti del boss latitante. I pm a quel punto incrociano i dati: cercano un uomo di 60 anni, siciliano, malato oncologico. Si scopre che esiste un soggetto corrispondente, sottoposto a due interventi chirurgici: uno in piena emergenza Covid in Sicilia e l’ultimo a maggio scorso, proprio alla clinica “La Maddalena”. Il punto di svolta arriva incrociando i dati: nel giorno dell’intervento avvenuto, il vero Andrea Bonafede era a Campobello di Mazara, un piccolo paese in provincia di Trapani. In clinica, sotto i ferri c’era qualcun altro. A questo punto – nel prosieguo delle indagini del Ros – viene fuori l’appuntamento fissato per ieri, dove erano in programma prelievi e seduta di chemioterapia. “Abbiamo avuto solo il tempo di allertare il Gis – ha detto De Lucia – e non appena si è avuta conferma dell’accettazione, è partito il blitz”.

“Al momento le condizioni sono compatibili con la detenzione in carcere. Ancora, in questo momento, non possiamo rispondere su quale sarà la struttura penitenziaria a cui sarà destinato Matteo Messina Denaro”. Ha affermato il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Guido, rispondendo alle domande dei cronisti. “E’ stato già proposto il 41 bis per il detenuto”, ha aggiunto.

Quello trovato in possesso di Matteo Messina Denaro “sembra un documento autentico” ma su questo “aspettiamo i primi accertamenti per dare risposte”. Ha spiegato ai giornalisti il comandante del Ros dei Carabinieri, Pasquale Angelosanto, per illustrare i dettagli della cattura del “padrino” di Castelvetrano. La sua rete di protezione “non è venuta meno, ma è stata indebolita per aver subito “colpi nel tempo, da parte delle forze di polizia. Colpi che hanno destrutturato quell’organizzazione che 15 anni fa aveva una forza maggiore”. Ha continuato il comandante dei Ros.

Il pm De Lucia nel corso della conferenza stampa ha tenuto a precisare che “Matteo Messina Denaro era un capo operativo ma la leadership di cosa nostra non era esclusiva di Messina Denaro”.

Il mafioso, che una volta affermava infamemente: “Ho riempito un cimitero, tutto da solo”, a quanto pare ha mantenuto il suo stile di vita lussuoso, come dimostrato dal suo Rolex dal valore di 35mila euro al momento dell’arresto.

“C’è stata certamente una fetta di borghesia che negli anni ha aiutato Messina Denaro e le nostre indagini ora stanno puntando su questo”, ha affermato il procuratore De Lucia. Nel frattempo, “sono in corso e continueranno attività di approfondimento, perquisizioni a locali e abitazioni a soggetti indagati ed emersi in questo contesto che ha portato alla cattura del latitante. Io non posso assicurare la certezza della verità, ma nessuna delle vittime di mafia dovrà non avere una risposta. Tutto lo sforzo della procura che dirigo, dei magistrati e delle forze dell’ordine è volto a questo per rispetto di tutte le vittime di mafia, dei familiari, dei sopravvissuti. Faremo di tutto, non ci fermeremo”.

Estratto dell’articolo di Giu. Leg. per “La Stampa” il 22 gennaio 2023.

È novembre del 2022, alla trasmissione «Non è l'Arena» un signore grassoccio, con i capelli grigi retti all'indietro dagli occhiali da sole, una camicia azzurra e le bretelle a rombi, dice qualcosa che non può passare inosservato.

 Parla dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, già reggenti del mandamento di Ciaculli-Brancaccio, oggi rinchiusi in carcere in regime di 41 bis: «L'unica sua speranza (dei Graviano), e me lo auguro anche io per loro, è che venga abrogato l'ergastolo ostativo e che comincino a godersi la famiglia, i figli. E magari chi lo sa che avremo un regalino.

 Magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato, che faccia una trattativa lui stesso per consegnarsi e fare un arresto clamoroso, e magari arrestando lui esce qualcuno che ha l'ergastolo ostativo senza che ci sia clamore... Sarebbe un fiore all'occhiello», dice. A parlare è Salvatore Baiardo, fiancheggiatore dei boss di Cosa Nostra, personaggio misterioso e oscuro.

 Due mesi dopo, lunedì scorso, Messina Denaro è arrestato a Palermo. […] Le parole di Baiardo diventano una «profezia». Fanno il giro del web. […] Di lui – va detto - fonti investigative e inquirenti di provata credibilità sottolineano l'inaffidabilità.

Ora, alla domanda se davvero presume (come detto a La7) che ci sia stata una trattativa che abbia condotto all'arresto dell'ex latitante, risponde che «se l'ho detto in quella trasmissione è perché ne ero più che convinto».

 E se questa (per lui) asserita interlocuzione sia stata solitaria o meno, aggiunge: «Penso che quando si fa una trattativa ci sono sempre più persone (che prendono parte alla stessa, ndr)».

Secondo Baiardo, Matteo Messina Denaro, fin dalla scoperta della malattia, avvenuta il 17 novembre 2020 con la diagnosi di tumore invasivo al colon fatta dai medici dell'ospedale di Mazara del Vallo, «credo si sia sempre curato a Palermo».

 Niente viaggi lontano dal suo feudo nel trapanese, insomma, in cliniche del Nord o all'estero. […]

 E poi, sull'imprendibilità per 30 anni del capo della mafia trapanese e su come questo sia stato possibile, sottolinea che «come avevo già detto per Graviano, affinché ciò avvenga sono necessarie complicità a largo raggio, a 360 gradi». Infine giudica praticamente impossibile l'eventualità che Messina Denaro possa pentirsi: «Non credo proprio che lo farà mai». […]

Estratto da ilgiornaleditalia.it il 16 gennaio 2023.

Un tumore che sembra essere l'unica cosa che lo ha messo al tappeto negli ultimi 30 anni dato che la caccia al boss mafioso è stata record, così come la sua latitanza. Messina Denaro ha infatti superati i 23 anni di fuga di Totò Riina mentre sembrano irraggiungibili i 38 di Bernardo Provenzano.

L'inchiesta è stata coordinata dalla Procura di Palermo, dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido, i quali potrebbero aver ricevuto l'sms dalla clinica privata dove era sottoposto a terapie, sotto gli ordini di Messina Denaro. Testo del messaggio: accorrete che ho bisogno di voi. Gli accertamenti oncologici sarebbero una farsa: Messina Denaro non aspettava altro che questo momento per farsi catturare e così liberarsi dal tumore con l'aiuto dello Stato. [...]

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2023.

Le gravi malattie di cui soffre il boss le hanno scoperte intercettando i pochi familiari ancora liberi. È ascoltando le frasi sussurrate a mezza bocca dalle sorelle del capomafia di Castelvetrano, ex primula rossa della mafia da oggi dietro le sbarre, che gli inquirenti hanno messo insieme i pezzi del puzzle che li ha portati alla cattura del padrino. Parlavano di un tumore al fegato, di chemioterapia e di due interventi subiti: uno per il cancro, l’altro per il morbo di Crohn i familiari intercettati.

Un input che ha dato il via all’indagine del Ros e della Procura di Palermo che ha messo termine alla trentennale latitanza di Matteo Messina Denaro. Grazie al centro del ministero della Salute che raccoglie i dati dei malati oncologici gli inquirenti hanno stilato una lista di pazienti che per patologie, sesso, età e provenienza erano compatibili col padrino ricercato.

 Tra i nomi uno ha fatto saltare sulla sedia i magistrati: Andrea Bonafede, di Campobello di Mazara, nel trapanese, nipote di Angelo, vecchio favoreggiatore del boss. Operato alla clinica Maddalena di Palermo un anno fa. Solo che, hanno scoperto gli inquirenti, il giorno dell’intervento indicato dagli archivi del ministero, Bonafede era tranquillo a casa sua. La lampadina si è accesa: Bonafede poteva essere il nome usato da Messina Denaro che per un anno ha fatto su e giù dal suo covo al La Maddalena per la chemioterapia. 

[...]

Estratto dell’articolo su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2023.

[…] Matteo Messina Denaro indossava un «pezzo» da 35 mila euro, prodotto dalla casa svizzera «Franck Muller», che può vantare anche fan e clienti esclusivi.

[…]non a caso in conferenza stampa a Palermo gli inquirenti hanno parlato di un patrimonio stimato in 13 milioni di euro, tra liquidità, quote societarie, altri beni mobili e palazzi, che risulterebbero per lo più intestati a prestanome.

«Era ben vestito, di buon aspetto, indossava dei beni decisamente di lusso, da questo possiamo desumere che le sue condizioni economiche in questo momento erano tutt’altro che difficili», ha sottolineato il procuratore aggiunto della Dda di Palermo Paolo Guido nel corso della conferenza stampa parlando del momento in cui il boss mafioso Messina Denaro è stato fermato nella clinica Maddalena.

«Già, ma al momento sono stati sequestrati 1.300 euro», oltre all’orologio, ha messo in evidenza un investigatore […]

Estratto dell'articolo di Giovanni Mannino per mowmag.com il 16 gennaio 2023.

[…] Il sociologo, scrittore ed ex parlamentare, figlio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa assassinato dalla mafia nel 1982, prova “gioia” alla notizia, ma da domani, dice, “dobbiamo porci una serie di interrogativi”

 Nando Dalla Chiesa, cosa pensa della tempistica, a trent’anni dall’arresto di Totò Riina e a pochi mesi dall’insediamento del primo governo di destra-destra della Repubblica?

Potrei anche dire mentre c’è la fiction sul generale… (“Il nostro generale”, con Sergio Castellitto, in onda su Rai 1, ndr). La prima cosa da dire è: bravi, finalmente l’hanno preso, si dimostra che nessuno è imprendibile e invincibile. La seconda è una domanda: chi l’ha aiutato finora?

 Ma perché proprio ora, secondo lei?

Queste indagini vanno avanti da tanto tempo, son state fatte seriamente, c’è un procuratore molto bravo, De Lucia, e ci sono i Ros che lavorano molto bene. A loro, a tutti coloro che si sono impegnati, devono andare i nostri più grandi elogi. Ma sicuramente ci sono state delle coperture, come si evince dal fatto che Matteo Messina Denaro abbia potuto farsi ricoverare tranquillamente in una clinica, un segnale inquietante, anche perché non è la prima volta che succede.

[…]

 Nella sanità c’è un problema. Ma non solo in Sicilia, dappertutto. La relazione fra mafia e sanità è una delle più pericolose.

 Uno degli interrogativi va quindi girato ai presidenti della Regione Sicilia, responsabili politici della sanità, o no?

Sì, e a chi firma le convenzioni, a chi vengono assegnate le aziende sanitarie locali. Non dimentichiamo, per esempio, che il vicepresidente del consiglio regionale calabrese nel 2005 venne ucciso, lui medico, perché non faceva fare ai clan della ‘ndrangheta quello che desideravano nella sanità locale.

[…]

Estratto dell’articolo di Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” del 6 giugno 2022

 Centinaia di trapiantati di rene non lo sanno, ma c’è chi scartabella fra le pieghe delle loro cartelle sanitarie cercando Matteo Messina Denaro. Perché dal 2017 una parte del sistema informatico del Centro nazionale trapianti è stato controllato da un reparto dei servizi di sicurezza. Anche a caccia delle ricette dei costosissimi farmaci antirigetto necessari in questi casi, come si scopre arrivando in coda al romanzo appena scritto da Gaetano Pecoraro, uno dei cronisti più efficaci delle «Iene».

 Il trapianto

Un romanzo con lo scoop di un trapianto forse eseguito sotto falso nome o all’estero. Un’ipotesi inedita mentre si continua a cercare lo stragista di cosa nostra finora descritto come uno scattante criminale senza acciacchi. Una nuova pista sulla lunga latitanza del numero uno di cosa nostra che nei fascicoli i suoi cacciatori chiamano MMD.

 Come fa anche Pecoraro, protagonista di tante inchieste per la squadra di Davide Parenti su Mediaset, adesso autore del thriller pubblicato da Sperling&Kupfer, Il male non è qui, dal 7 giugno in libreria.

[…] ecco la soffiata su una operazione al rene. Con le conferme trovate al vertice di quel Centro dove due agenti arrivarono, già cinque anni fa, presentati dalla moglie di un medico ucciso dalla ‘ndrangheta in Calabria. Dettagli indirettamente ammessi da un ex direttore del Centro: «No comment. Ho preso con le “istituzioni” un impegno che va rispettato...».

[…]

Il database dei malati oncologici e le intercettazioni delle sorelle hanno “tradito” Messina Denaro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Gennaio 2023.

A tradire senza volerlo il boss che ancora teneva le redini di Cosa Nostra incredibilmente sono state le persone che avevano fatto di tutto per affiancarlo, proteggendolo per evitargli le manette. Gli volevano salvare la vita a tutti i costi ed hanno iniziato ad agitarsi troppo: le tre sorelle di Matteo Messina Denaro cercavano un modo di curarlo, e probabilmente è stata proprio una di loro a far sapere inconsapevolmente agli instancabili carabinieri del Ros che nel misterioso covo si stava fronteggiando l’inaspettata emergenza

Matteo Messina Denaro nel cercare di entrare nella vita di un altro uomo  non aveva fatto i conti con la tecnologia. Non tanto quella delle tradizionali indispensabili intercettazioni, ma la possibilità di consentire agli investigatori di analizzare le banche dati dei pazienti oncologici. La cattura è stata possibile mettendo insieme un’informazione “preziosa” raccolta ascoltando le chiacchiere imprudenti delle sorelle del boss che parlavano di tumore, andando a spulciare la lista di tutti i malati di tumore della Sicilia.

C’è voluto non poco tempo, ma la fretta in queste indagini non è mai una buona alleata. Gli investigatori ed analisti dell’ Arma dei Carabinieri non hanno guardato il proprio orologio, e si sono presi tutto il tempo necessario, hanno analizzando una ad una l’identità di tutti i pazienti oncologici: dalle caratteristiche fisiche alle le condizioni di salute, ma anche la provenienza. E quando si sono imbattuti la scorsa primavera nel nome di Andrea Bonafede, hanno intuito che c’era qualcosa di strano. E lo hanno verificato con la più scrupolosa attenzione. 

Il primo sospetto si è acceso quando hanno scoperto che il vero Andrea Bonafede geometra di Campobello di Mazara, stando almeno ai certificati depositati in ospedale, risultava essere stato sottoposto a un piccolo intervento in day hospital alla clinica La Maddalena ma non vi era alcun riscontro, e che in realtà non era mai stato lì. Nelle stesse ore, infatti, lo smartphone di Andrea Bonafede (che per gli investigatori non era proprio uno sconosciuto) ha agganciato una cella telefonica non lontana da casa, in quel piccolo borgo che si trova nei dintorni di Trapani, a 108 chilometri dal capoluogo siciliano. Da lì si è capito che qualcosa di strano c’era.

Ed infatti non a caso, anche ieri mattina, quando Matteo Mesina Denaro si fingeva il signor Bonafede, quello reale era si trovava casa, osservato a vista in modalità “invisibili” dai carabinieri. Il resto dell’indagine, conclusa con abbracci e applausi, si è svolta utilizzando accertamenti tecnici che però chiaramente i Carabinieri del Ros non vogliono e non possono svelare. “Qualche giorno fa abbiamo avuto la certezza che la persona che si presentava con quel nome alla casa di cura aveva prenotato una visita per lunedì mattina e a quel punto abbiamo organizzato il blitz – ha raccontato in conferenza stampa il generale Pasquale Angelosanto comandante del Ros, – Ma fino a quando non abbiamo fermato quell’uomo non potevamo essere sicuri che il paziente in cura fosse davvero il latitante, anzi l’ex latitante. Diciamo che su un aspetto non avevamo dubbi: quello in cura non era il titolare di quel documento e di conseguenza sospettavamo che fosse proprio l’uomo che cercavamo da trent’anni“.

A tradire senza volerlo il boss che ancora teneva le redini di Cosa Nostra incredibilmente sono state le persone che avevano fatto di tutto per affiancarlo, proteggendolo per evitargli le manette. Gli volevano salvare la vita a tutti i costi ed hanno iniziato ad agitarsi troppo: le tre sorelle di Matteo Messina Denaro cercavano un modo di curarlo, e probabilmente è stata proprio una di loro a far sapere inconsapevolmente agli instancabili carabinieri del Ros che nel misterioso covo si stava fronteggiando l’inaspettata emergenza, quella di una malattia gravissima e già in fase avanzata.

A rendere più complicata la vita del boss-fantasma di Castelvetrano sono stati anche gli arresti effettuati nel tempo dalle forze dell’ ordine: in tutti questi anni la rete di supporto a Matteo Messina Denaro si è molto ridotta. Anche economicamente. “In due lustri l’Arma ha arrestato 100 persone, tutte con l’accusa di aver avuto un ruolo nella latitanza del super boss – ha evidenziato il generale Angelosanto – Le confische, che solo per quanto riguarda quelle effettuate dai carabinieri, superano i 150 milioni di euro hanno dato un altro colpo fatale all’organizzazione mafiosa. A questi dati ovviamente si devono aggiungere anche i sequestri fatti scattare dalla Polizia di stato e dalla Guardia di finanza. Insieme abbiamo complicato e di molto la vita quotidiana di Cosa nostra, diciamo che ne abbiamo compromesso il funzionamento“.

Adesso che il capo degli “stragisti” è finalmente finito in cella i mandamenti mafiosi devono riorganizzarsi. Totò Riina aveva nominato i suoi “eredi” e ora si scoprirà se anche Matteo Messina Denaro avesse previsto il rischio di poter perdere tutto il potere e di lasciare affari, violenze e influenze nelle mani di qualcun altro. Per il momento ha perso la partita più importante: la sua . La differenza tra uno “stragista” e lo Stato si nota quando il boss è in manette. Quando il nemico potrebbe infierire e invece mostra più pietà che durezza. Basta guardare con attenzione i video girati davanti alla clinica La Maddalena: i Carabinieri lo hanno trattato con rispetto, consentendo a quell’uomo seminascosto da un montone e un cappello di lana calato fin sulla fronte di non venire ammanettato. I carabinieri dei reparti speciali del Ros e del Gis gli stanno ai fianchi ma prima lo affidano a una carabiniera che lo porta sottobraccio con rispetto. Lui camminava adagio e prima di salire sul van dell’Arma deve badare a non perdere l’equilibrio. Che stia male si vede chiaramente.

Non si è nascosto, pronunciando il suo verno nome e cognome, perché anche al momento della cattura un boss che si sente anche “simbolo” ha il dovere di mostrarsi duro, di non essersi piegato. “La malattia lo ha reso più vulnerabile – sottolinea il procuratore aggiunto Paolo Guido, che ha coordinato in prima persona questa inchiesta – Tutto sommato comunque non abbiamo trovato una persona in pessime condizioni: diciamo che il quadro è coerente con un sessantenne che affronta quel genere di patologia. In carcere potrà proseguire le terapie“. Redazione CdG 1947

Ecco come si nascondeva il “boss” mafioso Matteo Messina Denaro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Gennaio 2023.

Secondo un autorevole avvocato esperto di mafia le dichiarazioni di Baiardo a Giletti, in realtà, contrariamente a quanto i professionisti dell' Antimafia vorrebbero far credere, altro non erano che un un messaggio di "allerta" per Mesina Denaro

Il nostro giornale ha ricevuto nel pomeriggio odierno una fotografia che pubblichiamo da cui si vede Matteo Mesina Denaro insieme al suo medico curante il dr. Marco Paci medico oncologo (estraneo alle indagini) della clinica “La Maddalena” di Palermo, cioè il luogo dove oggi è stato arrestato il boss capomafia, che si dimostra incurante (scusate il gioco di parole) di essere riconosciuto. Come potete vedere Mesina Denaro faceva ben poco per nascondersi, arrivando persino a farsi dei selfie !

Matteo Messina Denaro utilizzando l’identità Andrea Bonafede era di casa nella clinica “La Maddalena” di Palermo dove ogni volta che tornava per le chemioterapie, distribuiva regali a tutti: “Era molto generoso, come i pazienti più facoltosi. Spesso regalava bottiglie di olio di Castelvetrano a medici e infermieri”, racconta un camice bianco sconvolto sotto la promessa di anonimato. Nessuno poteva immaginare – o almeno così raccontano in clinica – che dietro quell’anziano dal volto scavato dalla malattia si nascondesse il “superlatitante” più ricercato d’Italia. Il capo della mafia trapanese a cui lo Stato ha dato la caccia per trent’anni, di fatto entrava ed usciva indisturbato dalla clinica palermitana, che viene considerata un’ “eccellenza” dell’oncologia in Sicilia.

La prima volta che Mesina Denaro ha fatto ingresso a “La Maddalena” era il 13 novembre del 2020, per una visita pre-operatoria. Sulla cartella clinica risultava il nome di Andrea Bonafede, classe 1963: Qualche giorno dopo, venne operato per l’asportazione di un tumore al colon, rimanendo ricoverato per sei giorni. Da allora sono stati riscontrati almeno altri sei ricoveri in “day hospital” ed un secondo intervento chirurgico a maggio 2021 a causa dell’insorgenza di metastasi epatiche. Sono molti in clinica a ricordare il suo volto: lo avevano visitato anestesisti, chirurghi, oncologi. Lo scorso novembre era tornato a “La Maddalena” per eseguire una Tac, mentre il mese successivo, a dicembre si era ripresentato per sottoporsi ad una risonanza magnetica. Le sue condizioni peggioravano ed i medici gli avevano dato appuntamento per oggi per eseguire un tampone, in prossimità di un nuovo ricovero in day hospital.

Questa mattina ad aspettarlo, ha trovato i Carabinieri del Ros che già alle sette del mattino avevano militarizzato e “blindato” tutte le vie di accesso ed uscita dalla clinica “La Maddalena”. “Sono arrivato molto presto – racconta un dottore – e ho trovato davanti alle porte del reparto un carabiniere con elmetto e pettorina. Ho chiesto come potevo essere utile. Mi ha detto di entrare dentro e non uscire. C’erano Carabinieri davanti alle porte di tutti i reparti. Abbiamo capito subito che stavano cercando un pezzo grosso. I miei collaboratori che dovevano prendere servizio alle 8 sono rimasti bloccati fuori dalle porte dell’ospedale, da cui non poteva entrare e uscire nessuno. Sembrava fossimo in assetto da guerra”.

La cattura di Matteo Messina Denaro ha fermato l’ attività dentro uno dei poli di eccellenza della Sicilia per la cura dei tumori: per un’ora e mezza le sale operatorie ferme, i dipendenti fuori, pazienti in strada in attesa di una visita. Gli interventi in scaletta, non urgenti, sono stati rinviati. I pazienti degli ambulatori sono stati lasciati alla porta mentre la clinica era circondata da decine di carabinieri. I chirurghi sono stati sgomberati come se fosse in atto una di quelle esercitazioni antincendio che, almeno una volta l’anno, vengono messe in scena nelle ditte private. “Era tutto fermo e non sapevamo il perché. Tutto bloccato dalle 8,15 alle 9,40“, racconta un dipendente della clinica.

Alcuni medici ed i pazienti ricoverati sono rimasti in ostaggio dentro la clinica per oltre un’ora, senza capire il perchè. “Quando finalmente ci hanno detto che era stato catturato Matteo Messina Denaro, eravamo increduli e felici“. Come sia possibile che nessuno, in due anni, abbia sospettato qualcosa, non lo sanno spiegare nemmeno i sanitari: “Penso si sia operato alla faccia – si spinge ad ipotizzare un camice bianco – ma in ogni caso è difficile, se non impossibile, riconoscere un latitante da una ricostruzione fotografica. Sul tavolo operatorio, anche i propri familiari sono irriconoscibili“. Quando i pazienti ed i familiari presenti in clinica hanno capito cosa stava succedendo, le urla di gioia sono state incontenibili: “Bravi, bravi”, dicevano fra gli applausi ai carabinieri del Ros, che in quel momento stavano catturando dopo trent’anni di latitanza di Matteo Messina Denaro sotto lo pseudonimo Andrea Bonafede, che un anno fa era stato operato nella stessa clinica.

Redazione CdG 1947

La cattura di "La testa dell'acqua": tradito dalla malattia più che dai pizzini. Arrestato Matteo Messina Denaro, come è diventata la mafia adesso non lo sa più nessuno. Nicola Biondo su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Alla fine lo ha tradito la malattia più che i “pizzini”. Si conclude così la latitanza trentennale dell’ultimo esponente della mafia stragista, Matteo Messina Denaro arrestat dal Ros dei Carabinieri a Palermo dove si trovava per un controllo medico. La conferenza stampa dell’Arma rivela altri particolari, pochi, sui quali a lungo però si discuterà. Il boss di Castelvetrano era “operativo all’interno di Cosa nostra” ma non certo il Padrino a capo della Commissione, un capace uomo d’affari con mille legami. Insomma oltre l’arresto, con le indagini che continuano sui sodali, poco quasi nulla che già non si sapesse. Massimo riserbo ripetono i vertici della Procura di Palermo e gli investigatori del Ros.

L’arresto di Matteo Messina Denaro avvenuto oggi a Palermo è un cerchio che si chiude, una macchina del tempo che riporta ad un mondo che non c’è più – quello della fine della Prima Repubblica, delle bombe e delle stragi – e che dice poco a chi ha meno di 40 anni, e nello stesso tempo apre una storia nuova, ancora tutta da scrivere quella di una mafia sommersa non più blocco di potere, del Potere grande. La cronaca dell’arresto è ancora scarna: il set della cattura è un quartiere storico della mafia, San Lorenzo, dove un tempo insistevano le ville nobiliari più sfarzose (tra cui quella dove Visconti girò la scena del ballo del Gattopardo) e oggi sfregiato dalla speculazione edilizia, primo grande affare che cementò il binomio mafia-politica.

E sfregiato dalla latitanza ma soprattutto dalla malattia – stava per recarsi in un reparto oncologico di una nota clinica palermitana al momento dell’arresto – appare il boss di Castelvetrano nella prima foto, la prima da ex-latitante, nel furgone dei carabinieri del Ros: un volto irriconoscibile e lontanissimo se paragonato a quello del mafioso viveur, tutto occhiali Rayban camice costose e tombeur de femme che la vasta memorialistica ci ha tramandato in questi trent’anni di fuga.

Ecco, la fuga è il mistero insieme ai mille segreti che il pupillo di Salvatore Riina e poi di Binu Provezano conserva nella memoria, soprattutto quelli delle stragi del 1993 a Milano, Firenze e Roma. E se ne parlerà a lungo anche per le incredibili coincidenze temporali della cattura di oggi: esattamente il 15 gennaio del ’93 sempre i Ros arrestavano Riina assestando un colpo durissimo alla deriva terroristica che pochi mesi prima si era inserita con la mattanza di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nelle dinamiche politiche al massimo livello.

Sarà difficile spiegare a chi non c’era o non ricorda cosa è stata la deriva terroristica di Cosa nostra di cui Messina Denaro è stato tra i più fedeli servitori, quel mondo non c’è più. Lui, figlio d’arte di don Ciccio uno che è morto da latitante nel suo letto ed è stato fatto ritrovare esanime con il cappotto elegante addosso, è stato il trait d’union tra la mafia antica e quella sgargiante, tra i pizzini e Facebook, tra il governo feroce del territorio e grandi affari all’estero. “La testa dell’acqua” lo chiamavano alcuni dei suoi sodali, come a dire “l’origine di tutto“. E chissà se è stato proprio così o invece si tratta di un riferimento tra il biblico e l’esoterico di cui il linguaggio mafioso è pieno.

Quello che è certo è che è stato arrestato il passato di una mafia di cui conosciamo molto, quasi tutto, e quel che manca solo MMD potrebbe rivelarlo. Ma se mai dovesse parlare è il presente che sarebbe utile squadernasse. Perché se è vero che ha servito e officiato l’assalto allo Stato, Messina Denaro ha incarnato la trasformazione da Cosa nostra a Cosa Grigia (per usare una felice espressione di Giacomo Di Girolamo, tra i più capaci giornalisti che si occupano di mafia), tornando a quel periodo in cui erano le relazioni a fortificare ed espandere l’organizzazione, non i mitra e il tritolo perché la mafia vive di consenso non solo di paura.

E per il cronista oggi è tutto un dejà vu è tutto ciò che in queste ore avviene a Palermo, come un tempo, come un orologio che ci ha sbalzato indietro di 30 anni: le sirene impazzite a coprire il traffico, le indiscrezioni, le note di colore sulla cattura, gli scetticismi (“si è fatto catturare, lo hanno venduto“, questo il refrain), il rincorrere telefonicamente gli investigatori per comporre l’ultimo pezzo. In attesa che l’ultimo scalpo della mafia venga, come prima di lui tutti gli altri, messo in mostra per darci l’ultima illusione che è tutto finito. Ma come è diventata la mafia adesso non lo sa più nessuno. Nicola Biondo

"Paziente noto alla clinica". La malattia di Matteo Messina Denaro e la “trattativa” per farsi arrestare: “Bonafede era in cura da anni”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Si era recato nella clinica La Maddalena di Palermo per un day hospital, per curare un cancro che sta combattendo da anni. Si faceva chiamare “Andrea Bonafede” (nato il nato il 23 ottobre 1963), Matteo Messina Denaro, 60 anni, l’oramai ex primula rossa della mafia, arrestato il 16 gennaio dopo esattamente 30 anni di latitanza. “U siccu”, “il magro”, uno dei suoi soprannomi, è malato di tumore al colon e – secondo quanto emerge da ambienti della clinica – ha metastasi epatiche che lo obbligavano a sottoporsi a cicli periodici di chemioterapie.

Un blitz scattato intorno alle sette di questa mattina che ha visto in azione decine di carabinieri dei Ros (Raggruppamento Operativo Speciale). Secondo quanto emerge da fonti interne alla clinica, “Bonafede” era in cura da un paio d’anni, era un “paziente noto alla clinica”, e questa mattina si era recato lì per un day hospital. Aveva fato un tampone antiCovid ed era in attesa di ricevere la terapia quando c’è stata l’irruzione dei militari dell’Arma.

“Frequentava la clinica – dice un medico, che preferisce rimanere anonimo, all’Agi- ed era stato operato in Chirurgia, ora veniva seguito in Oncologia. Stamattina alle 6 non c’era nulla, poi i miei collaboratori mi hanno chiamato: ci sono i Ros, mi hanno detto, e si è presentato un militare in assetto di guerra, stiamo cercando una persona, mi ha detto, stia tranquillo. In ogni piano c’era uno di loro, dei carabinieri in assetto di guerra, lui è scappato, pè andato fuori al bar e lo hanno preso. Ha tentato la fuga al bar e c’è stato molto trambusto”. Matteo Messina Denaro ha subito due operazioni chirurgiche, una lo scorso maggio, l’altra durante la pandemia (il 13 novembre 2020 era stato operato per un cancro al colon nell’ospedale “Abele Ajello” di Mazara del Vallo). Pandemia che ha visto “U siccu” vaccinarsi tre volte nel 2021 vicino a Trapani e sempre con il nome di Andrea Bonafede.

Poi aggiunge: “Era un paziente noto alla clinica, ha fatto anche dei trattamenti. Un anno sicuramente per il day hospital. Ma non avevamo alcuna idea di chi fosse, figuriamoci se potevamo saperlo o riconoscerlo”. Secondo quanto raccontano alcuni sanitari, Messina Denaro “era un uomo generoso”. E ogni volta che andava portava olio o altre specialità contadine.

LE VOCI SULLA TRATTATIVA – Da anni si rincorrevano voci sulla presunta malattia di Matteo Messina Denaro. Lo scorso novembre, un ex mafioso, poi collaboratore di giustizia, Salvatore Baiardo aveva ipotizzato a “Non è l’Arena” su La7 una “trattativa per consegnarsi lui stesso” proprio perché “molto malato”. Anche per l’ex magistrato Otello Lupacchini, Matteo Messina Denaro “potrebbe essersi consegnato anche perché se non avessero garantito la sua sicurezza non sarebbe andato in una clinica, dove avrebbe potuto essere arrestato. Non dimentichiamo che per anni è sfuggito più volte alla cattura, segno evidente della cura che metteva alla sua sicurezza. È stato poi arrestato dopo 30 anni e un giorno dell’arresto di Totò Riina. Se è vero che è fortemente indebolito per una malattia nulla esclude che possa essersi consegnato perché avrebbe avuto poco da perdere”.

Rumors e voci che si rincorrono su più fronti ma che difficilmente verranno confermate, anche perché, da quanto emerge in queste prime ore successive all’arresto, il boss di Castelvetrano (Trapani) avrebbe tentato la fuga quando i carabinieri hanno fatto irruzione all’interno della clinica Maddalena ma è stato fermato dopo pochi secondi, confermando poi di essere “Matteo Messina Denaro”.

LA VERSIONE DI PROCURA E CARABINIERI – Finisce oggi una latitanza infinita, durata ben 30 anni, la maggior parte dei quali li avrebbe trascorsi proprio nella zona occidentale della Sicilia. Per la procura di Palermo, Messina Denaro è stato catturato grazie alle intercettazioni dei suoi familiari che hanno consentito di reperire pochi ma fondamentali dettagli proprio sulla malattia di Messina Denaro.

Da qui sarebbero partiti accertamenti da parte dei carabinieri del Ros, a partire dai dati sui malati oncologici raccolti dal ministero della Salute. E’ stata stilata una lista di pazienti che per età, provenienza, sesso e patologie erano compatibili con il boss di Castelvetrano e tra i nomi emersi c’era anche quello di Andrea Bonafede. Un cognome che ha attirato subito l’attenzione degli inquirenti perché si trattava di un nipote di un vecchio fiancheggiatore del padrino mafioso. 

Poi un altro dettaglio che ha fatto capire a carabinieri e pm che la direzione intrapresa era quella giusta: quando Messina Denaro è stato operato lo scorso maggio nella clinica La Maddalena, il suo ‘alias’ Bonafede era a casa. Così quando venerdì scorso, 13 gennaio, la clinica siciliana ha ricevuto la prenotazione dello stesso Bonafede per la visita odierna, è scattata l’organizzazione dei carabinieri che ha poi portato all’arresto di oggi, 16 gennaio.

LE CONDANNE – “U siccu” è stato condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del ’92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del ’93 a Milano, Firenze e Roma.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Messina Denaro in chemioterapia per metastasi al fegato. Redazione online su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

L’ex boss latitante si era già fatto operare due anni fa a Marsala per un tumore al colon. Il personale della clinica: « Non riceveva visite e non è mai stato accompagnato»

L’uomo più ricercato d’Italia si trovava alla clinica «La Maddalena» con una diagnosi di metastasi al fegato e aveva già subito un intervento chirurgico circa due anni fa. Sarebbero dunque molto compromesse le condizioni di salute dell’ex superlatitante Matteo Messina Denaro, arrestato questa mattina a Palermo. A rivelare questo dettaglio sono le cartelle cliniche già fatte sequestrare dalla procura di Palermo nella struttura sanitaria in cui è avvenuto il blitz.

Matteo Messina Denaro era costretto già da alcuni anni a sottoporsi a cure continue. «Era qui per una seduta di chemioterapia, aveva appena fatto il tampone che fanno tutti i pazienti prima di sottoporsi alla terapia e stava attendendo l’esito di alcuni esami del sangue». Sotto il falso nome di Andrea Bonafede - così raccontano i file che compongono la cartella clinica - si era già sottoposto a un intervento per la rimozione di un cancro al colon due anni fa all’ospedale Abele Ajello di Marsala. Successivamente si erano manifestate delle metastasi al fegato che aveva costretto a un secondo intervento, questa volta a Palermo. Il nuovo ricovero sarebbe invece legato a un ciclo di chemioterapie.

Anche questo - il fisico debilitato, l’effetto delle cure - avrebbero condizionato il comportamento del boss che ai carabinieri ha immediatamente svelato la sua vera identità. «Un paziente di poche parole, sempre vestito in maniera elegante e dai modi molto gentili»: lo racconta così un infermiere della clinica Maddalena di Palermo. «Era qui per una seduta di chemioterapia, aveva appena fatto il tampone che fanno tutti i pazienti prima di sottoporsi alla terapia e stava attendendo l’esito di alcuni esami del sangue ha confermato il testimone. Alla Maddalena nessuno ricorda che il paziente abbia mai ricevuto visite, nè che si sia mai presentato accompagnato da altre persone. 

Gli indizi sul tumore, i database degli ospedali controllati uno a uno: «Sono Matteo Messina Denaro». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

Il boss arrestato in una clinica di Palermo dove era in cura sotto falso nome.  Il superlatitante aveva al polso un orologio da 36 mila euro

«Dover fare i conti con la salute è un fatto democratico», dice il procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido, che per quindici anni ha dato la caccia a Matteo Messina Denaro. Vuol dire che nella lotta a un tumore, anzi due, sono tutti uguali, non c’è padrino di mafia che tenga. Anche lui ha dovuto far ricorso al sistema sanitario nazionale ed è quello che l’ha incastrato.

L’arresto dell’ultimo capomafia stragista latitante dal 1993 è stato possibile grazie alle cure pubbliche a cui il boss s’è dovuto sottoporre per provare a contenere e sconfiggere il male che lo ha colto. E il blitz è scattato alle 8.20 di ieri mattina, nella clinica La Maddalena, quando i computer della struttura hanno registrato l’ingresso di Andrea Bonafede, nato a Campobello di Mazara il 23 ottobre 1963, arrivato per sottoporsi alla visita di controllo e al trattamento chemioterapico prenotato lo scorso giovedì.

 Il sospetto che dietro quel nome si celasse il ricercato numero 1 di Cosa nostra era maturato da qualche mese, tramutandosi nel corso delle indagini in una convinzione via via più fondata. Ma la certezza poteva arrivare solo con il contatto diretto, e quindi la cattura. Per questo, quando il computer ha confermato l’arrivo di Bonafede, il dispositivo predisposto dai carabinieri è entrato in azione in tutta la sua imponenza, con circa 150 militari. Gli specialisti del Gis, il Gruppo d’intervento speciale, quelli che si muovono a volto coperto e con le armi spianate, hanno «sigillato» la clinica bloccando tutte le uscite dei sette piani della struttura; gli investigatori del Ros — il Raggruppamento operativo speciale che si dedica alle indagini antimafia — hanno cominciato a identificare tutte le persone presenti nell’edificio, alla ricerca del sedicente Bonafede; gli uomini delle strutture territoriali dell’Arma hanno cinturato la zona con doppio cerchio concentrico, per chiudere eventuali vie di fuga. 

A operazione iniziata, mentre procedevano le verifiche sui primi ignari pazienti, il latitante s’è messo in fila per fare il tampone anti Covid ancora obbligatorio per accedere alle cure, ma subito dopo non è salito subito al piano dove doveva andare per il trattamento. Ha deciso di uscire fuori, forse per prendere un caffè o qualcos’altro al bar vicino insieme a Giovanni Luppino, l’uomo che l’ha accompagnato in macchina da Mazara del Vallo. È in quel momento che un ufficiale Ros gli si è avvicinato, notando la somiglianza con il volto invecchiato del boss ricostruito dai computer in questi anni di ricerche. L’aspetto e il giaccone elegante, insieme all’orologio Franck Muller dal valore di circa 36.000 euro che aveva al polso, sono stati un altro riscontro: la passione del padrino per gli abiti firmati è stata un altro degli elementi acquisiti in anni di indagini. 

Forse per un momento il ricercato ha pensato di provare a fuggire, ma se l’ha fatto ha capito subito che non c’era alcuna possibilità. Probabilmente s’era accorto del movimento dei carabinieri in borghese e aveva intuito che fossero lì per lui, e alla richiesta non ha nemmeno provato a mentire. «Lei è Messina Denaro?», gli ha chiesto il colonnello del Ros che l’ha avvicinato, e il boss ha risposto: «Lei lo sa chi sono», prima di ammettere: «Sono Matteo Messina Denaro». 

La caccia era finita. Circondati dagli altri militari che gli sono piombati addosso, il capomafia e il suo complice Luppino (accusato per adesso di procurata inosservanza di pena) sono stati arrestati, caricati nella macchina con i vetri oscurati che li attendeva e portati in una caserma. Senza bisogno di mettergli le manette ai polsi. 

Dal suo ufficio il procuratore aggiunto Paolo Guido ha seguito l’arresto in diretta collegato con i carabinieri che hanno operato, insieme al procuratore Maurizio De Lucia. E la tensione s’è sciolta in un abbraccio, prima di cominciare l’altra parte del lavoro: l’incontro con il boss, la contestazione formale dei capi d’accusa riassunti nelle condanne all’ergastolo e altre pene. Il procuratore De Lucia s’è presentato; l’aggiunto Guido invece non ne ha avuto bisogno, Messina Denaro l’ha riconosciuto: le operazioni che negli ultimi anni hanno portato in carcere centinaia di suoi fiancheggiatori veri e presunti, e quasi l’intera famiglia d’origine del latitante, hanno fatto sì che la preda conoscesse bene il cacciatore.

 Ma come si è arrivati ad associare il capomafia malato con il nome di Andrea Bonafede, con un’indagine che — per come viene ricostruita — non contempla né «soffiate» né accordi sottobanco di cui immancabilmente già si vocifera? Di indizi sulla malattia del ricercato numero 1 se ne sono accumulati tanti negli ultimi anni, ma alcune intercettazioni fra persone a lui vicine, negli ultimi tempi, hanno fornito qualche elemento in più: discorsi sul tumore al colon, oltre che sui tradizionali problemi agli occhi; e poi a un doppio problema oncologico, non solo il colon ma anche il fegato. Frasi e mezze frasi non riferite direttamente al boss, ma visto il contesto era plausibile che si parlasse di lui. 

A quel punto, tramite il ministero della Salute e i server che gestiscono le prestazioni a livello nazionale, è stata fatta un’indagine sulle persone che si sono sottoposte a interventi e cure per quelle due patologie; dati acquisiti tutti da remoto, attraverso i controlli sui contenuti dei computer delle singole strutture, e procedendo con varie scremature si è arrivati a una dozzina di nomi da approfondire. Tra i quali, verifica dopo verifica, è emerso quello di un certo Andrea Bonafede, di un’età quasi corrispondente a quella di Messina Denaro, operato nel 2020 al colon in un’altra struttura siciliana e a maggio 2022 a La Maddalena.

  Indagando su quel nome, i carabinieri hanno scoperto che il giorno dell’operazione Bonafede non era in ospedale, bensì a casa sua. Sono state recuperate le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza sparse per le vie di Campobello di Mazara, che hanno immortalato quel signore a passeggio col suo cane, fumando il sigaro, mentre doveva trovarsi sotto i ferri. 

Di qui l’idea che dietro quell’identità potesse nascondersi il boss. Anche perché il lavoro delle Squadre mobili e del Servizio centrale operativo della polizia aveva trovato da quelle parti tracce fresche del latitante. E il vero Bonafede, seppure finora incensurato , è il nipote di Nardo Bonafede morto qualche anno fa ma già capo della famiglia mafiosa di Campobello, legatissimo a Francesco Messina Denaro, padre di Matteo. 

L’altro elemento che ha rafforzato le convinzioni di investigatori e inquirenti è stata una recente visita specialistica all’occhio sinistro, dello stesso paziente, monitorata sempre tramite i server del Servizio sanitario nazionale. Nuovi indizi incrociati con il lavoro dei carabinieri che — ricorda il generale Pasquale Angelosanto comandante del Ros — «non hanno smesso di lavorare nemmeno durante le feste di fine anno, trovando sempre aperte le porte della Procura». 

E in Procura il nuovo capo De Lucia, arrivato a ottobre, ricorda adesso che «Matteo Messina Denaro ha certamente goduto di protezione e appoggi arrivati anche da una fetta della cosiddetta borghesia mafiosa, che si dipana nel settore della sanità locale e non solo». C’è da capire, ad esempio, chi ha contribuito a fornire, nel Comune di Campobello, una carta d’identità intestata a Bonafede, con la foto del ricercato e un timbro che sembra autentico. O la patente di guida di recente emissione, sempre con quel nome e quella foto. Altri indizi arriveranno anche dal rifugio del boss, individuato ieri sera; una casa dove viveva con l’identità di Andrea Bonafede.

Palermo, il geometra Bonafede tradito da un tumore: "Sono Messina Denaro". E in caserma scrive: "I carabinieri mi hanno trattato bene". Salvo Palazzolo su L’Espresso il 17 Gennaio 2023.

Il superlatitante bloccato mentre era in coda all’accettazione di una clinica di Palermo. E dopo l’arresto ha voluto scrivere un biglietto: “I carabinieri mi hanno trattato bene”

Alle 8 del mattino, il mafioso più ricercato del mondo si è messo in fila allo sportello dell’accettazione della clinica Maddalena di Palermo, come tutti gli altri malati oncologici che il lunedì fanno la terapia. C’erano tre persone davanti a lui. Matteo Messina Denaro, l’uomo delle stragi del ‘92-‘93, il pupillo del capo dei capi Salvatore Riina morto nel 2017, ha atteso pazientemente il suo turno. Chi era impaziente gli stava invece attorno, ma questo il padrino di Castelvetrano ancora non lo sapeva. Non sospettava davvero che gli restava meno di un’ora di libertà. Nella hall della rinomata clinica palermitana, c’erano anche i carabinieri del Ros, che da venerdì erano in allerta, tenendo sotto controllo le visite mediche e le terapie di un misterioso signor Andrea Bonafede, geometra di Campobello di Mazara e nipote di un vecchio mafioso. Era davvero lui o qualcun altro ad essere malato di cancro?

La conferma arriva alle 8,20, quando viene il turno della primula rossa di Cosa nostra ricercata dal giugno 1993: «Sono il paziente Andrea Bonafede», dice all’addetto dell’accettazione. E non sfugge al maresciallo dei carabinieri che si finge paziente pure lui in fila. Fa un cenno ai suoi compagni, basta uno sguardo. Quell’uomo non è il geometra Bonafede.

“Via libera all’operazione”

Il colonnello Lucio Arcidiacono, il capo della squadra, manda un sms al procuratore capo Maurizio de Lucia, che è in attesa nella sua stanza al palazzo di giustizia con il procuratore aggiunto Paolo Guido. Un altro veloce sms è per i colleghi che stanno all’esterno della clinica, pronti ad entrare in azione. Ci sono i carabinieri del Gis, il gruppo di intervento speciale dell’Arma. Ma, all’improvviso, lo scenario cambia. Non si può ancora intervenire. Matteo Messina Denaro esce dalla clinica, probabilmente per prendere un caffè nel bar vicino. Questione di attimi. Appare ancora tranquillo, rilassato. «Attimi infiniti», dirà poi il colonnello Arcidiacono. Appena fuori dalla clinica, in via San Lorenzo, Matteo Messina Denaro si accorge dei carabinieri. E comincia a camminare velocemente verso la Fiat Brava con cui un favoreggiatore l’ha accompagnato (chissà da dove), rimasta parcheggiata in via Domenico Lo Faso. Qui, in una stradina dedicata a un archeologo del 1800, finisce la corsa del mafioso che voleva essere solo un incubo del passato.

Il colonnello Arcidiacono e i suoi ragazzi lo bloccano. «Lei è Matteo Messina Denaro?», dice l’ufficiale. «Lei lo sa chi sono io», risponde a tono il mafioso. Che suona come l’ennesima minaccia. I carabinieri lo bloccano, lui dice: «Mi chiamo Matteo Messina Denaro». Poco dopo arrestano anche l’ultimo autista del latitante, si chiama Giovanni Luppino, un commerciante incensurato di Campobello di Mazara. Questione di attimi, ma questa volta scanditi dagli applausi di tanti palermitani che in quel momento sono imbottigliati nel traffico. Capiscono subito vedendo quei carabinieri con tute mimetiche e passamontagna, altri sono in divisa, altri in borghese. I palermitani applaudono mentre il padrino e il suo complice vengono caricati su un furgone nero. E via verso il vecchio aeroporto militare di Boccadifalco, nel cuore di Palermo, dove c’è la centrale operativa della squadra.

Hangar “Alfa 11”

È in un hangar malandato rimesso a nuovo dai ragazzi del Ros (“Alfa 11” c’è scritto sul capannone) un pezzo importante di questa storia. L’altro pezzo è al secondo piano del palazzo di giustizia, dove si trovano gli uffici della procura della Repubblica. Carabinieri e magistrati si concentrano sulla pista della malattia del superlatitante tre mesi fa. In quei giorni, le microspie piazzate nelle abitazioni dei familiari di Messina Denaro fanno rimbalzare discorsi su «persone ammalate di tumore», e poi su «interventi chirurgici». Ma sono sempre discorsi riferiti ad altre persone. E, però, discorsi insistenti, con varie ricerche su Google. Sul morbo di Crohn, e poi sul tumore al fegato. I carabinieri annotano ogni parola con cura, cercano le connessioni fra tutti quei discorsi. E, alla fine, si decide di cominciare la più difficile delle indagini. «Come cercare un ago nel pagliaio», si dicono gli investigatori nelle lunghe discussioni. Ma è l’unica strada concreta. La malattia del padrino.

Tre mesi fa, Matteo Messina Denaro è ancora un fantasma. Nessuno dei suoi presunti favoreggiatori intercettati e pedinati da tempo fra Castelvetrano e Campobello dice nulla, o fa passi falsi. Solo i familiari continuano a parlare di malattie e di persone che si sono operate. E, allora, una mattina, il procuratore capo Maurizio de Lucia e l’aggiunto Paolo Guido autorizzano i militari del Ros guidati dal generale Pasquale Angelosanto ad acquisire tutti i dati sui malati oncologici nati nel 1962 in provincia di Trapani. Uno screening su dati provenienti dal ministero della Salute e dell’Economia. Arrivano tantissimi nomi.

Poi, il cerchio si stringe a dieci. Quindi a cinque. I ragazzi del Ros iniziano ad entrare nelle loro vite. Il punto è capire se sono davvero malati oncologici. I primi riscontri danno tutti esito «positivo». Solo un personaggio insospettisce, Andrea Bonafede, il nipote dello storico capomafia Leonardo, deceduto tre anni fa. Risulta avere fatto due interventi fra il 2020 e il 2021, ma qualcosa non torna, perché il giorno di un’operazione a Palermo il suo cellulare non è nel capoluogo, ma a Campobello.

La poesia della piccola Nadia

Quando arriva nell’hangar, Matteo Messina Denaro in manette si trova davanti un quadretto che non si aspettava. I ragazzi del Ros l’avevano messo lì da tempo, da quando era iniziata questa difficile indagine: è una poesia scritta dalla piccola Nadia Nencioni, una delle cinque vittime della strage di via dei Georgofili, avvenuta a Firenze il 27 maggio 1993. La strage per cui Messina Denaro è condannato all’ergastolo. Nadia aveva 9 anni. Qualche giorno prima della bomba, scrisse una poesia intitolata “Tramonto”. “Il pomeriggio se ne va/il tramonto si avvicina/un momento stupendo/Il sole sta andando via (a letto)/È già sera tutto è finito”. “Tramonto” era il nome in codice dell’operazione Messina Denaro. Adesso, il padrino appare frastornato. Gli fanno levare il giaccone di montone, ha una camicia elegante, tenuta sopra i pantaloni. Al polso, un orologio da 30 mila euro. All’improvviso, chiede un foglio di carta e una penna, scrive: «I carabinieri del Ros e del Gis mi hanno trattato con grande rispetto e umanità. Palermo, 16 gennaio 2023». Firmato: «Matteo Messina Denaro».

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 16 Gennaio 2023.

[…] E il blitz è scattato alle 8.20 di ieri mattina, nella clinica La Maddalena, quando i computer della struttura hanno registrato l'ingresso di Andrea Bonafede, nato a Campobello di Mazara il 23 ottobre 1963, arrivato per sottoporsi alla visita di controllo e al trattamento chemioterapico prenotato lo scorso giovedì. Il sospetto che dietro quel nome si celasse il ricercato numero 1 di Cosa nostra era maturato da qualche mese […] Ma la certezza poteva arrivare solo con il contatto diretto, e quindi la cattura.

Per questo, quando il computer ha confermato l'arrivo di Bonafede, il dispositivo predisposto dai carabinieri è entrato in azione in tutta la sua imponenza, con circa 150 militari.

 Gli specialisti del Gis […] hanno «sigillato» la clinica bloccando tutte le uscite […] il latitante s' è messo in fila per fare il tampone anti Covid […] ma dopo non è salito subito al piano dove doveva andare per il trattamento. Ha deciso di uscire fuori, forse per prendere un caffè […] in quel momento […] un ufficiale Ros gli si è avvicinato, notando la somiglianza con il volto invecchiato del boss ricostruito dai computer […]

[…] non ha nemmeno provato a mentire. «Lei è Messina Denaro?», gli ha chiesto il colonnello del Ros che l'ha avvicinato, e il boss ha risposto: «Lei lo sa chi sono», prima di ammettere: «Sono Matteo Messina Denaro».

 La caccia era finita […] il capomafia e il suo complice Luppino […] sono stati arrestati, caricati nella macchina con i vetri oscurati che li attendeva e portati in una caserma. Senza bisogno di mettergli le manette ai polsi. […] Ma come si è arrivati ad associare il capomafia malato con il nome di Andrea Bonafede, con un'indagine che - per come viene ricostruita - non contempla né «soffiate» né accordi sottobanco di cui immancabilmente già si vocifera?

Di indizi sulla malattia del ricercato numero 1 se ne sono accumulati tanti negli scorsi anni, ma alcune intercettazioni fra persone a lui vicine, negli ultimi tempi, hanno fornito qualche elemento in più: discorsi sul tumore al colon, oltre che sui tradizionali problemi agli occhi; e poi a un doppio problema oncologico, non solo il colon ma anche il fegato. Frasi e mezze frasi non riferite direttamente al boss, ma visto il contesto era plausibile che si parlasse di lui.

 A quel punto, tramite il ministero della Salute e i server che gestiscono le prestazioni a livello nazionale, è stata fatta un'indagine sulle persone che si sono sottoposte a interventi e cure per quelle due patologie; dati acquisiti tutti da remoto, attraverso i controlli sui contenuti dei computer delle singole strutture, e procedendo con varie scremature si è arrivati a una dozzina di nomi da approfondire. Tra i quali, verifica dopo verifica, è emerso quello di un certo Andrea Bonafede, di un'età quasi corrispondente a quella di Messina Denaro, operato nel 2020 al colon in un'altra struttura siciliana e a maggio 2022 a La Maddalena.

Indagando su quel nome, i carabinieri hanno scoperto che il giorno dell'operazione Bonafede non era in ospedale, bensì a casa sua. Sono state recuperate le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza sparse per le vie di Campobello di Mazara, che hanno immortalato quel signore a passeggio col suo cane, fumando il sigaro, mentre doveva trovarsi sotto i ferri. Di qui l'idea che dietro quell'identità potesse nascondersi il boss.

Anche perché il lavoro delle Squadre mobili e del Servizio centrale operativo della polizia aveva trovato da quelle parti tracce fresche del latitante. E il vero Bonafede, seppure finora incensurato , è il nipote di Nardo Bonafede morto qualche anno fa ma già capo della famiglia mafiosa di Campobello, legatissimo a Francesco Messina Denaro, padre di Matteo.

 L'altro elemento che ha rafforzato le convinzioni di investigatori e inquirenti è stata una recente visita specialistica all'occhio sinistro, dello stesso paziente, monitorata sempre tramite i server del Servizio sanitario nazionale. […] in Procura il nuovo capo De Lucia, arrivato a ottobre, ricorda adesso che «Matteo Messina Denaro ha certamente goduto di protezione e appoggi arrivati anche da una fetta della cosiddetta borghesia mafiosa, che si dipana nel settore della sanità locale e non solo».

C'è da capire, ad esempio, chi abbia contribuito a fornire, nel Comune di Campobello, una carta d'identità intestata a Bonafede, con la foto del ricercato e un timbro che sembra autentico. O la patente di guida di recente emissione, sempre con quel nome e quella foto. […]

Il Tumore.

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 20 marzo 2023.

Aveva già scritto il finale della sua storia in un pizzino segretissimo inviato alla sorella Rosetta: «Non morirò di tumore, appena non ce la faccio più mi ucciderò a casa e mi troverai tu. Ti dirò quando arriverà il momento».

Qualche mese prima dell’arresto, Matteo Messina Denaro progettava l’ultimo colpo di scena.

Dopo una vita trascorsa a dare la morte a decine di uomini, donne e bambini voleva essere lui a decidere il momento esatto della sua fine. Magari suicidandosi con quel revolver che teneva in casa, una Smith & Wesson calibro 38, l’arma di tanti omicidi. Estremo delirio di potenza.

 Di sicuro, con quel pizzino scritto a maggio dell’anno scorso annunciava alla sorella maggiore, arrestata nei giorni scorsi, che avrebbe dato istruzioni per svolgere il compito più delicato, l’ultimo: probabilmente, quello di far scomparire i suoi segreti

[…] che passano dai pizzini: i carabinieri del Ros ne hanno trovati quasi mille […] nel pizzino in cui comunicava le sue ultime volontà. Il 10 maggio 2022. «Ero tutto bagnato dal sudore — scriveva alla sorella — Diletta lavava i miei indumenti, li torceva ed uscivano gocce di acqua, era senza parole». Diletta era la vivandiera, Lorena Lanceri, anche lei oggi in carcere. Il boss aggiungeva: «Ho capito, anche se già lo sapevo, che ho una forza di volontà stupefacente, invidiabile, non cammino col fisico, cammino con la forza di volontà. Io mi fermerò appena morirò, non prima».

E, poi, di seguito il suo messaggio più forte: «Non morirò di tumore, appena non ce la faccio più mi ucciderò a casa». Adesso, quel pizzino è il motivo per cui Messina Denaro viene sorvegliato giorno e notte all’interno del carcere dell’Aquila. Al momento, risponde bene alle cure e le sue condizioni appaiono buone.

Da ansa.it il 7 marzo 2023.

Il 18 maggio 2022 è una data importante nell'ultimo periodo della latitanza del boss Matteo Messina Denaro. “Adenocarcinoma Mucinoso. Devastante dopo il 18 maggio. Senza forza", scrive la sorella Rosalia, arrestata venerdì per mafia, in una sorta di diario clinico del fratello, nascosto e trovato poi dal Ros nell'incavo di una sedia e destinato sicuramente a un medico specialista al quale la donna avrebbe dovuto chiedere una consulenza.

Gli inquirenti deducono che nel maggio scorso le condizioni di salute del capomafia, affetto e già operato per un cancro, fossero precipitate. Che quella sia una giornata significativa nella vicenda si evince anche dal comportamento di Rosalia Messina Denaro che in quel periodo era tenuta sotto osservazione dai carabinieri. I militari notano comportamenti anomali della donna in evidente attesa di qualcosa. Notizie del fratello che qualcuno avrebbe dovuto farle avere, sospettano i pm, nella casa di campagna di contrada Strasatti.

 "Per tutta la sua permanenza all'interno della proprietà, ove si tratteneva sino alle successive ore 13:16 (quindi circa 2 ore e mezza rispetto ai soliti 5/10 minuti), la donna appariva visibilmente turbata e si spostava ripetutamente in maniera nervosa tra l'interno dell'abitazione ed il piazzale antistante; in alcune circostanze ella si sedeva sugli scalini esterni e in altre si poneva con le spalle al muro, visibilmente pensierosa", scrivono gli investigatori nell'informativa riportata nella misura cautelare disposta a carico della Messina Denaro.

"E' stato al tempo ipotizzato - spiegano - che l'indagata, essendosi chiusa alle spalle il cancello d'ingresso alla proprietà e facendo quindi intendere che non ci fosse nessuno all'interno, potesse essere in attesa di una qualche comunicazione riservata che riguardava proprio Matteo Messina Denaro, ipotesi questa che, messa anche in relazione al particolare ed evidente stato di apprensione mostrato dalla donna in quel periodo, può dirsi riscontrata alla luce di quanto accertato nell'ultima fase delle investigazioni".

Rosalia Messina Denaro, dunque, attendeva con ansia notizie. Aspettava qualcuno che la informasse sulla salute del fratello? E chi? Una scena che si ripete il giorno successivo quando alle 9:50 la donna raggiunge la casa di campagna partendo da Castelvetrano.

 E' evidente che ci sia grande allarme e che qualcuno avrebbe dovuto dare notizie alla sorella del boss, istruita ad attendere e eventualmente a tornare il giorno dopo e aspettare ancora il suo tramite con il capomafia.

Estratto dell'articolo da ilmessaggero.it il 7 marzo 2023.

 Avrebbe avuto un leggero malore, il boss Matteo Messina Denaro, martedì scorso quando è stato per qualche ora ricoverato presso l’ospedale San Salvatore dell’Aquila per essere sottoposto a degli accertamenti clinici non eseguibili in carcere.

Messina Denaro, il malore in carcere

Il problema s’è verificato al momento di fare una Tac [...] Durante l’esame diagnostico con liquido a contrasto, il boss avrebbe avuto una reazione allergica. La somministrazione di un antistaminico, secondo quanto è stato possibile ricostruire, ha però in breve tempo consentito di superare il malore.

Gli accertamenti

Martedì scorso, per la prima volta (tanti sarebbero stati i falsi allarmi) nel primo pomeriggio, Messina Denaro ha lasciato il supercarcere dell’Aquila per raggiungere, in ambulanza e sotto massiccia scorta, il non lontano ospedale del capoluogo abruzzese per degli accertamenti legati alla sua patologia, un tumore. [...]

Le condizioni di salute di Matteo Messina Denaro riguardano tutti, ecco perché. Marco Beltrandi su Il Riformista il 27 Gennaio 2023

Nelle liberal-democrazie, meglio, in tante di esse, si condanna la pena di morte. Sono tante le ragioni: relative al Diritto e ai Diritti, al rispetto della vita umana, alla certezza di una pena che non può essere una condanna senza fine, possibilità di ravvedimento, di crescita, persino di espiazione, di una “nuova vita”. Anche in caso di colpevolezza, in cui il giudicato rifletta una verità storica. Perché sappiamo, sull’esempio di uno dei Paesi più trasparenti, gli USA, che ancora la applicano in alcuni Stati, quante persone giustiziate sarebbero state negli anni scagionate, se ancora in vita.

È difficile pensare che Matteo Messina Denaro possa essere considerato “vittima” di un cumulo di errori giudiziari, vista la mole di sentenze definitive e di delitti che ha determinato o a cui ha collaborato secondo le autorità competenti. Ma proprio questo rende la sorte di Messina Denaro della massima importanza per ciascun di noi. Soprattutto per due ragioni. La prima: se persino uno dei “Caini” per eccellenza vedesse i propri diritti e la propria vita rispettati, allora lo sarebbero anche quelli di tutte le persone detenute. E, quindi, per questa via, avremo maggiori garanzie anche per i diritti, le vite e la sicurezza di tutta la società, anche quella non ristretta in istituzioni totalitarie. Ma l’altra ragione è forse ancora più importante. Messina Denaro non può non sapere tante cose forse neppure immaginate dalla pubblica opinione, su fatti del nostro Paese e forse non solo. È sicuramente stato testimone di fatti importanti. Conosce complicità. Conosce colpevoli, ma pure innocenti. Potrebbe fare luce su tanti accadimenti.

Ma noi già sappiamo che con ogni probabilità Messina Denaro finirà sepolto nei meandri più inaccessibili del 41 bis; quindi, per lui nessuna possibilità di riabilitazione sarà possibile, anche a prescindere dall’eventuale alea dell’ergastolo ostativo che purtroppo il Governo non ha abolito per reati di mafia e terrorismo malgrado la pronuncia della Consulta del 15 aprile 2021 che valeva, e non poteva essere diversamente, per tutti i reati. Sarà sottoposto a un regime carcerario duro e afflittivo dove subirà una accelerazione del decorso delle sue gravi patologie. Perché questo comporta il 41 bis. Già per i detenuti “comuni” le cure mediche e psicologiche sono un miraggio sovente lontano. E abbiamo anche il drammatico precedente di Bernardo Provenzano, tenuto in 41 bis invalido e di fatto incapace di intendere e volere, fino alla morte. Una pena disumana. Non giustizia, ma l’opposto: vendetta pura e semplice. O il silenziamento di un possibile testimone di eventi scomodi o compromettenti.

Come accadde, per fare un esempio, a Saddam Hussein che fu catturato, processato e giustiziato a gran velocità alla fine del 2006. Marco Pannella tentò di salvarlo – e con lui il “diritto alla conoscenza” – con la campagna “Nessuno tocchi Saddam” e uno sciopero della sete drammatico che lo portò alla soglia della dialisi. E lo fece perché aveva un valore per i “Caini ignoti”, per qualsiasi altro detenuto e per qualsiasi altro cittadino. Persino per la nostra sicurezza, per e grazie al “diritto a conoscere”. Le condizioni di salute, di cura e di detenzione di Matteo Messina Denaro diventeranno emblematiche, e potrebbero suscitare una vera presa di coscienza della realtà del carcere, del suo significato costituzionale tradito, del diritto alla dignità, alla salute, e al reinserimento di tutte le persone detenute. E anche la conoscenza della giustizia in Italia, delle tante sue necessità di riforme strutturali. Proprio negli scorsi giorni il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha illustrato in Parlamento un ambizioso piano di riforme, ma per realizzarle serve una opinione pubblica informata.

Questo richiederebbe che si potesse dibattere sui media principali dei problemi di giustizia, carceri, e delle pene, così come delle proposte e soluzioni radicali di riforma. Cosa da sempre negata, vietata. Anche e soprattutto sulle reti del servizio pubblico radiotelevisivo esercitato in condizioni di monopolio dalla RAI. Una RAI che resiste persino alla condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 31 agosto 2021 nei confronti dello Stato italiano per tanti anni di informazione non completa, legale e pluralista nei talk show. Per riformare una qualsiasi cosa serve che tutti coloro che possono portare contributi possano far conoscere le loro opinioni e proposte alla pubblica opinione. Mentre, anche in occasione dell’arresto di Messina Denaro, abbiamo unicamente la sfilata televisiva di chi è per mantenere lo stato attuale inaccettabile delle cose, leggi d’emergenza e regimi speciali. Hanno spazio solo, direbbe Sciascia, i “professionisti dell’antimafia”, magistrati e opinionisti giustizialisti. I garantisti, o meglio i riformatori, mai. Marco Beltrandi

"Un errore aver diffuso il nome del medico che lo cura". Quanto resta da vivere a Messina Denaro? Il prof. Corcione: “Ipotesi fantasiose, dovrà uscire dal carcere ogni tre mesi per i controlli”. Francesca Sabella su Il Riformista il 23 Gennaio 2023

Resta avvolta nel mistero la nuova vita dell’ex latitante Matteo Messina Denaro. Il padrino di Cosa Nostra parlerà? Squarcerà il velo di Maya sulle stragi mafiose? Farà i nomi dei suoi fiancheggiatori? Ma soprattutto, ha un tumore al colon, un tumore che ha già prodotto metastasi. Quanto gli resta ancora da vivere? Ne abbiamo parlato con il professor Franco Corcione, chirurgo generale, presidente emerito della Società italiana di Chirurgia e componente onorario dell’Accademia nazionale di Chirurgia di Parigi.

Professore, dalle indagini che hanno portato alla sua cattura proprio mentre si recava in una clinica privata, è emerso che il boss Matteo Messina Denaro ha un tumore al colon. Quanto è aggressivo questo tipo di cancro?

“Il tumore del colon, come un po’ tutti i tumori viscerali, è un tumore che ha una sua evoluzione relativamente allo stadio in cui si diagnostica, alla istologia se è più o meno aggressiva. Ci sono vari stadi di aggressività del tumore e soprattutto dipende molto dall’ospite cioè dal paziente, dal suo assetto immunitario e da eventuali patologie concomitanti. Quindi ci sono variabili importanti da considerare e che non ci permettono di dire: il tumore al colon è molto maligno o poco maligno. Vanno esaminati i fattori elencati poco fa con dati precisi, direi quasi matematici”.

Nel caso di Messina Denaro, pare che abbia sviluppato metastasi al fegato, avrebbe già subito due interventi chirurgici e sarebbe al terzo ciclo di chemioterapia. Questi indizi fanno pensare a un tumore in fase già avanzata e molto aggressivo?

“Sì. Questo sicuramente. È chiaro che più il tumore è aggressivo, più viene scoperto in fase avanzata e meno possibilità abbiamo di portare il paziente a guarigione. Non è escluso, però, che anche un paziente con metastasi epatiche possa rispondere bene alle terapie e portare anche a un successo terapeutico, che non significa guarigione ma permettere al paziente di vivere anche diversi anni”.

E arriviamo alla domanda che tutti si stanno ponendo, già decine le ipotesi formulate in questi giorni: quanto resta ancora da vivere al padrino di Cosa Nostra?

“Nessuno può dirlo. È impossibile stabilire quanto ancora vivrà Matteo Messina Denaro. Posso dire che l’ho visto camminare sulle sue gambe ed è quindi veramente impossibile stabilire quanto gli resta da vivere. Fosse stato costretto su una sedia, avrei potuto azzardare e rispondere: qualche mese. Ma è un paziente che ha la sua autonomia e quindi potrebbe rispondere ai cicli di chemioterapia. Fare previsioni del tempo è improponibile”.

Professore, quindi quando dicono: pochi mesi di vita, massimo un anno. Sono ipotesi fantasiose?

“Sì. Io se avessi tra le mani tutte le carte sulla salute di Matteo Messina Denaro, vedendo da dove si è partiti con il tumore, vedendo gli interventi che ha subito e le chemio che ha fatto non potrei fare previsioni. Un paziente può avere un crollo in pochissimo tempo o al contrario potrebbe rispondere bene alle terapie pur avendo un tumore in fase avanzata. Nessuno può dire oggi quanto gli resta da vivere”.

Da subito è stato detto che le condizioni di salute del boss sono assolutamente compatibili con il carcere. Da medico, può confermarlo?

“È chiaro che un ospedale con attrezzature super moderne sarebbe da preferire al carcere. Ho visto che si sono già attivati per poter far continuare al paziente la chemio all’interno del penitenziario dove è detenuto. Organizzare la terapia in carcere è sicuramente difficoltoso, ma ho visto che hanno già assicurato le cure a Messina Denaro. La cosa, però, più importante in questi casi sono i controlli che andrebbero effettuati ogni tre mesi e assolutamente in ospedale dove ci sono tac, pet e tutte le attrezzature per fare gli esami del caso. Dovrà uscire frequentemente per assicurargli una diagnostica che purtroppo ogni tre mesi va assicurata al paziente”.

Da subito gli organi di stampa hanno diffuso il nome del medico che curerà in carcere Messina Denaro. La smania di rivelare dettagli anche inutili per l’opinione pubblica ha violato la privacy del medico?

“Sì, sono d’accordo con questo ragionamento. Esiste la privacy del paziente, ovviamente, ma esiste anche la privacy del medico. Non doveva essere diffuso il nome del medico che giustamente cura un paziente e lo tratta come gli altri, ma che sicuramente è stato esposto a dei rischi. Non so perché la stampa abbia diffuso il suo nome e cognome”.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Il Profeta.

Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 7 febbraio 2023.

«Noo, Baiardo non sapeva niente. Non poteva sapere che avevo un tumore. Per la semplice ragione che a casa mia che ero malato lo sapevano in cinque. Giusto cinque o sei. Come faceva a saperlo Baiardo? Ha tirato a indovinare».

 Matteo Messina Denaro alla fine, nella sua cella singola del carcere dell’Aquila, ha acceso la tv. E ha cominciato a guardare tg e trasmissioni che parlano di lui.

Come Non è l’Arena di La7 dove Salvatore Baiardo, fedelissimo dei fratelli Graviano, ha ricordato più volte che a novembre aveva parlato della malattia del boss, azzardando che si sarebbe consegnato.

Così il capomafia trapanese, ieri, nel giorno in cui ha ripreso il ciclo di chemioterapia, ha commentato le rivelazioni di Baiardo

 […] Nella stanzetta di fronte alla sua cella […] Non ha citato la trasmissione di La7, ma i tg che ne davano notizia.

«Stupidaggini», ha detto. Smentendo con un’alzata di spalle, la coincidenza di quell’arresto annunciato. […]

L’indiscrezione è di rilievo, perché in questo caso è proprio Matteo Messina Denaro a sgomberare il campo dalle tesi complottiste di chi parla di un’inchiesta farlocca e di un arresto-messinscena.

 Volti a coprire il boss che in realtà si sarebbe consegnato, o sarebbe stato venduto, nell’ambito di una trattativa oscura fatta intuire da Baiardo a novembre. A credere al boss, il tuttofare avrebbe bluffato, «tirando a indovinare». C’è da credergli? Di sicuro colpisce una cosa.

Le parole di Messina Denaro confermano quanto hanno raccontato gli stessi inquirenti dopo l’arresto del killer. Specificando che quella cattura non era dovuta alla soffiata di collaboratori di giustizia o confidenti. Ma era stata condotta dai carabinieri del Ros grazie a intercettazioni, delle quali è stata per altro rivendicata l’importanza a evitare qualsiasi ipotesi di modifica della norma.

[…]

Da corrieredellumbria.corr.it il 30 gennaio 2023.

A Non è l'arena, nella puntata di domenica 29 gennaio, spazio ancora alle dichiarazioni recenti di Salvatore Baiardo, colui che profetizzò la malattia e il conseguente arresto di Matteo Messina Denaro. In particolare va in onda un’intervista a Luigi Li Gotti, ex avvocato di Giovanni Brusca, Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo: “Sulle dichiarazioni di Baiardo dello scorso novembre dico che non mi è parsa una profezia, ma una conoscenza. […]

 La lettura potrebbe essere quella che c’era bisogno, attesa l’estrema difficoltà o impossibilità di una comunicazione diretta con Messina Denaro, di uno strumento diverso, anche televisivo, per comunicare a Messina Denaro che il cerchio si stava stringendo”.

“Baiardo a nome di chi parla?” la domanda rivolta al legale, che risponde senza esitazioni: “Dei Graviano. Non ci sono dubbi. Non so da chi lo avevano appreso dell’arresto, da qualche vertice importante che è stato sempre un fiancheggiatore sì. Il mezzo televisivo è stato lo strumento per comunicare qualcosa. Messina Denaro - sottolinea Li Gotti - potrebbe avere non colto pienamente questo segnale, averlo sottovalutato, oppure si potrebbe essere verificata in lui una sorta di resa interiore. La grave malattia lo avrebbe reso fatalista, debole”.

 […]

 Estratto dell’articolo da open.online.it il 30 gennaio 2023.

L’aveva già dichiarato all’Adnkronos, definendo l’arresto di Matteo Messina Denaro come «una messa in scena – perché – quando arrestano un boss c’è tutto un altro clima. Armi alla mano, confusione». Il pentito Gaspare Mutolo è tornato a ribadirlo la sera del 29 gennaio, ospite in studio a Non è l’arena. «Mi è sembrato più un appuntamento, non c’era la concitazione vista in altri arresti di grandi boss».

L’ex autista di Totò Riina, oggi collaboratore di giustizia e pittore italiano, ha detto a Massimo Giletti di auspicare che la cattura di Messina Denaro «segni l’inizio della fine di Cosa nostra».

 «[…]La mafia sono i contatti che hanno i politici con i mafiosi». Giletti ha anche chiesto al pentito di raccontare degli interrogatori a cui Paolo Borsellino lo sottoponeva. Mutolo ha ricordato: «Avevo visto il dottor Borsellino il giorno prima di morire. C’era un clima allora… Scriveva i contatti tra mafia e istituzioni sull’agenda rossa, perché non aveva fiducia e non voleva verbalizzare tutto».

Estratto dell’articolo di Marco Lillo e Valeria Pacelli per Il Fatto Quotidiano il 26 gennaio 2023.

Salvatore Baiardo e le sue profezie non interessano solo i telespettatori.

La Procura di Palermo e quella di Firenze hanno disposto l’acquisizione dell’intervista di Massimo Giletti nella quale l’amico (ed ex favoreggiatore) di Giuseppe Graviano nei primi anni ’90 sosteneva nell’autunno scorso che Matteo Messina Denaro era molto malato e si sarebbe fatto arrestare per fare un ‘regalino’ al Governo Meloni. Il ‘regalino’ in realtà non era gratis.

 Sempre secondo la lettura di Baiardo, infatti, all’arresto clamoroso sarebbe poi seguita una riforma desiderata dai boss: l’abolizione dell’ergastolo ostativo che impedisce ai mafiosi ergastolani non ‘pentiti’ di uscire dal carcere. Quell’intervista è suonata profetica il 16 gennaio. Dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro il video è stato visto in una settimana da 5 milioni e mezzo di persone sul web. Da allora Baiardo è diventato una star.

Probabilmente lo vedremo ancora alla trasmissione di Massimo Giletti a discutere, con i magistrati in studio, della sua intervista. E anche i pm di Firenze e Palermo probabilmente lo sentiranno nei prossimi giorni. Pure il conduttore Massimo Giletti potrebbe essere ascoltato a sommarie informazioni. C’è un passaggio dell’intervista che ha attirato l’attenzione degli investigatori.

 Alla domanda insistente di Giletti su chi fosse la fonte delle notizie, Baiardo ha risposto che la dritta veniva da “un ambito palermitano ma non dai fratelli Graviano” e ha aggiunto che “a Palermo non ci sono solo i Graviano”. A quel punto Giletti ha buttato lì una riflessione non banale. Il conduttore tv, che ha trascorso molte ore con Baiardo a fine ottobre in Sicilia, e prima, in occasione della precedente intervista sul lago d’Orta, ha detto “A Palermo c’è Guttadauro per esempio del quale si parla molto” e Baiardo ha replicato “ci sono altre persone”, senza confermare né chiarire (né smentire) se quel cognome c’entrasse.

(…)

Baiardo, l’uomo che ha predetto l’arresto di Denaro voleva un posto di lavoro da Berlusconi. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 26 gennaio 2023.

L’annuncio che ha rischiato di far saltare l’arresto di Matteo Messina Denaro, i messaggi in codice di cui si è fatto interprete, i destinatari politici di queste frasi pronunciate in un’intervista televisiva. I verbali e le dichiarazioni sulla famiglia Berlusconi, ancora inedite che Domani è in grado di rivelare.

Chi è davvero Salvatore Baiardo? È «il portavoce dei boss Graviano», come lo ha definito un importante magistrato? Parla per mandare messaggi a Silvio Berlusconi, come ha detto un’autorevole fonte investigativa? Oppure è anche altro?

Strana parabola dell’uomo dei potenti Graviano, da testimone di incontri negli anni ‘90 tra i boss e il braccio destro del futuro presidente del consiglio Berlusconi a questuante dal fratello del Cavaliere fino all’ultimo miracoloso presagio.

L’arresto di Messina Denaro e il messaggio a Berlusconi. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 25 gennaio 2023.

Nel curriculum di Baiardo troviamo ruoli certificati da sentenze e altri avvolti ancora oggi dal mistero. Di certo è stato un fiancheggiatore dei fratelli Graviano, padrini stragisti di Palermo delle bombe del 1992 e del 1993.

Baiardo ha trasformato l’arresto di Matteo Messina Denaro in un momento per inviare messaggi in codice oppure è stato solo un colpo di fortuna? Fatto sta che oggi lo presentano come «l’uomo che ha predetto l’arresto di Messina Denaro».

«L’atteggiamento di Baiardo era talmente ondivago, che non era considerabile da un punto di vista dell'affidabilità», ha detto Francesco Messina, capo della Direzione centrale anticrimine.

Da open.online il 25 Gennaio 2023.

Chi è davvero Salvatore Baiardo? E cosa vuole ottenere? Subito dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro ha cominciato a circolare l’intervento a “Non è l’Arena” dell’ex tuttofare dei fratelli Graviano condannato per calunnia, falso e favoreggiamento. Successivamente, in un altro intervento nella trasmissione di Giletti, Baiardo ha detto che l’ultimo dei Corleonesi sta per morire e che il conduttore di La7, facendolo parlare, «sta rischiando molto». Eppure sono molti i dubbi sulla bontà delle sue dichiarazioni. E soprattutto sul suo vero obiettivo. L’ex magistrato e senatore del Movimento 5 Stelle Roberto Scarpinato ha detto che è il portavoce della mafia: «Parla in tv e annuncia che Matteo Messina Denaro verrà arrestato. E nonostante questo lui resta dov’era. C’è qualcosa che non va».

Il lodo Graviano

Un altro ex giudice oggi sul Fatto Quotidiano è ancora più specifico. Giancarlo Caselli nota che Baiardo parla in maniera stranamente minimizzatrice dei delitti di Filippo e Giuseppe Graviano. La sua tesi per i due all’ergastolo per vari delitti di mafia è che siano «dei bravi ragazzi che da giovani magari hanno fatto delle fesserie. Ma poi volevano cambiare vita trasferendosi al Nord. Tanto è vero che nel 1994 sono stati arrestati a Milano». Ma questo, ricorda l’ex magistrato, contrasta con tutte le ricostruzioni sugli anni della guerra di Cosa Nostra allo Stato. Gaspare Spatuzza, già killer di Brancaccio e collaboratore di giustizia, ricorda di aver incontrato Graviano latitante nel bar Doney a Roma pochi giorni prima dell’attentato dello stadio Olimpico. All’epoca Graviano disse a Spatuzza che era necessario compiere l’attentato contro i carabinieri allo stadio perché si doveva dare “il colpo di grazia”. E “aveva un’aria gioiosa”. Perché disse «che avevamo ottenuto tutto quel che cercavamo grazie a delle persone serie che avevano portato avanti la cosa», per cui «c’eravamo messi il paese nelle mani».

 La carriera di un gelataio

Nella sua ultima apparizione tv Baiardo ha anche raccontato di aver visto nel 1992 o nel 1993 una copia dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. E ha detto di voler querelare chi lo ha chiamato “pentito“. Perché evidentemente considera diffamatoria l’etichetta. Anche se è stato grazie al pentitismo che lo Stato italiano ha colpito in più occasioni i capi della mafia.

 Ed è riuscito a conoscerne metodi, ramificazioni, affari e omicidi. Lirio Abbate su Repubblica aggiunge che Baiardo è anche cugino di Cesare Lupo, prestanome dei boss palermitani. Ed è sempre stato dalla parte dei fedelissimi di Totò Riina. Tanto che, per coprirli, ha reso ai giudici dichiarazioni false o reticenti. Mentre la sua attività in tv, secondo il giornalista d’inchiesta, sembra essere una partita da giocare in favore proprio dei Graviano. A dicembre Filippo ha visto respingersi la richiesta di lasciare il 41-bis.

Baiardo e Ciancimino

Mentre “Madre Natura” (lo pseudonimo che si è scelto Giuseppe) conosce da sempre il modo di dispensare silenzi e mezze verità. Di Baiardo ha detto in carcere che è soltanto un gelataio che però aveva investito i frutti di una grande vincita ad Omegna. Ma anche che il vizio del gioco lo stava rovinando e che per questo il suo matrimonio era in crisi. Tanto che lui stesso, amico premuroso, ha deciso ai tempi di trasferirsi vicino a lui per tenerlo d’occhio.

 Alla fine Abbate paragona Baiardo alla figura di Massimo Ciancimino. Il figlio dell’ex sindaco di Palermo raccontava mescolanze di cose vere e false ai magistrati. E alla fine è finito in carcere per calunnia. Ma Riina odiava Ciancimino: «Se io sono il capo della mafia, lui queste rivelazioni le sta facendo per soldi», diceva. I Graviano invece non avranno certo molto da ridire su quel che dice Baiardo di loro. Quei bravi ragazzi.

Messina Denaro, Facci smonta Baiardo: "Chiacchiere senza fondamento". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 24 gennaio 2023

Ci sono ottime ragioni per credere che Salvatore Baiardo sia un discreto cialtrone, e che la sua «profezia» sull’arresto di Matteo Messina Denaro sia una cialtronata tra le tante che ha sparato per anni: con la differenza che, questa, l’ha vagamente azzeccata, che è l’unica e determinante ragione per cui questo gelataio di Omegna, originario di Palermo, sta ottenendo più spazio dei servitori dello Stato che si sono rotti la schiena per la cattura del latitante. 

Seminiamo qualche indizio. Anzitutto non è un caso che la «profezia» sia accreditata soprattutto da quell’Antimafia che in tutti questi anni è rimasta a guardare e che si limitata imbastire giganteschi processi di archeologia giudiziaria sfociati nel nulla: basti dire che in un libro scritto da due portavoce di questa Antimafia (Marco Travaglio e Saverio Lodato, Intoccabili, datato 2005) Baiardo non viene neppure nominato, e lo stesso Messina Denaro viene citato di sfuggita senza neppure specificare che era latitante; oggi Travaglio scrive quello che scrive, e tra i dietrologi più accreditati ci sono l’ex pm Nino Di Matteo (che ha fallito i primi processi Borsellino e il procedimento sulla «trattativa») e l’ex procuratore Roberto Scarpinato (autore dei processi mafiologici più fantasiosi degli scorsi decenni) che peraltro ora è senatore dei Cinque Stelle; l’ex comunista Saverio Lodato, invece, scrive per Antimafia Duemila fondata da Giorgio Bongiovanni, sodale di Salvatore Borsellino (fratello attivista di Paolo) il quale Bongiovanni, tempo addietro, sostenne di avere le stimmate – non stiamo scherzando - e di essere la reincarnazione di uno dei bambini veggenti di Fatima; la Vergine Maria – scrisse e raccontò - gli affidò la missione di diffondere il Terzo segreto e di rivelare la verità sugli alieni; Bongiovanni fu il primo a rivelare il presuntissimo mistero dell’agenda rossa di Paolo Borsellino (una sciocchezza di cui ha parlato anche Salvatore Baiardo) ma prima fondò la rivista ufologica Terzo millennio e solo successivamente Antimafia 2000, in cui contenuti, parole sue, «iniziavano a vertere nella stessa direzione». Saverio Lodato e il procuratore Nino di Matteo, infine, hanno scritto un libro assieme titolato Il patto sporco e il silenzio. La Trattativa Stato-mafia.

SOLO FANFALUCHE -Ma torniamo a Baiardo. La sua affidabilità, anzitutto, è quella di un mafiosetto di terza categoria (tuttofare dei fratelli Graviano) che ha scontato solo quattro anni per favoreggiamento e riciclaggio anche perché è diventato collaboratore di Giustizia. Con quali risultati? Vediamo. Iniziò a parlare con i magistrati fiorentini (estate 1994) delle segrete motivazioni mafiose che a suo dire avrebbero riguardato le stragi del 1993, ma non ci furono riscontri. Poi, durante un’udienza del processo «’Ndrangheta stragista», il dirigente di Polizia Francesco Messina mise a verbale: «Baiardo disse di avere genericamente notizie per ricostruire la latitanza dei Graviano, ci parlò dei loro contatti, ma ci disse di avere paura e non si fece nulla». Poi accennò sempre genericamente a rapporti tra Forza Italia e Cosa Nostra, ma le sue dichiarazioni non finirono in nessun’inchiesta perché Baiardo chiese di mantenere l’anonimato e non confermò le sue dichiarazioni: «Era difficile trovare una logica nel comportamento di Baiardo, non c’è mai stata una grande collaborazione, abbiamo anche avuto il dubbio», disse il poliziotto al giudice, «che il suo comportamento fosse etero diretto».

 DUBBI - Dubbi di allora come di oggi. Nella trasmissione Non è l’Arena (La7) del 5 novembre scorso, quella della «profezia», Baiardo ha parlato anche di altre piste sempre rivelatesi infondate: una riguarda la fattualmente inesistente agenda rossa del giudice Paolo Borsellino (mai ritrovata) della quale ha detto: «Ho visto dei fogli che la riproducevano». Già in passato aveva sparato che ne esistessero diverse copie e aveva cercato di rivendere la patacca anche a Report (Raitre, 4 gennaio 2021) quando disse che «ci fu un grosso incontro a Orta per quell’agenda»; sempre a Report ripetè le cose già dette sui rapporti fra Silvio Berlusconi e la mafia (indimostrati) ma aggiunse una rivelazione su una vacanza dei Graviano in Sardegna vicino alla villa di Berlusconi; disse pure che furono i fratelli Graviano ad aprirgli la gelateria.

QUESTIONE DI STATISTICA - Nella trasmissione di Massimo Giletti (La7, 5 novembre scorso) ha aggiunto che il giorno della strage che uccise Paolo Borsellino (19 luglio 1992) Giuseppe Graviano era con lui in gelateria, in Piemonte: nei fatti diede un alibi a un suo mafioso di riferimento, tanto che nella stessa trasmissione i due fratelli di Brancaccio li ha definiti «ragazzi che in carcere hanno fatto un percorso» e che si erano trasferiti al Nord per «tirarsi fuori, staccando la spina a Palermo». Il forte sospetto, insomma, è che a Baiardo stia riuscendo coi giornalisti quello che a suo tempo non gli era riuscito coi Carabinieri, quando disse di essere pronto a collaborare in cambio di soldi e fornendo però informazioni che sono state definite «del tutto inattendibili». Poi, da Giletti - azzeccandola quasi in base alle leggi della statistica – ha sparato la millesima: «Come una vecchia trattativa, come è stata fatta nel ’93... magari servirà ancora... come infatti non è che lo Stato lo stia prendendo... presumo che sia una resa sua». Nessun governo ha abolito il 41bis o l’ergastolo ostativo, come Cosa Nostra si dice che avrebbe preteso in cambio di Messina Denaro: ma fa niente, i pentiti di mafia – anche di terza categoria, come Baiardo - finiscono sempre per andare incontro alle domande degli interrogandi: siano essi magistrati o giornalisti. E spesso lo fanno per soldi. 

Salvatore Baiardo. (ANSA il 23 gennaio 2023) - "Il passaggio di mano dell'agenda rossa l'ho visto nel '92-93 Ho visto dei fogli che la riproducevano. Io dico che Graviano non era lì come dicono i pentiti a proposito dell'omicidio di Borsellino. Graviano ha 12 ergastoli, non devo difenderlo per fargliene togliere uno". Così Salvatore Baiardo stasera a Non è l'Arena. E rivolto al conduttore Massimo Giletti: "Lei sta rischiando parecchio, a 360 gradi, fa del buon giornalismo ma sta rischiando, e non solo a livello di mafia".

(ANSA il 23 gennaio 2023) - Le notizie su Messina Denaro di cui parlò a novembre 2022 durante lo speciale di Non è l'Arena, mi arrivarono "da un ambito palermitano ma non dai fratelli Graviano, sono 30 anni che non li vedo e sento. Sono 1022 le persone che hanno l'ergastolo ostativo" la cattura di Denaro "non può far comodo solo ai Graviano. I Graviano hanno staccato la spina da Palermo". Così Salvatore Baiardo stasera a La7. 

 (ANSA il 23 gennaio 2023) - Non sono stati i Graviano a dire a Salvatore Baiardo nel novembre 2022 che sarebbe stato arrestato Matteo Messina Denaro. Lo ha stesso lo stesso Baiardo su La 7 alla trasmissione condotta da Massimo Giletti. "Queste persone si sono trasferite nel febbraio '92 al nord - ha detto Baiano - se dovevo continuare a delinquere rimanevano in Sicilia, nella loro Brancaccio. Come facevano a dirmelo i Graviano se si volevano tirare via da un certo ambiente? Non sto dicendo che sono dei santerellini. Dico: non ci sono solo i Graviano". "Lei è coraggioso nell'affrontare questo tema, ne deve andare fiero, tanti la stanno abbandonando. Il coraggio non le manca", ha detto Baiardi a Giletti.

(ANSA il 23 gennaio 2023) - "Matteo Messina Denaro non ne ha per molto". Lo dice Salvatore Baiardo a Non è l'Arena su La7. "Penso non ne abbia per molto, altrimenti non succedeva quanto è successo, almeno questo presumo".

 Alla domanda su chi sia stata la fonte della sua profezia nel novembre 2022 a Giletti, Baiardo ha risposto: "Non posso dirlo in televisione". "Sappiamo bene - ha proseguito - che non è tutto finito, è finito con l'arresto di Denaro quel tipo di epoca. Stiamo dando troppa credibilità ai pentiti. Trovatemi un pentito che si sia pentito da uomo libero, tutti si sono pentiti per non fare galera. Non sono un pentito non l'ho mai fatto. Ho fatto 12 querele contro chi mi chiama pentito", ha concluso Boiardo.

Estratto da leggo.it il 16 gennaio 2023.

Matteo Messina Denaro è stato arrestato dopo 30 anni di latitanza. […] Un epilogo che pochi mesi fa era stato anticipato da Salvatore Baiardo, il gelataio piemontese, oggi 65enne, che per anni ha coperto la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.

 Salvatore Baiardo aveva parlato di Matteo Messina Denaro lo scorso novembre, intervistato nel corso della trasmissione "Non è l'arena" su La7. «Chissà che al nuovo governo non arrivi un regalino... che un Matteo Messina Denaro, che presumiamo sia molto malato, faccia una trattativa lui stesso di consegnarsi per un arresto clamoroso? Così arrestando lui, possa uscire qualcuno che ha ergastolo ostativo senza che si faccia troppo clamore?», aveva detto. «Tutto potrebbe già essere programmato da tempo», ha aggiunto Baiardo. […]

Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per repubblica.it il 16 gennaio 2023.

Sembrava solo l’ennesimo ministro dell’Interno che si augurava di mettere prestissimo le manette ai polsi dell’inafferrabile boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, ma a Matteo Piantedosi questa volta è andata bene. “Mi auguro di essere il ministro che arresterà Messina Denaro” aveva detto Piantedosi lunedì scorso ad Agrigento dove era andato insieme al capo della Polizia Lamberto Giannini per un vertice sull’immigrazione. Piantedosi aveva parlato di Messina Denaro solo per rispondere ad una domanda dei giornalisti durante la conferenza stampa seguita al vertice. Sapeva qualcosa sul cerchio che si stava stringendo attorno al boss? […]

Estratto da ilgiornaleditalia.it il 16 gennaio 2023.

Un tumore che sembra essere l'unica cosa che lo ha messo al tappeto negli ultimi 30 anni dato che la caccia al boss mafioso è stata record, così come la sua latitanza. Messina Denaro ha infatti superati i 23 anni di fuga di Totò Riina mentre sembrano irraggiungibili i 38 di Bernardo Provenzano.

L'inchiesta è stata coordinata dalla Procura di Palermo, dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido, i quali potrebbero aver ricevuto l'sms dalla clinica privata dove era sottoposto a terapie, sotto gli ordini di Messina Denaro. Testo del messaggio: accorrete che ho bisogno di voi. Gli accertamenti oncologici sarebbero una farsa: Messina Denaro non aspettava altro che questo momento per farsi catturare e così liberarsi dal tumore con l'aiuto dello Stato. [...]

Messina Denaro, la profezia di Baiardo da Giletti: "Che arrivi un regalino...". Il Tempo il 16 gennaio 2023

Con l'arresto di Matteo Messina Denaro oggi in una clinica di Palermo per mano dei carabinieri del Ros torna d'attualità quella che sui social è stata già ribattezzata la "profezia di Baiardo". Si tratta delle dichiarazioni rese due mesi fa, i primi di novembre, da Salvatore Baiardo, a suo tempo persona di fiducia di boss mafiosi, a Massimo Giletti per "Fantasmi di mafia", su La7, una puntata speciale di Non è l'Arena dedicata alla criminalità organizzata.

"Che arrivi un regalino?… Che magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato e faccia una trattativa per consegnarsi lui stesso per fare un arresto clamoroso?", aveva detto il pentito. Per il governo, aveva aggiunto Baiardo, "sarebbe un fiore all’occhiello". E a Giletti, che gli chiedeva se dunque la trattativa Stato-mafia non fosse mai finita, "si", rispondeva laconico, ipotizzando un legame con l’ergastolo ostativo. "Se non si avvererà quel che ho detto - aveva dunque chiuso Baiardo - ci rivedremo e lei mi dirà che ho raccontato una fesseria. Vedremo…". 

 L’intervista esclusiva a Baiardo in una puntata speciale di Non è l’Arena dal titolo Fantasmi di mafia è andata in onda su La7 il 5 novembre dello scorso anno. Nel corso di quella puntata era stata trasmessa anche l’intervista al pentito. "Così, arrestando lui (Messina Denaro, ndr), possa uscire qualcuno che ha ergastolo ostativo senza che si faccia troppo clamore?", aveva detto.

Estratto da leggo.it il 16 gennaio 2023.

Matteo Messina Denaro è stato arrestato dopo 30 anni di latitanza. […] Un epilogo che pochi mesi fa era stato anticipato da Salvatore Baiardo, il gelataio piemontese, oggi 65enne, che per anni ha coperto la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.

Salvatore Baiardo aveva parlato di Matteo Messina Denaro lo scorso novembre, intervistato nel corso della trasmissione "Non è l'arena" su La7. «Chissà che al nuovo governo non arrivi un regalino... che un Matteo Messina Denaro, che presumiamo sia molto malato, faccia una trattativa lui stesso di consegnarsi per un arresto clamoroso? Così arrestando lui, possa uscire qualcuno che ha ergastolo ostativo senza che si faccia troppo clamore?», aveva detto. «Tutto potrebbe già essere programmato da tempo», ha aggiunto Baiardo. […]

Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per repubblica.it il 16 gennaio 2023.

Sembrava solo l’ennesimo ministro dell’Interno che si augurava di mettere prestissimo le manette ai polsi dell’inafferrabile boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, ma a Matteo Piantedosi questa volta è andata bene. “Mi auguro di essere il ministro che arresterà Messina Denaro” aveva detto Piantedosi lunedì scorso ad Agrigento dove era andato insieme al capo della Polizia Lamberto Giannini per un vertice sull’immigrazione. Piantedosi aveva parlato di Messina Denaro solo per rispondere ad una domanda dei giornalisti durante la conferenza stampa seguita al vertice. Sapeva qualcosa sul cerchio che si stava stringendo attorno al boss? […]

Estratto dell'articolo di Marco Lillo e Valeria Pacelli per “il Fatto quotidiano” il 17 gennaio 2022.

Salvatore Baiardo è un amante del gioco al rialzo. Negli anni Novanta accompagnava i fratelli Graviano in giro per i casinò, da Venezia a Campione, durante la dorata latitanza dei boss stragisti al Nord. Anche ora che parla davanti alle telecamere delle trasmissioni in prima serata di trattativa, arresti eccellenti in regalo e riforme penali in arrivo a favore dei detenuti, non capisci mai se abbia in mano un poker d'assi o se bluffi.

Così, quando lo chiamiamo pochi minuti dopo l'arresto, per sapere come si senta ora che Matteo Messina Denaro è stato catturato a causa della malattia come lui prevedeva qualche mese fa, risponde sornione: "Sì, lo sto guardando in diretta, ma non è una novità per me".

Quando gli facciamo notare che lui lo aveva previsto, risponde con l'ennesima bomba buttata lì come per vedere l'effetto che fa: "Sì, ma è già dieci giorni che ce l'hanno in mano. Pensavo lo dicessero ieri che era la cattura di Riina (il 15 gennaio per chi legge, cioè l'anniversario della cattura dell'allora Capo dei Capi di Cosa Nostra a Palermo, ndr) e invece hanno aspettato un giorno in più".

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 Estratto da leggo.it il 17 gennaio 2022.

Matteo Messina Denaro è stato arrestato dopo 30 anni di latitanza. […] Un epilogo che pochi mesi fa era stato anticipato da Salvatore Baiardo, il gelataio piemontese, oggi 65enne, che per anni ha coperto la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano.

Salvatore Baiardo aveva parlato di Matteo Messina Denaro lo scorso novembre, intervistato nel corso della trasmissione "Non è l'arena" su La7. «Chissà che al nuovo governo non arrivi un regalino... che un Matteo Messina Denaro, che presumiamo sia molto malato, faccia una trattativa lui stesso di consegnarsi per un arresto clamoroso? Così arrestando lui, possa uscire qualcuno che ha ergastolo ostativo senza che si faccia troppo clamore?», aveva detto. «Tutto potrebbe già essere programmato da tempo», ha aggiunto Baiardo. […]

Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per repubblica.it il 17 gennaio 2022.

Sembrava solo l’ennesimo ministro dell’Interno che si augurava di mettere prestissimo le manette ai polsi dell’inafferrabile boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, ma a Matteo Piantedosi questa volta è andata bene. “Mi auguro di essere il ministro che arresterà Messina Denaro” aveva detto Piantedosi lunedì scorso ad Agrigento dove era andato insieme al capo della Polizia Lamberto Giannini per un vertice sull’immigrazione. Piantedosi aveva parlato di Messina Denaro solo per rispondere ad una domanda dei giornalisti durante la conferenza stampa seguita al vertice. Sapeva qualcosa sul cerchio che si stava stringendo attorno al boss? […]

Estratto da ilgiornaleditalia.it il 17 gennaio 2022.

Un tumore che sembra essere l'unica cosa che lo ha messo al tappeto negli ultimi 30 anni dato che la caccia al boss mafioso è stata record, così come la sua latitanza. Messina Denaro ha infatti superati i 23 anni di fuga di Totò Riina mentre sembrano irraggiungibili i 38 di Bernardo Provenzano.

L'inchiesta è stata coordinata dalla Procura di Palermo, dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido, i quali potrebbero aver ricevuto l'sms dalla clinica privata dove era sottoposto a terapie, sotto gli ordini di Messina Denaro. Testo del messaggio: accorrete che ho bisogno di voi. Gli accertamenti oncologici sarebbero una farsa: Messina Denaro non aspettava altro che questo momento per farsi catturare e così liberarsi dal tumore con l'aiuto dello Stato. [...]

La profezia di Baiardo da Giletti: “È malato sta per consegnarsi”. Redazione L'Identità il 17 Gennaio 2023

di Mafalda Bocchino

Tornano di attualità le rilevazioni di Salvatore Baiardo. Il fiduciario dei boss, noto per aver gestito la latitanza dei fratelli Graviano, in un’intervista rilasciata a Massimo Giletti per la trasmissione “Fantasmi di Mafia”, già a novembre, aveva parlato di un “regalino” per il nuovo governo presieduto da Giorgia Meloni. Il dono era appunto che un tale Matteo Messina Denaro molto malato, che avrebbe fatto “una trattativa per consegnarsi lui stesso”, dando così vita a “un arresto clamoroso”. Parole, che oggi, hanno un significato particolare, considerando che l’ultimo riferimento di Cosa Nostra è stato preso in una casa di cura davanti alle telecamere e senza particolari opposizioni. Dubbi confermati anche da Antonio Ingroia, l’ex togato che ha collaborato con i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per il collaboratore dei nuovi padrini, d’altronde, esisteva un solo modo per fermare l’ala stragista, ovvero “eliminare l’ergastolo ostativo”. Una sorta di profezia, quindi, considerando quanto accaduto nella mattinata di ieri. Ecco perchè più di qualcuno si chiede perché solo oggi sia stato preso il maggiore latitante italiano, tra l’altro senza particolari resistenze. Interrogativi che già prima della fine dell’anno avevano interessato i fan di Giletti, i quali si chiedevano perché mai lo Stato non riuscisse a trovare una persona malata. Non era, poi, una mission impossibile tracciare o cercare tramite incetercettazioni, come poi è avvenuto, chi non ha mai smesso di avere rapporti con l’esterno. Le parole di Boiardo, pertanto, aprono un vero e proprio nuovo giallo su Mattia Messina Denaro. Non basta una semplice conferenza stampa per chiarire una vicenda su cui c’è qualche coincidenza di troppo.

Le teorie dietro l'arresto del Superboss di Cosa Nostra. Chi è Salvatore Baiardo, il collaboratore dell’intervista a Giletti su Messina Denaro: la “profezia” senza prove sull’ergastolo ostativo. Redazione su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Da quando è stato arrestato Matteo Messina Denaro, la “Primula Rossa” di Cosa Nostra, il latitante più ricercato in Italia e tra quelli considerati i più pericolosi al mondo, catturato ieri dopo trent’anni in fuga presso la clinica La Maddalena di Palermo, è diventato virale lo spezzone dell’intervista che Massimo Giletti ha realizzato per la sua trasmissione su La7 Non è l’Arena a Salvatore Baiardo, un uomo che aveva aiutato in passato i mafiosi Filippo e Giuseppe Graviano – in carcere dal 1994 e condannati anche per l’omicidio di don Pino Puglisi – nella loro latitanza nel nord Italia.

Baiardo è piemontese ma ha origini siciliane. Ha scontato quattro anni di carcere per favoreggiamento e riciclaggio di denaro a favore dei fratelli Graviano. È diventato negli ultimi anni collaboratore di Giustizia. A Giletti aveva insomma ipotizzato che la mafia siciliana sarebbe stata disponibile a offrire qualcosa in cambio allo Stato se il governo avesse concesso qualcosa in cambio dell’abrogazione dell’ergastolo ostativo. Nell’intervista nella puntata Fantasmi di Mafia lasciava intendere di conoscere che Messina Denaro fosse gravemente malato: è stato arrestato nella clinica specializzata dove è stato operato e dove si era sottoposto alle terapie per un tumore al colon e dove continuava a curarsi. “Tutto è possibile Giletti” diceva Baiardo ma aggiungeva “questo non me lo chieda” sugli attori della presunta e fantomatica trattativa.

L’ergastolo ostativo venne suggerito dal giudice Giovanni Falcone nel 1991 agli Affari penali del ministero della Giustizia per spingere i mafiosi a collaborare. La misura esclude da benefici come la liberazione condizionale, il lavoro all’esterno del carcere, i permessi premio e la semilibertà per i detenuti condannati all’ergastolo per una serie di reati che non collaborino. La Corte Costituzionale nell’aprile del 2021 aveva giudicato l’ergastolo ostativo incostituzionale tramite un’ordinanza – che non è un atto definitivo – perché in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, che recitano: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”, il primo; “la responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, il secondo.

La Consulta aveva previsto un anno di tempo al parlamento per modificare quella norma. Il parlamento non era riuscito ad approvare la nuova legge nonostante una proroga di altri sei mesi. Senza alcuna legge alla scadenza l’ergastolo ostativo sarebbe stato abolito. Il governo Meloni ha confermato la misura, con alcune lievi modifiche, approvando un decreto legge lo scorso autunno. Esclusi dai “benefici penitenziari” introdotti i detenuti in regime di 41.bis, il “carcere duro” previsto per i delitti più gravi come mafia e terrorismo. I detenuti in Italia per reati ostativi sono 1.259, il 70% degli ergastolani totali.

Baiardo si rivolgeva così a Giletti in quell’intervista: “Magari chi lo sa, che arriva un regalino. Che magari, presumiamo, che un Matteo Messina Denaro sia molto malato e faccia una trattativa per consegnarsi lui stesso per fare un arresto clamoroso. E così arrestando lui magari esce qualcuno che ha l’ergastolo ostativo senza che ci sia clamore. Sarebbe un fiore all’occhiello per il governo, un bel regalino”. Il collaboratore ipotizzava uno scambio di favori insomma e il video è decollato, è diventato virale. Qualcuno si è spinto a definire quelle parole una “profezia” nonostante non ci sia alcuna prova e nessuna evidenza a supporto.

Se si vuole parlare dei fatti si riconoscerà che il governo Meloni non ha abolito l’ergastolo ostativo, l’ha solo modificato, e non ci sono prove che mafiosi in carcere come i fratelli Graviano abbiano ottenuto benefici di qualche tipo come si era ipotizzato. La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha respinto ogni ipotesi di trattativa tra Stato e criminalità dietro l’arresto di Messina Denaro in un’intervista a Quarta Repubblica. Stessa linea da parte del comandante generale dei carabinieri Teo Luzi. “Non ci sono misteri, né segreti inconfessabili. Abbiamo indagato per anni e anni e abbiamo lavorato per fargli terra bruciata intorno. Fino a questo risultato straordinario che deve essere dedicato a tutte le vittime di mafia”, ha detto in un’intervista a Il Corriere della Sera.

La Trattativa: Che Strano…dopo 30 anni.

Il circo dell'antimafia militante non si dà pace. Nino Di Matteo eterno sconfitto, non ditegli che la mafia ha perso. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Febbraio 2023

Signor Matteo Messina Denaro, per favore parli. Faccia contento il pm Di Matteo e la sua corte di intervistatori. Dica una volta per tutte se le stragi le avete fatte voi mafiosi o se ve le hanno comandate il generale Mori e Silvio Berlusconi. Parli, così magari ci togliamo dai piedi una volta per tutte la compagnia di giro dei sacerdoti della mafia delle stragi che non tollerano di sentir dire che lo Stato ha vinto.

Non si danno pace e girano vorticosamente per le tv come i criceti sulla ruota alla ricerca di torbidi retroscena, trattative e mandanti. Da un mese Matteo Messina Denaro, l’ultimo latitante del gruppo dei mafiosi stragisti è in carcere a L’Aquila, in regime separato e impermeabile di 41-bis e curato per il suo tumore. E’ rimasto in giro per il mondo, o forse sempre vicino a casa sua per trent’anni. Onore a coloro che lo hanno catturato e che sono pieni di orgoglio, il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia e l’aggiunto Paolo Guido, e gli uomini del Ros dei carabinieri. Tutto il mondo dell’antimafia dovrebbe godere, perché ormai i vertici della mafia stragista sono tutti in carcere o morti senza esserne mai usciti.

Lo Stato ha vinto. E ormai, come è stato ribadito anche nell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, è luogo comune affermare che le mafie hanno cambiato fisionomia, hanno nei fatti rinunciato alle armi per trasformarsi in comitati d’affari, come sempre dedite al narcotraffico, ma ormai più vicine al mondo finanziario che non a quello delle lupare. Un punto a favore dello Stato vincitore, il fatto che non si spari più. Pure serpeggia una certa insoddisfazione, quasi un rimpianto. E’ come se a fianco di investigatori e tribunali che risolvono i casi ed emettono sentenze corresse un fiume parallelo con un plotone di magistrati in servizio o pensionati, giornalisti e pensatori vari che celebra un’altra giustizia, quella dei retroscena, dei mandanti e delle trattative.

Ogni vittoria dello Stato viene presentata come una sconfitta, perché non sappiamo ancora cosa c’è dietro. E’ un po’ come la favola delle Brigate Rosse, oggi un po’ demodé, con la tiritera che non potevano fare da sole quello che hanno fatto, come se fosse da eroi sparare a persone indifese. Reuccio incontrastato dei torbidi retroscena che aprono inquietanti interrogativi è sicuramente il dottor Nino Di Matteo. E’ sempre scontento, vive dentro una bolla di eroismo e di scorte e ritiene una grande ingiustizia il fatto di non esser diventato ministro e nemmeno capo del Dap. Per lui ogni momento politico è “particolare”. Lo diceva da Giletti due anni fa, nei giorni pericolosi della pandemia da covid, quando si tentava di sfollare un po’ le carceri per ridurre il contagio e lui rivangava il fatto che la mafia e la pavidità del ministro Bonafede gli avessero fatto saltare la direzione del Dap.

Lo ha ribadito un anno dopo da Lucia Annunziata, parlando di tentativo di regolamento di conti con la magistratura da parte del mondo politico. E lo ripete, nella centesima intervista a Corrado Formigli, un bel vis-a-vis a Piazza Pulita, nei giorni scorsi. Il momento è “delicato”. Si, è vero, è stato catturato Matteo Messina Denaro. Ma sicuramente c’è stata una trattativa. Ah, l’eterna trattativa che va avanti da trent’anni! Perché, ragiona Di Matteo, c’è questa generazione di mafiosi tra i 50 e i 60 anni che non hanno nessuna intenzione di starsene al 41-bis per tutta la vita. Sono abbastanza giovani da poter pensare al proprio futuro, quindi potrebbero aver convinto l’ultimo dei latitanti ormai gravemente malato e svendere la propria libertà in cambio di quella futura dei Graviano e soci. E quali sarebbero i segnali del cedimento dello Stato che sarebbe stato oggetto della trattativa?

I provvedimenti della Cedu e della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, per esempio, anche se il decreto del governo Meloni non è andato proprio in quella direzione. E allora bisognerà vedere se la contromossa dei mafiosi in carcere sarà una reazione violenta o se si decideranno a collaborare. Siamo sempre al punto di partenza. O i boss stragisti mettono le bombe anche contro ogni logica e realtà del momento storico, o si decidono a dire che loro erano solo gli esecutori di un progetto politico e di una trattativa lunga trent’anni. Inutile che lo sconsolato procuratore di Palermo Maurizio De Lucia, che dovrebbe essere incoronato come un eroe e viene trattato come un povero ingenuo se non come complice della mafia, dica con chiarezza che “c’è gente che non fa indagini da dieci anni e viene a dirci come si fanno le indagini”. E chissà se sono fischiate le orecchie al dottor Nino Di Matteo.

Perché la compagnia di giro dei sacerdoti della trattativa eterna tra una mafia invincibile e uno Stato sempre più molle e asservito, la sua sentenza l’ha già emessa: certe latitanze come quella lunga di Matteo Messina Denaro e quella lunghissima di Bernardo Provenzano non possono essere riconducibili solo all’omertà dei paesani dei boss e neanche all’aiuto della borghesia mafiosa. No, non basta. Dietro a queste latitanze devono esserci “per forza coperture istituzionali”. Per forza. Nel passato e nel presente. E’ una sentenza. Anche se aggiustabile all’uopo in qualunque momento.

Infatti, quando persino Formigli fa notare a Di Matteo che il governo Berlusconi era stato il più inflessibile sulle norme antimafia, tanto da render definitivo e permanente l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, Di Matteo non fa una piega e ribatte: si, però il ministro Nordio vuol modificare la legislazione sulle intercettazioni. Visto? In ogni momento, nella trattativa perenne, il cerchio può farsi quadrato. Così lo Stato non vince mai, e il circo dell’antimafia militante può continuare a girare le tv.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Da Chi il 4 febbraio 2023.

In una intervista esclusiva a “Chi” Giuseppe Ayala ha dichiarato che, a suo dire, Matteo Messina Denaro non parlerà mai. Lei, che purtroppo conosce molto bene il boss, che è stato tra gli autori dell’attentato che le è costato quasi la vita, concorda con l’ex magistrato?

 La risposta di Maurizio Costanzo su Chi

Bella domanda…I siciliani sono grandi parlatori ma ho dei dubbi che lui confiderà i suoi segreti…Mi ha stupito non vederlo con le manette ai polsi, sono sincero. Qualcuno ha detto che si è arreso allo Stato e quindi non servivano. Però a me è parso un segno del suo potere. Spero di sbagliarmi.

Estratto dell'articolo di Filippo Facci per Libero Quotidiano il 4 febbraio 2023.

Ecco la prima cosa che gli studenti del Gonzaga hanno imparato, a margine del loro incontro col Procuratore di Palermo Maurizio De Lucia: gli adulti, specie se importanti, non nominano mai le persone di cui parlano. Così, ieri, quando uno studente gli ha chiesto un commento sulle dichiarazioni di Salvatore Baiardo – il fiancheggiatore dei boss Graviano, quello che su La7 parlò di un Messina Denaro ammalato e prossimo alla cattura – De Lucia ha risposto: «C’è una grande differenza tra il mondo in cui succedono le cose e quello in cui si dice che potrebbero succedere: io parlo del primo. So come è andata, conosco le indagini e non parlo di un signore che è stato condannato anni fa per favoreggiamento di mafiosi e che circola in alcune tv».

Ecco, De Lucia, non ne parla, ma nei fatti ne ha parlato, e la cosa finisce sui giornali: «Che il latitante fosse malato lo si diceva», ha aggiunto, «e io so quando è stato arrestato e come si è arrivati a questo grande risultato: al momento opportuno, visto che ci sono indagini, si potrà dire di più».

 Anche qui: De Lucia non ha nominato Salvatore Baiardo, non ha nominato chi ci ha speculato, non ha nominato neppure Matteo Messina Denaro: ma ha parlato esplicitamente di loro. Gli studenti del Gonzaga potranno approfondire che l’abitudine di evocare qualcuno, senza nominarlo, è maggiormente diffusa nel sud e nell’oriente del Mondo.

È anche vero che c’era troppa gente da nominare, a proposito del gelataio di Omegna – Baiardo – che ha ottenuto quasi più spazio mediatico dei servitori dello Stato che si sono rotti la schiena per la cattura Messina Denaro. Difficile che De Lucia si riferisse ai giornalisti: siano essi Massimo Giletti – che si è limitato a intervistare Baiardo, pur marciandoci un po’ – a gente in cattiva Fede come Marco Travaglio o Saverio Lodato o, se è un giornalista, Roberto Saviano – si parla di gente passata in tv – sino a specialisti come Lirio Abbate che, almeno, sa di che parla.

Facile, invece, che il procuratore De Lucia si sia invece riferito all’antimafia dietrologico-vittimistica dei vari magistrati alla Nino Di Matteo (che pure ha fallito i primi processi Borsellino e il procedimento sulla «trattativa») e dell’ex procuratore Roberto Scarpinato, neo senatore grillino che sul tema mafia & politica ha costruito istruttorie complicatissime ma ha portato a casa davvero poco. Sì, facile che De Lucia parlasse di loro, o anche di loro: «C’è gente che non fa indagini da dieci anni e che viene a dirci come si fanno, questo è un Paese strano: un minuto dopo l’arresto già c’erano i murmurii», intesi come voci, e «non c’è stato neanche il tempo di festeggiare un successo per lo Stato che già erano iniziate le dietrologie».(...)

Di Gregorio, ex avvocata di Provenzano: «Messina Denaro non si è consegnato. La prova è il viagra nel covo: offusca l’immagine del boss». Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 2 febbraio 2023.

Rosalba Di Gregorio: «Un ergastolo in più o in meno per Messina Denaro non cambia nulla. I processi sulle stragi sono alla fase finale in appello e tecnicamente qualunque avvocato avrebbe ben poco da fare»

«Sì, ha fatto praticantato da me nel 2006-2007. Era attenta e scrupolosa, ricordo che sostenne gli esami di abilitazione con il pancione e subito dopo fece un altro figlio. Poi ha aperto il suo studio». Così l’avvocata Rosalba Di Gregorio parla di Lorenza, Enza, Guttadauro, legale e nipote del boss Matteo Messina Denaro .

Ha l’esperienza sufficiente per sostenerne la difesa?

«Per fare cosa? Un ergastolo in più o in meno per Messina Denaro non cambia nulla. I processi sulle stragi sono alla fase finale in appello e tecnicamente qualunque avvocato avrebbe ben poco da fare».

Una lunga carriera da penalista e un passato da radicale l’avvocata Di Gregorio fu tra i primi a denunciare l’impostura del falso pentito Vincenzo Scarantino, nel processo per la strage Borsellino, che dopo 18 anni finì con la scarcerazione di 7 imputati che non c’entravano con quell’attentato. Ma è anche uno dei penalisti più ricercati dai boss mafiosi tanto che venne definita «l’avvocato del diavolo». Tra gli altri ha difeso Vittorio Mangano e Bernardo Provenzano, per il quale fece una lunga battaglia per la revoca del 41 bis.

Non è che presto la vedremo anche nel collegio di difesa di Messina Denaro?

«Non credo. Se sono vere le notizie sulle sue condizioni di salute penso che abbia ben altro a cui pensare. In questo momento non gli serve certo un Carnelutti per i processi».

Appunto, date le sue condizioni di salute potrebbe essere interessato proprio all’attenuazione del 41 bis, come lei tentò con Provenzano ...

«Vero, all’epoca feci di tutto perché venisse revocato il 41 bis a un soggetto che era ormai un vegetale. Lo hanno fatto morire perché era diventato un simbolo e il 41 bis, in realtà, lo hanno applicato ai parenti. Lui ormai non capiva più nulla».

È ipotizzabile che ci tenti anche Messina Denaro?

«È quello che dovrebbe fare qualunque difensore, compresa Enza. Comunque penso che su questo versante Messina Denaro sia sfortunato, basta vedere cosa sta succedendo con il caso Cospito. Ci sono fortissime resistenze su una possibile attenuazione del 41 bis, misura che io ritengo palesemente incostituzionale. Poteva avere una giustificazione in una fase emergenziale, ma non può diventare una misura permanente».

Parla già da «avvocato del diavolo» ...

«Le dico di no perché non c’è stata alcuna nomina e perché, dopo 40 anni di professione, proverei a cominciare ad andarmene in pensione».

Che idea si è fatta dell’arresto, dopo 30 anni di latitanza?

«Non credo ad ipotesi complottistiche come quelle fatte da Scarpinato e altri. Penso piuttosto che sia progressivamente crollato il suo sistema di autodifesa, visto anche l’aggravarsi della malattia».

Esclude dunque che possa essersi consegnato?

«Sì, assolutamente. E lo dico anche per un dettaglio che potrà sembrare banale: se si fosse consegnato avrebbe avuto l’accortezza di far sparire dal covo almeno il Viagra».

Addirittura?

«Può sembrare una battuta, ma quel tipo di ritrovamento fa fare una malafiura (una brutta figura) nell’ambiente e cozza con una certa immagine. Inoltre credo che dietro l’arresto ci sia un lavoro pazzesco degli inquirenti».

L’ex pm Massimo Russo ha ravvisato nella nomina come avvocato di un parente di Messina Denaro un modo per aggirare il 41 bis, segnalando una falla nella norma...

«Mi sembra una fesseria, per un motivo molto semplice. Nessuno di noi avvocati che seguiamo clienti al 41 bis, sebbene ci sia il divieto di essere intercettati, ha mai pensato che quando vai a fare il colloquio non ti stanno registrando. Non è come per i familiari in cui, per legge, è previsto che tutto venga video-registrato, mentre quelli dei legali non dovrebbero esserlo. Ma francamente sono veramente pochi a crederci. Per il resto non esiste una norma, anche di tipo deontologico, che impedisca a un avvocato di difendere un parente».

La verità del boss. Dopo il flop della “Trattativa” il Pm Di Matteo spera nei retroscena di Messina Denaro: “Matteo, salvaci tu”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 31 Gennaio 2023

Ora lo Stato dovrà mostrare la propria capacità di affrontare la Verità. Lo dice con la maiuscola, il pm Nino Di Matteo, in uscita dal Csm, e palesa una sorta di attesa messianica, come se fosse davvero vicino il giorno in cui lui, Matteo Messina Denaro, l’imprendibile capo di Cosa Nostra ormai arreso, squarcerà il velo della storia criminale degli ultimi trent’anni. Che non è la storia delle stragi, ma la storia dello Stato. Perché lui è depositario di segreti che non riguardano la mafia, ma proprio il cuore dello Stato.

Quindi la domanda che il pm del fallimento del teorema Stato-Mafia oggi pone ai massimi vertici dello Stato e del governo è: tu Presidente del consiglio che hai dichiarato di essere entrata in politica da ragazza per combattere la mafia, mostrerai coraggio? Avrai la forza, quando il capo della mafia dirà ciò che nessun politico vuol sentirsi dire, e cioè racconterà le complicità dei massimi vertici istituzionali con questo “mariuolo” che ha potuto essere uccel di bosco per trent’anni grazie a loro, tu avrai il coraggio di non nasconderti dietro opportunismi politici?

Un ragionamento e una ricostruzione della realtà in cui c’è tutto ciò contro cui, proprio pochi giorni fa, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, aveva messo in guardia il procuratore generale presso la cassazione Luigi Salvato. Quando ha esortato a non confondere la verità storica con quella giornalistica e quella giudiziaria. Che è quella che si raggiunge solo al termine di un giusto processo. Eppure è proprio quel che sta succedendo. Festa grande di retroscenisti dell’antimafia domenica sera a La7. Antipasto da Concita De Gregorio e David Parenzo, non proprio due esperti di mafia, con Nino Di Matteo, uno dei pm usciti sconfitti da tutta la serie di processi basati sul teorema della Trattativa, poi piatto grosso da Massimo Giletti con ospite d’onore un mafioso assassino di quelli che hanno barattato vantaggi per sé con la vendita dei compagni di merende, Gaspare Mutolo.

Nessuna soddisfazione per il fatto che i Capi di Cosa Nostra sono ormai tutti in galera o morti. Nessuna sincera forma di congratulazioni verso gli eroi dell’arresto di Matteo Messina Denaro, gli uomini dei Ros dei carabinieri e la procura della repubblica di Palermo presieduta da Maurizio De Lucia. La fa da padrone, come sempre tra gli esperti retroscenisti antimafia, a partire da giornalisti che senza quel backstage sarebbero senza lavoro e annoiati, l’ossessione per i fatti di trent’anni fa. Ricostruiti in quel modo pernicioso da cui metteva in guardia il pg Salvato. Dell’ossessione fanno parte, prima di tutto, i “torbidi retroscena”. Di ogni fatto si trascura ciò che è palese, per andare a cercare quel che c’è dietro, le ombre sfuggenti di ciò che non si può vedere, e soprattutto dire. L’arresto di Diabolik, prima di tutto, e il sospetto rabbioso, ancora e ancora e ancora, della Trattativa.

Un atto di sfiducia totale nei confronti di magistratura e forze dell’ordine. Davanti a certi ex investigatori che hanno poi spostato la propria carriera al Csm o sui banchi del Parlamento vien proprio voglia di dirlo: ma perché non l’avete catturato voi, se eravate così bravi, invece di investire le vostre forze nel trastullo delle trattative? Il magistrato Di Matteo è convinto, convintissimo del fatto che l’ex latitante custodisca un prezioso scrigno di “segreti importantissimi” sui suoi rapporti con “soggetti diversi ed estranei rispetto a Cosa Nostra”. E che da lì emergerà finalmente la mitica “Verità” sulle stragi. Quella che butterà a mare il maxiprocesso voluto da Giovanni Falcone, colui che per primo capì la mafia e che proprio per quello non ha mai creduto al terzo livello. E poi tutte le inchieste, quelle giuste e quelle sbagliate di questo lungo periodo, con i processi e le sentenze. Eh sì, perché se la Cosa Nostra, la cosa nostra dei corleonesi stragisti era solo pura manovalanza, si riscrive davvero la storia d’Italia.

Ma, dice ancora l’ex consigliere del Csm, queste cose si capiscono sempre dopo. Ma dopo quando? E lasciamo perdere il fatto che per esempio contro Silvio Berlusconi come mandante di stragi, giusto per essere espliciti, i vari Ingroia e Di Matteo ci hanno provato ben quattro volte a indagarlo, con inchieste dai nomi spensierati come “Oceano” o “Sistemi criminali”, vedendosi il più delle volte costretti a chiedere loro stessi l’archiviazione. E così finirà anche quella destinata solo a fare perdere tempo e denaro, aperta a Firenze. Vogliamo esaminare tutti i fallimenti giudiziari della squadra dei retroscenisti militanti? Ancora lunedì sera si è dissertato, con aria grave di chi sta davvero scrivendo la storia, su due o tre cosette che avrebbero potuto, se in questi talk ci fossero davvero mai opinioni contrapposte, essere demolite come briciole di pane. La prima: la ritardata perquisizione dell’abitazione di Totò Riina.

Qualcuno si è accorto del fatto che i carabinieri del Ros del generale Mori sono stati processati e assolti per quel fatto? Lo stesso vale sul mancato arresto, in due determinati momenti, di Bernardo Provenzano, su cui ancora si continua a mitizzare e sospettare il Ros, e rispetto a cui di nuovo gli uomini accusati dai retroscenisti sono stati processati e assolti. Ma c’è qualcuno che non si arrende. Perché è più facile mascherare le proprie sconfitte con il vittimismo (davamo fastidio ai poteri forti della politica), e cancellare i risultati della storia giudiziaria con le riscrittura in chiave giornalistica e fantasiosa delle proprie trentennali ossessioni.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura

Estratto dell'articolo di Giuseppe Legato per "La Stampa" il 29 gennaio 2023.

il procuratore capo Maurizio De Lucia, prende la parola dopo giorni di silenzio.

[…] «Cosa Nostra adesso è in un'oggettiva situazione di profonda difficoltà che deriva anche dalle indagini svolte e che hanno portato alla cattura di Messina Denaro, ma io ho il dovere – precisa - nella qualità di procuratore distrettuale antimafia, di ricordare che è tutt'altro che sconfitta».

 «[…] esiste una grande tensione dentro l'organizzazione volta a tentare l'ennesima ristrutturazione, alla ricostituzione della sua struttura di vertice, quella che - con linguaggio mediatico - possiamo definire la Cupola, la Commissione provinciale di Cosa Nostra».

E' un monito, un richiamo a non mollare in un momento decisivo per la Sicilia e Palermo, città e procura che il magistrato ha ritrovato dopo la lunga parentesi in Dna a Roma e da capo dei pm a Messina. […] «nessuno può pensare che Cosa Nostra sia stata sconfitta. Sono preoccupato perché questo ho sentito dire da autorevoli esponenti anche della magistratura non ovviamente quella siciliana. […] Questo è il momento di intensificare gli sforzi per arrivare alla sconfitta di Cosa nostra non a limitarsi a manifestare a strappi soddisfazione per il risultato pur importantissimo che è stato conseguito».

Come poi la Dda di Palermo e la procura in generale vadano a cercare l'affondo finale per ridimensionare ulteriormente i gangli criminali di Cosa Nostra, per reciderne lo stelo, è un tema di doglianza: «Questa procura, versa in una situazione (in termini di organico, ndr) di grave crisi: ci sono 15 sostituti (pubblici ministeri, ndr) in meno con una scopertura del 24%. Il nostro lavoro sarà sempre coerente e impegnato anche con questi numeri ma 15 magistrati in più in una realtà come quella palermitana fanno la differenza in un momento particolarmente delicato come questo nella lotta a Cosa Nostra».

Non sono piaciute […] «le ombre che fin dal minuto dopo l'arresto di Messina Denaro, ho cominciato a sentire pur di fronte a un risultato che è un vanto per tutta l'Italia». Ancora più chiaramente: «L'indagine condotta è stata impeccabile, portata avanti con gli strumenti tecnici più aggiornati, secondo criteri di legalità totalmente trasparenti. Non c'è! Non c'è (volontaria ripetizione, ndr) nessun elemento di fatto che possa tradire quanto custodito agli atti dell'inchiesta che compatibilmente con le scansioni dei procedimenti in corso verrà integralmente reso pubblico. Negli atti ci sono i fatti – ha aggiunto De Lucia - e com'è noto questi sono difficilmente contrastabili con le semplici opinioni. Che restano legittime, per carità». Con sarcasmo aggiunge: «C'è anche chi dice che la terra è piatta, ma le speculazioni, le dietrologie sono destinate alla sconfitta». […]

"Per il quieto vivere". Il pentito Gaspare Mutolo e la rivelazione sull’arresto di Messina Denaro: “La cattura è una messa in scena”. Redazione su Il Riformista il 27 Gennaio 2023

L’arresto? “Una messa in scena”, la cattura? “Un accordo”, il covo? “Sapientemente ripulito prima dell’arrivo dei carabinieri”, i ritrovamenti? “Hanno trovato solo quello che lui voleva si trovasse, cioè poca roba. Mica hanno trovato l’agenda rossa di Paolo Borsellino…”. Il pentito di mafia Gaspare Mutolo, intervistato da AdnKronos, è convinto che l’ultimo giorno di Messina Denaro da latitante sia una contropartita in cambio di altro.

Gaspare Mutolo, ex picciotto di Cosa nostra e con alle spalle ventidue omicidi, fu guardaspalle del boss palermitano Rosario Riccobono, killer ed autista del capo dei capi Totò Riina. Nel 1991 decise di collaborare con i giudici Giovanni Falcone prima e Paolo Borsellino poi. E oggi non nasconde il suo scetticismo e il suo “stupore” sull’arresto del boss di Castelvetrano.

“A parte la mia esperienza personale e il mio arresto – spiega a AdnKronos – ma quando arrestano boss c’è tutto un altro clima. Armi alla mano, confusione. Qui invece è accaduto tutto in ‘tranquillitudine’, e questo fa pensare”. “La cattura è avvenuta con una calma che sembrava una pacificazione, io ricordo che nelle catture di questi latitanti, c’è sempre stato un movimento particolare. Mentre per Messina Denaro e per lo spessore criminale che lo ha contraddistinto in quanto imputato nelle stragi e non solo, è sembrata più che altro una messa in scena. Basta vedere le immagini in tv. Insomma, una cattura programmata, per il quieto vivere di quel momento”.

“I Carabinieri erano tranquilli forse perché c’era un accordo – racconta Mutolo cercando di spiegare cosa intende quando parla di ‘quieto vivere’ -. Un personaggio del genere cammina solo con la ‘scorta’, con i guardaspalle. Mentre lui era solo con una sola persona accanto. Questo mi lascia un po’ perplesso. Insomma, per me è stata una cattura programmata, perché ci sono altri interessi. Ricordiamo i messaggi mandati dal carcere da Giuseppe Graviano su Berlusconi”.

“A me non è sembrato l’arresto di un mafioso – continua Mutolo – mentre lui era uno dei mafiosi più pericolosi al mondo”. E poi: “Ci sarà sempre una trattativa tra Stato e mafia. In questo arresto non ho visto turbolenza, come in altri arresti, c’era tranquillità, lo ripeto. Non c’era alcuna sorpresa. Anche l’esultanza dei carabinieri non era evidente. Finora i carabinieri o i poliziotti sono sempre intervenuti in maniera diversa. Questa mi è sembrata una passeggiata, non un arresto di un boss”.

Mutolo continua sui covi ritrovati: “Vede, non hanno trovato documenti importanti nell’ultimo covo. Hanno trovato una pistola calibro 38, ma non quello che hanno sperato come l’agenda del povero giudice Paolo Borsellino. Quindi, hanno fatto sparire tutto perché forse c’era questo accordo, che Messina Denaro si doveva consegnare e lui avrà fatto sparire tutto. Qualsiasi persona ha qualcosa di compromettente a casa, figuriamoci Messina Denaro. Noi sappiamo che Messina Denaro fa parte della massoneria, della mafia, ha compiuto tutte le stragi e le cose orrende accadute in Italia, ma sicuramente non troveranno niente perché lui si è consegnato”. E aggiunge: “Hanno fatto trovare quello che lui ha voluto fare trovare, come il viagra, i soldi, gli scontrini, i libri su Putin e Hitler, ma non c’era un documento serio, perché lui era in contatto con i maggiori industriali della Sicilia e dell’Italia”.

A Campobello di Mazara “tutti sapevano che fosse lui, almeno l’80 per cento delle persone lo sapeva”, spiega: “Io, quando sono stato latitante e stavo a 300 metri da casa mia, in zona lo sapevano tutti. Figuriamoci se non lo sapevano i vicini di Messina Denaro…”.

Per alcuni è stata la sconfitta definitiva di Cosa nostra ma per Mutolo non cambierà nulla: “Secondo me non succede niente. Qualcuno apprezzerà il suo gesto di resa per fare capire al governo che la mafia è cambiata, ricordiamoci che lui ha pochi anni di vita”. Messina Denaro “si è sacrificato, se lui è davvero ammalato cosi gravemente sono convinto che si sia fatto arrestare per lasciare un ricordo”.

In cambio di cosa? “Il governo dovrebbe dare intervento sull’ergastolo ostativo ad esempio o sul 41 bis, insomma tutto quello che c’era nel famoso papello di Riina“. Questa non sembra la strada intrapresa dall’esecutivo Meloni: “A volte uno può cambiare idea, per ora il Governo dice che non cambierà niente, bisogna aspettare. Bisogna avere pazienza. Il tentativo è quello di cambiare completamente le cose”, e ricorda: “Lo Stato è stato a due passi dallo sconfiggere la mafia, nel ’92 e nel ’93, poi piano piano hanno fatto marcia indietro”.

Cosa significherebbe quindi il gesto di consegnarsi: “Messina Denaro può aiutare molti mafiosi in carcere”, la mafia “è sempre forte, è più forte di prima, ormai non spara, lo fa solo in momenti eclatanti ma se deve fare qualche azione, ci sono tanti modi per eliminare una persona”. E dice che “non è più la mafia ignorante di una volta, si è emancipata, i figli dei mafiosi sono andati a scuola si sono laureati, perché il mafioso è sempre in cerca di soldi. Il denaro è il demonio, il male dell’umanità”.

Mutolo poi paragona, per le sue letture, Messina Denaro a Luciano Liggio “anche se lui leggeva Sofocle a Aristotele… Io ho fatto tanti peccati nella mia vita, io sto cancellando tutto con la pittura, io ho cambiato vita collaboro da 30 anni, la mia vita è dipingere. Io a un certo punto della mia vita ho capito che la mafia aveva cambiato pelle e ho collaborato“. Prima “la mafia aveva dei valori, non uccideva bambini o donne incinta. Dopo sì e io sono andato via”.

Infine su come Messina Denaro è riuscito nella sua trentennale latitanza Mutolo è molto chiaro: “Ha ancora milioni di euro a disposizione ma saranno in qualche paradiso fiscale. Li avrà affidati qualche industriale oltre ai familiari…”.

L'ex pm conferma la ricostruzione. Scarpinato e il pasticcio Messina Denaro, altro che massoneria: boss e tesoro mafia salvati da un litigio. Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Gennaio 2023

L’onorevole Scarpinato (ex Pm ed ex Procuratore generale di Palermo trasferitosi recentemente a palazzo Madama secondo il tradizionale principio della separazione dei poteri…) ieri, in una sua dichiarazione, ci ha accusato di essere disinformati e di voler condurre una campagna di denigrazione nei suoi confronti, ma subito dopo, nella stessa dichiarazione, ci ha confermato che tutte le cose che abbiamo scritto in questi giorni sulla mancata cattura di Matteo Messina Denaro, sette anni fa, sono cose perfettamente vere.

C’è stato un litigio tra Procura di Palermo e Sisde (i servizi segreti) che portò a bruciare un infiltrato dei servizi segreti che stava per mandare in porto una clamorosa operazione degli 007 che aveva lo scopo non solo di catturare Messina ma anche di mettere le mani sul tesoro della mafia.

Scarpinato semplicemente sostiene che la colpa di quel litigio e del conseguente flop dell’operazione del Sisde non fu della Procura di Palermo ma del Sisde.

Prendiamo atto della sua opinione, che vale però più o meno quanto la nostra e quanto quella di chiunque altro. Resta il fatto che non furono clamorose protezioni politiche o della massoneria a salvare Messina, ma fu il pasticcio combinato dagli inquirenti. Se Scarpinato già conosceva queste cose, perché non ce le ha raccontate nei giorni scorsi, e ha aspettato che le raccontasse il Riformista?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L'ex pm riconosce la cattura sfumata. Il medico Tumbarello e il sindaco Vaccarino, così Scarpinato bruciò l’arresto di Messina Denaro 17 anni fa. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Gennaio 2023

Si usa dire che una notizia smentita è una notizia data due volte. Ed è proprio questo il caso della nota con cui l’ex magistrato e oggi senatore Roberto Scarpinato, Movimento Cinque Stelle, comunica alla stampa il suo disappunto per l’inchiesta de Il Riformista sulla vicenda Vaccarino-Matteo Messina Denaro. Il disappunto è comprensibile. Con quanto si prende la briga di precisare alle agenzie di stampa, Scarpinato fornisce infatti due notizie in più. La prima è che conferma la ricostruzione che abbiamo fatto; la seconda è che specifica i termini e le motivazioni per le quali decise di porre effettivamente fine all’attività di infiltrazione operata dal Sisde sul latitante più ricercato d’Italia.

“Il Riformista prosegue la campagna diffamatoria nei miei confronti, attraverso articoli basati su gravi falsificazioni. Due loro pezzi fondati su presunte informazioni fornite da anonimi esponenti dei servizi segreti, sostengono che io e Giuseppe Pignatone nel 2006 avremmo fatto fallire un’operazione che avrebbe portato alla cattura di Matteo Messina Denaro. La nostra responsabilità sarebbe quella di aver reso nota senza validi motivi l’identità di un infiltrato del Sisde, Antonio Vaccarino, che era riuscito a entrare in contatto epistolare con il latitante Messina Denaro. Per conoscere i reali termini della vicenda e comprendere la falsificazione fatta dal Riformista, è sufficiente leggere gli atti ufficiali del tribunale e della procura di Palermo”. Letti gli atti, rimane inalterata la nostra ricostruzione. Tra questi c’è infatti anche l’interrogatorio reso dal colonnello De Donno presso il Tribunale di Marsala, all’udienza del 12 maggio 2020 che vide imputato l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, poco prima di morire di Covid.

Su domanda dell’avvocato Baldassare Lauria – che insieme all’avvocato Giovanna Angelo difese Vaccarino – in merito al fatto se l’aver bloccato l’operazione Vaccarino-Svetonio avesse impedito la cattura di Matteo Messina Denaro, il colonnello rispose che verosimilmente quella fuga di notizie potrebbe aver mandato in fumo la cattura del latitante, precisando che Vaccarino era totalmente affidabile: “Al 100%”. Ma De Donno non si limitò a dare testimonianza soltanto delle attività e della collaborazione di Vaccarino in merito alle indagini su Provenzano e Matteo Messina Denaro, indicando nella fruttuosa collaborazione dell’ex sindaco elementi che portarono a individuare i fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro e di altri soggetti interni all’organizzazione mafiosa, precisando che Matteo Messina Denaro stava iniziando ad aprirsi con Vaccarino segnalando Rosario Cascio – successivamente arrestato – quale imprenditore a cui fare riferimento. Ma sottolineò che tutto questo lasciava ben sperare in merito alla possibile cattura del latitante, tanto più che solo qualche giorno prima dell’arresto di Provenzano, Vaccarino aveva incontrato il nipote del boss. Circostanza che lasciava sperare in un successivo incontro che avrebbe portato all’arresto di entrambi i latitanti.

Ma seguiamo la ricostruzione di Scarpinato: “L’11 aprile del 2006 venne arrestato Bernardo Provenzano, nel suo casolare furono sequestrati numerosi ‘pizzini’ scambiati tra il boss ed alcuni tra i maggiori esponenti di Cosa nostra. Poiché l’identità dei destinatari dei messaggi e dei tramiti era nascosta dietro codici numerici e nomi di copertura, iniziammo una lunga e complessa ricerca delle reali identità. Messina Denaro risultò essere l’autore di alcuni messaggi, firmati ‘suo nipote Alessio’ in cui, informando Provenzano, faceva riferimento ad un soggetto, indicato come ‘VAC’ o ‘VC’, che stava gestendo lucrosi affari per conto di Cosa Nostra. La Polizia Giudiziaria scoprì che si trattava di Antonio Vaccarino: pregiudicato per reati di mafia, già assessore e sindaco di Castelvetrano, membro della massoneria di Castelvetrano, aderente al Grande Oriente d’Italia. Vaccarino venne ovviamente iscritto nel registro degli indagati, sottoposto a intercettazioni e interrogato. Dalle intercettazioni emersero contatti con utenze del Sisde.  Facendo i dovuti accertamenti, scoprimmo che Vaccarino aveva intrapreso su istruzioni dello stesso Sisde una corrispondenza epistolare con Messina Denaro e che questi, dopo la scoperta del covo di Provenzano e il rinvenimento dei messaggi da lui inviati con il nome ‘Alessio’, aveva deciso di interrompere ogni comunicazione con Vaccarino. A quel punto, io e i colleghi Pignatone e Lari chiedemmo per lui l’archiviazione. La ricostruzione fondata su documenti ufficiali dimostra dunque che la responsabilità del disvelamento del ruolo svolto da Vaccarino va attribuita esclusivamente al Sisde, che non informò la Procura di Palermo dell’operazione in corso, persino dopo che era stato scoperto il covo di Provenzano ed era in pieno svolgimento l’indagine per identificare i soggetti menzionati nei pizzini sequestrati. Con quella omissione – conclude Scarpinato – i Servizi lasciarono che, come era inevitabile, Vaccarino finisse sotto indagine giudiziaria ed emergesse l’attenzione della magistratura nei suoi confronti”. Sulle incomprensioni, i disguidi e gli errori di comunicazione tra catene di comando diverse è stato scritto molto.

I Ros avvisarono per tempo la massima autorità giudiziaria competente, va detto in tutta onestà: la Procura nazionale antimafia allora diretta da Pietro Grasso era non solo al corrente dell’indagine sotto copertura Sisde, ma del tutto consonante e allineata. Lo stesso Grasso, che poi è diventato Presidente del Senato e per un breve periodo Presidente supplente della Repubblica, in seguito alle dimissioni di Giorgio Napolitano e fino al giuramento di Sergio Mattarella, ingaggiò con Scarpinato una vivace polemica su chi avesse dovuto avvisare chi, e come, e perché. La Procura di Palermo dirigendo le indagini sulla massoneria non approfondì mai la questione del medico Alfonso Tumbarello. Su questo Gian Joseph Morici, direttore del quotidiano agrigentino La Valle dei Templi, da noi più volte consultato per il suo articolo Matteo Messina Denaro poteva essere catturato già da tempo precisa il suo pensiero: “Della figura di Tumbarello, ho detto che è centrale in questa vicenda per il fatto che Vaccarino, pur conoscendo Salvatore Messina Denaro, si rivolge a lui per un contatto”. Questo rende chiara l’idea di come Vaccarino veda nel medico la persona della quale si fida il fratello del latitante.

Da qui, la figura del “garante” per l’incontro che poi, secondo quanto riportato da Report, si terrà presso lo studio di Tumbarello. La frase (del nostro articolo di ieri n.d.r.) in cui dico di aver dedotto che Tumbarello è un soggetto di spessore mafioso importante è errata. Così come non è corretta quella secondo cui Vaccarino gli sottopone tutti i messaggi, chiedendo di instradarli verso il più ricercato dei latitanti per canali riservatissimi a cui Tumbarello aveva accesso. Vaccarino non gli sottopone i messaggi, ovvero il contenuto dei “pizzini”. Se Vaccarino conosceva Salvatore Messina Denaro (fratello di Matteo ndr), suo ex alunno, viene da chiedersi perché dunque si rivolge a Tumbarello. “Perché, evidentemente – per Morici – ritiene che Tumbarello goda della stima e della fiducia del Messina Denaro, e di conseguenza che la sua figura faciliti l’incontro, poiché il suo intervento di ‘mediazione’ rappresenta una garanzia per il fratello di Matteo Messina Denaro”.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Lo stop alle indagini. “Messina Denaro poteva essere arrestato 15 anni fa, ma Pignatone e Scarpinato bloccarono tutto”, la rivelazione dell’ex agente del Sisde. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Gennaio 2023

Il Riformista ha ricevuto una testimonianza clamorosa. Dai protagonisti di una vicenda che merita di essere conosciuta nella sua interezza: il Sisde lavorò attivamente, dal 2003 al 2006, alla cattura di Matteo Messina Denaro. Arrivandoci molto vicino. Adescandolo con un’esca e riuscendo a tracciarne il ‘perimetro vitale’. E questo grazie a un’attività di indagine under cover, con un infiltrato – facente base a Castelvetrano, nel trapanese – che riuscì a individuare qual era l’area in cui il boss doveva essersi nascosto. Tanto da intraprendere una corrispondenza diretta con Matteo Messina Denaro capace di far capire dove fosse il latitante, ma ancor più: capace di mettere le mani sul patrimonio nascosto dal boss di Cosa Nostra.

Una indagine durata tre anni e che sarebbe arrivata a meta se non ci fosse stata, a fermarla, la Procura di Palermo. In particolare due Pm: Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato, diedero ordine di fermare le indagini ed assunsero, come vedremo, un inspiegabile atteggiamento verso chi le stava operando e rendendo possibili. Torniamo indietro e guardiamo ai fatti. Li abbiamo ricostruiti grazie alle testimonianze di due agenti dell’allora Sisde e alle parole del direttore della testata La Valle dei Templi, Gian Joseph Morici. È stato lui a scrivere per primo della singolare figura di Antonio Vaccarino. Insegnante di liceo amato dai suoi studenti, viene eletto sindaco di Castelvetrano con la Dc. Poi finisce in una storia opaca, viene portato addirittura nel carcere di Pianosa: associazione mafiosa. Le accuse cadono, ma la Procura gli contesta un traffico di droga.

Macchia indelebile, per un insegnante coscienzioso. Tornato a casa, si rivolge ai Carabinieri: vuole dimostrare che lui è contro la mafia, che è sempre stato una persona perbene. E propone una idea: conosce bene Salvatore Messina Denaro, che ha avuto in classe come studente. Scriverà delle lettere che andranno recapitate dal fratello al più noto boss. Escogita un piano che comunica ai Carabinieri, che ne informano il Comando e da qui, il Sisde. Una cabina di regia segue l’operazione, prima con prudenza, poi con maggior convinzione. Una trama da film: l’anziano professore intraprende una corrispondenza alla quale a un certo punto Matteo Messina Denaro decide di rispondere. A far da tramite, Alfonso Tumbarello, il medico di Castelvetrano che in questi giorni è tornato nell’occhio del ciclone per la prossimità con la famiglia Messina Denaro. Di cui Pignatone e Scarpinato sapevano dall’interrogatorio che fecero a Vaccarino nel 2007. Nell’epistolario Matteo Messina Denaro si firmava “Alessio” ed all’interlocutore attribuì il nome di “Svetonio”, l’autore romano di “De viris illustribus”. “Alessio” non lo sospettava, ma Svetonio stava collaborando – con un ruolo rischiosissimo, in prima persona – con le indagini più accurate finora eseguite. Coordinate dal colonnello Giuseppe De Donno che riferiva direttamente all’allora Direttore del Sisde, Generale Mario Mori.

Nel 2003 i messaggi iniziano ad andare avanti e indietro per il trapanese. L’esca era quella di portare gli affari di Messina Denaro al sicuro, con alcuni investimenti garantiti da professionisti insospettabili. Numerosi pizzini di quel carteggio sono stati ritrovati e peraltro anche pubblicati. Una certa quantità venne rinvenuta nel 2006 nel covo di Bernardo Provenzano. Tra questi, quello che prova come la trama stesse girando per il verso giusto: Matteo Messina Denaro chiedeva a Provenzano un parere ‘autorizzativo’ a concedere fiducia ad “Svetonio”, provando a mettergli in mano una prima cifra da investire. Autorizzazione concessa, come risulta dagli atti del processo Provenzano che hanno repertoriato il carteggio. A quel punto però qualcosa si blocca, nella trappola predisposta dagli uomini di Mori. Succede nel 2005, quando alla Polizia arriva uno dei pizzini con l’indicazione del messaggero finale. Un pezzo di carta che doveva essere consegnato, per quanto sapevano gli uomini della Questura, da parte di un noto mafioso al professor Antonio Vaccarino. Gli stanno per mettere le manette ai polsi quando Mori parte per raggiungere l’allora capo della Polizia, Prefetto Gianni De Gennaro. Gli racconta tutta la storia. “All’inizio non volevano credere che fossimo riusciti a organizzare la corrispondenza di un infiltrato. Ci guardarono increduli”, racconta al Riformista uno dei protagonisti di quei giorni. Appresa la vicenda, De Gennaro disse di non poter esimersi dal comunicare questa notizia alla Procura di Palermo.

“Eravamo sul punto di mettere le mani su tutto, su Messina Denaro e prima ancora sul suo patrimonio”, ci riassume lo 007 con cui parliamo. E cosa accadde a quel punto? Si può immaginare: un encomio solenne, la massima collaborazione tra apparati e via dritti verso l’obiettivo. Nient’affatto. Viene richiesta al gruppo di lavoro del Sisde tutta la documentazione: le note di servizio, i verbali, gli interrogatori eseguiti. Tutte le istruzioni date a Vaccarino, le telefonate intercorse, le informazioni acquisite. E a quel punto? “Fermarono l’operazione. Provammo a resistere, a far capire che una operazione simile non sarebbe più ricapitata, ma Pignatone e Scarpinato furono irremovibili. Ci chiesero perché non fosse stata avvisata la Procura di Palermo, chiarimmo di aver informato il Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso”. La Polizia procede ad alcuni arresti, derivanti dalle informazioni raccolte. La Procura nell’ordinanza di custodia cautelare dà atto “dell’ottima attività investigativa svolta dal Sisde”, con questo lodando l’iniziativa dell’infiltrazione, ma contemporaneamente espone in pubblico il ruolo di Vaccarino. Non solo: la Procura di Palermo – contrariamente a quanto avevamo raccomandato – interroga Vaccarino e lo “brucia”: ne rivela l’identità, sovraesponendolo anche alle minacce di ritorsione di Cosa Nostra. Sarà inutile chiedere qualsiasi protezione: la Procura abbandona Vaccarino al suo destino.

Il professore rimane a Castelvetrano. Tenterà poi di fare una diversa attività per la Dia di Caltanissetta, ma verrà addirittura arrestato: pensano che stia manipolando le cose. Al processo che seguirà, vanno a testimoniare gli stessi ufficiali del Sisde con cui aveva collaborato per anni. “Messina Denaro poteva essere preso almeno quindici anni fa, mi creda”, ci confida l’agente dell’ex Sisde. “Abbiamo un infiltrato sotto copertura, una fonte interna raggiunta dall’infiltrato, arriviamo a sapere informazioni inedite scritte di suo pugno da Matteo Messina Denaro e la Procura di Palermo che fa? Ferma tutto”, ribadisce con amarezza l’ufficiale. Si parla di conflitto di competenze, di mancato coordinamento. Ci fu anche una coda di dichiarazioni polemiche tra Pignatone e Grasso. Ma il lavoro di Mori e De Donno rimane a oggi il più vicino a disvelare non solo il covo principale del latitante più ricercato d’Italia ma anche a metterne in luce il flusso dei conti correnti, la direzione che quell’incredibile quantità di denaro prendeva in entrata e in uscita dal Trapanese. Già, perché l’area era del tutto circoscritta: le persone che vennero usate come messaggeri e le distanze impiegate dai pizzini avevano dato agli investigatori del Sisde l’idea esatta del perimetro in cui Messina Denaro doveva essere nascosto. “Le tracce portavano a una zona compresa tra Trapani, Castelvetrano e Campobello di Mazara, non c’era dubbio che fosse dentro questo perimetro. E lo abbiamo riferito e documentato alla Procura di Palermo, a Pignatone e Scarpinato”.

Nel 2006. Diciassette anni fa. Il Pg e l’aggiunto Scarpinato che fanno? Mettono sotto torchio Vaccarino e gli chiedono di Tumbarello. Seguendo una pista tutta loro: dietro a tutto deve esserci la massoneria. Gli chiedono di logge coperte. Di trame segrete. Di poteri occulti che tramano con i vertici dello Stato. L’infiltrato del Sisde risponde con quel che sa: ecco dove si nasconde il boss, questi sono i suoi patrimoni, qui ha i suoi contatti con i famigliari, lì devono mettere del denaro. Parla di attività, di complicità, di notizie che ha saputo trarre dalle confidenze, pizzino dopo pizzino, del boss ricercato. Trascorre del tempo e che succede? Vaccarino venne arrestato. Il pentito Vincenzo Calcara sostiene che è un mafioso che cerca di rifarsi una verginità. Gli credono su due piedi, ammanettano il professore. Anche se molti non credono affatto alla sua colpevolezza. Il giornalista Gian Joseph Morici è certo che si trattasse di un depistaggio. Ha letto tutte le carte dei suoi processi, negli anni.

“E ce lo dice Paolo Borsellino nel 1991 quando ci dice che Spatola non può essere uomo di Cosa Nostra, in quanto figlio di sbirro. Vaccarino era figlio di un poliziotto, fratello di un Carabiniere e genero di un agente della Guardia di Finanza. Non aveva certo un pedigree da mafioso”. Ma c’è un fatto inoppugnabile, su tutto: le sue attività consentirono di localizzare e arrestare Salvatore Messina Denaro. Purtroppo, la Procura di Palermo smise presto di credere al professore. Allontanati gli investigatori del Sisde, si iniziò a minare la credibilità di Vaccarino. Che malgrado la tarda età fu tenuto in carcere e messo ai domiciliari giusto in tempo perché il covid potesse portarselo via. Muore il 21 maggio 2021. Insieme con lui, si cerca di seppellire i segreti indicibili di questa storia.

I Ros ad un passo dalla cattura. Mancato arresto di Messina Denaro del 2006, il boss braccato da Mori fu ‘salvato’ da Pignatone e Scarpinato. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 27 Gennaio 2023

Ieri Il Riformista ha squadernato un indicibile segreto. Confermato da tre fonti diverse – tutti e tre addetti ai lavori e testimoni dei fatti – rimasto privo di smentite. Abbiamo appurato di come il Sisde guidò una operazione di infiltrazione molto particolare: l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonio Vaccarino, intraprese tra il 2003 e il 2006 una fitta corrispondenza sotto copertura con Matteo Messina Denaro, promettendogli una rete di attività per riciclare denaro e reinvestirlo con grandi operazioni finanziarie. Promesse che fecero gola al boss.

A tal punto da farlo cadere nella trappola orchestrata e ricavarne una miniera di informazioni. Una operazione guidata dal Sisde, e in particolare dal generale dell’Arma, Mario Mori – che nel 1990 aveva dato vita al Ros dei Carabinieri – e dal colonnello Giuseppe De Donno, del cui successo è sugello il pizzino trovato in casa di Bernardo Provenzano dopo l’arresto del 2006. In quel documento straordinario Messina Denaro confidava a Provenzano di essere entrato in contatto con una persona di cui fidarsi, a cui dare accesso ai forzieri del tesoro nascosto di Cosa Nostra. E Provenzano, indotto dall’infallibile intuito della “Primula rossa”, acconsente a dargli accesso.

Fatti non di poco conto: gli investigatori stanno per fare bingo. Ma ecco che arriva lo scontro tra poteri, sul quale duellano giurisdizioni, procure, forze dell’ordine. Quando la polizia intercetta uno dei messaggi e assume che Vaccarino stia agendo su mandato di Messina Denaro, fa per arrestare il professore di Castelvetrano. Arresto che, bruciando Vaccarino, segnerebbe la fine dell’operazione: Mori per scongiurare questa ipotesi vola ad incontrare il capo della Polizia, il prefetto De Gennaro, e gli illustra i dettagli dell’operazione, lasciando incredulo l’interlocutore. Davvero i Carabinieri hanno messo in pista un infiltrato capace di arrivare al cuore del potere del latitante più ricercato? «Eravamo entrati nella cabina di regia di Cosa Nostra, stavamo per avere accesso ai conti, ai flussi di cassa, alle riserve nascoste», rivela al Riformista l’ex agente del Sisde. De Gennaro mette al corrente la Procura di Palermo, di cui è reggente il dottor Giuseppe Pignatone, che insieme con l’aggiunto Scarpinato, va su tutte le furie.

A questo punto dobbiamo fare un passo indietro: Mori ha assunto sin dall’inizio degli anni Novanta la guida del “I reparto” del Ros, quello con competenza sulla criminalità organizzata. L’esperienza maturata nei quattro anni che aveva già trascorso a Palermo si rivela fondamentale e le indagini proseguono con nuovo impulso, sempre orientate, come indirizzo strategico, verso il settore economico-imprenditoriale. Ne deriva così anche un’articolata informativa che, curata dall’allora capitano Giuseppe De Donno, viene consegnata, il 20 febbraio del 1992, alla procura di Palermo. La specifica indagine, divenuta nota come “Mafia e appalti”, viene sostenuta sin dall’inizio da Giovanni Falcone e, dopo la sua morte, da Paolo Borsellino che la considera non solo un salto di qualità nella lotta a “Cosa nostra”, ma anche e soprattutto la causa scatenante della strage di Capaci.

Dopo la morte di Borsellino, il filone non godrà più della stessa attenzione. E quando i Ros di Mori il 15 gennaio 1993 arrestano Totò Riina, il trattamento che la Procura riserva loro non è proprio da eroi. Mori e De Caprio verranno processati con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa nostra, non per la mancata perquisizione dell’abitazione di Riina dopo il suo l’arresto, come i più ritengono, ma per avere omesso di informare la Procura di Palermo che il servizio di osservazione alla casa era stato sospeso. Il dibattimento si concluderà con l’assoluzione sancita dal Tribunale di Palermo perché “il fatto non costituisce reato”, con sentenza del 20 febbraio 2006, non appellata dalla Procura della Repubblica di Palermo. Ecco che la storia forma un intreccio di accordi e disaccordi, informazioni date e saltate, comunicazioni interrotte, autorizzazioni equivoche. A Mori verranno mosse altre guerre, tra cui l’ultima: il 24 luglio 2012 il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i sostituti Antonino Di Matteo, Lia Sava e Francesco Del Bene, in riferimento all’indagine sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, firmano la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di Mario Mori e di altri undici indagati.

L’esito è un altro punto a favore del generale: assolto in fase di Appello il 22 luglio 2019. Peccato che l’operazione più coraggiosa tra quelle seguite da Mori, quella con il professor Vaccarino, si sia conclusa con così poca riconoscenza per il suo protagonista. Che aveva messo in fila tanti elementi utili, preziosi, a rileggerli oggi. Tanto che lo strascico degli arresti dovuti alle rivelazioni di quei suoi pizzini contraccambiati si protrarrà fino al 2019. La figura di Tumbarello torna più volte nella costruzione della rete ordita da Vaccarino per avvicinare Messina Denaro, forse quando la Procura riceve gli atti di indagine commette un errore di involontaria sottovalutazione. Non sappiamo. Quel che sappiamo è che Alfonso Tumbarello nell’operazione di Vaccarino è centrale; viene prescelto da Vaccarino, che pure aveva il contatto diretto di Salvatore Messina Denaro, fratello del boss. Decide di far transitare tutto per le mani di Tumbarello.

Perché? «Perché lo ritiene di spessore mafioso importante, è evidente. Tumbarello è il miglior garante per arrivare alla Primula rossa», è la deduzione che fa il direttore de La Valle dei Templi, Gian Joseph Morici. «Non avrebbe avuto bisogno di lui, invece gli sottopone tutti i messaggi, chiedendo di instradarli verso il più ricercato dei latitanti per canali riservatissimi a cui Tumbarello aveva accesso». Nella dinamica di Cosa Nostra, è il rispetto di un iter procedurale. Il riconoscimento di un ruolo gerarchico. Elementi, questi, che vennero messi nero su bianco davanti a Pignatone e a Scarpinato. «Però, chissà perché, la Procura di Palermo ha deciso di focalizzare l’attenzione sulle logge massoniche».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Renzi: “Scarpinato ha fatto carriera su una Trattativa che non c’era”. Il duello in Senato tra il leader di Italia Viva e l’ex pm. Che replica: “Il 41bis fu una vittoria dello Stato e della società civile”. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 2 febbraio 2023.

Un Matteo Renzi scatenato quello che ieri si è scontrato all’arma bianca con l’ex pm Roberto Scarpinato oggi senatore del Movimento Cinque stelle.

Il botta e risposta tra i banchi di Palazzo Madama è stato infatti particolarmente rude. Il leader di Italia viva intervenendo in risposta all’informativa di via Arenula sul caso Cospito ha voluto ricordare il ruolo decisivo svolto dalla politica nella lotta a Cosa nostra dopo l’omicidio di Giovanni Falcone: «È lì che nasce il 41 bis per tentare di distruggere la Mafia, cosa che oggi sta avvenendo». Poi la stoccata senza possibilità di equivoco: «La stiamo battendo alla faccia di tutti quelli che ci raccontano di fantasiose trattative smentite dalle sentenze della Cassazione e che permettono a qualche ex magistrato di fare carriera».

Inferocita la replica di Scarpinato che nell’agitazione battibecca con qualche collega facendosi richiamare all’ordine dal presidente La Russa: «Ci vuole una bella faccia tosta come quella del senatore Renzi per qualificare il 41-bis come una vittoria della politica. È stata una legge sporca del sangue di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della scorta e dell’indignazione popolare che costrinse un Parlamento riottoso a d approvarla. Fu una vittoria dello Stato e della società civile».

Il clima è rovente e Renzi riprende la parole con una controreplica al vetriolo, precisando che sì, si stava riferendo al senatore grillino nel suo primo intervento: «Ci terrei che venisse messo agli atti che effettivamente stavo parlando proprio di Scarpinato al quale vorrei ricordare che, prima di venire a dare della faccia tosta ai colleghi, dovrebbe spiegare non solo le sue strane frequentazioni con il dottor Palamara, ma anche il suo atteggiamento del tutto folle nei confronti del le istituzioni di questo paese come sa bene il presidente emerito Giorgio Napolitano, ecco Scarpinato si dovrebbe vergognare».

Lo scontro a palazzo Madama. Renzi-Scarpinato, duello in Senato: “Vergognati, qui grazie alla ‘trattativa'”, “Ignorante, dove sono finito?” Redazione su Il Riformista l’1 Febbraio 2023.

Un botta e risposta che ha infiammato il dibattito in Senato dopo le comunicazioni di Nordio sul caso Cospito. Il 41bis, ma non solo, al centro dello scontro tra l’ex pm Roberto Scarpinato e il leader di Italia Viva Matteo Renzi. Urla, accuse, offese, poi il colpo di coda dell’ex premier che allo scadere della seduta di palazzo Madama chiede la parola ‘per fatto personale’ e demolisce la tesi del senatore del Movimento 5 Stelle.

Nel corso del suo primo intervento, Renzi aveva sottolineato di credere “che il 41 bis abbia salvato il Paese e credo che il 41bis dovrebbe renderci orgogliosi, perché è la politica che ha sconfitto la mafia. L’ha sconfitta quando il ministro Martinazzoli ha costruito l’aula bunker, e quando mentre altri giudici attaccavano Falcone, il ministro Martelli lo ha chiamato a Roma al ministero, ed è allora che nasce il 41 bis. Alla faccia  – qui la stoccata a Scarpinato – di chi ci dice fantasiose affermazioni di trattative, che permettono a qualcuno di entrare in Parlamento”.

Passano pochi minuti, e dopo l’intervento di un altro senatore, ecco arrivare la replica stizzita dell’ex procuratore generale di Palermo: “Ci vuole una faccia tosta come quella di Renzi per cambiare la storia”. Parole che hanno provocato i commenti dello stesso Renzi e dei parlamentari di Italia Viva con Scarpinato che, rivolgendosi alla presidenza, ha urlato “Mi faccia parlare“, chiedendo poi di poter recuperare il tempo d’intervento perso durante il battibecco.

“Il 41 bis – ha proseguito- è una legge sporca di sangue. La legge è nata col sangue di Borsellino e gli uomini della sua scorta, una strage, che ha costretto il Parlamento riottoso a fare il 41 bis, non fu vittoria della politica ma dello Stato e della società civile. E’ una legge sporca di sangue che non si può definire vittoria della politica”.

Passano altri, pochi, minuti prima del colpo di coda finale di Renzi che va giù duro: “Scarpinato ha iniziato il suo discorso dandomi della faccia tosta perché si è sentito chiamato in causa dal mio passaggio sui magistrati che in nome di una fantomatica trattativa smentita da una sentenza della Corte di Cassazione hanno costruito una carriera in magistratura prima e in politica poi – ha spiegato il leader di Iv –. Vorrei che restasse agli atti che effettivamente mi riferivo esattamente a Roberto Scarpinato al quale vorrei ricordare che prima di venire a dare faccia tosta ai colleghi dovrebbe spiegare non solo le sue strane frequentazioni col dotto Palamara ma anche il suo atteggiamento del tutto folle nei confronti delle istituzioni di questo paese, come sa il presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano. Per me Scarpinato si deve vergognare”.

Due a uno? In Senato sì ma all’uscita ecco arrivare l’ulteriore replica di Scarpinato che accusa Renzi di essere disinformato e ignorante: “In primo luogo ha affermato che la Cassazione ha annullato la sentenza della trattativa ma la Cassazione non si è ancora pronunziata, quindi dimostra un’ignoranza basilare dei fatti. In secondo luogo, la sentenza di appello ha confermato che la trattativa c’è stata e che ci sono state una serie di gravissime deviazioni istituzionali degli imputati. Terzo, ha affermato che io avrei avuto frequentazioni con Palamara: se c’è un magistrato in Italia che non ha avuto frequentazioni con Palamara sono io e questo risulta da tutti gli atti di indagine dove non c’è una sola chat, tra le milioni di chat di Palamara, che attesti una mia conversazione con lui. L’unico caso in cui parla di me, ne parla malissimo, cosa di cui sono orgoglioso”.

“Ha poi fatto riferimento al consigliere giuridico di Napolitano, D’Ambrosio, il quale è stato intercettato mentre parlava con l’onorevole Mancino nell’ambito del processo sulla trattativa, non entro nel merito della telefonata ma è un’altra citazione a sproposito perché allora lavoravo in un altro ufficio e non sono stato io a disporre questa intercettazione. Ci fosse una sola di queste affermazioni che sia ancorata a un dato reale, lui parla a ruota libera. Venendo in Parlamento, pensavo che un parlamentare prima di parlare quanto meno si informasse, ma affermare che la Cassazione ha annullato la sentenza della trattativa quando tutti gli italiani sanno che ancora non si è pronunciata, veramente c’è da chiedersi ma dove sono finito?“, conclude Scarpinato.

Estratto da leggo.it il 25 Gennaio 2023.

[...] Il superlatitante di Castelvetrano avrebbe potuto essere arrestato nel 2012. Il tg satirico di Canale 5 ha intervistato l'ex dirigente generale della polizia di Stato, Antonio del Greco, che avrebbe rivelato in esclusiva a Jimmy Ghione che l'arresto poteva avvenire già 11 anni fa.

 «Nel 2012 sono entrato in contatto con una fonte che sosteneva di avere informazioni su Messina Denaro - racconta del Greco -. A mio modo di vedere quelle informazioni erano molto verosimili. Tra le altre cose, la fonte rivelò che alcuni agenti di polizia impiegati nella ricerca del boss di Cosa Nostra soggiornavano, a loro insaputa, in alberghi la cui proprietà era riconducibile al boss di Castelvetrano. Che in quelle occasioni, annusando il pericolo, prendeva un motoscafo e fuggiva in Tunisia, in attesa di tornare in Sicilia».

Eppure, nonostante del Greco avesse informato ufficialmente la sua direzione centrale con un rapporto dettagliato con nomi e luoghi, che sarebbe dovuto arrivare agli organi inquirenti, non successe nulla.  [...]

HA LASCIATO TRACCE PER FARSI TROVARE”. Da lapresse.it il 25 Gennaio 2023.

Matteo Messina Denaro sapeva che sarebbe stato arrestato, almeno secondo l’idea che si è fatto il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura. Ex reggente della cosca ‘ndranghetista dei Vrenna-Bonaventura che comandava su tutta la zona del Crotonese, nel 2006 ha deciso di cambiare la vita che lui sostiene gli “era stata imposta”, e da allora vive, pentito, nascosto sotto protezione.

 Oggi parla ai microfoni di LaPresse dell’arresto del boss trapanese: “Penso che si sia arreso due anni e mezzo fa, ha cominciato a lasciare tracce fino a quando non si è fatto trovare”, afferma Bonaventura.

E’ convinto che Messina Denaro abbia scelto di farsi trovare. “Qualcosa è cominciato a trapelare quando lui ha cominciato a lasciare le tracce come Pollicino. Io penso che si sia arreso due anni e mezzo fa”. E tutto quello che ora gli inquirenti trovano è “quello che lui voleva si sapesse”, prosegue Bonaventura.

 “Lui sapeva che quel giorno sarebbe stato catturato. Quello che è stato trovato nei suoi covi lo ha messo lui  perché sapeva che sarebbero entrate le telecamere. I poster di Scarface, Jocker? Erano dei messaggi chiari. Sta facendo del marketing per dire all’esterno che è ancora vivo”, racconta ancora il collaboratore di giustizia. 

Lui, la mafia siciliana, soprattutto quella trapanese e palermitana, dice di conoscerla bene: suo nonno era Luigi Verna, detto U’Zirru, capobastone negli anni ’70 al pari dei Piromalli e dei Macrì, amico intimo di Nitto Santapaola. “Con loro – spiega – ci sono stati sempre legami molto stretti”. Il collaboratore di giustizia parla anche delle intercettazioni: “Sono gli strumenti più potenti in assoluto che la magistratura e gli inquirenti hanno a disposizione assieme ai collaboratori di giustizia”, dice. 

“Le intercettazioni sono importantissime  – dice – perché hanno fatto partire tante indagini che altrimenti non sarebbero mai partite”. “Devono essere a tutto tondo – spiega ancora Bonaventura – perché il boss non lo freghi, è difficile che lo intercetti, ma servono per prendere chi pensa di essere intoccabile o magari è inesperto”. “I capi mafia fanno una vita da buddista, non usano il telefono, non usano i social, non usano niente. Comunicano con poche parole e al momento giusto con le persone giuste”, continua il collaboratore calabrese. E proprio per questo Messina Denaro ha – a suo parere – voluto farsi trovare. 

Luigi dal 2006 si batte in decine di processi e con tante iniziative sociali contro la ‘ndrangheta, per fare questo mette a rischio ogni giorno la sua vita e quella dei suoi famigliari, per questo lancia un monito: “Il giorno dell’arresto di Messina Denaro si è parlato troppo facilmente, forse anche in buona fede, di vittoria. Questa non è una vittoria, perché altrimenti passa il messaggio che il tempo della mafia è finito”. Anche l’idea di fare diventare il giorno dell’arresto una “giornata nazionale contro la mafia”, la ritiene sbagliata. “E’ come il 25 aprile, la giornata della Liberazione, ma quella fu veramente una liberazione dal nazifascismo, la mafia, invece, oggi è ancora viva”, conclude. 

Scarpinato deluso dall’arresto di Messina Denaro si inventa una nuova trattativa. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 24 Gennaio 2023

È la Nuova Trattativa secondo il senatore Roberto Scarpinato. Lo ha detto a La7, lo ha ripetuto su Repubblica. Matteo Messina Denaro si è fatto prendere, si è consegnato dopo essere stato protetto a livello altissimo per trent’anni. In cambio di che cosa? Dell’abolizione del 41 bis. Chissà perché nessuno ci ha pensato prima, magari lo stesso procuratore Scarpinato, che ha inseguito colui che chiamava, come ci rivela oggi, “Diabolik”, e che ha fallito nel suo compito. Sarebbe dunque bastato promettere un alleggerimento delle condizioni di detenzione e il Capo incontrastato di Cosa Nostra, il numero uno dei corleonesi cui vengono attribuite tutte le stragi degli anni novanta avrebbe deposto le armi?

Certo che il dottor Scarpinato, pur nella sua nuova veste di senatore, è proprio uno che non si arrende. Ha contribuito al primo processo Trattativa, evaporato nel nulla proprio nell’appello in cui lui rivestiva il ruolo dell’accusa. E oggi alza il tiro, perché è incontestabile il fatto che l’arresto di Matteo Messina Denaro metta medaglie sul petto non solo ai valorosi uomini del Ros, l’organismo messo in piedi da quel generale Mori che è stato assolto, ma indubbiamente anche della procura della repubblica di Palermo e dal suo capo Maurizio De Lucia, che ha coordinato le indagini. Cose che bruciano. Così ci si fa storiografi.

La storia del fallimento di indagini e pedinamenti che non è solo la storia delle difficoltà nel trovare l’ultimo latitante, ma anche i precedenti capi dei corleonesi, cioè Totò Riina e Bernardo Provenzano, è ricostruita con l’espediente di attribuire sempre la responsabilità a qualcun altro. Prima di tutto questi boss, si dice, sono stati protetti, aiutati, ma non tanto da mafiosi e complici locali, quanto da burattinai ad “altissimo livello”. Non mancano responsabilità di forze dell’ordine e apparati dei servizi, perché ogni pedinamento finiva in nulla, e Diabolik sgusciava via come un’anguilla sempre un attimo prima dell’arresto, come se fosse stato avvertito da qualcuno. Il che non è difficile da credere, dal momento che tutti i grandi latitanti hanno finito per essere arrestati vicino a casa, cioè nel luogo di maggior protezione sociale, dove, un po’ per antica fratellanza e un po’ per paura, non era facile denunciare. Indipendentemente dall’esistenza dei “livelli altissimi”, cui Giovanni Falcone non ha mai creduto e che comunque non sono mai stati individuati, nonostante i tanti tentativi, finiti sempre con la richiesta di archiviazione da parte della stessa procura che li aveva istruiti.

Ma quale sarebbe il motivo di questa protezione per un periodo così lungo? Neanche la più sfrenata fantasia potrebbe indurre qualcuno a ritenere che dal 1993, anno delle ultime bombe, a oggi, governi di ogni tendenza politica e capi di Stato siano stati, tutti insieme, complici di questo Grande Complotto di sostegno alla mafia. Anche perché nel frattempo, con strafalcioni e depistaggi, come quello su Scarantino nelle indagini sulla strage di via D’Amelio, gli esecutori delle bombe venivano individuati, processati e condannati. E ai capi venivano attribuiti in blocco, nella veste di mandanti, tutti gli attentati. La verità processuale, con errori e gravissimi svarioni, è stata comunque raggiunta. Ma lo storiografo non si accontenta. Ed ecco come è la ricostruzione del senatore-procuratore Scarpinato. Matteo Messina Denaro è stato protetto perché conosce, insieme a pochi altri, che comunque sono già in carcere, la “verità” sulle stragi.

Quale verità? Credevamo di conoscerla. Oppure i giudici delle corti d’assise che hanno emesso le sentenze di condanna per gli attentati e le bombe, a partire da quella di Capaci, hanno preso lucciole per lanterne? No, spiega lo storiografo, perché i mafiosi condannati sarebbero stati solo il braccio armato e oggi sarebbero delle vittime, dei capri espiatori. Usati da coloro che avevano attuato la strategia della tensione che “a Palermo, Firenze, Milano e Roma, hanno utilizzato il linguaggio cifrato delle bombe per pilotare la transizione dalla Prima alla Seconda repubblica in modo indolore”. “Indolore”? Con le bombe e i morti? Fa una certa impressione sentire questo ragionamento politico sulla bocca di chi fino a poco tempo fa maneggiava su questi argomenti le carte giudiziarie e i processi. Certo che in questo modo si spazzano via anni e anni di inchieste giudiziarie che trattavano di narcotraffico, usura, estorsioni, incendi e omicidi. Tutto era dunque finalizzato a quel passaggio “indolore” dalla Prima alla Seconda repubblica? Tutti agli ordini di Silvio Berlusconi, e anche di tutto quanto il ceto politico di centrodestra, ma anche di sinistra, vista l’alternanza di governo che c’è stata in questi trent’anni? Poiché l’inchiesta, che vede in effetti il leader di Forza Italia indagato insieme a Marcello Dell’Utri a Firenze per le bombe del 1993, è destinata a finire come le precedenti quattro, cioè archiviata, il problema oggi non è certo di tipo giudiziario.

Ormai, con l’ingresso nei gruppi del Movimento cinque stelle di due alti magistrati come Scarpinato e Cafiero de Raho che stanno già dicendo che con il governo Meloni “la mafia è stata cancellata dall’agenda politica”, è un po’ come se il Parlamento fosse diventato una grande procura siciliana. E tutto viene vissuto, come ha detto lo stesso ministro Nordio, in chiave “antimafia”. Si è partiti addirittura, in modo veramente specioso, con la riforma Cartabia. Approvata dal Parlamento, poi rinviata la sua entrata in vigore di due mesi su richiesta dei procuratori generali, infine bersagliata di critiche come se fosse finalizzata a far scarcerare i mafiosi, solo per la previsione di ampliamento del numero di reati perseguibili a querela. Ora siamo alle intercettazioni. Anche queste vissute in chiave “antimafia” con relative colpevolizzazioni, da cui speriamo non solo il ministro Nordio, ma soprattutto la premier Giorgia Meloni sappiano sottrarsi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Stato-mafia: ecco perché non regge la teoria dell’ergastolo ostativo come merce di scambio. Rispunta lo spettro della trattativa per la cattura di Matteo Messina Denaro. Una spada di Damocle per fermare qualsiasi cambiamento. Per sfatare tale tesi, basta riportare i fatti e non le opinioni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 23 gennaio 2023

Su queste stesse pagine si è sempre detto che il complottismo è funzionale allo Stato di Polizia. Il teorema trattativa è diventata, di fatto, una spada di Damocle per qualsiasi governo. Sia per quello più “illuminato” che vorrebbe, per quanto riguarda il sistema penitenziario, essere più aderente possibile ai dettami della nostra Costituzione, sia per quello più conservatore come l’attuale che, nonostante abbia approvato la riforma dell’ergastolo ostativo pieno di paletti non cogliendo appieno le indicazioni della Consulta, viene nemmeno troppo velatamente accusato di aver varato tale riforma come merce di scambio per la cattura di Matteo Messina Denaro.

Eppure basterebbe riportare i fatti. Se la preclusione assoluta ai benefici per una determinata tipologia di ergastolani è stata messa in discussione, il merito non va ai non meglio specificati connubi tra mafie e apparati deviati dello Stato, ma ai magistrati di sorveglianza – compresi i giudici della Cassazione - che sollevarono problemi di incostituzionalità alla Consulta. A loro volta i “giudici delle leggi” hanno dapprima sentenziato l’incostituzionalità della preclusione assoluta dei permessi premio (poche ore di libertà l’anno) e poi hanno “ordinato” al Parlamento di varare una riforma per togliere la preclusione assoluta della liberazione condizionale.

Tutto qui. La semplice verità. A meno che non si arrivi a pensare che i magistrati di sorveglianza, quelli della Corte Suprema e quelli della Consulta siano attigui alla mafia. Non solo. Seguendo questo ragionamento, sarebbero contaminati dai tentacoli mafiosi anche i giudici della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, visto che, attraverso la sentenza Viola, hanno condannato il nostro Paese per tale preclusione assoluta.

La riforma dell’ergastolo ostativo, quindi, è stata varata perché obbligati da una sentenza. Così come, nel 1993, l’allora ministro della Giustizia, Giovanni Conso, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale, era “obbligato” a valutare caso per caso i detenuti al 41 bis. Per questo non ha prorogato il carcere duro per circa 300 ristretti. Tutti mafiosi? I fatti – ben evidenziati nella sentenza d’appello relativa all’assoluzione dell'ex ministro Calogero Mannino – ci dicono che tra i detenuti non sottoposti al rinnovo del 41bis, soltanto 18 appartenevano alla mafia. Non solo. A sette di loro, peraltro, nel giro di poco tempo, dopo un ulteriore valutazione, è stato nuovamente riapplicato. Ma erano boss di calibro i pochi mafiosi ai quali non è stato rinnovato il 41bis? Assolutamente no. Dalle carte risulta che né dalla Procura di Palermo e né dalle forze dell'ordine, era stato evidenziato uno spessore criminale di particolare rilievo di taluno di loro.

Ma ritorniamo all’ergastolo ostativo. Chiarito che tale riforma è stata obbligatoria, bisogna entrare nel merito. È mancato un generale ripensamento dell’attuale disciplina della concessione dei benefici ai condannati per una serie del tutto eterogenea e illogica di reati anche ben distanti da qualsiasi matrice organizzata, mafiosa o terroristica. Nel decreto c’è anche un inutile aggravamento di tale disciplina: è stata infatti abolita la concedibilità dei benefici nei casi di collaborazione inutile o irrilevante, così da impedire un trattamento adeguato per chi non abbia collaborato perché non ha potuto farlo, stante la sua limitata partecipazione al fatto criminoso o per l’ormai intervenuto integrale accertamento delle circostanze e delle responsabilità ad esso connesse. Altro inasprimento della riforma è l’aumento da ventisei a trent’anni della pena da scontare prima di poter presentare l’istanza di liberazione condizionale. Anche questa è una misura inutilmente punitiva, che disattende la direzione auspicata dalla Consulta. Ma evidentemente non basta. Lo spettro della trattativa aleggia ancora. Per poter assecondare tale congettura, l’unica strada che rimane è abolire l’articolo 27 della Costituzione italiana. Ancora altre rivelazioni prive di riscontro nelle trasmissioni in prima serata e il passo sarà breve.

Il caso Dalla Chiesa insegna; nella lotta alla mafia mai abbassare la guardia. È stata notata la coincidenza per la quale Matteo Messina Denaro è stato arrestato proprio nei giorni in cui cadeva l’anniversario della nascita di Paolo Borsellino. C’è però un’altra coincidenza, per alcuni versi forse ancor più significativa, che dev’essere evidenziata. Gaetano Quagliariello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Gennaio 2023

È stata notata la coincidenza per la quale Matteo Messina Denaro è stato arrestato proprio nei giorni in cui cadeva l’anniversario della nascita di Paolo Borsellino. C’è però un’altra coincidenza, per alcuni versi forse ancor più significativa, che dev’essere evidenziata.

In questi stessi giorni è stata trasmessa sulle reti della televisione di Stato una fiction dedicata a un’altra vittima illustre della mafia, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. La ricostruzione che essa propone ci ricorda, tra l’altro, che il «metodo Dalla Chiesa» nella lotta all’eversione (quello a cui ha fatto esplicito riferimento chi ha catturato Messina Denaro) fu sperimentato per la prima volta all’inizio degli anni Settanta per combattere il fenomeno allora nascente delle Brigate Rosse.

Nel 1974, però, quel tentativo lo si volle inopinatamente interrompere. Al Generale furono assegnate nuove funzioni e così le Brigate Rosse potettero riprendere fiato, con tutto ciò che ne conseguì.

La storia non si fa né con i «se» né con i «ma»; per questo resta solo un’ipotesi che nel caso in cui a Dalla Chiesa e ai suoi uomini fosse stata concessa la possibilità di proseguire nell’azione intrapresa, l’Italia non avrebbe conosciuto uno dei suoi maggiori traumi: quello del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro. Invece, è un fatto incontrovertibile che rimuovere Dalla Chiesa da quell’incarico fu un errore, al quale tardivamente si provò a riparare.

Nei giorni della cattura di Matteo Messina Denaro, alla luce di quel precedente, vogliamo seguire lo stesso criterio: attenerci unicamente ai fatti, senza perderci in ipotesi, dietrologie, sospetti. E i fatti, per l’essenziale, ad oggi sono questi:

1) lo Stato con la cattura del latitante ha conseguito un eccezionale successo. Quando nel 2016 i Pubblici Ministeri Sava e Paci chiesero e ottennero il rinvio a giudizio nei confronti di Matteo Messina Denaro per le stragi di Capaci e di Via D’Amelio, quell’uomo era fatto di nebbia: niente più che un fantasma. Nei giorni scorsi per quel processo si è svolta un’udienza e il «grande imputato» non si è potuto presentare in aula. Egli , però, oggi non è più un fantasma ma una persona in carne ed ossa, certamente malato ma che, assicurato alla giustizia, potrà essere interrogato, si potrà difendere e, a tempo debito, potrà essere condannato in un regolare processo.

2) Un altro fatto è che presto la mafia, che ha regole che non ammettono deroghe, avrà un altro capo. Messina Denaro è stato colui il quale ha portato alle estreme conseguenze il mutamento genetico dell’organizzazione iniziato da Bernardo Provenzano. Questo cambiamento ha spinto la mafia a perdere ogni sostanza identitaria, circostanza che però le ha consentito di approdare nei territori della modernità: quelli che hanno a che fare con l’imprenditoria, il trasferimento dei capitali, la digitalizzazione. Questo spiega, tra l’altro, perché il suo consenso diffuso sia drammaticamente crollato: se, in occasione dell’arresto del boss, è giusto ricordare le connivenze e le connessioni con la società civile di cui lui ha sicuramente potuto godere in trent’anni di latitanza, non bisognerebbe dimenticare come anche in Sicilia si stia sviluppando un sentimento di ostilità nei confronti del fenomeno mafioso palesatosi, tra l’altro, negli applausi ai Carabinieri quando è avvenuto l’arresto.

3) Va a questo punto considerato un ultimo fatto, forse il più importante. La nuova mafia, per le caratteristiche che Matteo Denaro gli ha impresso, è molto più indefinita, sfuggente, difficile da combattere. È assai probabile che anche chi la guiderà dopo di lui vorrà proseguire lungo lo stesso percorso. Un successo è stato certamente conseguito ma considerarlo definitivo potrebbe rivelarsi un errore fatale.

Serva da lezione e da ammonimento quello che accadde al Generale Dalla Chiesa: invece di provare a sminuire e a dubitare dei risultati e dei successi conseguiti , la politica, senza distinzioni di parte, sappia assicurare ai servitori dello Stato gli strumenti e i mezzi per andare avanti. Sia vietato, questa volta, abbassare la guardia.

Abbiamo bisogno di eroi, ma parliamo di Dalla Chiesa e non di Messina Denaro. Soprattutto il cinema, specie americano, ha creato delle narrazioni così belle ed efficaci che sono diventate esse stesse le vere epopee degli eroi. Bianca Tragni su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Gennaio 2023.

«Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi». Questa famosa frase di Bertolt Brecht è stata talmente usata e abusata che ha perso ogni senso e significato. Perché invece tutti i popoli, nella loro storia, hanno avuto bisogno di eroi. E li hanno riconosciuti, celebrati, osannati; con monumenti, letteratura, arte, cinema. Soprattutto il cinema, specie americano, ha creato delle narrazioni così belle ed efficaci che sono diventate esse stesse le vere epopee degli eroi. Basti pensare all’epopea del Far West coi suoi protagonisti, da Buffalo Bill a Toro Seduto; o a quella delle guerre mondiali, coi vari soldati Ryan e così via.

L’Italia invece non ha mai creato epopee cinematografiche dei suoi eroi, che fossero garibaldini dell’Ottocento o soldati del Novecento. Non che non ci sia una letteratura del Risorgimento o della Resistenza. Ma il cinema no, ha fatto poco o nulla per incidere sull’immaginario collettivo. Ci vien fatto di rifletterci dopo aver visto la fiction Rai sul generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Lavoro ottimo, capace di farci entrare nei meccanismi più segreti della lotta alla criminalità, del genio organizzativo del Generale, della dedizione perinde ac cadaver dei suoi uomini. Un racconto capace di toccare le corde più profonde del cuore, dell’emozione, della compassione. E anche dell’orgoglio di avere da noi in Italia, e non nel Far West, simili eroi. Riflessioni rafforzate dalla recente cattura del criminale dei criminali, quel Messina Denaro che si vantava di aver creato un cimitero di morti ammazzati da lui.

Ebbene perché il cinema italiano non se ne impossessa per creare un vero filone di film e racconti tesi a celebrare ed esaltare gli oscuri eroi dei Carabinieri, della Polizia e di tutte le forze dell’ordine e della magistratura, che in settant’anni di repubblica democratica hanno dato e stanno dando il meglio di sé per difenderla? E con lei la nostra libertà, la nostra sicurezza, i nostri valori? Dovevamo aspettare la cattura di Messina Denaro per apprendere che le nostre Forze dell’Ordine sono una eccellenza italiana, riconosciuta non solo dai nostri operatori della Giustizia, ma anche da quelli stranieri, da quell’estero che riteniamo sempre superiore alla nostra bistrattata Italietta. Perché ci accontentiamo di esaltare le nostre eccellenze gastronomiche (il parmigiano, la pizza…), o del fashion (gli stilisti, i creatori di moda), o delle grandi dive (Gina Lollobrigida, Sofia Loren…), e non ci curiamo di chi ha grandi virtù civili, tanto da rischiare la vita nel suo lavoro quotidiano? Ai morti ammazzati dalla mafia/ndrangheta/camorra noi riserviamo al massimo l’intitolazione di una strada o di una piazza; qualche libro di approfondimento di un esperto giornalista o scrittore e nient’altro. Ci sarà mai un italiano che esponga in casa il poster di Carlo Alberto Dalla Chiesa, come il capomafia esponeva il poster del Padrino? Già, il padrino, il bellissimo film con Marlon Brando… proprio perché bellissimo ha fatto un danno enorme alla coscienza civile; ha eroizzato gli assassini, li ha circondati dell’aureola del coraggio, quasi una laica santità. E invece i veri uomini sono quelli che li combattono. Perché ci vuole molto più coraggio e carattere e intelligenza per combatterla, questa gentaglia. La vera aureola la meriterebbero gli eroi della lotta alla mafia, come Dalla Chiesa, i suoi agenti, i poliziotti, i giudici ammazzati con ferocia belluina, altro che coraggio.

Solo l’eccidio di Falcone e Borsellino hanno suscitato più emozione e più narrazione rispetto a tutti gli altri nostri eroi. L’altro ieri sulla tomba di Falcone si è trovato un biglietto anonimo con su scritto «A Giovà, ci abbiamo messo trent’anni, ma ce l’abbiamo fatta!». Ecco, questo sentimento di orgoglio, di fierezza, di riscatto, umile perché anonimo, dovrebbe portare sugli schermi il nostro miglior cinema. E non solo personaggi fittizi di pura fantasia come il commissario Montalbano o la vicequestora Lolita Lobosco. Vogliamo persone vere, storie vere di «guardie e ladri» dove il furbo, il vincente, il «padrino» per l’appunto, non sia il solo eroe della storia, come tanto cinema sulla mafia ha fatto, di qua e di là dell’oceano. Vogliamo un’epopea italiana che finora non è stata fatta. Vogliamo l’epopea mancata dei nostri eroi.

Matteo Messina Denaro: i 10 dubbi sul suo arresto. Perché ci abbiamo messo trent'anni a prenderlo? Perché si vestiva così? Chi lo ha aiutato? Abbiamo rivolto 10 domande che tutti ci siamo fatti sull'arresto del boss latitante al giornalista Paolo Borrometi, esperto di mafia, che spiega: «È una vittoria dello Stato solo a una condizione…» DI SILVIA BOMBINO su Vanity Fair il 19 gennaio 2023.

Matteo Messina Denaro, l’ultimo «padrino» della mafia siciliana e uno dei criminali più ricercati al mondo, è stato arrestato a Palermo il 16 gennaio dopo trent’anni di latitanza. Era ricercato dal 1993. Dov’era? Da un anno, sotto il falso nome di Andrea Bonafede, si curava in una clinica privata della città, a soli 650 metri dalla sede della Direzione investigativa antimafia.

Un arresto che suscita diverse domande: come è possibile che vivesse in un «covo» accanto al suo Paese natio, Castelvetrano? Perché è stato arrestato ora e non prima, essendo in cura da un anno presso quella clinica? Abbiamo cercato di fare un po’ di chiarezza rivolgendo queste domande a Paolo Borrometi, vicedirettore di Agi, fondatore del sito LaSpia.it, giornalista esperto di mafia. 

1 Come è possibile che siano passati trent’anni?

«La latitanza di Bernardo Provenzano era durata 43 anni, ma si trattava di un’altra epoca. Con le tecnologie di oggi 30 anni pesano di più. Faccio solo un esempio: in Afghanistan Osama Bin Laden venne rintracciato grazie al calore del corpo che veniva individuato dai satelliti. Matteo Messina Denaro invece viveva, almeno nell’ultimo anno, in un paese di 11 mila abitanti. Questo ci deve fare riflettere, e pensare che sicuramente Messina Denaro ha avuto un’amplissima rete di supporto».

2 Si nascondeva in Sicilia: non si poteva arrestare prima?

«Restare sul territorio per un boss mafioso è mostrare potenza. Ma dobbiamo distinguere: non credo che in trent’anni sia sempre stato in Sicilia ma nell’ultimo anno sicuramente, ora che è molto malato». 

3 Chi lo ha aiutato?

«Non solo mafiosi e fiancheggiatori, non solo l’indifferenza e la complicità di una parte della comunità. Sicuramente era protetto ad altissimi livelli. Non è che in questi trent’anni non si sia fatto nulla: gli investigatori hanno sequestrato attività economiche riconducibili al boss, arrestato fiancheggiatori, parenti e anche persone scambiate per lui. Cito la dottoressa Principato, una pm che per tanti anni ha dato la caccia a Matteo Messina Denaro: lei dice che ogni volta che stavano per acciuffarlo succedeva qualcosa che magicamente lo allontanava e lo faceva fuggire. Per questo è probabile che avesse appoggi anche nei servizi. Sicuramente lo aveva in qualche pezzo “infedele” delle forze dell’ordine e nei politici locali, come hanno dimostrato anche da alcuni processi arrivati a sentenza».

4 Come è possibile che potesse usufruire di cure senza essere identificato?

«Faceva la vita di un’altra persona, Andrea Bonafede, a cui aveva “rubato l’identità”, codice fiscale, tessera sanitaria e carta d’identità, cambiando solo la fotografia. A Palermo è riuscito a camuffarsi. Adesso infatti è indagato il medico di base del paese in cui viveva, a Campobello di Mazara, che gli ha prescritto le cure per mesi e che non poteva non sapere la vera identità di Andrea Bonafede e quindi che le due persone erano diverse». 

5 Come è possibile che indossasse capi di lusso e non vivesse nascosto?

«Sicuramente ha mantenuto un buon stile di vita grazie a diverse persone che lo hanno sostenuto, ma era anche proprio lui che andava a fare acquisti: ci sono telecamere di un supermercato che lo mostrano sereno a fare la spesa. Rispetto a quello che sappiamo finora, conduceva una vita senza pensieri, si muoveva liberamente e aveva anche una tranquillità di spesa, di disporre di denaro, anche nel lusso. Come è possibile? È sempre il solito tema: in un paese di 11 mila persone ci si conosce, e lui era identico all’identikit diffuso dalla polizia, non si era fatto nessuna plastica facciale come avevano ipotizzato alcuni collaboratori di giustizia. Andava al bar e in pizzeria, dava la sensazione di non avere preoccupazioni, con uno stile di vita molto diverso da quello di Provenzano, che viveva recluso con i pizzini. Matteo Messina Denaro sapeva che non sarebbe stato riconosciuto, e se lo fosse stato, nessuno avrebbe parlato».

6 Sono stati bravi gli investigatori, si è fatto prendere o lo ha consegnato la mafia?

«La storia delle latitanze ci fa dire che la certezza su come avvengono certe catture non l’avremo mai, come è successo con Totò Riina. Io credo nel racconto dei carabinieri, che hanno spiegato come Messina Denaro sia stato trovato grazie alle intercettazioni e all’incrocio delle banche dati, ma - senza togliere importanza all’azione delle forze dell’ordine - come giornalista ho l’obbligo di pormi delle domande. Da qui a dire che lui si sia consegnato però il passo è enorme. Secondo fonti della polizia, Matteo Messina Denaro ha cercato di fuggire dalla clinica quando ha visto arrivare le forze dell’ordine, il che fa pensare che questa volta sia stato sorpreso. Che poi qualcuno, a Palermo, possa avere aiutato le indagini, è plausibile, è già successo in passato e non ci sarebbe nulla da obiettare. La certezza che abbiamo è che, questa volta, non è stato aiutato a scappare».

7 È una vittoria dello Stato anche se è avvenuta dopo trent’anni e non in un posto remoto?

«Dopo trent’anni si chiude una pagina, quella dei corleonesi, anche se Messina Denaro era di Castelvetrano ma era pupillo di Totò Riina. Penso che sia stato grave che in trent’anni non si sia fatto abbastanza per prenderlo - senza nulla togliere al grande lavoro che è stato compiuto dagli investigatori - penso però anche che capisco la felicità dei familiari dei vittime di mafia, che hanno gioito per il suo arresto. Penso inoltre che dopo la gioia, dobbiamo comprendere le verità di cui lui è certamente in possesso (lui e i fratelli Gavriano) sul periodo stragista. Se non lo facessimo, allora lì sì potremmo dire che l’arresto di Matteo Messina Denaro non è stato un successo dello Stato».

8 È una vittoria del governo?

«Il governo, di qualsiasi colore, non ha meriti diretti nella cattura di un latitante. Le forze di polizia dipendono dall’Autorità giudiziaria non dall’esecutivo. Non è mai merito di nessun governo, come non è un demerito il non fare arresti».

9 La premier Meloni rivendica il merito di aver difeso, nel suo primo decreto, l’ergastolo ostativo. È una misura efficace?

«Sull’ergastolo ostativo, misura per cui se sei un mafioso e non collabori non esco neanche dopo 30 anni, bisogna scindere la propaganda politica dalla difesa delle norme: penso che sarebbe gravissimo per il nostro Paese se si toccasse il «doppio binario» immaginato da Giovanni Falcone, ossia il 41 bis per i mafiosi, che taglia la comunicazione con l’esterno, e il 4 bis cioè l’ergastolo ostativo. Io plaudo il governo Meloni quanto qualunque governo che difenda questo impianto è da plaudere: è l’unica cosa che i governi possono fare. Non abbiamo sconfitto la mafia, abbiamo vinto una battaglia importante».

10 Perché Matteo Messina Denaro faceva i selfie?

«Quella è una delle cose più inspiegabili: quanti medici si fanno selfie con pazienti oncologici? Non dico che ci sia una collusione, per carità, però è senz’altro bizzarro. Ho avuto mio padre paziente oncologico e devo dire che in anni di frequentazione di quei reparti non ho mai visto nessuno fare selfie. In quella clinica ci andavano altri famosi, abbiamo visto, ad esempio, Totò Schillaci. Ecco, un selfie con Schillaci lo capisco, ma uno con Andrea Bonafede, malato di tumore al colon?».

Estratto dell'articolo di Giuseppe Legato per “la Stampa” il 20 Gennaio 2023.

[…] ma l'incredibile sequela di interrogativi che avvolge questa continua sparizione nel vento del più grande mafioso ricercato d'Italia. Perché spulciando tra gli atti dell'operazione conclusa lo scorso settembre con 35 arresti tra cui uomini di assoluta fiducia del reduce del triumvirato dei Corlenonesi non a caso indicati nelle intercettazioni come «quelli che appartengono a Messina Denaro», c'è una miniera di incontri fotografati e ripresi tra i boss, in testa Francesco Luppino (che non è parente dell'autista arrestato) uomo di (cieca) fiducia verso l'ex padrino. Le date: 20 ottobre 2019, 10 novembre, 10 dicembre, 21 dicembre, altri incontri figurano nell'anno successivo. Di "iddu" nessuna traccia. Non un fotogramma, non una ripresa che possa certificare – anche solo per compatibilità – un solo passaggio. Dettagli? Non proprio.

Perché i fatti, in un'indagine così complessa, vanno letti insieme e la diagnosi di tumore – che ha sicuramente influito sul ritorno definitivo nella provincia roccaforte del latitante – è stata statuita all'ospedale Abele Ajello di Mazara del Vallo (a nome Andrea Bonafede, of course). Prelievo dei tessuti il 17 novembre 2020, esito dell'esame istologico 24 novembre 2020: quasi due anni e mezzo fa, a sua volta compatibile col tempo trascorso dalla ristrutturazione del presunto bunker di Messina Denaro in via Maggiore Toselli. Ergo; la speranza di vederlo c'era, ma lui è rimasto un'ombra.

Come quella che aleggia su una strana coincidenza. Circa 6 anni fa gli investigatori che monitoravano uomini d'onore della provincia di Trapani legati mani e piedi al boss si convincono che c'è un pizzino che deve «tornare» a Mazara del Vallo proprio da lui, in persona. Telefoni intercettati, ambientali ovunque, ma il messaggio scritto non «torna indietro» prima di una decina di giorni. Esattamente la durata dello sciopero dei pescatori del luogo. Ed è lì che più di uno si fa l'idea che Messina Denaro possa essersi temporaneamente trovato in Tunisia. Ma il copione è stato identico per quando, in passato, si ebbe la sensazione forte che si trovasse all'estero: Inghilterra, Spagna, Sud America. Anche lì, ad ogni passo avanti, indietro tutta perché tornava fantasma. […]

L’arresto di Matteo Messina Denaro e le teorie complottiste: se è ovvio è falso. Angela Azzaro su Il Riformista il 20 Gennaio 2023.

Non è vero che l’abito non fa il monaco, diceva il semiologo francese Roland Barthes. L’abito, quindi ciò che appare, l’elemento di realtà sono elementi fondamentali se si vuole comprendere ciò che accade. Sempre più spesso, invece, nel giornalismo italiano si tende a negare l’evidenza e pur di affermare le teorie più assurde, i fatti passano in secondo piano. Fa più fico, fa più trendy e quindi siamo costretti a sentirne di tutti i colori.

Se questo accade per gli eventi più disparati (ormai non si salva quasi più nulla, anzi non si salva davvero nulla) il terreno privilegiato resta quello della mafia. Si sostituisce l’inchiesta con il complotto, la conoscenza con ricostruzioni che tendono a negare quello che è sotto gli occhi di tutti. Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai Ros? Sì, ma… e via alle narrazioni più bislacche. Anche questa semplice verità – la sua cattura da parte dei carabinieri – viene passata al setaccio delle proprie convinzioni, delle proprie certezze, dei propri sospetti anche se non verificati. Nasceva così anni fa la teoria sulla trattativa Stato-mafia che continua ad aleggiare come uno spettro impedendo di sapere che cosa sia accaduto in questi anni. Si vuole scoprire e si cela, si vuole andare a fondo e si nega ciò che è scontato.

È come se il giornalismo si trovasse davanti a un bivio, a un crinale. Nel suo Dna c’è la necessità ontologica di andare a fondo, di scoprire, di conoscere ciò che si nega. Ma questa tensione, più che giusta, doverosa, è stata sostituita dal complottismo, da ricostruzioni che perdono, via via, il legame con i fatti, con ciò che la realtà ci restituisce. Il confine è sottile, oscillante, a volte difficile da individuare. Ma per chi fa questo mestiere ci dovrebbe essere un lume guida da non abbandonare mai: l’abito del monaco, il segno, i fatti. Ma più ci si discosta da questo piano, più si rompe il filo, più queste teorie hanno successo, prendono piede, attecchiscono nelle convinzioni popolari. È un cane che si morde la coda: il complotto nutre il senso comune e dal senso comune trae a sua volta alimento, linfa vitale per non sparire. È una forma assoluta di irrazionalità, un atteggiamento che nega il rapporto causa-effetto e si affida al mistico, al religioso, al divino privato di spiritualità. In questi giorni nelle televisioni italiane hanno trionfato due eventi: la morte di Ratzinger e la cattura di Matteo Messina Denaro.

Il modo in cui questi fatti sono stati raccontati ci aiuta a capire quale sia il mood dominante. Il funerale di Benedetto XVI è diventato il trionfo di una cultura pagana, di una religione senza dio proprio nel momento in cui si diceva di volerlo celebrare, in cui si faceva finta di essere in sintonia con la fede. Invece in quelle immagini, in quel culto della personalità che abbiamo visto a reti unificate non c’era la fede, non c’era sicuramente la cultura del Concilio Vaticano Secondo. Si doveva andare a fondo, capire, aiutare a comprendere che cosa stesse accadendo. Si è preferito sussumere – quasi divorare – il lutto e il cordoglio nella società dello spettacolo: anche in questo caso gli elementi di realtà sono stati cancellati, storpiati e utilizzati per una narrazione falsificata, non aderente a ciò che Ratzinger ha fatto, ha rappresentato, ha teorizzato.

Si è per esempio teso a celare le sue posizioni profondamente reazionarie o il fatto che non fosse voluto andare a fondo contro la pedofilia nella chiesa o che comunque volesse una liturgia che stabilisse una distanza con il popolo. Il meccanismo è lo stesso che poi abbiamo visto in azione con l’arresto di Matteo Messina Denaro. La società dello spettacolo anche in questo caso sta vincendo su tutto. Guy Debord lo aveva capito già negli anni Sessanta quando sapeva che il conflitto capitale-lavoro sarebbe entrato dentro la dimensione dell’immaginario, del sistema mediatico. È in questa sfera, in questa trasformazione che ci colloca la “perdita di realtà”, quell’incapacità – riprendendo il titolo di un libro di Roland Barthes L’ovvio e l’ottuso – di fermarsi all’ovvio senza volerlo per forza distorcere, ma facendolo proprio, come base per ogni interpretazione, per ogni comprensione.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Estratto dell’articolo di Daniela Ranieri per “il Fatto quotidiano” il 20 Gennaio 2023.

Vi sono dei dettagli di cronaca nella vicenda della latitanza e della cattura di Matteo Messina Denaro che disegnano l’antropologia di una nazione.

Incredibili, allarmanti, comici, fatui o disperanti, italianissimamente italiani, eccone una silloge.

 MMD, che andava al supermercato, al bar, al ristorante a viso scoperto, si è scattato un selfie con un medico. Il selfie ci tormenta. Chi ha chiesto lo scatto? Il boss al medico, per la riuscita delle cure? Sarebbe folle: la foto finisce su Facebook e qualcuno ti riconosce. Il medico al paziente sapendolo Andrea Bonafede? Incredibile. Il medico al paziente sapendolo MMD, come fosse una rockstar? Raccapricciante. (Corollario: nessuno è immune al narcisismo del selfie, nemmeno il maggior latitante italiano).

A proposito di narcisismo. Il ministro dell’Interno Piantedosi una settimana prima rispondendo a una domanda su un eventuale arresto di MMD: “Mi auguro di essere il ministro che raccoglierà il lavoro di altri, forze di polizia, magistratura…”, atteggiandosi molto: “Non posso dire niente…”. Dopo l’arresto: “Vivo l’emozione di essere il ministro che ha visto compiersi l’ultimo grande arresto di un grande boss di mafia e penso a più di 30 anni fa, allorquando muovevo i primi passi nell’amministrazione dell’Interno…”. Ci dica di più, ministro.

Da anni si favoleggia su una plastica facciale che ne avrebbe alterato i connotati (gli esperti: potrebbe aver modificato il vermiglio, l’arco di Cupido, gonfiato le labbra, “le più gettonate nei ritocchi estetici”), il che alimentava (e giustificava) il mito del criminale imprendibile. Niente affatto: MMD non aveva cambiato nemmeno la montatura degli occhiali. Era un identikit ambulante di sé stesso e nessuno lo ha mai identificato.

 A scanso di equivoci, il boss, appena vede i carabinieri, gli dice: “Sono Matteo Messina Denaro”, per accertarsi di venire riconosciuto. […]

“Il medico di Messina Denaro è massone, il Grande Oriente d’Italia lo sospende” perché indagato. Fosse parlamentare, resterebbe tranquillamente in carica.

 All’entrata nel carcere di L’Aquila gli chiedono: “Precedenti?”. E lui: “Fino a stanotte ero incensurato”.

 Ilarità sui giornali. (Tra le altre cose, è stato condannato all’ergastolo per aver fatto sequestrare, strangolare e sciogliere nell’acido in un bidone un ragazzino di 12 anni).

“Ricordo la sua pronuncia sbagliata quando diceva ‘pissicologo’”, riferisce Roberto, addetto della clinica.

 “Ha tre tatuaggi: 8 ottobre 1981, la frase Tra le selvagge tigri e il motto Ad augusta per angusta”. Chi lo ha detto ai giornali? I funzionari del carcere? Lo hanno visto nudo?

Contro la sua volontà? O glieli ha mostrati lui? Perché?

 “Palestrato”.Salvini twitta: “Dopo l’arresto di Messina Denaro, la svolta sarà il Ponte sullo Stretto”. L’unico legame tra ponte e mafia è quello che viene in mente alle persone raziocinanti, dunque non a Salvini, per il quale la mafia è scomparsa.

 Il Procuratore generale di Palermo Lia Sava: “Veste Armani ma resta uno stragista”.

Vanità #2. “Un giorno venne in clinica con una camicia molto originale. Sul cotone erano dipinte delle angurie. Glielo dissi e lui rispose che valeva 700 euro. Rimasi stordito”, dice l’addetto della clinica.

 Bruno Vespa a un inquirente: “Ma, secondo quanto voi potete capire, le donne andavano con Bonafede o con Messina Denaro?”.

Messina Denaro, luci e ombre sull'arresto del boss. Qual è la verità. Gianluigi Paragone su Il Tempo il 20 gennaio 2023

Accettare la doppia lettura dell’arresto dell’ex boss Matteo Messina Denaro non significa derubricare il lavoro degli investigatori o sminuirne la portata. Anzi. Nessuno oserebbe mettere in discussione una professionalità acquisita nel tempo e riconosciuta a livello internazionale. È noto infatti che le intelligence di carabinieri, polizia e guardia di finanza si sono affinate in tempi lunghi e difficili, dalla lotta alle organizzazioni mafiose a quella legata alla lunga e tormentata stagione del terrorismo. Il risultato di tale contrasto ha portato le nostre forze armate a godere della stima di colleghi in ogni angolo del mondo dove si combatte con fenomeni analoghi. Pertanto nessuno vuole mettere in discussione il successo dell’operazione condotta dai reparti speciali dell’Arma.

Tuttavia nella stessa stagione in cui l’Italia era impegnata a fronteggiare mafia, camorra, ‘ndrangheta ovvero il terrorismo della lotta armata negli annidi piombo oppure ancora gli intrecci malavitosi di bande innervate nel cuore del potere (penso alla Banda della Magliana), in quegli anni dicevamo le ombre si sono allungate negli stessi palazzi dove persone oneste mettevano a repentaglio la loro stessa vita a favore della Legge e del Bene. È in queste nebbie che è cresciuto il mostro dei doppi livelli, delle trattative, delle collusioni e delle connivenze. L’Italia che oggi mette assieme alcuni pezzi per interpretare l’arresto del super latitante è la stessa a cui avevano fatto credere strane storie tuttora mai del tutto chiarite: Ustica, le varie stragi, la ragnatela che partecipò al rapimento e poi all’uccisione di Aldo Moro, e lo stesso caso Orlandi tanto per citare alcuni buchi di verità.

Ascoltare le parole (profetiche?) di Salvatore Baiardo, ex prestanome dei fratelli Graviano, affidate a Massimo Giletti in una intervista che anticipava alcuni elementi di cui oggi abbiamo certezza non può essere liquidata come complottismo o cose simili: quelle dichiarazioni avevano un senso prima dell’arresto e ce l’hanno anche adesso che sappiamo delle gravi condizioni di salute dell’ex boss. Ecco perché la doppia lettura di chi oggi sia Messina Denaro è giusto farla e tenerla viva: era solo un vecchio simbolo o era ancora un boss che teneva assieme le famiglie mafiose? Anche arrestare un simbolo - sia chiaro - resta fondamentale nei fatti e nella strategia di contrasto, pur tuttavia la domanda sta in piedi: che boss può essere un uomo cui potrebbero restare due anni di vita?

 E ancora: nel classico bilanciamento «costi/benefici» quanto poteva valere la «auto-consegna» da parte dello stesso super latitante o il tradimento da parte delle nuove leve di un boss ormai dimezzato, rispettato per quello che fu (inquietante ma tremendamente reale il giudizio del sentire comune di una terra dove tenere la bocca chiusa equivale a vivere senza problemi) ma non per quello che è? La sostituzione della leadership si stava già materializzando pertanto poteva convenire consegnare un simbolo e trattare. Non sarebbe la prima volta, del resto, che Cosa Nostra avanza delle pretese rispetto a ciò che rallenta il suo operato: i drammatici attentati ai magistrati o ai beni culturali rientravano perfettamente nella strategia mafiosa rispetto al suo antagonista. Stato e anti-Stato hanno sempre comunicato, e questo lo sappiamo dai racconti di pentiti pesanti, su tutti quello di Tommaso Buscetta.

Nell’intervista a Giletti, Salvatore Baiardo gioca a carte scoperte e rivela uno scenario che si è mostrato vero. Che lo scambio di messaggi poi vada a dama è un passaggio successivo e dovranno essere le Istituzioni a dimostrare l’intransigenza sferrando i suoi colpi da ko. Lo ripeto: è stato lo Stato stesso a infittire la visibilità della Verità prestandosi a troppe versioni dei fatti. Pertanto se i cittadini hanno dubbi è per la genesi di quelle stagioni dove ai successi investigativi si accavallavano i misteri. Misteri che restano. Trent’anni di latitanza pressoché indisturbati solidificano le perplessità: possibile che nessuno sapesse? Che nessuno fosse intervenuto prima? Che nessuno parlasse e venisse ascoltato? Un ex boss con un tumore in fase terminale parlerà o depisterà? Non c’è né complottismo né banalizzazione dell’arresto, c’è solo - forse - l’ennesimo urlo nel deserto di una comunità che vorrebbe conoscere fino in fondo la verità dopo tanti anni di depistaggio, silenzi e connivenze.

Con l’arresto di Messina Denaro ci potrebbe essere una occasione importante per fare chiarezza sullo stato di salute della democrazia italiana e di alcuni suoi pezzi (tra i quali il controllo della Sanità, visto che prima o poi anche i mafiosi devono fare i conti con la salute) che fingono di non sapere e coprono. Lo sfruttiamo o saremo costretti ancora una volta ad ascoltare la migliore versione possibile dei fatti? Chi ha coperto l’ex boss? A chi era utile la sua lunga e indisturbata latitanza? 

Stasera Italia, Guerri: "Vicenda triste per l'Italia". L'altra faccia della cattura di Messina Denaro. Il Tempo il 19 gennaio 2023

"Una vicenda triste per l'Italia, benché si sia conclusa felicemente con l'arresto. Ma trent'anni sono tanti". Giordano Bruno Guerri interviene nella puntata di giovedì 19 gennaio di Stasera Italia, su Rete 4, ed esprime una certa amarezza per ciò che ha preceduto e seguito l'arresto del boss Matteo Messina Denaro. 

Da una parte la latitanza lunghissima del "padrino" che si aggirava indisturbato nelle "sue" zone, nell'area di Castelvetrano, in Provincia di Trapani. Dall'altra il "clima di sospetto nei confronti dei cittadini di quel paese e della Sicilia in particolare", dice a Barbara Palombelli lo storico e saggista, direttore del Vittoriale degli italiani. "Averlo visto passeggiare, andare al bar e a fare le compere..." è oggi motivo di imbarazzo e sospetto per molti.

D'altronde Messina Denaro "non si celava con discrezione, un uomo che porta un orologio da 36mila euro non vuole passare inosservato - osserva Guerri - questo accumula sospetto" sui siciliani. Ma, anche in provincia di Trapani, questo riguarda solo una parte dei siciliani. "A Erice, dove mi occupo dei musei, hanno fatto festa cittadini e amministratori", per l'arresto del boss.

Estratto dell’Alessandro D’Amato per open.online il 19 gennaio 2023.

«Non mi convince un Matteo Messina Denaro che si fa i selfie in clinica. O che arriva con l’olio di Castelvetrano per medici ed infermieri. Preferisco pensare che l’abbia tradito la voglia di essere seppellito tra i suoi ulivi». Michele Santoro ha scritto con Guido Ruotolo “Nient’altro che la verità”. Il libro raccoglie le confessioni di Maurizio Avola, killer della mafia. Ma anche vecchia e stretta conoscenza del boss trapanese.

 L’autore televisivo non crede ai complotti dei servizi segreti, non pensa che l’ultimo dei Corleonesi si sia consegnato e che l’arresto sia una farsa. Ma ritiene che il tumore abbia spinto Diabolik ad allentare le difese. Perché farsi prendere poteva in qualche modo convenirgli. Anche e soprattutto per una “questione di affetti”. […]

E quindi dobbiamo cambiare il modo di approcciare alla criminalità organizzata. Inseguendo il denaro. Capendo, come diceva Falcone, dove sono finiti i soldi. Quello di Cosa Nostra è un tesoro immenso. Dove sia finito è la prima preoccupazione che dovremmo avere». […] «La fase stragista si è chiusa. Forse perché si è aperta quella capitalista?». […]

 Messina Denaro, che non era prima un oppositore dello Stato, diventa un soldato pronto alla guerra. […] «Per esempio è laico. In quegli scritti che gli vengono attribuiti dice che la madre gli ha trasmesso la fede ma lui l’ha persa. Il suo politico di riferimento è Craxi. E quando si esprime sulla stagione delle stragi è genuinamente convinto che i magistrati abbiano effettuato un colpo di Stato. […]

Quando don Ciccio muore, il giovane boss crea nel trapanese una mafia “facilitatrice” d’affari. «E soprattutto per lui non essere catturato era una questione d’onore. Questo stride con i comportamenti che ha avuto negli ultimi tempi. Per trent’anni è stato impossibile avere sue immagini. I suoi amici sono stati assediati dalle intercettazioni di investigatori che lo cercavano. Pensare che sia la stessa persona che si va a fare un selfie in ospedale è stridente», obietta Santoro. Come se non avesse più il problema di farsi prendere. Per il semplice motivo che sta morendo.

 Poi c’è da considerare il richiamo della famiglia: «Mentre molti padrini sono stati catturati anche perché non volevano separarsi da mogli e figli, Matteo è uno che non ha visto la figlia nemmeno un giorno nella sua vita pur di non farsi catturare». La figlia si chiama Lorenza, come la madre di Matteo. Il padre non lo ha mai incontrato.

 È nata dal rapporto del boss con Francesca Alagna, ma non porta il suo nome. È cresciuto nella casa della mamma. Nel diario ritrovato nel covo Messina Denaro scrive «perché Lorenza non vuole vedermi? Perché è arrabbiata con me? […] Quella di venire arrestato è l’unica possibilità di tornare in contatto con la sua famiglia senza metterli in pericolo».

Se Messina Denaro parlasse, la domanda più importante da fargli sarebbe quella sul «tesoro di Cosa Nostra. Per anni la mafia è stata uno Stato nello Stato. Ora che l’economia ha preso il sopravvento sulla politica i mafiosi si sono mescolati al fenomeno con le loro ingentissime ricchezze ed è lì che sopravvivono. Ora sono introvabili? Sì, perché probabilmente cercarli vorrebbe dire mettere in discussione il sistema capitalistico. Dove vai a vedere? Il rischio è che l’intera economia siciliana – e forse anche quella nazionale – si bloccherebbe di fronte a una ricerca che va in quella direzione. Quindi meglio capire se c’è l’Agenda Rossa e cose del genere». […]

 «Non mi convince un Matteo Messina Denaro che si fa i selfie. O che arriva in clinica con l’olio e il vino di Castelvetrano da distribuire tra medici ed infermieri. Preferisco pensare che l’abbia tradito la voglia di essere sepolto tra i suoi ulivi». Per l’inventore di Samarcanda Messina Denaro ha perso il suo spirito di vigilanza ossessivo perché non reggeva i trent’anni di latitanza.

Anche le circostanze della cattura potrebbero riservare qualche sorpresa. «Per trent’anni hanno intercettato i telefoni. Non hanno mai trovato nulla. Magari è arrivata una soffiata. Ma se, per ipotesi, qualche lavoratore dell’ospedale l’ha riconosciuto e l’ha detto ai carabinieri è giusto che lo proteggano per non esporlo a rappresaglie». Ma anche se c’è un filone complottista che sostiene che si sia fatto catturare, secondo Santoro per Messina Denaro semplicemente «non era più così importante non farsi prendere. Anzi. Poteva in qualche modo convenirgli. Per una questione di affetti sentimentali. Io non conosco la sua cartella clinica, ma leggo di un tumore allo stato terminale. Quanto grave sia questa malattia non lo sappiamo». […]

«I padrini come Graviano e Messina Denaro sono ancora relativamente giovani, hanno sessant’anni. Per questo ogni tanto chiamano in ballo Berlusconi: la storia di Forza Italia ha costeggiato le scelte politiche di Cosa Nostra, anche se sono convinto che sia una sciocchezza pensare che lui c’entri con le stragi. Anche la profezia di Baiardo che annuncia l’arresto coincide: per me lui è un personaggio minore, ma può darsi che da quegli ambienti qualcosa davvero fosse trapelato. Il punto chiave è l’abbassamento della cortina di sicurezza: quand’è che Messina Denaro comincia a fare i selfie? Dopo una vita all’insegna della prudenza entra in ospedale e regala l’olio. È chiaro che l’elemento psicologico è stato decisivo. Insieme alla paura della morte».

Matteo Messina Denaro "posato" a trent'anni da Riina. Piccole Note il 19 Gennaio 2023 su Il Giornale.

L’arresto del boss tiene banco. Tanti i sospetti che Matteo Messina Denaro sia stato coperto prima e scaricato poi, in gergo “posato”. Ne hanno scritto in tanti, inutile tornarci sopra, perché ciò è alquanto ovvio, come ovvie sono le smentite delle forze dell’ordine. Il fatto che la Dia si trovasse a due passi dal latitante può apparire significativo o meno, ma non interessa. Tale è il meccanismo, deve essere così, come scriveva Moro nelle pagine redatte nel carcere brigatista.

D’altronde è stato preso il 16 gennaio, a trent’anni esatti dall’arresto di Totò Riina, anche se il giorno in più di differenza (il suo predecessore è stato preso il 15 gennaio, con scarto dovuto forse a un’inconveniente) toglie un po’ del simbolismo sotteso alla corrispondenza.

Già, forse è più importante tornare a quello, di arresto, perché la cattura di Riina ha inciso non poco sulla storia d’Italia. Ricordo che anche lì, poco prima dell’arresto del cosiddetto capo dei capi, l’Fbi aveva diramato un identikit, essendo anche il volto di Riina noto solo per una foto giovanile.

L’identikit segnalava anche che Riina era gravemente ammalato, tanto da rischiare la morte, anche se poi la puntuale profezia non si è avverata. Chissà se quell’identikit ha contribuito alla cattura. Certo, quando Riina l’ha letto deve aver passato un brutto quarto d’ora.

C’è poi la storia del mancato monitoraggio del covo del capo dei capi, come ora i tanti misteri del covo di Denaro. Un po’ di mistero, in queste fiction, non fa mai male.

Per una coincidenza sorprendente quanto fortunata, l’arresto di Riina avveniva nello stesso giorno dell’insediamento del nuovo capo della procura di Palermo, Giancarlo Caselli, che così, già al suo primo giorno, poteva annunciare il nuovo corso della magistratura palermitana.

Sotto la sua reggenza si ebbe la stagione dei pentiti, cosa mai avvenuta prima né replicata successivamente. Un migliaio di pentiti prese a dire cose e a riscrivere la storia dell’Italia, dal momento che una buona percentuale di questi s’impegnarono ad accusare Andreotti di collusione con la mafia, riconducendo anche gli omicidi politici, in particolare quello di Piersanti Mattarella, ucciso nel 1980, a una questione di mafia e affari, nonostante Falcone fosse convinto che l’assassinio fosse da ricercare negli ambiti neofascisti collusi con i servizi segreti (ma Falcone ormai era morto).

Tutto ciò derubricando a cosa secondaria l’omicidio di Michele Reina, che era stato ucciso poco prima di Piersanti, il 9 marzo 1979. Uomo di fiducia di Salvo Lima, legato ad Andreotti, Reina era stato il tessitore dell’accordo tra Dc e partito comunista siciliano, che avrebbe portato Mattarella alla guida della Regione Sicilia con uno schema simile a quello creato nel ’78 da Aldo Moro e Andreotti per il governo italiano.

Così, dopo la morte di Moro, quella di Mattarella. E perché fosse chiaro che la prospettiva di quella convergenza non dovesse essere più perseguita, Mattarella fu assassinato il 6 gennaio, giorno dell’Epifania (certi ambiti vivono di simbolismi).

E dopo i due trovò la morte anche Pio La Torre, figura chiave del partito comunista siciliano, che aveva lavorato anche lui a quell’accordo. Dopo la fine di quella prospettiva, esito dei due omicidi, La Torre aveva deciso di abbandonare la politica siciliana per quella nazionale.

Ma per poco, avendo poi fatto ritorno alla sua regione alla guida del Pci regionale. Decisione fatale, fu ucciso il 30 aprile 1982, anche lui con la professionalità del caso, mentre si adoperava con certo successo per evitare la realizzazione di una base Nato a Comiso.

Insomma, la mafia aveva fatto da manovalanza per conto di altri per eliminare dall’Italia l’ultimo residuo di quella convergenza politica tra i due più importanti partiti popolari sognata da Andreotti, Moro e Berlinguer.

I capi dei capi non esistono. Non lo era Totò Riina, non lo è Matteo Messina Denaro. Manovalanza, al massimo gestori di manovalanza. Come manovalanza, al netto di alcuni che ci credevano, erano le varie formazioni terroriste che hanno insanguinato l’Italia (non c’erano solo le BR, come si ricorda oggi; tante le organizzazioni che si sono macchiate di sangue al tempo, tra cui Prima Linea, che uccise più delle BR).

Il problema è che quanto hanno raccontato i manovali e i gestori di tale manovalanza, sia brigatisti che mafiosi, nonostante l’ovvia distorsione e reticenza, è diventato storia d’Italia. Una storia cristallizzata da media poco propensi all’approfondimento e da tanti film e fiction di successo. E un Paese la cui storia è stata scritta da assassini precipita in un abisso di confusione.

Da vedere se anche Matteo Messina Denaro scriverà la sua pagina di storia (di certo darà materiale per altre fiction). Forse è proprio questa la sua missione terminale, ma lo storico avvocato dei pentiti (ne ha difeso decine) Luigi Li Gotti, è scettico sul punto. Ci fermiamo qui, anche se sarebbe simpatico scrivere altro sul teatro italiano. Magari ci torneremo.

Come si è nascosto per 30 anni Matteo Messina Denaro, Uomo invisibile dai modi garbati. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Gennaio 2023

Questo arresto calmo, consenziente, che chiude un’epoca ma non è ben chiaro quale, dovrebbe suscitare qualche domanda. Quest’uomo a quanto pare ha vissuto trent’anni in luoghi che nel linguaggio spionistico si chiamano safe house, rifugi banali e protetti. Non era affatto il capo dei capi di Cosa Nostra, come giustamente ha ricordato Marcelle Padovani – una delle poche persone che ha capito bene la mafia – perché nessuna “commissione” l’aveva eletto a quella carica, ed era soltanto l’ultimo latitante dell’epoca in cui Falcone (non più procuratore ma soltanto direttore delle carceri) indagava a titolo di pura cortesia istituzionale (su richiesta del Presidente della Repubblica Cossiga, messo in allarme dall’ambasciatore russo Yuri Adamishin) sul gigantesco traffico di denaro uscito dalle casse della ex Unione Sovietica e portato in Europa per essere riciclato e poi redistribuito ad alcuni facilitatori italiani e quindi nelle mani degli oligarchi russi.

Falcone si serviva di Paolo Borsellino per gli strumenti tecnici di cui non disponeva più e Giulio Andreotti gli aveva fornito quelli diplomatici per lavorare con i procuratori russi. La fine è arcinota, anche per le mostruose modalità dei due delitti, totalmente estranee agli usi e costumi di Cosa Nostra. Nessuno ha poi saputo indicare un movente credibile e attuale, visto che Cosa Nostra non assegna Oscar alla carriera, e non dichiara guerra allo Stato, che cerca semmai di infiltrare e corrompere. Accaddero invece fatti gravissimi, totalmente estranei agli usi e costumi della mafia: Cosa Nostra sbarcò sulla penisola e praticò forme di terrorismo cieco e dinamitardo contro monumenti e persone innocenti a Roma, Firenze e Milano. Si ottenne così l’effetto di una dichiarazione di guerra di Cosa Nostra allo Stato, il cui impatto emotivo superò per qualche tempo quello delle stragi di Capaci e via D’Amelio.

Si accreditò così l’idea che una demenziale e sanguinosa guerra guerreggiata fosse in corso e ciò rese non assurdo ma anzi probabile il fatto che quella stessa guerra fosse poi composta con una segretissima e vergognosa trattativa fra Stato e mafia. Matteo Messina Denaro è l’uomo che sapeva tutto e che eseguiva direttive di un Totò Riina trasformatosi in un Catilina megalomane. Il malato oncologico che si è lasciato placidamente avvicinare da un ufficiale dei carabinieri al quale ha declinato il proprio nome e cognome, tutto è salvo che un pazzo megalomane: è un uomo ragionevole, di una discreta cultura, capace di passare inosservato tra la folla per trent’anni vivendo una vita priva di altre ansie salvo quella di aver scoperto di essere un malato di cancro, diventando così un frequentatore delle strutture sanitarie. In quel contesto viene individuato e catturato con rassegnata docilità e nessuna sorpresa. Come era ampiamente prevedibile, opinione pubblica e giornali trovano del tutto straordinario che quest’uomo abbia vissuto come l’Uomo Invisibile per il tempo di una generazione che se ne è andata, sostituita da una nuova del tutto disinteressata a sapere.

Stando ai fatti, quest’uomo malato e ragionevole, dovrebbe conoscere per filo e per segno tutto sulla dissennata guerra che si concluse nel nulla, lasciando però un grande pascolo aperto a chi aveva interesse a guardare il dito della inesistente trattativa anziché la Luna dei moventi e delle modalità degli omicidi di Falcone e Borsellino. Le sentenze hanno dichiarato che non c’è stata alcuna trattativa, sicché è lecito sospettare che anche la strana guerra portata nella Penisola a colpi di bombe facesse parte di un geniale piano di distrazione di massa perfettamente adeguato al dirottamento. Ed ecco che i due poveri magistrati assassinati, vengono assunti nel cielo degli eroi, diventano oggetto di culto popolare ma le vere cause della loro morte vengono tralasciate per dare spazio alla grande questione della trattativa in grazia della quale la guerra, così com’era misteriosamente cominciata, misteriosamente termina.

Matteo Messina Denaro è l’unico testimone vivente e operante in grado di raccontare come andarono davvero le cose, chi ebbe l’idea di inventare una guerra terroristica sul continente per farne scaturire, una trattativa e una pace che hanno ottenuto l’effetto desiderato. Davvero un latitante così intelligente, dai modi garbati e dalla vita irreprensibile, salvo qualche sfarzo nella scelta delle camicie, ha potuto diventare invisibile fin quando non è apparso sui registri sanitari? Certamente il Ros ha compiuto un’operazione all’altezza della sua eccellente fama non tanto e non solo come corpo di super polizia specializzata in crimini e trame, ma anche come organismo in grado di valutare i pro, i contro, le conseguenze e i tempi. Pensiamo che il ministro Nordio avrà modo di considerare le connessioni che in trent’anni sono macerate nell’oblio ma che possono essere ricostruite e rivelate.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Da corriere.it il 18 gennaio 2023.

Caro Aldo,

il generale Dalla Chiesa è stato un grande esempio di uomo mosso da una profonda fedeltà e fiducia nelle istituzioni, ha lasciato una eredità morale di servitore dello Stato, a difesa dei valori della giustizia, democrazia e legalità. La fiction lo celebra degnamente.

Benigno Prete

 Ho appena finito di vedere ciò che ritengo un capolavoro, lo sceneggiato dedicato al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Dovrebbero utilizzare questo lavoro nelle scuole, per far conoscere la nostra storia ai ragazzi e far percepire l’abnegazione, fino all’ultimo sacrificio, di uomini e donne per questa nostra Italia.

Michele De Gruttola

Risponde Aldo Cazzullo – da il Corriere della Sera

 Cari lettori,

Anche a me «Il nostro generale», la fiction su Carlo Alberto Dalla Chiesa, è piaciuta; e gli ottimi ascolti non erano affatto scontati, visto che si raccontava la storia di un uomo uscito tragicamente di scena quarant’anni fa, che tanti tra i nostri ragazzi non avevano mai sentito nominare. Qualcuno non ha apprezzato le frecciate «antipolitiche» messe in bocca al generale. Ma se c’è qualcuno che ha avuto — purtroppo — ottime ragioni per lamentarsi della politica è proprio Dalla Chiesa.

Le Brigate Rosse non furono certo un tassello della strategia della tensione, nacquero dai gruppi della sinistra extraparlamentare; ma lo stesso Cossiga ammise che fu imperdonabile non stroncarle sul nascere, e in particolare le incertezze e le esitazioni tra l’arresto di Curcio e Franceschini (1974) e l’escalation di sangue sotto la guida di Moretti. La questione del ritrovamento a rate del memoriale di Moro in via Monte Nevoso passò sopra la testa di Dalla Chiesa; era in corso una faida nel potere italiano, e un generale dei carabinieri non poteva certo muoversi come il capo di una giunta militare, alla politica doveva rendere conto.

Soprattutto, Dalla Chiesa fu mandato a Palermo a morire. Isolato, delegittimato, abbandonato. L’intervista a Giorgio Bocca è lì a confermarlo. Il grande giornalista raccontò come fosse entrato nella stanza del generale senza essere fermato da nessuno, senza un controllo di identità, senza una perquisizione; e come poi al ristorante l’uomo che doveva salvare Palermo dalla mafia venisse guardato con sospetto, se non con fastidio. Un po’ tutti hanno riconosciuto i meriti dei produttori della fiction (Stand by me di Simona Ercolani e Rai fiction di Maria Pia Ammirati). Una parola andrebbe aggiunta su Sergio Castellitto: un attore straordinario, capace di diventare Boccaccio e padre Pio, il re malvagio di Narnia e il grande Fausto Coppi.

Estratto dell'articolo di Andrea Paladino per tpi.it il 18 gennaio 2023.

Con sei post sul social media TikTok, un utente anonimo ha diffuso allusioni più che evidenti alla cattura di Matteo Messina Denaro almeno nove giorni prima dell’operazione del ROS e del GIS dei carabinieri nel quartiere di San Lorenzo, coordinata dalla Procura di Palermo. Una lunga fila di messaggi video, con riferimenti alle condizioni di salute precarie del boss di Cosa Nostra e alla sua cattura, data come avvenuta.

Il primo video della serie è stato pubblicato – secondo la data che appare nel codice – il 7 gennaio 2023, alle ore 15.08, più di una settimana prima dell’arresto, scattato la mattina del 16 gennaio scorso; sulla sfondo la foto di una cella. Con la scritta: “Prigione di Matteo Messina Denaro il boss indiscusso N.1 C. Nostra”.

[...]

Quando mancavano appena tre giorni all’operazione dei carabinieri, il 13 gennaio 2023, alle ore 19.12, lo stesso utente ha postato un sesto video, facendo di nuovo riferimento alle condizioni di salute: “Malore improvviso/Operato d’urgenza/Matteo Messina Denaro/“U Siccu”/“Diabolik”. Sullo sfondo l’autore del messaggio ha inserito diverse immagini del boss da giovane, accompagnate da una musica incalzante.

 L’account che ha postato i sei video con riferimenti alla cattura di Messina Denaro diversi giorni prima dell’operazione di Palermo ha iniziato a pubblicare sulla piattaforma TikTok il 29 aprile 2022, meno di un anno fa. Ha postato per diversi mesi video comuni, con immagini ironiche, spesso volgari, senza nessun particolare rilievo. Nessuna immagine sembra fare riferimento all’identità dell’utente, che nella bio riporta la frase “SHOCK IN MY TOWN”, usando come nickname “Kevin”. 

Il primo video con un chiaro riferimento a Cosa Nostra appare il 14 novembre 2022, alle ore 7.43. C’è l’immagine di Totò Riina con un ghigno ed una voce in dialetto siciliano come audio: “Possono i miei figli, e può essere qualche altro Totò, e chi lo sa, io ci spero… Può essere pure qualche nipote, ci spero, potrebbe succedere che qualche cosa prendesse l’impronta del nonno”.

Da la Stampa il 18 gennaio 2023.

«Le dichiarazioni di Piantedosi su Messina Denaro di una settimana fa? Le ipotesi siano due: in un caso si tratta di una cosa grave e nell'altro gravissima». Peppe Provenzano, vice segretario Pd, va all'attacco. «Se avesse rilasciato questa dichiarazione senza sapere nulla di ciò che stava accadendo, sarebbe grave perché è un esercizio di vanagloria nei confronti di indagini che vanno avanti da anni, su cui lui non ha avuto alcun ruolo», ha detto a Metropolis.

 «Nel caso in cui invece Piantedosi avesse saputo qualcosa sarebbe gravissimo - ha aggiunto - perché avrebbe messo a rischio un'operazione che lo Stato cercava di realizzare da trent' anni».

Estratto dell’articolo di Federico Monga per la Stampa il 18 gennaio 2023.

Ministro Matteo Piantedosi, una settimana fa lei aveva detto: «Spero di essere in carica al ministero dell'Interno quando cattureremo Messina Denaro». Una coincidenza, una profezia, o l'operazione era già in corso?

«Era una speranza fondata. Era alimentata da sentimenti di ottimismo che coglievo da tempo».

 Non si è corso il rischio di compromettere l'operazione?

«L'operazione si è sviluppata nel rispetto della riservatezza assoluta che richiedeva. Sono stato avvisato al momento dell'arresto».

(...)

Due mesi fa il Salvatore Baiardo, ex gelatiere e factotum dei fratelli mafiosi Giuseppe e Filippo Graviano, disse al giornalista Massimo Giletti che Messina Denaro era malato e si sarebbe consegnato alle autorità in cambio di cure e di un accordo sull'ergastolo ostativo. Sorprendente, no?

«A parlare sono solo i fatti! Il Governo Meloni ha dato un segnale chiarissimo contro la mafia proprio con le misure sull'ergastolo ostativo. Tutto il resto sono soltanto ricostruzioni fantasiose».

 Davvero non c'è stata alcuna trattativa prima dell'arresto?

«L'arresto è avvenuto grazie al lavoro lungo e costante degli uomini e delle donne delle forze dell'ordine con metodi di indagine tradizionali e caparbi. Tutto il resto e fantasia senza argomenti». Il presidente del consiglio Giorgia Meloni ha ribadito che l'ergastolo ostativo non si tocca. «Una scelta giusta e chiara contro la mafia».

La Costituzione, però, prevede che la pena debba essere anche riabilitativa.

«Lo Stato ha ingaggiato una guerra contro la mafia che non può concedere al nemico dei vantaggi. Alla luce di questo vanno effettuate anche le valutazioni di ordine costituzionale».

 (...)

«Che rabbia quelle allusioni sulla cattura di Matteo Messina Denaro» Linda Di Benedetto su Panorama il 18 Gennaio 2023.

Un uomo del Ros ci ha raccontato cosa c'è stato dietro la cattura del super boss e la tristezza per il mancato appoggio e soddisfazione per l'operazione di una buona parte della gente

«L’arresto di Messina Denaro ci è costato fatica, anni di lavoro e a qualcuno anche la vita e le persone invece di festeggiare la vittoria dello Stato sulla mafia mettendo in dubbio la modalità con cui è stato arrestato». Il messaggio che leggete testuale ci arriva da un uomo, un uomo dei Ros. Uno dei Carabinieri impegnato nell'operazione che ha portato alla cattura dopo 30 anni di latitanza di Matteo Messina Denaro. Una operazione difficile, faticosa dietro la quale ci sono difficoltà e sacrifici invisibili e che solo per questo avrebbe meritato una reazione di festa, gioia, orgoglio.

Sui social e non solo invece continuano ad essere postati commenti e addirittura meme che tentano di sminuire il lavoro di tutte le forze dell’ordine. “Si è consegnato” “Era sotto il loro naso, lo hanno coperto” , “Il pentito Boiardo lo aveva detto” quando in realtà ci sono voluti anni di indagini per arrivare ad assicurare alla giustizia con l’operazione “Tramonto” uno dei più spietati boss di Cosa Nostra mandante di centinaia di omicidi. “Tramonto” nome scelto appositamente dai Ros in ricordo della poesia incorniciata nella caserma dei Ros di Nadia Nencioni, la bimba fiorentina di 9 anni, barbaramente uccisa insieme ai suoi genitori e la sorellina di 50 giorni, nell’attentato ai Georgofili. Ed è proprio uno di loro ad averci scritto per raccontarci le sensazioni fortissime di questi giorni e la gioia provata da tutto il suo reparto per avere finalmente arrestato il boss stragista di cui da 30 anni si era persa traccia. Una soddisfazione però che lascia anche tanta amarezza per la reazione inimmaginabile dell’opinione pubblica che più che puntare il dito sulla ferocia di Messina Denaro e riconoscere la vittoria dello Stato continua a sollevare dubbi sulle modalità della sua cattura. Come sono andate le cose, come vi sentite? «Sono state giornate incredibili; lo abbiano preso finalmente e c’è una gioia incontenibile, difficile da descrivere, per questo risultato. Il nostro è stato uno sforzo incredibile a cui tutti abbiamo partecipato. Non sono vere le storie che la gente sta raccontando, non c’è nessuna dietrologia. Matteo Messina Denaro non si è consegnato. Lo abbiamo preso noi. Il suo arresto è stato frutto di indagini complesse favorite indubbiamente dalla malattia che ha contribuito a portarlo allo scoperto. Ma se da una parte si festeggia dall’altra sale anche un po' di rabbia nel leggere tante critiche verso di noi e lo Stato dopo che abbiamo lavorato giorno e notte senza sosta». Come spiega queste critiche? «Perché gli italiani sembra sempre che non sappiano apprezzare gli sforzi delle istituzioni, non hanno fiducia nemmeno nel lavoro svolto nemmeno dopo un arresto così importante e fondamentale per la storia di questo Paese. Ci abbiamo messo 30 anni ma finalmente lo abbiamo trovato. Non servono riconoscimenti, siamo felici comunque per questo risultato straordinario ma le critiche senza fondamento non hanno senso, se non quello di far perdere la fiducia nelle istituzioni e aumentare il potere della mafia che si basa proprio su questo».

L'arresto del boss dei Corleonesi. Le accuse ingiuste di Travaglio a Scarpinato, Di Matteo & Co. Piero Sansonetti su Il Riformista il 18 Gennaio 2023

Ci sono due cose che mi inquietano, in queste ore successive all’arresto di Matteo Messina Denaro. La prima è la rivendicazione del governo, che getta la cattura del boss sul piatto della polemica politica. Sembra quasi che Giorgia Meloni l’abbia acciuffato lei personalmente, che si sia appostata all’uscita della clinica e gli sia saltata addosso. La seconda cosa inquietante è la polemica del fronte giustizialista che si scaglia contro chi – sostiene – per trent’anni non ha arrestato il boss, per incuria o (più probabilmente) per complicità. I giustizialisti diventano complottisti, anzi restano complottisti perché il giustizialismo genuino è fatto solo di complotti. Dicono che c’era un disegno per non arrestare Messina.

In realtà le tesi dei complottisti, in gran parte Cinque Stelle, e quelle della Meloni, si assomigliano parecchio. Così come si assomigliano le loro conclusioni. Che potremmo riassumere con solo sei parole: carcere duro, carcere duro, carcere duro. Lì, su quel punto, destra-destra e cinque stelle finiscono sempre per ritrovarsi insieme: il mito della punizione, della vendetta, del carcere come “logos” e fine ultimo della modernità e della politica. Io mi permetto di contestare tutte e due le tesi. MMD non è stato catturato dal governo ma dai Ros (quelli che catturarono anche Riina e poi la pagarono cara questa imprudenza, e furono messi alla sbarra dalla magistratura palermitana) guidati dalla attuale procura di Palermo, diretta dal dottor De Lucia. Il governo fa bene a gioire per il colpo inferto alla mafia, ma è assurdo prendersene i meriti.

Proprio per questa ragione è altrettanto insensato assegnare alla politica i demeriti per la mancata cattura di Messina Denaro negli ultimi 30 anni (durante i quali si sono alternati, a occhio, tre governi di centrodestra, cinque o sei di centrosinistra e tre o quattro di unità nazionale). Le forze dell’ordine, su incarico della magistratura, potevano agire liberamente e operare per catturare il boss. Senza chiedere l’autorizzazione di palazzo Chigi e senza subirne condizionamenti. Anche per questa ragione mi sembra del tutto spropositata la polemica del Fatto Quotidiano. Il suo direttore, Marco Travaglio, che politicamente è molto vicino ai Cinque Stelle, ieri ha scritto un editoriale feroce, se ho capito bene, contro i magistrati di Palermo. Credo che in particolare si riferisse a uomini di primo piano, come Roberto Scarpinato, Nino Di Matteo e Antonio Ingroia. Cioè alle punte di lancia che per molti anni la magistratura ha schierato contro la mafia. Anche attraverso molte interviste sui giornali e soprattutto in Tv. Travaglio chiede loro conto del perché non sia stato catturato Messina, che pure, si scopre oggi, non si è mai mosso dalla Sicilia e non aveva neppure tentato di modificare i suoi connotati, né, pare, avesse atteggiamenti particolarmente prudenti. Giusto chiedere conto, per carità: effettivamente per circa 15 anni l’antimafia palermitana ha dormito un po’.

Forse perché era impegnata tutta nel tentativo di portare a termine l’inchiesta “trattativa”, che puntava a delegittimare e incarcerare il generale Mori, cioè l’uomo che più di tutti gli altri, insieme a Falcone e a Borsellino, aveva inferto colpi a Cosa Nostra. E forse puntava anche a tirare in ballo in qualche modo Berlusconi. Credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che quel pezzo di magistratura siciliana ha commesso errori gravissimi (compreso quello di aver avallato per diversi anni il depistaggio di un falso pentito che mandò all’aria l’inchiesta sull’uccisione di Borsellino, e compresa l’archiviazione del dossier, clamoroso, preparato dall’allora colonnello Mori e da Falcone sui rapporti tra Cosa Nostra e imprenditori del Nord e sul traffico degli appalti). Ma questa critica non ci autorizza ad avallare la teoria del complotto. E cioè a ipotizzare che “ci siano state “complicità istituzionali”, come sostiene Travaglio. Riferendosi evidentemente alla magistratura siciliana (a chi altri sennò?). Francamente a me pare che le accuse di Travaglio siano assolutamente esagerate.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

"Saviano arrenditi", Senaldi smonta i teoremi sinistri su Messina Denaro. Libero Quotidiano il 18 gennaio 2023

L'intervista di Robero Saviano sull'arresto di Matteo Messina Denaro pubblicata martedì 17 gennaio dalla Stampa "proietta il lettore in un universo parallelo ma opposto alla realtà", afferma Pietro Senaldi su Libero in un articolo in cui ricorda che il superboss mafioso di Castelvetrano "non l'ha preso il Pd", come invece si evincerebbe dalle parole dello scrittore di Gomorra, invitato dal condirettore del quotidiano ad "arrendersi alla realtà". 

Siamo alle solite. Con Saviano, argomenta Senaldi, la "recitazione" prevale sull'etica professionale e "l'insulto fa parte delle licenze letterarie, almeno a quanto l'autore sostiene per difendersi dalle querele della Meloni, che lo ha portato alla sbarra" per diffamazione. Saviano, "barbuto Savonarola" coglie inoltre "l'occasione dell'arresto di Messina Denaro anche per tentare un pirotecnico paragone tra la leader di Fratelli d'Italia e il boss Graviano, da trent'anni in carcere e che lo accusa di dire falsità nel suo ultimo libro, beandosi del fatto che sono in tanti in questo periodo a volerlo portare in tribunale".

Senaldi passa poi in rassegna le sparate di Saviano che prefigurano "complotti e trattative tra lo Stato e la mafia come se la Meloni, insediatasi da meno di tre mesi, abbia potuto incanalare e portare a termine un'intesa con Cosa Nostra sull'arresto del suo capo. Cose da neurodeliri". Lo scrittore sotto scorta afferma "che quella di oggi ormai è più debole di camorra, 'ndrangheta e sacra corona unita, sono passati i tempi di Riina. E perciò, si lascia intendere, non era poi troppo difficile pizzicare quell'anziano malato in clinica che faceva tutti fessi da trent'anni", commenta Senaldi che ricorda un dato su tutti: i bossa "da Provenzano a Messina Denaro, ma in fondo anche Riina, vengono sempre presi quando la sinistra sta a guardare". Ma a sentire Saviano la realtà sembra un'altra. 

L'ultimo capo della cupola stragista. Arresto di Messina Denaro, altro che successo investigativo: viveva indisturbato a Palermo. Roberto Cota su Il Riformista il 18 Gennaio 2023

Matteo Messina denaro è stato catturato: è un momento di felicità collettiva in quanto l’arresto viene visto come un segnale di forza dello Stato di fronte alla mafia. Senza voler rovinare la festa, la cosa da non fare, però, è legittimare strumentalizzazioni o facili eroismi. La polemica del Procuratore di Palermo che ha richiamato l’importanza delle intercettazioni telefoniche con l’evidente obiettivo di rendere impopolari le ipotesi di riforma in senso restrittivo sul tappeto, appare sotto questo aspetto fuori luogo. La possibilità di ricorrere alle intercettazioni telefoniche, infatti, non è mai stata messa in discussione per i reati di mafia. In nessuna proposta di riforma.

Per la verità, se le intercettazioni non venissero più utilizzate per mettere in piazza la vita privata della gente o per costruire a tavolino reati inesistenti, ci sarebbero più risorse disponibili da dedicare al contrasto alla mafia, piuttosto che al terrorismo o al narcotraffico. Poi, se proprio vogliamo dirla tutta, una certa cautela nel decantare i successi investigativi sarebbe d’obbligo. Messina Denaro, dopo trenta anni di latitanza, non è stato catturato all’estero, ma a Palermo, in Sicilia, dove viveva indisturbato. Questa circostanza non depone a favore della efficienza di certi uffici inquirenti. Inoltre, Messina Denaro è stato arrestato a causa della sua malattia, grave e dalla prognosi infausta.

La sua condizione non è stata scoperta attraverso sofisticate indagini, che potrebbero essere messe a repentaglio dalla riforma delle intercettazioni, ma direttamente rappresentata in televisione dal pentito Graviano nel novembre 2022 durante la trasmissione condotta da Massimo Giletti (il quale aveva anche parlato di una possibile trattativa per il suo arresto). Un’ultima considerazione, assolutamente oggettiva, un malato di cancro in fase avanzata probabilmente riesce a curarsi meglio in carcere che in una situazione di latitanza. Dunque, su questo punto, potrebbe registrarsi una convergenza di interessi. L’euforia collettiva e l’onda mediatica travolgente non dovrebbero mai far perdere di vista l’obiettività dell’analisi. Roberto Cota

Matteo Messina Denaro preso ora che non può nuocere ai politici…Luca Casarini su Il Riformista il 18 Gennaio 2023

Come fallivano tutti i tentativi di cattura di Messina Denaro? Esattamente come quelli di tutti gli altri capi. Quando arrivavano i corpi speciali per prenderlo, che fosse in Spagna, in Germania o in Sicilia, lui non c’era già più. Qualcuno, da dentro, avvisava. Poi ovviamente, altri tipi di lavoro interno garantivano l’insuccesso degli inquirenti: il depotenziamento del dispositivo di ricerca, meno fondi e meno uomini, il depistaggio, e così via.

Il super ricercato non ha mai temuto troppo: lo si evince in maniera chiarissima dal suo volto, dai suoi connotati: siamo nel tempo dei software di riconoscimento facciale, chiunque voglia sottrarsi alla cattura, specialmente se ricercato da tutte le polizie del mondo, minimo pensa a una plastica facciale, visto che i soldi non gli mancano, o almeno ai classici baffi e parrucca. Messina Denaro invece non ha mai temuto, perché la sua “libertà” faceva parte di un patto. Nella storia di questo paese, il più sudamericano d’Europa in quanto a stragi, collusioni tra mafie e potere politico, e spettacolarizzazione dello “Stato” (quando ciò avviene con tanto di sceneggiature e messe in posa significa che c’è uno Stato da mostrare e creare per l’immaginario collettivo, per coprirne un altro impresentabile), la “verità” non si presenta mai per intero. C’è un tempo per tutto, ed è su quello che bisogna tarare ogni pezzo che si aggiunge. Messina Denaro, l’ultimo della cupola stragista retta dai Corleonesi, non doveva essere catturato subito. Come Riina e Provenzano.

Dovevano prima chiudersi altre vicende umane, con la morte dei protagonisti politici di quella stagione passata da un pezzo, che ha nelle mattanze sulle strade e nelle bombe con tecniche militari inarrivabili anche per il più esperto dei soldati dei pecorari di Corleone, il suo colpo di coda del ‘900, un secolo che non voleva chiudersi nonostante il nuovo millennio premesse impaziente per entrare in scena. Ai morti si possono attribuire poi le peggio cose, ma tanto sono morti. Non aggiungeranno o toglieranno niente. Non potranno confermare o smentire, difendersi o accusare gli altri. Il loro immodificabile silenzio è la migliore garanzia della verità che si vuole far passare come tale. Ed è trattato come una rivendicazione, il silenzio dei morti: nulla potete più cambiare. È stato così per Moro, per La Barbera e l’irruzione alla Diaz, per Tangentopoli, ancor prima per le stragi.

Messina Denaro non poteva essere catturato prima, e lui lo sapeva. Meditava di costituirsi, dice l’Ansa, per via della salute: fare la dialisi a casa, a Campobello di Mazara e la chemio a Palermo, a 600 metri dalla centrale della Dia, era diventato troppo forse. Se avesse avuto una aspettativa di vita più lunga, forse, gli avrebbero magari concesso altri 15 anni, come a Provenzano.

Messina Denaro, vecchio arnese di una mafia che non c’è più, soppiantata da ben altre forme globali di accumulazione e investimento di capitali, dal petrolio alla finanza, dai vaccini alle armi, amministrava i suoi affari nel trapanese. Si garantiva non solo una vita agiata, ma anche quella rete di complicità sul territorio che è indispensabile per farti dire che sei ancora “potente”, mentre la morte ti batte sulla spalla. La “borghesia mafiosa” arrestata, colpita duramente nei patrimoni milionari, non l’ha mai tradito. Oltre 100 arresti attorno a lui in questi anni, 200 milioni di euro sequestrati, aziende intere bloccate, ma nessuno ha mai detto una sola parola. Almeno ufficialmente da poter essere messa agli atti, da poter essere utilizzata in un processo.

Le “soffiate”, cioè quello che questa rete di protezione sul territorio ha sicuramente detto, sarebbero andate a vuoto comunque. Perché, come diceva Masino Buscetta a Falcone “c’è un tempo per tutto. Ora non è il tempo giusto perché io vi dica tutta la verità”. Ma anche un vecchio arnese come Messina Denaro, adesso che è innocuo per lo Stato impresentabile, adesso che potrebbe tirare in ballo solo morti, può tornare utile: come per il maiale, non si butta via niente. Una bella sceneggiata, un grande arresto con centinaia di uomini super armati che “catturano” uno che arriva con il commerciante di olive su una Fiat Brava da Campobello di Mazara. Penso che magistrati e Ros e Gis siano proprio convinti di aver fatto un gran lavoro, e l’hanno sicuramente fatto. Il problema è che gliel’hanno fatto fare, stavolta nessuna messa in allarme del latitante è arrivata. O forse sì, e il latitante era anche consapevole. Ma certo, quegli uomini con il mephisto sul volto, non si poteva farli recitare. Loro devono crederci. Con tutto quello che vedono, per tenerli legati alla loro missione, bisogna dargli il senso eroico della vittoria.

Nessuno adesso, romperà più i coglioni per continuare a cercare che fine hanno fatto le agende di Borsellino. Su chi dei servizi italiani abbia fatto arrivare un quantitativo di esplosivo militare così grande da poter far saltare in aria un’autostrada. Su chi degli apparati militari, abbia preparato e manovrato il dispositivo per l’esplosione sincronizzata, cosa molto complicata per target in movimento da qualche chilometro di distanza. O chi abbia innescato l’autobomba in Via D’Amelio per Borsellino. “Menti raffinatissime, altro che mafia” diceva Falcone. Eh sì. Menti raffinate di una governance di questo paese che non si è fatta mancare nulla. Da quello sbarco in Sicilia che ha preparato l’ordine mondiale che ha tenuto botta per mezzo secolo. Ora è un’altra storia. È un’altro ordine mondiale. Anche se, nonostante i morti ammazzati, le vittime innocenti come il piccolo Di Matteo, da noi non sembra mai una cosa seria. È cosa nostra, proprio. Luca Casarini

L'arresto del boss. Così i Ros hanno catturato Messina Denaro: una lezione a certa antimafia. Alberto Cisterna su Il Riformista il 18 Gennaio 2023

Una vittoria è una vittoria, anche se è del tutto evidente che qualcuno mastica amaro. Un po’ per invidia, un po’ perché tagliato fuori dal circo mediatico che, in occasione di altri arresti, tanto bene hanno portato alle carriere di toghe e giornalisti da loro privilegiati. Diciamolo con franchezza, scorrevano in tv mezzi sorrisi e smorfie di mal celato dolore al pensiero che proprio il Ros dei Carabinieri, il tanto vituperato Raggruppamento speciale nato sulle fondamenta dei nuclei costituiti dal generale Dalla Chiesa, avesse portato a termine il più difficile e immane dei compiti investigativi.

Perché sia chiaro la cattura di Messina Denaro è stata, a quel che si comprende, molto ma molto più difficile della cattura di altri latitanti eccellenti, persino dello stesso Salvatore Riina additato a un manipolo di coraggiosi, dall’interno di un furgone camuffato, dal pentito Balduccio Di Maggio. Ieri dozzine di militari e uomini dei reparti speciali (che certo stazionavano a Palermo da tempo e che avranno studiato la clinica palmo a palmo prima di intervenire) hanno garantito che il boss non potesse fuggire in mezzo alle centinaia di persone che popolavano “La Maddalena” alle prime ore del mattino. Una trappola perfetta, un congegno micidiale che doveva mettere le mani su un uomo abituato a fuggire e a sottrarsi a tutte le nuove tecnologie e a tutte le più avanzate tecniche d’indagine troppe volte strombazzate sui media da investigatori votati all’esibizionismo. Deve essere stato difficile, rispetto alla sfrontatezza urbana del capo dei capi o alla serafica solitudine contadina di Bernardo Provenzano.

Ma non mancano sibili velenosi e spifferi acri che già affiorano qua e là; le teorie complottiste che hanno accusato il colpo devono ora riposizionarsi. L’accusa per qualche decennio agli uomini del Ros è stata quella di aver negoziato latitanze e concesso favori, a partire dalla mancata perquisizione del covo di Riina, ora si punta il dito sull’ultimo rifugio di Messina Denaro lasciando immaginare che il latitante si portasse dietro le salmerie e le vettovaglie di presunti dossier e misteriose carte di cui, invero, nessuno ha mai parlato in modo affidabile e serio. Se esiste un caveau di Cosa nostra questo non è certo a casa di Messina Denaro che non sarà stato così sciocco, con centinaia di carabinieri e poliziotti alle calcagna da anni, da lasciare documenti scottanti nella scrivania di casa. Ma intanto si gettano le basi per il prossimo complotto e per le prossime illazioni; si analizzerà al microscopio il minimo indizio che possa dar materia per altri libri, per gli ennesimi articoli e per le solite stantie trasmissioni televisive popolate di pentiti bolliti da mille versioni perché si immiserisca il grande risultano e lo si incaselli nel nodo scorsoio dell’ennesima collusione tra lo Stato e la mafia.

Non è solo l’inclinazione e la pulsione complottista che avvelena alcune menti, ma è anche la lucida consapevolezza che ora tutto uno strumentario, tutto un insieme di leggi speciali, tutto un coacervo di carriere è messo in discussione dalla fine di un’epoca. Perché tutto si è giustificato – probabilmente a ragione – per le stragi del 1992 e del 1993; chiusa la stagione delle bombe lo Stato avvertirà inevitabilmente la necessità di assumere una postura legislativa, processuale, carceraria diversa da quella degli ultimi 30 anni. Un tempo enorme se si pensa. Per tre decenni si sono tollerati e compresi regimi carcerari duri, intercettazioni a tappeto, interdittive antimafia a strascico, misure di prevenzione fondate su labili congetture e supposizioni.

Già la Corte costituzionale, con le pronunce in materia di benefici penitenziari ed ergastolo ostativo, aveva fatto comprendere che era necessario imprimere un assetto diverso alle norme emergenziali e che non erano più sufficienti presunzioni e formule stereotipate per derogare ai principi basilari della Costituzione penale. Ora, con la recente legge 199 del 2022, il compito passa alla magistratura di sorveglianza che è necessariamente esposte alle conseguenze di quanto accaduto a Palermo poche ore fa. Perché, occorre dirlo con chiarezza, le norme in materia di mafia, il doppio binario processuale, lo stato d’emergenza carcerario in tanto trovano legittimazione in quanto il nemico da battere fosse “cosa nostra” stragista, si fosse al cospetto dei cadaveri di uomini innocenti, delle vittime travolte dall’odio dei boss.

Ma se quella fase storica si chiude in un modo così eclatante, con Messina Denaro in mano ai reparti speciali dei Carabinieri come “El Chapo” tenuto per la collottola dagli incursori della Marina colombiana, le cose cambiano e drasticamente. Ieri l’Arma dei Carabinieri ha impartito una lezione di sobrietà e compostezza comunicativa. Niente manette ai polsi del boss passato innanzi alle telecamere con le mani libere come prescrive le legge (e non per qualche inconfessabile attenzione), due militari della Territoriale a lato che lo conducevano al furgone che lo portava via dalla caserma, pochi uomini in mimetica per l’ultima scorta senza strattonarlo, né esibirlo. Una forza tranquilla, senza spavalderie ed esibizioni muscolari. Il successo era tanto evidente che non era necessario enfatizzarlo a uso e consumo dei media, come successo in altre clamorose occasioni, quando le telecamere ronzavano in covi e rifugi a poche ore dalla cattura.

È un segnale di svolta, e non solo comunicativa, che il paese deve comprendere perché proviene da una delle sue istituzioni più autorevoli. Una tragica epoca si chiude, finalmente, e non si tratta di una tregua come qualcuno vorrebbe far intendere. Ora si potrà por mano al dossier decisivo che, in tutti questi anni, una certa antimafia non sempre in buona fede ha messo sotto lo zerbino. È stato impellente l’interesse a confondere i corleonesi con la mafia e ad accanirsi in ricostruzioni e teoremi che hanno drenato energie e risorse enormi portando a esiti totalmente insufficienti. Dove sia cosa nostra siciliana, oggi, nessuno lo sa con la necessaria precisione. Quali interessi economici abbia, quali collegamenti abbia conservato con la politica, quali settori controlli della vita sociale di quella regione (e non solo) è frutto per lo più di congetture, ipotesi, iperboli, ma praticamente si sta intorno all’anno zero. Non c’è da recriminare troppo, c’era un lavoro da completare ed è stato portato a termine. Ora servono menti lucide, intelligenze investigative moderne, analisi penetranti per scovare il malaffare mafioso e scrostare la sua patina che ha anche parecchie mani di vernice di antimafia. Alberto Cisterna

Estratto da fanpage.it il 17 gennaio 2022.

L'arresto di Matteo Messina Denaro, avvenuto questa mattina nella clinica privata Maddalena di Palermo dove il boss si trovava per sottoporsi a una serie di cure, è stato commentato da Rita Dalla Chiesa, figlia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ucciso dalla mafia quarant'anni fa.

 A RaiNews24, la giornalista e conduttrice, deputata della Repubblica italiana, esprime la sua soddisfazione ma anche i suoi dubbi: "È un giorno importante. È incredibile come questo arresto così importante sia arrivato praticamente a trent'anni e un giorno di distanza da quello di Toto Riina". E poi: "Certo, fa strano che ogni volta che cambia un governo, poi ci sia un grande arresto. Ora bisogna sapere perché è stato arrestato solo oggi, visto che tutti sapevano dei suoi spostamenti". 

(...)

Rita Dalla Chiesa ha poi rivolto un pensiero ai carabinieri che hanno lavorato per questo arresto, ringraziandoli per il loro servizio. Ha poi posto una domanda che diventa centrale in questo momento: "Perché é stato arrestato soltanto oggi?". 

 Ai carabinieri che hanno fatto questo arresto, dico la cosa più banale e più vera: grazie per la fatica, per la sofferenza, per averci restituito la fiducia nello Stato e poi bisogna vedere, se questa fiducia nello Stato ci porterà anche a sapere delle cose. Non basta arrestare. Bisogna sapere perché è stato arrestato soltanto oggi, quando tutti sapevano da voci che arrivavano, dove si trovasse sempre in un certo periodo.

Dagospia il 17 gennaio 2022. “MI PIACE MOLTISSIMO IL TONO TRIONFALISTICO NELL’AVER ARRESTATO UNO CHE FACEVA IL LATITANTE DA TRENT’ANNI A VENTI METRI DA CASA SUA. CHE GRANDE COLPO” – IL TWEET DI LUCA BIZZARRI SULL’ARRESTO DI MATTEO MESSINA DENARO SCATENA UN PUTIFERIO. PIGI BATTISTA: “BASTAVA CHE CHIAMASSERO TE, ‘O FENOMENO, E IN CINQUE MINUTI SBARAGLIAVI LA MAFIA E PURE LA NDRANGHETA” – I COMMENTI AL FIELE: “LO SAI CHE HAI DETTO UNA BELLA CAZZATA? - È UNA BUONA NOTIZIA NO? O BISOGNA SEMPRE FARE I BUFFONI?"

“QUELLI CHE L’HANNO ARRESTATO L’HANNO FATTO PER PROTEGGERE ANCHE GENTE COME TE” – SU TWITTER IL MINISTRO DELLA DIFESA CROSETTO INFILZA LUCA BIZZARRI (CHE AVEVA CRITICATO IL “TONO TRIONFALISTICO” CON CUI ERA STATO ANNUNCIATO L’ARRESTO DI MESSINA DENARO) – IL COMICO GENOVESE CONTRO “IL SECOLO D’ITALIA” CHE LO TIRA IN BALLO DICENDO CHE CI È RIMASTO “MALE” PER L’ARRESTO DEL BOSS MAFIOSO: “CI RIMANGO MALE A VEDER QUANTO SIETE COGLIONI"

Guido Liberati per ilsecoloditalia.it il 17 gennaio 2022.

L’arresto di Matteo Messina Denaro, in un Paese normale, dovrebbe vedere tutti gli italiani felici per la vittoria dello Stato. Non da noi, dove il livore contro il governo non si placa neanche in queste occasioni.

 Un arresto che, evidentemente, ha spiazzato chi, a sinistra, aveva cavalcato la retorica dell’antimafia. Secondo i soliti noti, il governo Meloni era colpevole di non avere inserito nell’agenda la lotta alla mafia. Su tutti, l’onnipresente Roberto Saviano che oggi dovrebbe essere il primo a brindare. Macché. Ha preferito ridicolizzare il lavoro degli inquirenti. «Alla sua terra: come tutti i capi era esattamente nel luogo dove tutti sapevano fosse»: scrive in un tweet l’autore di Gomorra. Fosse stato così facile, l’avrebbero dovuto scovare i ministri dei governi precedenti. Ma questo Saviano non lo scrive. 

Non sono solo i giornalisti del carrozzone di sinistra a sentenziare sulla cattura del super latitante di Cosa nostra. L’arresto risulta indigesto perfino al comico Luca Bizzarri che, da Genova, cinguetta su Twitter. «Mi piace moltissimo il tono trionfalistico nell’aver arrestato uno che faceva il latitante da trent’anni a venti metri da casa sua. Che grande colpo». Perché ridicolizzare, sminuire un arresto storico? Immaginate lo avessero fatto per la cattura di Totò Riina o di Provenzano. Forse dipende dal fatto che il governo non gode delle simpatie di Bizzarri? Facile immaginarlo.

Ma l’arresto di Messina Denaro risulta indigesto perfino a chi con l’argomento c’entra come i cavoli a merenda. Prendete Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe. Il responsabile della Fondazione che in questi anni ha monitorato sulle campagne di vaccinazione e sui contagi della pandemia, oggi si è riciclato, forte delle sue origini siciliane, come esperto di criminalità organizzata. Proprio così: ha twittato una foto di Falcone e Borsellino con un immaginario dialogo tra i due magistrati uccisi dalla mafia.  “Giovanni, finalmente hanno preso la primula rossa” “No Paolo, si è fatto prendere”.

Inutile dire che i tweet di risposta a Cartabellotta sono piovuti a raffica. E chi ironizza causticamente, come l’account satirico La voce della Fogna: «E così scopriamo che questo signore oltre ad essere esperto di vaccini lo è pure di mafia. Ci pare un ulteriore motivo chiedere di sapere tramite Commissione d’inchiesta Covid da chi, come, dove, quando e perché abbia ottenuto finanziamenti pubblici». Forse a Cartabellotta conveniva occuparsi ancora di Covid.

Estratto dell'articolo di Federico Monga per “La Stampa” il 17 gennaio 2022.

«Oggi è una giornata importante per la lotta alla mafia ma sarebbe letale pensare che lo Stato abbia sconfitto Cosa Nostra». Il magistrato Nino Di Matteo, noto per l'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, ha combattuto per una vita la criminalità organizzata siciliana è certo: «È un madornale errore pensare che con l'arresto del boss Matteo Messina Denaro, la mafia sia finita». Anzi, «la mafia ha ancora la forza per tornare ad attaccare il cuore del nostro Paese». […]

La politica e il governo sono euforici. Ma si può parlare di una vittoria dopo una latitanza durata 30 anni?

«Lo Stato avrà davvero vinto quando avrà approfondito e fatto chiarezza sul come e sul perché sia stata possibile una latitanza così lunga nonostante l'impegno di migliaia di agenti delle forze dell'ordine e di decine di magistrati. Avevamo identikit molto fedeli, Messina Denaro ha vissuto a Palermo, è stato arrestato in una delle cliniche più frequentate della città».

 Ha fatto un selfie con il suo medico curante. Che risposta si dà?

«È assai probabile che la sua latitanza non sia dovuta solo all'abilità del fuggiasco ma anche alle protezioni di cui ha goduto. Proprio ieri in una sentenza della Corte di Assise di Palermo, a proposito della trattativa Stato-mafia che ha condannato i boss e assolto gli apparati dello Stato, è scritto che per un certo periodo gli alti funzionari del Vecchio Ros avevano coperto Provenzano per interesse nazionale in modo che potesse consolidare la leadership moderata rispetto all'ala stragista. Insomma ci sono sempre state coperture istituzionali. E fino a quando non si chiariranno le coperture e le complicità, allora come ora, non potremo di avere vinto». […]

Un altro pentito, Salvatore Baiardo, pochi mesi fa ha detto in tv che Messina Denaro era malato e che avrebbe potuto farsi arrestare magari, ha lasciato intendere, se in cambio si discutesse davvero dell'abolizione dell'ergastolo ostativo.

«Avevo già notato allora la precisione del suo racconto.

Ora si deve fare il possibile per capire come abbia potuto prevedere tutto questo. E soprattutto come e attraverso chi aveva saputo delle condizioni di salute di Messina Denaro». […]

È il custode di tanti segreti. Anche dell'agenda rossa di Borsellino e dell'archivio di Riina?

«Non sono congetture, ma considerazioni fatte in un certo periodo dai boss e riferite dal pentito Nino Giuffrè, che è stato al vertice di Cosa Nostra. Giuffrè ha sostenuto che Messina Denaro avrebbe utilizzato l'agenda rossa e l'archivio di Riina come arma di pressione e ricatto all'interno e all'esterno di Cosa Nostra».

Si può pentire?

«Non lo so. Auspico che, se decidesse di parlare, lo faccia pienamente. Ma anche lo Stato deve fare la sua parte senza avere paura di fare domande e di ascoltare risposte come avvenuto in passato. Messina Denaro non deve aggiungere qualche tassello sulla stragi ma farci capire chi ha voluto gettare nel panico un Paese, con finalità terroristiche». […]

 Chi comanda ora Cosa Nostra ? «Messina Denaro era il vero successore di Riina. Adesso non penso che sia facile capire cosa succederà. L'arresto darà uno scossone che creerà un assestamento attorno a nuovo equilibri, non solo nella mafia siciliana».

Estratto dell'articolo di Gian Carlo Caselli per “La Stampa” il 17 gennaio 2022.

[…] Per quanto mi riguarda direttamente, l'arresto di Messina Denaro, diventato uno dei boss più potenti (forse il più potente) di tutta la mafia siciliana, mi riporta alle stragi del 1993, insieme ad una delle storie più dolorose del mio periodo di lavoro alla procura di Palermo. Mi riferisco al sequestro (23 novembre 1993) del ragazzino tredicenne Giuseppe Di Matteo, che, dopo una prigionia di 779 giorni, fatta di maltrattanti e torture, venne strangolato e sciolto nell'acido dai mafiosi. […]

 Fra l'arresto di Riina e quello di Messina Denaro vi sono state altre catture "eccellenti": Brusca, Bagarella, Aglieri, Ganci, i fratelli Graviano, Provenzano... per ricordarne solo alcuni, si può dire che Cosa nostra è stata sconfitta? Che abbia subito molti durissimi colpi è fuori discussione. Ma non si deve dimenticare (mai!) che essa è anche e soprattutto un'organizzazione criminale strutturata, non una "semplice" emergenza. Va affrontata e colpita appunto come organizzazione, oltre che nelle singole componenti individuali.

Va colpito inoltre il lato oscuro del pianeta mafia, le "relazioni esterne", quell'intreccio di coperture, complicità e collusioni che sono la spina dorsale del potere mafioso. E qui è d'obbligo rivolgersi alla politica (tutta, senza distinzioni di casacca) per chiederle di essere meno assente: la mafia deve stare ai primi posti dell'agenda della politica che invece troppo spesso non lo fa. […]

 La nuova mafia agisce su livelli più sofisticati rispetto al passato, ma le piste da seguire (come intuì per primo Falcone) sono sempre più legate al denaro, ai suoi possibili percorsi e impieghi, ai collegamenti internazionali, agli investimenti, alle centrali off shore, all'espansione del mercato delle criptovalute e delle monete elettroniche, alle nuove tecnologie nel settore finanziario, alla blockchain, alla high frequency trading, all'import-export, ai fondi di investimento internazionali.

Si conferma il passaggio delle mafie dalla strada alle stanze ovattate dei consigli di amministrazione e delle grandi centrali finanziarie, dove si possono decidere i destini di un intero comparto economico: stabilendo acquisti, vendite di aziende, il prezzo di intere produzioni, lo spostamento di flussi di capitali da una zona all'altra, riuscendo persino a segnare i tempi e i percorsi di sviluppo o di declino di interi Paesi.

Ecco perché si richiede alla politica una speciale e costante attenzione. Anche sul piano della cooperazione internazionale. Per il fatto che, a dispetto dell'internazionalizzazione e globalizzazione del crimine organizzato, persiste un carattere ancora prevalentemente nazionale delle normative penali a base dell'azione di contrasto. E ciò non agevola, anzi inceppa l'efficacia degli interventi. […]

Estratto dell’articolo di Francesco La Licata per “La Stampa” il 17 gennaio 2022.

[…] La Sanità pubblica è stata e probabilmente è ancora la mangiatoia di Cosa nostra e non solo in Sicilia. Come non ricordare l'attenzione che Bernardo Provenzano riponeva nella «diagnostica per immagini» e in particolare negli appalti per l'acquisto di macchinari all'avanguardia. E che dire della vicenda della Clinica Santa Teresa (anche quella all'avanguardia per chemio e radioterapia) che costò la carriera politica all'allora potentissimo Totò Cuffaro, travolto dall'ombra di Provenzano e dei suoi legami coi proprietari della clinica? Ma la salute dei boss è stata la loro palla al piede.

Provenzano tradito dalla prostata, Matteo piegato dal colon irritabile e da un cattivo tumore. Insomma, queste storie si somigliano e suscitano sempre dubbi e perplessità. Ogni volta che un boss viene preso scatta il riflesso condizionato: si è consegnato? C'è una trattativa sotto sotto?

Antonio Fraschilla per “la Repubblica” il 17 gennaio 2022.

[…] Resta il tema di come la mafia e la sanità in Sicilia siano argomenti di contatto e spesso. Messina Denaro nel 1999 venne ricoverato insieme a Bernando Provenzano nel pieno della loro latitanza e negli anni del dopo stragi quando erano i più ricercati del mondo, in una allora nota clinica di Bagheria, Villa Santa Teresa, di proprietà di un astro nascente dell'imprenditoria siciliana: Michele Aiello, un volto tuttofare che mischiava cemento (aveva un'azienda edile e realizzava strade interpoderali con il benestare della mafia) a siringhe e macchinari di analisi che guarda caso solo lui aveva accreditati in Sicilia. Si scoprirà qualche anno dopo, con l'indagine sulle talpe della procura di Palermo, che spifferavano indagini sui boss più importanti della città, che Aiello era in realtà il prestanome di Provenzano.

E che, in un retrobottega di Bagheria, aveva discusso anche delle tariffe che la Regione gli doveva pagare per quelle prestazioni con l'allora potente governatore siciliano Salvatore Cuffaro.  Perché la sanità in Sicilia è il cuore della politica, essendo da sola una voce che vale più della metà del bilancio regionale in una delle terre più povere d'Europa e che, in soldoni, ha ben poche altre attività.

Cuffaro, medico radiologo come il sindaco di Palermo e come una genìa di politici siciliani, venne inguaiato in quella inchiesta della procura, e poi condannato, perché accusato di aver fatto trapelare indagini allora aperte dalla stessa procura su un altro volto della sanità siciliana, il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, cognato di Messina Denaro, perché suo fratello era sposato con la sorella di quest' ultimo. Mafia e siringhe. Un po' per vocazione affaristica, un po' per necessità: sia Provenzano sia Denaro hanno sempre avuto un debole per la sanità anche a causa dei loro malanni. […]

Estratto dell’articolo di Val. Pac. e G. Pip. per “il Fatto quotidiano” il 17 gennaio 2022. 

[…]

Per adesso nessuna forma di partecipazione alla latitanza dell'ultimo stragista è stata riscontrata da parte di medici e proprietari della clinica privata. "La Maddalena" è uno dei poli di eccellenza dell'isola, con un giro di affari da 55 milioni di euro all'anno e 862mila euro di utili nel 2021. Il colosso della sanità a settembre 2022 vantava 374 addetti ed è controllato da due società, la Finmed srl (51 per cento) e la Rillma srl (49 per cento), mentre il capitale sociale è di 9,3 milioni di euro.

Il presidente del cda è Guido Filosto, nominato Cavaliere del lavoro nel 2009, mentre il figlio Leone è consigliere delegato: nel 2015 entrambi sono stati processati e assolti totalmente per truffa ai danni del Sistema sanitario. La Finmed è a sua volta controllata da Impresa costruzioni speciali e servizi spa di cui è amministratore unico Filosto senior, mentre la Riilma è della famiglia Ponte-De Gennaro. Nessuno dei citati è coinvolto nell'indagine su Messina Denaro. […]

Estratto dell’articolo di Edoardo Sirignano per “L’identità” il 17 gennaio 2022.

"La vera Trattativa inizia con Matteo Messina Denaro in carcere. C'è più di qualcuno che fa solo finta di gioire per il suo arresto. Se parla può cambiare il Paese. Sono in tanti a tremare".

 A dirlo Antonio Ingroia, ex procuratore, noto per aver lavorato a stretto contatto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e per combattuto Cosa Nostra, nonché i suoi principali protagonisti.

Cosa la colpisce di più dell'arresto?

Voglio capire bene quale è il contesto in cui è maturato. È singolare che Messina Denaro sia stato catturato in Sicilia dove stava ricoverato da un pezzo. Per un latitante accorto, come, lui sembra più di una semplice imprudenza.

 Qualcuno sostiene che si sia consegnato...

Non lo escludo. Lo capiremo bene, comunque, solo nei prossimi giorni, quando sarà fatta piena chiarezza sulla vicenda. […]

Considerando la sua lunga esperienza da magistrato in Sicilia, possiamo che la Mafia è stata sconfitta?

Assolutamente no! La mafia non era solo Matteo Messina Denaro. Possiamo dire che è stata sconfitta la stagione stragista e l'ala corleonese, quella di Riina, Provenzano, Bagarella e Graviano seppelliti in carcere dagli ergastoli e appunto del loro ultimo erede, preso in mattinata mentre gli stavano somministrando delle cure contro un cancro.

 Al di là dell'icona che si sta costruendo in queste ultime ore, stiamo parlando di chi non è mai stato il capo dei capi. Cosa Nostra, oggi, è cambiata. È moderata, finanziaria, affarista, governata e organizzata in modo federato fra i vari rappresentanti del territorio.

 […] Il capitolo della Trattativa, invece, è possibile metterlo definitivamente in soffitta?

No! C'è sempre. Possiamo dire, piuttosto, che ha cambiato tavolo. Prima la mafia utilizzava come strumento di pressione le armi. Oggi, al contrario, lo fa soprattutto col silenzio. Anzi, posso tranquillamente sostenere che con Matteo Messina Denaro in carcere, che tratta appunto il suo non aprir bocca, inizi il secondo capitolo.

Stiamo parlando, infatti, di chi sa verità indicibili sui grandi misteri del nostro Paese dagli anni Ottanta fino ai nostri giorni. Questo boss è a conoscenza dei mandanti, anche esterni, della stagione stragista del 1992-1993, della Trattativa, del famoso papello di Riina, delle ragioni più segrete ed occulte per cui vennero uccisi Falcone e Borsellino del motivo per il quale la strategia si spostò verso il Nord Italia con i fattacci di Roma, Firenze e Milano, del tentato omicidio nei confronti del questore Rino Germanà, che andò lui personalmente a sparare, di cosa era stato detto al senatore Vincenzo Inzerillo, di tutti i contenuti dell'agenda rossa, di ogni rapporto comprovato fra Cosa Nostra, la massoneria e i servizi segreti. […]

Estratto dell’articolo di Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2022.

«Da oltre un anno indagavamo su tutte le persone con le stesse particolari patologie di cui soffre Matteo Messina Denaro […]». Teo Luzi è il comandante generale dei carabinieri, l'uomo che entrerà nella storia per aver messo fine alla latitanza del boss ricercato per trent'anni. […]

 […] «Nell'ultimo mese avevamo capito che il cerchio si stava stringendo e sapevamo che ogni momento poteva essere quello buono. […]».

 […] Un altro boss catturato in Sicilia, che addirittura si faceva ricoverare a Palermo e presumibilmente viveva a pochi passi da casa sua. Non lo ritiene una beffa?

«Le nostre ricerche si sono sempre concentrate in Sicilia, eravamo pienamente consapevoli di dover trovare un buco nella rete di protezione del capo. Ma è bene sapere che si tratta di una rete stretta e non facilmente penetrabile […]».

Che cosa intende?

«Avevamo un pool di investigatori dedicati esclusivamente a questa indagine e con un gioco di squadra […] siamo riusciti ad afferrare il filo giusto. Il metodo del generale Carlo Alberto dalla Chiesa è […] raccolta di tantissimi dati informativi dei reparti dei carabinieri, intercettazioni telefoniche e ambientali, verifiche sulle banche dati dello Stato, interrogatori».

[…] C'è chi dice che Matteo Messina Denaro si è consegnato, chi parla di una nuova trattativa tra la mafia e lo Stato. Avete negoziato?

 «Non ci sono misteri, né segreti inconfessabili. Abbiamo indagato per anni e anni e abbiamo lavorato per fargli terra bruciata intorno. Fino a questo risultato straordinario che deve essere dedicato a tutte le vittime di mafia».

 “La trattativa Stato-mafia comincia adesso, vedrete chi tremerà e oggi esulta”. Edoardo Sirignano su Redazione L'Identità il 17 Gennaio 2023

“La vera Trattativa inizia con Matteo Messina Denaro in carcere. C’è più di qualcuno che fa solo finta di gioire per il suo arresto. Se parla può cambiare il Paese. Sono in tanti a tremare”. A dirlo Antonio Ingroia, ex procuratore, noto per aver lavorato a stretto contatto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e per combattuto Cosa Nostra, nonché i suoi principali protagonisti.

 Cosa la colpisce di più dell’arresto?

Voglio capire bene quale è il contesto in cui è maturato. È singolare che Messina Denaro sia stato catturato in Sicilia dove stava ricoverato da un pezzo. Per un latitante accorto, come, lui sembra più di una semplice imprudenza.

 Qualcuno sostiene che si sia consegnato…

Non lo escludo. Lo capiremo bene, comunque, solo nei prossimi giorni, quando sarà fatta piena chiarezza sulla vicenda. C’è un punto di contatto con Bernardo Provenzano, ovvero che più che le forze dell’ordine è la malattia a fermare i capi mafia. Il primo venne preso vecchio e malato. Stessa sorte è toccata al suo successsore.

 Non le sembra strano che l’operazione sia avvenuta a poche ore dall’anniversario della cattura di Totò Riina?

È una coincidenza singolare. Detto ciò, non è un elemento per dire che siamo di fronte a un qualcosa di pilotato.

 Ci sono altre correlazioni tra oggi e l’11 aprile del 2006, giorno in cui è finito dietro le sbarre Provenzano?

A parte il dato cronologico che ricorda Riina, quanto accaduto oggi mi fa pensare tanto al blitz di Provenzano, preso senza particolari resistenze. Esiste, ancora oggi, il dubbio che quest’ultimo possa essersi consegnato di spontanea volontà. Entrambi i latitanti, d’altronde, si trovano in una clinica malati e deboli. Speriamo, comunque, che stavolta ci siano subito particolari che permettano di far luce su quanto accaduto.

 Considerando la sua lunga esperienza da magistrato in Sicilia, possiamo che la Mafia è stata sconfitta?

Assolutamente no! La mafia non era solo Matteo Messina Denaro. Possiamo dire che è stata sconfitta la stagione stragista e l’ala corleonese, quella di Riina, Provenzano, Bagarella e Graviano, seppelliti in carcere dagli ergastoli e appunto del loro ultimo erede, preso in mattinata mentre gli stavano somministrando delle cure contro un cancro. Al di là dell’icona che si sta costruendo in queste ultime ore, stiamo parlando di chi non è mai stato il capo dei capi. Cosa Nostra, oggi, è cambiata. È moderata, finanziaria, affarista, governata e organizzata in modo federato fra i vari rappresentanti del territorio.

 Come combatterla?

Alzando, innanzitutto, l’attenzione. Da cittadino ed ex magistrato, non posso far altro che congratularmi con chi ha portato avanti le indagini, che poi hanno consentito all’arresto del latitante. Nel contempo, però, mi preoccupa il trionfalismo di rito. Si potrebbe, infatti, consolidare nell’opinione pubblica l’idea sbagliata che dopo quest’operazione la partita sia chiusa e sia opportuno occuparsi d’altro. La Mafia c’è ed è un problema più di prima. È la priorità e dovrà ancora esserlo per chi governa. Ecco perché serve immediatamente un impegno serio e non un approccio burocratico. Spesso l’Antimafia finisce per essere, purtroppo, solo informative o peggio ancora si perde in una ritualità, che agevola l’impunità di chi tira i fili del sistema.

 Il capitolo della Trattativa, invece, è possibile metterlo definitivamente in soffitta?

No! C’è sempre. Possiamo dire, piuttosto, che ha cambiato tavolo. Prima la mafia utilizzava come strumento di pressione le armi. Oggi, al contrario, lo fa soprattutto col silenzio. Anzi, posso tranquillamente sostenere che con Matteo Messina Denaro in carcere, che tratta appunto il suo non aprir bocca, inizi il secondo capitolo. Stiamo parlando, infatti, di chi sa verità indicibili sui grandi misteri del nostro Paese dagli anni Ottanta fino ai nostri giorni. Questo boss è a conoscenza dei mandanti, anche esterni, della stagione stragista del 1992-1993, della Trattativa, del famoso papello di Riina, delle ragioni più segrete ed occulte per cui vennero uccisi Falcone e Borsellino, del motivo per il quale la strategia si spostò verso il Nord Italia con i fattacci di Roma, Firenze e Milano, del tentato omicidio nei confronti del questore Rino Germanà, che andò lui personalmente a sparare, di cosa era stato detto al senatore Vincenzo Inzerillo, di tutti i contenuti dell’agenda rossa, di ogni rapporto comprovato fra Cosa Nostra, la massoneria e i servizi segreti.

 Cosa ne pensa dell’esultanza trasversale da parte di tutte le forze politiche?

È abbastanza di maniera. Fa parte del cosiddetto canovaccio.

Tutti si dichiarano felici e contenti quando viene arrestato il capo Mafia di turno. Ritengo, però, che viste le verità, di cui è depositario Matteo Messina Denaro, la gioia non è sincera per tutti. C’è più di qualche politico, perché non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, che manifesta ipocrisia. Anzi trema perché pensa che finalmente possa esserci qualcuno che possa vuotare il sacco.

L’arresto di Matteo Messina Denaro sembra l’episodio di un film già visto. Stefano Baudino su L'Indipendente il 17 Gennaio 2023.

Palermo, ieri, si è risvegliata sotto una pioggia scrosciante. Pareva una mattina invernale come tante altre, invece il caotico dispiegarsi delle sirene nelle strade del centro cittadino ha costituito la scenografica anteprima di un evento di portata storica: la cattura di Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande stragista di Cosa Nostra tra i boss non reclusi, che per trent’anni si è reso protagonista di una latitanza da molti giudicata leggendaria e da alcuni altri sospetta. Matteo “’u Siccu”, come veniva chiamato per via della sua corporatura snella, è stato arrestato dal Reparto Operativo Speciale dei carabinieri all’interno della clinica privata La Maddalena, in cui era in cura da un anno sotto il falso nome di “Andrea Bonafede”, nell’ambito di un’inchiesta coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. Dalle cartelle cliniche sequestrate dalle forze dell’ordine, risulterebbe che Messina Denaro è stato operato prima a Marsala per un tumore al colon, poi nella clinica di Palermo a causa di una metastasi al fegato. I carabinieri del Ros hanno dichiarato che quando è stato bloccato, il mafioso di Castelvetrano non ha opposto resistenza e “si è subito dichiarato, senza neanche fingere di essere la persona di cui aveva utilizzato l’identità”. Il boss è stato subito trasferito nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila.

La biografia del boss

Figlio di un mafioso molto potente, don Francesco Messina Denaro, alleato dei corleonesi e reggente del mandamento di Castelvetrano, Matteo è nato nella città trapanese nel 1962. Divenne presto il pupillo del “capo dei capi” Totò Riina, che assunse lo scettro del potere in Cosa Nostra dopo la seconda guerra di mafia scatenata contro i palermitani di Stefano Bontate all’inizio degli anni Ottanta e trionfalmente vinta. Nel 1992, nel periodo antecedente alla strage di Capaci, Messina Denaro fece parte del gruppo di fuoco che avrebbe dovuto provvedere all’omicidio di Giovanni Falcone inizialmente pianificato a Roma, dove il giudice ricopriva la carica di direttore generale degli affari penali al Ministero della Giustizia. Poi, però, Riina fece rientrare in Sicilia i suoi uomini: nei piani c’era, appunto, il devastante “attentatuni” di Capaci del 23 maggio, in cui il magistrato avrebbe perso la vita assieme a sua moglie Francesca Morvillo e a tre uomini della sua scorta. Nel 2020, Matteo Messina Denaro sarà condannato all’ergastolo per l’eccidio di Capaci, così come per la strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992, in cui vennero uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque ragazzi della sua scorta. La bomba scoppiò un mese e mezzo dopo l’apertura della “Trattativa Stato-mafia”, frutto di un invito al dialogo che le istituzioni lanciarono all’indirizzo dei vertici di Cosa Nostra, oggetto di un processo tuttora in corso. Un capitolo della torbida storia d’Italia di cui grazie alle ultime sentenze conosciamo molti dettagli.

Pochi giorni prima dell’attentato mortale a Borsellino, inoltre, Messina Denaro fu uno degli esecutori materiali (anche se il colpo fatale venne sparato dal boss Nino Gioè) dell’omicidio di Vincenzo Milazzo, capomafia di Alcamo, che si era opposto al progetto stragista di Riina e delle “menti raffinatissime” che, al di fuori dei confini di Cosa Nostra, ne furono probabilmente compartecipi. Due giorni dopo Antonella Bonomo, compagna di Milazzo incinta di tre mesi, fu strangolata dagli stessi mafiosi. Probabilmente da Messina Denaro in persona. La latitanza del boss di Castelvetrano iniziò ufficialmente nel giugno del 1993, quando nei suoi confronti fu spiccato un mandato d’arresto per un gran numero di reati. Nel novembre dello stesso anno, “’u Siccu” autorizzò il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio tredicenne del pentito Santino Di Matteo. Il piccolo venne strangolato e sciolto nell’acido dai mafiosi l’11 gennaio 1996.

In particolare, Matteo Messina Denaro fu il principale stratega, assieme ai suoi due “fratelli criminali” Giuseppe e Filippo Graviano, reggenti del mandamento di Brancaccio, del “secondo tempo” della stagione stragista di Cosa Nostra, che nel 1993 fece esplodere le bombe nelle città di Roma, Milano e Firenze, esportando dunque la sua violenza nel “continente”. Quegli attentati, che provocarono la morte di dieci persone e il ferimento di centinaia di individui, veicolavano il “grande ricatto” della mafia nei confronti dello Stato italiano: Riina, in sede di “trattativa”, aveva infatti esplicitato all’interno del celebre “papello” una serie di richieste normative (tra cui l’abrogazione del 41-bis, la concessione dei benefici penitenziari, la riforma della legge sui pentiti e la chiusura delle supercarceri di Pianosa e dell’Asinara) e in quella fase occorreva “sollecitare” l’interlocutore istituzionale, per i mafiosi in ritardo sulla “tabella di marcia”, a intervenire. Insieme ai Graviano, Messina Denaro apparteneva alla fazione “stragista” di Cosa Nostra, capeggiata da Riina, a cui si contrapponeva l’ala “moderata” guidata da Bernardo Provenzano.

Nel frattempo, il 15 gennaio 1993, Totò Riina era stato catturato nella cornice di un arresto pieno di ombre, segnato dalla mancata perquisizione e sorveglianza da parte degli uomini del Ros del covo palermitano in cui il padrino risiedeva con la sua famiglia. Come ha sancito la sentenza di Appello al processo “Trattativa”, la scelta operata in quel frangente dal Ros rappresentò “un segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo” lanciato dai carabinieri a Bernardo Provenzano, che era diventato il terminale più funzionale alla trattativa. E Provenzano, anche grazie alla “protezione soft” garantita dagli uomini del Ros alla sua latitanza, poté evitare le manette fino al 2006.

Quelle coincidenze con gli arresti dei capi corleonesi

A questo proposito, è impossibile non notare una serie di comuni denominatori tra l’arresto di Matteo Messina Denaro e quello dei due capi corleonesi: esattamente come Totò Riina, “’u Siccu” è infatti stato catturato al di fuori della sua abitazione (secondo quanto dichiarato in conferenza stampa dal Ros, le perquisizioni continueranno anche nelle prossime ore: vedremo fin dove le forze dell’ordine potranno o decideranno di spingersi); al contempo, proprio come Provenzano, al momento dell’arresto il padrino di Castelvetrano era fortemente indebolito dall’azione di un tumore e, dunque, necessariamente costretto a spostarsi al fine di sottoporsi alle cure oncologiche.

Matteo Messina Denaro si è storicamente rivelato però anche una delle più sofisticate menti “politiche” dell’organizzazione di Cosa Nostra. Basti pensare che, dopo il crollo dei principali referenti partitici nazionali della mafia palermitana nell’era di Tangentopoli (prima tra tutti, la Democrazia Cristiana), concepì insieme a Leoluca Bagarella un’operazione estremamente ambiziosa: la costituzione di un “partito della mafia”, che si sarebbe dovuto chiamare “Sicilia Libera”, con la finalità di infiltrare le istituzioni direttamente con i propri uomini, attraverso una federazione di tutti i movimenti autonomisti del Sud (sulla scorta di quanto la Lega Nord di Umberto Bossi stava facendo nel polo opposto dello stivale). L’epicentro del progetto sarebbero state infatti quelle “Leghe meridionali” che erano diventate l’ambiente politico di riferimento di illustri personaggi dell’eversione nera e di potenti frange della massoneria deviata. Il progetto si arenò solo quando i mafiosi ebbero la certezza del fatto che Silvio Berlusconi sarebbe sceso in campo alle elezioni del 1994: il “Cavaliere” era infatti una vecchia conoscenza di Cosa Nostra, avendo stretto con i suoi vertici un “patto di protezione” nel lontano 1974, che comportò il finanziamento dell’organizzazione mafiosa da parte dell’allora imprenditore milanese tramite il suo braccio destro Marcello Dell’Utri (che per questo venne condannato per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa) almeno fino al 1992, come sancito definitivamente dalle sentenze. E ora, paradosso dei paradossi, tra i leader politici che esultano per la cattura di Messina Denaro figura anche il “finanziatore” della mafia Berlusconi, azionista di maggioranza del governo in carica con il suo partito Forza Italia. La stessa forza politica che, nel 1994, si accaparrò il sostegno e i voti dei mafiosi. Una vicenda provata, quella delle relazioni tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra, di cui in passato abbiamo scritto approfonditamente su L’Indipendente.

Sullo sfondo dell’arresto di Messina Denaro si stagliano poi le ombre dei boss stragisti reclusi da decenni al 41-bis senza essersi mai pentiti, come i fratelli Graviano e Leoluca Bagarella, che con il padrino di Castelvetrano custodiscono i segreti inconfessabili sui retroscena della stagione stragista del ’92-’93, compresi quelli che coinvolgerebbero profili estranei alla mafia militare. Rispetto a tale spaccato, risultano incredibilmente profetiche le dichiarazioni rese da Salvatore Baiardo, che fu uomo di fiducia e gestore della latitanza dei fratelli Graviano (i quali vennero poi arrestati nel gennaio 1994) alla trasmissione “Fantasmi di mafia”, andata in onda su La7 il 5 novembre 2022: «Chi lo sa che magari non arriva un regalino? Che magari presumiamo che Matteo Messina Denaro sia molto malato e che faccia una trattativa lui stesso per consegnarsi e fare un arresto clamoroso? E che così, arrestando lui, possa uscire qualcuno che magari è all’ergastolo ostativo senza che ci sia clamore?». Baiardo, insomma, a novembre dimostrava di essere già al corrente dello stato di salute precario del latitante, sostenendo che il suo imminente arresto potesse costituire l’oggetto dell’ennesimo do ut des sul binario di una trattativa ancora effettivamente in essere tra la mafia e apparati istituzionali. Addirittura, secondo Baiardo, «tutto potrebbe essere magari programmato già da tempo». Ora che Messina Denaro è stato preso, solo i fatti potranno confermare o smentire tale ipotesi: in primis, occorrerà constatare ad esempio se la nuova legge sull’ergastolo ostativo, approvata non senza difficoltà dal Parlamento il 30 dicembre 2022, potrà consentire ai boss stragisti di Cosa Nostra di ambire all’ottenimento degli agognati benefici penitenziari e dunque di poter puntare ad un futuro al di fuori delle mura carcerarie (su questo tema, tra i più importanti magistrati antimafia si evidenziano visioni e previsioni differenti, se non vere e proprie “spaccature”). Sicuramente, dopo l’emersione di pesanti verità giudiziarie sugli arresti dei “pezzi da novanta” di Cosa Nostra degli anni Novanta e Duemila, anche l’episodio del clamoroso arresto andato in onda su tutte le televisioni e i giornali d’Italia appare come l’ennesima puntata di un film già visto e rivisto.

«Io credo che la grande vittoria si avrà veramente quando si farà luce su due aspetti della storia criminale di Matteo Messina Denaro: il primo è quello sulle conoscenze sui moventi e mandanti delle stragi del 1992 e del 1993, di cui è stato protagonista; il secondo è quello relativo a una latitanza di 30 anni che è stata troppo lunga per poter essere una latitanza normale e che sicuramente è stata protetta dall’alto da certi ambienti», ha commentato a margine della cattura del boss di Castelvetrano Nino Di Matteo, pm della trattativa Stato-mafia, che secondo l’importante pentito Vito Galatolo nel 2013 sarebbe stato il bersaglio di un progetto di attentato ordinato dallo stesso Matteo Messina Denaro. «Oggi è una bella giornata per il Paese, per la giustizia, per Palermo e per la Sicilia. Ma guai a pensare che oggi abbiamo chiuso il cerchio», ha tenuto a sottolineare il magistrato, secondo cui è fondamentale «non dimenticare, come riportano sentenze definitive, che Matteo Messina Denaro è quello che, insieme a Giuseppe Graviano, ha organizzato la campagna stragista nel 1993 a Roma, Firenze e Milano. È quello che ha indicato agli altri esecutori materiali gli obiettivi da colpire. È quello che probabilmente, in questo contesto, ha avuto contatti con uomini e ambienti esterni a Cosa Nostra». Solo il tempo avrà davvero la forza di illuminare, attraverso la luce della verità storico-giudiziaria e non solo delle telecamere delle televisioni mainstream intente a inquadrare il “personaggio del giorno”, lo storico arresto di Matteo Messina Denaro del 16 gennaio 2023.

[di Stefano Baudino]

La necessità del dubbio e la sindrome del puparo. Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

Anche stavolta molti italiani si sono subito chiesti se non ci stanno mentendo sull’arresto del boss

Il dubbio sistematico è l’abito mentale dell’Occidente, da Cartesio in poi. È un metodo che ci induce a sottoporre al vaglio della ragione qualsiasi verità, fosse pure matematica, prima di accettarla come vera. Allo stesso modo, nelle società aperte lo scetticismo è il dovere deontologico della stampa libera; così come il potere di inchiesta e controllo è la funzione democratica del Parlamento, e in esso delle opposizioni.

Vogliamo perciò sapere ogni cosa, non appena sarà possibile e senza pregiudicare le operazioni di polizia, dell’arresto di Messina Denaro, delle indagini che l’hanno preceduto, delle condizioni in cui è avvenuto. È peraltro comprensibile non accontentarsi mai della versione ufficiale, perché la storia della Repubblica purtroppo abbonda di notti ancora avvolte nel mistero.

Ma bisogna riconoscere che, forse proprio a causa di questa tradizione di opacità, in ampi settori dell’opinione pubblica si è diffuso, al posto del dubbio, un pregiudizio di sfiducia sistematica nei confronti dello Stato e dei suoi apparati. Che ha trasformato spesso l’ansia di verità in presunzione di menzogna da parte delle autorità.

Riforniti a getto continuo di presunti complotti da quella che potremmo definire una vera e propria setta, Dietrology, anche stavolta molti italiani si sono subito chiesti se non ci stanno mentendo sull’arresto del boss, se in realtà si sia consegnato, oppure sia stato tradito (il che non inficerebbe comunque la vittoria dello Stato); o peggio ancora se non sia stato immolato sull’altare di una nuova trattativa dei vertici mafiosi al fine di ottenere benefici per chi è in galera e concessioni per la mafia che verrà. Così, mentre in tutto il mondo dicono «gli italiani hanno preso il capo della mafia», molti italiani si chiedono perché solo ora, se era così facile.

I precedenti nel nostro Paese — l’abbiamo detto — inducono a dubitare. Ma anche tanti anni di teorie del «doppio Stato», di giochi di parole su «chi è Stato», di sospetti lanciati su servitori dello Stato fedeli, compresi quelli che presero Totò Riina, hanno scavato alla lunga un solco tra cittadini e istituzioni non sempre giustificato; creato un senso comune, un riflesso condizionato, per cui dietro ogni scena ci deve essere un retroscena, dietro ogni fatto una trama, e dietro ogni evento un puparo.

Questo stato di cose è al tempo stesso effetto e causa della mancata identificazione di ampie sezioni della società italiana nello Stato democratico. Un po’ perché alcune componenti se ne sono sempre sentite estranee, e dunque ne hanno contestato fin dall’inizio la legittimazione. Un po’ perché la grande frattura della fine della Prima Repubblica è avvenuta nelle aule giudiziarie, contribuendo così a fare dell’inquisizione l’atto fondativo della Seconda e il motore della storia successiva. Un po’ perché un po’ alla volta la denigrazione ha preso il posto della politica nella lotta per il consenso, generando addirittura grandi e nuovi partiti di massa. Fatto sta che quel solco non si colma nemmeno nei momenti di gioia che dovrebbero essere comuni, nel momento del successo dello Stato.

Ha preso insomma piede una cultura politica che prima di chiedersi «che cosa giova» al Paese, si chiede «a chi giova». E che deforma la storia della Repubblica italiana come un mero gioco di specchi, un coacervo di intrighi shakespeariani, una vicenda di apparati e poteri, nella quale spariscono non solo le masse e il loro ruolo, ma anche i risultati conseguiti da quello stesso Stato che viene presentato come infido e nemico.

La Repubblica italiana, in 77 anni di vita, ha sofferto molti misteri, ha visto molte deviazioni e subito molti attentati. È stata più volte sull’orlo della catastrofe. Ma alla lunga ha sconfitto nemici mortali come la «strategia della tensione», fermando i manovali neri delle bombe e impedendo una svolta autoritaria. Ha prevalso su quello che è stato un vero e proprio tentativo di insurrezione armata, condotto nel sangue dalle Brigate Rosse. E ha chiuso i conti almeno con quella Cupola mafiosa che credeva possibile piegarla con le stragi, impedendo che diventasse vano il sacrificio di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, e di tanti magistrati, poliziotti, carabinieri, uomini politici, che non facevano trame, non ordivano complotti, ma anzi hanno reso fino in fondo il loro servizio alla Repubblica.

Altre mafie e altri mafiosi da combattere arriveranno, lo sappiamo che non è finita qui. Ma, forse, pur con tutte le sue magagne e debolezze, lo Stato democratico merita almeno una presunzione di innocenza, quando arresta il Re di Cosa Nostra.

"Il boss arrestato non contava più". Quegli irriducibili che minimizzano. Paolo Bracalini il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Un duro colpo per la mafia ma anche una bella botta per l'opposizione al governo

Un duro colpo per la mafia ma anche una bella botta per l'opposizione al governo. Proprio mentre sembrava che il caro benzina potesse indebolire l'immagine dell'esecutivo è piombato l'arresto dell'ultimo padrino, con eco mondiale, un successo investigativo che inevitabilmente si riverbera anche sul governo. Uno smacco per chi aveva cavalcato per anni il filone giornalistico del centrodestra amico dei mafiosi. Ma non tutti a sinistra si rassegnano a doversi complimentare per una medaglia che finisce anche al petto degli avversari. Gli irriducibili non si arrendono e anzi rilanciano le teorie della trattativa per mascariare (in gergo siculo: gettare sospetti, infangare) l'operazione che ha portato alla cattura del boss. In prima linea c'è Saviano grande esperto di criminalità organizzata e grande nemico del centrodestra. Non solo il governo non ha nessun merito - spiega il giornalista - ma in quanto centrodestra è mafioso per definizione, anche a poche ore dall'arresto del più importante latitante di Cosa Nostra. Una prova che il governo è «in prima linea contro la mafia», come premier nel suo discorso programmatico la premier Meloni? Macché, il contrario: «Questo è uno degli esecutivi meno antimafiosi che il Paese abbia avuto. La mafia fa affari con chi sta al potere. Lo ha fatto con destra e sinistra. Ma la predilizione per la destra è dimostrata da una infinità di atti e documenti».

L'autore di Gomorra dà anche corda alla teoria del complotto - molto in voga tra i commentatori da bar sui social - su un accordo dietro l'arresto, una sorta di messinscena concordata dalla mafia con i vertici delle forze di polizia: «Di sicuro i tempi erano maturi» dice e non dice Saviano. Altri sono più espliciti, come l'ineffabile segretario di Rifondazione Comunista (che ha più tweet che elettori): «Risulta davvero fuori luogo il profluvio di proclami di esponenti della destra che cercano di rivendicare il merito della cattura. Continua forse la trattativa Stato-Mafia e con chi nello Stato?» chiede Maurizio Acerbo, segretario Prc, citando la «previsione» fatta a novembre da Salvatore Baiardo, uomo di fiducia dei clan, sull'arresto imminente di Messina Denaro in cambio del dietrofont sul carcere duro per i boss (dietrofont che non c'è mai stato). Si torna dunque alla teoria sulla trattativa Stato-mafia, un cavallo di battaglia del Movimento Cinque Stelle e di un filone giornalistico che si è abbeverato alle inchieste di alcuni magistrati, poi smentiti dalla corte d'assise d'appello di Palermo, la cui sentenza ha stabilito che l'iniziativa dei vertici del Ros dopo l'omicidio Falcone non mirò affatto a «creare le basi di un accordo politico» con la mafia, l'unica finalità dei Carabinieri era «fermare le stragi».

Tra i pm fautori della trattativa il più noto è Antonio Ingroia, prima magistrato poi aspirante politico con poca fortuna (mai eletto). L'ex pm non vuole che si esageri l'importanza dell'arresto, bisogna «tenere i piedi saldi a terra», dice, perchè «non è stato arrestato il capo dei capi. Messina Denaro non era il capo dei capi. Cosa nostra è ancora viva e vegeta, è ancora un'organizzazione criminale pericolosa». E poi c'è sempre la trattativa, che non muore mai, almeno nella testa di Ingroia, convinto di una «copertura istituzionale di cui certamente ha goduto e che gli ha consentito di rimanere latitante per 30 anni», perciò bisogna «capire il contesto in cui è maturato l'arresto, se c'è un sentore lontano che si sia consegnato o sia stato consegnato». Sospetti, ombre, allusioni. Le stesse che rilancia un altro magistrato specializzato nella presunta trattativa, Nino di Matteo, in passato considerato in quota Movimento Cinque Stelle (prima di litigare con l'ex ministro Alfonso Bonafede per il mancato incarico al Dap). «Non si pensi che lo Stato ha sconfitto Cosa Nostra», avverte sulla Stampa. Per poi alzare la cortina fumogena: «È assai probabile che la sua latitanza non sia dovuta solo all'abilità del fuggiasco ma anche alle protezioni di cui ha goduto. Non posso non ricordare che di questo governo fa parte un partito, Forza Italia, fondato anche da Marcello Dell'Utri, condannato in via definitiva per mafia».

Il ministro Piantedosi: «Trattativa con Matteo Messina Denaro? Chi lo pensa è in malafede». Il capo del Viminale: «Non ci sono retroscena, l’attività investigativa è stata portata avanti con metodi di indagine tradizionali senza fronzoli e senza fantasie». Il Dubbio il 18 gennaio 2023

«Questo arresto è un risultato limpido, senza retroscena. Chi cerca di banalizzarlo e minimizzarlo, di metterlo in dubbio, di mortificarlo, fa un grave errore commesso in malafede». Così il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, in un'intervista al Corriere della Sera, sull'arresto del boss.

«Le manette ai polsi di Matteo Messina Denaro - sottolinea - le ha messe solo un lungo e duro lavoro investigativo portato avanti da unità dedicate con metodi di indagine tradizionali senza fronzoli e senza fantasie. Il merito e il plauso vanno ai magistrati e a tutti gli appartenenti alle forze di polizia che hanno svolto un grande lavoro per assicurare alla giustizia tanti fiancheggiatori di Messina Denaro. Lo Stato in questi anni ha lottato per questo storico risultato e ha vinto mettendo a sistema tutte le sue energie».

Da un anno si curava nella clinica vicina agli uffici DIA. Matteo Messina Denaro arrestato a 500 metri dall’Antimafia: da almeno un anno frequentava quella zona…Redazione su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Si nascondeva in bella vista, o quasi, Matteo Messina Denaro. Il boss mafioso di Castelvetrano, ultimo ‘Padrino’ di Cosa Nostra arrestato poco prima delle 10 di questa mattina dai carabinieri all’interno della clinica ‘La Maddalena’ di Palermo, è stato catturato a poco più di 500 metri dagli uffici della Direzione investigativa antimafia.

Nella clinica privata MMD, latitante da 30 anni, era in cura da un piano d’anni “o almeno uno”, come riferito all’agenzia Agi da un medico della struttura sanitaria. Il boss si presentava con un nome falso, Andrea Bonafede, nato il 23 ottobre 1963, per ricevere le cure per un tumore in zona addominale.

Come Totò Riina, l’altro ‘big’ di Cosa Nostra arrestato per una strana coincidenza esattamente 30 anni (e un giorno) fa, anche Messina Denaro non si era allontanato dal suo territorio: entrambi sono stati arrestati a Palermo.

Quel che fa impressione è però la brevissima distanza tra la clinica in cui il boss era da tempo ‘cliente’ e la DIA che in questi anni gli ha dato la caccia assieme a Procura e forze dell’ordine.

Come sottolinea Mowmag, Messina Denaro è stato fermato dai carabinieri “in assetto da guerra” nella clinica ‘La Maddalena’, al civico 312 di via San Lorenzo. A 650 metri di distanza, otto minuti di camminata secondo Google Maps, trovano posto gli uffici della Direzione investigativa antimafia, ospitati nella villa Ahrens.

Una circostanza, quella della vicinanza tra i due ‘poli opposti’, che rimarca ancora una volta come i vertici mafiosi da sempre si muovono con estrema spregiudicatezza nel loro “giardino di casa”, in questo caso la città di Palermo che in tanti anni ha dato sponda ad una latitanza terminata solo dopo 30 anni di ricerche.

Tra l’altro proprio il rapporto tra mafia e cliniche private è da tempo sotto la lente d’ingrandimento dei magistrati, con alcuni finite anche al centro di processi in particolare per legami con l’altro grande boss di mafia, Bernardo Provenzano.

Ma anche Totò Riina ne fece uso: i suoi figli sono nati durante la latitanza dei “capo dei capi” di Cosa Nostra e di sua moglie Ninetta Bagarella in una casa di cura privata in via Dante a Palermo.

Quanto a ‘La Maddalena’, non è mai stati sfiorata da indagini o sospetti. “Era in coda per fare un tampone, come tanti pazienti della clinica, nessuno avrebbe mai pensato che si trattasse di Matteo Messina Denaro”, ha raccontato a caldo Stefania Filosto, la proprietaria-direttrice della clinica e dove MMD avrebbe dovuto sottoporsi ad un ciclo di chemioterapia dopo un’operazione subita oltre un anno fa.

Il commissario era il primo a indagare sul Superboss: l'attentato col Kalashnikov sul Lungomare. “Quando Messina Denaro voleva uccidermi con Bagarella e Graviano”: l’agguato all’ex questore Rino Germanà. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Rino Germanà attraversa sovrappensiero il lungomare di Tonnarella in Panda. “Che fa questo?”, dice tra sé e sé. “Che cazzo vuole questo?”. Pochi attimi ancora e gli sparano addosso. “Questo” era una Fiat Tipo che aveva visto avvicinarsi sempre più dallo specchietto retrovisore. A bordo un commando d’eccezione: Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro – quest’ultimo arrestato oggi, a Palermo, nella clinica La Maddalena, quartiere San Lorenzo, dopo quasi trent’anni di latitanza. A indagare per primo sulla “Primula Rossa” di Cosa Nostra il Commissario di Polizia di Mazara del Vallo Calogero Germanà detto Rino. Era il 14 settembre 1992 quando il commando di boss, tra i più spietati e potenti della Mafia, provò a farlo fuori, in pieno giorno sul Lungomare di Mazara del Vallo. “Non sono un eroe, non sono un poliziotto da film americani, sono una persona normale. Era destino che non dovessi morire quel giorno, non avevo qualità migliori dei tanti poverini che sono morti in quegli anni”, racconta a Il Riformista.it.

Il suo ultimo incarico da questore di Piacenza fino al 2017. Catanese, aveva quarant’anni, una moglie e due figli di 12 e 10 anni all’epoca dell’agguato. A iscrivere per la prima volta il nome di Messina Denaro in un fascicolo, nel 1989, era stato Paolo Borsellino. “Un grande magistrato e io un normale poliziotto. È il grande magistrato che fa grande il poliziotto”. Borsellino meno di due mesi prima era stato ucciso in via D’Amelio. A maggio era toccato a Giovanni Falcone a Capaci. Erano i giorni delle stragi di Cosa Nostra. Germanà aveva consegnato un rapporto su Messina Denaro figlio e sul padre Francesco, detto don Ciccio, capofamiglia di Castelvetrano molto vicino ai corleonesi di Totò Riina. “Quella mattina torno da una perquisizione intorno alle 11:00 e mi chiama mia moglie: mi dice che devo portare nostra figlia al mare. E così faccio, poi vado a Castelvetrano per un interrogatorio e ritorno intorno alle 14:’00”.

È già sullo scooter quando un agente che a volte gli faceva da autista lo ferma. “‘Dottore, oggi pomeriggio dobbiamo essere a Trapani, dal questore’, che ci voleva vedere: dovevamo parlare dello scioglimento di un consiglio comunale. ‘Lasci il motorino, prenda la Panda, che dobbiamo sostituire i freni’”. L’officina della polizia è a Trapani. Sarebbero andati con due auto e con altre due precedentemente in manutenzione sarebbero tornati a Mazara. “Io ero già salito sul motorino, e lo lasciai. Era destino”. Germanà passa per casa: ha un quarto d’ora di terapie con un massaggiatore, è podista e ha problemi alla schiena. Quindi parte e una volta sul Lungomare Fata Morgana sente il rumore di un motore che accelera: è una fiat Tipo sbucata da una traversa.

“Sono sovrappensiero, vado piano, quando guardo nello specchietto e noto questa macchina che guida serpeggiando. Il motore imballato, mettendo la terza avrebbe preso velocità, io andavo piano, tenevo la seconda”. E pensa, appunto: ma che fa questo, che cazzo vuole? Al volante, avrebbe saputo dopo, era Messina Denaro. Pochi secondi e un uomo si sporge dal finestrino del passeggero, ha un fucile a pallettoni. Spara. “Sarà a un metro e mezzo di distanza. Mi rannicchio istintivamente, mi ferisce di striscio”. La rosa del pallettone non si apre del tutto, colpisce il finestrino e tira via metalli dello sportello. Quei vetri arrivano e restano nella regione parietale sinistra di Germanà, che dall’adrenalina non sente neanche il dolore.

“Si fermano un po’ più avanti, io scendo dalla macchina, prendo la pistola d’ordinanza e sparo. Prendo il lunotto posteriore, li disoriento. Provano a venire in retromarcia, io vado verso la spiaggia. Quello di prima appoggia il fucile sul tettuccio e sparato un altro colpo. Non mi prende. Dopodiché io li guardo, loro mi guardano, – che cazzo fanno chissi? mi dico – sembra che non sanno che fare, ingranano e se ne vanno”. Il commissario prova ad attirare l’attenzione: sulla spiaggia poca gente, qualcuno in acqua, ma quelli fanno inversione e tornano, si mettono sotto un muro di contenimento e tirano fuori un Kalashnikov.

“Comincia a sparare a colpo singolo. Io sento il sibilo terrifico e mi sposto, mica li vedo i colpi, ecco perché non era destino che morissi. Spara quattro cinque colpi, non mi prende e se ne vanno”. Dall’acqua lo chiamano, lo invitano a ripararsi. “Aspetta, un attimo, penso. Qualche tempo prima avevano fatto un omicidio arrivando dall’acqua: a questo penso. Nel frattempo quelli tornano un’altra volta e prendono a sparare a raffica col mitra, allora sì vado in acqua. Mica mi metto a nuotare, mi accovaccio, lentamente riemergo, non gli ho mai dato le spalle, mai perdere la calma anche se sono attimi”. Il Kalashnikov a quel punto si inceppa: Giovanni Brusca, anni dopo, avrebbe detto in udienza che “Bagarella le armi moderne non le sa usare”. Germanà in quei momenti non riconosce nessuno. “Commentando il mio attentato, tempo dopo, uno della famiglia mazarese si lamentava. Disse: ‘Ma come, lo chiamavano il Re del Kalashknikov’. E quell’altro: ‘Ma quale re del Kalashnikov, re della minchia!’”.

Il commando se ne va, Germanà chiama i soccorsi. Con tutta la famiglia viene trasferito in fretta in località protetta. La sua vita cambia per sempre nel giro di poche ore. Lo portano a Roma, non torna più a vivere in Sicilia. Solo per delle operazioni con il servizio centrale operativo, per delle testimonianze, in visita. Con la famiglia viene messo sotto protezione per qualche tempo. “Per dei bambini quello si chiama trauma”. Da allora non avrebbe mai più Messina Denaro. Con la moglie avrebbe avuto un altro figlio. Sul Lungomare gli hanno dedicato una targa commemorativa.

“Per me e per tutta l’Italia oggi è una giornata importante, è un’affermazione dello Stato. La legge ha trovato piena concretezza. Complimenti a tutte le forze di polizia. Quella di Messina Denaro è una pagina buia della storia italiana: ha segnato con le sue stragi la storia siciliana e la storia italiana”, aggiunge Germanà. “Durante la messa si dice ‘confesso a Dio e a voi fratelli’. A Dio non deve confessare niente perché i peccati che ha commesso Dio li conosce bene, ai fratelli cominciasse ad ammettere le sue responsabilità. Che poi questa confessione si chiami pentimento è un problema giuridico ma almeno così si fa chiarezza”. E a chi critica l’arresto, a chi solleva dubbi: “Guardiamo la realtà: era latitante da trent’anni, è stato catturato dai carabinieri, e sono stati bravissimi a catturarlo. Punto. La Giustizia trionfa sempre, il male non potrà mai avere la meglio sul bene”. Non è solo una questione di fede: “Lasciamo perdere la fede: io ho una famiglia e dei figli, sono padre di famiglia, guardo al futuro con una prospettiva di progresso civile e sociale, altrimenti qual è il senso? Ci può essere progresso con questa criminalità?”,

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Una vittoria dei Ros che ora imporrebbe il silenzio di chi ha avvelenato i pozzi. La lunga latitanza del boss di Cosa nostra finisce grazie all’ennesimo gran lavoro del reparto speciale dei carabinieri, dopo decenni di illazioni e sospetti. Alberto Cisterna su Il Dubbio il 16 gennaio 2023

La guerra dei Trenta anni. Un ciclo si chiude, così come è iniziato, con l’apporto decisivo del Ros dei Carabinieri che, esattamente trenta anni or sono, si fecero carico praticamente da soli di dare la caccia agli assassini di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in un paese spaurito e attonito. Praticamente da soli, perché la cattura - il 15 gennaio 1993 - di Salvatore Riina ha rappresentato obiettivamente la Stalingrado dei Corleonesi, ha rinfrancato e dato speranza a una Nazione attonita, ha dato forza a chi aveva pensato con Antonino Caponnetto che tutto fosse finito con l’esplosivo di Capaci e via D’Amelio e che la mafia ormai avesse vinto.

È vero, ci sono state ancora le stragi del 1993, il paese e soprattutto alti vertici istituzionali hanno tremato e percepito il vento gelido della morte di mafia scorrere per le strade, ma è ormai chiaro a tutti che la cattura del “capo dei capi” aveva decapitato la piovra e lasciato “cosa nostra” senza il suo epicentro strategico e militare. Da allora solo arresti, sconfitte, decimazioni.

Ai carabinieri del Ros, in questi trenta anni, la Nazione o, meglio, lo Stato deve moltissimo e si dovrà pur scandagliare la ragione per cui solo gli uomini del nucleo concepito e voluto dal generale Dalla Chiesa – malgrado tutto - siano stati al centro di indagini, campagne di stampa, processi, teorie complottistiche. E ci si dovrà pur domandare perché solo catture decisive come quella di Salvatore Riina in Sicilia o di Pasquale Condello in Calabria abbiano indotto sospetti, accanimenti, retropensieri. Sarebbe - e ci si augura sarà - il tempo per riscrivere per intero quella storia e di capire cosa non abbia funzionato nelle interlocuzioni tra magistrati e carabinieri e per quale motivo, invece, altre catture siano state sempre innalzate agli onori della cronaca da proni coreuti senza dubbi e domande che erano pur lecite. Succederà anche stavolta forse. Sebbene sia difficile contestare il successo di ieri che ha una portata epocale sul versante della lotta a cosa nostra e che ammutolisce l’intera compagine mafiosa del paese. Se per le strade di Palermo i siciliani onesti hanno applaudito ai militari che ammanettavano Matteo Messina Denaro, nei reparti di massima sicurezza, nelle celle del 41-bis i capi delle cosche di ogni tipo avranno preso atto che lo Stato, alla fine, porta all’incasso i propri conti e non si concede pause o amnesie.

Per catturare Bin Laden i corpi speciali americani ci hanno impiegato dieci anni, per mettere le manette ai polsi dell’ultimo capo di “cosa nostra” dell’era stragista ne sono occorsi trenta; un tempo enorme, la maggior parte degli italiani di oggi o non era nata o aveva pochi anni. Eppure tutti percepiscono il successo e dovrebbero comprendere la svolta. Sulla epocale latitanza di Matteo Messina Denaro si sono dette cose per le quali in molti dovrebbero provare vergogna e chiedere scusa oggi. Illazioni, sospetti, dietrologie, l’ennesima cloaca di maleodoranti congetture che ammorbano da tempo la vita pubblica e impediscono una realistica presa d’atto dell’obiettiva rilevanza della forza delle Istituzioni e dei colpi mortali inferti ovunque alle mafie. Nel 1993 un esercito che rischiava di disperdersi e di indietreggiare venne rinfrancato da un manipolo di coraggiosi e di temerari; nel 2013 l’Arma consegna al paese un sonoro ed evidente “mission accomplished”, un chiaro “missione compiuta” che chiude un cerchio e consente alla collettività nazionale di fare finalmente un passo in avanti.

Un composto silenzio si imporrebbe a quanti hanno avvelenato i pozzi della storia e hanno di fatto impedito e rallentato di combattere il crimine organizzato nelle sue più moderne dimensioni, solo sfiorate da pochissime indagini. Alla politica il compito di dichiarare chiusa una fase storica di dolore e di sangue. “Declaring victory” è il messaggio da lanciare alla Nazione non perché si abbassi la guardia, ma perché si vadano finalmente a scovare i nuovi epigoni della corruzione mafiosa in santuari scomodi da aprire e dietro porte imbarazzanti da spalancare. Lasciate che i morti seppelliscano i morti e, con essi, le menzogne che hanno generato. Oggi sul sepolcro di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e dei tanti altri caduti con loro, soffia una brezza leggera e un raggio di sole riscalda le ossa di chi ha perso la vita per mano delle mafie.

Matteo Messina Denaro, faccia a faccia con le "vedette": "Cosa ci fai qui?" Ignazio Stagno su Libero Quotidiano il 16 gennaio 2023

Preso. Matteo Messina Denaro ha finito la sua corsa in Cosa Nostra. Dopo 30 anni di latitanza lo Stato ha messo a segno un colpo mai visto. E "u Siccu" di fatto ha costruito il suo potere e tutta la sua latitanza nel suo paese natale, quella nuova "Corleone" che è finita al centro delle cronache per lunghi anni: Castelvetrano. Un paese di 35mila abitanti in provincia di Trapani dove il latitante ha trovato di fatto sponde e connivenze per quel gioco a nascondersi dallo Stato durato parecchi anni. E chi scrive conosce da vicino quel territorio. Castelvetrano è un paese che si estende fino al mare, fino alla costa di Selinunte e Triscina.

E proprio sul "confine" sul mare il controllo del territorio da parte dei fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro è stato totale in tutti questi anni. Un episodio, più di ogni altro, ha dato la misura di quel presidio incessante per evitare probabilmente che il boss potesse finire nelle mani delle forze dell'ordine. Sulla costa di Triscina, la zona balneare di Castelvetrano, si estende una lunga fila di case abusive che sfiorano il mare. Case che di inverno vengono di fatto "abbandonate" da villeggianti che arrivano da tutta la Sicilia, ma soprattutto dal Palermitano. Qualche anno fa, in un freddissimo inverno del 2021, mi trovavo proprio da quelle parti, dove ho una casa. Dopo aver guardato le condizioni di quell'immobile dove ho trascorso tutta la mia adolescenza, ho fatto due passi verso la spiaggia per assaporare ancora una volta l'odore della salsedine. Immediatamente mi accorsi di un controllo stretto di quella lunga lingua di terra che accarezza le onde.

Circa due chilometri battuti palmo a palmo da un paio di Suv di colore scuro che facevano la spola da un angolo all'altro della spiaggia. Passeggiando sono stato avvicinato da uno di quei Suv e un uomo, abbassando il finestrino, mi chiese chi fossi e il motivo della mia presenza lì. Risposi con poche parole: "La mia casa è lì e sto passeggiando qui sulla spiaggia". L'uomo mi guardò con fare dubbioso, alzò il finestrino e riprese il suo pattugliamento sulla costa senza dire altro. Più volte venni avvicinato da quel Suv con fare minaccioso: capire chi sei in quelle zone è determinante per allertare le varie sentinelle presenti sul territorio. Ma non finì lì. Mentre stavo tornando alla mia auto per andare via, mi fermai a fumare una sigaretta nei pressi di un muretto vicino a casa mia. Ero poggiato sul muro di cinta di una casa chiusa e apparentemente vuota in un freddissimo gennaio del 2021. E anche in quel caso all’improvviso ho sentito una voce venire da quella casa con gli infissi chiusi chiedermi ancora una volta: "Chi sei, che ci fai qui?". Un ragazzo mi si avvicinò con fare minaccioso. Risposta sempre uguale: "Sono tornato qui dopo tanti anni, quella è la mia casa dove trascorrevo l'estate". Con fare incerto arrivò la replica: "Ehm io sono qui perché mia zia ha questa casa e d'inverno la tiene chiusa e quindi io vengo qui a dare un'occhiata". Non ne ho mai avuto la certezza, ma molto probabilmente quel ragazzo faceva parte di una delle "sentinelle" del "Siccu" presenti su quei due chilometri di costa. Mi infilai in auto e andai via. Ma di certo ho avvertito sulla mia pelle quell'ombra terribile su quella spiaggia, su quelle case, su quel territorio su cui Matteo Messina Denaro ha coltivato senza ombra di dubbio la sua latitanza. 

«Io mi chiedo: perché ci sono voluti trent’anni se Matteo Messina Denaro era lì a casa sua?»

Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Claudio Martelli, ex ministro della Giustizia, al Dubbio: «Si nascondeva a Trapani, non in Sudamerica: trovo sconcertante che gli arresti del boss di Castelvetrano e di Riina abbiano richiesto in tutto oltre mezzo secolo». Errico Novi su Il Dubbio il 17 gennaio 2023

Due forti sensazioni, in contrasto fra loro. Rabbia da una parte, pragmatismo dall’altra. «Ma come si fa», quasi grida Claudio Martelli al telefono, «a non concentrarsi su un aspetto sconcertante, e cioè sul fatto che Matteo Messina Denaro è stato per trent’anni non in Sudamerica, ma a Trapani, nella sua città, e solo dopo trent’anni lo si è riusciti a prendere?».

L’altra è una considerazione più semplice, pacata e appunto pragmatica: «Gran parte della lotta alla mafia si traduce ormai nel contrasto delle nuove sofisticatissime e tecnologiche forme di ricatto, il cybercrimine, e non era indispensabile arrestare Messina Denaro per virare verso la repressione di quest’altro modello, come mi ha spiegato il capo della Dna Giovanni Melillo».

Ecco, onorevole, ma lei che è stato ministro della Giustizia negli anni più terribili, che ha voluto con sé Giovanni Falcone a via Arenula, se la sente di dire che adesso, con l’arresto di Messina Denaro, davvero quella mafia è vinta, è battuta, e che possiamo concentrarci su altro, possiamo un po’ superare l’eccezionalismo nel diritto penale che dallo stragismo mafioso trova giustificazione?

Lei è un po’ sulla linea del libro di Alessandro Barbano, vero?

Sì, non ho difficoltà ad ammetterlo.

E va bene, ma mi scusi, non riesco a seguirla, perché non capisco come si possa pensare ad altro che non sia il paradosso di una cattura arrivata con tanti anni di ritardo. O per meglio dire, non capisco, non ho risposte, ma trovo comunque sorprendente che ci si metta trent’anni per catturare il boss considerato più pericoloso e potente fra quelli ancora in libertà, trent’anni, ripeto, nonostante fosse lì nella sua Trapani, in una città che non ha neppure centomila abitanti, non in Sudamerica.

E subito sono state messe in circolazione leggende nere su una sorta di trattativa indiretta aperta dallo stesso Messina Denaro per cedere alla cattura, trattativa che sarebbe stata legata essenzialmente alle sue condizioni di salute.

Ma davvero mi rifiuto di rispondere a questo. Certo, mi pare chiaro che le condizioni di salute c’entrino, che il bisogno di cure specialistiche possa aver favorito l’arresto. Torno sempre al punto di partenza: dopo trent’anni arrestiamo Messina Denaro nonostante non avesse mai lasciato Trapani, e a quanto pare cvi riusciamo perché le sue condizioni di salute lo hanno in qualche modo obbligato ad arrendersi. Ma com’è possibile? Com’è che il nostro Stato non ce l’ha fatta prima?

Quindi lei ritiene che non pesi solo la straordinaria e solidissima rete di fiancheggiatori ma anche una non assolutamente ferma volontà dello Stato, nel fatto che si sia arrivati relativamente tardi alla cattura?

Viene da dire che lo Stato in Sicilia non è lo stesso che a Firenze o a Venezia. Ma io pongo una questione, carico di stupore e di sconcerto, senza retorica, senza cioè nascondere una risposta che avrei già trovato. No, non ho risposte. Mi stupisco davvero e vorrei che qualcuno condividesse il mio sconcerto.

Possiamo dire che Messina Denaro è un simbolo e che finché è stato libero ha consentito il preservarsi di un’idea vecchia dell’antimafia?

È un’osservazione sofisticata, ma mi perdonerà se preferisco fermarmi alla mia domanda e al mio sconcerto. Tra l’altro, si è sfiorata la clamorosa e incredibile coincidenza: per un giorno appena, Messina Denaro non è finito nelle mani dello Stato esattamente trent’anni dopo Toto Riina, arrestato il 15 gennaio del 1993. Però, visto che anche Riina era stato latitante trent’anni, era sfuggito cioè alla cattura per lo stesso lunghissimo tempo impiegato per trovare Messina Denaro, a maggior ragione sessant’anni per prendere due boss mafiosi costituiscono un fatto incredibile.

Mi permetta di riproporle la domanda: da anni le relazioni dei procuratori nazionali Antimafia indicano nella nuova grande mafia degli affari, dei circuiti finanziari globali, il vero nemico da contrastare. Con Messina Denaro finalmente nelle mani dello Stato crede che ci si concentrerà più su questo modello, anziché sull’inseguire il Moloch della vecchia mafia stragista?

Mi pare che le forze della magistratura antimafia siano in realtà già rivolte in questa direzione. Sono stato a trovare il, procuratore nazionale Giovanni Melillo il quale mi ha spiegato come oggi la vera emergenza sia costituita dalle cybermafie, cioè dalla capacità della nuova mafia di entrare in possesso dei dati, di violare la segretezza dei dati anche di grandi soggetti economici, e di poter così esercitare una nuova, gigantesca e potente forma di ricatto. Già è quello il fronte più allarmante.

Siamo avanti, ma ci abbiamo messo trent’anni per trovare Messina Denaro nella sua Trapani.

L'infinita latitanza del padrino sanguinario che amava la bella vita. "Mi chiamo Matteo Messina Denaro". La primula rossa non può più nascondersi. Valentina Raffa il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

«Mi chiamo Matteo Messina Denaro». La primula rossa non può più nascondersi. Dopo 30 anni di latitanza, la clinica «La Maddalena» di Palermo, in cui si trova, pullula di carabinieri ed è circondata. Occhiali scuri, cappellino di lana, giubbotto e jeans beige, si avvia silenzioso scortato da due carabinieri nel furgone dei militari dell'Arma. È lui, U siccu' (il magro). È lui, il super latitante tra i più ricercati al mondo. Per mari e monti.

Chi sosteneva che si spostasse di continuo in Sicilia, protetto dai fedelissimi, chi, invece, che si fosse trasferito all'estero. C'era chi supponeva che avesse effettuato interventi al viso e ai polpastrelli per non farsi riconoscere e acciuffare. Nel settembre 2021 circolò notizia del suo arresto a L'Aja, nei Paesi Bassi, a seguito di un blitz delle forze speciali olandesi, ma fu uno scambio di persona.

Messina Denaro è stato arrestato ieri a Palermo, non lontano dalla sua Castelvetrano. Fiaccato da un tumore, «Diabolik» (un altro dei suoi soprannomi) da almeno un anno fa i conti con la vita, lui che con la vita degli altri è stato spietato tanto da vantare con un amico di aver compiuto omicidi da poter «fare un cimitero». Figlio di Francesco detto Ciccio, mafioso morto in latitanza, da lui ereditò il comando nel territorio di Trapani, per poi riuscire ad estendere il potere su tutta la Sicilia. La sua presenza costante al fianco di figure di spicco della mafia, Totò Riina prima e Bernardo Provenzano poi, testimonia il ruolo preminente rivestito in Cosa nostra.

Lui, uomo d'azione, è l'autore di stragi passate alla storia, pagine tra le più fosche vissute nell'ultimo trentennio come quelle in cui morirono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la moglie di Falcone, Francesca Morvillo, e le scorte, e gli attentati del 1993 a Milano, Firenze e Roma. Ma Messina Denaro è stato anche di più. Per il suo fiuto per gli affari. Tanto da mettere le mani in pasta in più settori, dalla droga ai finanziamenti pubblici, dal commercio alle energie rinnovabili, come l'eolico e il fotovoltaico, accumulando un tesoro tra miliardi di euro e beni immobili, si cercano almeno 13 milioni direttamente ascrivibili al padrino. Il tutto grazie alla presenza di prestanome, da imprenditori e persino esponenti delle istituzioni, che non gli hanno mai fatto mancare il loro appoggio. I fedelissimi lo hanno coperto sempre, garantendogli una latitanza sicura, e ciò malgrado i diversi colpi inflitti alla sua cerchia da parte dello Stato.

I gregari lo temevano e lo stimavano, tanto da affibbiargli il soprannome di 'U bene (il bene, che dà idea della devozione nei suoi confronti). I pizzini continuavano a girare per veicolare il suo volere. La primula rossa, infatti, ha continuato a impartire ordini gestendo gli affari e riformulando la gerarchia della Cupola dopo gli ultimi blitz messi a segno dai carabinieri.

Era l'estate del 1993 quando si diede alla macchia. «Sentirai parlare di me. Mi dipingeranno come un diavolo» scriveva alla fidanzata dell'epoca. E un demone lo è stato davvero. Tra i più sanguinari. Basti pensare al rapimento, il 14 novembre 1993, del piccolo Giuseppe Di Matteo, ucciso l'11 gennaio 1996. Il bambino, di soli 12 anni, fu strangolato e sciolto nell'acido, «colpevole» di essere il figlio del pentito Santino. Doveva servire da monito ai collaboratori di giustizia che aprivano bocca sulle stragi di Falcone e Borsellino.

Messina Denaro in quell'occasione era in«buona» compagnia con Leoluca Bagarella, Giuseppe Graviano e Giovanni Brusca. Fu persino capace di uccidere un albergatore di Selinunte che era invaghito della sua fidanzata austriaca che lavorava in albergo. 'U signurinu (il signorino, nel senso dell'eleganza) era amante della bella vita: donne, vestiti, auto sportive e vacanze. L'ultima però sarà in cella, dove dovrà scontare gli ergastoli che ha accumulato.

I rosiconi dell'arresto di Matteo Messina Denaro. Federico Novella su Panorama il 16 Gennaio 2023.

Anche oggi c'è chi prova a sminuire il successo dei Carabinieri e dello Stato e non riescono a capire gli sforzi di chi ha lavorato duramente, per anni, per arrivare all'azione di oggi

La notizia dovrebbe essere una, e una soltanto: il più pericoloso dei ricercati, Matteo Messina Denaro, l’ultima primula rossa di Cosa Nostra, è stato arrestato. E questa è senza dubbio una notizia straordinaria, che val bene l’esultanza. Anche stavolta, tuttavia, c’è chi si ostina, forse per desiderio irrefrenabile di visibilità, a procedere in direzione ostinata e contraria. Ne cito uno tra i tanti. Luca Bizzarri, che di solito è osservatore scanzonato quanto acuto, stavolta riassume frettolosamente la questione in un tweet: “Mi piace moltissimo il tono trionfalistico nell’aver arrestato uno che faceva il latitante da trent’anni a venti metri da casa sua. Che grande colpo”.

Se tale sarcasmo vuole criticare il vizio della politica di prendersi i meriti di certi successi, mettiamoci l’anima in pace: così è sempre stato e così sarà. con qualsiasi governo. Se invece si intende alludere alla cattiva gestione delle decennali ricerche del boss, rischiamo di farla troppo facile. Dietro la cattura di Messina Denaro, al di là delle modalità, ci sono trent’anni di lavoro – spesso lontano dai riflettori - di centinaia di uomini. Sia nelle forze dell’ordine, che nella parte più sana delle istituzioni («durante le recenti feste di Natale i miei uomini sono rimasti al lavoro» ha spiegato il procuratore capo di Palermo alla stampa poco fa). Per questo, anziché trovare i colpevoli del “ritardo” , oggi sarebbe opportuno semplicemente celebrare la giornata della soddisfazione nazionale. Proviamo a metterci nei panni dei parenti delle vittime delle stragi dei primi anni Novanta: magistrati, poliziotti, gente comune. Semplici innocenti caduti sotto i colpi della strategia del terrore che ha sconvolto questo Paese. Per chi ha pianto la loro scomparsa, probabilmente questa non è la giornata della recriminazione, o della polemica, o della dietrologia a tutti i costi. E’ semplicemente il momento della liberazione: non dal dolore di un lutto, ma se non altro dal peso sul cuore di una giustizia incompleta. Forse converrebbe, senza troppi trionfalismi, semplicemente gioire con loro. Da domani ci sarà tempo e modo per capire le specifiche di una cattura: chi è davvero Messina Denaro, quali segreti nasconde, quali coperture. E, semmai ci sarà, quali saranno i suoi successori. Ma ripeto: da domani. Oggi no. Oggi siano solo applausi.

«Abbiamo cercato sempre Messina Denaro in Sicilia. Non ci sono trattative o misteri dietro la cattura». Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

Luzi, comandante generale dei carabinieri: «Sapevamo di dover trovare un buco nella sua rete di protezione, e non era una cosa semplice»

«Da oltre un anno indagavamo su tutte le persone con le stesse particolari patologie di cui soffre Matteo Messina Denaro. Abbiamo effettuato verifiche e alla fine abbiamo centrato l’obiettivo». Teo Luzi è il comandante generale dei carabinieri, l’uomo che entrerà nella storia per aver messo fine alla latitanza del boss ricercato per trent’anni. Il respira al comando di viale Romania, al centro della capitale, è di euforia contenuta. Sono lontane le scene dei caroselli di fronte alla questura di Palermo quando furono catturati Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ma la soddisfazione è immensa, non a caso il generale decide di volare subito a Palermo.

Quando ha capito che era fatta?

«Un quarto d’ora dopo la cattura, quando il comandante del Ros Pasquale Angelosanto mi ha avvisato».

Non vorrà farci credere che si trattava di una notizia inaspettata?

«Nell’ultimo mese avevamo capito che il cerchio si stava stringendo e sapevamo che ogni momento poteva essere quello buono. Negli ultimi giorni eravamo più consapevoli, ma la storia ci ha insegnato che nulla è scontato soprattutto quando si tratta di un capomafia. Sinceramente mi aspettavo di saperne qualcosa di più nel pomeriggio».

E invece?

«Come ho già detto, da tempo stavamo effettuando uno screening nelle cliniche private e nelle strutture pubbliche sulle persone curate per questa particolare patologia. E poi tenevamo sotto controllo la cerchia di fiancheggiatori che evidentemente gli hanno dato copertura».

Un altro boss catturato in Sicilia, che addirittura si faceva ricoverare a Palermo e presumibilmente viveva a pochi passi da casa sua. Non lo ritiene una beffa?

«Le nostre ricerche si sono sempre concentrate in Sicilia, eravamo pienamente consapevoli di dover trovare un buco nella rete di protezione del capo. Ma è bene sapere che si tratta di una rete stretta e non facilmente penetrabile, dopo la cattura tutto sembra semplice. Io posso dire che noi l’abbiamo preso ma c’è stato un gioco di squadra con la polizia e con i magistrati che alla fine si è rivelato vincente. È il metodo di dalla Chiesa».

Che cosa intende?

«Avevamo un pool di investigatori dedicati esclusivamente a questa indagine e con un gioco di squadra — che evidentemente comprende la polizia di Stato e gli altri apparati di sicurezza — siamo riusciti ad afferrare il filo giusto. Il metodo del generale Carlo Alberto dalla Chiesa è quello tuttora applicato dai colleghi del Ros che prevede la perseveranza e soprattutto la scelta di utilizzare le tecniche investigative tradizionali. Vuol dire raccolta di tantissimi dati informativi dei reparti dei carabinieri, intercettazioni telefoniche e ambientali, verifiche sulle banche dati dello Stato, interrogatori».

Lei ha lavorato tanti anni a Palermo e appena due ore dopo la cattura è volato in Sicilia. Che significato ha questo arresto?

«È un risultato straordinario, la più grande soddisfazione della mia carriera e non potrebbe essere altrimenti, anche per quello che rappresenta. Noi abbiamo assicurato alla giustizia uno dei capi, l’uomo che ha attaccato lo Stato con le stragi».

Lei è alla guida dell’Arma dal 16 gennaio del 2021. Un bel modo di festeggiare.

«È stata una grande emozione, esattamente a due anni dal mio insediamento quale Comandante Generale, stringere le mani agli uomini e donne dell’Arma che con il loro operato hanno permesso questo successo per lo Stato. Ho visto nei loro sguardi la fierezza e l’orgoglio di essere Carabinieri e di contribuire, ogni giorno, al contrasto di ogni forma di illegalità».

Per questo aveva deciso di andare subito a Palermo?

«Ci sono investigatori che hanno sacrificato la propria vita per arrivare dove siamo oggi e colleghi che si sono dedicati a questa indagine con un impegno immane. Il mio desiderio è stato quello di andare a incontrarli, di ringraziarli personalmente».

La mafia è sconfitta?

«Questa è una battaglia vinta, non è certamente la fine della mafia. Noi continueremo la lotta contro Cosa Nostra perché il cerchio non è chiuso e anzi le indagini devono andare avanti nella consapevolezza che il nemico è tuttora forte e capace di infiltrarsi nelle istituzioni. Quando la mafia non spara non vuole dire che non sia attiva, anzi».

Si riferisce alla minaccia economica?

«Certo, e la cattura di Messina Denaro ci dà nuovi stimoli ad andare avanti proprio seguendo il metodo applicato finora. C’è un’altra rete, quella degli affari e delle infiltrazioni, che va smantellata».

C’è chi dice che Matteo Messina Denaro si è consegnato, chi parla di una nuova trattativa tra la mafia e lo Stato. Avete negoziato?

«Non ci sono misteri, né segreti inconfessabili. Abbiamo indagato per anni e anni e abbiamo lavorato per fargli terra bruciata intorno. Fino a questo risultato straordinario che deve essere dedicato a tutte le vittime di mafia».

Niente fango complottista su chi indaga. È andato tutto in modo limpido. Sobrio e trasparente. Ma non si sa mai. Speriamo che non torni la stagione dei veleni e dei sospetti. Stefano Zurlo il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

È andato tutto in modo limpido. Sobrio e trasparente. Ma non si sa mai. Speriamo che non torni la stagione dei veleni e dei sospetti. Speriamo che il successo di oggi non sia accompagnato dal solito corteo di retropensieri, meglio se maligni. Speriamo di non sentir rimbombare i nomi degli investigatori che hanno firmato questa operazione come presunti protagonisti di fantomatiche trame oscure. È già successo, ci auguriamo non si ripeta. La memoria corre alla cattura di Totò Riina, trenta anni fa, e alla mancata perquisizione del covo dove alloggiava il capo dei capi di Cosa nostra. Abbiamo passato anni ad ascoltare i nomi del capitano Ultimo e del generale Mori alternativamente come eroi della lotta a Cosa Nostra e poi come oscuri burattinai di trame oblique al di là della linea della legalità. Processi su processi, per il giallo del covo di via Bernini, per la mancata cattura di Bernardo Provenzano e per la trattativa Stato mafia che hanno alimentato l'industria del pregiudizio e la catena di montaggio del «chissà cosa c'è dietro», ma non hanno portato a nulla. Se non a rendere tutto torbido e confuso. Reati e comportamenti opachi vanno colpiti, ma qui è scattata una sorta di maledizione: fango e capi d'imputazione a grappolo. E poi ancora, una delegittimazione di alcuni tra i più importanti detective del nostro Paese. Pensiamo ai Subranni, ai De Donno e a altri la cui reputazione è stata macchiata e messa in naftalina per un tempo interminabile. È un destino sfortunato che ha decimato le migliori energie sulla prima linea di questa battaglia difficilissima. E viene l'ulteriore dubbio che si sia alimentato questo gioco al massacro utilizzando trasversalmente qualunque elemento e indagine. Qui il discorso si fa ancora più contorto perché il malfunzionamento della nostra giustizia rende ogni opinione credibile. Resta il fatto che anche l'ex prefetto di Palermo Renato Cortese, artefice della cattura di Bernardo Provenzano, è finito diritto nell'imbuto del caso Shalabayeva e ne è uscito, assolto, solo in appello. Un'altra coincidenza sfortunata, naturalmente. È giunto il momento di voltare pagina: non sprofondiamo di nuovo nella palude del complottismo.

Dopo 30 anni non chiamatela "giustizia". Come si può definire una vittoria l'arresto di un super criminale, dopo una latitanza di 30 anni? Pier Luigi del Viscovo il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Come si può definire una vittoria l'arresto di un super criminale, dopo una latitanza di 30 anni? Intendiamoci, non è che fosse meglio lasciarlo a piede libero e sì, questa partita andava chiusa nell'unico modo accettabile. Ma parlare di vittoria contrasta con i fatti: questo criminale ha vissuto da uomo libero. Questa operazione suona come il goal della bandiera, contro un personaggio che in realtà ha vinto per 30 anni. Si legge che sarebbe un messaggio dello Stato alla mafia. Sicuramente. Che dice il messaggio? Che se ti organizzi bene, con le adeguate coperture, puoi sfuggire alla giustizia molto a lungo. I toni trionfalistici non fanno che accentuare l'imbarazzo per il malfunzionamento della macchina. Noi lavoriamo e paghiamo le tasse affinché i servizi di utilità sociale ci vengano erogati. La giustizia viene esercitata dallo Stato nel nome del popolo. Significa che lo Stato deve assicurare, a noi cittadini, che una volta emessa una condanna questa venga eseguita. Dopo la cattura, le parole che non abbiamo sentito sono le scuse dello Stato per aver impiegato metà vita a fare il dovuto. Prenderlo era il passo necessario, ma certo non quello conclusivo. Adesso si apre la vera questione: com'è possibile che ci siano voluti 30 anni? Cosa bisogna cambiare affinché le prossime volte si faccia prima, diciamo 25 anni prima? Porre queste domande non è sfascismo, non è incapacità di godere delle piccole gioie che una mattina di gennaio può regalare. È piuttosto sfidare una certa cultura: quella che vuole la giustizia, e la burocrazia in generale, fuori dal tempo della società. Una sentenza che arrivi dopo un certo tempo non è giustizia ma la sua negazione. Sarebbe da restituire al mittente, se fosse un pacco. Ma non è un pacco, si dirà. Invece proprio nel concetto di civil service sta la differenza tra una società feudale e una libera democrazia. La giustizia è la regolazione delle vicende sociali e deve essa calarsi nella società, secondo i suoi tempi. Nella cultura italiana sembra che sia la società a dover sospendere la sua vita, i suoi battiti vitali, nell'attesa che la giustizia compia il suo corso, quando sia comoda o quando riesca. Beh, questa non è la giustizia che ci meritiamo. Non dopo 25 secoli di diritto. Il potere, incluso quello giudiziario, è al servizio dei cittadini. Non il contrario.

Matteo Messina Denaro, ascesa e caduta del boss che voleva guidare Cosa nostra.

Sanguinario ma con il fiuto per gli affari, si era gettato nel commercio e nelle energie rinnovabili. Una rete di protezione enorme gli aveva garantito l’impunità. Enrico Bellavia su L’Espresso il 16 Gennaio 2023.

Degli irriducibili capi di stretta osservanza Corleonese era l’unico a poter vantare quattro quarti di nobiltà di Cosa nostra nell’araldo di famiglia. Mafioso, figlio di mafioso. Il padre, Francesco, detto Ciccio, morto in latitanza e il cui corpo fu trovato composto in casa per le esequie, era celebrato annualmente con un necrologio ricordo sul giornale locale, nel quale non mancava anche la sua firma.

Da lui, Matteo Messina Denaro aveva ereditato lo scettro, governando saldo nella sua provincia di riferimento, Trapani, con frequenti tentativi di allargare la propria sfera di influenza sul Palermitano. Fosse nato a Palermo e non a Castelvetrano, probabilmente, la costituzione immateriale di Cosa nostra gli avrebbe consentito di essere il capo della Cupola, ruolo a cui ambiva e che per autorevolezza, di fatto, per sottrazioni successive si era trovato a esercitare. Pur senza incarichi formali.

Per età e scelte gli era toccato stare sempre un passo indietro. Al fianco di Totò Riina e poi di Bernardo Provenzano. Ne aveva condiviso l’escalation stragista, firmando personalmente la direzione operativa delle bombe al Nord: Roma, Milano e Firenze. Era la relativamente nuova leva di Cosa nostra, coetaneo dei terribili fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, con i quali si era ritrovato nel 1993 a condividere periodi di soggiorni dorati nelle località costiere del jet set italiano, mentre i soldati piazzavano ordigni seminando terrore fuori dalla Sicilia, dopo gli eccidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Violento e sanguinario, capace di liquidare con un colpo di pistola un affronto alla fidanzata, come gli capitò di fare decretando la morte di un albergatore di Selinunte, poi saggio e pacato nel momento in cui Cosa nostra ripiegò sulla strategia della sommersione e della invisibilità. Attento agli affari, con il fiuto per le nuove opportunità, sempre all’incrocio tra il core business della droga e le formidabili prospettive offerte dal fiume di finanziamenti pubblici, tra commercio, industrie, energie rinnovabili e sanità privata. Sua l’idea di mettersi all’opera per controllare lo sviluppo dei centri commerciali, poi di tuffarsi nell’eolico e nel fotovoltaico. Schiere di prestanome, formidabili ascese, nella schiera delle teste di legno di cui disponeva.

Abile nell’intrecciare rapporti con la società dei presentabili. Proprio come il padre, il cui nome spuntava dietro le connection mafio-massoniche del suo territorio. Alle vicende dei Messina Denaro è legata la parabola del senatore forzista e plenipotenziario berlusconiano a Trapani, Tonino D’Alì. Messina Denaro senior era il campiere delle proprietà di famiglia. I discendenti si erano ritrovati intorno all’appuntamento dell’affare per la cessione della Banca sicula alla Banca commerciale, con un andirivieni sospetto di soldi tra le due famiglie su cui mise gli occhi l’antimafia.

Grazie alla rete di parentele estese, i Messina Denaro avevano gettato un ponte nel Palermitano, piazzandosi a Bagheria, grazie al cognato Filippo, fratello del medico boss di Brancaccio Giuseppe, l’uomo che ha inguaiato l’allora presidente della Regione Salvatore, Totò, Cuffaro.

Protetto dai parenti, custodito dai sodali, coccolato da politici e imprenditori, Matteo Messina Denaro ha lasciato sempre centinaia di tracce. In una occasione fu pure filmato e su una bobina rimase impressa la sua voce. E poi le lettere, quelle alle fidanzate e la fitta corrispondenza con l’ex sindaco Tonino Vaccarino, alias Svetonio, che aveva intrecciato una corrispondenza epistolare su input del Servizi, sperando di stanarlo. Nelle missive, Messina Denaro si firmava Alessio. Ed è l’unico pseudonimo che si è attribuito.

Nella quotidianità, per gli altri, era “U siccu”, il magro, “U signurinu”, per l’eleganza o “U bene”, per dire della devozione. Alcuni lo chiamavano “Olio”, che è il prodotto tipico di Castelvetrano. A un certo punto presero a chiamarlo anche “Diabolik”, per dei fumetti di cui era avido consumatore al tempo della relazione bagherese con una maestra che lo accudiva insieme con tutto il parentado che aveva coinvolto nella custodia di un covo dal quale riuscì a eclissarsi poco prima di un blitz. Perché nella rete di protezione di cui ha goduto per trent’anni, le soffiate, le dritte decisive, per sparire al momento giusto non sono mai mancate. Aveva ottimi informatori anche tra le divise.

Sempre elegante, amante della bella vita, sbruffone, alla guida di auto sportive, in gioventù furoreggiava da rampollo intoccabile tra Castelvetrano e il mare di Selinunte. Per qualche tempo, dissero, si era trasferito anche in Inghilterra. Per dargli la caccia provarono ad agganciare una delle sue fiamme che era invece in Austria. Per carpire qualche dritta essenziale piazzarono pure una microspia davanti alla lapide del padre dove le sorelle si riunivano in preghiera.

Delle sue condizioni di salute si sapeva di un patologia agli occhi che spiegava l’uso di occhiali da sole protettivi. Si era favoleggiato di un intervento di chirurgia estetica per rifarsi i connotati. Poi di complicazioni per l’avanzare dell’età. Probabilmente l’umana debolezza che gli è stata fatale per l’arresto durante un controllo alla clinica Maddalena di Palermo.

Un Arresto Politico.

Otto e mezzo, Sallusti seppellisce la sinistra sugli arresti di Messina Denaro e Provenzano. Il Tempo il 16 gennaio 2023

Quali sono i meriti politici del governo Meloni nell’arresto di Matteo Messina Denaro? Il quesito è rivolto ad Alessandro Sallusti, direttore di Libero, nel corso della puntata del 16 gennaio di Otto e mezzo, il talk show di La7 condotto da Lilli Gruber. Il giornalista risponde così dopo la cattura a Palermo del boss di Cosa Nostra: “Questo non è un arresto politico, è un arresto militare, l’hanno arrestato i carabinieri e non il governo. Ma il fatto che prima di lui c’era Bernardo Provenzano e anche lui, come Messina Denaro, fu arrestato sotto un governo di centrodestra smentisce la retorica e la narrazione che i governi di centrodestra siano complici o poco attenti alle questioni di mafia e che questa sia collaterale. Questo arresto arriva poche settimane dopo che questo governo ha deciso la linea durissima contro la mafia, rifiutandosi di rivedere il carcere duro, che era una delle possibili richieste della mafia a qualsiasi governo. Questo fatto di oggi smentisce che i governi di destra siano diversi da qualsiasi altro governo nella lotta alla mafia”.

Si passa poi al tema delle intercettazioni: “Io condivido - dice Sallusti - quello che ho sentito oggi, ma nessuno, neanche il ministro Carlo Nordio, ha mai detto o pensato che le intercettazioni dovessero essere limitate nella lotta alla mafia. Lui ha detto che le intercettazioni costano troppo, una cosa confermata dal procuratore Nicola Gratteri. Poi ha detto che c’è un problema dell’uso delle intercettazioni, non se farle o meno. Mi sembra tutto molto strumentale e oggi c’è la dimostrazione che si intercetta e si arresta anche con i governi di centrodestra”. 

Jannone: “Ci voleva un governo di centrodestra per arrestare l’ultimo boss?” Di Emanuele.Beluffi su Culturaidentità il 16 Gennaio 2023

All’indomani dell’anniversario della cattura di Totò Riina, oggi i carabinieri del Ros, insieme al Gis e ai comandi territoriali, hanno arrestato Matteo Messina Denaro, l’unico boss rimasto in libertà dopo 30 anni di latitanza a conoscere i segreti delle stragi di mafia del 92 e del 93, mentre era in day hospital alla clinica Maddalena, in pieno centro a Palermo. Ne abbiamo parlato con Angelo Jannone (oggi colonnello in congedo e affermato manager e consulente di successo), che a 28 anni è stato al comando della compagnia Carabinieri di Corleone lavorando a stretto contatto con Giovanni Falcone nelle indagini sui Corleonesi e per la cattura di Totò Rina (ammanettato poi da “Ultimo” nel gennaio del 1993). Dopo ulteriori successi contro la ‘ndrangheta in Calabria e in Veneto con Carlo Nordio, ha comandato il secondo reparto investigativo del Ros Centrale, dove ha svolto attività di infiltrato tra narcos e camorristi.

Che idea ti sei fatto del blitz che ha portato all’arresto, proprio all’indomani dell’anniversario della cattura di Riina, di Messina Denaro? Secondo te la data è stata scelta a livello simbolico o è solo un caso?

No, non credo proprio sia una scelta, il Ros da tantissimi anni lavorava su Messina Denaro. La provincia di Trapani era il suo feudo e aveva le maggiori complicità istituzionali di Cosa Nostra, anche per la presenza di logge massoniche spurie (la Loggia Scontrino per esempio). Sin dai tempi di Riina anche lui aveva una forte influenza sulla provincia di Trapani, dove viveva suo fratello, di conseguenza le indagini del Ros hanno sempre risentito molto di queste difficoltà: in una decina di occasioni si è andati vicini all’arreso di Messina Denaro, ma le indagini non si sono mai fermate e l’arresto del boss sarà l’inizio di qualcosa di importante, si rimetteranno insieme gli elementi raccolti in questi ultimi anni e ne vedremo delle belle.

Messina Denaro era l’unico boss rimasto in libertà a conoscere i segreti delle stragi di mafia del 92 e del 93, pensi che da oggi potremo venire a conoscenza di alcune verità fino a questo momento inconfessabili?

No, la strage di Capaci è stata chiarita a livello giudiziario, non ci sono segreti ulteriori da raccontare. Qui parliamo in generale di appoggi nati immediatamente dopo, compresi alcuni rapporti di Messina Denaro ancora da chiarire, perché lui a differenza dei corleonesi era molto inserito nel narcotraffico internazionale. Sulla strage di via d’Amelio invece ci sono ancora dei segreti: non la famosa agenda, che secondo me è una mezza bufala mediatica perché l’agenda che Borsellino usava regolarmente era stata ritrovata nel suo ufficio, ma depistaggi noti, relativi al processo, con il falso pentito Scarantino. La figlia di Borsellino è la più attenta e da tempo denuncia questi depistaggi.

Possiamo considerare l’arresto di Messina Denaro un successo del Ministro Piantedosi?

Più che altro mi chiedo: perché ci voleva un governo di centrodestra per arrestare il boss piu influente rimasto in circolazione? C’è una storia lunghissima di ostacoli, volontari o involontari chissà, alle indagini del Ros, pedinamenti di portatori di pizzini su cui si innestava un’altra indagine che mandava in fumo il lavoro fatto fin lì.

"È un giorno di festa". Meloni a Palermo per l'arresto di Messina Denaro. Il presidente del Consiglio esulta per l'arresto del boss: "Vuol dire che c'è uno Stato che ha continuato a lavorare". Poi l'omaggio alle vittime della strage di Capaci. Luca Sablone il 16 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Nella tarda mattinata Giorgia Meloni è arrivata in Procura a Palermo per incontrare il procuratore capo Maurizio De Lucia e l'aggiunto Paolo Guido che hanno coordinato l'indagine che ha portato all'arresto di Matteo Messina Denaro. Il presidente del Consiglio e il sottosegretario alla Presidenza, Alfredo Mantovano, hanno osservato un minuto di raccoglimento davanti alla stele di Capaci. Un modo per ricordare le vittime della strage nella quale persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.

Meloni a Palermo

Il primo ministro è arrivato al palazzo di giustizia per ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile l'arresto del superlatitante, complimentandosi così con la Procura e i carabinieri per aver assicurato alla giustizia l'esponente più significativo della criminalità mafiosa. Negli uffici della Procura del capoluogo siciliano erano presenti anche le altre forze che hanno contribuito alla riuscita dell'operazione.

Tra questi vi erano anche il Generale Rosario Castello (comandante della Legione carabinieri Sicilia) e il comandante provinciale Giuseppe de Liso con altri ufficiali dei carabinieri. "Presidente, benvenuta, se vuole salire le faccio conoscere chi ha lavorato sull'arresto di Messina denaro", sono state le parole con cui il procuratore Maurizio De Lucia ha accolto Giorgia Meloni. Che ha annunciato la volontà di proporre quello di oggi come giorno festa: "Mi piace immaginare che questo possa essere il giorno nel quale viene celebrato il lavoro degli uomini e delle donne che hanno portato avanti la guerra contro la mafia".

L'appello sulla mafia

Il presidente del Consiglio, intervenuto in occasione di un punto stampa, ha esultato per l'arresto di Matteo Messina Denaro che latitava da ormai 30 anni: "Oggi è un giorno di festa perché possiamo dire ai nostri figli che la mafia si può battere. È una giornata storica". Il capo del governo ha riconosciuto che "non abbiamo vinto la guerra" contro la mafia in maniera totale, ma ha fatto notare che quella in questione "era una battaglia fondamentale da vincere e rappresenta un colpo duro alla criminalità organizzata".

Per Meloni il fatto testimonia che "c'è uno Stato che ha continuato a lavorare", dicendosi fiduciosa sul fatto che "qualcosa in più possa uscire su chi eventualmente avesse collaborato con lui". In tal senso si è rivolta al procuratore capo, agli investigatori, ai carabinieri e a tutte le forze in campo: "L'Italia è fiera di loro. Sappiamo che dobbiamo a loro questo grande risultato al lavoro quotidiano di grande determinazione che hanno condotto".

Inoltre il primo ministro ha assicurato che il governo è determinato nel partorire qualsiasi provvedimento del caso "per portare avanti questa battaglia insieme". Infine è arrivato un appello ben preciso alla politica del nostro Paese: "Non penso che la lotta alla mafia debba essere un tema divisivo. È una battaglia da combattere tutti insieme senza dire chi è più bravo di chi".

Arresto di Matteo Messina Denaro, il Premier Meloni e il Sottosegretario Mantovano in Sicilia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Gennaio 2023.

Ai microfoni dei giornalisti, in procura a Palermo, il premier Meloni ha sottolineato: "Oggi possiamo dire ai nostri figli che la mafia si può battere, ma non abbiamo vinto la guerra. Ma questa era una battaglia fondamentale da vincere ed è un colpo duro per la criminalità organizzata".

Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni mattina ha incontrato a Palermo il procuratore distrettuale di Palermo, Maurizio de Lucia, i magistrati che hanno coordinato le indagini e i Carabinieri del Ros che hanno eseguito l’arresto del boss super latitante Matteo Messina Denaro. Successivamente ha tenuto un punto stampa. Prima dell’arrivo in Procura, il Presidente Meloni e il Sottosegretario Adolfo Mantovano hanno reso omaggio alla stele che ricorda le vittime della strage di Capaci.

il premier Giorgia Meloni, il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia ed il sottosegretario Alfredo Mantovano

Ai microfoni dei giornalisti, in procura a Palermo, il premier Meloni ha sottolineato: “Oggi possiamo dire ai nostri figli che la mafia si può battere, ma non abbiamo vinto la guerra. Ma questa era una battaglia fondamentale da vincere ed è un colpo duro per la criminalità organizzata“.

All’arrivo a Palermo, subito dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, il premier Giorgia Meloni ha lanciato la sua proposta: “Mi piace immaginare che questo possa essere il giorno nel quale viene celebrato il lavoro degli uomini e delle donne che hanno portato avanti la guerra contro la mafia. Ed è una proposta che farò, è un giorno di festa per noi che possiamo dire ai nostri figli che la mafia si può battere. Noi siamo abituati a ricordare soprattutto chi si sacrifica col sacrificio più estremo per la lotta alla mafia ma poi ci sono persone che sacrificano tutta la loro esistenza per raggiungere questi obiettivi: mi piacerebbe immaginare che questo possa essere il giorno in cui viene celebrato il lavoro di questi uomini e queste donne“.

Giorgia Meloni ha ribadito che lo Stato c’è, come dimostra il blitz di oggi. “Un messaggio alla parte sana di Palermo, come quelli che davanti alla clinica hanno applaudito all’arresto di Messina Denaro? Non verranno lasciati soli, il messaggio è di continuare a credere che lo Stato può dare risposte migliori, che lo Stato c’è, si occuperà di loro, faremo del nostro meglio perché non debbano mai trovarsi nella disperazione di dover fare una cosa che non vogliono mai fare. Ma devono avere anche l’alternativa e noi dobbiamo costruire l’alternativa, dobbiamo fare tutto quello che possiamo, perché quello è lo strumento più efficace nella lotta al cancro della mafia“. Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Rino Formica per “Domani” il 17 gennaio 2022.

C’è un evidente simbolismo nell’arresto di Matteo Messina Denaro, che viene catturato, o viene consegnato, oppure si consegna, a trent’anni da un’altra cattura eccellente, quella di Totò Riina. La coincidenza è, a dir poco, curiosa. […] c’è un solo punto qualificante che deve essere rivelato: Messina Denaro deve spiegarci come è stato “coperto” in questi trent’anni.

 Deve rivelarci come si riesce a restare latitanti, peraltro a casa propria, a Palermo. E non in una caverna, ma entrando e uscendo regolarmente da una clinica. […] è difficile non restare turbati. I nostri inquirenti hanno scoperto in tre giorni dove si erano nascosti i ragazzini fuggiti dal carcere Beccaria di Milano. E […] afferrano in poco tempo anche gli omicidi […] Ma quando si sale verso i grandi reati, ci sono trent'anni di latitanza. Com’è possibile? O, meglio, è davvero possibile?

C’è poi un aspetto persino comico […] Alla notizia dell’arresto, Giorgia Meloni si precipita a Palermo […] il presidente del Consiglio ha bisogno di andare sul luogo per un saluto? Non poteva felicitarsi con la procura antimafia a Roma? Meloni ha tentato di fare un uso strumentale di questa cattura. […] questo precipitarsi della presidente del Consiglio ad affiancare il suo volto a quello degli inquirenti di Palermo è un evidente modo per prendere fiato dalle difficoltà del governo.

 Ma contemporaneamente, e fatalmente, dimostra la incapacità di affrontare i problemi, e anche l’impotenza. L’improvvisata presenza di Meloni a Palermo è inutile. Cerca una via di fuga, ma una via di fuga non è un salvataggio. La via di fuga sono le dimissioni, se non ritiene di essere all’altezza dei problemi che deve affrontare.

 Estratto dell’articolo di Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 17 gennaio 2022.

 […] L'arresto di Matteo Messina Denaro ha una sua forza polemica oggettiva, perché fa giustizia di tutto ciò che è stato urlato contro il governo. I primi ad usare l'argomento come una clava sono stati i professionisti dell'antimafia.

 Nel maggio del 2020 Roberto Saviano scrisse che Matteo Salvini e Meloni lo criticavano perché lui aveva «raccontato come la mafia dei colletti bianchi porta le aziende in crisi ai clan». E buttò lì l'insinuazione: «Davvero» quei due «ignorano tutto? Oppure sanno, tacciono e preferiscono attaccare me?».

 Eccola l'accusa di essere complici (o conniventi, o servi sciocchi, poco cambia): l'ombra di uno stalliere di Arcore che come il Banquo di Macbeth accompagna ovunque i leader del centrodestra.

 Concetti che Saviano ha ripetuto nei giorni precedenti alle elezioni: «Il tema mafia è scomparso dalla campagna elettorale perché non porta voti. Porta ad un allontanamento di chi ti ascolta. Se per anni disabitui il dibattito pubblico a questi temi diventa inattuale. La politica tuttora ha abdicato tutto alla magistratura, facendo un errore madornale».

Insomma, a sentir lui in chi si candidava a governare il Paese non c'era voglia di combattere la mafia, ma l'esatto contrario: il desiderio di anestetizzare gli italiani, distoglierli dalla questione.

 Argomenti non molto diversi li ha sostenuti Roberto Scarpinato nell'aula di palazzo Mama durante il dibattito sulla fiducia al governo. L'ex procuratore generale di Palermo, eletto senatore nelle liste dei Cinque Stelle, ha messo in dubbio la «dichiarata intenzione» del premier «di mantenere una linea di fermezza nella lotta contro la mafia», dal momento che «la vostra maggioranza si regge anche su una forza politica il cui leader ha mantenuto rapporti pluriennali coi mafiosi e che ha tra i suoi soci fondatori Marcello Dell'Utri».

Per Federico Cafiero De Raho, ex procuratore nazionale antimafia, eletto con il M5S nell'altro ramo del parlamento, il vero scopo della nuova disciplina delle intercettazioni è facilitare la vita ai mafiosi: «Senza intercettazioni, non avremmo più un solo processo per reati di mafia». [...]

 Che il governo sia mafioso o para-mafioso, del resto, è il refrain dei Cinque Stelle. Giuseppe Conte lo ha cantato tante volte, nel tentativo di togliere credibilità alla legislazione del governo in materia di giustizia. «Giorgia Meloni nei suoi discorsi cita Borsellino e la lotta alla mafia», ha detto di recente. [...]

 Un po' di giudizi dovrebbero essere rivisti, insomma. Inclusi quelli del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Prima, agli inizi di dicembre, aveva avvertito che col centrodestra al governo tirava un'aria diversa, ovviamente peggiore […]  E poi alla vigilia di Natale, intervistato dal Fatto, ha reso pubblico tutto il proprio sdegno: «Quando Giorgia Meloni si è insediata, ha indicato la lotta alla criminalità organizzata come una delle priorità del suo governo. Ci avevo creduto, ma evidentemente ho sbagliato».

[…] Silenzio ieri da parte di Gratteri e Scarpinato. Sempre meglio di Saviano, che ha parlato per dire che il ministro Piantedosi probabilmente sapeva dell'arresto imminente e, «per intestarsi questa vittoria, nella foga ha rischiato di far saltare tutto, dicendo "vorrei essere il ministro che arresta Mattia Messina Denaro", cosa pericolosissima». Nella foga c'è anche chi aveva detto che questo governo avrebbe aiutato la mafia, e ieri si è arrampicato sugli specchi pur di non ammettere di aver sbagliato tutto.

Da Il Secolo d’Italia il 17 gennaio 2023. “Non commento la letteratura, la storia dice altro e cioè che il contrasto della mafia è avvenuto ad opera di governi di centrodestra”. Così il parlamentare Gianfranco Rotondi, presidente di ‘Verde è popolare’, replica seccamente a quanto asserito in una intervista sul quotidiano La Stampa da Roberto Saviano.

Saviano, definendo il governo Meloni “…il meno antimafioso della nostra storia….”, afferma che “…la mafia ama fare affari con chi sta al potere, indipendentemente dai colori….Ma la predilezione per la destra è testimoniata da una infinità di atti e documenti…”.

Rotondi suggerisce a Saviano “di scrivere un libro sugli effetti del sequestro dei beni della mafia, istituto fortemente voluto dal ministro Maroni e dal presidente Berlusconi – risponde all’Adnkronos – Questi sono i fatti, esattamente come un fatto è il carcere duro per i mafiosi istituito dal governo Andreotti. I nemici della mafia sono questi e infatti la mafia sa vendicarsi”, conclude il deputato.

Il riferimento di Rotondi è al decreto legge n. 92 del 2008 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica, convertito nella legge n. 125 del 2008). Il provvedimento inasprisce le sanzioni per il reato di associazione mafiosa e ne prevede l’applicazione anche alle associazioni straniere (Il decreto legge n. 4 del 2010 ne estende ulteriormente l’applicazione alla ‘ndrangheta).

Inoltre attribuisce priorità assoluta, nei ruoli d’udienza, alla trattazione dei processi di maggior allarme sociale, tra i quali i delitti di criminalità organizzate;. dispone il divieto di patteggiamento in appello per i reati di mafia e la semplificazioni per la confisca dei beni appartenuti ai condannati; amplia l’ambito applicativo della legge sulle misure di prevenzione ed estende le prerogative in materia del direttore della DIA e del Procuratore della repubblica del distretto e di quello del tribunale del circondario. Presidente del Consiglio era Berlusconi e ministro degli Interni Roberto Maroni. Insomma, Saviano ha perso un’altra occasione per tacere.

Estratto dell’articolo di Andrea Malaguti per “La Stampa” il 17 gennaio 2022.

[…] Una vittoria dello Stato si dice a denti stretti in giorni così. «Certamente un successo per l’Italia e un grande lavoro dei carabinieri. Più difficile pensare che il merito sia del governo Meloni, il meno antimafioso della nostra storia», dice invece Roberto Saviano a La Stampa, mentre le televisioni di tutto il mondo rimandano le immagini di un anziano signore col volto pieno di doppi fondi, sfuggente e ridicolmente mortificato, che viene portato via dalle forze dell’ordine.

[…] Torno alle protezioni. La politica?

«Vecchia storia. Difficile dimenticare che il referente di Matteo Messina Denaro è stato Tonino D’Alì, ex senatore di Forza Italia e sottosegretario all’Interno, a cui i giudici hanno contestato la vicinanza a Cosa Nostra. E in particolare a Riina e ai Messina Denaro padre e figlio. Questo è il livello di stratificazione delle relazioni».

 Nella Sicilia governata dall’ex presidente del Senato Renato Schifani, cosa è rimasto del rapporto tra i Palazzi e le cosche?

«Non so esattamente che cosa sia rimasto. Quando si parla di Sicilia bisogna sempre fare attenzione. Ci sono stati dei cambiamenti profondi. Ma noto anche che Dell’Utri e Cuffaro continuano ad avere consenso e uomini sul territorio».

 E dunque?

«E dunque fatico a convincermi che ci sia stata una rottura definitiva tra potere politico e mafia in Sicilia. I rapporti del passato tra Forza Italia e Cosa Nostra sono ampiamente documentati. Storicamente e giudiziariamente».

[…]  Giorgia Meloni ha rivendicato il successo dello Stato.

«Che per lo Stato sia un successo è certo. Che il merito sia di questo governo non direi. Anzi, direi che questo è uno degli esecutivi meno antimafiosi che il Paese abbia avuto».

 Sembra un pregiudizio più che un giudizio.

«È solo una constatazione. La mafia ama fare affari con chi sta al potere, indipendentemente dai colori. Lo ha fatto con la destra e con la sinistra. Ma la predilezione per la destra è testimoniata da una infinità di atti e documenti».

[…] «Le voci su un possibile arresto giravano da molto tempo e quello di Piantedosi sembrava lo spot di uno che sapeva. Uno spot pericoloso, perché rischiava di far saltare l’operazione. Ma evidentemente il ministro era certo di fare cassa mediatica con un arresto di cui non ha alcun merito. I carabinieri hanno lavorato su Messina Denaro per anni».

C’era un accordo?

«Di sicuro i tempi erano maturi».

 […] Perché Graviano vuole portarla in tribunale e chiede che il suo libro su Falcone, “Solo è il coraggio”, sia ritirato dalle librerie?

«Molti in questa fase mi vogliono portare in tribunale. E Graviano, mente operativa dell’assassinio di Falcone e Borsellino, è tra loro. Sostiene che io abbia mentito quando scrivo che Riina lo mandò a Roma per costruire una Super-Cosa da contrapporre alla Superprocura».

A cosa sarebbe servita, la Super-Cosa?

«A seminare il terrore. A uccidere Falcone, Costanzo, Martelli. Ma anche personalità pubbliche come Renzo Arbore, Pippo Baudo o Enzo Biagi». […]

La premier esclude che ci possa essere stata una trattativa. Passerella di Meloni a Palermo, la premier in gita prova a intestarsi l’arresto di Messina Denaro. Claudia Fusani su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Da tempo i carabinieri del Ros sapevano che Matteo Messina Denaro era malato, due operazioni in sei anni, un tumore al colon in fase avanzata, bisognoso di specifiche cure, una prospettiva di vita non lunga nonostante i sessant’anni. Da allora, gli ultimi due anni, hanno iniziato un lavoro capillare, dal basso, “con tradizionali metodi investigativi, soprattutto le intercettazioni” e “da remoto” come ha spiegato il procuratore Maurizio De Lucia, “attraverso le liste delle persone in cura custodite dal Servizio sanitario nazionale”.

Un giorno dopo l’altro quella lista di migliaia di nomi in cura in tutta Italia – e non solo a Palermo o in Sicilia – è diventata sempre più sottile. Fino a concentrarsi su quello di Andrea Bonafede, cognome che poteva avare attinenza con la cerchia di familiari del boss dei boss e il numero uno nella lista dei ricercati in tutto il mondo. Il signor Bonafede era già stato sei volte alla clinica di Palermo “La Maddalena” struttura di eccellenza in Sicilia per le cure oncologiche. “Abbiamo lavorato per anni giorno e notte, senza sosta, massima riservatezza, anche a Natale e Capodanno siamo stati qua – ha sottolineato il generale comandante del Ros Pasquale Angelosanto – fino a stamani quando, informati che sarebbe stata un’altra giornata di cure e terapie, il signor Bonafede una volta arrivato all’accettazione ha detto al collega che lo ha fermato: Sì sono Matteo Messina Denaro”.

Usciranno tanti dettagli nelle prossime ore e giorni sulla fine della latitanza dell’ex numero uno di Cosa Nostra. Ci saranno, come si augura il membro laico del Csm ed ex procuratore Nino di Matteo, “molti sviluppi e, ci auguriamo, una sincera collaborazione”. Ma una cosa deve essere chiara a tutti: la fine della latitanza di Diabolik – uno dei nomignoli di Messina Denaro, l’altro era U Siccu – è il risultato di un lavoro corale durato anni e senza etichette politiche. Il cui merito esclusivo va alle donne e agli uomini delle forze dell’ordine. Dunque oggi lo Stato vince. Dopo aver però perso per trent’anni. La premier Giorgia Meloni ha valutato di andare di persona a Palermo per rendere omaggio alla stele della strage di Capaci e poi stringere la mano a magistrati, il procuratore De Lucia e il pm Paolo Guido. Una cerimonia di “grazie” e “complimenti” che la premier, accompagnata dal sottosegretario Alfredo Mantovano, ha voluto consegnare al Paese grazie alle immagini diffuse su tutte le tv, i siti e i canali social.

E raccontare con una narrazione che ha una serie di fortunate coincidenze: “È una brande emozione per me essere qui oggi in una giornata come questa. Il mio percorso politico inizia trent’anni sulle macerie di Capaci e via d’Amelio”. E oggi quel cerchio può dirsi chiuso visto che Messina Denaro era l’ultimo stragista condannato a decine di ergastoli ancora latitante. Ma è un cerchio non concluso perchè c’è ancora molto da sapere su quelle stragi e cosa successe veramente tra lo Stato e Cosa Nostra tra il 1992 e il 1994. “La mafia non è sconfitta” ha precisato il procuratore De Lucia. La premier Meloni ha deciso di andare a Palermo e di mettere la sua faccia accanto all’operazione. Per qualcuno è stata “una doverosa testimonianza” . Alcuni fedelissimi, ad esempio Giovanni Donzelli, ha attribuito “alla destra” il merito di questo successo. “Grazie a tutte le forze dell’ordine – ha scritto su twitter – con la destra al governo la lotta alla mafia sarà sempre al centro sulle tracce di Falcone e Borsellino”. L’amico e direttore Vittorio Feltri si è spinto oltre: “Ci voleva la Meloni per togliere ogni protezione all’ex inafferrabile criminale”.

Ecco, i Fratelli d’Italia provano a mettere il cappello sull’arresto del superlatitante. La premier Meloni, tornata da Palermo, ieri sera è stata ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica. Alla domanda sulle tesi complottiste per cui “Messina Denaro non è stato arrestato ma consegnato perché molto malato” la premier si è molto risentita. Il pentito ex prestanome dei fratelli Graviano Salvatore Baiardo ha detto di recente, intervistato da Massimo Giletti, che “questo governo potrebbe avere presto un regalo” alludendo proprio all’arresto di Messina Denaro. “Nessuna trattativa” ha escluso Meloni, “possibile che questo paese non riesca mai a festeggiare i momenti belli? E poi, cosa vuol dire: che finché c’è stata la sinistra al governo il boss non poteva essere arrestato?”. Lasciamo perdere le trattative. È un fatto però che trent’anni di latitanza sono tanti. Troppi.

È un fatto anche che il nuovo ergastolo ostativo, che Meloni rivendica come primo atto del suo governo (fu inserito nel decreto rave), garantisce ai boss condannati e molto malati di poter essere curati a domicilio se hanno dato prova di una profonda ed efficace collaborazione. Riina e Provenzano, molto malati, morirono in carcere. Così come è un fatto che ad oggi questo governo non ha ancora insediato la Commissione parlamentare antimafia. Lo ha ricordato Zanettin di Forza Italia. Ieri sera è stata, finalmente, fissata una data: il 27 gennaio.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

La presenzialista. L’insopportabile sovraesposizione di Meloni anche quando non c’entra niente. Mario Lavia su L’Inkiesta il 17 Gennaio 2023.

Ieri la premier è volata di persona a Palermo e poi è apparsa in tutti i tg, anziché lasciare spazio a magistrati e carabinieri. Dopo il disastro comunicativo sulla benzina avrebbe potuto adottare un profilo basso: un’altra occasione sprecata

«Dopo 30 anni finisce la latitanza di Matteo Messina Denaro. Complimenti alle forze di polizia, ai Ros e Gis dei Carabinieri: gli italiani vi ringraziano con tutto il cuore. Con la destra al governo la lotta alla mafia sarà sempre al centro, sulle tracce di Falcone e Borsellino». A uno come Giovanni Donzelli, un emergente di Fratelli d’Italia, scappa la frizione e, tac, sente la necessità di fare subito propaganda sul grande risultato ottenuto ieri dallo Stato con l’arresto di Matteo Messina Denaro.

«Con la destra al governo…»: non ha scritto, bontà sua, che è anche grazie alla destra che il boss mafioso sia stato beccato dopo trent’anni anni, ma il messaggio nemmeno tanto subliminale c’è tutto: non l’hanno preso in trent’anni anni, noi l’abbiamo preso in tre mesi. Non dicono a voce alta, i Fratelli d’Italia, ciò che ha twittato il melonianissimo Vittorio Feltri («Ci voleva la Meloni per togliere ogni protezione all’ex inafferrabile criminale») ma il riflesso è quello, poco importa che si tratti di una sciocchezza sesquipedale. E lei ce l’ha avuto, questo riflesso?

Si può discutere se il gran movimento di ieri di Giorgia Meloni sia stato opportuno, necessario, consono o abbia debordato dai confini della sobrietà istituzionale. Più chiaramente, c’è da chiedersi se la premier volando di prima mattina a Palermo abbia voluto, come si suol dire, “metterci il cappello”, magari per «prendere fiato – scrive Rino Formica sul Domani – dalle difficoltà del governo». È un interrogativo legittimo e non un’accusa pregiudiziale.

Concretamente il viaggio di Meloni nel capoluogo siciliano non serviva a nulla, per una volta non c’era da portare solidarietà o cordogli, non c’erano emergenze in atto. Tutto si era compiuto, e benissimo: bastava un messaggio, una telefonata. Il ministro dell’Interno era in Turchia e quindi non poteva esserci ma forse sarebbe stata sufficiente la presenza del sottosegretario Alfredo Mantovano.

Perché dunque c’è andata Meloni? Perché poi farsi riprendere sulla lapide di Capaci (gesto sempre nobile) a favore di telecamere? Perché non lasciare tutto lo spazio d’immagine ai magistrati, ai carabinieri, insomma ai protagonisti della grande impresa? Per dare un’idea: il Tg2 delle 13 come primo servizio ha mandato in onda una prima corrispondenza da Palermo imperniata sull’arrivo della premier; dopo c’è stata un’altra corrispondenza da Palazzo Chigi sulle reazioni della premier; infine in diretta da Palermo le dichiarazioni sempre della premier. La quale ha ovviamente avuto il suo bello spazio in tutti gli altri telegiornali.

Ora, va bene tutto, ma questa presidente del Consiglio che va negli spazi, come si dice in gergo calcistico, è ovunque, non si risparmia, sarà senz’altro ammirata dai suoi sostenitori ma eccessiva per tutti gli altri, che pagano il canone quanto i primi.

E questo diventa un tema importante principalmente per lei: il problema della sovraesposizione. Apparire, apparire, apparire. Già a proposito del disastro comunicativo sulla questione dei carburanti si era notata una bulimia di interviste, comunicati, veline, rettifiche, un accumulo di messaggi che aveva fatto girare la testa agli italiani, e non solo la testa.

Ieri, in un giorno bello per la Repubblica, ha aleggiato questo presenzialismo che si tollererebbe sì e no in una repubblica presidenziale che non esiste se non nella sua immaginazione. Attenzione dunque a non saturare l’aria, ché gli italiani si stancano presto e ci mettono poco ad aprire porte e finestre.

I Commenti.

(ANSA il 16 gennaio 2023) - Fa il giro del mondo come breaking news l'arresto di Matteo Messina Denaro. Dal Guardian alla Bbc, dalla Cnn, dal Pais a Le Monde, passando per al Jazeera, i siti internazionali ne danno ampio risalto ed in molti casi le dedicano l'apertura. Tutti sottolineano che Messina Denaro era "il boss mafioso più ricercato d'Italia e che è stato arrestato dopo 30 anni di latitanza".

La telefonata di Mattarella e gli elogi al Viminale. Arrivano le congratulazioni di Ue e Casa Bianca. "Il mondo è più sicuro". Berlusconi: "Lo Stato è più forte di Cosa Nostra". Massimiliano Scafi il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

È il giorno dell'orgoglio. Adesso che dopo trent'anni Matteo u siccu è dentro, associato alle patrie galere, sbattuto finalmente in un carcere di massima sicurezza e inchiavardato, lo Stato può gonfiare il petto, almeno per 24 o 48 ore. Giorgia Meloni vuole trasformare il 16 gennaio in una festa nazionale, più sobriamente Sergio Mattarella si accontenta di raccogliere il senso civico unificante dell'arresto del boss e di prolungarlo il più possibile. I reparti del Ros in assetto di guerra si aggirano ancora per i reparti della clinica, Messina Denaro è in volo scortato verso una località segreta, quando il capo dello Stato alza il telefono e «si congratula con il ministro dell'Interno e con il comandante dei carabinieri» per la cattura «realizzata», ci tiene a ricordare, «in stretto raccordo con la magistratura».

Poche parole, asciutte, quasi fredde. Lo stretto indispensabile, eppure arrivano da un presidente che la tragedia della mafia l'ha vissuta e sofferta di persona, quando si è trovato tra le braccia il corpo insanguinato del fratello Piersanti. Ora, sempre nella sua Palermo, finisce nella rete l'ultimo capo stragista e dopo trent'anni la battaglia a Cosa Nostra appare a un punto di svolta. I ritardi? Le complicità? La latitanza tranquilla di Messina Denaro? Quello che conta per Mattarella è il risultato, la rivincita repubblicana, lo spirito di unità nazionale, i titoli in festa dei giornali stranieri. E i complimenti arrivati dal dipartimento di Stato americano, che considera l'arresto «un successo significativo e una coraggiosa dimostrazione degli sforzi per combattere la mafia». E le parole Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo: «Il mondo e più sicuro oggi». L'Italia insomma che fa bella figura e ottiene un'affermazione prestigiosa e senza colore politico, frutto della fatica di investigatori e magistrati che hanno continuato a lavorare sodo a prescindere da chi fosse in quel momento a Palazzo Chigi.

E di «vittoria dello Stato», nel senso di comunità, parlano un po' tutti, da destra al centro a sinistra. «La lotta alla mafia non conosca tregua», dice Ignazio La Russa. Il presidente della Camera Lorenzo Fontana dedica «un pensiero commosso a Falcone, Borsellino e Livatino». Felice Silvio Berlusconi: «Vince il diritto, vince la giustizia, vince l'Italia intera. Lo Stato è più forte di Cosa Nostra». Per il ministro della Giustizia Carlo Nordio «si chiude davvero una delle stagioni più drammatiche della storia della Repubblica; con l'arresto dell'ultimo super latitante si rinnova l'impegno contro ogni forma di criminalità, semplice e organizzata». Per Matteo Salvini «le nostre istituzioni e i nostri uomini in divisa non mollano mai».

Di tono analogo le reazioni dell'opposizione. Enrico Letta si congratula «con le forze dell'ordine e la magistratura». Giuseppe Conte scrive che «lo Stato non deve abbassare mai le difese, la mafia non può vincere». Matteo Renzi parla di «notizia bellissima, un risultato storico». Si tratta, conclude, «di una giornata di felicità e di festa per tutto il Paese».

Dagonews il 17 gennaio 2022.

L’arresto del boss mafioso Matteo Messina Denaro ha dimostrato che la mafia è una montagna di… meme. Dagospia ha raccolto per voi tutte le migliori vignette e i fotomontaggi più divertenti sull'arresto del super latitante. C’è chi scherza sul suo pseudonimo (usava lo stesso cognome dell’ex Ministro della Giustizia): "si faceva chiamare Bonafede perché Piantedosi era troppo", e chi ne approfitta per burlarsi della sanità italiana: “Arrestato per colpa di una tac. Era in lista d'attesa da trent'anni". 

 Quei burloni di internauti giocano anche sull’attualità televisiva ("Arrestato Matteo Messina Denaro. La corsa al super ospite di Sanremo ci sta sfuggendo di mano") e qualcuno fa un’analisi semiseria del look pecoraro-chic del boss durante l'arresto. Infine, tra il serio e il faceto, i twittaroli hanno preso ispirazione da una  finta recensione del boss alla clinica "la Maddalena" ("esperienza negativa. Non ci tornerò più") per dare i voti al centro palermitano. Ovviamente, tutti negativi, come si può leggere nell’articolo sotto.

Da open.online il 17 gennaio 2022.

«1 stella. Sconsiglio ai latitanti». All’indomani dall’arresto del numero 1 di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, sono esplose le recensioni sul sito della clinica La Maddalena, dove è stato trovato il boss. È diventato l’ospedale più famoso d’Italia nel giro di 24 ore, scatenando l’ironia del web. Andando sul loro sito si può assistere a centinaia di nuove recensioni ironiche che spaziano tra chi dà cinque stelle perché «quello dietro di me ha cercato di saltare la fila, ma sono intervenuti centinaia di carabinieri per bloccarlo» e chi ne dà una per la «poca discrezione e privacy invasa spesso dalle forze dell’ordine».

«Ottimo personale, qualificato e gentile. Purtroppo, però, la clinica non è un buon luogo per giocare a nascondino», scrive un utente. C’è chi finge di aver condiviso il tempo in attesa con il boss: «L’assistente mi ha chiesto se volessimo aspettare qualche minuto in sala d’attesa. Il tipo di fianco a me ha risposto: “Io ho passato gli ultimi trent’anni ad aspettare». Infine, i delusi: 1 stella. «Servizio pessimo. Pensavo fosse convenzionata con l’arma dei Carabinieri, ma aveva solo convenzioni con Cosa Nostra».

 C’è poi chi segnala con 1 stella la struttura per il disturbo della quiete: «Troppo rumorosa…Troppe sirene dei carabinieri!». In tanti puntano sulla mancata privacy: «Un po’ invasivo il servizio di sicurezza, oggi per accompagnare fuori un paziente di Castelvetrano sono arrivati in 120 armati fino ai denti». E chi aggiunge: «Poca riservatezza, questa mattina ero andato a trovare mio zio, non lo vedevo dal 1993 perché si era allontanato alla mia nascita.

Appena entrato in clinica mi hanno assalito portandomi via insieme a lui, ora mi ritrovo chiuso in pulmino con venti agenti armati». Ma non manca anche chi attacca le recensioni ironiche, lasciando a sua volta una recensione: «Solidarietà a questo ospedale oncologico. Recensione di sostegno a questa bella struttura dopo il bombing negativo. C’è sempre gente che lavora», scrive un utente lasciando 5 stelle.

 Ma l’ironia del web ha riguardato in toto la notizia dell’arresto del superlatitante. Non solo recensioni negative. La prima foto diffusa di Matteo Messina Denaro con i carabinieri è entrata nel mirino dei meme. C’è chi ironicamente dubita che sia realmente lui data la poca riconoscibilità con le recenti foto segnaletiche: «Lasciate libero quell’uomo. Non è Messina Denaro è Alessandro Cecchi Paone».

E ancora: «Arrestata Emma Bonino, come si può vedere nella foto». Non manca chi critica il lungo tempo che il Ros ha impiegato per trovare “Diabolik” e crea così un (finto) attestato di un master in crimine organizzato e operazioni tattiche antimafia effettuato presso l’università di Facebook. Infine, c’è chi fa lasciare una recensione direttamente dal superalatitante che dà una stella alla clinia: «Non ci tornerò sicuramente».

Da liberoquotidiano.it il 16 gennaio 2023.

Maurizio Costanzo esulta per la cattura di Matteo Messina Denaro: "Una gran bella notizia che si aspettava da 30 anni, alla fine della vita i peccati si pagano. Un evviva ai carabinieri del Ros, una bella soddisfazione", ha commentato con l'agenzia di stampa LaPresse il giornalista e conduttore tv. Il super latitante, infatti, nel 1992 fece parte di un gruppo inviato a Roma per compiere appostamenti nei confronti del noto presentatore televisivo e per uccidere Giovanni Falcone e il ministro Claudio Martelli.

Come aveva rivelato lo stesso Maurizio Costanzo qualche mese fa durante la registrazione del Maurizio Costanzo Show, in occasione dei 40 anni del programma, "in platea qui al Teatro Parioli tra il pubblico, ad assistere al mio show, ci fu una volta anche il boss latitante della mafia Matteo Messina Denaro. Mi hanno fatto vedere dopo le foto".

Da “I Lunatici” di Rai Radio2 il 17 gennaio 2022.

Il dott. Alfonso Sabella è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 (anche sul canale 202 del digitale terrestre) nel corso del format "I Lunatici", il programma condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle quattro, live anche su Rai 2 tra l'una e un quarto e le due e trenta circa. C

 Il magistrato, già sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo, autore del libro 'Cacciatore di mafiosi', che ha ispirato anche una fiction di Rai 2 con Francesco Montanari, durante gli anni trascorsi alla procura antimafia di Palermo fu tra gli artefici dell'arresto di mafiosi tra cui i latitanti Leoluca Bagarella, Giovanni ed Enzo Brusca, Pietro Aglieri, Nino Mangano, Vito Vitale, Mico Farinella, Cosimo Lo Nigro, Carlo Greco e Pasquale Cuntrera.

Così ha commentato la cattura di Matteo Messina Denaro: "Il suo arresto è una notizia di portata storica. Viene catturato l'ultimo esponente di quella strategia stragista corleonese che aveva devastato il nostro Paese agli inizi degli anni novanta. Io ne ho arrestati tanti, tantissimi, e Matteo era l'ultimo. Ci sono voluti trent'anni per prenderlo, ma lo Stato ha vinto.

 Cancelliamo per sempre la strategia dei corleonesi che avevano sfidato lo Stato e dall'altro lato abbiamo tolto un importante esponente di Cosa Nostra dalla circolazione. I corleonesi hanno smesso di esistere nel 14 aprile del 1998 quando abbiamo arrestato Vito Vitale. Lavorando su Brusca, Bagarella e gli altri il nome di Matteo Messina Denaro è venuto tante volte alla mia attenzione. Ma il territorio del trapanese era seguito da altri, non ho mai fatto indagini su Matteo Messina Denaro".

L'identikit del mafioso Messina Denaro: "Dobbiamo distinguere due fasi. Da giovane era amante delle donne, i miei colleghi hanno seguito anche qualche sua fidanzata, una era austriaca. La seconda fase della sua latitanza è quando rimane l'ultimo dei corleonesi, non è più un ragazzino scapestrato, il padre muore, lui assume altre responsabilità. Là si trasforma in un soggetto simile a Provenzano. Molto riservato, molto meno scapestrato".

 Cosa accade ora dentro Cosa Nostra: "Costa Nostra ci ha abituato ad avere una grande capacità di adattamento. Sa assorbire tanti colpi. Anche se è sempre meno pericolosa. Non è più l'organizzazione criminale più pericolosa del mondo, come era ad inizio anni '90. Ora è una delle mafie del nostro Paese, probabilmente la terza. Sicuramente è più pericolosa la 'ndrangheta e forse anche la Camorra.

L'arresto di Matteo Messina Denaro le toglie l'uomo dal maggiore prestigio criminale, forse non il capo. Io credo che dopo la vicenda dello strapotere dei corleonesi i palermitani abbiano preteso il potere dentro Cosa Nostra e lo abbiano ottenuto. Il potere di Cosa Nostra è tornato a Palermo. E' normale ritenere che al vertice della commissione di Cosa Nostra ci siano i palermitani in questo momento.

 Oggi Cosa Nostra non ha la forza militare di porre una sfida allo Stato. Cosa Nostra convive con lo Stato, in modo meno eclatante, meno pericoloso, Cosa Nostra non è più al centro del mercato degli stupefacenti, ha ritenuto che è più comodo convivere con lo Stato, oppure comprarselo, corromperlo, ma nel patrimonio genetico di Cosa Nostra lo stragismo e la violenza ci sono sempre. Non dobbiamo dimenticarcene".

Ancora Sabella: "La notizia più bella, ancora più dell'arresto di Matteo Messina Denaro, è quella dell'applauso dei palermitani presenti rivolto alle forze di polizia. Combattere alla mafia con la sola repressione non basta. Servono altri strumenti. Bisogna parlare di legalità. Di diritti. Il lavoro è ancora molto lungo in questo Paese e non può non passare da un contrasto serio alla corruzione, cosa che i nostri politici sottovalutano".

Estratto dell'articolo da Interris.it il 17 gennaio 2022.

[…] Interris.it, in merito all’importanza di questo evento nella lotta alla mafia, ha intervistato il dottor Giuseppe Maria Ayala, magistrato, collega e amico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – che ha scritto alcune delle pagine più importanti e memorabili del contrasto alla criminalità di tipo mafioso, tra cui il maxiprocesso di Palermo che ha segnato un momento di fondamentale importanza nell’affermazione della legalità nel contrasto al fenomeno mafioso.

 È stato senatore e membro della Commissione Giustizia nonché Sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia dal 1996 al 2000. Attualmente è vicepresidente della Fondazione Falcone che, attraverso la cultura e la divulgazione nelle scuole, opera per contrastare il fenomeno mafioso e diffondere la cultura della legalità.

Che cosa rappresenta l’arresto di Matteo Messina Denaro nella lotta alla mafia?

E’ un grande successo dello Stato. Segna la chiusura di una stagione tremenda perché, Messina Denaro, era l’ultimo del cosiddetto “gruppo dei corleonesi” anche se lui è della provincia di Trapani ma, dal punto di vista della storia della mafia, era l’ultimo esponente purtroppo ancora in libertà, ma finalmente oggi non lo è più, della fase stragista che ha caratterizzato gli anni ’80 e il ’92 – ’93, con l’uccisione dei miei colleghi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e con le stragi di Firenze, Milano e Roma.

 Si chiude definitivamente quella stagione di cui lui era l’ultimo esponente. Non dobbiamo pensare che abbiamo sconfitto la mafia però, tale fatto, rappresenta la conferma che la mafia è in grande difficoltà. L’azione dello Stato deve continuare e cercare finalmente di sconfiggere questo fenomeno.”

 A distanza di trent’anni dall’arresto di Toto Riina che significato assume oggi l’arresto di Matteo Messina Denaro?

“E’ la conferma della chiusura della stagione più tragica della lunga storia di Cosa Nostra. Quella dell’uccisione di molti servitori dello Stato che avevano il solo torto di aver fatto il proprio dovere. Addirittura, nelle stragi del ’93, sono morte persone che non c’entravano niente con la mafia. Quindi, si conclude una stagione drammatica e sanguinaria, la peggiore che si possa immaginare. La cattura di Messina Denaro la chiude emblematicamente, perché essa si era chiusa precedentemente. Tale cattura è la conferma finale di questo”.

 Che messaggio ideale si sente di lanciare a tutti coloro che hanno combattuto contro la mafia in questi trent’anni? Cosa direbbe oggi a Falcone e Borsellino?

“Ho saputo della notizia dell’arresto da un mio amico che l’ha appresa mentre ero ancora a letto e mi ha telefonato. Le prime persone a cui ho pensato in quel momento sono state proprio Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che hanno dato la vita, ma sono stati i protagonisti di una grande svolta nella risposta giudiziaria dello Stato al tremendo fenomeno di Cosa Nostra. L’entusiasmo che mi ha provocato la notizia di questa cattura è stato un po’ offuscato dalla tristezza nel pensiero a questi due grandi personaggi della storia del nostro Paese.”

Cosa vorrebbe dire in riguardo alla lotta alla mafia ai giovani che si apprestano ad entrare nell’età adulta?

“Indegnamente sono vicepresidente della Fondazione Falcone e, come impegno fondamentale, abbiamo l’obiettivo di andare in tutte le scuole e università d’Italia per parlare con i giovani e seminare la pianta della legalità. Penso che, questa notizia, per i giovani, rappresenti una conferma ulteriore di come, nella vita, si debba seguire un percorso di rispetto delle regole.

 Non dobbiamo pensare soltanto alla criminalità organizzata, ma anche all’evasione fiscale, alla corruzione e a tutto ciò che, di illegale, si consuma nel Paese. Dobbiamo sperare che i giovani assorbano l’importanza della qualità della vita democratica di un paese, data dalla norma fondamentale rappresentata dal rispetto delle regole.

Riflettendo anche in merito al fatto che alla terribile criminalità organizzata, di tanto in tanto, vengono assestati dei colpi. Dobbiamo avere fiducia nello Stato, perché lo Stato c’è.”

Il collaboratore di Giustizia. Santino Di Matteo, padre del bimbo strangolato e sciolto nell’acido: “Mio figlio Giuseppe ha vinto con arresto di Messina Denaro”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 18 Gennaio 2023

Santino Di Matteo rifarebbe tutto, se dovesse tornare indietro tornerebbe a collaborare con la Giustizia. “È stata la scelta giusta: contribuire ad accertare la verità, per ottenere giustizia. Un impegno che ho proseguito sempre. Quando i magistrati mi chiamano nei processi, vado subito”. Anche se Cosa Nostra, per la sua collaborazione, il 23 novembre 1993 rapì il figlio Giuseppe Di Matteo, lo sequestrò per 779 giorni di prigionia, prima di ucciderlo. Aveva solo 14 anni. Uno dei crimini per il quale Matteo Messina Denaro, capo della Mafia dopo l’arresto di Totò Riina, arrestato lunedì scorso presso la clinica La Maddalena di Palermo, fu condannato all’ergastolo.

“Quando ho saputo dell’arresto di Messina Denaro, il primo pensiero è stato per mio figlio Giuseppe. Tutti quelli che hanno avuto a che fare con il sequestro e la sua morte sono finiti in carcere. Mancava solo lui”, ha detto Mario Santo Di Matteo detto Santino in un’intervista a Repubblica. Era accusato di dieci omicidi mafiosi quando venne arrestato il 4 giugno 1993. Da pentito raccontò anche dettagli della strage di Capaci, del 23 maggio 1992, in cui vennero uccisi il giudice Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e la sua scorta. Il rapimento del figlio Giuseppe fu una ritorsione, per spingere il padre a ritrattare il suo racconto.

Il collaboratore Gaspare Spatuzza raccontò che i rapinatori si avvicinarono al ragazzino fingendosi agenti dell’antimafia. Il 12enne fu spostato in diversi nascondigli negli oltre due anni di sequestro, anche in qualche covo di Messina Denaro, già latitante, secondo alcuni testimoni. Santino non ritrattò e Giuseppe Di Matteo fu ucciso dopo la condanna all’ergastolo di Giovanni Brusca: l’11 gennaio 1996 fu strangolato e il suo corpo sciolto in un fusto di acido. Gli esecutori materiali furono Vincenzo Chiodo, Giuseppe Monticciolo e Vincenzo Brusca. Decine le condanne. Dopo l’omicidio Santino Di Matteo fu espulso dal programma di protezione perché era tornato in Sicilia senza dirlo alle autorità.

“Ero tornato solo per cercare mio figlio. Ho sempre chiesto di rientrare nel programma. La giustizia amministrativa ha anche detto che ho diritto a una protezione, perché sono a rischio”. Racconta che oggi lavora in una comunità di accoglienza gestita da un sacerdote che si prende cura di tossicodipendenti, disoccupati, senzatetto e immigrati. Non è per nulla colpito dall’arresto a Palermo. “Da sempre sono convinto che si nascondesse in Sicilia, dove ha goduto di tante protezioni e complicità, vecchie e nuove. Probabilmente, in tutto questo tempo ha messo avanti prestanome e persone sconosciute, mentre lui è rimasto in disparte. Almeno fino a quando ha potuto. Poi ha avuto necessità di cure specialistiche”.

La cattura “è un segnale bellissimo per lo Stato e per tutte le persone oneste. Ha vinto Giuseppe, ma guai ad abbassare la guardia nella lotta alla mafia”. E “magari parlasse, lui ne conosce tanti di segreti. E sono la vera forza dell’organizzazione mafiosa, che non smette di trasformarsi”. Dal collaboratore di Giustizia anche una sorta di consiglio ai mafiosi: “Questa strada vi porterà alla rovina, non l’avete ancora capito?”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

L'auto piena di tritolo fuori al teatro dopo lo Show. Matteo Messina Denaro e l’attentato a Maurizio Costanzo e Maria De Filippi: “Alla fine i peccati si pagano”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Il curriculum criminale di Matteo Messina Denaro è molto lungo: stragi, omicidi, rapimenti, estorsioni e anche attentati. Crimini che attraversano oltre 40 anni di storia d’Italia, dalla strage di Capaci a via d’Amelio, fino al rapimento e omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino, collaboratore di giustizia ed ex mafioso. La strategia della mafia degli anni 80 e 90 era quella di eliminare fisicamente chiunque risultasse scomodo per qualche motivo. E tra questi c’era anche Maurizio Costanzo, il conduttore televisivo che spesso in quegli anni dal suo Show si schierò apertamente contro la mafia. E per questo per Messina Denaro e i suoi andava eliminato.

A raccontare questo episodio è stato lo stesso Maurizio Costanzo anni dopo. “Mi risulta dai magistrati di Firenze che Matteo Messina Denaro sia venuto al Teatro Parioli durante il ‘Maurizio Costanzo Show’ per vedere se si poteva fare lì l’attentato, sarebbe stata una strage. Hanno deciso di farlo quando uscivo dal teatro”, ha raccontato Costanzo a “Un giorno da pecora”. Era il 1992 quando Messina Denaro fece parte di un gruppo di fuoco inviato a Roma da Riina per pedinare e uccidere Costanzo, Giovanni Falcone e il Ministro Claudio Martelli. L’attentato a Costanzo si sarebbe dovuto svolgere fuori al teatro Parioli a Roma, dopo che il conduttore televisivo aveva registrato una puntata del suo programma.

Costanzo insieme a Michele Santoro in quegli anni si esponeva spesso contro la mafia. Secondo quanto ricostruito dal Messaggero, realizzò anche una maratona televisiva a reti unificate Rai-Fininvest dedicata alla lotta alle mafie. Durante la trasmissione fu anche bruciata in diretta una maglietta con su scritto “Mafia made in Italy. Costanzo non teneva nascosta nemmeno la sua amicizia con il giudice Falcone e così la mafia lo prese di mira. Così un gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani tra cui Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Lorenzo Tinnirello, Cristofaro Cannella e Francesco Geraci si spostò su Roma per mettere in pratica gli ordini.

Il gruppo per più giorni pedinò Costanzo. Poi quando tutto era pronto il gruppo fu richiamato da Riina in Sicilia e saltò. Ma fu solo rimandato. Nel maggio 1993 un altro gruppo di fuoco composto da mafiosi di Brancaccio e Corso dei Mille in cui però non c’era più Messina Denaro arrivò a Roma per mettere in pratica il piano. Secondo quanto ricostruito da Il Messaggero, del gruppo facevano parte Cristofaro Cannella, Cosimo Lo Nigro, Salvatore Benigno, Giuseppe Barranca e Francesco Giuliano. Venne rubata una Fiat Punto che fu riempita di tritolo e parcheggiata in via Fauro. Secondo quanto ricostruito successivamente dai magistrati, iIl primo giorno l’attentato fallì perché il congengo non esplose per un difetto. Il secondo giorno invece la bomba esplose ma Salvatore Benigno schiacciò il pulsante in ritardo perché con fuse l’auto su cui avrebbe viaggiato Costanzo. Così il presentatore e la moglie Maria de Filippi rimasero illesi, furono ferite invece due guardie del corpo. La paura fu tanta: nell’esplosione crollò il muro di una scuola, sei auto furono distrutte e sessanta danneggiate.

Nel 2018, Maria De Filippi raccontò, in un’intervista da Fabio Fazio: “Ho avuto paura per almeno due anni. Ero convinta di aver visto la persona che ha azionato la bomba. Vedo questo ragazzo che mi fissa fuori dai Parioli e io fisso lui, magari era un ragazzo qualsiasi”. De Filippi ha aggiunto “Ho promesso a mio padre che non sarei più salita in macchina con Maurizio e così ho fatto. Non lo faccio. Non posso tradire una promessa fatta a mio padre”. A sua volta la conduttrice si fece promettere da Costanzo che non avrebbe più parlato di mafia, invano. “Ho chiesto a Maurizio di smettere di occuparsi di mafia e così ha fatto, per un po’ di tempo non l’ha fatto. Poi se ne è occupato ancora. Fossi stato in lui, avrei smesso, non so come abbia potuto riparlare di mafia ancora”.

Messina Denaro, non sarebbe risultato tra i presenti quel giorno ma fu considerato comunque tra i mandanti di quell’attentato. “Una gran bella notizia che si aspettava da 30 anni, alla fine della vita i peccati si pagano. Un evviva ai carabinieri del Ros, una bella soddisfazione”, ha detto Maurizio Costanzo, intervistato da LaPresse nel commentare l’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro dopo 30 anni di ricerche.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2023.

«Ho letto che è malato. Mi auguro che possa vivere il più a lungo possibile per avere una lunga sofferenza, la stessa che ha imposto a mio fratello, un ragazzino innocente». A dirlo all'Adnkronos è Nicola Di Matteo, fratello del piccolo Giuseppe, il bambino strangolato e poi sciolto nell'acido, su ordine, tra gli altri, di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San Giuseppe Jato, e Matteo Messina Denaro, nel giorno dell'arresto da parte dei carabinieri del Ros in una clinica di Palermo dell'ex primula rossa della mafia.

(...) Per il fratello del piccolo Giuseppe non è possibile il perdono. «E' una cosa impensabile davanti alle atrocità che hanno imposto a Giuseppe. Non si può perdonare una cosa del genere. Giuseppe era un ragazzino, impensabile il perdono. Adesso deve soffrire come mio fratello», conclude non nascondendo la sua «rabbia».

Estratto dell'articolo di Liana Milella per repubblica.it il 16 gennaio 2023.

"Una grande emozione e un grande successo dello Stato". Dice così Piero Grasso, ex pm a Palermo, ex procuratore della stessa città, e poi procuratore nazionale antimafia, prima di diventare senatore e presidente dello stesso Senato. 

 Preso Matteo Messina Denaro, mi dica subito cos'ha provato sul piano personale?

"Una grande emozione, paragonabile a quella del momento in cui ho ricevuto la telefonata che cominciava con un "preso" e mi annunciava l'arresto di Bernardo Provenzano. Eravamo nel 2006 ed ero stato nominato da poco procuratore nazionale antimafia. Andai subito a Palermo, negli uffici della squadra mobile, per capire se aveva intenzione di collaborare". 

 (...)

Lei ha interrogato moltissimi pentiti. Come lo descrivevano?

"Dalle loro testimonianze veniva fuori una personalità assolutamente superiore alla media. Era stato lui a proporre i beni artistici come obiettivo da colpire per le stragi del 1993, perché era più acculturato rispetto a Riina e ad altri. Aveva una formazione superiore rispetto a quelle degli altri boss. Con Bagarella  e Brusca è stato tra gli ideatori delle stragi di Roma, Firenze e Milano, dopo essere stato tra i protagonisti di quelle del 1992. Faceva parte del commando, con Sinacori e Graviano, che proprio nel febbraio di quell'anno doveva uccidere Falcone a Roma. Poi furono chiamati da Riina che disse che aveva trovato di meglio...".

 (...)

La clinica in cui è stato arrestato è molto nota a Palermo.

"Certo che lo è, ma se uno si presenta con un nome falso e con l'aspetto che abbiamo visto non è facile  scoprire chi si ha di fronte. Ma va valutata l'ipotesi - e si saprà dalle indagini - se Messina Denaro abbia avuto dei favoreggiatori dentro la clinica e anche dei traditori, qualcuno che lo ha venduto". 

La piazza anti mafia.

Il cretto generazionale. La Sicilia ha bisogno di una nuova e diversa antimafia che sia manifesto per lo sviluppo. Giacomo Di Girolamo su L’Inkiesta il 10 Febbraio 2023

A quasi un mese dall’arresto di Messina Denaro, stiamo perdendo l’occasione di far tornare lo Stato, troppo a lungo soppiantato da Cosa Nostra

Tra qualche giorno sarà passato un mese dalla cattura del boss latitante Matteo Messina Denaro. Notizia scalcia notizia, e tra Sanremo, il terremoto in Siria e Turchia, il caso Cospito, il clamore e l’attenzione sull’arresto del capomafia più ricercato al mondo sta lentamente scemando. È giusto che sia così. È come una marea che si ritira, dopo una mareggiata travolgente.

Quello che resta, è il racconto, nei media nazionali, di un boss donnaiolo e dalla vita tranquilla, pure troppo, che amava il lusso e le cene eleganti (non è il primo, né sarà l’ultimo). Intorno a lui una comunità, quella del Belice, e più in generale della provincia di Trapani, che è indifferente, se non omertosa, o addirittura complice. Lo scrive pure la Procura di Palermo, nella richiesta di arresto per Alfonso Tumbarello, il medico che curava in gran segreto il boss.

Per gli investigatori è stato il clima di profonda omertà a consentire a Matteo Messina Denaro di condurre agevolmente la propria vita per trent’anni di latitanza, indisturbato sul suo territorio: «Tutte le indagini ancora in pienissimo e frenetico svolgimento sulla ricostruzione delle fasi che hanno preceduto la cattura di Messina Denaro hanno offerto uno spaccato dell’assordante silenzio dell’intera comunità di Campobello di Mazara che, evidentemente con diversi livelli di compiacenza, paura, o addirittura complicità, ha consentito impunemente al pericoloso stragista ricercato in tutto il mondo di affrontare almeno negli ultimi anni in totale libertà».

Insomma, si sta andando verso la combinazione che in tanti aspettano. Il lieto fine che tranquillizza e consola: la mafia come un problema locale, e sullo sfondo questa Sicilia arretrata e irredimibile, come d’altronde diceva Sciascia. E se lo scriveva lui, e se lo dice la Procura, e se lo ripete la tv, dove imperversano le interviste ai vecchietti con la coppola del «niente saccio e niente vitti».

In molti però non sanno, o dimenticano, che questo paesaggio umano, in realtà è stato già descritto, anzi codificato. Il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, infatti, è stato introdotto nel codice penale con il famoso articolo 416 bis nel 1982, e definisce proprio la mafia come una forma di criminalità che nasce dalla «condizione di assoggettamento e di omertà». Quindi di cosa ci meravigliamo? Vorremmo la mafia senza il contesto?

C’è poi un’altra immagine, che rafforza questo quadro. Quanti erano i giovani in piazza a Castelvetrano a esultare dopo l’arresto del boss? Dieci? Venti? E a Campobello? Erano più i giornalisti. Dov’è la gente perbene? Dove sono i giovani, perché non scendono in piazza contro la mafia? Non scendono in piazza i giovani a Castelvetrano come a Trapani o nelle altre città della Sicilia occidentale, semplicemente per un motivo. Non ci sono.

Non ci sono, i giovani. Non ci sono le mie sorelle, i miei compagni di scuola. Sono quasi tutti andati via. Questa è terra di emigrazione, fortissima. Sono duecentoventimila gli under-35 siciliani emigrati negli ultimi dieci anni, secondo gli ultimi dati Istat. È come se fosse andata via l’intera città di Messina.

E chi resta? Chi resta vive nel disorientamento. Cosa Nostra ha svolto in questa terra, negli anni, una funzione sussidiaria rispetto allo Stato. In una terra senza lavoro e senza ricchezza, ha creato un welfare distorto, per alimentare consenso, con lavoro sottopagato e soldi sporchi, in una sorta di economia parallela.

La vicenda più emblematica è quella del Gruppo 6 Gdo di Castelvetrano, catena di supermercati e centro per la grande distribuzione. Era la più grande azienda del settore in Sicilia. Apparteneva a Giuseppe Grigoli, che grazie a Messina Denaro ha costruito un impero partendo da un negozietto in cui vendeva detersivi. Arriva lo Stato nel 2007. Condanna per mafia Grigoli, sequestra tutto. Arrivano gli amministratori giudiziari, poi la confisca. In poco tempo l’azienda, che gestiva anche ventisei supermercati, fallisce. Trecento persone (senza considerare l’indotto, ad esempio le aziende fornitrici) si trovano senza lavoro. «La mafia ci dava lavoro, lo Stato ce lo ha tolto», era il titolo dello striscione con il quale aprivano i loro cortei di protesta. Il mega centro direzionale, abbandonato e vandalizzato, è un monumento al fallimento dell’antimafia.

Perché queste persone, abbandonate dallo Stato, oggi dovrebbero scendere in piazza per festeggiare la cattura di Matteo Messina Denaro?

L’omertà non è solo di chi ha paura o di chi è complice. L’omertà è anche di chi si sente abbandonato dallo Stato. I genitori non scendono in piazza, perché la loro cultura è intrisa di “mafiosità”, i figli non scendono in piazza perché sono andati via.

La cattura del boss è qualcosa di epocale. Ed è un’occasione che non si ripete. Sconfitta la mafia, affinché tutto ciò non rinasca, è necessario che torni lo Stato. Una comunità povera e marginalizzata è l’humus ideale per la criminalità.

Oggi più che mai, insomma, un manifesto per una nuova antimafia deve essere un manifesto per lo sviluppo, vero e serio, della Sicilia. Non ci sono più alibi. A cominciare dai trasporti. Il governo Meloni insiste per la realizzazione del Ponte sullo Stretto. Ma il vero problema non è collegare la Sicilia al continente, ma riuscire a collegare la Sicilia con sé stessa. Per andare da Marsala a Siracusa, da una parte all’altra dell’Isola, ci vogliono tredici ore. Sulla carta, perché poi tra frane, mezzi guasti, ritardi a catena sulla linea sono molti di più.

Ecco, la nuova lotta alla mafia potrebbe iniziare, adesso, da qui: date ai siciliani treni non veloci, per carità, ma magari normali, strade che non saltano alla prima pioggia, infrastrutture degne di questo nome. Niente più alibi. Non vogliamo essere nelle mani né di Dio né di Messina Denaro. Vogliamo lo Stato.

Ma questo è il posto dove lo Stato, ai sopravvissuti del terremoto del Belice del 1968, non offriva una casa e un lavoro, ma biglietti omaggio del treno per emigrare. Una sorta di Spoon River degli emigrati siciliani è quella composta da un grande scrittore, Stefano Vilardo, che racconta le esistenze precarie di un popolo costretto a cercare la vita altrove. “Tutti dicono Germania Germania” è il titolo della raccolta. Ecco, se dovessimo provare a invertire questa narrazione, il titolo potrebbe essere: “Tutti chiedono lo Stato lo Stato”.

A proposito di terremoto. Nel mio ultimo libro, “Matteo va alla guerra”, in cui ricostruisco l’ascesa criminale di Matteo Messina Denaro e l’organizzazione delle stragi del 1992 e 1993, ho scelto di mettere in copertina un’immagine del Cretto di Gibellina. È una magnifica opera d’arte, la più grande opera di land art d’Europa, visibile pure dal satellite, realizzata dal genio di Alberto Burri.

Invitato a Gibellina, rasa al suolo dopo il sisma del 1968, Burri decise che avrebbe ricoperto il paese distrutto e abbandonato, da una colata di cemento, che ne avrebbe replicato la topografia. Ne è venuta fuori un’opera commovente, monumentale, un sacrario. Come tutti capolavori, ognuno gli dà il significato che vuole, e a me ha ricordato sempre l’immagine del labirinto. Ecco perché l’ho messo in copertina: mi è sembrata l’immagine ideale per rappresentare il labirinto in cui ci siamo persi nella nostra caccia al grande fuggitivo, Messina Denaro.

Adesso Messina Denaro è stato catturato. Con lui finisce la stagione dei Corleonesi, quella di Cosa Nostra e una certa idea di mafia. Al posto del labirinto c’è un deserto. La cosa potrebbe consolarci, certo. Ma fino a un certo punto.

L’immagine del labirinto è centrale nella poetica di Jorge Luis Borges. È un’allegoria della complessità del mondo. Il labirinto per lo scrittore argentino è «un edificio costruito per confondere gli uomini».

Una volta gli chiesero: qual è il labirinto più grande del mondo? Rispose Borges: il deserto.

Quel tic infantile di chi ripete “ma allora stai con la mafia?” Le intercettazioni vanno manipolate con cura. Spesso ci sentiamo giustizieri della notte, finché nel rancore della ronda punitiva ci finisce un parente. Chiara Lalli su Il Dubbio il 25 gennaio 2023.

C’è una legge universale che stabilisce che data la sciocchezza X nel giro di qualche ora seguirà una sciocchezza Y che equivale a una qualche moltiplicazione di X. La lievitazione dipende da vari fattori: l’umore, il numero di obiezioni ricevute, la capacità di argomentare.

Se poi la sciocchezza originaria riguarda una questione che divide bene i buoni dai cattivi, allora l’incastro mortale è perfetto (lo so che ormai anche “non bevo caffè” causa posizionamenti e liste di imperdonabili mostri da far precipitare giù dalle scale, ma la giustizia e le code di paglia funzionano ancora meglio dei bisticci agroalimentari).

Veniamo all’ultimo esempio di moltiplicazione delle X. Pierfrancesco Majorino il 20 gennaio così commenta la relazione del ministro della giustizia Carlo Nordio: “La guerra contro le # intercettazioni condotta dal ministro # Nordio è assolutamente preoccupante”.

Non mi soffermerò sulla scelta lessicale, sugli hashtag né sulla ingenerosa sintesi di quanto avrebbe detto Nordio, ma passerò precipitevolmente alla risposta di Majorino a uno che lo rimprovera di populismo elettorale.

“Ma quale populismo. E quali voti. Qua il tema è capire se vogliamo sostenere l’azione della magistratura contro le mafie e la corruzione o meno” (il corsivo è mio).

Ora, di Majorino potremmo indubbiamente disinteressarci, ma quello che scrive è purtroppo così comune che rischiamo di fare come Massimo Troisi con la domanda “sei emigrante?”. Per esasperazione, per noia, per pigrizia. La fallacia di rispondere a dubbi e a critiche di metodo con l’adolescenziale “ah, ma quindi sei a favore della mafia?!” è esasperante forse solo quanto la fallacia di domandare con fare passivo aggressivo “se non hai niente da nascondere di cosa ti preoccupi?”. Insomma, la difesa d’ufficio va dal grande fratello delle intercettazioni al razionale e difendibilissimo “o con me, o contro di me”, quindi per i cattivi. In una discussione con queste premesse non può che andare tutto malissimo (e purtroppo non solo in una discussione).

Le intercettazioni, come ogni strumento, vanno manipolate con molta cura. E le indicazioni per farlo ce le abbiamo anche – cioè non ci servono altre leggi, ci serve ragionare e contenere la bava e la furia moralizzatrice – ma spesso in nome della Giustizia e della Verità ci sentiamo principini machiavellici e giustizieri della notte, finché nel rancore della ronda punitiva ci finisce un parente o un amico.

Tutto quello che inizia con una maiuscola e non è una città o un nome proprio è un po’ preoccupante e la cautela doverosa riguarda la pubblicazione, la correttezza delle trascrizioni, la comprensione, la loro rilevanza penale. Perché è ripugnante e ridicolo dover aspettare di finirci in mezzo per rendersi conto che il walk of shame è una primitiva forma di regolamento dei conti, che i verbali sono spesso inesatti e parziali, che si perdono i toni e i significati reali sacrificati in nome di un letteralismo incolpevole ma mortale (questo quando intercettato e trascrittore parlano la stessa lingua, in caso di lingue diverse e di traduzione aggiungiamo questa ulteriore insidia), che possiamo essere persone orribili o avere un senso dell’umorismo nerissimo e non per questo meritare la galera (né la gogna che vi fa sentire bravissimi e buonissimi).

È ripugnante e ridicolo pensare che questo voglia dire essere allegri sostenitori di mafie e corruttori o mafiosi e corruttori. Ed è ripugnante e soprattutto ridicolo questa difesa acritica “dell’azione della magistratura”. Perché dipende, ovviamente. E perché i magistrati, anche in buonafede, sbagliano e si ostinano e perseguono poveri cristi che non c’entrano nulla.

E perché certe regole non ci sono per ostacolare voi buoni, che non avete niente da nascondere e che vivreste in una casa fatta di cristallo perché la vostra anima è pura, ma esistono per ridurre le ingiustizie e gli errori. Che ci saranno sempre ma che non dovrebbero essere giustificati in nome delle vostre buone intenzioni. Perché le buone intenzioni lasciano cadaveri lungo la strada, e su quei cadaveri ci sono i segni di molte coltellate ma non c’è nemmeno la giustificazione di aver vendicato l’assassinio di Daisy Armstrong e non siamo in un romanzo di Agatha Christie.

Estratto da open.online il 25 Gennaio 2023.

È un appello accorato quello lanciato dalla responsabile legale della clinica La Maddalena di Palermo, Alessia Randazzo, diretto all’ex paziente della struttura, Andrea Bonafede, alias Matteo Messina Denaro, che per circa due anni è stato curato dai medici palermitani per un tumore.

 Sui social, Randazzo si rivolge al boss mafioso chiamandolo con il nome che aveva usato quando frequentava l’ospedale oncologico: «Al signor Andrea Bonafede avrei da dire una sola cose: se facendoti prestare una vita che non meriti, nel cammino della malattia ti fossi specchiato in ognuno dei tuoi errori, adesso parla». Secondo Randazzo, come già aveva anticipato un oncologo della stessa struttura nelle ore successive all’arresto del boss, a Messina Denaro resterebbe poco tempo per le sue condizioni di salute.

Secondo l’avvocata, Messina Denaro farebbe bene a farsi una sorta di esame di coscienza, alla luce anche dei suoi atroci crimini, come quello al 12enne Giuseppe Di Matteo, strangolato e poi sciolto nell’acido per ordine del boss dopo due anni di prigionia: «Fallo ora – scrive Randazzo – che sai che non manca molto al momento in cui quel bambino e tutti gli altri te li ritroverai davanti».

 Contro la clinica «giacimenti di cattiveria liquida»

A chi invece ha sollevato dubbi e sospetti sul personale della clinica e su quanto fossero davvero ignari che quel paziente altri non fosse se non il boss mafioso, l’avvocata Randazzo risponde: «La volgarità, l’insinuazione, l’illazione sono state le scorciatoie più imboccate in queste ore, quando invece le responsabilità e le risposte sono scritte tutte nella cartella clinica della Repubblica italiana. Per la quale, mi pare evidente, non c’è schema di terapia che possa condurre a guarigione». I responsabili della clinica finora hanno collaborato con i carabinieri del Ros, consegnando la documentazione relativa al paziente Andrea Buonafede. Nessuno del personale è stato indagato, per quanto i momenti di polemica non sono mancati. 

(...)

Estratto dell'articolo di Niccolò Zancan per “la Stampa” il 20 Gennaio 2023.

Tolti i giornalisti, i poliziotti e i bambini al seguito, ci sono 24 persone. Ventiquattro adulti sotto casa della famiglia Messina Denaro a Castelvetrano per sventolare un foglio bianco come simbolo di un nuovo inizio. «Non è andata bene, mi aspettavo tutt'altra partecipazione».

 Giuseppe Cimarosa è il nipote del boss. Da dieci anni rischia la vita per essere un uomo libero. «Ho rinunciato al programma di protezione perché avrei dovuto cambiare nome e andare via da qui. Ma sono i mafiosi quelli che se ne devono andare». È stata sua l'idea di questa manifestazione, con riferimento preciso a quello che definisce «il suo idolo»: «Peppino Impastato andava a gridare sotto casa dei mafiosi, noi ci accontenteremo di andare a dire che sta iniziando una nuova era. Oggi festeggiamo la cattura di Matteo Messina Denaro».

Ha scritto su Facebook invitando i suoi concittadini. Ha telefonato al sindaco chiedendo aiuto, si trattava di fare passare l'invito anche in modo istituzionale. Appuntamento alle quattro di pomeriggio in piazza Ruggero Settimo, parte vecchia della città, nel quartiere «Badia», quello che ha dato i natali a Matteo Messina Denaro.

In via Alberto Mario c'è la casa d'infanzia, in via Luigi Cadorna quella dove ancora vive la madre con altri parenti. Ma la piazza è vuota.

Qualcosa non ha funzionato.

Il sindaco tarda a arrivare, nemmeno ha fatto chiudere la strada al passaggio delle auto come si fa per le manifestazioni importanti.

Ci sono quattro consiglieri comunali del Movimento 5 Stelle e gli amici della vita di Giuseppe Cimarosa. Fa il regista di un teatro equestre, ha un maneggio nelle campagne: le 24 persone sono quasi tutte legate a queste attività.

Probabilmente l'unica cittadina arrivata per motivi indipendenti dagli affetti personali si chiama Maria Trinceri, operatrice del patronato dell'Acli in sostegno ai disoccupati. «Sono triste. Siamo in pochi. Forse le persone sono stanche e sfiduciate, forse non credono più nella legalità. Non lo so. Ma so che questa città è morta: non c'è lavoro, i ragazzi vanno via e restano i vecchi».

 Citofonare a casa Denaro è un puro esercizio di stile. Le telecamere riprendono la strada. Non risponde mai nessuno. Da giorni, da anni.

Quelli che ci sono vanno dentro uno squarcio di sole. Sventolano fogli bianchi. Qualcuno piange di commozione. Scandiscono queste parole: «Castelvetrano è nostra, non di Cosa nostra». Le auto sfilano e tirano dritto. Nessuno si aggiunge in ritardo. «È andata male, ma torneremo. Faremo altre manifestazioni», dice Giuseppe Cimarosa. «Mi sono stancato di questa retorica sui giovani, sulle nuove generazioni, sul futuro. Se qui non cambiano gli adulti, nulla cambierà».

I mille di Garibaldi e i 24 di Castelvetrano. Storia di Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023. 

Caro Aldo, giovedì a Castelvetrano erano in ventiquattro persone alla manifestazione. Giorgio Bocca negli anni Ottanta, a seguito di un viaggio in Sicilia, scriveva un articolo dal titolo «Trattasi di predisposizione naturale» che spiegava l’attitudine all’omertà del popolo siciliano. Oggi scrivere un articolo così sarebbe inaccettabile in quanto politicamente scorretto e tendenzialmente razzista. Ma è passata una generazione ed erano solo in ventiquattro. Riccardo Bernini, Como

Caro Riccardo, Non ho mai creduto alle generalizzazioni. Ci sono siciliani dagli occhi scuri come carbone e altri dagli occhi cerulei, come gli antenati arabi e normanni da cui discendono. Allo stesso modo, ci sono piemontesi estroversi e spiritosi e altri chiusi che prendono tutto sul serio, e pure piemontesi in cui convivono entrambe le nature a seconda dell’umore e delle circostanze. Ciò premesso, qualsiasi discorso pubblico sul Sud è diventato ormai impossibile. Anche solo citare le statistiche che purtroppo vedono il nostro Sud agli ultimi posti in Europa, dall’indice di lettura a quello di occupazione, è impossibile perché subito ti additano come nordista, razzista, antimeridionale. Ed è perfettamente inutile rispondere che si critica quel che si ama, che la premessa di qualsiasi cambiamento è riconoscere che occorre un cambiamento. Oltretutto pure in Sicilia ha attecchito il discorso neoborbonico, che non è folklore ma un potentissimo diversivo: la colpa dei mali del Sud è del Nord; quindi il Sud non ci può fare nulla. Lei mi dirà: un siciliano neoborbonico è un ossimoro, come ghiaccio bollente o deserto innevato; i siciliani furono sempre ribelli ai Borbone, la prima città italiana a insorgere nel fatidico 1848 fu Messina, domata a cannonate, non a caso Garibaldi sbarcò a Marsala e con mille volontari fece crollare un Regno plurisecolare; ma la razionalità non può nulla contro il sentimento. Mettiamola così: la Sicilia è forse il posto più bello d’Italia, quindi del mondo; ha templi greci che neanche in Grecia, mosaici bizantini che neanche a Bisanzio, mari caldi da Pasqua a Natale; puntando su lavoro e legalità, ha un potenziale di sviluppo immenso. I 24 di Castelvetrano sono semi che fioriranno. Dipende solo da loro, quindi da noi; perché in Sicilia nessuno, arabo o normanno che sia, è un forestiero

Se la piazza anti mafia è già stufa. Sconcertante e coerente. Un'affluenza che è una fotografia: impietosa e veritiera.. Valeria Braghieri il 21 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Quando don Giuseppe Puglisi, chiede ai suoi alunni «Allora, vediamo cosa ci dice l'ottavo comandamento», uno dei bambini si alza in piedi e con la massima certezza risponde: «Non testimoniare». È un espediente per raccontare. La scena immaginata da Roberto Faenza, nel suo film dall'emblematico titolo Alla luce del sole, sulla vita del parroco assassinato da Cosa Nostra a Palermo, nel quartiere Brancaccio, il giorno del suo 56esimo compleanno, il 15 settembre 1993. Ma sotto certi soli non cambia mai niente.

Il boss Matteo Messina Denaro è stato arrestato dopo trent'anni di «latitanza» (se di latitanza si può tecnicamente parlare). È stato il mandante di stragi e omicidi efferati ma è stato soprattutto, assieme a Cosa Nostra tutta, l'infamante etichetta appiccicata su tutta la Sicilia e sull'Italia intera. Eppure, l'euforia per la legalità dimostrata da Campobello di Mazara è durata solo qualche ora. Giovedì alle 16, in piazza Ruggero Settimo, davanti a uno dei covi in cui il boss si è nascosto negli ultimi mesi, il nipote di Messina Denaro, Giuseppe Cimarosa, ha organizzato una manifestazione anti mafia. E la manifestazione è andata praticamente deserta: ventiquattro-persone-ventiquattro. Se si tolgono gli organizzatori, le forze dell'ordine e i giornalisti...

Sconcertante e coerente. Un'affluenza che è una fotografia: impietosa e veritiera. Qualcuno che ben conosce quella terra e ciò che drammaticamente la guasta, aveva già messo in guardia dagli applausi di Palermo. Quelli scrosciati al momento dell'arresto del boss alla clinica La Maddalena. I più inclini all'ottimismo gli entusiasta dei colpi di teatro hanno voluto vedere nella reazione dei palermitani la svolta definitiva. Hanno pensato di poterci cogliere un categorico cambio di rotta. Un gesto dal potere catartico: si riparte da qui, da quel battito di mani, la Sicilia è pronta a cambiare, è già cambiata e senza Messina Denaro la Mafia non ucciderà più, nemmeno d'estate. Ma dopo il buio, il silenzio e le persiane chiuse sulla piazza vuota di Campobello di Mazara, bisognerebbe andarli a ripensare tutti quegli applausi. Capire in che direzione si sono alzati davvero e ammettere che anche dopo certi applausi, bisognerebbe lavarsi le mani. Perché sotto certi soli, non cambia mai niente.

Il Boss di Mafia Appalti.

Il feudo del superlatitante, il trapanese, era tra i privilegiati nella spartizione degli appalti. Nel 91 Borsellino, quando era procuratore di Marsala ha ricevuto minacce ed è stato progettato un attentato, poi abortito, nei suoi confronti. Messina Denaro era anche tra gli esecutori materiali della strage di Via D’Amelio? Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 16 gennaio 2023

Con la cattura del superlatitante Matteo Messina Denaro, a distanza di 30 anni dall’arresto del boss dei boss Totò Riina, si mette definitivamente fine all’era dei corleonesi e dei suoi storici alleati nello stragismo. Dopo piste bruciate, operazioni fallite a causa del mancato coordinamento tra magistrati, con la nuova procura di Palermo guidata da Maurizio De Lucia, i Ros hanno finalmente messo a termine l’obiettivo. Ora finalmente si potrà fare chiarezza su eventi ancora non del tutto chiariti. Il Dubbio, rileggendo attentamente le intercettazioni di Totò Riina quando era al 41 bis, ha scoperto che Matteo Messina Denaro avrebbe partecipato materialmente alla strage di Via D’Amelio dove morì Paolo Borsellino e la sua scorta. Quindi non solo fu – come attestato dalla recente sentenza del tribunale di Caltanissetta – tra i mandanti delle stragi, ma con molta probabilità anche tra gli esecutori della strage del 19 luglio 1992. D’altronde è stato accertato che fu tra i partecipanti alla missione romana per uccidere Giovanni Falcone, poi abortita perché Riina decise di attuare la strage di Capaci.

Ma perché Matteo Messina Denaro era profondamente legato ai corleonesi? ll rapporto tra la mafia corleonese e quella trapanese era così fiduciario che i Messina Denaro (Francesco Messina Denaro e il figlio Matteo, il superlatitante), fin dagli anni 80, erano i custodi di buona parte dei beni di Riina e di Provenzano. Ecco perché c’era un’assidua frequentazione da parte dei Corleonesi del territorio del trapanese, eletto da Riina, e dagli altri protagonisti della stagione stragista, come luogo sicuro anche dopo le stragi del ’92.

Per “trapanesi”- si intendono i mandamenti mafiosi di Trapani, Alcamo, Mazara del Vallo e Castelvetrano. La geopolitica mafiosa dell’epoca è importante, per questo bisogna spiegarla. Totò Riina era il capo indiscusso, condivideva parte della sua fortissima influenza con Bernardo Provenzano. Quest’ultimo, a sua volta, aveva un forte potere in alcune zone della Sicilia. Riina, che aveva ovviamente piazzato le proprie pedine dappertutto, aveva la roccaforte non solo nel Palermitano, ma, appunto, anche nell’area di Trapani. I principali collaboratori escussi durante il processo dove vedeva imputato il superlatitante come tra i mandanti delle stragi, hanno delineato chiaramente che le maggiori azioni mafiose su ordine di Riina sono avvenute proprio in quel territorio. Ed è proprio quello trapanese che era, ed è, il feudo di Matteo Messina Denaro.

A testimoniare quanto, sin dagli anni '80, le "radici" dei corleonesi affondassero profondamente nell'intero territorio della provincia di Trapani basti ricordare il puntuale intervento di Riina nel settore degli appalti trapanesi e la creazione di una cassa comune per la spartizione dei relativi introiti. Sul punto, oltre a richiamarsi la puntuale ricostruzione di alcune vicende contenute nelle sentenze OMEGA e SELINUS emesse rispettivamente dalla Corte di Assise dì Trapani e dal Tribunale di Marsala, sono significative alcune dichiarazioni rese da Vincenzo Sinacori, reggente dal febbraio '92 del mandamento di Mazara del Vallo: «Con riferimento all’argomento appalti faccio presente che alla fine degli ottanta Riina aveva istituito una sorta di cassa comune nella quale confluiva la percentuale dello 0,80 % sull'ammontare degli appalti. Tale percentuale, calcolata sull’importo dell'appalto, veniva prelevata dal 2 o 3 percento di tangente applicata sull’ammontare complessivo dell’appalto».

In sostanza emerge che c’era un rapporto bilaterale: i trapanesi fanno fortuna grazie a Riina e lui stesso deve la sua fortuna ai trapanesi. Riina sapeva benissimo che i mazaresi erano tra i privilegiati nella spartizione degli appalti. C’era il famoso Mastro Ciccio, mafioso potentissimo della famiglia di Agate Mariano che si occupava in particolare della spartizione degli appalti. Mazara del Vallo, su questo, non è arrivata mai seconda e quindi faceva anche comodo ai mazaresi essere particolarmente corrivi alla politica di Riina. I beneficiari di questi grandi appalti, ovvero la politica del tavolino dove i grandi affari vengono gestiti dalle imprese del Nord, sono stati anche i mazaresi e gli uomini della provincia di Trapani.

Il tema di mafia e appalti appare centrale. Un dato appare certo. Paolo Borsellino, quando era procuratore a Marsala, stava indagando proprio su un filone degli appalti di Pantelleria. Non a caso volle avere copia del famoso dossier mafia-appalti, visionato e depositato da Giovanni Falcone prima che lasciasse la Procura di Palermo per andare a lavorare al ministero della Giustizia. Così come, non è un caso che in quel determinato periodo, quando Borsellino ottenne una quindicina di arresti solo per appalti di Pantelleria, ricevette minacce di morte. Poi si scoprì che Riina aveva organizzato un attentato contro di lui, poi rientrato a causa del rifiuto di due mafiosi mazaresi. Per questo furono fatti sparire.

Tanti sono gli elementi ancora da chiarire. A partire dalla sua presenza o meno su Via D’Amelio. Durante l’ora d’aria del 6 agosto 2013, Totò Riina indica più volte Matteo Messina Denaro come “l’uomo della luce”. Poi lo cita di nuovo su Via D’Amelio: «Minchia, cinquantasette giorni (i giorni che passano dalla strage di Capaci a quella di Via D’Amelio, ndr). Minchia, la notizia l’hanno trovata là, da dentro l’hanno sentita dire che domenica deve andare (Borsellino, ndr) da sua madre, deve venire da sua madre. Gli ho detto: allora preparati, aspettiamolo lì. A quello della luce… anche perché … sistemati, devono essere tutte le cose pronte. Tutte, tutte, logicamente si sono fatti trovare pronti. Gli ho detto: se serve mettigli qualche cento chili in più».

Matteo Messina Denaro è stato finalmente arrestato. Ha sessant’anni, ma risulta gravemente malato di tumore. Per questo, sotto falso nome, frequentava la clinica privata di Palermo per sottoporsi a cicli di chemioterapia.

La Moda.

Estratto da open.online il 26 gennaio 2023.

«Ragazzi, voglio farvi vedere gli ultimi due montoni “Matteo Messina Denaro style”, li vendo ad un superprezzo, invece di 120 euro, a 59,99. Questo è il vero Matteo Messina Denaro». Comincia così il filmato su TikTok di un commerciante di Napoli. Danilo, 26 anni, li ha pubblicati e poi cancellati. Pentendosi di quello che ha fatto. Racconta al Mattino: «Chiedo scusa ma non so nemmeno chi sia il boss. Mettendo in vendita i capi arrivavano commenti che dicevano che erano uguali ai suoi. Così ho avuto l’idea». […]

Estratto da lasicilia.it il 23 gennaio 2023.

Una follia che secondo il consigliere regionale dei Verdi in Campania Francesco Borrelli si sta diffondendo in certi ambienti nel Napoletano: uscire con un outfit che richiama quello di Matteo Messina Denaro al momento dell'arresto. La foto che il consigliere campano ha diffuso su Twitter raffigura un uomo con il montone, le scarpe griffate, il cappello griffato e i colori identici. Un fenomeno preoccupare - oltre che ripugnante - che sembra si stia diffondendo in alcune realtà del Napoletano.

"In giro con l’outfit del boss sanguinario Matteo Messina Denaro, la nuova moda che spopola dopo la cattura del latitante. Borrelli: “Fenomeno aberrante, cioè che dovrebbe essere motivo di vergogna diventa simbolo di tendenza”. Tante segnalazioni dal Napoletano" ha scritto Borrelli

Il look di Matteo Messina Denaro era diventato virale sui sociale network già dopo l'arresto con un meme della pubblicità «Denaro e Gabbana» e il vestiario del mafioso, montone, maglia, camicia, cappello, occhiali, orologio e i relativi prezzi.  […]

Estratto dell'articolo di Ottavio Cappellani per mowmag.com il 17 gennaio 2022.

Cuffia, cappotto di montone (di Cucinelli da 10mila euro) e occhiali da vista scuri, tenuto sotto braccio dai carabinieri: è l’ultima immagine del boss ricercato da 30 anni che ci riporta indietro nel tempo e ci fa capire anche quanto in fondo non siamo mai cambiati. Sì, perché quello è lo stile ben descritto nel film Yuppies e che prima dell’arresto era tornato di moda. Ecco perché oggi, forse, invece di leggere le analisi degli specialisti dell’orrore, dovremmo ricordarci l’unico che ci aveva capito meglio di tutti, il Dogui: carcere, Chivas, giubbotto di montone e sei in pole position!

(...)

 Il giubbotto chelsea imbottito di Brunello Cucinelli, del valore di 10mila euro, con il quale Matteo Messina Denaro è stato arrestato, in una clinica palermitana, in day hospital, a seicento metri dalla centrale operativa che ne ha organizzato l’arresto (e che a una mente romanzesca come la mia suggerisce un preciso “pizzino”) è l’argomento al momento più dibattuto sui social, la giacca di montone, dico. Matteo Messina Denaro vestito come Jerry Calà, come Ezio Greggio, Come Christian De Sica, come il Dogui (il nostro amato cumenda) in “Vacanze di Natale” - ma il cui stile è tornato in tendenza ben prima dell’arresto di MMD -, è un caso o rappresenta una visione del mondo nata negli anni Ottanta e della quale ancora portiamo gli strascichi dopo la pubblicazione della trattativa Stato-Mafia? Ma non vi sa tutto di Chivas e Ballantines e pennette alla vodka e massoneria durante cene di Natale tra cristalleria e panbriosche? A me, che in quegli anni, in Sicilia, sono cresciuto, sì.

  (…) Quel capo di abbigliamento e gli anni anni Ottanta: carcere, Chivas, giubbotto di montone e sei in pole position! Ecco perché, forse, l’unico che ha capito tutto della nostra Italia è stato il Dogui, il compianto Guido Nicheli.

Estratto dell’articolo di Romina Marceca per palermo.repubblica.it il 18 gennaio 2023.

[…] un addetto all'accoglienza dei pazienti oncologici della clinica "La Maddalena", vuole rimanere anonimo ma in un anno di incontri con il finto Andrea Bonafede ha conosciuto molto del padrino. Lo chiameremo Roberto.

 Cosa l'ha colpita di quel paziente?

"Di certo il suo abbigliamento. Era sempre ben curato. Al collo portava una sciarpa Yves Saint Laurent. Abbiamo iniziato a parlare e, diciamo, siamo entrati in confidenza".

Cosa le raccontava?

"Ricordo un giorno che venne in clinica con una camicia molto originale. Sul cotone erano dipinte delle angurie. Glielo dissi e lui rispose che valeva 700 euro. Rimasi stordito. Allora lui mi confidò che gli piacevano le cose belle e che poteva permettersele. Parlavamo di moda, era un suo pallino".

 Gli chiese che professione svolgeva per permettersi quel tenore di vita?

"Certo. Lui mi rispose che era un pensionato ma che se la passava bene. Io ho pensato che chissà chi era, ma certo non ho mai sospettato che mi trovavo davanti al latitante più ricercato d'Italia, Mi aggiunse che uno dei suoi negozi preferiti era "Giglio In" in viale Libertà. Era lì, mi disse, che lui andava per comprare i suoi abiti. Io non posso certo permettermelo".

[…]

Il Social.

Mitomanie da latitante. Tra le storie che si leggono su Messina Denaro ne manca una fondamentale: come usava Tinder? Guia Soncini su L’Inkiesta il 19 Gennaio 2023.

Da due giorni si parla del boss mafioso in ogni dettaglio, ma nessuno che abbia rivelato i profili delle donne con cui chattava continuamente, come si descriveva lui, in che modo falsificava i propri autoscatti per risultare più appetibile ai suoi contatti social

Ho un amico che ogni giorno mi invia profili di donne trovate su Tinder. È cominciata perché io volevo sapere qualcosa delle divorziate su Tinder per un libro che sto scrivendo, ed è diventata una costante delle nostre conversazioni: il modo in cui l’umanità sceglie di descriversi sulle app da rimorchio mi attrae come l’abisso.

Da due giorni, sento che nella mia educazione a questo secolo c’è una grave lacuna: non ho infatti un’amica che mi invii profili maschili tra i disperati che reperisce sulla vetrina di Tinder. Da due giorni leggo i giornali e mi chiedo: come si descriveva, Matteo Messina Denaro? In che modo falsificava i propri autoscatti e la propria personalità, come tutti noi, per risultare più appetibile ai suoi contatti social?

Nel Grande Indifferenziato in cui viviamo, non fa poi tanta impressione che, d’un latitante ricercatissimo, la vicina di chemio dica che chattava con le sue amiche; né che un chirurgo ci si faccia un selfie e, quando arrestano il paziente, lo mandi così tanto in giro che finisce sui giornali.

Una delle cose più difficili da capire, per il ceto medio riflessivo, è la sospensione etica in cui esiste il concetto di celebrità. Se sei famoso, sei famoso: che tu lo sia perché hai insultato qualcuno o perché hai vinto un Nobel, perché sai scrivere canzoni o perché sai sciogliere bambini nell’acido, sempre famoso sei, e la fama è valuta corrente.

«Stavo seduto vicino al latitante» vale quanto «stavo seduto vicino all’attore famoso», o forse di più: il selfie con quello che sarebbe dovuto restare nascosto è più raro, e quindi più prezioso, del selfie con la influencer che concede una foto a chiunque la fermi. Poi certo, Vongola75 non in possesso del prezioso scatto col latitante più ricercato che ci fosse, ma al massimo di quello con un calciatore, s’impettirà e farà la morale a Brocco81 che invece ha l’autoscatto col criminale – ma è un gioco delle parti.

Repubblica scrive un paio di righe tenerissime: «I vertici della clinica hanno inoltre messo a disposizione il proprio avvocato per la difesa del giovane chirurgo, che si sente diffamato dai commenti alla foto e chiede tutela legale». Cioè ti fai la foto col latitante e poi ti meravigli e t’offendi se i passanti dei social t’insolentiscono, sentendosi per una volta eticamente superiori a qualcuno. Forse nei programmi delle scuole dell’obbligo andrebbero inserite ore di comprensione minima dei mezzi di comunicazione di massa, che non sono mai stati così tanto di massa come ora.

Sublime anche l’aggettivazione di quell’intervistato, un imprecisato lavoratore della clinica, che dice: «Ricordo un giorno che venne in clinica con una camicia molto originale. Sul cotone erano dipinte delle angurie. Glielo dissi e lui rispose che valeva 700 euro. Rimasi stordito». Lo stordimento è perfetto complemento a giornali che dicono che nella casa in cui si nascondeva Messina Denaro sono stati ritrovati «abiti firmati». Sembra il finale di “Quo vado”, quando Zalone fa uno scherzo ai genitori consegnando loro una neonata nera, e poi procede a chiedere alla fidanzata di far vedere ai nonni la bambina davvero sua, quella bianca: «Prendi quella originale, quella di marca».

Le camicie costose sono un buon dettaglio per il profilo Tinder: si sarà presentato anche lì come uno che amava la moda, come riferisce si definisse il tizio che lavora in clinica, o – essendo pur sempre un sessantenne meridionale – avrà temuto che un dettaglio simile lo facesse sembrare un poco ricchione? (Discriminazione geografica, d’età, e di preferenze sessuali in una sola frase: poi dite che non ho il dono della sintesi).

Forse, più che il profilo di Messina Denaro – che probabilmente aveva scelto una foto che esaltasse la sua somiglianza con Eros Ramazzotti; che magari aveva come frase suggestiva «Un’altra come te: ma nemmeno se la invento c’è», che su noi vegliarde fa un certo effetto – bisognerebbe saper immaginare i profili delle donne con cui chattava. La testimone che riferisce il latitante messaggiasse tutte le sue amiche sostiene che sia stato attivo sulle piattaforme di messaggistica fino alla mattina dell’arresto: le signore ora si riterranno ghostate? Sì, va bene, il 41bis, ma mi deve delle spiegazioni, prima era tutt’una terra promessa, un mondo diverso, e poi è uno stronzo tale e quale agli altri, sono proprio tutti uguali.

(Nel Grande Indifferenziato in cui per il bestsellerista Harry Windsor ha la stessa gravità che sua madre sia morta e lui abbia dovuto seguire il feretro in mondovisione, e che la cognata non volesse prestare il lucidalabbra alla moglie; in cui per le polemiste dell’Instagram hanno la stessa gravità le iraniane che muoiono e i tassisti cui non funziona il pos; in questo Grande Indifferenziato qui, per la divorziata su Tinder è parimenti grave che il tizio da lei selezionato non si sia presentato all’appuntamento perché ha un’ex moglie di cui non le aveva raccontato o perché era un boss mafioso cui è andata a puttane la copertura).

Che genere di donna rimorchiava, Messina Denaro? Quelle che hanno come foto rappresentativa madre Teresa e Karol Wojtyla? Quelle che si definiscono «viaggiatrice backpacker»? Quelle che mettono come criterio di selezione il loro «no» ai passivoaggressivi? (Uno che è latitante dal 1993 avrà mai sentito l’espressione «passivoaggressivi», che mi pare abbia avuto il suo primo utilizzo popolare in “Mariti e mogli” di Woody Allen, film del 1992? È plausibile che l’ultima cosa che fa un criminale prima d’entrare in latitanza sia andare al cinema a vedere una commedia cerebrale sull’adulterio?).

Ovviamente ho passato alcune ore a cercare chi avesse fatto le camicie da uomo con le stampe di angurie: Gucci? Prada? Google è come sempre inutile, e le prime che ti mostra sono di H&M. Il che, però, apre uno scenario forse ancora più bello, forse ancora più da film di Dino Risi. E se Matteo Messina Denaro avesse spacciato per camicia da 700 euro una H&M da 14 euro e 99? Se il temibile boss colpevole di atroci delitti fosse innanzitutto un italiano, innanzitutto un mitomane?

Un uomo banale, pulito, ordinato.  

Le chat segrete di Messina Denaro che si schiera con Putin: «Sono gli Usa ad attaccarlo». Alfio Sciacca su il Corriere della Sera il 20 Febbraio 2023.

I messaggi di Messina Denaro in esclusiva a «Non è l’Arena». Il boss attacca il presidente ucraino Zelensky e l’Occidente: «Smetta di fornire armi e la guerra finirà»

Forse non a caso tra i libri trovati nel covo di Campobello di Mazara spiccavano le biografie di Putin e Hitler. Il boss Matteo Messina Denaro si racconta come una sorta di superuomo, «un grande conoscitore di persone» che «la vita l’ha calpestata». Un delirio di onnipotenza che lo porta a discettare persino di geopolitica, con giudizi durissimi, quanto sconcertanti, sull’Ucraina e il suo presidente Volodymyr Zelensky. Dipendesse da lui la guerra sarebbe già finita: basta solo arrendersi a Putin. È quanto viene fuori da altri audio della chat che aveva con una paziente conosciuta alla clinica «La Maddalena». La donna (la stessa che era stata in studio 15 giorni fa) ieri sera era in collegamento dalla Sicilia con la trasmissione Non è l’Arena di Massimo Giletti, su La7. Nel corso della puntata sono stati svelati, in esclusiva, audio e messaggi inediti proprio sulla guerra in corso.

Il boss la prende alla lontano. «Quando ci fu Chernobyl nell’86 mia mamma ospitò due ragazze ucraine di famiglie molto ricche... — racconta—. Sono state trattate su un vassoio d’argento per due anni, ma quando se ne andarono non si fecero più sentire. Mia madre cercò di contattarle ma non diedero più risposta. Quella gente è così... So che tu sei pro Ucraina, io invece sono pro civiltà, ma gli ucraini hanno torto. Il primo di tutti è questo… pseudo presidente (Zelensky, ndr). Uno zero, che sta facendo morire un sacco di civili per fare il megalomane, perché lui vorrebbe una guerra mondiale».

E attacca Europa e Stati Uniti. «Perché invece di fornire armi, gli Stati occidentali non dicono a questo... di presidente di dimettersi? Sistemare le cose e fornire aiuti umanitari... Nel momento in cui si arriverà a questo ti assicuro che io sarò il primo a fare beneficenza a queste persone». Non poteva mancare l’elogio di Putin. «Non è Putin che vuole mettere i missili in America, è il contrario: sono gli americani che vogliono mettere i missili da Putin. Ovviamente se Putin non fosse una potenza nucleare, l’America lo avrebbe già bombardato, come hanno fatto in Libia. Il discorso nasce nel 2014, hanno fomentato un colpo di stato, è salito questo... ed è da 8 anni che uccidono persone nel Donbass. In questi anni sono morti migliaia di russi, ma tu non lo sapevi perché i giornali non dicono nulla. Ora se ne accorgono perché i morti sono dall’altra parte». E per rafforzare i suoi sproloqui manda anche il link di un sito in cui Michele Santoro attacca Letta e Draghi proprio per la posizione assunta sulla guerra in Ucraina.

Un boss logorroico che, dopo tanta geopolitica, non disdegna l’autocelebrazione. «Devi tenere conto che io ho ormai un’età vetusta — dice il 16 marzo 2022 —. In più non ho vissuto nel salottino con le ciabatte. Io sono un tipo che il mondo lo ha calpestato e lo ha calpestato anche malamente, cioè l’ho vissuto, quindi ne ho di esperienza». In un altro messaggio aggiunge: «Io mangio pure pane e cipolla e anche se non mi credi sono un uomo umile. Divento arrogante e superbo solo con chi ostenta superiorità. Anche se ti sembro un po’ pazzoide, sono un conoscitore di persone. Se parlo con qualcuno so in genere cosa pensa». Infine un post sulla malattia, che non chiama mai con il suo nome: «Ancora io non riesco a capacitarmi… il mio corpo mi ha tradito, non lo sopporto. Io avevo una vita bellissima e non avevo previsto ciò, non ci avevo mai pensato… e non lo accetto, ma sono un guerriero e non lo dico per farmi coraggio o per retorica, ma perché per vinta non la do a nessuno, neanche all’intruso. Anche se la creatura è dura a morire». Chat che restituiscono l’immagine di un boss con un grande ego, che si riflette anche nei libri che leggeva e nei film che vedeva durante la latitanza. I Roshanno trovato 212 dvd. Dalla Storia del fascismo ad Apocalypse Now, L’ultimo guerriero, Alexandre, Il Gladiatore . Ma a volte non disdegnava stare sul divano guardando Sex and the City.

Da ansa.it il 19 febbraio 2023.

Durante la sua latitanza, il boss Matteo Messina Denaro, arrestato il 16 gennaio scorso, trascorreva il tempo nel suo appartamento di via Cb, a Campobello di Mazara, leggendo o guardando film.

 I carabinieri del Ros hanno trovato 212 dvd nel soggiorno dove erano appesi i poster del Padrino e del Jocker. Erano sistemati accanto al televisore: il primo, era la "Storia del fascismo - le origini 1912-1922, i primi passi di Mussolini al governo", una produzione Rai Trade.

 Poi, "Apocalypse now" di Francis Ford Coppola e "L'ultimo guerriero", interpretato da Jean Reno. A seguire, "Alexander", incentrato sulla figura di Alessandro Magno, e "Un piano perfetto", commedia francese del 2012, e ancora "Django Unchained" di Quentin Tarantino.

O ancora "L'immortale" diretto da Marco D'Amore, la storia di un camorrista. Ma anche Il pescatore di sogni o Tra le nuvole, con protagonista Ryan Bingham che è un cinico manager, definito un "tagliatore di teste", che vive perennemente in viaggio.

 Non ha una vita affettiva, vivendo tra aeroporti e alberghi, collezionando miglia del programma "frequent flyer" dell'American Airlines, sua compagnia aerea preferita. Dopo molti anni passati vivendo come un frenetico viaggiatore, Ryan non desidera affatto cambiare, ma, nel corso della storia, si innamora di Alex, un'affascinante donna indipendente, incontrata al ristorante durante un viaggio, molto simile a lui nello stile di vita.

E ancora "Robin Hood", "Attacco al potere", ma anche il "Solitario", il film che racconta di un killer mercenario che uccide per conto della malavita giapponese. Nella collezione c'è pure "La talpa", ambientato nell'ottobre 1973.

 Si era appassionato anche a "Man on fire", la storia di una guardia del corpo nella Città del Messico dei sequestri di persona. Aveva visto anche "Io vi troverò", la storia di un ex agente della Cia, grande esperto nel combattimento corpo a corpo e nell'uso delle armi, "dotato di una impressionante capacità di uccidere - è scritto nella copertina del Dvd - e anche di torturare persone a sangue freddo senza il minimo rimorso".

 Il boss vedeva pure generi più frivoli come "Sex and the City". Nella sua collezione aveva anche il film Il gladiatore.

Nella sua biblioteca, sistemati con cura, 56 libri. Per le letture, il boss era appassionato di autori come Charles Bukowsky di cui possedeva cinque libri, tra i quali Il sole bacia i belli. E Se questo è un uomo di Primo Levi e La scomparsa di Josef Mengele di Oliver Guez.

 Ma anche un libro su quello che forse considerava un suo mito: Pablo Escobar. il padrone del male. E ancora Le notti bianche di Fedor Dostoevskij e diversi libri gialli. O scrittori cult: Haruki Murakami con i due volumi de L'assassinio del commendatore. E poi Viva il latino di Nicola Gardini e il romanzo Putin - l'ultimo zar - da San Pietroburgo all'Ucraina di Nicolai Lilin.

Midcult fu. I libri da professoressa democratica nel covo di Messina Denaro, altro che Viagra. Guia Soncini su L’Inkiesta il 20 Febbraio 2023.

Un appuntamento a Campobello di Mazara, una vegliarda rimorchiata e stregata dalla biblioteca del boss, che è un latitante medioriflessivo con cui parlare delle poesie di Alda Merini durante i preliminari

Sono abbastanza vecchia da ricordare un tempo in cui credevo a quello che vedevo sui giornali; sono abbastanza vecchia da ricordare un tempo in cui il midcult era territorio delle professoresse democratiche; sono abbastanza vecchia da ricordare un tempo in cui in casa mia era possibile ritrovare un libro.

Poiché sono abbastanza vecchia da vivere nell’entropia, e in casa mia è ormai impossibile ritrovare Dwight MacDonald, per il midcult dovete fidarvi di me; io d’altra parte mi fiderò d’un giornale, cosa che non facevo da anni.

In una strepitosa pagina sul Corriere di ieri, si raccontava che a Campobello di Mazara, nella casa nella quale era stato Matteo Messina Denaro finché non l’hanno scortesemente arrestato, c’erano oggetti molto ma molto più interessanti del Viagra, con cui le cronache ci hanno annoiato subito dopo l’arresto. E quegli oggetti, chi l’avrebbe mai detto, erano libri.

C’era anche un articolo ma io, come un’analfabeta contemporanea, ho guardato quasi solo le figure. Quindici copertine, tre file da cinque di libri che raccontano un mondo, e che il Corriere mi giurava essere stati trovati in casa di Messina Denaro: le sue letture. Li fissavo e mi vedevo una scena qualche sera prima dell’arresto.

Immaginate la professoressa democratica sui social, quella che ci tiene a precisare che lei, se dopo il primo appuntamento va a casa di lui con intenzioni scoperecce, ma poi entra in casa e non vede neanche un libro, beh, in quel caso lei su le mutande e fuggire, ché si sa che essere lettori forti è indispensabile prodromo alla copula. Immaginatela, la professoressa media riflessiva, strisciare su Tinder un tizio qualunque. Siciliano di mezz’età, incredibilmente libero. Cenano, vanno a casa di lui.

Lui, discreto, va in cucina a preparare da bere, metti che lei voglia mettersi in libertà, rinfrescarsi, il bagno è in fondo al corridoio, ci sono gli asciugamani puliti. Lei si attarda davanti agli scaffali, perché domani deve poter scrivere su Facebook che lei al primo appuntamento non si concede mai, ma con lui come faceva a non sciogliersi: aveva i diari di Alda Merini.

Il momento in cui tra le copertine messe in bell’ordine dal Corriere vedo i diari di Alda Merini è forse persino migliore del momento in cui vedo George Orwell, di cui negli ultimi anni si sono un po’ troppo appropriati i liberali e insomma secondo me la prof di lettere che si è fatta dare il part time così in mezzo alla settimana può andare a vedere una mostra a Napoli, beh, lei per Orwell non si scalda poi tanto. La Merini, invece, è al di sopra d’ogni sospetto.

Certo, c’è Céline, ma è un uomo così sensibile, l’ha capito di fronte al crudo di pesce, di certo lo leggerà con spirito critico, e poi è bilanciato da “Se questo è un uomo”: sapeva di aver strisciato giusto, sapeva che l’appuntamento di stasera era quello che finalmente non l’avrebbe delusa, possono parlare di Primo Levi prima dei preliminari.

Ma guarda che sleppa – no, la professoressa democratica non dice sleppa: che fiorire, ecco – guarda che fiorire di grandi autori, Dostoevskij, Vargas Llosa, certo qui siamo un po’ al masscult (che la prof democratica non chiama masscult ma trash), con questo Fabrizio Corona, questa Ljuba Rizzoli, è evidente che ha una cognata che gli regala libri dozzinali e lui non li butta perché è un uomo generoso: è un sentimentale, Matt. Ti spiace se ti chiamo Matt, gli ha chiesto mentre ordinavano la panna cotta, lui stava cercando di usare uno stuzzicadenti di nascosto e lei ha fatto finta di non vederlo.

Solleva lo sguardo, mentre lo sente armeggiare col cavatappi di là, e ad altezza d’occhi, lì per colpirla (ma la sventurata non sa, non s’avvede del preciso disegno criminoso di quella disposizione di titoli sugli scaffali), c’è il midcult. Altro che Corona. Altro che “Le notti bianche”. Su uno scaffale che non può non vedere ci sono Rossella Postorino e André Agassi. “Le assaggiatrici”, lo ha anche assegnato ai suoi studenti, chiedendo loro riflessioni sul corpo delle donne, sul cibo, sulla Shoah. Quelli le hanno portato compiti in cui spiegavano il grave problema d’essere intolleranti ai latticini e che i bar di Campobello di Mazara non hanno mai il latte di mandorla per il cappuccino.

E Agassi, uh, Agassi: la nostra medioriflessiva è una di quelle – sono milioni, solo sul mio Facebook ne saranno comparse almeno cento – che si sono affrettate a scrivere sui social che a loro della biografia del principe Harry non importava proprio niente, ma l’avrebbero comprata solo perché l’aveva scritta un premio Pulitzer. “Open” è il libro da autogrill meglio mascherato da opera d’arte che sia mai stato pubblicato, e la donna nel corridoio di Matteo Messina Denaro, quando lui ancora non ha finito di versare il vino, si è già tolta le mutande. Durante la copula, probabilmente, lui scambierà per mugolii di piacere il di lei invocare Moehringer, reuccio del midcult nonché afrodisiaco perfettissimo per vegliarde rimorchiate da latitanti medi riflessivi.

Dal massacro del Circeo alle Br, da Dostoevskij a Baudelaire: la biblioteca del boss Matteo Messina Denaro Redazione CdG 1947 su il Corriere del Giorno il 19 Febbraio 2023.

Nella casa di Campobello di Mazara di via CB 31, tra i poster del Padrino e quelli di Joker, sono stati trovati in bella mostra libri e dvd che probabilmente hanno aiutato il boss di Cosa nostra a passare il tempo durante la sua latitanza. I carabinieri del Ros hanno inventariato 212 film e 56 libri, che vanno da grandi classici a opere più moderne

Romanzi, gialli storici, raccolte di poesie e altri generi letterari, qualche testo di filosofia; insieme alle biografie, edizioni per lo più commerciali, di quelle che si trovano anche in edicola o sugli scaffali dei supermercati, ma sintomo di interessi particolari. C’è da chiedersi se Mattia Messina Denaro leggendo le gesta di personaggi storici,  abbia cercato o trovato qualche riferimento o ispirazione con le proprie attività di vita criminale e personali. Un boss che ha trascorso metà della propria vita da “rampollo” di una nota famiglia mafiosa, diviso tra affari, svaghi e omicidi, e l’altra metà da latitante, scalando la classifica dei ricercati fino a diventare il numero uno.

Dalle perquisizioni del ROS dei Carabinieri nei vari covi scoperti, si è scoperto un lato mentale del capomafia che si è rivelato essere un appassionato di biografie. Da Putin a Hitler, come abbiamo saputo subito dopo il suo arresto grazie ai poster e quadri appesi in casa, ma anche le biografie del tennista André Agassi, del re del narcotraffico mondiale Pablo Escobar, e perfino incredibilmente quella Fabrizio Corona, oltre a nomi più o meno famosi. I libri erano conservati ordinatamente riposti nella piccola biblioteca di Matteo Messina Denaro, nella casa di Campobello di Mazara, abitata fino al giorno della sua cattura, sulle due mensole dell’ingresso-soggiorno accanto alla maxi-tv, dove guardava i film d’azione e di guerra, ma anche qualche commedia, facenti parte di una cineteca composta da oltre 200 titoli. 

Catturato a un tiro di schioppo da casa Messina Denaro ora si trova ristretto al 41bis il cosiddetto “carcere duro” con una serie di ergastoli alle spalle ed un cancro che lo lacera mentalmente giorno dopo giorno, con il problema interiore di cosa raccontare ai magistrati a caccia dei segreti che ancora il boss custodisce. Nella biblioteca del boss compaiono diversi classici della letteratura mondiale, ottocentesca e contemporanea: da Dostoevskij (Le notti bianche ) a Baudelaire (I fiori del male e altre poesie ), a Céline (Viaggio al termine della notte); da Charles Bukowski (ben quattro titoli) a Mario Vargas Llosa (La zia Julia e lo scribacchino e La città e i cani ), fino a Haruki Murakami e Isabel Allende. 

Ma la vera passione di Messina Denaro sembrano i romanzi e thriller storici, apprezzati grazie ad autori di successo come Valerio Massimo Manfredi, Marcello Simoni, Danila Comastri Montanari e il tedesco Frank Schatzing, presente con tre volumi che sfociano nella fantascienza. Fra i libri ordinati sulle mensole — in tutto oltre cinquanta — c’erano pure “Se questo è un uomo” di Primo Levi, “Patria” del basco Fernando Aramburu e “Senza un soldo a Parigi e Londra” di George Orwell; titoli sul dramma dell’Olocausto, sul terrorismo indipendentista che dilania i rapporti familiari e sul disagio sociale di un secolo fa compulsati chissà quando e in quali occasioni dall’ex ricercato, che con le amiche e i conoscenti inconsapevoli della sua vera identità sfoggiava una certa cultura e sensibilità letteraria.

Una vita romanzesca, la sua, in parte ricostruita in qualche volume già in commercio, che però Matteo Messina Denaro non aveva. Sulla sua libreria personale era presente “Pablo Escobar. Il padrone del male” indicato sulla copertina come “la vera storia del più grande narcotrafficante del mondo raccontata da suo figlio“. Ma quella del “re colombiano della droga” non è l’unica biografia criminale ad aver appassionato il boss mafioso. Andando indietro nel tempo, compare il romanzo dello scrittore francese Olivier Guez, “La scomparsa di Josef Mengele” dove si descrive la fuga in Argentina e la vita nascosta del medico sfuggito alla cattura e ai processi ritenuto l’ingegnere della “selezione” nazista della razza, che usava i deportati nei campi di concentramento tedesco come cavie. Probabilmente qualcosa che Messina Denaro immaginava per sé. 

Sulla scrivania di Messina Denaro posizionata in camera da letto, i Carabinieri del Ros hanno trovato pure “I figli venuti male” la storia di Andrea Ghira , cresciuto nella Roma bene degli anni Settanta, diventato uno dei “massacratori del Circeo”, tra militanza neofascista e vizi borghesi, narrata nel libro scritto da suo fratello Filippo Ghira. Ma anche la storia della difficile strada del successo del tennista Andre Agassi raccontata in “Open”, ma anche le memorie travagliate di una persona senza scrupoli come Fabrizio Corona si è autodefinito in “Non mi avete fatto niente“. O “L’altra verità“,” diario della drammatica esperienza in manicomio vissuta dalla poetessa Alda Merini. Sul piano della cassettiera in camera da letto, quindi a portata di mano come fosse una lettura in corso, il mafioso teneva “La ragazza blu“  pubblicato nel 2022 da Kim Michele Richardson, una scrittrice americana dall’infanzia difficile; storia di una ragazza e di una famiglia costretta a vivere appartata sui monti Appalachi, sulla costa orientale degli Stati Uniti. Fatte le dovute necessarie proporzioni, un po’ come la famiglia Messina Denaro nella profonda provincia trapanese, incalzata dalle sempre più asfissianti indagini per la cattura dell’ultimo latitante stragista, rifugiato a pochi chilometri di distanza nascosto grazie alla complicità di amici fidati ed i suoi libri che lo aiutavano a passare il tempo durante il quale si nascondeva.

Ugualmente interessante per l’ex “primula rossa” di Cosa Nostra, ma di tutt’altro genere letterario ,l’autobiografia di Ljuba Rizzoli, ex moglie di un petroliere e di un cineasta, frequentatrice di Onassis, Agnelli e tanti altri personaggi del jet set, con una vita vissuta fra “diamanti, amori, casinò e un dolore che non finisce mai”, cioè quello patito per la morte della figlia, come recita il sottotitolo del libro “Io brillo” posizionato sulla mensola sopra la tv, accanto al libro “La stanza numero 30″  in cui Ilda Boccassini racconta la propria esperienza di magistrata amica di Giovanni Falcone, che dopo la strage di Capaci volò in Sicilia per snidare i mafiosi che fecero scoppiare la bomba. Tra loro c’era anche Matteo Messina Denaro, secondo la sentenza di condanna in primo grado attualmente al vaglio dei giudici d’appello, di fronte ai quali il boss non è voluto comparire all’indomani del suo arresto. Probabilmente lo attirava la storia della magistrata nota come “Ilda la rossa”, che nelle sue indagini ha incontrato anche il capomafia di Castelvetrano. Appoggiato sulla scrivania accanto al libro su Ghira, la storia di Putin raccontata dallo scrittore di origini moldavo-siberiane Nicolai Lilin nel suo “L’ultimo zar” , autore di cui il capomafia aveva anche il romanzo, “Spy story love story” , che ha come protagonista un giovane killer su commissione al quale piace rifugiarsi nei romanzi.

Tra i film presenti nel covo c’è il capolavoro del 1979 di Francis Ford Coppola, “Apocalypse Now”. Liberamente ispirato al libro di Joseph Conrad “Cuore di tenebra”, è uno dei film di guerra più famosi di sempre grazie anche a personaggi memorabili come il tormentato capitano Benjamin Willard, interpretato da Martin Sheen, e il folle ma affascinante colonnello Kurtz impersonato da Marlon Brando.

Nella videoteca del boss c’era “Pulp fiction“, film del 1994 di Quentin Tarantino diventato ormai un classico del cinema mondiale. In foto i due protagonisti, John Travolta e Uma Thurman, nei panni di Vincent Vega e Mia Wallace. La pellicola vinse la Palma d’oro a Cannes nel suo anno di uscita

Pulp fiction non è l’unico film di Tarantino presente tra le mensole del boss di Cosa Nostra. C’era infatti anche “Bastardi senza gloria“, uscito nel 2009. Il titolo originale, “Inglourious Basterds“, è un omaggio al film del 1977 di Enzo G. Castellari “Quel maledetto treno blindato“, uscito negli Stati Uniti con il titolo “The Inglorious Bastards”. 

Probabilmente attratto dal titolo, Matteo Messina Denaro aveva nella sua collezione anche “Il potere dei soldi”, film del 2013 con Gary Oldman, Liam Hemsworth e Harrison Ford. La pellicola è un thriller tratto dal romanzo Paranoia scritto da Joseph Finder. Parla di un uomo che diventa una spia dopo essere stato sorpreso dalla società dove lavora a rubare dei fondi.

C’era anche Braveheart, pellicola che ha per protagonisti Mel Gibson, anche regista, Sophie Marceau e Brendan Gleeson. Il film racconta in forma di colossal la storia romanzata del patriota ed eroe nazionale scozzese William Wallace.

Dopo Il potere dei soldi, un altro film con protagonista Harrison Ford, ma molto più famoso. Si tratta di “Blade runner“, capolavoro diretto da Ridley Scott nel 1982. Nella foto sopra, l’attore, che interpreta il poliziotto ormai fuori servizio Rick Deckard, e Sean Young nei panni dell’androide Rachel. Redazione CdG 1947

Matteo Messina Denaro, la biblioteca del boss: dal massacro del Circeo alle Br, da Dostoevskij a Baudelaire. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2023.

Tra i 50 volumi trovati nel covo di Campobello di Mazara, dove ha trascorso gli ultimi due anni di latitanza, molte biografie e grandi classici

Il capomafia è un appassionato di biografie. Da Putin a Hitler, come abbiamo saputo subito dopo il suo arresto, ma anche di Pablo Escobar, André Agassi, Fabrizio Corona e altri nomi più o meno famosi. I libri che narrano le loro storie erano ordinatamente riposti nella piccola biblioteca di Matteo Messina Denaro, sulle due mensole dell’ingresso-soggiorno vicino alla tv, dove guardava i film (soprattutto di guerra e d’azione, ma anche qualche commedia) di una cineteca composta da oltre 200 titoli. Tutto conservato nella casa di Campobello di Mazara, abitata fino al giorno della sua cattura. Accanto alle biografie, romanzi, gialli storici, raccolte di poesie e altri generi letterari, qualche testo di filosofia; edizioni per lo più commerciali, di quelle che si trovano anche in edicola o sugli scaffali dei supermercati, ma sintomo di interessi particolari. E chissà se leggendo le gesta di personaggi storici o comunque iconici delle rispettive epoche, il boss di Cosa nostra abbia cercato o trovato qualche aggancio con le proprie peripezie, criminali e personali; un uomo che ha vissuto metà della vita da rampollo di famiglia mafiosa, diviso tra affari, svaghi e omicidi, e l’altra metà da latitante, scalando la classifica dei ricercati fino a diventare il numero uno. Catturato a un tiro di schioppo da casa. E ora chiuso al «carcere duro», con il dubbio di cosa dire ai magistrati a caccia dei segreti che ancora custodisce.

Un’esistenza da romanzo, la sua, in parte ricostruita in qualche volume già in commercio, che però Matteo Messina Denaro non aveva. Nella libreria personale c’era invece Pablo Escobar. Il padrone del male, reclamizzato in copertina come «la vera storia del più grande narcotrafficante del mondo raccontata da suo figlio». Ma quella del «re della droga» colombiano non è l’unica biografia criminale ad aver appassionato il boss di Castelvetrano. Risalendo indietro nel tempo ecco il romanzo dello scrittore francese Olivier Guez, La scomparsa di Josef Mengele, dove si descrive la fuga in Argentina e la vita nascosta del medico divenuto l’ingegnere della selezione nazista della razza, che usava come cavie i deportati nei campi di concentramento tedesco, sfuggito alla cattura e ai processi. Forse quello che immaginava Messina Denaro per sé. Sulla scrivania in camera da letto, i carabinieri del Ros hanno trovato pure I figli venuti male, storia di Andrea Ghira , uno dei «massacratori del Circeo», cresciuto nella Roma bene degli anni Settanta, tra militanza neofascista e vizi borghesi, narrata dal fratello Filippo. E poi ancora la difficile strada del successo ripercorsa dal tennista Agassi in Open, nonché le memorie travagliate di un irregolare senza scrupoli che Fabrizio Corona si è attribuito in Non mi avete fatto niente. O L’altra verità, diario della drammatica esperienza in manicomio vissuta dalla poetessa Alda Merini.

Di tutt’altro genere, ma ugualmente interessante per l’ex «primula rossa» di Cosa nostra, l’autobiografia di Ljuba Rizzoli, già moglie di un petroliere e di un cineasta, frequentatrice di Onassis, Agnelli e molto altro jet set, una vita vissuta fra «diamanti, amori, casinò e un dolore che non finisce mai», quello per la morte della figlia, come recita il sottotitolo del libro Io brillo riposto sulla mensola sopra la tv. Accanto a La stanza numero 30 in cui Ilda Boccassini racconta la propria esperienza di magistrata amica di Giovanni Falcone, che dopo la strage di Capaci volò in Sicilia per snidare i mafiosi che fecero scoppiare la bomba. Tra loro c’era pure Matteo Messina Denaro, secondo la sentenza di condanna in primo grado ora al vaglio dei giudici d’appello, di fronte ai quali il boss non è voluto comparire all’indomani del suo arresto. Tuttavia la storia di «Ilda la rossa», che nelle sue indagini ha incontrato anche il capomafia di Castelvetrano, evidentemente lo attirava. Come quella di Putin ricostruita da Nicolai Lilin nel suo L’ultimo zar, appoggiato sulla scrivania insieme al libro su Ghira. Ma dello scrittore di origini moldavo-siberiane, «l’ultimo padrino» aveva anche un romanzo, S py story love story , con protagonista un giovane killer su commissione al quale piace rifugiarsi nei romanzi.

La narrativa è la via a cui Messina Denaro s’è avvicinato a Hitler, attraverso le pagine de Le assaggiatrici, bellissima storia di una donna al servizio della sicurezza del fuhrer con cui Rosella Postorino ha vinto il premio Campiello; dalle pagine di L’ho sempre saputo, invece, ha potuto conoscere la visione del mondo dell’ex brigatista rossa Barbara Balzerani, tra i condannati per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, svelata dai dialoghi fra due donne chiuse in carcere: una realtà che l’autrice — da ergastolana tornata in libertà — conosce bene, mentre il mafioso ha cominciato a respirarla soltanto ora, al capolinea di una fuga durata trent’anni.

Nella biblioteca del boss compaiono diversi classici senza tempo della letteratura mondiale, ottocentesca e contemporanea: da Dostoevskij (Le notti bianche ) a Baudelaire (I fiori del male e altre poesie ), a Céline (Viaggio al termine della notte); da Charles Bukowski (ben quattro titoli) a Mario Vargas Llosa (La zia Julia e lo scribacchino e La città e i cani ), fino a Haruki Murakami e Isabel Allende. Ma la vera passione di Messina Denaro sembrano i romanzi e thriller storici, apprezzati grazie ad autori di successo come Valerio Massimo Manfredi, Marcello Simoni, Danila Comastri Montanari e il tedesco Frank Schatzing, presente con tre volumi che sfociano nella fantascienza. Fra i libri ordinati sulle mensole — in tutto oltre cinquanta — c’erano pure Se questo è un uomo di Primo Levi, Patria del basco Fernando Aramburu e Senza un soldo a Parigi e Londra di George Orwell; titoli sul dramma dell’Olocausto, sul terrorismo indipendentista che dilania i rapporti familiari e sul disagio sociale di un secolo fa compulsati chissà quando e in quali occasioni dall’ex ricercato, che con le amiche e i conoscenti inconsapevoli della sua vera identità sfoggiava una certa cultura e sensibilità letteraria.

Sul piano della cassettiera in camera da letto, quindi a portata di mano come fosse una lettura in corso, il mafioso teneva La ragazza blu , pubblicato lo scorso anno da Kim Michele Richardson, scrittrice americana dall’infanzia difficile; storia di una ragazza e di una famiglia costretta a vivere appartata sui monti Appalachi, sulla costa orientale degli Stati Uniti. Un po’ come — fatte le debite proporzioni — la famiglia Messina Denaro nella profonda provincia trapanese, incalzata dalle sempre più asfissianti indagini per la cattura dell’ultimo latitante stragista, rifugiato a pochi chilometri di distanza. Tra qualche complice fidato e i suoi libri.

Estratto dell’articolo di Riccardo Lo Verso per “il Messaggero” il 10 febbraio 2023

Estate 2017, le microspie sono accese e intercettano il capomafia di Partanna, paese in provincia di Trapani. « dice che era in Calabria ed è tornato», spiega ad uno dei suoi uomini più fidati. Parlano di «Matteo», quel Matteo Messina Denaro che sarà arrestato cinque anni e mezzo dopo. […] la Calabria ritorna nella latitanza di Matteo Messina Denaro. Il capomafia arrestato il 16 gennaio scorso, a Palermo, viaggiava parecchio, in Italia e all'estero, per affari e per divertimento. […]

LO SPARTIACQUE C'è un prima e un dopo, il tumore ha fatto da spartiacque fra il Messina Denaro guardingo e riservato e il Messina Denaro che doveva curarsi e a partire dal 2020 ha scelto di farlo in Sicilia, abbassando il livello di protezione. […]

Probabilmente in terra calabrese Messina Denaro vi è andato per alimentare il business degli stupefacenti che gli ha consentito di ricevere i soldi, e sono parecchi, che spendeva durante la latitanza. […] spendeva fino a 15 mila euro al mese.

 I carabinieri del Ros stanno ricostruendo le tracce della presenza in Calabria del latitante che si sarebbe spostato anche all'estero. Spagna, Tunisia, Albania e Montenegro sono state le sue tappe per ragioni diverse.

In Spagna potrebbe esserci tornato per motivi di salute. C'era già stato, a Barcellona, nel 1994 per sottoporsi a un intervento chirurgico agli occhi presso la clinica Barraquer. In Tunisia i carabinieri del Ros sono andati non troppo tempo fa convinti di poterlo acciuffare.

 Gli interessi occulti di Messina Denaro potrebbero essere stati coperti da quelli di alcuni imprenditori impegnati nel settore ittico. In Africa d'altra parte aveva concentrato una parte degli interessi Giuseppe Guttadauro, medico e boss del rione Brancaccio, tornato di recente in carcere.

In Marocco, a Larache, i Guttadauro lavorano il pesce fresco.

Giuseppe Guttadauro è fratello di Filippo, uno dei cognati del latitante (ha sposato la sorella Rosalia). Nell'azienda che i Guttadauro gestiscono in provincia di Palermo lavorava Maria Mesi, che in passato ha avuto una relazione sentimentale con il latitante. La donna, assieme al fratello, è finita di nuovo sotto inchiesta dopo l'arresto di Messina Denaro. […]

È stato inoltre accertato, in più inchieste della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, che quintali di tabacchi lavorati esteri arrivino in Sicilia dal Nordafrica nascosti tra le casse di pesce trasportate dai pescherecci che attraversano il Canale di Sicilia. Tutta da decifrare è la presenza in Albania. Nulla trapela, ma è sempre la pista degli affari della droga che viene monitorata.

 A Tirana, in Albania, è stato intercettato, prima di essere arrestato e condannato a 10 anni, Luca Bellomo, marito di Lorenza Guttadauro che è non solo la nipote del capomafia (figlia della sorella Rosalia e del marito Filippo Guttadauro), ma pure il suo avvocato. Messina Denaro avrebbe mandato come suo ambasciatore Luca Bellomo, per poi andare di persona con l'obiettivo di stringere, dicono gli investigatori, rapporti con esponenti delle istituzioni e dell'imprenditoria.

IL GIOCO Diverso è il caso del Montenegro. Non ci sono affari e misteri, ma la passione per il gioco dietro i viaggi di Messina Denaro che avrebbe puntato le sue fiches nei casinò montenegrini.[…]

(ANSA il 9 febbraio 2023) - Gli ultimi due anni li ha trascorsi a Campobello di Mazara, paese a pochi chilometri dalla sua Castelvetrano. Col nome di Andrea Bonafede e sostenendo una vita quasi normale. Ma dove è stato prima di allora Matteo Messina Denaro? E' a questo interrogativo che cercano di rispondere i magistrati che stanno mettendo insieme vecchie e nuove informazioni sul capomafia che hanno cercato per 30 anni.

E le piste dei magistrati portano in tanti luoghi: Spagna, Tunisia, Albania, Montenegro e, in Italia, in Calabria. Viaggi e lunghe permanenze che come denominatore comune hanno la droga. Un business che, come quello delle scommesse clandestine, è in grado di portare fiumi di soldi liquidi, cioè il tesoro che serviva a mantenere un latitante con un tenore di vita altissimo (si parla di 150 milioni l'anno).

(ANSA il 05 Febbraio 2023) - "Un tipo assolutamente socievole e disponibile e anche un gran simpaticone. Si era presentato come Andrea Bonafede. Raccontava di avere un'azienda che si occupava di produzione e vendita di olio d'oliva, un imprenditore agricolo. Una persona che vestiva molto bene e che curava la sua immagine, una immagine ricercata".

 Lo ha detto una paziente della clinica "La Maddalena" ,dove Matteo Messina Denaro si curava per il tumore al colon, durante la trasmissione 'Non è l'Arena' su La7. La donna, che ha visto il boss tra la metà e la fine del 2021, ha anche raccontato di essere andata in un ristorante a Mondello con Matteo Messina Denaro e spiegato che era "sereno e tranquillo".

Moreno Pisto per mowmag.com il 5 febbraio 2023.

Una notizia clamorosa sta per arrivare. Riguarda l'arresto di Matteo Messina Denaro. Noi siamo in grado di anticiparla perché ho fatto parte del team che ha partecipato ai colloqui con la persona che nell'ultimo anno da uomo libero del boss mafioso è diventata sua amica e confidente, convinta di avere a che fare con Andrea Bonafede e non con Matteo Messina Denaro. A raccontare tutto in esclusiva ci penserà Massimo Giletti domani sera su La7 nel programma Non è l’Arena.

 Io ho incontrato questa persona in un ristorante fuori Palermo, uno di quei posti che ti fa assaporare la famosa borghesia siciliana che per molti avrebbe coperto la latitanza del boss mafioso. Questa persona però Matteo Messina Denaro non l'ha coperto. L'ha conosciuto davvero, nel profondo.

 Un'amicizia nata in una stanza de La Maddalena, l'ospedale in cui è stato catturato. Per lei Matteo non era il ricercato numero 1, lo stragista responsabile della morte di Falcone, Borsellino e svariate altre persone, tra cui il piccolo Giuseppe Di Matteo sciolto nell'acido. Ma un amico premuroso, protettivo. Con Matteo Messina Denaro alias Andrea ha condiviso la sua vita per 11 mesi, tra cui chat e vocali.

Nei messaggi che abbiamo potuto ascoltare si sente indistintamente la vera voce di Matteo Messina Denaro. E dai documenti emerge un ritratto inedito, inaspettato del boss arrestato il 16 gennaio 2023. Ripercorrendo tutti i loro dialoghi ora, soltanto ora, alcuni passaggi assumono un significato inquietante. Il più tremendo è un vocale del 23 maggio 2022, anniversario dell'attentato al giudice Giovanni Falcone e alla sua scorta. In questo audio è contenuta una frase pronunciata da Matteo Messina Denaro molto violenta.

 Intanto possiamo anticipare un audio in cui si sente Matteo Messina Denaro che parla di olio.

 Oggi, su La7, nel programma di Massimo Giletti Non è l'Arena verranno svelati tutti gli altri dettagli. In contemporanea anche noi di MOW usciremo con molto altro materiale esclusivo.

Estratto di Valentina Santarpia per corriere.it il 5 febbraio 2023.

[…] La donna non sospettava: Messina Denaro le aveva raccontato che era un imprenditore agricolo di successo, aveva tre figlie, era divorziato, ricco, aveva vissuto all’estero. Ma non le dava la sensazione di volersi nascondere: frequentavano ristoranti, anche all’aperto, lui andava a prenderla con la sua automobile, la famosa Giulietta, senza l’autista, che usava solo per gli appuntamenti in clinica.

 Il livello di confidenza tra loro si intuisce proprio dalle trascrizioni di alcuni messaggi audio: «Anna, la ragazza (badante, ndr) che sta insieme a mia madre, ieri sera mi ha cercato. Ha trovato un foglio scritto di mia madre di suo pugno. Mia madre non c’è più con la testa, ma scriveva un sacco di cose. Cose sensate, a volte». «

Si rivolge a me dicendomi che quando sarà morta al suo funerale vuole la banda musicale — prosegue —. E deve suonare sempre un unico motivo: la Radetzky March. Ma chi lo dice che io muoio dopo di lei? Lei non lo sa ma io lo so. Siccome però lei vuole questa cosa, io la farò, perché le volontà delle persone si mantengono. Mia madre era così, un tipo estroso, io ho preso un po’ da lei».

 […] «Cara, nella mia vita ho avuto momenti terribili, anche se non si vede. E non parlo del tumore. E quindi so per esperienza che quando si sta male come stai male tu ora, non si deve parlare: perché so che tu non vuoi sentire. Ma pur volendo tacere, per rispettare questo tuo momento, una cosa te la voglio dire: e parlo solo perché ho già vissuto questo tuo momento. Io ho subito un intervento pesante, cinque ore e 40 minuti. Speravo fosse tutto finito, e invece mi hanno dovuto operare di nuovo. Altre sei ore e 30 minuti. Poi la chemio. Che voglio dire? Che dopo tutto questo sono qua. Ci sono ancora. Il tuo percorso è simile al mio. Dobbiamo soffrire ma ce la farai. Scusami, ma io non voglio tue risposte... quando ti sentirai io ci sarò».

E ci sono momenti in cui le confida la sua fragilità: «Mi sento abbandonato. Come un randagino con una gamba spezzata in mezzo a una pozzanghera durante questa notte di Natale. Tutto questo per me è lo squallido (come definisce l’ospedale, ndr), avrei bisogno di affetto. Ma è giusto elemosinare affetto?». Messina Denaro si apre con lei perché la sente affine: «Lo so che hai le palle, so riconoscere i miei simili, di te l’ho capito in un nanosecondo. E non ci conoscevamo ancora. Ti udivo, ti guardavo, ascoltavo, comprendevo chi eri sentendoti parlare con gli altri. Subito pensai: questo è un tipo».

 Ci sono però dei messaggi in cui sembra trapelare il boss. È il 23 maggio del 2022, giorno di commemorazione delle stragi a Palermo, e lui è in clamoroso ritardo. Le manda un audio per giustificarsi: «Io sono qua, bloccato, con le 4 gomme a terra. Cioè non nel senso di bucate, ma bloccate perché sono sull’asfalto e non mi posso muovere. Per le commemorazioni di sta minchia. Porco mondo». […]

Matteo Messina Denaro e gli audio con l'insulto a Falcone: «'Ste cerimonie mi bloccano nel traffico». Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera il 5 Febbraio 2023.

Gli audio di Messina Denaro a una donna diventata sua amica durante la chemioterapia: oggi in esclusiva da Giletti. «Due operazioni, ma sono ancora qui. In passato ho avuto momenti terribili, e non parlo del tumore»

La paura per la malattia, la solitudine. Ma anche punte di astio che fanno rabbrividire. Ecco l’immagine del boss Matteo Messina Denaro che emerge dalla chat con una donna che ha frequentato per un anno e mezzo, dal 2021. I contenuti delle conversazioni via Whatsapp verranno ascoltati questa sera in esclusiva a Non è l’Arena su La7, la trasmissione di Massimo Giletti in onda dalle 21.20. «Ho incontrato questa donna in una cittadina lungo il mare tra Trapani e Palermo — spiega Giletti — e dal suo racconto ho capito che tra di loro era nato un rapporto intenso, quello che nasce tra persone che stanno condividendo un dramma e entrano in sintonia. Parlavano di tutto: della vita, della famiglia, della malattia, e ad un certo punto hanno iniziato a vedersi, a darsi degli appuntamenti anche al di là della clinica». La donna non sospettava: Messina Denaro le aveva raccontato che era un imprenditore agricolo di successo, aveva tre figlie, era divorziato, ricco, aveva vissuto all’estero. Ma non le dava la sensazione di volersi nascondere: frequentavano ristoranti, anche all’aperto, lui andava a prenderla con la sua automobile, la famosa Giulietta, senza l’autista, che usava solo per gli appuntamenti in clinica. 

Le confidenze

Il livello di confidenza tra loro si intuisce proprio dalle trascrizioni di alcuni messaggi audio: «Anna, la ragazza (badante, ndr) che sta insieme a mia madre, ieri sera mi ha cercato. Ha trovato un foglio scritto di mia madre di suo pugno. Mia madre non c’è più con la testa, ma scriveva un sacco di cose. Cose sensate, a volte». «Si rivolge a me dicendomi che quando sarà morta al suo funerale vuole la banda musicale — prosegue —. E deve suonare sempre un unico motivo: la Radetzky March. Ma chi lo dice che io muoio dopo di lei? Lei non lo sa ma io lo so. Siccome però lei vuole questa cosa, io la farò, perché le volontà delle persone si mantengono. Mia madre era così, un tipo estroso, io ho preso un po’ da lei». 

«Io abbandonato»

 Il boss ogni tanto le manda qualche messaggio un po’ allusivo, ma per lo più le parla da vero amico: «Cara, nella mia vita ho avuto momenti terribili, anche se non si vede. E non parlo del tumore. E quindi so per esperienza che quando si sta male come stai male tu ora, non si deve parlare: perché so che tu non vuoi sentire. Ma pur volendo tacere, per rispettare questo tuo momento, una cosa te la voglio dire: e parlo solo perché ho già vissuto questo tuo momento. Io ho subito un intervento pesante, cinque ore e 40 minuti. Speravo fosse tutto finito, e invece mi hanno dovuto operare di nuovo. Altre sei ore e 30 minuti. Poi la chemio. Che voglio dire? Che dopo tutto questo sono qua. Ci sono ancora. Il tuo percorso è simile al mio. Dobbiamo soffrire ma ce la farai. Scusami, ma io non voglio tue risposte... quando ti sentirai io ci sarò». E ci sono momenti in cui le confida la sua fragilità: «Mi sento abbandonato. Come un randagino con una gamba spezzata in mezzo a una pozzanghera durante questa notte di Natale. Tutto questo per me è lo squallido (come definisce l’ospedale, ndr), avrei bisogno di affetto. Ma è giusto elemosinare affetto?». Messina Denaro si apre con lei perché la sente affine: «Lo so che hai le palle, so riconoscere i miei simili, di te l’ho capito in un nanosecondo. E non ci conoscevamo ancora. Ti udivo, ti guardavo, ascoltavo, comprendevo chi eri sentendoti parlare con gli altri. Subito pensai: questo è un tipo».

«Capaci»

Ci sono però dei messaggi in cui sembra trapelare il boss. È il 23 maggio del 2022, giorno di commemorazione delle stragi a Palermo, e lui è in clamoroso ritardo. Le manda un audio per giustificarsi: «Io sono qua, bloccato, con le 4 gomme a terra. Cioè non nel senso di bucate, ma bloccate perché sono sull’asfalto e non mi posso muovere. Per le commemorazioni di sta minchia. Porco mondo». Ascoltandolo «fa impressione — commenta Giletti —, hai la sensazione che sia un’altra persona in quel momento». Ma la donna non si insospettisce, le sembra lo sbotto di un automobilista. Non si stranisce nemmeno quando lui sparisce per un mese e poi ricompare, con un altro numero di telefono a cui è associato un altro nome, quello con cui è stato arrestato. Solo dopo l’arresto, e quando poi sarà chiamata dai carabinieri, rimetterà insieme i fili: «Era sconvolta — conclude Giletti — lei aveva conosciuto un altro uomo».

Messina Denaro: le ultime notizie sull'arresto e sulle indagini

Il terzo covo di Messina Denaro è vuoto, si cercano i soldi del boss (che pagava cene da 700 euro)

Risalvato, il fiancheggiatore di Messina Denaro: «Non rinnegherò mai la mia amicizia, ma con la latitanza non c’entro»

L’autista ha portato Messina Denaro in ospedale: «Era il primo passaggio che gli davo»

Chi è realmente Matteo Messina Denaro: un borghese piccolo piccolo tra orologi, parrucche e cyclette. Alberto Cisterna su Il Riformista l’1 Febbraio 2023

Le riprese del covo di Matteo Messina Denaro, le storie di orologi, auto, amanti, cyclette, parrucche che riempiono a piene mani le pagine dei giornali e i reportage televisivi restituiscono un’immagine deformata della mafia siciliana e del suo più importante capo. Oppure no. Ora, senza voler apparire pedanti, è che, sia pure sottovoce, non si può proprio distogliere l’impressione di trovarsi al cospetto di un piccolo borghese, di un italiano medio con i suoi soliti vizi e le sue logore litanie piccolo consumistiche.

Quelle immagini collocano, infatti, MMD in una mediocre terra di mezzo tra l’opulenza sfrontata di Escobar o del Chapo e l’apparente vita miserrima di Salvatore Riina o di Bernardo Provenzano con il suo pane e formaggio in uno sperduto casolare della campagna siciliana. Una terra di mezzo desolata, grigia, scialba senza i fasti consentiti da un illimitato potere economico e senza neppure il fascino seducente del capo che solitariamente condivide la vita grama dei propri soldati. Come tutto questo possa stare insieme alla descrizione di patrimoni miliardari, di un potentato finanziario immenso e dilagante è questione che si vedrà. C’è chi sostiene da anni che il famoso “fatturato” delle mafie sia ampiamente, ma proprio ampiamente, sovrastimato e che si tratti di elaborazioni a tavolino, prive di qualsivoglia concreto riscontro giudiziario, fatte per costruire qualche carriera e giustificare qualche apparato e qualche sovvenzione.

Ma visto che stavolta tutto sembra andato per il verso giusto si può essere sicuri che dell’impero economico di MMD si troveranno almeno le tracce, se non le prove, ben al di là di qualche scontrino del supermercato o di ricevuta del ristorante. C’è da fare i conti, anche su questo versante, con il principio di realtà che dovrebbe essere il caposaldo di ogni analisi della questione criminale in Italia; ma è evidente che agguerrite enclave remano contro in forza di una visione ampiamente ideologica del problema. Le immagini dettagliate e minuziose del rifugio di MMD distribuite dal Ros dei Carabinieri – molto probabilmente consigliate anche dalla necessità di evitare le penose dietrologie che hanno sfiancato la reputazione di quel reparto dopo quanto successo per il covo di Riina – sono state, per così dire, convalidate dal durissimo discorso del procuratore di Palermo all’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Come Brenno dopo la resa dei romani, il procuratore De Lucia ha lanciato la sua spada sulla bilancia di qualche esegeta antimafioso sibilando parole che a quel “vae victis” tanto somigliano. Parlava il magistrato a una schiera di vinti in cui ci sono non solo i mafiosi di cosa nostra, ma nelle cui fila si intravedono gli epigoni di una dietrologia negazionista che voleva avvelenare la cattura del boss. La fine di quella latitanza, infatti, ha sbriciolato l’ultimo presidio di quanti descrivono la storia della Repubblica come il dipanarsi di una vituperata collusione dello Stato con la mafia. Collusione delle Istituzioni, si badi bene, e non della politica o dell’imprenditoria che con i clan ci sono sempre andate a braccetto e che si dilettano oggi in danze i cui volteggi ignoriamo quasi del tutto.

L’operazione di trasparenza e di verità che i magistrati di Palermo e i Carabinieri stanno meticolosamente realizzando con le notizie che, giustamente, sono date alla pubblica opinione sta prosciugando l’acquitrino melmoso in cui allignavano teorie complottiste, ricostruzioni ipotetiche, suggestioni alogiche. E’ una svolta importante e, ci auguriamo tutti, decisiva a 30 anni dalla stagione del sangue terrorista. Il corpo di Matteo Messina Denaro, la sua stessa postura disvelano le radici sociali, psicologiche, antropologiche della mafiosità sopravvissuta agli ergastoli che appare vulnerabile, malata, con le pasticche di Viagra e le parrucche da donna in armadio. Insomma, nulla che non possa a lungo andare essere irriso e scrutato con una certa amara ironia dalla maggioranza degli italiani in un processo di identificazione che è la porta della commiserazione.

Inutile citare la memorabile descrizione di Adolf Eichmann e rimandare alla sua banale personalità. Da questo punto di vista, fondamentale nell’era della comunicazione, Matteo Messina Denaro – e non Salvatore Riina – ha distrutto cosa nostra traducendone visivamente la mediocrità umana nei tratti di un borghese piccolo, piccolo. Certo feroce e sanguinario, ma insomma nessun immagine da appendere alla parete di qualche altro covo, neanche fosse il mitico Padrino o il grande The Joker che il boss aveva circondato con frasi motivazionali reperite nei soliti siti, un po’ da sfigati, su internet: «C’è sempre una vita d’uscita, ma se non la trovi sfonda tutto». Nel supercarcere de L’Aquila si è raccomandato subito per buone cure oncologiche, come suo diritto e nostro dovere.

Alberto Cisterna

Estratto dell'articolo di corriere.it il 27 gennaio 2023.

La casa di un uomo qualunque: 60 metri quadrati, un divano e una tv, una stanza adibita a palestra con panca e pesi, un bagno ordinato, due peluche appesi e, alle pareti, riproduzioni di dipinti famosi, come I Girasoli di Van Gogh, le foto di Joker, il cattivo di Gotham City, Marlon Brand e Al Pacinio nel Padrino. Sopra una porta c’è un poster con quattro immagini, tra le quali quella di Gesù, e sotto massime di vita come: “quando sei vittorioso sii umile, quando hai paura sii coraggioso”.

 L’ultimo covo di Campobello di Mazara in cui viveva Matteo Messina Denaro [...]

 Una casa banale se non fosse per la valanga di pizzini e documenti che confermano la caratura del capomafia [...]

Estratto dell'articolo di Francesco Patanè per "la Repubblica" il 28 gennaio 2023.

C’è poco da sorridere e la felicità è solo di facciata se dopo la cattura scopri che il latitante più pericoloso e ricercato d’Italia viveva da normale cittadino nel paese dove sei il comandante della polizia municipale o della stazione dei carabinieri. Non fai i salti di gioia se a novembre del 2021 dai tuoi uomini è partita una segnalazione su una possibile presenza di Matteo Messina Denaro a Campobello di Mazara ed è rimasta lettera morta negli uffici dell’Arma. Chi frequenta i militari della caserma a cinquecento metri dal covo di vicolo San Vito assicura che in questi giorni c’è poco da scherzare. Si respirano frustrazione e delusione, umane più che professionali.

 […] Smaltita la sbornia di soddisfazione per la cattura, nel comune del Belìce l’ultimo dei Corleonesi comincia ad essere un “concittadino” scomodo che, a parte qualche turista in più, rischia di portare solo guai.

[…]

«Non era certo compito mio arrestare Messina Denaro — premette il comandante dei vigili urbani Giuliano Panierino —. Siamo in dieci e ci dobbiamo occupare di viabilità e di controlli amministrativi. C’era mezza Sicilia che lo cercava. Certo, per anni ho sognato di mettergli le manette, mi ero anche preparato il discorso da fargli». Un sogno, appunto, infranto da una realtà molto diversa: «Pensare che viveva qui come un normale campobellese mi scatena la rabbia. Mi sento preso in giro. Due giorni fa un mio agente era sicuro di averlo incontrato la settimana prima della cattura al supermercato. Stesso giubbotto ma con le ciabatte. Ne era sicuro. Dopo, sempre dopo la cattura».

Per i carabinieri della stazione di Campobello sono giorni di tensione. Chi li frequenta assicura che non è stata una settimana facile fra le mura della caserma […] Conoscono il territorio, hanno i loro informatori e la dritta della presenza di Messina Denaro a Torretta Granicola non era così campata in aria. «Nessuno ci ha voluto ascoltare» hanno detto agli amici.

Rabbia e frustrazione rimangono, per non aver insistito su quell’informativa, per non aver controllato quella Giulietta nera che girava per il paese. «Si faceva chiamare Francesco da queste parti, al pescivendolo si è presentato come un infermiere in pensione, originario della provincia di Palermo con una casa a Triscina e un’eredità lasciata dai parenti — dice il comandante dei vigili Giuliano Panierino — Certo, se lo avessi fermato alla guida della Giulietta forse la storia sarebbe cambiata».

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per il "Corriere della Sera" il 28 gennaio 2023.

Alla fine degli anni 90, quando si nascondeva a pochi chilometri da Palermo, usava i documenti e le generalità di Matteo Cracolici, uomo della droga dei boss di Brancaccio.

Almeno dal 2020 si faceva chiamare Andrea Bonafede, geometra con parentele importanti in Cosa nostra. Ma le identità usate dal boss Matteo Messina Denaro, arrestato 11 giorni fa in una clinica privata del capoluogo siciliano dopo 30 anni di latitanza, sarebbero decine.

 Ne sono convinti gli investigatori che, nel suo ultimo covo, a Campobello di Mazara, avrebbero trovato diverse tessere di riconoscimento con la foto del padrino e nomi e dati di altre persone realmente esistenti e in vita, in modo da non destare sospetti nel caso di controlli.

Su questo lavorano gli inquirenti che dovranno scoprire come il capomafia di Castelvetrano sia venuto in possesso dei documenti, se i reali intestatari fossero conniventi, se qualcuno abbia fornito al boss carte precompilate sulle quali l’ex latitante si sia limitato ad attaccare la sua fotografia.

Quel che emerge, però, nonostante il riserbo di carabinieri e magistrati, è che Messina Denaro, grazie ai documenti falsi, ha viaggiato e fatto affari per tanto tempo. […]

Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “la Stampa” il 28 gennaio 2023.

 «Be strong when you are weak, brave when you're scared, numble when you are victorius». Forte se ti senti debole, coraggioso quando hai paura, umile nel momento in cui vinci. La narrazione mafiosa di Matteo Messina Denaro restituisce la banalità del male.

Una casa, in superficie, come quella di chiunque, che per giorni abbiamo visto solo dalle facciate scialbe di vicolo San Vito, ex via Cb 31 civico 7 a Campobello di Mazara, si è materializzata ieri nel video girato dai carabinieri del Ros che lo hanno arrestato a Palermo lo scorso 16 luglio dopo 29 anni di misteriosa latitanza.

 […] Sessanta metri quadri. Non compaiono – nei frame diffusi - camera da letto e cucina e non per caso. In quelle stanze gli investigatori di Palermo e Trapani hanno trovato una pistola Smit&Wesson calibro 38 caricata con 5 proiettili e 20 custoditi in una scatola a parte, tutto nascosto nel doppiofondo di un mobile, ma anche – nella zona notte – agende personali dell'ex latitante, appunti su temi di attualità, di politica nazionale, ricevute di costosi ristoranti di Trapani e rinomate boutique palermitane. Uno sgabello di pelle e un tavolo in vetro si affacciano nella visuale ad angolo.

Dimenticate il casolare in cui fu arrestato Bernardo Provenzano, la casa di un ricottaro a Montagna dei Cavalli, 2 km da Corleone. A Campobello non ci sono Bibbie, rosari di legno, ritratti di Padre Pio, sedie di paglia e stufette in una stanzetta maleodorante. C'è il male camuffato da normalità e contraddizioni.

 […] una pila di libri: biografie di dittatori guerrafondai e autocrati: Hitler, Putin.

Ma anche «Les Fleurs du mal» di Charles Baudelaire e un romanzo di Pennac in cui, l'ex imprendibile avrà trovato assonanze con il protagonista Maulassène

 […] Un raccoglitore di documenti ad anelli, suppellettili, una spillatrice sono disseminati sul mobile basso. Non c'è il televisore al quarzo ritrovato nel covo di Provenzano, ma si staglia uno schermo piatto nero, 32 pollici.

[…] La telecamera indugia un attimo in più su quel quadro con didascalia inglese che raffigura anche Gesù con la corona di spine in testa e il capo chino: «Sii forte quando ti senti debole». È il cliché del mafioso assassino, stragista che, abusivo, si impadronisce dei simboli religiosi. Ma gli ultimi attimi del figlio di Dio in croce, suonano per lui come un epitaffio figura

Le cinque identità del boss I pm: "C'è la nuova Cupola". Trovati i documenti con cui "u Siccu" si è garantito la latitanza. De Lucia: "Cosa Nostra si riorganizza". Valentina Raffa il 29 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ragusa. Ne sapeva una più del diavolo Matteo Messina Denaro. Per sfuggire alla cattura cambiava covo periodicamente e pure identità. Così poteva permettersi di viaggiare, di farsi curare, di vivere alla luce del sole come ha fatto a Campobello di Mazara almeno negli ultimi 4 anni.

Tra i documenti che il Ros ha sequestrato nella casa di via CB 31, in vicolo San Vito, ci sono almeno 5 carte di identità di persone realmente esistenti. Si ritiene si tratti di fiancheggiatori che hanno prestato la propria identità al padrino, come ha fatto negli ultimi anni il geometra Andrea Bonafede. È grazie a lui che nel 2020 il latitante poté essere operato nell'ospedale di Mazara del Vallo. Nell'ultimo covo, nel quale si era trasferito nel giugno 2021, durante una delle perquisizioni sono saltate fuori delle fototessere del capomafia.

Bisogna adesso capire se non fosse lui stesso a contraffare le carte di identità ricevendo documenti originali su cui apporre la foto o qualcuno lo abbia fatto per lui. È grazie a questi documenti che ha potuto raggiungere il Sud America e il Regno Unito e concludere affari. Gli inquirenti hanno anche acquisito in Municipio la carta di identità di Andrea Bonafede e la scheda consultabile dalla questura conservate al Comune. Le indagini sulla rete dei fiancheggiatori sono, dunque, a un punto di svolta. Tassello dopo tassello il puzzle dei 30 anni di latitanza si sta ricomponendo. La procura vuole andare fino in fondo, individuando i «pezzi grossi» i cui nomi, finora, sono rimasti sconosciuti. È la «borghesia mafiosa» di cui ha parlato il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia, ma si punta a salire di grado fin dentro i palazzi che contano e persino tra le divise. Che le indagini su chi ha permesso la clandestinità del padrino abbiano preso il giusto filone lo confermano le parole del procuratore che ha parlato di «rete di protezione del latitante che stiamo per smantellare». Secondo de Lucia «c'è fortissima tensione all'interno di Cosa nostra, volta a tentare l'ennesima ristrutturazione» ma l'obiettivo è di «individuare chi potrà colmare i vuoti» lasciati dal latitante e dalla rete di fiancheggiatori. Di una «inquietante rete di protezione a diversi livelli» ha parlato il presidente della Corte d'appello di Palermo, Matteo Frasca, durante l'apertura dell'anno giudiziario. «Senza di essa ha detto - non avrebbe potuto sottrarsi per così lungo tempo alla cattura. Ciò pone seri interrogativi e apre scenari per certi versi inesplorati sul grado di penetrazione di Cosa nostra nel tessuto sociale e istituzionale».

Sulla latitanza ci sono ancora tanti interrogativi, ma il procuratore dice basta alle dietrologie. «Ho sentito, dal primo momento in cui è stato realizzato un risultato che ha onorato l'Italia, una serie di voci - ha chiarito -. È un'indagine impeccabile svolta con gli strumenti tecnici più aggiornati secondo criteri di legalità totalmente trasparenti».

Terapia e pallottole nelle giornate del boss: ecco le intercettazioni. Rita Cavallaro su L’Identità il 27 Gennaio 2023

Un uomo braccato, senza più nulla da perdere e pronto a uccidere in caso di irruzione. È questo il volto diabolico di Matteo Messina Denaro, il boss stragista che si nascondeva sotto le mentite spoglie di Andrea Bonafede, un simpatico geometra 60enne incline ai selfie con i medici e dal buongiorno facile verso i concittadini di Campobello di Mazara. Ma dietro la porta della casa di vicolo San Vito, in cui viveva da almeno un anno, la vera natura del capo dei capi si sta rivelando, giorno dopo giorno, agli inquirenti, che continuano a tornare in quel covo per setacciare ogni centimetro, alla ricerca dei segreti del super latitante.

E ieri, nell’ennesima perlustrazione, i carabinieri del Ros hanno individuato un doppiofondo, in un mobile della cucina, dal quale è saltata fuori una pistola. La Smith & Wesson special calibro 38, oltre ad avere la matricola abrasa, era già stata caricata con cinque proiettili in canna, quindi era pronta a sparare se il boss si fosse sentito minacciato. C’erano poi altre venti cartucce. La pistola è stata consegnata al Ris, che è al lavoro per stabilire se l’arma abbia già sparato e se sia compatibile con quelle utilizzate per commettere gli omicidi in cui il capo mafia è implicato. Gli accertamenti sull’arma sono cruciali e puntano a collegare il revolver ad altri più recenti delitti avvenuti nel palermitano, tra i mandamenti mafiosi in conflitto interno per il controllo dei territori. L’attenzione è puntata soprattutto sull’esecuzione di Giuseppe Marcianò, ucciso proprio a Campobello il 6 luglio 2017 e i cui mandanti ed esecutori sono sconosciuti. È dopo quel delitto che i rapporti tra le famiglie palermitane e il clan dei campobellesi erano diventati tesi, tanto che il capo dei capi aveva dato ordine al suo braccio destro, Francesco Luppino, di riportare la pace nei mandamenti. Luppino aveva approntato una squadra di affiliati fedeli, al cui interno c’era pure un picciotto che si occupava esclusivamente di reperire armi “pulite” per il clan e a custodirle quando c’era aria di un’imminente perquisizione. Gli esperti balistici, dunque, vogliono certificare se, quella trovata nella casa comprata dal geometra Andrea Bonafede, sia la storica pistola di Denaro, legata al periodo delle stragi, quando l’armiere del boss era il suo caro amico d’infanzia Giuseppe Fontana, detto PeppeRocky, proprietario del bar Baffo’s Castle di Selinunte, che era una delle basi operative dei 35 fiancheggiatori del padrino, arrestati dai carabinieri del Ros nell’operazione Hesperia del 6 settembre scorso. Se quella Smith & Wesson risultasse essere più recente, come d’altronde credono gli inquirenti, e venisse collegata agli ultimi fatti di sangue, allora sarebbe il segnale non soltanto che il latitante, in quel territorio, si nasconde almeno da cinque anni, ma che lui stesso, oltre a dare ordini, avrebbe agito in prima persona, quando bisognava dare il segnale che era “vivo e vegeto”. I carabinieri sono convinti, comunque, che quel revolver sia stato fornito al boss dai fedelissimi. A conferma un’intercettazione dell’ordinanza di custodia cautelare di Hesperia, registrata dal Ros il 27 aprile 2020, in un incontro tra il diretto emissario di Luppino, Piero Di Natale, e il capo del clan di Marsala, Franco Raia. “”Di fondamentale importanza il passaggio dal quale emergeva che Di Natale mostrava al Raia un’arma (di cui indicavano la marca, Smith & Wesson) e relative cinque munizioni, che veniva da entrambi visionata”, scrive il gip di Palermo, Walter Turturici. “Di queste non la deve toccare nessuno. Hai capito?”, dice Raia. Risponde Di Natale: “Oh… tieni qua… Franco… cinque ce ne sono… e vedi che… bellissima… guardala… Smith & Wesson… non l’avevo visto quant’era grossa… è una Smith & Wesson come a quella di…”. Di Natale si ferma, non fa nomi, ma è chiaro, anche alla luce del ritrovamento di ieri della pistola del boss, che si riferisce al padrino. D’altronde l’emissario, a quel punto, conosceva gli affari più delicati dei vertici, visto che era stato inserito da Luppino nel circuito mafioso più stretto. Tanto che è lui ad avvisare il sodale Marco Buffa, il quale diceva in giro che il latitante era morto, che Ignazieddu, nome in codice del capo dei capi, “è vivo e vegeto. Chiedi scusa. Vedi che è arrivata la notizia di questo discorso… non parlare in giro di questo fatto che hai detto tu che è morto… perché già la notizia gli è arrivata che c’è stato qualcuno che sta dicendo che Ignazzeddu è morto…”. E sempre Di Natale rivela il contenuto di uno degli ultimi pizzini scritti a mano dal boss, in cui aveva indicato la collocazione di una serie di persone nell’organigramma mafioso, di cui però il fiancheggiatore non faceva il nome, e, infine, aveva rassicurato i sodali che lui era “qua come prima, anzi più di prima”. Intanto le perquisizioni si allargano anche ai parenti delle persone vicine al boss. Dopo le perlustrazioni con il georadar a casa del figlio di Giovanni Luppino, l’autista del boss, ieri è stata la volta dei suoceri di Bonafede, sia nell’abitazione che nel magazzino, a pochi metri dalla casa del boss. Nonostante gli immobili siano disabitati, i militari hanno trovato 39 bossoli, documenti e un cane, in buona salute. Indice che qualcuno, forse proprio il boss, usava quei locali e portava regolarmente cibo e acqua all’animale. Intanto dal carcere dell’Aquila, in cui Messina Denaro è detenuto in 41bis, il boss vuole continuare a comandare. O, quantomeno, chiede di avere voce in capitolo sulle sue cure oncologiche. “Non ho ricevuto un’educazione culturale ma ho letto centinaia di libri, sono quindi informato sulle cure, vi prego di poter essere trattato con farmaci e terapie migliori”, ha ripetuto più volte ai medici, con toni pacati e cordiali. “Ho letto centinaia libri sul mio tumore, curatemi bene”, ha aggiunto, chiedendo di poter avere dei farmaci speciali utilizzati in Israele.

Chi è Matteo Messina Denaro.

Lettere da "re della malavita": chi si nasconde dietro Matteo Messina Denaro. L'analisi grafologica sulla lettera all'amante del boss superlatitante arrestato nei giorni scorsi a Palermo. Evi Crotti il 21 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Dalla scrittura e dalla firma (clicca qui) in mio possesso del capo mafia Matteo Messina Denaro emerge una personalità con ottime potenzialità sia intellettive che relazionali.

Egli possiede abilità di ragionamento, di verifica e di controllo (vedi la buona occupazione degli spazi sia tra lettere che tra parole) che secondo Erich Fromm è la vera intelligenza che però può essere sfruttata sia per conoscere sia per manipolare.

Infatti, la peculiarità dell’abituale modo di operare di Messina Denaro è stata proprio questa: un’abilità mentale atta a gestire con astuzia e sagacia, quasi in modo “perverso”, la realtà, sentendosi il “re della malavita”. Si tratta di una connotazione narcisistica che appartiene a chi si sente “al di sopra di tutti”; un narcisismo primario, come quello di un bambino, che può portare a colpire l’altro camuffandosi “sotto mentite spoglie” senza grandi possibilità di uscirne. Non a caso i continui ritocchi del volto per sfuggire alla giustizia.

Una volta instauratasi un’immagine fittizia di sé, dove ogni valore è confuso in essa, persino la voce, la parola, la forma esteriore e il modo di vestire assumono la forma dell’intrappolamento dove s’intrecciano pensieri, atteggiamenti e comportamenti che risulta al soggetto difficile abbandonare. La scrittura di Messina Denaro dimostra infatti un eloquio forbito (vedi grafismo controllato) che maschera i suoi veri intenti.

Un segno che intrappola e si somma ad altri, delineando l’identità sia del mafioso sia del criminale, è l’aggressività che spinge un soggetto alla violenza e alla voracità, per una voglia irrefrenabile di possesso. In grafologia il segno tipico dell’aggressività violenta è il ritmo grafico congestionato (vedi appunto lo scritto in esame), vale a dire un’energia mal investita che produce un tratto pastoso e poco scorrevole indice di una pulsione, anche sessuale, che trova sfogo nella violenza, anche se in modo solo apparentemente gratificante.

Dagospia FLASH! il 19 gennaio 2023. – IL “CUCÙ” DI SEBASTIANO MESSINA: “TRENT'ANNI DI FATICOSA LATITANZA PER COSTRUIRTI UNA FAMA MONDIALE COME PRIMULA ROSSA. UNA INTERMINABILE CATENA DI STRAGI E DELITTI PER ESSERE RICONOSCIUTO COME IL CAPO DEI CAPI DELLA MAFIA. UN INTRICATISSIMO GIRO DI AFFARI CON PRESTANOME E SOCIETÀ OFF SHORE PER DIVENTARE IL PIÙ RICCO BOSS DELLA STORIA. INSOMMA UNA VITA INTERA SPESA PER APPARIRE UN POTENTISSIMO GENIO DEL MALE, IL SUPERUOMO DI COSA NOSTRA. POI DIMENTICHI IL VIAGRA SUL COMODINO E TI SEI ROVINATO LA REPUTAZIONE…”

Anticipazione da “Oggi” il 13 aprile 2023.

Per Gaspare Mutolo, prima mafioso di lungo corso e poi pentito di rango, intervistato da OGGI per un articolo sulle donne di Matteo Messina Denaro, i costumi libertini del boss trapanese confermano quello che lui ha sempre sospettato: il latitante numero uno non è mai stato il Capo, ma solo un capo.

«Mi accusano di aver mantenuto un’idea romantica della mafia, tradizionale, ma so che ogni mafioso ha ancora il dovere di sposarsi e dare il proprio nome alla prole. Io dovetti farlo da latitante e lo stesso avrebbe dovuto fare, senza accampare scuse, un capo. Tommaso Buscetta aveva mogli e amanti? Vero, ma per questo gli altri boss chiamavano lui e quelli che gli stavano vicino “gli spazzini”, come quelli che hanno a che fare con l’immondizia».

Aggiunge Mutolo: «Credo che negli ultimi anni il vero capo della mafia fosse Settimo Mineo. A Messina Denaro è stato attribuito dai media un ruolo di prima importanza per la sua partecipazione ai reati più gravi degli anni delle stragi e di quel gruppo era l’unico sfuggito alla cattura. Nel Trapanese la massoneria controlla tutto ed è abbastanza potente da proteggere un latitante per decenni».

BIOGRAFIA DI MATTEO MESSINA DENARO

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

 Matteo Messina Denaro, Castelvetrano (Trapani) 24 aprile 1962. Mafioso, capomandamento di Castelvetrano, controlla tutta la provincia di Trapani. Latitante dal 93 (nel 94 sono state diramate le ricerche in campo internazionale, per arresto ai fini estradizionali).

 Detto ’U siccu, ma anche “Diabolik”, come il suo fumetto preferito (come lui avrebbe voluto farsi montare due mitra nel frontale della sua “164”). Ultima condanna definitiva il 17 ottobre 2013 (a 27 anni e 1 mese di reclusione, per associazione mafiosa, a far tempo dal 12 novembre 1999).

Nei pizzini che si scambiava con Provenzano si firmava Alessio. Ha una figlia, Lorenza, che non conosce (come confida in una lettera a un amico agli atti degli inquirenti). Liceale, ha vissuto nella casa dei nonni paterni con la madre, Francesca Alagna, fino al 2014, quando sono diventate note le intercettazioni di alcuni familiari sull’esistenza di un altro figlio di Diabolik, di cui si sa solo che si chiama Francesco (come il nonno), è che è nato tra il 2004 e il 2005. Da quel momento l’Alagna ha deciso di trasferirsi a casa dei genitori (Rino Giacalone) [Sta 27/4/2014].

 • Figlio di Francesco detto “Don Ciccio”, capomandamento di Castelvetrano, campiere del feudo dei D’Alì, i proprietari della Banca Sicula, poi acquisita dalla Comit (muore nel 1998 durante la latitanza). Lui e il fratello Salvatore si possono dire amici d’infanzia dei figli dei D’Alì, tra cui Antonio (sottosegretario al ministero dell’Interno, nel secondo e terzo governo Berlusconi, dal 2001 al 2006).

Salvatore diventò dipendente dei D’Alì quando fu assunto dalla Banca Sicula (è stato arrestato il 20 febbraio 2004 in esecuzione di un ordine di carcerazione per una condanna a 9 anni per associazione mafiosa ed estorsione). Quando fu arrestato, nel 1998, al padre (latitante da dieci anni), venne un infarto e morì (relazione Dna 2013).

 • Prima che diventasse latitante tutti lo ricordano scorrazzare per Castelvetrano, quando su una Mercedes, quando su una Bmw, sempre in abiti di ottimo taglio e con Rolex al polso. Fama di femminaro, una delle sue amanti, Maria Mesi (del 65) per avergli dato ospitalità durante la latitanza – quando a Bagheria, quando a Palermo – è stata condannata per favoreggiamento. In uno degli appartamenti messi a disposizione fu trovato il giochino elettronico preferito da Diabolik, un Nintendo.

• «Ti prego non dirmi di no. Desidero tanto farti un regalo. Sai, ho letto sulla rivista dei videogiochi che è uscita la cassetta di Donkey Kong 3 e non vedo l’ora che sia in commercio per comprartela. Quella del Secret of Mana 2, ancora non è arrivata... Sei la cosa più bella che ci sia» (da una lettera di Matteo Messina Denaro a Maria Mesi).

 • Commette i primi delitti al servizio di Leoluca Bagarella, impegnato, nei primi anni Novanta, a combattere appartenenti alle famiglie dei perdenti (gli sconfitti dai corleonesi nella seconda guerra di mafia). Il più efferato il duplice omicidio dei fidanzati Vincenzo Milazzo e Antonella Bonomo (incinta di tre mesi, ritenuta testimone scomoda degli affari di Cosa nostra), il primo morto sparato, la seconda strangolata (secondo le accuse, personalmente da Diabolik).

Grazie alle dichiarazioni del pentito Gioacchino La Barbera i loro cadaveri furono trovati, in avanzato stato di decomposizione, avvolti in buste di plastica, il 14 dicembre 1993 in località Balata di Baida, in agro di Castellammare di Stabia, all’interno di una cava di materiale pietroso in disuso (processo cosiddetto “Agrigento”, non è ancora intervenuta condanna definitiva).

 • Ha 21 anni quando si presta all’esecuzione delle stragi riuscite e tentate del 93 dirette da Leoluca Bagarella (nel 2002 viene condannato in via definitiva all’ergastolo).

 • Aver fatto parte della fazione stragista di Cosa nostra non gli impedisce di diventare uomo di fiducia di Bernardo Provenzano, col quale comunica a mezzo pizzini, non perdendo occasione per mostrare massima adesione alla strategia della sommersione (vedi Bernardo Provenzano).

 • «Io mi rivolgo a lei come garante di tutti e di tutto, quindi i suoi contatti sono gli unici che a me stanno bene, cioè di altri non riconosco a nessuno, chi è amico suo è e sarà amico mio, chi non è amico suo non solo non è amico mio ma sarà nemico mio, su questo non c’è alcun dubbio... La ringrazio per adoperarsi per l’armonia e la pace per tutti noi».

• «Ora mi affido completamente nelle sue mani e nelle sue decisioni, tutto ciò che lei deciderà io l’accetterò senza problemi e senza creare problemi, questa per me è l’onestà. 1) Perché io ho fiducia in lei e solo in lei; (...) 3) perché io riconosco soltanto a lei l’autorità che le spetta; 4) perché noi due ci capiamo anche se non ci vediamo».

 • Non appena Provenzano è arrestato quasi lo maledice perché si è fatto trovare nel suo rifugio tutti i pizzini che si sono scritti. «Se lo avessi davanti gli direi cosa penso e, dopo di ciò, la mia amicizia con lui finirebbe. Oggi posso dire che se la vede con la sua coscienza, se ne ha, per tutto il danno che ha provocato in modo gratuito e cinico ad amici che non lo meritavano.

Chiudo qua che è meglio. Come lei sa a quello hanno trovato delle lettere; in particolare di quelle mie pare ne facesse collezione. Non so perché ha agito così e non trovo alcuna motivazione a ciò e, qualora motivazione ci fosse, non sarebbe giustificabile (...) D’altronde non avevo a che fare con una persona inesperta ed ero tranquillo, anche perché io non ho lettere conservate di alcuno. Quando mi arriva una lettera, anche di familiari, rispondo nel minor tempo possibile e subito brucio quella che mi è arrivata (...) Tutto mi potevo immaginare, ma non questo menefreghismo da parte di una persona esperta.

 E forse ci sono le copie di quello che lui diceva a me, ma questa è solo un’ipotesi. Ormai c’è tutto da aspettarsi; siccome usava la carta carbone, può anche darsi che si faceva le copie di quello che scriveva a me e se le conservava, ma ripeto, questa è solo una mia ipotesi poiché ormai mi aspetto di tutto» (da una lettera scritta a “Svetonio”, pseudonimo di Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, condannato per traffico di stupefacenti, e dopo aver scontato la pena ingaggiato dal servizio segreto civile per fare da esca nel tentativo di catturare Messina Denaro) (Francesco La Licata).

• «Ho avuto un rapporto particolare con la morte, mi è sempre aleggiata intorno e so riconoscerla, da ragazzo la sfidavo con leggerezza, oggi da uomo maturo non la sfido, più semplicemente la prendo a calci in testa perché non la temo, non tanto per un fattore di coraggio, ma più che altro perché non amo la vita».

 • Dopo l’arresto di Bernardo Provenzano gli inquirenti ritenevano che avrebbe assunto il ruolo di capo di Cosa nostra insieme a Salvatore Lo Piccolo, allora latitante e arrestato il 5 novembre 2007.

 • Nell’aprile 2008 sono comparsi tre murales in stile Pop Art di Andy Warhol che, ricalcando una delle fotografie in possesso degli inquirenti, ritraggono Matteo Messina Denaro con gli occhiali da sole (a Palermo, alle spalle della cattedrale e davanti alla facoltà di Giurisprudenza, e a Castelvetrano, sulla facciata dei nuovi uffici comunali, in un terreno confiscato alla mafia). Due di queste foto risultano scattate proprio il giorno del suo compleanno. Accanto ai murales la scritta: «Matteo Messina Denaro, l’ultimo» (a dire che rimane l’ultimo boss da catturare, i due autori si fecero avanti due settimane dopo, erano due studenti di Architettura).

• «In questa cosa sono il re, il messia, il veterano/il nuovo boss come Matteo Messina Denaro/tu sei un flop, un babbeo, una figa, un baro/e prendi un tot di mazzate se ti ho sottomano» (dal ritornello della canzone rap La gente fa, inserita dagli Enmicasa nell’album Senza respiro, aprile 2008).

 • Affetto da strabismo di Venere, secondo alcune fonti nel gennaio 1994 si è recato in Spagna presso la clinica oftalmica Barraquer di Barcellona. Secondo altre informazioni soffre di insufficienza renale cronica, ma per sottoporsi alla dialisi avrebbe installato nel suo rifugio le apparecchiature necessarie.

 • Il suo autista, Vito Signorello, professore di educazione fisica, intercettato dagli inquirenti: «Lu bene vene da lu Siccu. Lo dobbiamo adorare, è ’u Diu, è ’u bene di nuiatri».

 • Confische. Finora sono stati sequestrati ai suoi prestanome beni per 3,5 miliardi di euro, 700 milioni solo a Giuseppe Grigoli, suo uomo di fiducia e condannato per mafia.

 • Secondo un imprenditore, suo ex prestanome (già condannato e tornato libero dopo avere espiato la pena), su Messina Denaro pende la taglia di un milione e mezzo di euro. Intervistato dal giornalista Lirio Abbate (che non ne ha rivelato l’identità), ha dichiarato di avere ricevuto l’offerta di così tanti soldi da agenti del Sisde, che lo avrebbero contattato per scoprire dove si nasconde il latitante (Esp 3/6/2010).

 • «Ancora si sottrae alla cattura Matteo Messina Denaro, storico latitante, capo indiscusso delle famiglie mafiose del trapanese, che estende la propria influenza ben al di là dei territori indicati. Il suo arresto non può che costituire una priorità assoluta ritenendosi che, nella descritta situazione di difficoltà di Cosa nostra, il venir meno anche di questo punto di riferimento, potrebbe costituire, anche in termini simbolici, così importanti in questi luoghi, un danno enorme per l’organizzazione» (dalla Relazione della Dna 2013).

Nel gennaio del 2014, sentito in Commissione antimafia, il direttore del dipartimento di Pubblica sicurezza Alessandro Pansa ha negato che Matteo Messina Denaro sia il capo assoluto di Cosa nostra, in quanto interessato soprattutto all’arricchimento personale.

 • Il procuratore di Palermo Francesco Messineo, sottoposto a procedimento disciplinare (e infine prosciolto, nel 2013), per la mancata cattura di Matteo Messina Denaro. Secondo il Csm, invece, Messineo fu diligente nel coordinare il pool antimafia («si trattò di una scelta operativa, criticabile ma legittima»).

• Nel marzo del 2014 è stato diramato il suo ultimo identikit disegnato dai finanzieri del Gico. «Resta solo un dubbio: è davvero lui l’erede dei Corleonesi? Nelle sue interminabili chiacchiere, dentro il carcere di Opera, Totò Riina ne ha parlato male facendo capire che è uno che si fa troppo i fatti suoi. È la verità o il vecchio Riina vuole mischiare ancora una volta le carte?» (Attilio Bolzoni, Salvo Palazzolo, 27 marzo 2014) (a cura di Paola Bellone).

La cattura del boss. “Chi è veramente Matteo Messina Denaro”, intervista a Marcelle Padovani. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 18 Gennaio 2023

“Cose di cosa nostra è il libro scritto a quattro mani con Marcelle Padovani con cui Giovanni Falcone nel 1991 quando era solo ed esposto, ha raccontato la mafia al mondo. Quel libro è ancora una pietra miliare per capire il lavoro di Giovanni Falcone. In qualche modo è stato il suo testamento professionale”. E ancora: «Trent’anni dopo (la strage di Capaci, ndr) è il momento dei bilanci, e uno dei modi migliori per tracciarli è senza dubbio quello di leggere l’ultimo libro della giornalista francese Marcelle Padovani, Giovanni Falcone – Trent’anni dopo (Sperling & Kupfer, 2022), ideale seguito del prezioso saggio scritto dalla Padovani e dal giudice Falcone».

Così i giornali parlano dei lavori della storica corrispondente in Italia del settimanale francese Nouvel Observateur. E a chi le chiede il perché del nuovo libro, lei risponde: «Non è una scelta ideologica, ma la scelta di una persona che vive nel laboratorio italiano da quarant’anni e che ha potuto verificare che in momenti molto critici l’Italia ha le risorse per inventare delle cose: sarà anche vero che l’Italia ha inventato la mafia ma ha inventato anche gli strumenti a contrasto: l’antimafia». E l’arresto di Matteo Messina Denaro rientra in questi momenti. Padovani è stata tra i 15 vincitori del Premio Paolo Borsellino 2022 istituito 30 anni fa per onorare la memoria del magistrato siciliano ucciso dalla mafia.

Cosa rappresenta l’arresto di Matteo Messina Denaro nella storia della lotta alla mafia?

Ci sono diverse cose che mi hanno colpito. Anzitutto, la conferma dell’efficacia straordinaria dell’antimafia italiana. Efficacia dovuta a un sistema legislativo che è stato messo in piedi negli anni e che è alimentato da fattori concreti, le forze dell’ordine, una magistratura particolarmente efficaci. L’altra cosa che mi pare importante sottolineare è che assistiamo, definitivamente credo, alla sconfitta militare di Cosa nostra. Bisogna tenere bene a mente che Totò Riina, arrestato il 15 gennaio ’93, non è stato ufficialmente sostituito, come capo di Cosa nostra, da una commissione che si sarebbe riunita per eleggerlo. È solo per pura fantasia che si è potuto scrivere che il capo di Cosa nostra era Messina Denaro. Un’altra cosa che m’interessa molto è la discussione che si è aperta un minuto dopo la sua cattura, se Messina Denaro parlerà o non parlerà.

Qual è la sua opinione in merito?

Per azzardare previsioni, occorre inquadrare bene la figura di Matteo Messina Denaro. Lui è un uomo molto colto, molto religioso, che ha frequentato assiduamente alcune chiese palermitane, una in particolare, con un rapporto molto intimo con il prete di quella chiesa. Credo che sia un uomo capace di riflettere e di prendere delle decisioni non note in partenza. In tal senso, mi ha molto colpito la sua corrispondenza con l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonino Vaccarino, diventato poi un uomo del Sisde. Costui ha corrisposto per due anni interi – dal 2004 al 2006 – con Messina Denaro. In questa corrispondenza, Vaccarino si firmava con il nome “Alessio” mentre Messina Denaro si presentava come “Svetonio”, uno storico romano, il che vuol dire una certa idea della cultura. Nelle loro lettere c’è moltissima cultura . A un certo punto, Messina Denaro parla di Benjamin Malaussène, il personaggio centrale, l’eroe nei romanzi del Ciclo di Malaussène di Daniel Pennac. E lui dice: io sono una specie di Malaussène. Per capire il personaggio bisogna anche rendersi conto delle componenti della sua personalità. Ci sono gli elementi per riflettere e prendere una decisione, che sia culturale o religiosa. C’è un’altra questione che mi ha interessato e di cui quasi nessuno ha parlato esplicitamente…

Vale a dire?

Che lui era già un’altra mafia. Non era la mafia stragista come tutti scrivono. Ma no, non è così. Lui non è mai stato direttamente attore delle stragi. È tutto da dimostrare. È responsabile sicuramente, ma non vuol dire attore. È stato invece attore di un’altra mafia. La mafia dell’economia, una mafia molto radicata sul territorio. Lui è il “re” del trapanese, non è il “re” della Sicilia. Radicatissimo in quell’area, ha preso delle decisioni economiche anche originali, ad esempio investendo nel settore eolico. Aveva già fatto il salto sulla nuova mafia, quella di cui ci parlano adesso Giovanni Melillo e le persone che si occupano del futuro della lotta alla mafia, quando spiegano che oggi le mafie hanno deciso di entrare illegalmente nell’economia legale. Entrando nell’economia, non facendo la guerra allo Stato. E Messina Denaro l’aveva fatto, lo faceva già da alcuni anni. Era, secondo me, una specie di precursore di questa nuova linea delle mafie, che sarà difficile da combattere perché le pratiche illegali non le fanno soltanto i mafiosi,

Da tutta questa storia quale insegnamento, a suo avviso, la politica dovrebbe trarre?

La modestia. Non cantare vittoria, non dire: è merito nostro… Nessuno a livello politico, dell’esecutivo, è stato capace di pensare, preparare, organizzare, quello che invece è stato capace di pensare, organizzare e portare a termine, tutto un mondo dell’antimafia concreto. Sono veramente colpita, e non da oggi, dalla qualità straordinaria del “ceto” medio degli antimafiosi. Quando parli con un carabiniere, un poliziotto, uno della guardia di finanza coinvolti nella guerra alla mafia, beh, ne sanno moltissimo e sono molto lucidi e capaci. Questo è “ceto” straordinario, molto più della classe dirigente politica.

Quando si parla della storia della lotta alla mafia, non si può non ritornare a Giovanni Falcone e ai bellissimi libri che lei ha scritto con lui e su di lui. A caldo, subito dopo l’arresto di Messina Denaro, lei ha affermato: “Giovanni Falcone ha sempre pensato che la mafia conosce un inizio, un apogeo e una fine. Oggi direbbe siamo alla fine”.

Sì, lo penso. Quella è una frase che Falcone ha detto pubblicamente e non soltanto a me. Lui sapeva di cosa parlava. La mafia è un fenomeno umano, un fenomeno delle società post industriali e anche prima della rivoluzione industriale, che è nato e si è sviluppato e avrà una fine. Lo credo anch’io. Aveva ragione Falcone. Cosa nostra è finita. Poi ci sono le altre mafie.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Estratto dell’articolo di Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 17 gennaio 2022.

«Giusto esprimere soddisfazione ma non carichiamo di enfasi questa giornata: Messina Denaro non era il capo dei capi, non era il successore di Riina». Salvatore Lupo, docente di Storia contemporanea all'Università di Palermo è uno dei più autorevoli studiosi del fenomeno mafioso: e va controcorrente, invitando a frenare l'euforia per la fine della latitanza del boss di Castelvetrano.

 L'arresto di Matteo Messina Denaro è stato salutato come una festa della liberazione. E lei, professore, non condivide gli eccessi di entusiasmo.

«Una cosa che mi ha colpito è in effetti l'enfasi attorno a questa cattura. […] questo arresto chiude la stagione della mafia stragista solo davanti all'opinione pubblica, ma in realtà questa stagione è finita 30 anni fa. […]».

Un altro grande latitante preso non lontano da casa, dopo Riina e Provenzano.

«Ma non sarebbe mai stato preso se fosse stato altrove: il mafioso che se ne va, d'altronde, smette di esercitare la propria funzione».

 Ecco, che funzione esercitava Messina Denaro?

«Non quella del capo dei capi. La funzione del mafioso si svolge a piu livelli: può essere un mediatore d'affari e Messina Denaro lo era, può essere un capo locale, sicuramente lo era. Ma dire che sia stato il successore di Riina è un grosso errore […]».

 Perché, a suo avviso, l'ultimo superboss è stato Riina?

«Perché la mafia è una confederazione di gruppi. La puoi tenere insieme con il terrore. I morti sulle strade non ci sono più da decenni, dall'epoca di Riina. Anche Provenzano era solo un mediatore […] dava qualche consiglio». […] «[…] La mafia di oggi […] non ha più bisogno di mettere le bombe». […] «Il problema dei rapporti fra mafia e politica esiste […] Non esiste un concetto di mafia del tutto immune da commistioni politiche».  […]

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2022.

[…] nel 2018 […] ci fu il tentativo di far risorgere la commissione provinciale di Cosa nostra con tanto di designazione del nuovo capo dei capi: Settimo Mineo, 80 anni […] c'è bisogno delle antiche certezze e di un organismo che decida «le cose gravi». Ma il sogno dura poco e in un blitz della Procura di Palermo Mineo e gli altri finiscono in carcere.

 […] l'aspirazione a tornare ai tempi della «Commissione» […] non è mai venuta meno. […] Matteo Messina Denaro […] non era lui il capo della mafia siciliana. […] i clan palermitani non accetterebbero mai di farsi guidare da un non palermitano. A cominciare da un trapanese […]«Le cosche cercheranno di tornare al passato […]». […] una federazione tra clan e una commissione regionale.

 […] Giovanni Motisi detto il Pacchione (il grassone, ndr ), ad esempio, capomafia del mandamento di Pagliarelli, latitante dal 1998. Oggi sarebbe, se fosse vivo, poco più che sessantenne. […] «killer di fiducia» di Totò Riina. Tra gli anziani, poi, c'è Stefano Fidanzati, 70 anni, della storica famiglia di narcotrafficanti dei Fidanzati dell'Arenella, che tra Milano e Palermo hanno costruito il loro impero economico. Più giovani, ma non meno «interessanti» per gli investigatori: Giuseppe Auteri, detto Vassoio, cresciuto all'ombra del boss Calogero Lo Presti, latitante da un anno, sarebbe lui a tenere la cassaforte del mandamento di Porta Nuova, uno dei clan più ricchi della città. E ancora Sandro Capizzi, rampollo dell'anziano boss Benedetto Capizzi, capomafia dello storico clan di Santa Maria di Gesù, il mandamento del «principe di Villagrazia», Stefano Bontate […]

 Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per corriere.it il 16 gennaio 2023.

[…] Catturato Riina e salito al trono Bernardo Provenzano, Matteo decise di aderire all’idea della «mafia sommersa» messa in patica dall’ultimo padrino, con il quale interloquiva con i pizzini firmati «Alessio» e sequestrati nel rifugio corleonese dove l’altro padrino fu arrestato nel 2006: «Quello che lei decide per me va bene… I suoi amici sono i miei amici…», scriveva con deferenza Messina Denaro.

 I pizzini recapitati a mano sono sempre stata la garanzia migliore per comunicare tentando di sfuggire alle indagini; ancora lo scorso anno gli investigatori ne hanno intercettato qualcuno in cui parlava dei suoi movimenti. Scriveva, dava indicazioni e si lamentava. Persino di come i familiari tenevano la tomba del padre; o della figlia Lorenza, nata durante la sua latitanza, che non solo non aveva rapporti con lui ma nemmeno lo ha mai «onorato» come altri figli o nipoti di boss mafiosi.

E’ il lato privato dello stragista che — hanno raccontato i pentiti — custodisce tanti segreti, a cominciare dall’ipotetico archivio segreto di Riina sfuggito ai carabinieri nella mancata perquisizione nel covo del boss di trent’anni fa. Sarebbe, se esistesse, un altro anello della catena che ha tenuto legato un padrino all’altro, nel lungo processo di transizione - generazionale e non solo - che s’è concluso con la cattura più agognata. E finalmente arrivata.

Estratto dell’articolo di Alberto Capra per mowmag.com il 16 gennaio 2023.

A destare piuttosto un certo senso di straniamento è la constatazione in merito alla distanza che separa la clinica La Maddalena dall'epicentro della lotta alla mafia siciliana e nazionale. Stando alle prime ricostruzioni, infatti, i Carabinieri sarebbero intervenuti all'interno della struttura sanitaria posta in Via San Lorenzo 312/D, a Palermo. Ma è proprio lungo la stessa arteria - al civico 1, per l'esattezza - che trovano posto gli uffici della Direzione Investigativa Antimafa.

Una circostanza quantomeno imbarazzante, se consideriamo che, come emerso dalle prime indiscrezioni, lo stesso Messina Denaro sarebbe stato ospite della clinica per oltre un anno, prima del suo arresto, e che testimonia in ogni caso l'assoluta spregiudicatezza del boss nel muoversi con disinvoltura all'interno di una Palermo che, evidentemente, ha saputo fornire ben più di una sponda, alla sua latitanza, nel corso degli ultimi 30 anni.

Da lastampa.it il 17 gennaio 2022.

Allora era ancora uno sbarbatello - ha detto ai giudici Errante Parrino - e Lillo Santangelo volle introdurlo nel nostro ambiente goliardico di studenti universitari che c'era negli anni Ottanta a Palermo. Ricordo che allora avevamo conosciuto delle signore di Palermo dell'alta borghesia che non lesinavano a fare feste invitando anche ragazzotti e studentelli. Ci mancava una persona per compensare con le donne presenti, e Lillo invitò Matteo. Ricordo che lo portammo alla festa e si divertì come un pazzo».

 «Questo genere di inviti proseguì anche altre volte - ha aggiunto il teste - c’era un nostro collega iscritto a medicina che conosceva molte signore che allora si definivano tardone piacenti. Organizzò una festa e di queste donne ne erano presenti sei o sette, ma ci voleva un numero superiore di picciutteddi perché un ragazzino per ogni donna non ce la faceva. Cercammo aiuto, e ognuno di noi si diede da fare per rintracciare qualcuno che ci potesse dare una mano a superare la nottata che si presumeva abbastanza lunga e intensa. Chiamammo Matteo, perché prendeva la macchina e veniva di corsa da Castelvetrano. E così fece».

Matteo Messina Denaro, playboy impenitente e amante delle belle donne, sarebbe stato anche coinvolto in festini hard organizzati a Palermo da signore di una certa età dell'alta borghesia con studenti universitari.

Una retroscena pruriginoso, emerso quasi vent'anni fa durante il dibattimento davanti ai giudici della Corte d'Assise di Palermo per l'omicidio di Calogero Santangelo, un giovane di 25 anni iscritto a Medicina e originario di Castelvetrano.

 L’uccisione dello studente sarebbe stata chiesta a Totò Riina dal padre di Messina Denaro, il vecchio boss Don Ciccio, che era stato padrino di battesimo della vittima. Per anni la morte di Santangelo è rimasta un mistero. L'inchiesta è stata più volte archiviata, fino a quando il pentito Giovanni Brusca ha raccontato che ad indurre Messina Denaro a chiedere l'eliminazione del ragazzo, che col figlio del capomafia condivideva donne e bella vita, sarebbe stata una partita di droga sottratta a Cosa Nostra.

Ma c'è di più: durante la deposizione in aula del migliore amico della vittima, Salvatore Errante Parrino, è emerso anche che Santangelo avrebbe invitato spesso l'amico Matteo «per svezzarlo» ad alcuni festini a luci rosse.

 «Allora era ancora uno sbarbatello - ha detto ai giudici Errante Parrino - e Lillo Santangelo volle introdurlo nel nostro ambiente goliardico di studenti universitari che c'era negli anni Ottanta a Palermo. Ricordo che allora avevamo conosciuto delle signore di Palermo dell'alta borghesia che non lesinavano a fare feste invitando anche ragazzotti e studentelli. Ci mancava una persona per compensare con le donne presenti, e Lillo invitò Matteo. Ricordo che lo portammo alla festa e si divertì come un pazzo».

«Questo genere di inviti proseguì anche altre volte - ha aggiunto il teste - c’era un nostro collega iscritto a medicina che conosceva molte signore che allora si definivano tardone piacenti. Organizzò una festa e di queste donne ne erano presenti sei o sette, ma ci voleva un numero superiore di picciutteddi perché un ragazzino per ogni donna non ce la faceva. Cercammo aiuto, e ognuno di noi si diede da fare per rintracciare qualcuno che ci potesse dare una mano a superare la nottata che si presumeva abbastanza lunga e intensa. Chiamammo Matteo, perché prendeva la macchina e veniva di corsa da Castelvetrano. E così fece».

I primi omicidi quando era minorenne portando avanti la "tradizione di famiglia". Matteo Messina Denaro, il curriculum criminale: venti condanne per venti delitti, dalle stragi agli omicidi. Elena Del Mastro su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Stragi, omicidi, attentati e messaggi minatori. La vita di Matteo Messina Denaro è stata costellata di crimini e il suo arresto avvenuto il 16 gennaio dopo 30 anni di latitanza potrebbe riportare alla luce segreti del passato e del presente sulla criminalità organizzata. Messina denaro era rimasto l’ultimo superlatitante della strategia della tensione corleonese che ha cambiato la storia d’Italia, era uno dei rampolli di Totò Riina ed era ricercato dopo l’arresto del “capo dei capi”. Riuscire a prenderlo era diventata una sfida.

“Sono il quarto di sei figli e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi”, dettò a verbale Matteo, negli uffici della Squadra mobile di Trapani, il 30 giugno 1988, ascoltato come testimone nell’indagine per un omicidio. Quello che non disse e che oltre al lavoro nei campi portava avanti anche l’attività criminale del padre don Ciccio in quel triangolo fra Castelvetrano, Marsala e Trapani, un ‘regno’ poi ereditato dal figlio Matteo.

Nel 1989 il padre lo fece partecipare agli omicidi di 4 uomini s’onore della famiglia di Alcamo in dissenso con le strategie trapanesi e corleonesi, strangolati e sciolti nell’acido, come la mafia usava fare in quei tempi. A vent’anni Messina Denaro partecipò attivamente, assieme ai corleonesi, alla guerra contro le famiglie ribelli di Marsala e del Belice. Divenne il pupillo di Totò Riina. Era già un mafioso però prendeva l’indennità di disoccupazione dall’Inps, e se ne vantava. A 27 anni venne denunciato per associazione mafiosa.

Secondo il racconto dei pentiti Messina denaro aveva già ucciso, forse già quando era ancora minorenne. La contabilità ufficiale dei morti ammazzati coincide con almeno venti condanne all’ergastolo per altrettanti delitti, tra i quali quello del bambino Giuseppe Di Matteo, sequestrato e ammazzato per vendetta e per dare l’esempio, dopo il pentimento del padre Santino, uno dei manovali della strage di Capaci; e quello di un vice-direttore d’albergo dove lavorava una ragazza austriaca di cui Matteo si era innamorato, e che si lamentava perché quel ragazzotto e i suoi amici frequentavano l’hotel infastidendola.

Il primo a indagare a scrivere il nome di Matteo Messina Denaro in un fascicolo di indagine fu Paolo Borsellino nel 1989. Un commissario di polizia, Rino Germanà iniziò a indagare su di lui. Così Matteo Messina Denaro insieme a Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, a bordo di una Fiat Tipo, intercettarono Germanà sul lungomare di Mazara del Vallo e iniziarono a sparargli addosso. Il poliziotto si buttò in mare e dietro di lui anche Bagarella ma il suo Kalašnikov si inceppò. E così il poliziotto si salvò. Dopo l’attentato ufficialmente il suo nome è stato iscritto nella lista dei ricercati il 2 giugno 1993. A quel punto era già diventato il capo di Cosa Nostra nella provincia di Trapani, leader indiscusso delle nuove leve. La maggior parte dei suoi guadagni arrivavano dalle estorsioni, smaltimento illegale dei rifiuti, riciclaggio di denaro e dal traffico di droga.

Tanto denaro arrivava anche dagli appalti: la sua famiglia aveva praticamente il monopolio delle costruzioni nella provincia. Era della famiglia tutto il ciclo produttivo che ha portato all’edificazione di case abusive ovunque, lungo la costa di Castelvetrano e Mazara del Vallo. Ed erano nella aziende dove si produceva la calcestruzzo che avvenivano anche i summit mafiosi. In uno di questi venne deciso l’attentato a Maurizio Costanzo e fu messa a punto la strategia stragista che Messina Denaro condivise in pieno. Fu lui a segnalare a Riina i monumenti a Roma, Milano e Firenze da colpire per attaccare lo Stato tra il 1992 e il 1993. Iniziarono a studiare i movimenti di Maurizio Costanzo, andarono almeno due volte al teatro Parioli dove Costanzo registrava la sua trasmissione. L’attentato fu compiuto in via Fauro, a Roma, il 14 maggio 1993: Costanzo e la moglie Maria De Filippi ne uscirono illesi.

Messina Denaro decise che dopo Vincenzo Milazzo, capomafia di Alcamo molto critico nei confronti dei corleonesi, dovesse morire anche la fidanzata Antonella Bonomo, incinta di tre mesi, strangolata il 15 luglio 1992. Fu sempre lui ad autorizzare il rapimento e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, figlio tredicenne di un mafioso pentito, rapito a San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo, il 23 novembre 1993, strangolato e poi sciolto nell’acido da Giovanni Brusca l’11 gennaio 1996, dopo 25 mesi di prigionia. Dopo l’arresto di Totò Riina, il 15 gennaio del 1993, Messina Denaro divenne il capo indiscusso di Cosa Nostra. Impartiva ordini dai suoi nascondigli tramite “pizzini” cifrati e messaggeri fidati. Il collaboratore di giustizia Mariano Concetto ha anche detto di aver ricevuto l’incarico da Messina Denaro di rubare il Satiro Danzante, importantissimo reperto archeologico custodito a Mazara del Vallo. Per quel lavoro, rivelò Concetto, “il capo disse che non avremmo visto un euro. E che se ci fossimo lamentati saremmo finiti nel canale di Messina”. Quel furto però Messina Denaro non è mai riuscito a portarlo a termine.

Nel 1993, quando iniziò la latitanza, nei suoi confronti venne emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materiale esplosivo, furto e altri reati minori. Nel 2000 al maxi-processo Omega venne condannato in contumacia all’ergastolo. Il 21 ottobre 2020 venne condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Caltanissetta per essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio in cui vennero uccisi di giudici Falcone e Borsellino e le loro scorte.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il capomafia di Castelvetrano nelle mani dello Stato. Chi è Matteo Messina Denaro, l’ultimo ‘Padrino’ di Cosa Nostra: arrestato dopo 30 anni di latitanza. Redazione su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Arrestato dopo 30 anni di latitanza, iniziata nel lontano 1993. Il boss Matteo Messina Denaro, ritenuto l’ultimo ‘Padrino’ di Cosa Nostra, è stata arrestato questa mattina, 16 gennaio 2023, dai carabinieri del Ros, del Gis e dei comandi territoriali della Regione Sicilia.

Il blitz è scattato, nell’ambito delle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Palermo, all’interno di una struttura sanitaria del capoluogo siciliano, la clinica specialistica ‘La Maddalena’ dove il boss si era recato “per sottoporsi a terapie cliniche”, ha spiegato il generale di divisione Pasquale Angelosanto, comandante dei Ros.

A 30 anni dal blitz con cui i carabinieri del Ros riuscirono ad arrestare il capo dei capi, Totò Riina, anche l’ultimo ‘Padrino’ della mafia finisce così nelle mani dello Stato.

Figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano (Tp) Ciccio, storico alleato dei corleonesi di Totò Riina, il 60enne era latitante dall’estate del 1993. Latitanza che Messina Denaro annunciò di fatto con una lettera inviata alla fidanzata dell’epoca, Angela, dopo le stragi mafiose di Roma, Milano e Firenze.

“Sentirai parlare di me – le scrisse, facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue – mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità”.

Su di lui pendono diverse condanne all’ergastolo, a partire dalle stragi del 1992 costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, agli attentati del 1993 a Milano, Roma e Firenze. Ergastolo comminato all’ormai ex superlatitante anche per il brutale omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Il 13enne venne sequestrato nel novembre 1993 per costringere il padre Santino a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci; dopo 779 giorni di prigionia, il bambino venne strangolato e il cadavere sciolto nell’acido da Giovanni Brusca.

Una latitanza record come quella dei suoi fedeli alleati Totò Riina, sfuggito alle manette per 23 anni, e Bernando Provenzano, riuscito a evitare la galera per 38 anni. Proprio dopo gli arresti di Riina, dei fratelli Graviano e di Provenzano (ultimo grande boss a finire in manette nel 2006), Messina Denaro aveva allargato il suo potere ad altri mandamenti mafiosi della Sicilia, diventandone di fatto leader indiscusso.

Le prime indagini su Messina Denaro furono avviate nel 1989, venne denunciato per associazione mafiosa grazie alle inchieste su di lui portate avanti da un commissario di polizia di Castelvetrano, Rino Germanà.

Per questo il boss decise di ucciderlo: il  14 settembre del 1992 lui, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano intercettarono Germanà sul lungomare di Mazara del Vallo e iniziarono a sparargli. Il commissario rispose al fuoco, uscì dalla macchina e si salvò gettandosi in mare inseguito da Bagarella, la cui arma si inceppò.

Dopo quell’attentato Messina Denaro divenne ufficialmente latitante e fu visto in pubblico l’ultima volta nel 1993 a Forte dei Marmi, mentre era in vacanza assieme ai fratelli Graviano. In quel momento era già il capo di Cosa Nostra per la provincia di Trapani, dove gestiva il racket delle estorsioni, lo smaltimento illegale dei rifiuti, il riciclaggio di denaro e il traffico di droga.

Come detto, fu  tra i boss di Cosa Nostra che decise di organizzare gli attentati compiuti a Roma, Milano e Firenze tra il 1992 e il 1993, in cui morirono i giudici Falcone e Borsellino. Per questo fu condannato all’ergastolo come mandante.

Sempre Matteo Messina Denaro ordinò l’uccisione di Antonella Bonomo, fidanzata (incinta di tre mesi) di Vincenzo Milazzo, capomafia di Alcamo molto critico nei confronti dei corleonesi, a sua volta fatto uccidere da Totò Riina.

Se alla fine sono tutti solo ominicchi. Un agente per braccio, la testa china per portare lo sguardo in basso, niente manette. Valeria Braghieri il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Un agente per braccio, la testa china per portare lo sguardo in basso, niente manette. Lo hanno portato fuori dalla clinica «La Maddalena» come avrebbero portato fuori uno che ha cercato di non pagare una radiografia, o che ha assestato un ceffone al medico di turno. Niente di spettacolare. Da nessun punto di vista. E invece, in mezzo ai due carabinieri, c'era il boss Matteo Messina Denaro, latitante da trent'anni, responsabile di alcune tra le stragi più efferate e perfino di aver fatto sciogliere un bambino nell'acido. Non sappiamo dire cosa ci aspettassimo di vedere, ma non quello che abbiamo visto.

Quei lineamenti quasi inesistenti sotto al berretto di lana, quella fisicità modesta e imprendibile, quasi color flanella. Sarà stato per questo che è riuscito a nascondersi trent'anni sotto agli occhi di tutti. Per questo e per la montagna di denaro sulla quale ha potuto contare «Diabolik», come si faceva chiamare da buon appassionato di fumetti, ma anche di donne, di Porsche e di orologi costosi. Delude sempre qualcosa che ci si è immaginati troppo a lungo. Ma quando si pensa alla mafia, a questa parola impastata di arabo e significati smargiassi, che tutto può e tutto controlla, che mette in scacco lo Stato, che allunga i tentacoli sulle istituzioni e che attraversa silente e invisibile Paesi e confini, non si immagina di vederla incarnata in un ometto improvvisamente arrendevole, che scompare quasi in mezzo agli agenti e dentro al bavero del giubbotto.

Un po' come quando arrestarono Bernardo Provenzano, sempre a Palermo, l'11 aprile del 2006: il giubbottino di nylon, il cappuccio della felpa che faceva capolino e quella montatura degli occhiali troppo sottile per una faccia tanto spessa. Solo gli zigomi arrabbiati facevano pensare alla ferocia di «Binnu 'u Tratturi», che aveva iniziato la sua carriera smettendo la scuola in seconda elementare e macellando clandestinamente animali. Tutto un programma. Finì con i pizzini intercettati dalla polizia e il blitz in un casolare a due chilometri da Corleone: viveva lì con pochissime cose, in ancor meno metri quadrati. E anche il giorno delle manette a Totò Riina (a lui le misero) il 15 gennaio 1993, il nostro immaginario non ebbe soddisfazione.

Il mafioso odiato dai mafiosi, che rese visibile la crudeltà che la mafia aveva sempre cercato di mettere in atto di nascosto, lo spietato silenzioso e malmostoso, disciplinato e senza vizi che, di fatto, rimase ai vertici di Cosa Nostra trentacinque anni, non ce lo aspettavamo come lo vedemmo quel giorno: apparentemente innocuo nelle sue linee pingui rivestite di grisaglia. Un ometto anche lui, alla fine...

Da tg24.sky.it il 16 gennaio 2023.

Tredici condanne all'ergastolo sono state inflitte a 16 boss accusati di essere i mandanti delle stragi del '92 in cui furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tra i condannati figura anche Matteo Messina Denaro, arrestato oggi 16 gennaio dopo 30 anni di latitanza 

Messina Denaro figura dunque anche tra i mandanti della Strage di Capaci, il 23 maggio del 1992. Nella foto uno scatto di Franco Lannino, il primo fotoreporter dell'ANSA giunto sul luogo della strage in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro e dove rimasero ferite 23 persone, fra le quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l'autista giudiziario Giuseppe Costanza

Per la strage di Capaci per la quale Messina Denaro è stato condannato all'ergastolo in contumacia il 20 ottobre 2022 dalla Corte di Caltanissetta

Messina Denaro è ritenuto responsabile anche della Strage dei Georgofili a Firenze avvenuta nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 nei pressi della Galleria degli Uffizi. Cinque i morti in seguito all'esplosione di un'autobomba, oltre 40 i feriti

Tra le stragi ricondotte al boss di Costa Nostra anche quella di via Palestro a Milano, il 14 maggio del 1993, nei pressi della Galleria d'Arte Moderna. Cinque i morti e 12 i feriti anche in questo caso per l'esplosione di un'autobomba.

 C'è la firma di Messina Denaro anche dietro l'attentato di via Fauro a Roma, quando, il 14 maggio del 1993, un'autobomba esplose vicino alla casa del giornalista Maurizio Costanzo, all'epoca molto impegnato nella lotta alla Mafia

L'esplosione della bomba non provocò fortunatamente morti ma 24 feriti, tra i quali l'autista e una delle guardie del corpo del giornalista

Matteo Messina Denaro fece perdere le sue tracce nell'estate del 1993. L’ultima volta era stato visto in vacanza a Forte dei Marmi insieme con i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Poi nei suoi confronti è stato emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materiale esplosivo, furto e altri reati minori. E da allora Messina Denaro è rimasto irreperibile, fino all'arresto del 16 gennaio 2023

Matteo Messina Denaro è stato arrestato il 16 gennaio 2023 nella clinica La Maddalena di Palermo dove era in cura, sotto falso nome, da almeno un anno. Al momento dell'arresto si trovava nella struttura per delle procedure legate a un day hospital 

 LE LETTERE DEL BOSS A SVETONIO, 007 SOTTO COPERTURA

IL CARTEGGIO CON L'EX SINDACO VACCARINO 'ARRUOLATO' DAI SERVIZI

(di Franco Nicastro) -  Sfoggiava una cultura classica ma si rammaricava di non avere preso la laurea. Si identificava con un personaggio letterario per potersi proclamare "capro espiatorio". Poi tornava con nostalgia alla "tradizione" di famiglia ma confidava di non credere più in Dio: per gestire i suoi tormenti esistenziali gli bastava ormai la religione di Cosa nostra.

 Il ritratto privato di Matteo Messina Denaro, raccontato da lui stesso, riaffiorò dalle cinque lettere scambiate tra il 2004 e il 2006 con l'ex sindaco di Castelvetrano, Antonino Vaccarino, morto dopo alterne vicende giudiziarie. Non un personaggio qualsiasi, Vaccarino, ma una figura controversa: massone, insegnante di lettere, ma soprattutto amico del padre di Matteo, Francesco Messina Denaro. Venne condannato per traffico di stupefacenti ma assolto dall'accusa di mafia. Per proteggere la propria latitanza e il suo interlocutore, il padrino scelse per sé un nome di copertura: Alessio. E a Vaccarino attribuì quello di Svetonio, lo storico romano, come se si trattasse di scrivere un'edizione aggiornata del "De viris illustribus".

Matteo 'Alessio' neanche lo sospettava ma Svetonio, che pure considera una persona meritevole di stima e di fiducia, era stato arruolato dai servizi segreti per stanare proprio lui, il grande latitante. Fu Vaccarino, nel perfetto ruolo dell'agente provocatore, a cercare il contatto con Alessio. E, dopo averlo agganciato tramite il fratello, gli scrisse: "Posso offrirti il mio cuore, garantirti il mio paterno affetto, e di questo non v'è dubbio alcuno". Decisivo era però il ricordo di don Ciccio, "tuo eccezionale genitore", morto da latitante per cause naturali. La mozione degli affetti colse nel segno: Messina Denaro si commosse, rispose e cominciò una corrispondenza che passò lungo i canali già ampiamente sperimentati dei 'pizzini', passati di mano in mano prima di arrivare al destinatario.

Il tono confidenziale, con Messina Denaro che cercava sempre un registro colto e mostrava in ogni caso di avere letto Daniel Pennac, riconosceva nel capro espiatorio impersonato dal signor Malaussène. "Di me che dire. Non amo parlare di me stesso - scriveva - e poi oramai è da anni che sono gli altri a parlare di me e magari ne sanno più di me medesimo; credo, mio malgrado, di essere diventato il Malaussène di tutti e di tutto, ma va bene così… Un uomo non può cambiare il proprio destino, l'importante è viverlo con dignità, io sono a posto con la coscienza e sono sereno".

Bon aveva letto solo Pennac. Citava Virgilio e l'Eneide, zoppicava con il latino di Orazio, orecchiava Kant. E mentre si interessava, come sempre, della gestione degli affari (la nuova stazione di servizio, gli appalti dell'Anas) lanciava strali all'antimafia. Ce l'aveva con i giudici, con i collaboratori di giustizia ma soprattutto con lo Stato per il quale il "fenomeno Sicilia" è ridotto alla stregua di "un'orda di delinquenti e una masnada di criminali". L'ultima lettera a Svetonio è del 28 giugno 2006. Bernardo Provenzano è stato arrestato. La polizia ha trovato nel suo archivio anche i pizzini di Messina Denaro che perciò è "imbestialito". Le comunicazioni si fermano. "Da questo momento non ci sentiamo più".

Ma il boss non sapeva che, oltre a Provenzano, pure Svetonio collezionava le sue lettere, regolarmente passate ai servizi. Quando lo scoprì si tolse la maschera di Alessio, riassunse il volto di Matteo e mandò al suo interlocutore un ultimo messaggio terrificante: "La sua illustre persona fa già parte del mio testamento...in mia mancanza verrà qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti". Ma prima della vendetta del padrino è arrivata la pandemia: Svetonio è morto di Covid nel maggio del 2021.

(ANSA il 16 gennaio 2023) - Occhi lucidi, sorrisi, tanta tantissima commozione. E' un giorno di festa oggi per la Procura di Palermo guidata da Maurizio de Lucia che, dopo 30 anni di ricerche, ha arrestato il boss latitante Matteo Messina Denaro. Il blitz è stato coordinato anche dall'aggiunto Paolo Guido. Nella stanza del capo dei pm c'è un via vai di magistrati: sostituti storici, giudici appena arrivati, tutti parte della stessa squadra. E la felicità si legge anche negli occhi del personale amministrativo: cancellieri, segretari. Perchè che l'ultima Primula Rossa di Cosa nostra prima o poi sarebbe stata catturata nell'ufficio che fu di Giovanni Falcone ci hanno sempre creduto. "Sono commossa come nell'altra storica giornata che ricordo, quella della cattura di Provenzano", dice una delle funzionarie da anni in Procura. Ed è un giorno di festa anche per le scorte che con coraggio pazienza proteggono ogni giorno i magistrati di uno degli uffici inquirenti più caldi d'itaia.

"L'arresto di Matteo Messina Denaro è senza dubbio un risultato importantissimo, frutto di lunghe e difficili indagini. Fondamentale è stata la professionalità e la dedizione dell'Arma dei carabinieri e, in generale, di tutte le forze dell'ordine che in questi anni non hanno mai cessato di cercare l'ultimo boss stragista ancora libero". Lo ha detto all'ANSA il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia.

(ANSA il 16 gennaio 2023) - (di Franco Nicastro e Francesco Nuccio) - "Prima o poi lo prenderemo". Nella promessa di mettere fine alla latitanza di Matteo Messina Denaro si sono esercitati in questi anni ministri dell'Interno, investigatori, magistrati. L'ultima "primula rossa" di Cosa Nostra, 60 anni, arrestato oggi, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta proprio trent'anni fa. E mentre la polizia scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l'immagine giovanile del boss il suo impero miliardario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato. È così che è stata smantellata la sua catena di protezione e di finanziamento. È così che è stato demolito il mito di un padrino che gestiva un potere infinito ma viveva come un fantasma, anche se la sua invisibilità non gli ha impedito di diventare padre due volte.

 Di una figlia si sa tutto: il nome, la madre, le scelte che l'hanno portata a separare la propria vita dall'ombra pesante di un padre che forse non ha mai visto. Ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza in casa della nonna, poi con la madre ha cambiato residenza: non è facile convivere con lo stress delle perquisizioni, dei controlli e delle irruzioni della polizia. Dell'altro figlio si sa invece quel poco che è trapelato dalle intercettazioni: si chiama Francesco, come il vecchio patriarca della dinasty, ed è nato tra il 2004 e il 2005 in quel lembo della provincia di Trapani, fra Castelvetrano e Partanna, dove Matteo Messina Denaro ha costruito il suo potere economico e criminale. Attento a gestire la sua latitanza, e a proteggerla con una schiera di fiancheggiatori, uno dei boss più ricercati del mondo ha lasciato di sé solo l'immagine di un implacabile playboy con i Ray Ban, le camicie griffate e un elegante casual.

E dietro questa immagine ormai scolorita una scia di leggende: grande conquistatore di cuori femminili, patito delle Porsche e dei Rolex d'oro, maniaco dei videogiochi, appassionato consumatore di fumetti. Di uno soprattutto: Diabolik, da cui ha preso in prestito il soprannome insieme a quello con il quale lo chiamavano i suoi fedelissimi. Un altro ancora glielo hanno affibbiato i suoi biografi "'U siccu": testa dell'acqua, cioè fonte inesauribile di un fiume sotterraneo. Anche nei soprannomi Matteo Messina Denaro impersonava il doppio volto di un capo capace di coniugare la dimensione tradizionale e familiare della mafia con la sua versione più moderna. Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismo politico. Per questo è stato considerato l'erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre don Ciccio altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998.

Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. E da allora Diabolik era sempre riuscito, a volte con fortunose acrobazie degne dell'imprendibile personaggio del fumetto, a sfuggire ai blitz. Su di lui era stata posta una taglia da un milione e mezzo, ma per fargli attorno terra bruciata gli investigatori hanno stretto in una tenaglia micidiale la rete dei fiancheggiatori. Neanche i suoi familiari sono stati risparmiati: la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, un nipote. E tanta gente fidata, costituita da prestanome spesso insospettabili, che hanno subito ripetuti sequestri patrimoniali. Il "fantasma" di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all'ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo.

Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent'anni, a cominciare dalle stragi del '92 in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è stata riconosciuta la sua mano. Lui stesso, del resto, si vantava di avere "ucciso tante persone da riempire un cimitero". Ma se la fama di uomo spietato gli viene riconosciuta qualche dubbio si è insinuato sulla sua reale capacità di ricostruire, dopo gli arresti di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, la struttura unitaria di Cosa nostra intaccata dagli arresti e da un processo di frammentazione. Un boss che ha traghettato Cosa Nostra nel secondo millennio, senza però riuscire ad evitare di fare la stessa fine dei vecchi padrini.

L’ultima primula rossa. Perché l’arresto di Matteo Messina Denaro non deve essere la fine di un percorso. Pietro Mecarozzi su L’Inkiesta il 17 Gennaio 2023.

Il boss mafioso è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza, all’interno della clinica privata “La Maddalena” di Palermo. Una vittoria storica, che tuttavia non deve far abbassare la guardia. La mafia è un’organizzazione strutturata, non è un’emergenza temporanea: fa perno sui suoi principali esponenti, ma è organizzata per sopravvivere a essi

Lo hanno cercato in tutto il mondo, alla fine è stato trovato a Palermo. Il boss mafioso Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza, all’interno della clinica privata “La Maddalena” di Palermo, dove un anno fa era stato operato e da allora stava facendo delle terapie in day hospital. Nel documento falso esibito ai sanitari c’era scritto il nome di Andrea Bonafede. L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido.

«Mi chiamo Matteo Messina Denaro», ha risposto a un carabiniere che gli ha chiesto come si chiamasse. Forse stanco di nascondersi, forse stremato dalla malattia, o soltanto consapevole di non avere vie di fuga. La clinica siciliana era circondata dai militari col volto coperto davanti a decine di pazienti. La certezza è arrivata tre giorni fa. I magistrati, che da tempo seguivano la pista, hanno dato il via libera per il blitz. I carabinieri del Gis erano già alla clinica Maddalena dove, da un anno, Messina Denaro si sottoponeva alla chemioterapia. Il boss, che aveva in programma dopo l’accettazione fatta con un documento falso, prelievi, la visita e la cura, era all’ingresso.

 Una malattia confermata anche da Salvatore Baiardo, colui che decenni fa organizzò la latitanza dei fratelli Graviano: «Messina Denaro è malato, vuole farsi arrestare» aveva detto. Parole a cui nessuno aveva dato peso, che oggi assumo un tono inquietante. Dopo il blitz nella clinica, l’ormai ex superlatitante è stato trasferito prima nella caserma San Lorenzo, poi all’aeroporto di Boccadifalco per essere portato in una struttura carceraria di massima sicurezza. La stessa cosa accadde al boss Totò Riina, arrestato il 15 gennaio di 30 anni fa.

«Un giorno importante, anche se rimane l’amarezza che ci siano voluti tutti quest’anni, nei quali Messina Denaro ha continuato a operare in questo territorio», commenta Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso dalla mafia. «È uno di quelli che hanno ucciso mio fratello, mentre quelli che l’hanno voluto morto sono altri: non sono ancora venuti alla luce. Non possono dimenticare quello che diceva Paolo: “Quando sarò ucciso, sarà stata la mafia ad uccidermi, ma non sarà stata la mafia ad aver voluto la mia morte”».

Sanguinario ma con il fiuto per gli affari, Matteo Messina Denaro compare in ogni pagina buia della storia criminale del nostro Paese. Figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano Ciccio, storico alleato dei corleonesi di Totò Riina, Messina Denaro era latitante dall’estate del 1993 ed è stato condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra cui quello di Giuseppe Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido a 15 anni, come ritorsione nei confronti del padre Santino Di Matteo, ex mafioso diventato collaboratore di giustizia dopo il suo arresto nel 1993. Insieme a Totò Riina, latitante per 23 anni, e Bernardo Provenzano, scappato alle forze dell’ordine per 38 anni, è stato tra i mandanti delle stragi del ’92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e degli attentati del ’93 a Milano, Firenze e Roma.

«Messina Denaro non era solo il capomafia di Castelvetrano, ma l’ultimo vero vertice di Cosa nostra, terminale dei rapporti tra la mafia siciliana e la ’Ndrangheta calabrese, custode dei segreti delle trattative tra Stato e mafia degli anni Novanta. Con il suo arresto finisce la cosiddetta stagione dei corleonesi» spiega Francesco Forgione sindaco del comune di Favignana ed ex presidente della Commissione parlamentare Antimafia dal 2006 al 2008. «Dell’arresto, però, c’è anche un aspetto negativo: adesso dovremmo abituarci a una mafia inabissata, che sceglie gli accordi politici e gli affari, ancora più silente e infida».

Una vittoria storica, quindi, nella lotta alla mafia, che tuttavia non deve essere intesa come un punto di arrivo. «Non si dica che la mafia è sconfitta. Questo è fondamentale», esorta Pietro Grasso, già magistrato ed ex presidente del Senato. Catturando Messina Denaro si lancia un messaggio importante: «Alla fine la giustizia raggiunge i colpevoli, facendo crollare i miti dell’impunità delle organizzazioni criminali». Ma non basta. «Ci sarà un terremoto negli ambienti mafiosi, in particolare per il mandamento di Trapani. Ma a breve verrà nominato un reggente e la vita criminale del clan continuerà», continua Grasso.

Cosa cambia quindi con l’arresto del boss? «È un giorno da ricordare, ma la battaglia è ancora lunga. La mia paura è che ci si possa accontentare: dobbiamo ricordarci che la mafia è un’organizzazione strutturata nel tempo, non è un’emergenza. Fa perno sui suoi principali esponenti, ma è organizzata per sopravvivere a essi», confessa Gian Carlo Caselli, ex magistrato. «Dobbiamo occuparci non solo del lato militare, ma anche dell’altro punto di forza delle mafie, che sono le relazione esterne, i rapporti con la politica e le infiltrazioni nell’economia. E la politica deve recuperare la lotta alle mafie come punto di interesse nazionale».

“U siccu”, il magro, “U signurinu”, per l’eleganza o “U bene”, per dire della devozione. Alcuni lo chiamano “Olio”, che è il prodotto tipico di Castelvetrano, altri “Diabolik”. Messina Denaro è il simbolo di una mafia antica capace di evolversi rimanendo ancorata al territorio di origine. Il boss si era gettato nel commercio e nelle energie rinnovabili, e al contempo aveva costruito una rete di protezione enorme che le ha permesso di vagare indisturbato per oltre trent’anni, senza che nessuna indagine riuscisse a sfiorarlo.

«L’arresto sarà decisivo se verranno date delle risposte concrete alla molte domande che la storia di Matteo Messina Denaro porta con sé», aggiunge Luigi Gaetti, ex vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia. Per esempio: secondo alcuni pentiti, dall’ultimo covo di Riina, Messina Denaro avrebbe portato via documenti, agende, prove e segreti. «Rimangono i non detti sulla stagione delle stragi, i legami con la politica e i grandi affari delle mafie. Oltre alla misteriosa latitanza dell’ex primula rossa, sulla quale dobbiamo capire chi ha agito a suo favore».

Quanto a una sua possibile collaborazione. L’ex boss Graviano è stato arrestato, ed è rimasto in silenzio per decenni. Messina Denaro, cosa farà? «Sarà molto difficile, ma spero vivamente che possa diventare un collaboratore di giustizia, e possa aiutare a far luce sui misteri che inquinano il passato», conclude Grasso.

Per Paolo Borsellino c’è anche un altro aspetto da tenere in considerazione: «C’è il sospetto che questa cattura sia ancora una volta frutto di un baratto con la criminalità organizzata. Non vorrei che a fronte di questo arresto ci sia la liberazione dall’ergastolo ostativo di personaggi come i Graviano. Mi aspetto di non vedere pagato nel prossimo futuro il prezzo di questa cattura, lo Stato deve avere voglia di verità, senza aver paura di quello che Messina Denaro potrebbe svelare».

Chi è Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss della stagione stragista della mafia. Andrea Soglio su Panorama il 16 Gennaio 2023.

Feroce, spietato, amante della bella vita e delle donne dice che con tutte le persone che ha ammazzato “ci si può riempire un camposanto” Dopo 30 anni di latitanza, mesi di indagini sulla pista delle cure oncologiche e tre giorni di blitz alla clinica

L’ultimo dei grandi boss della stagione stragista di Cosa Nostra per la prima volta finisce in carcere. Il boss che non è mai stato in galera Caso più unico che raro, va detto. Da Provenzano a Riina tutti i grandi capi della mafia storica, seppur in gioventù o per reati minori, avevano conosciuto le patrie galere. Messina Denaro, no. Pupillo protetto e poi reietto di Totò Riina di Matteo Massina Denaro non esistevano impronte digitali e foto segnaletiche e solo la prova del DNA potrà confermare le parole del superlatitante che ai carabinieri ha detto: “Sono Matteo Messina Denaro”.

Chi è Matteo Messina. Denaro Classe 1962, 60 anni, nato a Castelvetrano (Trapani) Matteo Messina Denaro è stato il capo mandamento di Castelvetrano dalla morte del padre nel 1998 e dopo fine dell’epoca Riina e Provenzano è stato ritenuto il re indiscusso della mafia siciliana per molto tempo. Il suo arresto, però, secondo molti osservatori non arriva per caso e, oltre a essere frutto dell’instancabile lavoro di tutte le forze dell’ordine e dell’incrocio di dati raccolti per anni da ogni fonte – il famoso metodo Dalla Chiesta, rappresenta la fine di un’epoca, quella dell’attacco terroristico di Cosa nostra alle istituzioni e alla convivenza civile, di cui il boss di Castelvetrano è stato uno dei protagonisti più feroci. E con la fine di un’epoca l’inizio di una nuova era. A capo della strategia della tensione degli anni ‘90 La strategia della tensione corleonese culminata con gli omicidi del giudici Falcone e Borsellino (1992-1993) ha visto Messina Denaro sempre in prima linea. Feroce, spietato, efferato autore materiale di almeno 20 omicidi l’ex latitante è stato oltre a un boss anche l’icona stessa del regolamento dei conti mafioso. L’omicidio di Giuseppe Di Matteo E’ stato lui ad autorizzare, tra gli altri, l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito di mafia Santino Di Matteo – uno degli “operai” di Capaci –. Il ragazzino di 12 anni è stato prima strangolato e poi sciolto nell’acido dopo 26 mesi di sequestro perché sul padre era “un cornuto” e non ha tenuto la bocca chiusa. Messina Denaro chiamava il bambino ‘u canuzzu, il cane. Nato per uccidere Figlio del capomandamento Francesco “Ciccio” Messina Denaro il giovane Matteo è stato allevato per uccidere. Il padre, già in giovanissima età, lo mandava a regolare i conti nella provicia di Trapani e sembra che il primo omicidio lo abbia compiuto quando era ancora minorenne. Il vero “debutto” però è avvenuto a 18 anni quando il padre lo fece partecipare agli omicidi di quattro uomini d’onore della famiglia di Alcamo in dissenso con le strategie trapanesi e corleonesi, strangolati e sciolti nell’acido, secondo le usanze del tempo.

Il padrino Riina. Suo padrino d’eccezione è stato Totò Riina che, intercettato in carcere nel 2013 a proposito dei Messina Denaro ha raccontato: “Suo padre buonanima era un bravo cristiano, un bel cristiano ‘u zu Ciccio di Castelvetrano… ha fatto tanto anni di capomandamento… a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero… però era un cristiano perfetto, un orologio”. Poi, a proposito di Matteo Messina Denaro ha aggiunto: “Lo ha dato a me per farne quello che ne dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia…”. La “scomunica” del capo dei capi, arrivata come una falce, era dovuta alla sua cattiva interpretazione delle leggi della mafia e alla scelta di preferire “invischiarsi” con le imprese piuttosto che con la politica cosa che, invece, la mafia aveva sempre fatto in maniera efficace. In questo modo avrebbe messo a repentaglio il destino stesso dell’organizzazione. “A me dispiace dirlo – diceva Riina in carcere - questo fa il latitante, fa questi pali… eolici, i pali della luce… Questo si sente di comandare, si sente di fare luce ovunque, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di...” Proprio in questo Matteo Messina Denaro è stato il filo di congiunzione tra la vecchia mafia stragista e la nuova mafia ormai parte integrate del DNA dell’economica. I terribili anni ‘90 Il decennio tra il 1989 e il 1999 sono stati gli anni clou dell’impero di Messina Denaro.

La prima denuncia per associazione mafiosa, infatti, risale al 1989 quando viene ritenuto coinvolto nella sanguinosa faida tra i clan Accardo e Ingoglia di Partanna. Nel 1991 viene ritenuto responsabile materiale dell'omicidio di Nicola Consales, proprietario di un albergo di Triscina dove lavorava una ragazza austriaca amante di Matteo Messina Denaro che si era lamentato “di quei mafiosetti sempre tra i piedi” riferito al boss e ai suoi amici. L’uomo è stato strangolato. Nel 1992, come riportano le cronache biografiche dell’ex latitante, Messina Denaro fece parte di un gruppo di fuoco, composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani, inviato a Roma per compiere appostamenti nei confronti di Maurizio Costanzo e per uccidere Giovanni Falcone e il ministro Claudio Martelli, facendo uso di kalashnikov, fucili e revolver, procurati da Messina Denaro stesso. Lo stop era arrivato da Totò Riina che voleva che Falcone fosse ucciso diversamente, in maniera più eclatante. Costanzo, invece, è uscito miracolosamente illeso dall’attentato di Via Fauro a Roma il 14 maggio 1993 quando un’auto-bomba era stata posizionata per far saltare in aria lui e la moglie Maria De Filippi. La “colpa” di Costanzo era stata quella di prendere posizioni molto dure nei confronti della mafia dopo l’omicidio di Libero Grasso. Nel luglio 1992 Messina Denaro fu tra gli esecutori materiali dell'omicidio di Vincenzo Milazzo (capo della cosca di Alcamo), che aveva cominciato a mostrarsi insofferente all'autorità di Riina; pochi giorni dopo, Messina Denaro strangolò barbaramente anche la compagna di Milazzo, Antonella Bonomo, che era incinta di tre mesi: i due cadaveri furono poi seppelliti nelle campagne di Castellammare del Golfo. In seguito, Messina Denaro fece anche parte del gruppo di fuoco che compì il fallito attentato al vicequestore Calogero Germanà, a Mazara del Vallo (14 settembre 1992).

Dopo l'arresto di Riina, Messina Denaro fu favorevole alla continuazione della strategia degli attentati dinamitardi, insieme ai boss Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e ai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Tra gli altri organizzò l'attentato ai danni di Totuccio Contorno, coadiuvato da Leoluca Bagarella e in tutto sono una ventina gli ergastoli ai quali è condannato. La latitanza è iniziata ufficialmente nel 1993, giusto 30 anni fa. La latitanza Era l’estate del 1993 e Messina Denaro si era recato in vacanza a Forte dei Marmi insieme ai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Da allora si è reso irreperibile e nei suoi confronti è stato emesso un mandato di cattura per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materiale esplosivo, furto e altri reati minori. Nel 1998, dopo la morte del padre Francesco (stroncato da un infarto durante la latitanza), Messina Denaro è diventato capomandamento di Castelvetrano. Fino al 2006 era solito scambiarsi pizzini con Provenzano firmandosi con lo pseudonimo di Alessio e lo scambio dei pizzini veniva considerato il metodo di comunicazione più sicuro e infallibile dalle cosche. Grande amante delle donne Messina Denaro ha avuto una figlia durante la latitanza. Si chiama Lorenza e del padre non vuole neanche sentir parlare. E’ sempre stato dove si pensava che fosse Si pensava che il capomandamento potesse essere all’estero; era stato segnalato a Barcellona dove si era curato una forte miopia in una clinica privata ma anche a Marsala dove è stato sottoposto a un intervento di cura per un tumore al colon e invece non si è mai mosso dalla sua Sicilia. Pare che il boss sia molto malato e si pensa che sia stato “offerto” alla giustizia per andare avanti con la nuova generazione delle cosche visto che Diabolik o U Siccu, come lo chiamavano, già da tempo non avrebbe più avuto quel ruolo di primo piano che aveva avuto negli anni 90.

Matteo Messina Denaro, l’ultimo stragista. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

Tra i preferiti di Riina e «combinato» mafioso giovanissimo, è feroce a tal punto da far sciogliere nell’acido il figlio 12enne di un pentito

Hanno arrestato il re. Cosa Nostra, l’unica fra le organizzazioni criminali, continua a mantenere una struttura piramidale, mentre le altre si costituiscono come confederazioni, non hanno un unico sovrano. Riina è morto in carcere da re. Provenzano, in tutti i suoi anni di latitanza, operava da monarca ma formalmente era viceré.

Matteo Messina Denaro, ovvero il vertice di Cosa Nostra, l’ultimo membro di una mafia che appartiene al passato, alla vecchia generazione, le cui scelte sanguinarie hanno letteralmente consumato il potere dell’organizzazione. Classe 1962, Matteo Messina Denaro è figlio di un uomo d’onore; viene «combinato» mafioso giovanissimo, ed è stato protagonista dell’ascesa dell’organizzazione più feroce e mediatica che il crimine organizzato abbia conosciuto nell’Europa occidentale: la mafia corleonese. I corleonesi cominciano una vera e propria rivoluzione mafiosa, fanno la guerra ai palermitani in nome della purezza dei princìpi mafiosi: Bontade e Inzerillo stanno trasformando Cosa Nostra — secondo la loro visione — in una sorta di formazione politica, al servizio dei potentati politici, che decide gli omicidi autonomamente senza discuterne con tutte le famiglie, esautorando sostanzialmente il ruolo della Commissione; i corleonesi vogliono combatterli, giustificano il loro colpo di stato difendendo l’importanza della collegialità delle decisioni e il ritorno alle regole d’onore che vogliono l’organizzazione in posizione dominante rispetto la politica.

In realtà quest’operazione è soltanto di facciata, perché, esattamente come capita in ogni colpo di stato, una volta ottenuto il potere, i corleonesi accetteranno soltanto la presenza delle famiglie loro alleate e cancelleranno tutte le altre. È proprio qui che Matteo Messina Denaro prende spazio: condivide con la Cupola di Cosa Nostra, ma soprattutto con Riina, Madonia, Bagarella, la necessità di spendere tutto il capitale violento che hanno. Le esecuzioni sono il metodo più veloce per imporre il proprio potere, anche se poi altrettanto velocemente il potere ottenuto in questo modo va perso, proprio in nome della stessa violenza. Messina Denaro è uno dei preferiti di Riina perché ha testa e violenza, non vuole essere un uomo d’onore pronto a scappare dinanzi alle decisioni difficili una volta ottenuta una vita agiata e una rispettabilità. Non ha una vocazione politica come Bontade o affarista come Buscetta. Messina Denaro ha estro organizzativo è un soldato, obbedisce alla regola mafiosa senza discutere, partecipa al commando che nel 1992 uccide Antonella Bonomo, incinta di tre mesi, strangolata perché moglie del boss Vincenzo Milazzo che aveva osato iniziare a criticare il troppo sangue sparso. Il suo essere incinta condanna Antonella Bonomo, se avesse partorito un maschio avrebbe cercato di vendicare il sangue del padre. Prima che l’organizzazione decidesse di minacciare lo Stato non era mai accaduto, quando aveva ucciso giudici, giornalisti, che si arrivasse al terrorismo, all’esplosione di bombe in strada com’è successo in via Fauro e davanti alla Basilica di San Giovanni Laterano e alla chiesa di San Giorgio al Velabro a Roma, in via dei Georgofili a Firenze, in via Palestro a Milano. Messina Denaro è convinto che sia l’unica strada, l’unica capace di mandare allo Stato un messaggio chiaro: o arretrate, e permettete all’organizzazione e ai suoi affari di andare avanti e soprattutto mantenete la parola, ( i voti che Cosa Nostra vi ha procurato) oppure non avrete pace. Le bombe hanno lo scopo di terrorizzare, di far cadere di volta in volta le maggioranze politiche sotto la pressione degli attentati. Questa è la linea di Messina Denaro, a farla entrare in crisi saranno solo i pentiti. La Barbera, Di Maggio, Di Matteo: sono uomini d’onore, quindi assassini convinti di appartenere a un’organizzazione che permette loro di crescere economicamente, che ha dato loro dei codici, ma non avrebbero mai immaginato un’evoluzione fatta di bombe, di stragi non riescono a seguire questi ordini e cominciano a collaborare con lo Stato. La risposta di Messina Denaro e i vertici di Cosa Nostra è feroce, sequestrano il figlio di Santino Di Matteo, Giuseppe.

Brusca, Bagarella, Graviano, si presentano al maneggio dove il bambino va a lezione di equitazione, si identificano come poliziotti del nucleo operativo protezione pentiti, gli dicono che l’avrebbero portato dal padre. Il bambino si cambia subito, è contento di rivedere suo padre e invece verrà sequestrato. In genere non si uccidono i parenti dei pentiti perché significa sostenere le dichiarazioni di veridicità di quel pentito. Si cerca di intervenire quando il pentito non ha ancora detto tutto, o di smentirlo in tribunale, senza toccare la sua famiglia. Ma in questo caso, Matteo Messina Denaro non vuole semplicemente che Santino fermi la sua collaborazione, ma che ritratti. È un messaggio importante da far arrivare a tutti: anche se parlate, vi costringerò a rimangiarvi tutto. E così, prima passano in rassegna i parenti di Santino Di Matteo, che però sono uomini d’onore che hanno preso distanza da lui, anche la moglie, quindi tutte persone intoccabili secondo il codice di Cosa Nostra. Ma, quando si parla di codice, è bene capire che è una finzione, un paravento messo a coprire gli atti più violenti considerandoli oltre il perimetro consentito. E la violenza mafiosa non ha mai perimetri. Rapiscono un bambino (rinnegando la regola che non si toccano donne e bambini né si uccide una persona dinanzi a suo figlio) lo tengono nascosto per due anni, lo tengono legato, lo vessano. Gli dicono subito che è in quelle condizioni perché il padre ha parlato, quel «crastu», non vale niente. Il bambino comincia a odiare il padre per averlo spinto in quelle condizioni, mandano sue fotografie al nonno e alla madre. Il padre cercherà, di nascosto dalla polizia, di andare a recuperarlo lui stesso insieme ad altri pentiti, ma non ritratta; non potrebbe nemmeno farlo, con tutti i dettagli che ha fornito ritrattare non avrebbe salvato né lui, né suo figlio. Giuseppe verrà strangolato l’11 gennaio 1996 e sciolto nell’acido, dopo una detenzione di 779 giorni: il sequestro più lungo nella storia dei rapimenti italiani, e tutto questo l’ha permesso Messina Denaro. Il suo legame con la politica è dimostrato in molte parti della sua vita, ad esempio quando i suoi uomini, nel 2006, si incontrano in un’autofficina nel trapanese, dove scelgono la posizione politica sulla quale spingere: «Se vincono i comunisti ce ne dobbiamo andare», dicono. E viene chiesto l’appoggio elettorale a Berlusconi. Il politico di riferimento, però, è Antonio D’Alì, erede della famiglia che aveva fondato la Banca Sicula di Trapani, la più importante banca privata siciliana, fondatore di Forza Italia e sottosegretario del ministro dell’Interno dal 2001 al 2006. Quello con D’Alì è un rapporto antico: i Messina Denaro ne gestivano le terre della sua famiglia, il padre e il nonno ne erano fattori. D’Alì è stato sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa fino al 2016, quando era stata decisa l’assoluzione in appello. Ma nel 2018, i giudici della sezione misure di prevenzione segnalano che si tratta di una figura a disposizione di Matteo Messina Denaro e di Salvatore Riina. D’Alì viene condannato a 6 anni per concorso in associazione mafiosa ed ora in carcere. Viene condannato il 14 dicembre scorso, la data va pesata perché circa un mese dopo Messina Denaro viene arrestato. U «Siccu» questo il soprannome di Messina Denaro ha sempre saputo tenere i rapporti con la politica e con l’impresa e conserva la caratteristica principale per un capo: da un lato la spietatezza militare, dall’altro la capacità economica.

Del resto, viene scoperto che riciclava denaro reinvestendolo nei supermercati Despar, un marchio in franchising: i supermercati sono fonte di distribuzione del lavoro sul territorio e di assistenza tramite gli apparati di sconti sui prodotti per la casa e sul cibo; ha una capacità imprenditoriale all’avanguardia, che lo porta a investire anche nel gioco d’azzardo e nei parchi eolici. Per comprendere la quantità di denaro, in una sola operazione nel 2007 la Dia sequestra a Giuseppe Grigoli, un imprenditore vicino considerato prestanome di Messina Denaro, 700 milioni di euro in immobili e negozi di abbigliamento e preziosi. E parliamo di una sola, singola operazione. Nel 2010 la DIA sequestra beni per 1.5 miliardi di euro a Nicastri ritenuto prestanome del boss e che investiva nell’energia eolica. Nel 2012 vengono sequestrati altri 1. 5 miliardi di euro legati agli investimenti turistici. Non devono stupire i trent’anni di latitanza, perché in realtà Matteo Messina Denaro non è stato davvero cercato per circa vent’anni per arrestare un capo c’è bisogno di un investimento vero, che è avvenuto solo recentemente. Accadde lo stesso per Provenzano, arrestato dopo quarantatré anni di latitanza, in verità cercato per davvero da molto meno tempo. Come tutti i capi, non si spostano mai dal loro territorio, per due ragioni. La prima: il loro territorio è sicuro. Spostarsi all’estero garantisce l’anonimato, ma non la sicurezza. Non puoi sapere se qualcuno ti vende o se qualcuno inizia a entrare nel quartiere a pedinarti o a chiedere informazioni, non verrai mai avvertito, non sai di chi puoi fidarti. Il proprio territorio, invece, è una garanzia: se qualcuno ti tradisce, sa che verrà punito insieme alla sua famiglia, qualsiasi informazione ti arriva in tempo e cambi luogo. L’altra questione è legata alla gestione: se vai via, devi costruire un viceré, che prima o poi diventerà re. Messina Denaro viene dalla tradizione che ancora perseguitava le parole. Discende dalla Cosa Nostra che non ha ancora compreso che non puoi impedire di citare l’organizzazione o di criticare i capi; quella di Matteo Messina Denaro era una Cosa Nostra in cui non potevi pronunciare, non potevi insultare, in cui si veniva puniti per una parola. In questo contesto cresce Matteo Messina Denaro, e con lui finisce la mafia stragista definitivamente. Se lui si pentisse, molte cose potremmo conoscere, ma meno di quante ci aspettiamo. I boss, oggi, sono molto potenti, a fronte di uno Stato fragilissimo. I capi negli ultimi 10 anni quando hanno parlato, non sembrano (almeno ad oggi) aver detto tutto quello che sanno, ma sono consapevoli che allo Stato basta poco. La politica vuole lo scalpo da esibire nel circo mediatico basta un risultato qualsiasi per gridare alla sconfitta della mafia o al grande arresto anche se, a conti fatti, non arrivano grandi rivelazioni. E questo i boss lo sanno. Se anche si dovesse pentire, non direbbe tutto quello che sa. Si parla davvero a uno Stato che sta davvero combattendo le organizzazioni criminali, e non è il nostro caso. Tra qualche giorno l’economia mafiosa sarà dimenticata e dimenticando che rimane l’economia più forte del paese.

Chi è Messina Denaro: le stragi, il legame con Riina, la figlia Lorenza Alagna e le venti condanne per venti delitti. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

Gli ultimi messaggi intercettati sui movimenti. Tra i delitti di cui è stato giudicato responsabile quello del bambino Giuseppe Di Matteo e quello di un vice-direttore d’albergo dove lavorava una ragazza austriaca di cui il boss si era innamorato

Ora che l’ultimo latitante è caduto , la transizione da una mafia all’altra può dirsi completata. Aprendo il capitolo dei segreti da svelare, quelli del passato e quelli del presente. I padrini delle stragi, registi e attori della strategia della tensione corleonese che ha violentato e cambiato la storia d’Italia, sono morti o sono in carcere, alcuni da quasi trent’anni; all’appello mancava solo lui, Matteo Messina Denaro, uno dei “rampolli” di Totò Riina, ricercato dal 1993 da subito dopo l’arresto del “capo dei capi”, mentre era in corso l’attacco terroristico di Cosa nostra alle istituzioni e alla convivenza civile, di cui il boss di Castelvetrano è stato uno dei protagonisti.

Arresto di Matteo Messina Denaro, le reazioni e le ultime notizie

Per poi diventare l’ultimo sopravvissuto alla reazione dello Stato di quella stagione di sangue e di ricatti. Scalando nel frattempo i vertici dell’organizzazione mafiosa, diventandone non solo il capo ma anche un’icona, il simbolo dell’imprendibilità e dei segreti custoditi, dai delitti eccellenti ai rapporti inconfessabili con il potere. Per gli inquirenti e gli investigatori che l’hanno cercato così a lungo era una sfida da vincere; per il “popolo di Cosa nostra” un legame col passato e con la storia. Al punto di essere chiamato in causa forse perfino strumentalmente, da chi pensava di spendere il suo nome per conservare la propria influenza.

Era il sospetto di un mafioso di medio calibro, della provincia trapanese, che - intercettato da una delle migliaia di microspie che in questi anni hanno invaso la Sicilia nel tentativo di raccogliere una voce che potesse portare al superlatitante - diceva: «Io sono del parere che questo qualche giorno, a meno non lo abbia già fatto, si ritira… e gli altri vanno a fare cose a nome suo quando lui ormai non c’è più qua…».

Di Matteo Messina Denaro rifugiato all’estero s’è parlato spesso: una volta in Spagna, un’altra in Albania o chissà in quale angolo della terra. Ma tutte le indagini, alla fine, ritornavano sempre in Sicilia, nel triangolo fra Castelvetrano, Marsala e Trapani che fu il suo regno e prima ancora del padre Francesco, morto latitante; lì c’erano e hanno germinato le radici mafiose di una famiglia che è sempre stata “nel cuore” di Totò Riina.

E alla fine l’hanno preso a Palermo. «Sono il quarto di sei figli e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi», dettò a verbale Matteo, negli uffici della Squadra mobile di Trapani, il 30 giugno 1988, ascoltato come testimone nell’indagine per un omicidio. Omettendo di aggiungere che aveva proseguito l’attività di “don” Ciccio Messina Denaro anche nel settore dei rapporti mafiosi.

Un anno dopo il padre lo fece partecipare agli omicidi di quattro uomini d’onore della famiglia di Alcamo in dissenso con le strategie trapanesi e corleonesi, strangolati e sciolti nell’acido, secondo le usanze del tempo. Ma secondo il racconto dei pentiti, Matteo aveva ucciso anche prima, quando era ancora «un ragazzino», addirittura minorenne. La contabilità ufficiale dei morti ammazzati coincide con almeno venti condanne all’ergastolo per altrettanti delitti, tra i quali quello del bambino Giuseppe Di Matteo, sequestrato e ammazzato per vendetta e per dare l’esempio, dopo il pentimento del padre Santino, uno dei manovali della strage di Capaci; e quello di un vice-direttore d’albergo dove lavorava una ragazza austriaca di cui Matteo si era innamorato, e che si lamentava perché quel ragazzotto strafottente e i suoi amici frequentavano l’hotel mettendone a rischio il buon nome.

Il legame stretto dei Messina Denaro con Totò Riina lo confermò lo stesso Riina nei suoi colloqui con il compagno di detenzione, intercettati in carcere nel 2013: «Suo padre buonanima era un bravo cristiano, un bel cristiano ‘u zu Ciccio di Castelvetrano… ha fatto tanto anni di capomandamento… a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero… però era un cristiano perfetto, un orologio». Poi passò a parlare del figlio: «Lo ha dato a me per farne quello che ne dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia…». Finché non cominciò a pensare prima di tutto a sé, a investire per conto proprio, ad esempio nell’energia eolica, quasi dimenticando il destino dell’organizzazione, guadagnandosi per questo i rimbrotti di Riina: «A me dispiace dirlo, questo fa il latitante, fa questi pali… eolici, i pali della luce… Questo si sente di comandare, si sente di fare luce ovunque, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di…». È quasi una scomunica, quella del padrino corleonese, nei confronti del figlioccio affidatogli da «‘u zu Ciccio», che dopo il 1993 non decise di proseguire con la strategia delle bombe: «Se ci fosse stato qualcun altro avrebbe continuato. E non hanno continuato, non hanno intenzione di continuare…». Si sentiva tradito, Totò Riina: «Una persona responsabile ce l’ho, e sarebbe Messina Denaro, però che cosa per ora questo.... Io non so più niente… Potrebbe essere pure all’estero… L’unico ragazzo che poteva fare qualcosa perché era dritto… Non ha fatto niente… io penso che se n’è andato all’estero».

Invece era ancora in Italia, e aveva messo in piedi un sistema di comunicazione attraverso pizzini recapitati e ritirati in aperta campagna, con i postini che andavano e venivano parlandosi con linguaggio cifrato («il macellaio sono, mi aveva ordinato la fiorentina si ricorda? Domani alle 9,30 se la può venire a prendere») finché le indagini della polizia e della Procura di Palermo nel 2015 smantellarono anche quel “fermo posta”.

Costringendo il latitante a inventarne uno nuovo per restare fuggitivo. Contando su appoggi che non prevedessero più i legami con la famiglia d’origine (finita in galera quasi per intero), ma conservando - anche a distanza - quelli con chi ha continuato a garantirgli protezione: compresi forse pezzi di potere istituzionale o massonico, come ipotizzato più volte dagli inquirenti che gli davano la caccia. Nel 1992 Riina l’aveva spedito a Roma per organizzare lì l’uccisione di Giovanni Falcone, prima di richiamarlo in Sicilia perché aveva optato per «cose più grosse quaggiù», cioè la bomba di Capaci.

Nel frattempo Messina Denaro s’era messo sulle tracce di Maurizio Costanzo, infiltrandosi pure tra il pubblico del teatro Parioli insieme all’altro mafioso stragista Giuseppe Graviano; un anno dopo Costanzo restò miracolosamente illeso nell’esplosione di via Fauro che avrebbe dovuto ucciderlo insieme alla moglie e all’autista. Ma catturato Riina e salito al trono Bernardo Provenzano, Matteo decise di aderire all’idea della «mafia sommersa» messa in pratica dall’ultimo padrino, con il quale interloquiva con i pizzini firmati «Alessio» e sequestrati nel rifugio corleonese dove l’altro padrino fu arrestato nel 2006: «Quello che lei decide per me va bene… I suoi amici sono i miei amici…», scriveva con deferenza Messina Denaro.

I pizzini recapitati a mano sono sempre stata la garanzia migliore per comunicare tentando di sfuggire alle indagini; ancora lo scorso anno gli investigatori ne hanno intercettato qualcuno in cui parlava dei suoi movimenti. Scriveva, dava indicazioni e si lamentava. Persino di come i familiari tenevano la tomba del padre; o della figlia Lorenza, nata durante la sua latitanza, che non solo non aveva rapporti con lui ma nemmeno lo ha mai «onorato» come altri figli o nipoti di boss mafiosi. E’ il lato privato dello stragista che — hanno raccontato i pentiti — custodisce tanti segreti, a cominciare dall’ipotetico archivio segreto di Riina sfuggito ai carabinieri nella mancata perquisizione nel covo del boss di trent’anni fa. Sarebbe, se esistesse, un altro anello della catena che ha tenuto legato un padrino all’altro, nel lungo processo di transizione - generazionale e non solo - che s’è concluso con la cattura più agognata. E finalmente arrivata.

Game over Ascesa e finalmente caduta di Matteo Messina Denaro, stragista e fimminaro. Giacomo Di Girolamo su L’Inkiesta il 17 Gennaio 2023.

Gli affari, le pale eoliche e i cimiteri pieni del boss cresciuto all’ombra di Totò Riina. Oggi ricordiamo, tra le tante vittime, Nicola Consales

«Come lo avete riconosciuto, date che non sapevate nulla di lui?». «Aveva addosso un orologio da trentamila euro». E come potevano sbagliare, la mattina del 16 Gennaio 2023, i Carabinieri. Anche a sessant’anni, anche sotto i colpi di un tumore in stato avanzato, e sotto il peso della latitanza, Matteo Messina Denaro fu Francesco, nato a Castelvetrano il 26 Aprile 1962, professione contadino, capo di fatto di Cosa Nostra siciliana, e fino a ieri imprendibile boss latitante dal 2 Giugno 1993, al lusso non rinuncia.

Da giovane d’altronde, era famoso proprio per questo: le camicie firmate, gli abiti Armani, lo champagne al tavolo, le auto fuoriserie, gli orologi, appunto. E le fimmine. Quante donne per Matteo Messina Denaro, boss atipico anche in questo: mai, prima di lui, a un capomafia sarebbe stato consentito di avere una compagna, e di avere addirittura una figlia fuori dal matrimonio.

Adesso che per lui è arrivato il game over, si chiude il capitolo di una storia criminale lunga quasi mezzo secolo, cominciata quando lui era ragazzino, e già a quindici aveva iniziato a sparare nella Castelvetrano di pietra degli anni Settanta.

Da lì ai primi omicidi il passo è breve, d’altronde lui è figlio di Don Ciccio Messina Denaro, è un predestinato. Suo padre è il capomafia della zona del Belice, nella parte sud occidentale della Sicilia. È spietato, ma anche sconosciuto alle forze dell’ordine. E quando Totò Riina decide di scendere in campo, dalla provincia di fango di Corleone, per prendersi Cosa Nostra e fare fuori le famiglie palermitane e tutti quelli che non stavano con lui, Don Ciccio Messina Denaro si schiera e mette il suo figlio Matteo proprio come luogotenente di Riina, che anni dopo ricorderà: «Suo padre mi ha dato questo figlio per farne un uomo».

I Messina Denaro sono accanto a Riina nella guerra di mafia che sparge centinaia di morti, incendi e terrore in Sicilia occidentale a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Sterminati gli avversari, Riina decide che adesso il capomafia della provincia di Trapani è Don Ciccio Messina Denaro.

Sono gli anni dei soldi facili, dei milioni di dollari del traffico di droga, della spartizione dei grandi lavori pubblici. Matteo Messina Denaro cresce come un giovane leader, è padrone di Castelvetrano, vuole rispetto. Il suo amico del cuore, Lillo Santangelo, verrà ucciso nel 1985 perché aveva osato vendersi una partita di droga per i fatti suoi. Ma è solo uno dei tanti episodi criminali della sua vita.

Matteo Messina Denaro cresce all’ombra di Riina, con lui partecipa all’ideazione delle stragi del 1992, la folle guerra allo Stato che sarà anche la rovina di Cosa Nostra. Riina gli affida compiti delicati: andare a Roma a pedinare Maurizio Costanzo e Giovanni Falcone, organizzare gli attentati, ma soprattutto, da bravo luogotenente, sparare alle spalle di chi fugge, di chi, dentro Cosa Nostra, non vuole l’attacco allo Stato perché teme la vendetta.

E così Messina Denaro ucciderà i capimafia di Marsala che si rifiutano di organizzare l’attentato a Borsellino, e poi il suo amico boss Vincenzo Milazzo, suo coetaneo, che aveva cercato di contattare i servizi segreti per fermare Riina. Con lui viene strangolata e uccisa la compagna, Antonella Bonomo.

Dopo le stragi, preso Riina, capisce che il suo tempo sta per scadere, ed è latitante. Inizialmente, con il padre Ciccio, che muore, il 30 Novembre del 1998, consegnandosi allo Stato nel modo più incredibile: dopo otto anni di latitanza (passata nel centro di Castelvetrano) il suo corpo viene fatto trovare davanti i cancelli dell’ospedale già vestito e pronto per il funerale.

Da latitante, Messina Denaro guida molti affari, vecchi e nuovi: il traffico di opere d’arte, il business dell’eolico, la grande distribuzione. In una lettera a Bernardo Provenzano, nel 2004, spiega quanto è conveniente e facile aprire un supermercato: lui, in quel periodo, ne controlla una trentina nella provincia di Trapani ed Agrigento.

Di sé dice che con le persone che ha ucciso può riempirci un cimitero, ed è vero, così come è vero che è l’ultimo custode dei segreti più inconfessabili che l’Italia si porta nel periodo a cavallo tra prima e seconda Repubblica.

Il 16 Gennaio del 2023 è finita la sua impunità. Fino al 1992 i Messina Denaro erano completamente sconosciuti alle forze dell’ordine. Non solo, quando, nel 1991, Paolo Borsellino, Procuratore a Marsala, intuì che forse c’era questa misconosciuta famiglia di Castelvetrano a tenere le fila di Cosa Nostra trapanese, non potendo arrestare Don Ciccio, chiese al Tribunale di Trapani quanto meno l’emissione di un misura di prevenzione personale. La risposta fu agghiacciante: «Francesco Messina Denaro è una brava persona. E i Messina Denaro risultano essere conosciuti e stimati nella Palermo bene».

La stessa latitanza sembra cominciare con anni di vantaggio. Le ricerche a livello internazionale partono solo nel 1994, e fino all’arresto di Bernardo Provenzano, nel 2006, in pochi conoscono la storia di Messina Denaro. Ancora, è uno dei registi delle stragi del ‘92, ma il processo a suo carico comincia solo venticinque anni dopo.

Nel 1998 le forze dell’ordine sono certe di averlo preso. Sta a casa di una sua amante, Maria, vicino Bagheria. Riempiono il covo di cimici. Ma lui non passa più. Dopo un anno capiscono che qualcuno lo ha avvisato. E si scoprirà, poi, che è scappato a bordo di un’ambulanza.

Oggi che la sua storia è finita, non possiamo non pensare alle vittime della mafia, e alle sue vittime. Verrebbero in mente tanti nomi, ne scegliamo uno. È quello di Nicola Consales. Aveva 43 anni, era il vice direttore di un albergo di Selinunte ed era una brava persona. Fu fatto uccidere a Palermo, da Messina Denaro, perché si era innamorato anche lui della stessa donna, una ragazza austriaca. È l’unico caso, nella storia della mafia, in cui il boss ordina l’omicidio di una persona ad altri boss, e fuori dal suo mandamento, solo per motivi passionali. Anche per lui, giustizia è fatta.

I Parenti.

I Familiari.

La Figlia.

Il Figlio.

La Sorella.

Il Cugino.

I Familiari.

Estratto dell'articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 16 marzo 2023.

Nel 2017, Matteo Messina Denaro fu padrino di cresima di Giuseppe Bonafede, il figlio della coppia arrestata oggi a Campobello di Mazara. In quell’occasione, il latitante diede 6300 ai genitori del ragazzo, per l’acquisto di un costo orologio Rolex Oyster Perpetual, che venne comprato l’11 gennaio 2017 alla gioielleria Matranga di Palermo. [...] Di quei soldi è stata trovata traccia anche nella contabilità di Messina Denaro.

Su quest’orologio, sequestrato dagli investigatori, i coniugi hanno dato versioni contrastanti. “La singolarità era che, nella circostanza, contrariamente alle regole interne della citata gioielleria – scrivono i magistrati – non era stata compilata la scheda cliente e, pertanto, non era possibile risalire all’acquirente (nel 2017, su 878 Rolex venduti, solo 7 risultavano privi della menzionata scheda cliente - dettagli nei relativi atti)”.

 [...] 

(ANSA il 16 marzo 2023) Continuano le indagini sulla rete di complici che ha protetto la latitanza di Matteo Messina Denaro. I carabinieri del Ros hanno arrestato oggi per favoreggiamento e procurata inosservanza di pena aggravati dal metodo mafioso Emanuele Bonafede, nipote del boss di Campobello di Mazara Leonardo Bonafede, e la moglie Lorena Ninfa Lanceri. L'inchiesta è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, dall'aggiunto Paolo Guido e dai pm Piero Padova e Gianluca De Leo.

 Secondo gli inquirenti, la coppia avrebbe ospitato "in via continuativa e per numerosi giorni", nella sua casa di Campobello di Mazara, il padrino all'epoca latitante. Abitualmente, dunque, il boss sarebbe andato a pranzo e a cena nell'appartamento dei due, entrando e uscendo indisturbato grazie ai controlli che i Bonafede svolgevano per scongiurare la presenza in zona delle forze dell'ordine. I coniugi - secondo i pm - avrebbero dunque fornito al boss "prolungata assistenza finalizzata al soddisfacimento delle sue esigenze personali e al mantenimento dello stato di latitanza".

 Lorena Lanceri, inoltre, secondo gli inquirenti, era inserita nel circuito di comunicazioni che ha consentito all'ex latitante di mantenere contatti con alcune persone a lui particolarmente care. Oltre a essere nipote del boss di Campobello, Emanuele Bonafede è fratello di Andrea Bonafede, arrestato nelle scorse settimane con l'accusa di aver fatto avere al capomafia le prescrizioni sanitarie compilate dal medico Alfonso Tumbarello, finito in carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, ed è cugino di un altro Andrea Bonafede, il geometra di Campobello che ha prestato l'identità a Messina Denaro per consentirgli di sottoporsi alle terapie oncologiche.

 (ANSA il 16 marzo 2023) Sarebbe stata molto legata a Matteo Messina Denaro Lorena Lanceri, arrestata oggi col marito Emanuele Bonafede per favoreggiamento del capomafia trapanese. Emerge dall'inchiesta dei carabinieri del Ros che ha portato in cella la coppia. I militari hanno trovato numerosi riscontri del rapporto tra il boss e la Lanceri. Messina Denaro, per nasconderne la vera identità, la chiamava Diletta.

 Ma come hanno fatto i carabinieri a capire che Diletta era Lorena Lanceri? Tutto parte dalla testimonianza di una delle pazienti con cui Messina Denaro, ammalato di tumore, faceva la chemioterapia alla clinica La Maddalena di Palermo e che era diventata amica del boss. Sentita il 18 gennaio dai carabinieri, la testimone racconta che Messina Denaro, da lei conosciuto come Andrea Bonafede, le aveva detto di avere una storia con una ragazza di nome Diletta. Il finto Bonafede aveva anche messo in contatto le due donne tramite chat audio. La paziente le ha conservate e le consegna ai militari del Ros. "Ah c'è Diletta che ha il covid gliel'ho passato io si sta curando stiamo qua a casa assieme e Diletta ti saluta anzi ora te la passo per messaggio", si sente in una delle chat vocali che Messina Denaro manda all'amica e che i carabinieri ascoltano.

Segue l'audio di Diletta inviato sempre alla paziente: "Io qua con la creatura (fa riferimento al boss) quello che mi sta facendo passare non solo mi ha trasmesso il covid però alla fine per lo meno mi fa ridere perché è simpatico". Durante la registrazione dei vocali (inviati tutti dal telefono di Messina Denaro), però il cellulare di Diletta riceve una chiamata. Nella registrazione delle conversazioni, poi ascoltata dagli investigatori, si sente lo squillo e la donna rispondere. L'analisi delle celle telefoniche svela ai militari l'identità di Diletta.

Nell'istante in cui le chat vocali vengono registrate e il cellulare della donna che è col boss riceve la chiamata i telefonini di Messina Denaro e della Lanceri agganciano le stesse celle. I due, evidentemente, sono insieme. E dunque Diletta è la Lanceri. Infine in alcuni messaggi che il padrino manda alla sorella Rosalia si comprende chiaramente quanto Diletta conti per lui. Raccontando le ore successive all'intervento chirurgico subito a maggio del 2021 il boss scrive: "ero tutto bagnato dal sudore, Diletta che lavò i miei indumenti li torceva ed uscivano gocce di acqua, era senza parole". "Nessun dubbio può quindi residuare sulla centralità del ruolo della donna - scrive il gip - per assicurare al latitante il più ampio conforto emotivo e relazionale - oltre a quello logistico e assistenziale".

 (ANSA il 16 marzo 2023) "Il bello nella mia vita è stato quello di incontrarti, come se il destino decidesse di farsi perdonare facendomi un regalo in grande stile. Quel regalo sei tu". Queste le parole scritte nel 2019 in un biglietto diretto a Matteo Messina Denaro da una donna che si firmava Diletta. Il biglietto, trovato a casa della sorella del boss Rosalia, si concludeva con "Sei un grande anche se non fossi MMD. Tua Diletta". Secondo gli investigatori il vero mittente della lettera sarebbe Lorena Lanceri, arrestata oggi col marito Emanuele Bonafede per favoreggiamento del capomafia. La donna nelle sue comunicazioni col boss avrebbe usato il nome in codice per celare la sua vera identità. "Penso che qualsiasi donna nell' averti accanto si senta speciale ma soprattutto tu riesci a far diventare il nulla gli altri uomini. - proseguiva - Con te mi sento protetta, mi fai stare bene, mi fai sorridere con le tue battute e adoro la tua ironia e la tua immensa conoscenza e intelligenza. Certo hai anche tanti difetti, la tua ostinata precisione .... ma chi ti ama, ama anche il tuo essere così. Lo sai, ti voglio bene e come dico sempre un bene che viene da dentro. Spero che la vita ti regali un po' di serenità e io farò di tutto per aiutarti".

(ANSA il 16 marzo 2023) Dopo la cattura del boss Messina Denaro, avvenuta il 16 gennaio scorso, Emanuele Bonafede e la moglie, arrestati oggi per favoreggiamento e procurata inosservanza della pena, sono andati dai carabinieri e hanno raccontato di aver visto in tv Messina Denaro e di aver riconosciuto in lui l'uomo che pochi mesi prima un familiare gli aveva presentato col nome di Francesco Salsi, medico in pensione. Ma la versione dei coniugi è stata smentita dai video registrati da una telecamera di sorveglianza installata vicino a un esercizio commerciale a pochi passi dalla loro abitazione a Campobello di Mazara.

I video "coprivano" dalle 20.51 del 7 gennaio alle 21.12 del 23 gennaio 2023 e dunque anche i giorni immediatamente antecedenti alla cattura del boss. Dalle immagini emerge che Messina Denaro è andato ogni giorno nell'abitazione dei Bonafede a ora di pranzo e cena e si è trattenuto per numerose ore. Le videoriprese inoltre hanno spesso mostrato la presenza della macchina del latitante, una Giulietta Alfa Romeo, vicino alla casa dei due indagati. "

 Si è trattato, del resto, di una ospitalità che ha senza dubbio avuto dei costi non irrilevanti per una famiglia non particolarmente benestante - si legge nella misura cautelare emessa dal gip - famiglia che quindi è del tutto irragionevole pensare che possa essersi assunta il pieno sostentamento di uno sconosciuto medico in pensione". Nelle immagini, infine, marito e moglie sono ripresi mentre escono di casa con fare circospetto per controllare la presenza di eventuali poliziotti o carabinieri e dare poi il via libera all'ospite che solo allora, sinceratosi che non ci fosse pericolo, lasciava l'abitazione.

 (ANSA il 16 marzo 2023) Si sarebbero conosciuti molti anni fa Matteo Messina Denaro, Emanuele Bonafede e Lorena Lanceri, marito e moglie arrestati oggi per favoreggiamento e procurata inosservanza della pena. Lo ritengono i carabinieri del Ros che non credono a quanto raccontato dalla coppia. Bonafede e la moglie hanno detto agli investigatori che il boss gli fu presentato da un familiare come un medico in pensione di nome Francesco Salsi e che la frequentazione con l'uomo sarebbe stata sporadica. Dalle indagini e dal materiale sequestrato a casa della coppia è venuto fuori, invece, che i due conoscevano Messina Denaro almeno dal 2017, anno in cui il capomafia fece da padrino di cresima al figlio dei Bonafede..

Sempre dalle indagini è emerso che Messina Denaro in quell'occasione diede alla coppia 6300 euro perché comprassero al ragazzo, per suo conto, un Rolex. La spesa è stata puntualmente appuntata in un pizzino in cui, in merito alle uscite del 2017, il boss scriveva: "6300 OROL". Il Rolex è stato recuperato a casa dei Bonafede e sequestrato. Le indagini hanno accertato che era stato comprato l'11 gennaio 2017 alla gioielleria Matranga di Palermo. La singolarità secondo gli inquirenti era che contrariamente alle regole della gioielleria, in quell'occasione non era stata compilata la scheda cliente e quindi non era possibile risalire all'acquirente.

(ANSA il 16 marzo 2023) C'era un rapporto epistolare "molto intenso" tra Matteo Messina Denaro e Laura Bonafede, figlia del boss di Campobello Leonardo Bonafede e moglie dell'ergastolano Salvatore Gentile. Emerge dall'indagine che oggi ha portato all'arresto di Emanuele Bonafede, nipote del capomafia, e della moglie Lorena Lanceri, accusati del favoreggiamento del capomafia. La scoperta nasce dal ritrovamento al padrino di Castelvetrano di una lettera-diario scritta da una persona che si firmava con lo pseudonimo di "cugino" per proteggere la sua vera identità e diretta a Messina Denaro.

In principio i carabinieri non sanno chi sia "cugino", ma poi scoprono un pizzino scritto il 14 gennaio, due giorni prima dell'arresto, dal boss stesso. Nel pizzino Messina Denaro risponde a un precedente messaggio di "cugino". "Ci siamo visti da vicino ed anche parlati. - scriveva il capomafia all'interlocutore - mi avrai trovato invecchiato e stanco (…) a me ha fatto piacere vederti e parlarti, cercavo di tenere la situazione sotto controllo ma non ho visto niente di pericoloso, certo c'è da vedere cosa ha pensato l'affetta-formaggi, perché a te ti conosce e sa che tipo sei, a me mi conosce di vista come cliente ma non sa nulla, certo ora che mi ha visto parlare con te sarà incuriosito di sapere chi sono.

"Il termine "affetta formaggi" insospettisce i militari che si ricordano che nel covo di Campobello di Messina Denaro c'era uno scontrino della Coop del 14 gennaio. A quel punto acquisiscono le immagini interne del negozio e vedono Messina Denaro davanti al banco dei salumi parlare con Laura Bonafede. E' la svolta nell'identificazione di "cugino" che fa rivalutare tutta la corrispondenza scoperta.

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 17 marzo 2023.

Nel 2017, Matteo Messina Denaro fu ufficialmente padrino, per la cresima di Giuseppe Bonafede, il figlio della coppia arrestata ieri a Campobello. In quell’occasione, il latitante regalò 6300 euro ad Emanuele Bonafede e a Lorena Lanceri, con uno scopo ben preciso. «6.300 orol.», scrisse nella sua contabilità. Voleva regalare un Rolex al figlioccio. E il desiderio fu esaudito. L’11 gennaio di sei anni fa, una donna (forse Lorena Lanceri?) comprò un Rolex Oyster Perpetual alla gioielleria Matranga di Palermo. Questo hanno scoperto i carabinieri di Trapani.

«Su questo orologio, sottoposto a sequestrato, i coniugi hanno dato versioni contrastanti», scrivono adesso i pm Pierangelo Padova e Gianluca De Leo: «La singolarità è che, nella circostanza, contrariamente alle regole interne della citata gioielleria — annotano i militari nella loro informativa alla Procura citata dal gip Alfredo Montalto nell’ordinanza di custodia cautelare — non era stata compilata la scheda cliente e, pertanto, non era possibile risalire all’acquirente (nel 2017, su 878 Rolex venduti, solo 7 risultavano privi della scheda cliente».

Dunque, chi comprò l’orologio e perché tanta segretezza? Giuseppe Serafini, amministratore delegato di Matranga, spiega a “Repubblica”: «Quelle schede clienti compilate per ogni orologio sono segno del nostro lavoro scrupoloso, ma non possiamo certo obbligare i clienti, che talvolta oppongono ragioni di privacy. L’obbligo di legge è invece sui pagamenti tracciati oltre una certa soglia, che abbiamo sempre rispettato. In questo caso — prosegue Giuseppe Serafini — abbiamo subito messo a disposizione dei carabinieri il nostro archivio, dove erano conservate le ricevute in originale delle due carte di credito utilizzate da una donna per l’acquisto». Una piccola parte venne invece pagata in contanti.

Magistrati e investigatori continuano a indagare. Perché un altro Rolex potrebbe essere stato regalato a qualche altro familiare di Messina Denaro. […]

Arrestata coppia “fedelissima” del boss Matteo Messina Denaro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Marzo 2023

Nuovi arresti nella cerchia del boss Matteo Messina Denaro. tutti accusati di favoreggiamento personale e procurata inosservanza di pena, reati aggravati per avere agevolato il "boss" di Cosa nostra Matteo Messina Denaro nella sua lunga latitanza.

ICarabinieri della 1a sezione del 3° reparto dei Ros e del Comando provinciale di Trapani hanno tratto in arresto Emanuele Bonafede, 50enne di Castelvetrano cugino di quell’ Andrea Bonafede, considerato il “prestanome” del boss, e Lorena Ninfa Lancieri, 48enne nata in Svizzera, tutti accusati di favoreggiamento personale e procurata inosservanza di pena, reati aggravati per avere agevolato il “boss” di Cosa nostra Matteo Messina Denaro nella sua lunga latitanza. Il gip Alfredo Montalto che ne ha disposto l’arresto, accogliendo la richiesta del procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, dell’aggiunto Paolo Guido e dei pm Piero Padova e Gianluca De Leo, contesta ai due indagati l’aver garantito al capomafia una “prolungata assistenza finalizzata al soddisfacimento delle sue esigenze personali e al mantenimento dello stato di latitanza“.

La coppia avrebbero ospitato secondo gli inquirenti  il capomafia, nella sua latitanza “in via continuativa e per numerosi giorni”, nel loro appartamento di Campobello di Mazara (Trapani). Sempre secondo i magistrati della Dda di Palermo, avrebbe fornito al boss “prolungata assistenza finalizzata al soddisfacimento delle sue esigenze personali e al mantenimento dello stato di latitanza“, consentendo a Matteo Messina Denaro “di mantenere quella apparenza di ‘vita normale’ che ha senza dubbio costituito uno dei pilastri della pluridecennale capacità di Messina Denaro di nascondersi e mimetizzarsi pur rimanendo attivo sul proprio territorio”. I due lo avrebbero persino “concretamente aiutato ad eludere le ricerche delle forze di polizia“.

Ad incastrare la coppia una foto del boss trovata proprio sul telefono cellulare di Messina Denaro, seduto a gambe accavallate, con un bicchiere di rum nella mano destra e un sigaro gigante nella mano sinistra. La foto, scattata nel salotto della coppia arrestata che sostiene di non sapere che fosse il capomafia, ma gli inquirenti non credono alla loro versione.

La coppia si era presentata dai Carabinieri subito dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, per raccontare di averlo riconosciuto come colui che era stato presentato loro in passato come un medico in pensione dal nome Francesco Salsi. Ma i due sono stati smentiti dai video di una telecamera di sorveglianza installata vicino a un negozio a Campobello di Mazara, ubicato proprio a due passi dalla loro abitazione. Dalle immagini acquisite dagli investigatori dell’ Arma risulta che il boss non fosse una conoscenza saltuaria ma una presenza giornaliera nella loro abitazione.

“Si è trattato, del resto, di una ospitalità che ha senza dubbio avuto dei costi non irrilevanti per una famiglia non particolarmente benestante – come scrive il gip – famiglia che quindi è del tutto irragionevole pensare che possa essersi assunta il pieno sostentamento di uno sconosciuto medico in pensione”. Dai video si vede anche come la coppia controllasse l’eventuale presenza di forze dell’ordine prima di dare l’ok al boss di uscire dalla loro abitazione. Dalle indagini e dal materiale sequestrato a casa della coppia è venuto fuori, infatti, che i due conoscevano Messina Denaro almeno dal 2017, anno in cui il capomafia fece da padrino di cresima al figlio dei Bonafede.

Proprio in quell’occasione Messina Denaro diede alla coppia 6300 euro perché comprassero al ragazzo, per suo conto, un Rolex. La spesa è stata puntualmente appuntata in un pizzino in cui, in merito alle uscite del 2017, il boss scriveva: «6300 OROL». Il Rolex è stato recuperato a casa dei Bonafede e sequestrato. Le indagini hanno accertato che era stato comprato l’11 gennaio 2017 alla gioielleria Matranga di Palermo. La singolarità secondo gli inquirenti era che contrariamente alle regole della gioielleria, in quell’occasione non era stata compilata la scheda cliente e quindi non era possibile risalire all’acquirente. Questa vicenda conferma, ancora una volta, la passione di Messina Denaro per gli orologi: il giorno della cattura, aveva al polso un Franck Muller del valore di 35 mila euro. Ed anche a sua sorella Bice sono stati sequestrati due orologi di lusso nel corso della perquisizione scattata dopo l’arresto del boss: tre Rolex Oyster Datejust, uno in acciaio e due con corona in oro, poi anche un Rolex Gmt Master, orologi che costano di listino dagli otto ai quattordici mila euro. Sequestrato anche un Omega Seamaster del valore di seimila euro.

Il ruolo di Lorena-Diletta

Lorena Ninfa Lanceri “veicolava le informazioni tra Messina Denaro e le persone con cui egli intratteneva rapporti particolarmente intensi“. La donna aveva il compito di tenere i rapporti tra il capomafia e persone a lui amiche ed era considerata “snodo di trasmissione di comunicazioni allo stato da ritenersi di carattere privato tra Messina Denaro e una donna identificata in Laura Bonafede“, come si legge nella misura cautelare, figlia di “Leonardo Bonafede, storico capo della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara, nonché cugina di Andrea ed Emanuele Bonafede, con la quale il latitante ha intrattenuto un intenso rapporto epistolare”.

Il padrino era molto vicino alla donna che gli faceva scenate epistolari di gelosia e che ha incontrato fino a due giorni prima dell’arresto, come si vede da un frame tratto da un filmato girato dalle videocamere di sorveglianza della Coop del paese in cui i due parlano davanti al banco dei salumi. Un rapporto, il loro, provato anche dai pizzini scoperti in vicolo San Vito. Infine Martina, figlia di Laura, nipote del capomafia di Campobello. Matteo Messina Denaro ne parla alle sorelle in un pizzino, citando il necrologio che la ragazza, in codice chiamata Tan, aveva scritto per il nonno. Ne apprezza il modo di vivere e l’educazione e la contrappone a sua figlia, Lorenza, che definisce “degenerata nell’infimo”. I carabinieri hanno scoperto che, tramite Lanceri, il boss teneva rapporti epistolari anche con lei. L’ultima di tre generazioni dei Bonafede legate ai Messina Denaro.

Quelle di Laura Bonafede sembrano le parole di un’amante ferita. Di sicuro, c’era una intensa frequentazione fra Matteo Messina Denaro e Laura Bonafede. Gli scrive ancora un altro messaggio: “Caro Amico mio oggi ho rispettato nuovamente l’appuntamento di sabato ma niente, non ho visto nessuno e allora ho pensato che potevi essere andato a parlare allo Squallido. Insomma possono essere tanti motivi ma quello della romena e dello Squallido sono gli unici che mi balenano nella mente”. Nuovi nomi in codice da decifrare per gli investigatori: Squallido, Rumena.

Per gli investigatori dei Carabinieri del ROS “Margot” era l’auto del latitante. E non deve stupire, spiegano la procura ed i carabinieri, che il biglietto fosse scritto al maschile: era un modo per nascondere l’identità della vera interlocutrice, che ogni tanto veniva chiamata “cugino”, oppure “amico”.

La vivandiera Lorena Ninfa Lanceri era il “Tramite”, così veniva chiamata nei pizzini. Laura Bonafede proseguiva così la sua lettera al boss: “Quando ho incontrato il Tramite a caso mi sono un po’ ‘seccato’, ho pensato che mi sarebbe dispiaciuto cambiare: però lo sapevo che non era da te ‘smontare’ una mia abitudine senza un perché, poi l’orario di arrivo era un orario impossibile per Blu, a parte il sabato. Quindi l’avevo capito che era una prova e che sicuramente è andato con un passaggio del fratello. No, non ce l’avevo con te. Tu lo sai il motivo di quando e perché ce l’ho con te. Domani andrò nuovamente all’appuntamento, spero che questa volta non vada buca. Buona notte Amico mio. Ti voglio bene”.

Secondo le indagini, inoltre, la donna Lorena Ninfa Lancieri avrebbe avuto un legame sentimentale con il capomafia che la chiamava la donna ‘Diletta‘. In un biglietto inviato al boss ancora latitante nel 2019, si legge: “Il bello nella mia vita è stato quello di incontrarti, come se il destino decidesse di farsi perdonare facendomi un regalo in grande stile. Quel regalo sei tu”, scrive la donna che si firmava ‘Diletta‘. Il biglietto è stato rinvenuto dagli investigatori a casa della sorella del boss Rosalia Messina Denaro, arrestata pochi giorni fa. “Sei un grande, anche se tu non fossi M.D. Diletta“, si legge in un altro ‘pizzino’. “Tu riesci a far diventare il nulla gli altri uomini. – scriveva la donna – Con te mi sento protetta, mi fai stare bene, mi fai sorridere con le tue battute e adoro la tua ironia e la tua immensa conoscenza e intelligenza. Certo hai anche tanti difetti, la tua ostinata precisione …. ma chi ti ama, ama anche il tuo essere così. Lo sai, ti voglio bene e come dico sempre un bene che viene da dentro. Spero che la vita ti regali un po’ di serenità e io farò di tutto per aiutarti“.

Matteo Messina Denaro avrebbe parlato di ‘Diletta‘ il 10 maggio anche a sua sorella Rosalia. “Diletta piange continuamente e non so come fare, mi vede spegnere giorno dopo giorno“, ed anche a una paziente della clinica La Maddalena dove è stato arrestato lo scorso 16 gennaio. Redazione CdG 1947

Presi i "vivandieri" di Messina Denaro. I due coniugi complici della latitanza del padrino. Il legame speciale con la donna. Valentina Raffa il 17 Marzo 2023 su Il Giornale.

Ragusa. È un «contesto domestico-familiare» quello in cui viveva a Campobello di Mazara il super latitante Matteo Messina Denaro. Ad aprirgli le porte di casa sono stati i coniugi Emanuele Bonafede, cugino del geometra Andrea Bonafede che aveva prestato l'identità al padrino, e Ninfa Lorena Lanceri, entrambi finiti in carcere ieri come fiancheggiatori.

La telecamera di una macelleria immortala il capomafia nel suo andirivieni dall'abitazione della coppia, dove arriva sia in auto che a piedi. Le indagini del Ros dimostrano come i due fossero al corrente della vera identità del boss, malgrado abbiano asserito il contrario presentandosi agli inquirenti giorni dopo l'arresto del 16 gennaio. Sostenevano di averlo riconosciuto dalla tv, e di aver creduto, fino ad allora, che fosse un certo Francesco Salsi, medico in pensione.

Le prove in mano alla procura che smentiscono i due sono tante. A cominciare dai video che li riprendono affacciarsi guardinghi dal portone di casa per sincerarsi che nessuno sguardo indiscreto veda il capomafia uscire. L'ultima ripresa è della sera della vigilia dell'arresto che il padrino ha trascorso con loro. Per il figlio dei due fiancheggiatori, studente di ingegneria, Messina Denaro è il «parrino» (padrino) e non solo perché gli ha fatto da padrino di Cresima regalandogli un Rolex da 6.300 euro, ma perché vi è prova scrive il gip - che «i Bonafede e anche il figlio, ben conoscessero la vera identità del loro ospite». E poi c'è una lettera del 2019 ritrovata in casa della sorella del boss Rosetta, in cui la Lanceri si firma Diletta, nome in codice datole dal padrino per evitare che venga identificata. Gli scrive «sei un grande anche se non fossi MMD».

«Tali affermazioni scrive il gip non lasciano alcun dubbio in merito al fatto che Diletta fosse a conoscenza della reale identità». Lei aveva una funzione «riservata alle persone che godono della massima fiducia del capomafia latitante» occupandosi «di veicolare le informazioni» di fare da «tramite per le comunicazioni scritte del latitante con i familiari oltre che con altri soggetti».

E «Tramite» è un altro nome in codice della donna che rappresentava anche lo «snodo nella trasmissione di comunicazioni di carattere privato, tra Matteo Messina Denaro e una donna identificata con Laura Bonafede, figlia di Leonardo, storico capo della famiglia mafiosa di Campobello di Mazara - nonché cugina di Andrea e di Emanuele Bonafede con la quale il latitante ha intrattenuto un intenso rapporto epistolare».

Laura è la madre della ragazza elogiata in una lettera dal padrino per il legame con la famiglia d'origine, a differenza della figlia Lorenza che ha rinnegato la mafia. Per il gip «la consapevolezza dell'identità del loro ospite trova un coerente riscontro nella riconducibilità degli stessi» proprio alla famiglia del boss Leonardo Bonafede che «si è distinto per la storica conoscenza con la famiglia Messina Denaro» a cominciare da Francesco Messina Denaro, capo della provincia mafiosa di Trapani e anche per la «copertura» della latitanza di Matteo Messina Denaro.

A incastrare i coniugi c'è una fotografia che ritrae il padrino dal collo in giù (senza che si veda il volto) seduto a sorseggiare liquore nel loro salone. Il padrino la inviò a una paziente oncologica, a cui aveva confidato di avere una storia con Diletta. La donna ha conservato le chat, tra cui quella servita agli inquirenti per identificare lei con la Lanceri.

Durante la registrazione di un vocale dal cellulare di Messina Denaro, Diletta riceve una chiamata. I dati incrociati delle celle telefoniche hanno condotto i carabinieri alla Lanceri che, per il gip, ha garantito al capomafia «il più ampio conforto emotivo e relazionale oltre a quello logistico e assistenziale».

Mafia, dal capostipite don Ciccio a Rosalia, chi sono i volti della famiglia Messina Denaro tra arresti e latitanze. Le sorelle del capomafia arrestato il 16 gennaio e i loro mariti coinvolti negli affari criminali della cosca di Castelvetrano. di Roberto Chifari e Chiara Marasca su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.

Con l’arresto della donna dei “pizzini” Rosalia Messina Denaro, ritenuta cassiera del clan, fermata oggi dai carabinieri del Ros, la famiglia mafiosa di Castelvetrano subisce un nuovo colpo. Rosalia è una delle quattro sorelle del boss Matteo finito in carcere il 16 gennaio scorso, e secondo gli investigatori avrebbe avuto un ruolo importante anche nella copertura della lunga latitanza del capomafia. Ma molti altri componenti della “dynasty”, da sempre coinvolti negli affari criminali, sono da tempo finiti nel mirino delle inchieste e alcuni scontano in cella le pene comminate dalle sentenze.

Don Ciccio

Il capostipite Don Ciccio, boss indiscusso del mandamento, diventato capomafia della provincia di Trapani a ridosso degli anni ’80, morì durante la latitanza. Il suo corpo fu trovato il 30 novembre del 1998 per strada, dopo una chiamata anonima alla polizia. Mocassini e vestito, il boss era già pronto per la sepoltura. Durante la sua fuga, durata otto anni, Don Ciccio Messina Denaro era stato accusato di vari omicidi, aveva ricevuto diverse condanne (tra le quali un ergastolo nel 1997), ed era stato sospettato del coinvolgimento nelle stragi di Milano, Firenze e Roma. Dalla moglie Lorenza Santangelo aveva avuto quattro figlie femmine e due maschi. A succedergli nella guida della famiglia mafiosa fu Matteo, catturato dopo una caccia lunga 30 anni.

Il fratello

Salvatore, il primogenito, fu arrestato per la prima volta nel 1998 (operazione “Progetto Belice”), insieme ad altre 24 persone. In quel periodo lavorava alla Banca Commerciale Italiana di Sciacca, mentre fino al 1991 aveva lavorato come funzionario alla Banca Sicula di Castelvetrano. Nel 2004 fu condannato definitivamente a nove anni per «associazione per delinquere di stampo mafioso pluriaggravata, danneggiamento seguito da incendio aggravato in concorso e tentato incendio pluriaggravato in concorso». Secondo gli inquirenti avrebbe eseguito gli ordini del fratello attraverso i pizzini che venivano recapitati.

La sorella Patrizia

Patrizia Messina Denaro per il boss Matteo è stata molto di più di una semplice sorella, figura cruciale all’interno della famiglia mafiosa. Oggi ha 52 anni, sposata con Vincenzo Panicola con cui ha avuto tre figli ed è in carcere, condannata a 14 anni per associazione mafiosa. Da sempre attiva nella famiglia, avrebbe avuto un ruolo fondamentale per lo sviluppo del business criminale, controllando le estorsioni. L’operazione Eden del 2013 svelò che a quel tempo era l’unica ad avere stretti rapporti con il fratello latitante, una delle pochissime che poteva incontrarlo fisicamente. Ma l’inchiesta che oggi ha portato all’arresto della sorella Rosalia mostra che quest’ultima ne aveva raccolto il testimone e il ruolo, anche incontrando il capomafia in fuga. Al tribunale di Marsala, di fronte alla Corte, Patrizia rilasciò un’affermazione che poi è stata smentita dalla verità processuale: «Non faccio parte di Cosa nostra - disse alla Corte -. Io pago per il cognome che porto, ma di cui sono fieramente orgogliosa. Da vent’anni non ho contatti con mio fratello Matteo». Nel 2018 la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato la sentenza con cui la Corte d’appello di Palermo l’ha condannata a 14 anni e sei mesi di carcere per associazione mafiosa.

La nipote avvocato

Rosalia Messina Denaro è madre di Lorenza Guttadauro, l’avvocato che, dal giorno del suo arresto, assiste il capomafia. Il secondo figlio della donna, Francesco, nipote prediletto del padrino trapanese, sta espiando una condanna a 16 anni sempre per associazione mafiosa.

I mariti delle sorelle

Ruolo di primo piano è stato in passato riconosciuto anche al marito di Patrizia, Vincenzo Panicola, figlio del defunto ex consigliere provinciale della Dc Vito. Si è fatto otto anni di prigione, ora è libero e dice di fare l’agricoltore. Gaspare Como, marito dell’altra sorella Bice Maria, fu arrestato nell’aprile del 1998 (operazione “Terra bruciata”) e condannato a 10 anni di reclusione. Arrestato nuovamente nel 2015 per intestazione fittizia di beni, fu invece assolto perché “il fatto non sussiste”. Rosario Allegra, morto in cella nel 2019, marito di Giovanna Messina Denaro, ex presidente regionale della Cna, ex assessore all’agricoltura e all’artigianato al comune di Castelvetrano, nel luglio del 1992 fu arrestato per istigazione alla corruzione. Nel 1998 finì in carcere nell’operazione “Terra bruciata” ricevendo una condanna nel marzo del 2000 ad 11 anni di reclusione da parte del Tribunale di Marsala.

L’”ergastolo bianco” del cognato

Filippo Guttadauro, marito di Rosalia Messina Denaro, fu arrestato nel marzo del 1994 e condannato per associazione mafiosa. Poi fu arrestato di nuovo nel luglio del 2006 e condannato in Appello a 14 anni: l’aggravante di essere il capo della cosca di Castelvetrano era caduta e i 18 anni del primo grado non vennero riconfermati. Guttadauro ha finito di scontare la condanna, ma è ritenuto socialmente pericoloso e dunque gli è stata applicata un’ulteriore misura di sicurezza: è internato presso la “casa lavoro” nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo. Il suo status viene mantenuto di proroga in proroga e in gergo carcerario viene definito “ergastolo bianco”.

La figlia del boss

Durante la latitanza Matteo Messina Denaro ebbe una relazione stabile con Franca Alagna, la donna che il 17 dicembre del 1995 ha dato alla luce la figlia del boss, Lorenza, cresciuta per lungo tempo a casa della nonna paterna, della quale porta il nome. Il boss e la figlia naturale non si sarebbero mai incontrati e in ogni caso i loro rapporti non sarebbero stai mai buoni. La riprova arriva oggi, da un pizzino del capomafia alla sorella Rosalia, nel quale il capomafia illustra una serie di esempio di ragazze, conosciute da entrambi, cresciute senza padre. E poi sbotta: «Ebbene, nessuno ha fatto la fine di Lorenza, sono tutte sistemate, che voglio dire? È l’ambiente in cui cresci che ti forma, e lei è cresciuta molto male». E il boss conclude: «La mancanza del padre non è di per sé motivo di degenerazione educativa, è solo Lorenza che è degenerata nell’infimo, le altre di cui so sono tutte cresciute onestamente». La giovane, in ogni caso, che vive a Castelvetrano col compagno e il bambino, nei giorni successivi all’arresto del capomafia ha voluto smentire alcune ricostruzioni precisando di non aver mai rinnegato il padre. «La sfera del rapporto padre-figlia è intangibile e insindacabile, e, come tale, deve rimanere rigorosamente riservata», sono alcune della parole affidate a una nota del suo avvocato Franco Lo Sciuto.

Estratto dell'articolo di G.G. per lastampa.it il 3 marzo 2023

Come nella ‘ndrangheta calabrese la base dell’impero di Matteo Messina Denaro è strettamente familiare. Il superboss aveva blindato la gestione del clan di Castelvetrano in una Dynasty di paretele e complicità. Legami di sangue, zero pentiti e controllo ferreo sull’organizzazione criminale. […] in carcere è finita un altro pezzo dell’organigramma del clan: Rosalia Messina Denaro, 68 anni, una delle sorelle di Matteo. A precederla il marito Filippo Guttadauro, che sconta l’ergastolo bianco al 41 bis, ma anche il figlio Francesco, nipote del cuore dello zio Matteo, e il genero, Luca Bellomo (scarcerato per fine pena pochi mesi fa), sposato con Lorenza Guttadauro, che dell’ex latitante è anche l’avvocato.

Dentro Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro rappresenta la provincia di Trapani per “successione”, dal padre Francesco (Don Ciccio), che concluse la sua latitanza iniziata nell’ottobre del 1990, con la propria morte naturale […] Alle undici di sera del 30 novembre 1998, il fratello della moglie, andò dalla polizia a segnalare il ritrovamento del cadavere nelle campagne tra Mazara del Vallo e Castelvetrano. Don Ciccio Messina Denaro aveva le mani giunte, il vestito scuro, i mocassini quasi nuovi.

“Sulu mortu lu putistivu pigghiari”, aveva urlato la moglie Lorenza Santangelo. Il padre di Matteo sarebbe diventato capomafia della provincia di Trapani a ridosso degli anni ’80. […] Negli anni precedenti […] il capo era stato invece Nicola Buccellato di Castellammare, che però era finito in carcere ed era stato “posato” nel 1983. Nella sua latitanza, durata otto anni, Don Ciccio Messina Denaro era stato accusato di vari omicidi, con diverse condanne (tra le quali un ergastolo nel 1997), oltre alle sospette responsabilità nelle stragi di Milano, Firenze e Roma.

 La caratura criminale di Matteo Messina Denaro sembra invece superare quella del padre, dal momento che è stato condannato a diversi ergastoli per svariati omicidi. […] La cosca mafiosa di Castelvetrano ha sempre trovato la sua forza nelle relazioni di parentela che riportiamo […] Salvatore Messina Denaro è il fratello del boss castelvetranese […] fu arrestato per la prima volta nel 1998 (operazione “Progetto Belice”), insieme ad altre 24 persone. […] lavorava alla Banca Commerciale Italiana di Sciacca, mentre fino al 1991 aveva lavorato come funzionario alla Banca Sicula di Castelvetrano.

Nel 2004 fu condannato definitivamente a 9 anni per “associazione per delinquere di stampo mafioso pluriaggravata, danneggiamento seguito da incendio aggravato in concorso e tentato incendio pluriaggravato in concorso”. Avrebbe eseguito gli ordini del fratello, veicolando i “pizzini” ai mafiosi. E per questo è stato arrestato nuovamente nel marzo del 2010. Nel novembre del 2013 è stato condannato in via definitiva a 7 anni per associazione mafiosa. Il 2 Marzo scorso ha lasciato la casa di lavoro di Tolmezzo dove in regime di 41 bis stava scontando la misura di sicurezza, appunto, dell'assegnazione ad una casa di lavoro.

 LE SORELLE

Anna Patrizia Messina Denaro è una delle sorelle ed è stata condannata in appello a 14 anni e sei mesi. Nell’operazione Eden del 2013 finì in carcere anche per aver dimostrato di avere la possibilità di incontrare fisicamente il fratello, del quale avrebbe gestito i rapporti con l’organizzazione mafiosa, in assenza del marito Vincenzo Panicola, in carcere per mafia dal 2010 (operazione “Golem 2”). Vincenzo Panicola è […] Figlio del defunto patriarca mafioso ed ex consigliere provinciale della Dc Vito Panicola. Era uno dei principali collegamenti tra il superlatitante ed il resto dell’organizzazione, prima di finire in carcere nel 2010.

 […] Gaspare Como è cognato di Matteo Messina Denaro per aver sposato Bice Maria, altra sorella del superlatitante. Fu arrestato nell’aprile del 1998 (operazione “Terra bruciata”) e condannato a 10 anni di reclusione. Arrestato nuovamente nel 2015 per intestazione fittizia di beni, fu invece assolto perché “il fatto non sussiste”.

COGNATI

Rosario Allegra è cognato del padrino per aver sposato Giovanna Messina Denaro. Ex presidente regionale della Cna, ex assessore all’agricoltura e all’artigianato al comune di Castelvetrano, nel luglio del 1992 fu arrestato per istigazione alla corruzione in una vicenda di cooperative fantasma che ricevevano dalla regione parecchi finanziamenti.

 Nell’aprile del 1998 finì di nuovo in carcere (operazione “terra bruciata”), insieme ad altre 15 persone con l’accusa di essere stato “il referente dell’organizzazione sia per il controllo dell’estrazione degli inerti, che per l’attività estorsiva”, ricevendo una condanna nel marzo del 2000 ad 11 anni di reclusione da parte del Tribunale di Marsala. Filippo Guttadauro è cognato di Matteo Messina Denaro per aver sposato sua sorella Rosalia. Fu arrestato nel marzo del 1994 e condannato per associazione mafiosa.

Poi fu arrestato di nuovo nel luglio del 2006 e condannato in Appello a 14 anni: l’aggravante di essere il capo della cosca di Castelvetrano era caduta e i 18 anni del primo grado non vennero riconfermati. Il suo pseudonimo nei pizzini tra Matteo Messina Denaro e Bernardo Provenzano era “121” […] Francesco Guttadauro è nipote del superboss e figlio di Filippo. E’ in carcere in seguito all’arresto nell’operazione “Eden 2” del novembre 2014, condannato in Appello a 16 anni di reclusione. Sarebbe stato investito ufficialmente dal latitante Matteo Messina Denaro, attraverso dei “pizzini”, nel ruolo di riorganizzatore della struttura criminale minata dalle varie operazioni dei carabinieri.

 Girolamo Bellomo è nipote acquisito di Matteo Messina Denaro. Detto “Luca”, marito di Lorenza Guttadauro (figlia di Filippo), anche lui arrestato nell’operazione Eden 2 e condannato a 10 anni in Appello. Da Palermo gestiva direttamente il traffico di droga, imponeva le ditte edili e pianificava le estorsioni per controllare il territorio.

CUGINI

Lorenzo Cimarosa è cugino acquisito per aver sposato la figlia della sorella di Francesco Messina Denaro. Fu uno dei personaggi di spicco ad essere arrestato nel 1998 nell’operazione “Terra bruciata”. E poi nell’operazione “Eden” del 2013. Il primo (e forse l’ultimo) componente della famiglia che è diventato collaboratore di giustizia. […]

 […] Mario Messina Denaro è cugino del capomafia castelvetranese, in quanto i loro nonni erano fratelli. […] Secondo gli inquirenti aveva il ruolo di estortore all’interno della cosca. Fu arrestato di nuovo nel 2013 (operazione “Eden”) con l’accusa di tentata estorsione in danno dell’imprenditrice di Castelvetrano Elena Ferraro, titolare della clinica Hermes, che lo denunciò. E per questo fu condannato ad altri 4 anni e 2 mesi di carcere.

Giovanni Filardo è cugino, Figlio della sorella di Lorenza Santangelo, madre di Matteo Messina Denaro. Condannato in via definitiva per mafia a 12 anni e 6 mesi (operazione “Golem 2”), con relativa confisca di beni per 3 milioni di euro.

 […] Matteo Filardo è cugino. Fratello di Giovanni. Anche lui arrestato nell’operazione Golem 2, accusato di una tentata estorsione, è stato poi assolto con formula piena.

 E’ attualmente indagato dalla Dda di Palermo, insieme ad altre 29 persone, nell’ambito di una serie di perquisizioni finalizzate alla cattura del boss latitante, in un blitz avvenuto nel dicembre scorso. Rosalia, arrestata oggi, è una delle quattro sorelle di Matteo. Le altre sono Patrizia (sta scontando una condanna per mafia), Giovanna e Bice.

I rispettivi mariti, dunque cognati dell’ex latitante, sono stati arrestati e condannati: Vincenzo Panicola, Gaspare Como (uno dei 238 detenuti siciliani al 41 bis), Rosario Allegra (oggi deceduto). Completa il quadro familiare il fratello di Matteo, Salvatore Messina Denaro, che per un periodo ne avrebbe preso il posto alla guida del mandamento di Castelvetrano. Salvatore Messina Denaro è stato di recente scarcerato per fine pena.

La forza che deriva dai legami di sangue. Chi sono i familiari di Matteo Messina Denaro: le donne (mai sposato), la figlia e i misteri dell’ex latitante più ricercato d’Italia. Redazione su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Arrestato all’interno della clinica privata La Maddalena di Palermo dove si sarebbe recato per sottoporsi a delle cure mediche, l’ormai ex latitante più ricercato d’Italia – e uno dei più ricercati al mondo – Matteo Messina Denaro, è stato catturato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. Per interi decenni ha visto il cerchio stringersi attorno a sé. Messina Denaro da tempo non è più il capo di Cosa nostra, ma ne è uno dei più fulgidi esempi di ‘boss’ che non si è mai piegato alla giustizia e non è mai riuscito a farsi catturare.

Ha rappresentato Cosa Nostra per diritto di successione: il padre Francesco (Don Ciccio), concluse la sua latitanza iniziata nell’ottobre del 1990 con la propria morte naturale. Alle undici di sera del 30 novembre 1998, il fratello della moglie, andò dalla polizia a segnalarne il ritrovamento del cadavere nelle campagne tra Mazara del Vallo e Castelvetrano. Don Ciccio Messina Denaro aveva le mani giunte, il vestito scuro, i mocassini quasi nuovi. “Sulu mortu lu putistivu pigghiari”, aveva urlato la moglie Lorenza Santangelo.

Il padre di Matteo sarebbe diventato capomafia della provincia di Trapani a ridosso degli anni ’80. “In una cantina dei cugini Ignazio e Nino Salvo, durante una riunione – racconta il pentito marsalese Antonino Patti – Francesco Messina Denaro venne eletto capo provinciale”. Negli anni precedenti, il capo era stato invece Nicola Buccellato di Castellammare, che però era finito in carcere ed era stato “posato” nel 1983. Nella sua latitanza, durata otto anni, Don Ciccio Messina Denaro era stato accusato di vari omicidi, con diverse condanne (tra le quali un ergastolo nel 1997), oltre alle sospette responsabilità nelle stragi di Milano, Firenze e Roma.

La caratura criminale di Matteo Messina Denaro ha ampliamente sorpassato quella del padre: condannato a diversi ergastoli per svariati omicidi, la sua latitanza è cominciata dopo una vacanza dorata a Forte dei Marmi nel 1993, e si è conclusa solo oggi, tra voci di coperture istituzionali e un largo consenso locale che lo hanno accompagnato durante questi 30 anni. A costruirne il prestigio mafioso furono le stragi, quelle che per il padre erano solo sospetti, per lui si sono trasformate in ergastoli e consacrazione di Cosa Nostra.

Fondamentale, come per molte organizzazioni criminali, è la forza che deriva dai legami di sangue. Prima di iniziare la latitanza nel giugno del 1993, Messina Denaro ha una relazione con una donna di Mazara, Sonia M.. A lei scriverà che dovrà allontanarsi e che non potrà spiegare quella scelta.

Durante la latitanza Messina Denaro ha una relazione stabile con Franca Alagna, la donna che il 17 dicembre del 1995 ha dato alla luce la figlia del boss, Lorenza Alagna, che porta il cognome della madre Francesca e il nome della nonna paterna, il 14 luglio del 2021 ha partorito un bambino, avuto col suo compagno. Il bimbo non si chiama come il nonno Matteo. Lorenza ha 26 anni e da tempo ha lasciato la casa della nonna paterna a Castelvetrano, in cui viveva con la madre, scegliendo di vivere libera senza dover trascinare il peso del cognome del padre che però non ha in alcun modo ripudiato e che, secondo gli investigatori, non avrebbe mai visto: “Quanto vorrei l’affetto di una persona e purtroppo questa persona non è presente al mio fianco e non sarà mai presente per colpa del destino… ” aveva scritto su Facebook Lorenza che conduce una vita come tutte le ragazze della sua età dopo il diploma al liceo scientifico e il tentativo di raggiungere la laurea. Anni fa, al Tg 2, dietro le serrande abbassate della sua abitazione aveva detto: “Non voglio rilasciare interviste, non voglio stare sotto i riflettori. Basta. Io sono una ragazza normalissima come tutte le altre. Voglio essere lasciata in pace. Dovete fare finta che io non esisto”.

Dopo essere diventato padre, Matteo Messina Denaro, nel 1996, ha un’altra relazione con una donna palermitana, Maria Mesi, sorella della segretaria di Michele Aiello, il re della sanità e delle cliniche siciliane e prestanome di Bernardo Provenzano. La ragazza è più giovane di tre anni e gli invia lettere, gli regala profumi e i videogiochi di ultima generazione. Si incontrano in un appartamento alla periferia di Palermo e in una villetta a Bagheria. Infine, secondo quanto riportato in uno degli ultimi avvistamenti prima dell’arresto, Messina Denaro si trovava nel 2003 a Valencia, in Venezuela. Alcuni lo raccontano in compagnia di una donna, bellissima, straniera e silenziosa.

La cosca di Castelvetrano ha sempre trovato – come in molti altri casi – la sua forza nelle relazioni di parentela: Salvatore Messina Denaro è il fratello di Matteo. Fu arrestato per la prima volta nel 1998 (operazione “Progetto Belice”), insieme ad altre 24 persone. In quel periodo lavorava alla Banca Commerciale Italiana di Sciacca, mentre fino al 1991 aveva lavorato come funzionario alla Banca Sicula di Castelvetrano. Nel 2004 fu condannato definitivamente a 9 anni per “associazione per delinquere di stampo mafioso pluriaggravata, danneggiamento seguito da incendio aggravato in concorso e tentato incendio pluriaggravato in concorso”.  Avrebbe eseguito gli ordini del fratello, veicolando i “pizzini” ai mafiosi. E per questo è stato arrestato nuovamente nel marzo del 2010. Nel novembre del 2013 è stato condannato in via definitiva a 7 anni per associazione mafiosa. Il 2 Marzo scorso ha lasciato la casa di lavoro di Tolmezzo dove in regime di 41 bis stava scontando la misura di sicurezza, appunto, dell’assegnazione ad una casa di lavoro.

Anna Patrizia Messina Denaro è una delle sorelle. È stata condannata in appello a 14 anni e sei mesi. Nell’operazione Eden del 2013 finì in carcere anche per aver dimostrato di avere la possibilità di incontrare fisicamente il fratello, del quale avrebbe gestito i rapporti con l’organizzazione mafiosa, in assenza del marito Vincenzo Panicola, in carcere per mafia dal 2010 (operazione “Golem 2”).

Vincenzo Panicola. Cognato, per aver sposato Anna Patrizia. Figlio del defunto patriarca mafioso ed ex consigliere provinciale della Dc Vito Panicola. Era uno dei principali collegamenti tra l’allora superlatitante ed il resto dell’organizzazione, prima di finire in carcere nel 2010. Nel 2011, l’ex re dei supermercati Giuseppe Grigoli aveva detto di essere stato vittima del sistema estorsivo di Matteo Messina Denaro. E dato che nell’ambiente carcerario in molti avevano sospettato un possibile “pentimento”, a fine aprile del 2013 Vincenzo Panicola, per capire se davvero le dichiarazioni di Grigoli fossero state autorizzate dal capomafia di Castelvetrano, aveva chiesto alla moglie di accertare presso il vertice come stessero davvero le cose. Risposta che arrivò in tempi record, lasciando ipotizzare che Patrizia Messina Denaro (arrestata poi nel dicembre successivo) potesse aver incontrato fisicamente il fratello capomafia.

Gaspare Como. Anche lui cognato per aver sposato l’altra sorella Bice Maria. Fu arrestato nell’aprile del 1998 (operazione “Terra bruciata”) e condannato a 10 anni di reclusione. Arrestato nuovamente nel 2015 per intestazione fittizia di beni, fu invece assolto perché “il fatto non sussiste”.

Rosario Allegra. Cognato per aver sposato Giovanna Messina Denaro. Ex presidente regionale della Cna, ex assessore all’agricoltura e all’artigianato al comune di Castelvetrano, nel luglio del 1992 fu arrestato per istigazione alla corruzione in una vicenda di cooperative fantasma che ricevevano dalla regione parecchi finanziamenti. Nell’aprile del 1998 finì di nuovo in carcere (operazione “terra bruciata”), insieme ad altre 15 persone con l’accusa di essere stato “il referente dell’organizzazione sia per il controllo dell’estrazione degli inerti, che per l’attività estorsiva”, ricevendo una condanna nel marzo del 2000 ad 11 anni di reclusione da parte del Tribunale di Marsala.

Filippo Guttadauro. Cognato per aver sposato Rosalia Messina Denaro. Fu arrestato nel marzo del 1994 e condannato per associazione mafiosa. Poi fu arrestato di nuovo nel luglio del 2006 e condannato in Appello a 14 anni: l’aggravante di essere il capo della cosca di Castelvetrano era caduta e i 18 anni del primo grado non vennero riconfermati. Il suo pseudonimo nei pizzini tra Matteo Messina Denaro e Bernardo Provenzano era “121”.

Francesco Guttadauro. Nipote, figlio di Filippo. È in carcere in seguito all’arresto nell’operazione “Eden 2” del novembre 2014, condannato in Appello a 16 anni di reclusione. Sarebbe stato investito ufficialmente dal latitante Matteo Messina Denaro, attraverso dei “pizzini”, nel ruolo di riorganizzatore della struttura criminale minata dalle varie operazioni dei carabinieri.

Girolamo Bellomo. Nipote acquisito. Detto “Luca”, marito di Lorenza Guttadauro (figlia di Filippo), anche lui arrestato nell’operazione Eden 2 e condannato a 10 anni in Appello. Da Palermo gestiva direttamente il traffico di droga, imponeva le ditte edili e pianificava le estorsioni per controllare il territorio.

Lorenzo Cimarosa. Cugino acquisito per aver sposato la figlia della sorella di Francesco Messina Denaro. Fu uno dei personaggi di spicco ad essere arrestato nel 1998 nell’operazione “Terra bruciata”. E poi nell’operazione “Eden” del 2013. Il primo (e forse l’ultimo) componente della famiglia che è diventato collaboratore di giustizia. Le sue preziose rivelazioni sono risultate molto utili per gli inquirenti, che hanno potuto ricostruire diverse dinamiche interne alla famiglia mafiosa. È deceduto per una lunga malattia nel gennaio dello scorso anno.

Mario Messina Denaro. Cugino del capomafia castelvetranese, in quanto i loro nonni erano fratelli. È stato arrestato nell’ operazione “Golem” del 2009 e condannato con patteggiamento a 5 anni di reclusione. Secondo gli inquirenti aveva il ruolo di estortore all’interno della cosca. Fu arrestato di nuovo nel 2013 (operazione “Eden”) con l’accusa di tentata estorsione in danno dell’imprenditrice di Castelvetrano Elena Ferraro, titolare della clinica Hermes, che lo denunciò. E per questo fu condannato ad altri 4 anni e 2 mesi di carcere.

Giovanni Filardo. Cugino, figlio della sorella di Lorenza Santangelo, madre di Matteo Messina Denaro. Condannato in via definitiva per mafia a 12 anni e 6 mesi (operazione “Golem 2”), con relativa confisca di beni per 3 milioni di euro. Anche lui, secondo gli inquirenti, si sarebbe occupato di pizzini, estorsioni, reinvestimento illecito di capitali.

Matteo Filardo. Cugino, fratello di Giovanni. Anche lui arrestato nell’operazione Golem 2, accusato di una tentata estorsione, è stato poi assolto con formula piena. È attualmente indagato dalla Dda di Palermo, insieme ad altre 29 persone, nell’ambito di una serie di perquisizioni finalizzate alla cattura del boss latitante, in un blitz avvenuto nel dicembre scorso.

La Figlia.

Estratto dell’articolo di Roberto Saviano per il “Corriere della Sera” martedì 26 settembre 2023.

Essere figlie di un uomo d’onore comporta regole difficili da sopportare, comportamenti codificati, percorsi obbligati. Eppure anche in questo Matteo Messina Denaro sembrava fare eccezione. Non si era mai sposato per una scelta precisa, una scelta di carriera.

Mi spiego: Matteo Messina Denaro, uomo d’onore che ha scalato le posizioni gerarchiche dentro Cosa Nostra nella fazione corleonese, sapeva benissimo che l’affidabilità era data dal comportamento personale e privato. L’affidabilità, quindi, sarebbe stata compromessa — a lui, che non ha mai sopportato la monogamia e le relazioni esclusive — se avesse sposato una donna per poi mantenere relazioni che Cosa Nostra definisce ancora «adulterine». […]

Non sposandosi, Matteo Messina Denaro ha mantenuto la credibilità verso le gerarchie superiori. Messina Denaro ha una figlia nata da una delle sue relazioni avute durante l’infinita latitanza. Le indagini ce la segnalano come unica (anche se indiscrezioni mai confermate parlano di altri figli). Nata da una donna che non ha sposato, è stata però chiamata come la madre del boss, Lorenza, e per tutta la sua vita, fino a pochi giorni fa, Lorenza Alagna, figlia di Franca Maria Alagna.

[...]

Si è parlato a lungo di una distanza tra lei e il padre quando invece, a pochi giorni dalla morte, Lorenza diventa Messina Denaro. Prende il cognome del padre. E come è possibile, dopo tutti questi insulti, dopo averla definita nel peggiore dei modi — «imbelle», «ebete» —? Beh, non c’è nessuna ragione nobile, nessun’altra ragione che quella di sempre, quella che muove ogni uomo e ogni donna, quella che muove quasi ogni essere umano. Il denaro. 

E sì, perché le Procure non riusciranno mai a identificare tutti i soldi di Matteo Messina Denaro. È sempre un segmento quello che viene scoperto, soprattutto riguardante i beni materiali in Italia, ma i conti esteri, i suoi soldi probabilmente in Albania — un territorio dove le indagini lo hanno tracciato spesso —, i soldi nei paradisi fiscali, quelli non si raggiungono mai. Ebbene, quel denaro a chi andrà? Soltanto a eredi riconosciuti dal boss stesso. 

L’eredità in Cosa Nostra non risponde alla legge, l’eredità di un uomo d’onore non si ripartisce, non si regolamenta, ma va a chi dice lui.

E, soprattutto, non può andare a nessun figlio che non abbia il cognome del padre. I soldi che Cosa Nostra deve alla famiglia di Messina Denaro possono andare solo a un Messina Denaro. O a una Messina Denaro. Ecco spiegato l’arcano. Lorenza, prendendo il cognome del padre, ne prende il titolo a gestirne i capitali. E soprattutto ne prende l’eredità spirituale.

In breve: dal suo sangue discende un sangue riconosciuto da Cosa Nostra. Lei non ha avuto, per quel che sappiamo, sino ad ora un ruolo in Cosa Nostra […] Poteva interrompere — rifiutando il cognome e quindi ogni legittimità di successione — la stirpe, invece ha deciso di non farlo.

Al capezzale del boss. Chi è la figlia di Matteo Messina Denaro, la decisione di Lorenza Alagna di prendere il cognome del padre. Nata nel 1996 da una relazione del capo mafia con Francesca Alagna. Non aveva mai conosciuto il padre prima dell'arresto. Aveva smentito dopo la cattura di averlo rinnegato e di non volerlo incontrare. Redazione Web su L'Unità il 25 Settembre 2023

Lorenza Alagna è rimasta fino all’ultimo al capezzale di Matteo Messina Denaro, suo padre, il boss di Cosa Nostra latitante per trent’anni e arrestato lo scorso gennaio in una clinica a Palermo, l’ultimo capo stragista della mafia siciliana morto la scorsa notte all’Aquila. Alagna era nata da una relazione che la “primula rossa” aveva avuto durante gli anni di latitanza. Era stata riconosciuta nei mesi scorsi dal boss e aveva voluto prendere il cognome del padre. Il funerale non sarà religioso. Lorenza Guttadauro, nipote del boss e avvocato, sta curando la procedura post mortem. La salma sarà trasferita a Castelvetrano, in provincia di Trapani.

Per giorni Messina Denaro è stato in trattamento palliativo. Non era più alimentato, è stato sedato, idratato, secondo le sue volontà scritte nel testamento biologico. Era malato ormai da tempo di una forma avanzata di tumore al colon al quarto stadio. Era stato operato già due anni fa, dopo che aveva scoperto la malattia a fine 2020. Era stato sottoposto a chemioterapia. È morto poco prima delle 2:00 della scorsa notte all’ospedale dell’Aquila dov’era stato ricoverato e operato due volte nei mesi scorsi e da dove non era più tornato in carcere.

Franca Maria Alagna era sorella di un commercialista. Erano passati ormai tre anni dall’inizio della latitanza di Messina Denaro quando ebbe la figlia, l’unica ufficiale del capo mafia. La piccola ebbe il nome della nonna e crebbe con la famiglia del padre. “Stai lontana da mondi che non conosci, io sono entrato in altri mondi al prezzo della sofferenza, ma tu non osare mai, ti prego. È il solo augurio che oggi posso farti”, le aveva scritto il padre in un messaggio quando aveva compiuto 17 anni. Quando nel 2012 aveva compiuto 18 anni, la ragazza con la madre aveva abbandonato la casa della nonna materna dov’era cresciuta. Messina Denaro in alcuni pizzini mandati alla sorella Rosalia, detta Rosetta, si era lamentato di non aver mai incontrato la figlia.

Lorenza Alagna oggi ha 27 anni e un bimbo di due anni che non conosceva il nonno. Dopo l’arresto era stata descritta come pronta a prendere le distanze dal padre. “Non ho mai rinnegato mio padre e non ho mai detto che non andrò a trovarlo in carcere”, aveva fatto sapere in una nota diffusa dal suo avvocato. “A seguito dell’arresto di Matteo Messina Denaro, il bailamme massmediatico innescatosi non ha risparmiato la figlia, Lorenza Alagna. Sono state diffuse attraverso i mezzi di informazione a tiratura nazionale e di divulgazione online, sin dai giorni immediatamente successivi all’arresto e con ritmo sempre più incessante ed insistente, notizie destituite di ogni fondamento, riguardanti una presunta manifestazione di volontà da parte di Lorenza Alagna atta a rinnegare ogni contatto con il padre”. La nota confermava che “mai e poi mai sono intervenuti contatti con il padre fin dalla nascita” e smentiva seccamente le dichiarazioni dei media.

La ragazza ad aprile aveva conosciuto il padre, lo aveva incontrato al carcere di massima sicurezza e lui l’aveva riconosciuta. Ha finito per firmare l’atto notarile per prendere il cognome del padre e rinunciare a quello della madre. A mediare tra i due la nipote e cugina Lorenza Guttadauro, avvocato del boss. Secondo le ricostruzioni in un primo momento il capo mafia aveva respinto le richieste della figlia di incontrarlo. Ad aprile la ragazza aveva varcato le soglie del carcere e aveva presentato al boss anche il nipote. Il cognome di Messina Denaro non si aggiungerà ma sostituirà quello della madre della ragazza. Redazione Web 25 Settembre 2023

Estratto da ilfattoquotidiano.it il 15 Giugno 2023.

Matteo Messina Denaro avrebbe progettato l’omicidio della nonna materna di sua figlia Lorenza. Il boss di Castelvetrano voleva, infatti, uccidere Filippina Polizzi, madre della sua ex compagna Franca Alagna. Novità che emerge dal provvedimento con cui i giudici del Riesame hanno rigettato l’istanza di scarcerazione dell’amante del capomafia, la maestra Laura Bonafede, arrestata il 13 aprile scorso per favoreggiamento aggravato e procurata inosservanza della pena. Alla base del progetto vi sarebbero i contrasti nati con la sua ex compagna e madre dell’unica figlia dell’ormai ex latitante. Proprio Filippina Polizzi sarebbe stata considerata dal boss la causa di quei contrasti che portarono la figlia Lorenza a lasciare la casa dei Messina Denaro in cui aveva abitato con la madre.

Come sottolineano i giudici del Riesame, il piano di morte (che comunque non è mai stato realizzato) viene svelato in un messaggio datato 15 dicembre del 2022 tra l’allora latitante e Laura Bonafede. “La Bonafede lasciava intendere – scrivono i magistrati – che questi (Messina Denaro ndr) avesse manifestato il proprio intento omicidiario ai danni di Filippina Polizzi, madre di Franca Alagna e ritenuta la vera artefice delle frizioni familiari” 

(...)

Messina Denaro, i diari del padrino per la figlia mai vista. "Sarà impossibile dimenticarsi di me". Salvo Palazzolo su La Repubblica il 5 marzo 2023.

Una delle pagine dei diari scritti da Messina Denaro per la figlia  

Sono tre quaderni con la copertina rigida. "Dateli a Lorenza quando sarà pronta a leggere e avulsa dal condizionamento di terze persone"

 "Ad oggi i van Gogh sono due, l'altro fu il 29 novembre 2021 - scriveva Matteo Messina Denaro - Ne allego uno per Fragolone, vi prego fateglielo avere". Fra i tanti pizzini ritrovati nel covo del superlatitante, questo incuriosì subito i carabinieri del Ros e i magistrati. Cos'erano i due van Gogh? La perquisizione dell'appartamento di vicolo San Vito, a Campobello, ha svelato il giallo: il boss annotava i suoi pensieri su un quaderno che ha per copertina un quadro del celebre pittore olandese.

Estratto dell’articolo di Riccardo Arena per “la Stampa” il 4 marzo 2023.

La degenerata («nell'intimo», anche se la grafia lascia pensare a «infimo») sarebbe lei, Lorenza Alagna, la figlia oggi ventiseienne dell'uomo che crede di non poter essere dimenticato. I pizzini ritrovati dai carabinieri restituiscono il delirio di onnipotenza di un uomo gravemente malato. Malattia che in fondo ha consentito la cattura di Matteo Messina Denaro.

 Parlano, quegli appunti, anche della straordinaria solidarietà di una famiglia – questa sì – degenerata nel profondo. L'arresto – ieri – della sorella Rosalia, 68 anni fra pochi giorni, da una parte ribadisce che la famiglia è stata il principale sostegno del boss nei trent'anni trascorsi in fuga a due passi da casa e dal paese di origine, Castelvetrano.

 Dall'altro lato consegna alla storia della mafia un uomo con tanto tempo a disposizione e che probabilmente si prendeva troppo sul serio. Rosalia, intesa anche Rosa o Rosetta, chiamata dal fratello col nome in codice di Fragolone, è la sorella maggiore delle quattro donne di casa Messina Denaro: era anche una dei pochi non «attinti», in famiglia, da pregiudizi penali o da precedenti arresti.

Si può leggere forse anche in questa ottica la scelta di non farsi assistere, come invece ha fatto il fratello, dall'avvocato Lorenza Guttadauro, nipote del boss e figlia proprio di Rosalia e Filippo Guttadauro, boss originario di Bagheria ma trapiantato a Castelvetrano. Intrecci familiari al di sotto di ogni sospetto: Filippo è fratello di Giuseppe Guttadauro, il chirurgo-boss all'origine dei guai dell'ex presidente della Regione Sicilia, Totò Cuffaro. […]  

condannato il fratello: lui, fissato con la distruzione dei messaggi scritti, cartacei, evidentemente non era riuscito a farsi obbedire, in questo, da Rosetta, perché proprio un appunto con i dettagli sulle sue condizioni di salute, nascosto nel piede di una sedia, è stato trovato dagli investigatori del Ros durante una visita notturna segreta, a Castelvetrano, in casa della donna. Da lì è partito il meccanismo che in 40 giorni ha consentito l'arresto.

Lei era docile, disponibile: «Mi fai sempre lo spekkietto finale, così so quanto c'è», le scriveva il boss. Sempre lei teneva la «kassa», ma non solo: fedelissima nell'animo, leggeva e conservava scritti in cui il capomafia parafrasava testi famosi per dire che «muore davvero solo chi viene dimenticato e io non lo sarò mai». Fedele in tutto: anche a tenere uno straccio appeso alla finestra come segnale di allarme, a fare da tramite con altri personaggi nascosti da pseudonimi («Parmigiano», «Condor»), debitori dello Smilzo. […]

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per palermo.repubblica.it il 4 marzo 2023.

Su una questione il Matteo Messina Denaro non riesce a darsi pace, e manda pizzini su pizzini. La figlia Lorenza, che oggi ha 26 anni. Il boss non l’ha mai riconosciuta, ma la madre e la ragazza hanno vissuto a lungo a casa della nonna paterna. Fino a quando, nel 2013, la giovane è andata a vivere altrove con la mamma Francesca. Aveva 17 anni all’epoca. Oggi ne ha 26, vive con un compagno a Castelvetrano, è diventata madre.

 Ma il padre boss continua a non darsi pace. Nel 2020 scriveva così in un biglietto trovato in copia nel suo covo di Campobello: “Poco tempo fa leggendo il giornale vedo un necrologio che vi allego, vi spiego il mio pensiero. Prima vi faccio una premessa se no non capite. Questo Leonardo Bonafede era un amico di nostro padre, lo conoscevo pure io comunque. È morto qualche anno fa. La “M.” che si firma, io non la conosco ma è la nipote. Anche se non le conosco queste nuove generazioni, mi sono sempre tenuto informato sui familiari di chi è combinato come noi, per sapere che fine hanno fatto”.

“Ah, questa ragazza è cresciuta senza padre - scriveva ancora - lo arrestarono il padre quando lei era molto piccola e non è ancora uscito visto che ha l’ergastolo. Questa ragazza dai conti che faccio è poco più grande di Lorenza, quindi stessa generazione, e sicuramente si conoscono anche perché andavano nello stesso liceo negli stessi anni.

(...)

 Ma perché il boss raccontava questa storia alle sorelle? E perchè rimarcava che quella ragazza aveva avuto lo "stesso ragazzo" e si "è sposata con lo stesso"? Lo svela lui stesso: “Vi ho raccontato la storia di lei perché ha fatto il necrologio, ma vi potrei raccontare la storia di tante con il padre assente e della stessa generazione, perché sono informato di tutte quelle a cui manca il padre. Ebbene, nessuno ha fatto la fine di Lorenza, sono tutte sistemate, che voglio dire? È l’ambiente in cui cresci che ti forma, e lei è cresciuta molto male.

Ma la cosa che mi ha fatto più senso è la frase finale di questa M., mi ha colpito questa frase ed è per questa frase che vi sto scrivendo. Lei dice: “Onorata di appartenerti” al nonno. Ma lo capite?!?! Ciò significa che la mancanza del padre non è di per sé motivo di degenerazione educativa, è solo Lorenza che è degenerata nell’infimo, le altre di cui so sono tutte cresciute onestamente”.

 Fa davvero impressione leggere queste parole. Messina Denaro, killer e stragista, prova a fare la parte del padre responsabile che rimprovera la figlia. Per che cosa? Quello che a Messina Denaro interessava davvero era la sottomissione della figlia alla cultura mafiosa. Scriveva ancora dell’altra ragazza: “La nipote dice al nonno 'Onorata di appartenerti', e lei cosa ha fatto al padre, cioè a me? Ma va bene così, non ho più nulla da recriminare”.

Sembra che non si siano mai incontrati. Qualche giorno dopo l’arresto, la giovane ha rilanciato una sua dichiarazione tramite un legale: “Non ho mai rinnegato mio padre e non ho mai detto che non andrò a trovarlo in carcere”. Chissà cosa accadrà adesso.

Lorenza. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 19 gennaio 2023.

Non so Messina Denaro quanti politici e imprenditori controllasse ma di sicuro non controllava sua figlia. Venuta al mondo quando il padre era già latitante, Lorenza crebbe in casa della madre di lui, che si chiamava come lei, e delle quattro zie, le sorelle del boss. Par di vederla mentre si aggira bambina in quell’appartamento dalle serrande sempre abbassate, con le foto del padre che la scrutano dalle mensole degli armadi. La di Lorenza si poté concedere le uniche libertà di darle il suo , immagino, un esempio dissonante rispetto a quel bell’ambientino. Ma il resto lo fece la scuola. Il frutto delle centinaia di eventi organizzati nei licei di Palermo in questi ultimi decenni lo si raccoglie adesso: gli applausi ai carabinieri che avevano appena arrestato Messina Denaro provenivano in prevalenza da persone giovani, ed è a scuola che Lorenza ha respirato la nuova «narrazione» dove i magistrati erano eroi e i banditi, appunto, banditi. Quando in classe l’insegnante nominava il padrino, ignorando fosse suo padre, lei usciva in corridoio per la nausea, ma i temi contro la mafia li scriveva eccome. Poi si è costruita una vita tutta sua, rifiutandosi sempre di incontrarlo. Quella frase ritrovata nel diario di lui, « perché mia figlia è arrabbiata con me?», la dice lunga sulla scarsa consapevolezza che Messina Denaro ha di sé stesso, ma anche sul carattere di Lorenza. «Fate finta che io non esista», ha chiesto la ragazza ai giornalisti. Giusto così, però Lorenza esiste. Per fortuna.

Fabiana Cusumano, la prof di Lorenza Alagna: «Studiosa ed educata, una volta mi disse: “Lui resta mio padre”» Storia di Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 22 gennaio 2023.

Alla professoressa d’italiano che allo Scientifico seguì per qualche tempo la figlia di Messina Denaro arriva l’esplicito invito di un avvocato «ad astenersi dalla smania di apparire su giornali e tv». Da una parte Fabiana «Bia» Cusumano, scrittrice e direttrice di un festival letterario a Castelvetrano, pronta a indicare , la figlia del boss, come un modello per non avere seguito le orme paterne, per avere deciso alla maggiore età di vivere con la madre fuori dalla casa delle sorelle del capomafia. Dall’altra l’avvocato Franco Lo Sciuto, pronto a ribadire che «la sfera del rapporto padre-figlia è intangibile e insindacabile».

Un invito al silenzio, professoressa.

«Noi soffochiamo nel silenzio di questo pezzo di Sicilia dove Messina Denaro trovava complicità diffuse. E nessuno mi farà tacere davanti ai ragazzi di oggi se mi permetto di indicare nel travaglio di Lorenza e nelle scelte di sua madre un fatto positivo. Non è più tempo di assuefazione e rassegnazione, nemmeno in casa del boss».

Contestano che sia stato attribuito a Lorenza, oggi 26enne e madre di un bimbo di 18 mesi,.

 «Io non l’ho mai detto. Ho invece apprezzato il fatto che Lorenza non abbia mai avuto rapporti con lui, nonostante vivesse questo disagio e il dolore nel sapere chi fosse. Mi interessa tutto ciò per parlarne con gli allievi di oggi, per indicare loro la dritta via che non può mai convergere con quella dei mafiosi, anche se sono parenti, padri, fratelli...».

Lei ha avuto con Lorenza contatti da supplente, solo per un mese?

«È stata una frequentazione intensa con lei e con il cugino Francesco Panicola, altro ragazzo d’oro. Entrambi assenti durante una giornata dedicata all’antimafia, il preside li redarguì. Io parlai con loro cercando di capirne il tormento, un vissuto traumatico. E si aprirono. Utile per alimentare ancora oggi un dibattito in classe, per scuotere i giovani in questa soffocante Castelvetrano».

Non è cambiata l’aria?

«Il nome del boss non poteva essere neanche pronunciato. Io l’ho sempre fatto e ho sempre parlato di mafia e di legalità in classe, del coraggio di dire la verità, di non girare lo sguardo altrove, per paura, con un atteggiamento omertoso che non è solo siculo: “niente so, niente ho visto, niente voglio sapere”».

Come ricorda Lorenza?

«Una ragazza studiosa, attenta in classe, ben educata, forte e determinata. Lei stessa una volta mi disse: “Per voi può essere uno stragista, un criminale, un super boss. Per me resta mio padre”. Ho capito tutto il suo dolore. Consapevole di essere figlia di un boss, ma attraversata dall’amore imprescindibile per un genitore, chiunque esso sia, anche un mafioso».

Resta quell’invito al silenzio.

«Su questa vicenda so bene che forze più grandi di Lorenza si muovono e si agitano, se così non fosse non si spiegherebbero i 30 anni di latitanza. Chi dice la verità è sempre scomodo. Chi ha il coraggio di dire no, altrettanto. Si è passati dalla mafia delle stragi alla mafia del silenzio. Siamo una città sfibrata, logora, massacrata pure dai mass media, ma siamo anche una città che può, se vuole, cambiare vita rinascendo dalle macerie. Per farlo bisogna parlare, non tacere».

Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per repubblica.it il 19 gennaio 2023.

Dalla palazzina dei Messina Denaro, in cui è stata “custodita” fino al compimento dei 18 anni, a quella che oggi è la casa in cui vive con il compagno e il suo bimbo di un anno e mezzo ci sono poche centinaia di metri. Ma Lorenza, Lori come la chiamano qui, continua a tenersi a distanza da quel padre ingombrante che - giurano magistrati e investigatori - lei non ha mai visto in 26 anni.

 «Via, non ho nulla da dire, lasciatemi in pace», dice sfuggendo ai cronisti che le fanno la posta provando a intercettare il rifugio dove tiene lontano da occhi indiscreti il piccolo Nicolò, un anno e mezzo, l’unico nipote del boss che dell’ormai ex superlatitante non porta né nome né ovviamente il cognome.

Quel padre che adesso, nell’agenda ritrovata nella casa di Campobello di Mazara, si duole del fatto che la figlia non vuole vederlo, non ha mai riconosciuto la bambina nata quando lui era già latitante. E dunque Lorenza di cognome fa Alagna, come la mamma Franca, sorella di un altro nome noto, Michele Alagna, alter ego del patron della Valtur Carmelo Patti finito sotto indagine proprio perché sospettato di ripulire i soldi del clan.

 […] E da una intercettazione fatta a casa Messina Denaro nel 2007 si capisce anche perché. A parlare è la nonna paterna, Lorenza Santangelo, che dice all’altro suo figlio: «Devi dire a tuo fratello che ha una figlia che a dicembre ha compiuto 11 anni e che è arrivato il momento che qualcosa pure a lei la scriva. Perché adesso la ragazzina inizia a fare domande sul padre e lui non può continuare ad ignorarla come ha sempre fatto dimenticandosi anche del compleanno della figlia».

[…]

A scuola, al liceo scientifico Michele Cipolla, Lorenza scriveva anche temi sulla legalità ma alle giornate antimafia, come quella organizzata nel 2014, la ragazza non si presenta

 A 18 anni, però, (dicono con l’autorizzazione del padre), madre e figlia lasciano la casa dei Messina Denaro e si trasferiscono altrove. Lorenza si iscrive anche all’Università, un unicum per le donne di casa Messina Denaro, ma non porta a compimento gli studi. Un compagno (di Campobello di Mazara) e un figlio a cui, anche lei come ha fatto sua madre, ha voluto dare il suo cognome […]

Estratto dell’articolo di Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 19 gennaio 2023.

 […] al liceo […] Erano gli anni in cui una professoressa determinata a parlare di legalità, denunciando «i compromessi fra mafia e Stato», scuoteva i suoi ragazzi senza sapere che in classe aveva la figlia del boss.

Lo ricorda bene l'insegnante oggi direttrice di un festival di letteratura, Bia Cusumano: «Un giorno, mentre parlavo delle stragi mafiose riferendomi proprio all'allora imprendibile Messina Denaro, Lorenza si irrigidì. "Posso uscire, professoressa?". Adesso che parliamo di cose importanti? "Devo uscire".

 Due minuti dopo un ragazzo mi rivelò di chi era figlia, nonostante il cognome diverso. E allora decisi che bisognava parlare ancora di più, che occorreva scuotere...». Non si sa quanto abbia pesato quell'incontro con la professoressa

[…] Echeggia ancora la lettera scritta da Messina Denaro all'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, nome in codice Svetonio: «Non ho mai conosciuto mia figlia...». […] Proprio all'agenda intima trovata nella casa di Campobello di Mazara il padrino aveva affidato spesso il suo sconforto per quella lontananza dalla figlia diventata da un anno e mezzo anche madre. E si chiedeva: «Perché mia figlia è arrabbiata con me?».

(ANSA il 24 luglio 2021.) L'uomo più ricercato d'Italia, latitante dal 1993, è diventato nonno. La figlia del boss mafioso Matteo Messina Denaro, Lorenza Alagna, che porta il cognome della madre Francesca e il nome della nonna paterna, il 14 luglio scorso ha partorito un bambino, avuto col suo compagno. Il bimbo non si chiama come il nonno Matteo. Lorenza ha 26 anni e da tempo ha lasciato la casa della nonna paterna a Castelvetrano, in cui viveva con la madre, scegliendo di vivere libera senza dover trascinare il peso del cognome del padre che però non ha in alcun modo ripudiato e che, secondo gli investigatori, non avrebbe mai visto. "Quanto vorrei l'affetto di una persona e purtroppo questa persona non è presente al mio fianco e non sarà mai presente per colpa del destino... " aveva scritto su Facebook Lorenza che conduce una vita come tutte le ragazze della sua età dopo il diploma al liceo scientifico e il tentativo di raggiungere la laurea. Anni fa, al Tg 2, dietro le serrande abbassate della sua abitazione aveva detto: "Non voglio rilasciare interviste, non voglio stare sotto i riflettori. Basta. Io sono una ragazza normalissima come tutte le altre. Voglio essere lasciata in pace. Dovete fare finta che io non esisto". Matteo Messina Denaro è ricercato in tutto il mondo per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto. E' l'ultimo grande boss mafioso latitante che ha goduto di una fitta rete di protezione nel trapanese anche grazie all'enorme disponibilità di soldi.

"Non pensare più a me, non ne vale la pena". Le donne di Messina Denaro, il boss senza moglie e con una figlia che “non ha mai incontrato”: le lettere e il carcere per amore. Redazione su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Non si è mai sposato, ha una figlia che in un ‘pizzino‘ rivelò di non aver mai conosciuto e nel corso della sua latitanza sarebbero emerse almeno tre relazioni sentimentali, tra cui quella con una donna, Maria, che ha scontato poco più di due anni di carcere “per amore”.

Matteo Messina Denaro, il boss 60enne arrestato in un clinica privata a Palermo dopo 30 anni di latitanza, quando iniziò la sua latitanza, nel gennaio del 1993, liquidò la sua fidanzata di allora, Sonia, con un messaggio netto: “Non voglio nemmeno pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò per il semplice fatto che non so come e quando ci sono entrato. Non pensare più a me, non ne vale la pena”.

LA FIGLIA E IL NIPOTINO – Nei mesi successivi, ha una relazione stabile con Franca Maria Alagna, la donna che il 17 dicembre 1995 dà alla luce la figlia Lorenza, che porta il cognome della madre e il nome della nonna paterna. Dopo la nascita della primogenita del boss (anche se non riconosciuta), la compagna di Messina Denaro andò a vivere dalla suocera insieme alla neonata. Una volta diventata maggiorenne, sia Lorenza che la madre ottennero il “permesso” di andare a vivere lontano da Castelvetrano. Il 14 luglio 2021 Messina Denaro è diventato nonno: Lorenza Alagna ha dato alla luce un bambino che non ha né il nome del nonno, né il cognome del padre naturale (ma quello della madre).

Lorenza oggi ha 27 anni e secondo gli investigatori non avrebbe mai incontrato Messina Denaro. “Quanto vorrei l’affetto di una persona e purtroppo questa persona non è presente al mio fianco e non sarà mai presente per colpa del destino… ” aveva scritto su Facebook in passato. Anni fa, al Tg2, dietro le serrande abbassate della sua abitazione aveva detto: “Non voglio rilasciare interviste, non voglio stare sotto i riflettori. Basta. Io sono una ragazza normalissima come tutte le altre. Voglio essere lasciata in pace. Dovete fare finta che io non esisto”.

Il fratello di Franca Alagna, il commercialista (ex insegnante), Michele lavorava con Carmelo Patti, l’imprenditore scomparso negli anni passati che nel 2018 subì un sequestrò beni per 1,5 miliardi, “una delle misure patrimoniali più ingenti mai eseguite” disse la Dia. I sigilli vennero messi a resort, beni della vecchia Valtur, una barca di 21 metri, un campo da golf, terreni, 232 proprietà immobiliari e 25 società. Tutti beni riconducibili -secondo gli inquirenti – al patrimonio dell’ex primula rossa.

LE LETTERE E IL BLITZ NEL COVO – Dopo la relazione con Franca Alagna, il boss di Castelvetrano ha avviato un legame sentimentale con un’altra donna, Maria Mesi. Oltre agli incontri sporadici (in un appartamento alla periferia di Palermo e in una villetta a Bagheria), è nata una corrispondenza epistolare che più volte è finita nelle mani degli investigatori, così come quelle scritte dallo stesso “U siccu”. Lettere d’amore dove Maria annunciava regali come profumi o videogiochi, grande passione di Matteo Messina Denaro durante la lunga latitanza. “Sai ho letto sulla rivista dei videogiochi che è uscita la cassetta di Donkey Kong 3 e non vedo l’ora che sia in commercio per comprartela. Quella di Secret Maya 2 ancora non è arrivata. Sei la cosa più bella che ci sia” era scritto in una missiva inviata dalla donna a Messina Denaro.

Un legame che portò Maria Mesi in carcere per favoreggiamento. Seguendo i suoi spostamenti le forze dell’ordine arrivarono a un passo dalla cattura del boss nel 1998. Gli investigatori scoprirono infatti un covo a Bagheria, in via Milwaukee 40. Quando gli agenti di polizia fecero irruzione, Messina Denaro era già scappato. Vennero trovati nell’abitazione un barattolo di Nutella, uno di caviale, un puzzle incompleto, una stecca di sigarette Merit.

Maria Mesi finì in carcere nel 2000 per favoreggiamento aggravato. Detenuta fino a febbraio dell’anno successivo (2001) per tornare libera in attesa che la Cassazione decidesse il suo destino. Dei tre anni che le avevano dato, a Roma  – così come riporta Repubblica – le abbuonarono otto mesi riconoscendo che si era compromessa e tanto, ma per amore.

Infine un altro legame “noto” durante la latitanza, stando alle parole dei collaboratori di giustizia, è quello che nacque in Venezuela con una donna “bellissima e silenziosa”. Messina Denaro sarebbe stato in Sud America nel 2003. Avrebbe vissuto per qualche tempo nella città venezuelana di Valencia, regno dei clan Cuntrera e Caruana che da Siculiana, paese dell’agrigentino, colonizzarono Canada e Sudamerica diventando monopolisti del narcotraffico.

Prima della sua lunga latitanza, Messina Denaro ha frequentato poi una receptionist, di nazionalità austriaca, che lavorava in un hotel di Castelvetrano. La donna si chiamava Andrea Haslehner. Una frequentazione che andò avanti dal 1989 fino all’inizio della sua latitanza. Quando il direttore dell’albergo, Nicola Consales, fece capire ad Andrea Haslehner che quelle persone (la struttura era frequentata anche dai Graviano e da altri mafiosi) non erano gradite: fu assassinato il 21 febbraio 1991.

LA MALATTIA, LA CLINICA E L’AMORE PER LE DONNE – Negli ultimi due anni, a causa di un tumore al colon con metastasi al fegato, è stato operato due volte (il 13 novembre 2020 enell’ospedale “Abele Ajello” di Mazara del Vallo, e nel maggio 2022 alla clinica La Maddalena di Palermo, dove è stato poi arrestato nelle scorse ore). Sotto il falso nome di Andrea Bonafede, Messina Denaro inizia cicli di chemioterapia: 12 nel 2021 e 10 nel 2022. Dal personale della struttura sanitaria e da alcuni pazienti è stato descritto come un uomo elegante, che in reparto aveva la giacca da camera, metteva soprabiti in pelle con camicie stile hawaiano, parlava del suo amore per le donne. Aveva detto di avere due figlie che però vivevano fuori e di non avere altri parenti.

A una donna che faceva la chemio con lui avrebbe pure chiesto il numero di cellulare. “Stavamo nella stessa stanza – ha raccontato – era una persona gentile, molto gentile”. E poi aggiunge: “ci sono anche mia amiche che hanno il suo numero di telefono, lui mandava messaggi a tutti. Ha scambiato messaggi con una mia amica fino a questa mattina”.

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica il 18 gennaio 2023.

Scriveva tanto negli ultimi giorni, quasi ossessivamente. «Perché Lorenza non vuole vedermi? Perché è arrabbiata con me?». Lorenza, la figlia che non ha mai conosciuto, oggi ha 27 anni e da poco è diventata mamma. Matteo Messina Denaro, l’uomo delle stragi e delle complicità inconfessabili, aveva un’agenda con alcuni appunti d’affari, che da qualche tempo era diventata un diario intimo. Il pensiero tornava spesso alla sua Lorenza.

 Come quindici anni fa, quando annotava in un pizzino: «Io non conosco mia figlia — scriveva all’ex sindaco di Castelvetrano Tonino Vaccarino — Non l’ho mai vista, il destino ha voluto così, spero che la vita si prenda tutto da me per darlo a lei».

[…]

Estratto dell’articolo da ilmessaggero.it il 18 gennaio 2023.

Si dovrebbe chiamare Lorenza Messina Denaro perché lei è la figlia di Matteo Messina Denaro. Ma ha deciso che può fare a meno di quel cognome scomodo. Lorenza Alagna, figlia di Francesca Alagna, ha deciso di scavare un bivio per portarsi, per quanto possibile, lontano dalle vicende del padre.

«Non voglio saperne niente», dice Lorenza Alagna raggiunta a Castelvetrano dai cronisti del Fatto quotidiano. Lorenza Alagna non ha mai conosciuto il padre Matteo Messina Denaro

[…]

Non si sono mai conosciuti padre e figlia. Lorenza è il frutto della relazione con Francesca Alagna, sorella del commercialista di fiducia dell'ex patron della Valtur, Carmelo Patti, sospettato di essere un prestanome del padrino. «Non conoscere i propri figli è contro natura», scriveva Alessio, alias Matteo Messina Denaro che ha fatto strangolare e sciogliere nell'acido il figlio di un pentito. Scriveva di Lorenza a Svetonio, alias Antonino Vaccarino, in una corrispondenza poi finita sotto gli occhi degli investigatori che lo hanno cercato in tutti questi anni.

Ma chi è Lorenza Alagna? Si sa che ha vissuto a Castelvestrano con la mamma. Nel 2013 compie 18 anni e dopo la maturità al liceo scientifico si iscrive all'università allontanandosi dalla casa di famiglia dove aveva vissuto fino a quel momento. Oggi ha 27 anni e il 14 luglio 2021 ha avuto un bambino, con un giovane che lavora a Selinunte, che non porta il cognome Messina Denaro. 

«Quanto vorrei l’affetto di una persona e purtroppo questa persona non è presente al mio fianco e non sarà mai presente per colpa del destino...», scrisse una volta sul suo profilo Facebook Lorenza Alagna. Si riferiva al padre? Il magistrato Roberto Tartaglia provò a chiederle notizie senza successo. Anche i giornalisti del Tg2 provarono a parlare con Lorenza anni fa ma lei oppose la stessa resistenza di questi giorni: «Non voglio stare sotto i riflettori! Dovete fare finta che io non esisto», disse. 

Lorenza Alagna nei diari di Messina Denaro: «Perché mia figlia è arrabbiata con me?» Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2023.

Lorenza ha 26 anni e un bambino di diciotto mesi. La madre le diede il suo cognome, poi lasciarono la casa della nonna paterna

Scrisse di non avere mai visto la figlia. Lo scrisse in un «pizzino» inviato dieci anni fa a un sindaco in contatto con i servizi segreti. Forse poi Matteo Messina Denaro la sua Lorenza, oggi 26enne mamma di un bel maschietto, l’ha incrociata.

Anche se lei oggi ripete: non voglio saperne niente. Fate finta di nulla, fate finta che io non esista. Del resto chi ha dato la caccia per un’intera carriera al padrino delle stragi è convinto che si tratti di due vite parallele. Anzi, tre. Da una parte, il fuggitivo che, pur gravitando sempre fra Trapani, Mazara del Vallo e Castelvetrano, non poteva consentirsi di frequentare la bella ragazza di buona famiglia rimasta incinta, Franca Alagna, inciampata per caso nella rete del boss, con amara sorpresa per i suoi genitori estranei a quel mondo. Dall’altra, proprio lei, alta, snella, elegante, costretta già in gravidanza a trasferirsi in casa del latitante, guardata a vista dalla madre e dalle quattro sorelle del boss.

Come la piccola Lorenza, cresciuta in questa sorta di soffocante matriarcato, le persiane sempre socchiuse, le foto di Matteo piazzate sul comò del salotto, monito e invito al silenzio. Raccontano che la signora Franca non sia mai uscita da casa da sola. Seguita sempre da una delle cognate quando era proprio indispensabile. Ma preferibilmente restando sempre tappata dentro.

Il cognome

E così l’avrebbe vista maturare e sfiorire la piccola Lorenza, sempre più bella e alta come la mamma, bruna, i capelli a caschetto, sulle spalle. Così la ricordano i compagni di scuola del liceo scientifico. Frequentazione che deve averle fatto spalancare gli occhi su se stessa, nel confronto fra quanto accadeva fuori e la vita da reclusa consumata in casa con la madre. Sotto il controllo della nonna, stesso nome, turbata e inquieta quando la nuora decise di denunciare la piccola Lorenza all’anagrafe con il suo cognome. Sì, Lorenza Alagna. Unico atto di ribellione. Seguito da anni di rassegnazione per un destino ineluttabile, così apparso alla figlia quando tornando dal liceo tentava di scuotere la madre.

Al Liceo

Erano gli anni in cui una professoressa determinata a parlare di legalità, denunciando «i compromessi fra mafia e Stato», scuoteva i suoi ragazzi senza sapere che in classe aveva la figlia del boss. Lo ricorda bene l’insegnante oggi direttrice di un festival di letteratura, Bia Cusumano: «Un giorno, mentre parlavo delle stragi mafiose riferendomi proprio all’allora imprendibile Messina Denaro, Lorenza si irrigidì. “Posso uscire, professoressa?”. Adesso che parliamo di cose importanti? “Devo uscire”. Due minuti dopo un ragazzo mi rivelò di chi era figlia, nonostante il cognome diverso. E allora decisi che bisognava parlare ancora di più, che occorreva scuotere...». Non si sa quanto abbia pesato quell’incontro con la professoressa, ma a quel punto Lorenza, ormai quasi maggiorenne, la scossa la impresse a se stessa e alla madre. Costringendola a uscire dal guscio, a vivere, a non sopportare quello stato di soggezione. Matura così la scelta di andare a vivere in un altro appartamento. Primo passo verso la conquista di libertà sempre più concrete. Un viaggio in Inghilterra, l’iscrizione all’università con i viaggi in corriera per Palermo, l’incontro con un bravo ragazzo, l’amore che esplode con il frutto di un bel bimbo che oggi ha un anno e mezzo.

Le lettere

Echeggia ancora la lettera scritta da Messina Denaro all’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, nome in codice Svetonio: «Non ho mai conosciuto mia figlia...». A quel tempo la polizia aveva collocato telecamere e microspie per seguire i movimenti di Franca Alagna e della figlia. Ma quelle parole e le frecciate lanciate soprattutto da Lorenza contro il padre convinsero a seguire altri canali per tentare la via di una cattura sempre più difficile. Perché nella storia delle intercettazioni che contano poco da un punto di vista giudiziario, ma che forse andrebbero studiate, ci sarebbero pure gli sfoghi di una figlia che volta lo sguardo oltre il mondo paterno. Proprio all’agenda intima trovata nella casa di Campobello di Mazara il padrino aveva affidato spesso il suo sconforto per quella lontananza dalla figlia diventata da un anno e mezzo anche madre. E si chiedeva: «Perché mia figlia è arrabbiata con me?».

Il figlio.

Da open.online il 26 gennaio 2023.

Nei giorni scorsi abbiamo parlato della storia del figlio segreto di Matteo Messina Denaro. Il racconto partiva dal ritrovamento di abiti femminili in uno dei covi di Campobello di Mazara. Che ha fatto pensare alla possibilità che l’ultimo dei Corleonesi abbia frequentato una donna in questi ultimi mesi.

 Da qui il collegamento con la storia, o per meglio dire con la leggenda del figlio segreto. Oggi il Corriere della Sera riporta altri dettagli. Il presunto secondogenito del boss avrebbe diciotto anni o poco più. Si chiamerebbe con un nome che richiama quello di Francesco. Ovvero di Don Ciccio, leggendario boss del mandamento di Trapani morto da latitante e padre di Matteo e di Salvatore, i due figli maschi di Messina Denaro. Il Padrino avrebbe incrociato la madre intorno al 2004.

La leggenda del rampollo del Padrino

Il figlio maschio di un boss di mafia è per ora quindi un’ipotesi o una leggenda. Che si fonda su un’intercettazione delle sorelle di Messina Denaro che risale ormai a 9 anni fa. E secondo gli investigatori sarebbe appunto più o meno una fantasia. Una delle tante che hanno costellato i trent’anni di latitanza di ‘U Siccu. Che nasce già mafioso, visto che è figlio di un boss del calibro di Francesco Messina Denaro.

 E che per tutta la vita ha fatto parlare di sé in Sicilia a causa dei suoi rapporti con le donne. Francesca, detta Franca, Alagna, è la madre di sua figlia Lorenza. Non a caso chiamata come la madre. L’aneddotica vuole infatti che il boss abbia visitato le sue donne vestito da sacerdote o addirittura in abiti femminili per non farsi scoprire durante la latitanza.

 Tra le sue presunte conquiste c’è la vicenda della cittadina tedesca Andrea Haslener. Che lavorava al Paradise Beach Hotel di Selinunte. Il cui direttore venne fatto uccidere da Messina Denaro per questioni di gelosia. La donna è stata raggiunta dagli inquirenti a Vienna per capire se fosse lei la madre dell’altro figlio. Ma questo è stato escluso.

 Il pentito Sinacori

Il pentito Vincenzo Sinacori ha invece raccontato agli inquirenti che un giorno Messina Denaro si congedò dagli amici con una certa fretta: correva da Franca Alagna «per andare a fare un figlio». Un’altra vicenda lo lega invece a Maria Mesi. Lei per incontrarlo aveva affittato un appartamento a due passi dal suo. Seguendola, gli inquirenti pensavano di prenderlo. Ma nel momento del blitz la casa era stata svuotata e ripulita. Infine c’è Sonia, la donna salutata alla vigilia della latitanza con una lettera: «Non voglio nemmeno pensare di coinvolgerti in questo labirinto. Non pensare più a me, non ne vale la pena».

Il figlio fantasma di Messina Denaro: si chiamerebbe Francesco «Ciccio» e oggi avrebbe 18 anni. Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

Si tratta di un ragazzo con un cognome top secret, ma con un nome che richiamerebbe il nonno, Francesco, «don Ciccio», il patriarca di Cosa nostra morto da latitante e fatto ritrovare a casa fra candele e corone di fiori

Più che il figlio segreto è ormai il figlio fantasma di Matteo Messina Denaro. Se ne parla. Ma non in Procura o fra gli inquirenti che dubitano di una vecchia, insufficiente e fumosa intercettazione. Se ne parla soprattutto per strada, fra Castelvetrano, Campobello di Mazara, Marsala. Cioè nell’area dove sarebbe cresciuto questo secondogenito del boss arrestato la scorsa settimana. Un ragazzo che oggi avrebbe 18 anni o poco più. Con un cognome top secret, ma con un nome che richiamerebbe il nonno, Francesco, «don Ciccio», il patriarca di Cosa nostra morto da latitante e fatto ritrovare a casa fra candele e corone di fiori.

Rampollo

Una storia che il rampollo del padrino, se esiste, deve avere ripercorso in questi giorni continuando a celare la propria identità. Come la sua misteriosa madre che avrebbe incrociato «Diabolik», stando al soprannome del boss, nel 2004. Conquistata come tante dal fascino criminale di un viveur capace di mimetizzare con un sorriso il suo iter sanguinario culminato nelle stragi del 1992-1993, nel sequestro, nell’ omicidio e nella dissoluzione nell’acido di un ragazzino di 14 anni, Giuseppe Di Matteo, colpevole di avere un padre pentito. Ecco, se Francesco il figlio-fantasma dovesse materializzarsi forse oggi rifletterebbe su questa vittima innocente eliminata dieci anni prima della sua nascita. Come ne discutono i coetanei di licei e istituti tecnici dove ogni accertamento a caccia del figlio senza volto ha finora avuto esito negativo. Una ragione in più per dubitare di una confusa chiacchiera captata fra le sorelle di Messina Denaro. Parole poco chiare che fecero pensare, 9 anni fa, all’ipotesi del figlio segreto.

Primogenita

Ma, al contrario di quanto è accaduto per la primogenita dell’ex superlatitante, Lorenza Alagna, cresciuta in casa della nonna, stesso nome, e delle quattro sorelle del boss, il presunto figlio maschio non avrebbe mai messo piede nella casa paterna. D’altronde, Lorenza viveva lì fino alla maggiore età con la madre, Francesca Alagna, a sua volta succube delle ferree regole imposte da nonna Lorenza. Se un figlio ci fosse, certamente non avrebbero avuto finora alcuna occasione di incontro con Lorenza né il ragazzo né la madre, anche lei celata da un alone di mistero. Per chi si sta occupando di elementi concreti come l’analisi dei telefonini trovati in tasca a Messina Denaro, quella del figlio segreto sarebbe una leggenda. Da aggiungere al romanzo criminale che lo ha sempre visto protagonista con un profilo ben diverso dall’acciaccato malato forse stanco di scappare, nonostante le pilloline aiuta sesso custodite nel comodino. Perché quando amoreggiava con la mamma di Lorenza o quando avrebbe conquistato la donna del suo (ripetiamo, presunto) secondo figlio, Matteo Messina Denaro, a costo di mimetizzarsi in abiti femminili o addirittura da sacerdote, non rinunciava a raggiungere le alcove di fidanzate che lo hanno amato.

L’innamorata

Come è accaduto a Sonia, l’innamorata raggiunta 20 anni fa da una missiva netta: «Non voglio nemmeno pensare di coinvolgerti in questo labirinto... Non pensare più a me, non ne vale la pena». Ma lui cominciò a pensare a Maria Mesi: lei per incontrarlo aveva affittato un appartamentino a due passi dal suo, facendo così perdere le tracce a inquirenti che, quando lo scoprirono, lo trovarono vuoto, traditi da un maresciallo infedele. Ci fu poi l’infatuazione per Andrea Haslener, avvenente austriaca frequentata per quattro anni al Paradise Beach hotel di Selinunte. Una storia conclusa nel sangue, con il delitto del direttore dell’albergo perché si era innamorato della stessa donna, poi inseguita dagli inquirenti a Vienna per chiarire se fosse madre del figlio misterioso. Escluso. Anche dai pentiti rimasti muti sul punto. A differenza di Vincenzo Sinacori che ai magistrati parlò di Francesca Alagna: «Un giorno ci disse che correva da lei “per andare a fare un figlio”». Ma allora nacque una figlia, Lorenza. Ed è l’unica certezza.

La Sorella.

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per “il Corriere della Sera” il 5 marzo 2023.

«Ma ancora continuate a prendervela con noi? Non vi basta quello che ci avete fatto?», s’è sfogata l’altra mattina Rosalia Messina Denaro con i carabinieri del Ros, al momento dell’arresto. E del resto le esplosioni d’ira non sono una novità per la sorella dell’ultimo boss stragista catturato a gennaio, dopo trent’anni di latitanza.

 […] Dalle indagini emerge dunque che Rosalia e Matteo, seconda e ultimo dei sei figli del patriarca «don» Ciccio Messina Denaro, sono il nocciolo duro di una famiglia di sangue e di mafia, che ha scalato le gerarchie di Cosa nostra, entrata «nel cuore» di Totò Riina e sopravvissuta al vertice dell’organizzazione per i trent’anni successivi all’arresto del «capo dei capi» corleonese. Fino a che il padrino è caduto in trappola.

 Ma è probabile che la dynasty criminale dei Messina Denaro da Castelvetrano non sia ancora conclusa. Perché proprio Rosalia, attraverso un matrimonio celebrato nel 1976, rappresenta l’anello di congiunzione con un’altra famiglia mafiosa importante e ugualmente autorevole.

Il marito Filippo Guttadauro, oggi settantunenne, è in galera dal 2006, quando fu arrestato nelle indagini seguite alla cattura di Bernardo Provenzano; era il numero 121 nei codici adottati dal boss nella corrispondenza criptata che intratteneva dal rifugio di Montagna dei cavalli. Scontata la pena, è rimasto incastrato nel cosiddetto «ergastolo bianco», una misura detentiva speciale impostagli per la spiccata «pericolosità sociale».

 […] Dei tre figli di Rosalia e Filippo, la secondogenita Lorenza è l’avvocata nominata da Messina Denaro dopo la cattura, mentre l’unico maschio, Francesco, classe 1984, arrestato nel 2013, sta scontando una pena di 16 anni.

Tra non molto tempo (grazie al taglio di tre mesi per ogni anno di detenzione concesso a tutti i reclusi che mantengono la buona condotta) dovrebbe tornare libero, e gli inquirenti lo considerano il più accreditato erede dello zio Matteo al trono mafioso; potrebbe essere lui il protagonista della prossima stagione di una serie che va avanti dagli anni Ottanta.

 Adesso però la scena è tutta di sua madre, tra sbotti di rabbia e un ruolo di «mente strategica dell’organizzazione» che i pm hanno cercato di interrompere con l’arresto. […]

Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2023.

Se il Male è lo specchio deforme delle nostre debolezze, non c’è italiano, a cominciare dal sottoscritto, che non si senta chiamato in causa da uno dei pizzini di Messina Denaro trovati in casa della sorella. Quello dove il boss descrive i mafiosi come dei perseguitati, con l’unica colpa di voler difendere la propria terra dalla sopraffazione di un invasore, lo Stato, «prima piemontese e poi romano». Intendiamoci, non sto certo dicendo che ci sia un mafioso o un indipendentista in ciascun italiano. Ma una presunta vittima dello Stato, sì, eccome.

Ovunque lo Stato significa Noi; solo in Italia significa Loro. Un imprenditore del nord, una persona per bene o comunque nella media, una volta mi disse: «Per me lo Stato è un feudatario che ogni anno si porta via oltre la metà dei frutti del mio lavoro. Ingannarlo non è una colpa, è una necessità». La ragione per cui siamo il Paese delle cricche, delle caste e degli evasori è tutta qui. Per noi lo Stato non è chi ci aiuta, ma chi ci vessa; non è chi ci difende, ma chi ci offende. Naturalmente lo Stato ci mette del suo, con la giustizia più lenta, le leggi più farraginose e la burocrazia più inamovibile e oscura, per tacere dei politici che non contano nulla ma si credono tutto. E so bene che quattordici secoli di storia frantumata, dalla calata dei barbari a Garibaldi, non si recuperano in centosessant’anni. Ma, in attesa che anche da noi si affermi il senso dello Stato, mi accontenterei che lo Stato smettesse di farci così senso.

(ANSA il 3 marzo 2023) - "Essere incriminati di mafiosità, arrivati a questo punto lo ritengo un onore. Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie. Trattati come se non fossimo della razza umana. Siamo diventati un'etnia da cancellare. Eppure, siamo figli di questa terra di Sicilia, stanchi di essere sopraffatti da uno Stato prima piemontese e poi romano che non riconosciamo. Siamo siciliani e tali volevamo restare".

Così scriveva il boss Matteo Messina Denaro in un messaggio rivolto ai suoi familiari e trovato nel corso dell'inchiesta che ha portato all'arresto della sorella Rosalia. "Hanno costruito una grande bugia per il popolo. Noi il male, loro il bene. Hanno affossato la nostra terra con questa bugia. - proseguiva - Ogni volta che c'è un nuovo arresto si allarga l'albo degli uomini e delle donne che soffrono per questa terra.

Si entra a far parte di una comunità che dimostra di non lasciare passare l'insulto, l'infamia, l'oppressione, la violenza. Questo siamo ed un giorno sono convinto che tutto ci sarà riconosciuto e la storia ci restituirà quel che ci ha tolto la vita".

(ANSA il 3 marzo 2023) - Che i rapporti con la figlia naturale Lorenza del boss Matteo Messina Denaro non fossero buoni era noto. La riprova è in un pizzino del capomafia trovato alla sorella, Rosalia, arrestata oggi, dai carabinieri. Il capomafia racconta di aver letto il necrologio che la nipote del mafioso Leonardo Bonafede aveva fatto dopo la morte del nonno. "Ah, questa ragazza è cresciuta senza padre, lo arrestarono il padre quando lei era molto piccola", racconta Messina Denaro.

"Dai conti che faccio è poco più grande di Lorenza, quindi stessa generazione, e sicuramente si conoscono anche perché andavano nello stesso liceo negli stessi anni. Quello che so di questa ragazza: è cresciuta con la madre, ha studiato, ha fatto il liceo scientifico, poi si è laureata in architettura credo, ed oggi lavora sfruttando la sua laurea. - spiega- Fu sempre fidanzata con lo stesso ragazzo un paio di anni fa si è sposata con lo stesso, e la scorsa estate ha avuto una bambina.

Vi ho raccontato la storia di lei perché ha fatto il necrologio, ma vi potrei raccontare la storia di tante con il padre assente e della stessa generazione, perché sono informato di tutte quelle a cui manca il padre". "Ebbene, - sbotta - nessuno ha fatto la fine di Lorenza, sono tutte sistemate, che voglio dire? È l'ambiente in cui cresci che ti forma, e lei è cresciuta molo male".

Riferendo una frase del necrologio in cui la Bonafede si dice onorata di appartenere al nonno, il boss conclude: "la mancanza del padre non è di per se' motivo di degenerazione educativa, è solo Lorenza che è degenerata nell'infimo, le altre di cui so sono tutte cresciute onestamente".

Arrestata Rosalia Messina Denaro, la sorella del boss. «Era lei che gestiva i suoi pizzini». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023

Il blitz dei carabinieri del Ros. Rosetta è la prima delle quattro sorelle del capomafia. L’accusa è di aver provveduto ai soldi necessari alla latitanza e di aver tenuto le relazioni con gli altri mafiosi

Per anni ha coperto la latitanza del fratello, il boss Matteo Messina Denaro, ha tenuto la cassa della «famiglia» dalla quale il padrino trapanese ha attinto copiosamente per le sue spese e ha gestito la rete di trasmissione dei «pizzini» che hanno consentito al capomafia di tenere i rapporti con i suoi e disporre delle questioni economiche e strategiche di Cosa nostra. Un ruolo di primo piano quello conquistato da Rosalia Messina Denaro, prima delle quattro sorelle del boss, che oggi è stata arrestata dai carabinieri del Ros con l’accusa di associazione mafiosa.

L’inchiesta

Una indagine coordinata dalla Procura di Palermo che ha aggiunto un altro tassello alla complessa ricostruzione della lunghissima latitanza di Matteo Messina Denaro. Donna di incrollabile fede mafiosa Rosetta, così la chiamano in famiglia, ha sposato Filippo Guttadauro, fratello del capomafia di Brancaccio, Giuseppe, in carcere al cosiddetto ergastolo bianco dopo aver scontato 14 anni per associazione mafiosa. Stessa sorte ha avuto il figlio maschio della donna, Francesco, il nipote prediletto di Messina Denaro che sta espiando una condanna definitiva a 16 anni sempre per mafia. La figlia Lorenza Guttadauro, avvocato, assiste lo zio dal giorno del suo arresto.

Il clan

Una saga criminale quella dei Messina Denaro con don Ciccio capostipite della famiglia di sangue e di quella mafiosa. Lo trovarono morto il 30 novembre del 199, mentre era latitante da otto anni, vestito di tutto punto e pronto per la sepoltura. Una telefonata giunta al centralino del commissariato di Castelvetrano avvertì la polizia che c’era un cadavere per strada. Dei suoi 6 figli l’erede al trono, Matteo, è finito in cella dopo 30 anni di latitanza, mentre Salvatore, primogenito, scarcerato nel 2006 dopo avere scontato una lunga condanna per mafia, è stato riarrestato nel 2010 con le stesse accuse.

La sorte dei parenti

Non è andata meglio alle figlie femmine di don Ciccio: Patrizia, per anni «postina» dei messaggi del fratello ricercato, sconta una condanna a 16 anni e detenuto è anche il marito Vincenzo Panicola. Pesanti guai giudiziari hanno avuto anche i mariti delle due sole figlie ancora libere: Bice e Giovanna. Il consorte di Giovanna, Rosario Allegra, è morto in carcere nel 2019, quello di Bice, Gaspare Como, è ancora dietro le sbarre. E oggi, in ossequio alla tradizione mafiosa di famiglia, è toccato alla primogenita: Rosetta.

Da ansa.it il 3 marzo 2023.

I carabinieri del Ros hanno arrestato, con l'accusa di associazione mafiosa, la sorella del boss Matteo Messina Denaro, Rosalia.

L'inchiesta è stata coordinata dalla Procura di Palermo.

Secondo gli inquirenti, la donna avrebbe aiutato per anni il fratello a sottrarsi alla cattura e avrebbe gestito per suo conto la "cassa" della "famiglia" e la rete di trasmissione dei 'pizzini', consentendo così al capomafia di mantenere i rapporti con i suoi uomini durante la sua lunga latitanza. 

E' stato un appunto dettagliato sulle condizioni di salute di Matteo Messina Denaro, scritto dalla sorella Rosalia e da lei nascosto nell'intercapedine di una sedia, a dare agli investigatori l'input che ha portato, il 16 gennaio scorso, all'arresto del capomafia. 

Lo scritto è stato scoperto dai carabinieri del Ros il 6 dicembre scorso mentre piazzavano delle cimici nella abitazione della donna.  Mentre cercano il posto giusto per nasconderle, i militari scoprono un appunto all'interno di una gamba cava di una sedia.

Rosalia detta Rosetta, la maggiore delle quattro sorelle di Messina Denaro, è madre di Lorenza Guttadauro, avvocato che, dal giorno del suo arresto, assiste il capomafia, e moglie di Filippo Guttadauro che ha scontato 14 anni per associazione mafiosa ed è tuttora in carcere al cosiddetto 'ergastolo bianco'. 

Il secondo figlio della donna, Francesco, nipote prediletto del padrino trapanese, sta espiando una condanna a 16 anni sempre per associazione mafiosa. L'operazione che ha portato all'arresto di Rosalia Messina Denaro è stata condotta dal Ros, dai carabinieri del Comando provinciale di Trapani e dello squadrone eliportato dei Cacciatori di Sicilia. La misura cautelare è stata disposta dal gip Alfredo Montalto. Sono in corso decine di perquisizioni in provincia di Trapani.

 "La progressione investigativa che ha condotto allo storico risultato della cattura dell'ultimo grande stragista - si legge nella misura cautelare con cui il gip di Palermo ha disposto l'arresto di Rosalia - è stata originata da uno scritto, improvvidamente custodito, sebbene abilmente occultato, proprio da Rosalia Messina Denaro. Il che dimostra che la donna era stata passo passo resa edotta dal latitante della scoperta della malattia e di tutti i successivi interventi chirurgici, avendo avuto probabilmente più volte occasioni per incontrarlo di persona e sincerarsi delle sue condizioni di salute".  

L'appunto di cui parla il gip, in cui la donna aveva annotato tutto l'iter sanitario seguito dal fratello, è stato scoperto nella sua casa, il 6 dicembre scorso, dai carabinieri intenti a piazzare delle microspie. Il promemoria è stato fotografato e rimesso al suo posto. Il giorno della cattura del capomafia gli inquirenti, perquisendo l'appartamento di Rosalia, l'hanno trovato esattamente nello stesso posto in cui l'avevano scoperto. Era rimasto lì, segno che sorella del capomafia continuava a ritenere sicuro il nascondiglio e non si è mai accorta della "visita" dei carabinieri.

Rosalia Messina Denaro "è stata da decenni il punto di riferimento economico del capomafia ricercato e persona di assoluta fiducia del boss al quale garantiva non solo di fronteggiare le difficoltà e assicurarsi il sostentamento, non solo di sottrarsi all'esecuzione di pesantissime pene detentive per i reati più gravi e terribili commessi nella nostra storia repubblicana, non solo di gestire la riservatissima catena dei pizzini attraverso cui il capo provincia veicolava gli ordini mafiosi agli altri associati i sodali;

ma anche consentire a Cosa nostra di avere un capo autorevole, di fregiarsi di avere un suo esponente apicale, ultimo stragista, ancora Iibero per il quale il protrarsi della latitanza continuava ad alimentarne la legenda (e quindi il naturale proselitismo che ne derivava e di cui si sarebbe potuta giovare l'intera associazione mafiosa)".

Rosalia, secondo i magistrati, ha avuto un ruolo fondamentale nella gestione del flusso di denaro contante a disposizione della famiglia mafiosa.

[…]

 Nel provvedimento si sottolinea il ruolo non certo occasionale, ma certamente strutturato della donna "come dimostrato dal lungo pluriennale arco temporale cui i conteggi della 'cassa' sono riferibili e dalla costante opera di gestione rassegnata dalla Messina Denaro al fratello latitante con periodici resoconti delle spese e dei residui fondi a disposizione". "Mi fai scmpre lo spekkietto finale, così so quanto è la cassa", si legge in uno dei pizzini trovati rivolti dalla donna al boss.

"Assecondando i ritmi imposti dai continui e incessanti arresti che hanno flagellato e decimato la famiglia di sangue del latitante, Rosetta, nome in codice Fragolone (così la indicava il fratello nei biglietti ndr) ha negli anni svolto il ruolo può dirsi forse più affidabile: quello di referente per tutti gli affari di famiglia e quella di fedele detentrice del denaro contante", conclude.

(ANSA il 3 marzo 2023) - La sorella di Matteo Messina Denaro, Rosalia, ha avuto un ruolo fondamentale nella gestione del flusso di denaro contante a disposizione della famiglia mafiosa. Lo credono i magistrati della Procura di Palermo, guidata da Maurizio de Lucia, che hanno trovato in casa della donna a Castelvetrano, nella sua villetta in campagna a Campobello e nel covo del boss Matteo Messina Denaro decine di pizzini con la contabilità del capomafia. Contabilità tenuta da Rosalia che eseguiva gli ordini del fratello e consegnava i soldi a una serie di soggetti, rendicontando puntualmente di anno in anno entrate e uscite.

Alcuni appunti sono stati trovati in una botola nel sottotetto della casa di campagna: "pizzini" tutti con oggetto nomi in codice, ordini e somme di denaro. In uno degli appunti il boss ricorda al destinatario l'esistenza di una grossa provvista (64.100 euro) e le spese già affrontate (12.400 euro). E impartisce a chi avrebbe ricevuto il messaggio l'ordine su quanto spendere per il periodo successivo ("per il prossimo periodo devi spendere di nuovo 12.400"). "Tale espressione - scrive il gip che ha arrestato Rosalia Messia Denaro - rivela con certezza l'esistenza di un fondo riservato: il tenore della espressione lascia certamente intendere che si tratta di somme da utilizzare non per il personale soddisfacimento di chi le aveva in custodia, ossia il destinatario del pizzino, ma assai verosimilmente doveva essere costui a sua volta a distribuire il denaro a terzi".

Natura della provvista, per i pm, è la "cassa", "espressione oramai divenuta notoria con la quale le famiglie di Cosa nostra - continua il giudice - indicano la giacenza alimentata dai proventi illeciti di denaro in contanti, pronta a essere utilizzata, con cui l'articolazione o il mandamento mafioso fa fronte alle spese per i detenuti, per le loro famiglie, per gli onorari dei legali e più in generale per i bisogni degli associati".

Estratto dell’articolo da gds.it il 3 marzo 2023.

Le indagini dei carabinieri, che oggi hanno arrestato la sorella del boss Matteo Messina Denaro, Rosalia hanno svelato come la donna eseguisse alla lettera gli ordini del fratello che le spiegava anche con dei disegni, passo passo, come mantenere i contatti con i suoi uomini, come accertare la presenza di eventuali telecamere degli investigatori e distruggerle e quali segnali - lo straccio appeso alla finestra ad esempio - ,lanciare nel caso in cui temesse la presenza degli inquirenti.

«Nel caso di Condor c’è qualcosa che non va, devi mettere questo segnale che ti allego al disegno 1. Conosci il posto. Metti a stendere uno straccio o più stracci, il colore non importa, io li ho dipinti di blu, ma può essere di qualsiasi colore. - spiegava il capomafia alla donna in un pizzino ritrovato dal Ros - Messo in quel posto Reparto (nome in codice ndr) se ne accorge da lontano e non si avvicinerà ed andrà via […]».

(ANSA il 3 marzo 2023) E' stato un appunto dettagliato sulle condizioni di salute di Matteo Messina Denaro, scritto dalla sorella Rosalia e da lei nascosto nell'intercapedine di una sedia, a dare agli investigatori l'input che ha portato, il 16 gennaio scorso, all'arresto del capomafia. Il particolare emerge dall'inchiesta del procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dell'aggiunto Paolo Guido che oggi ha portato all'arresto per associazione mafiosa di Rosalia Messina Denaro. Lo scritto è stato scoperto dai carabinieri del Ros il 6 dicembre scorso mentre piazzavano delle cimici nella abitazione della donna.

 Il 6 dicembre i carabinieri, eseguendo un decreto di intercettazione disposto dalla Procura, entrano in un appartamento di Castelvetrano nella disponibilità di Rosalia Messina Denaro che, a differenza delle altre sorelle del boss che vivono a casa con la madre, abita da sola. La missione è piazzare delle microspie. Mentre cercano il posto giusto per nasconderle, i militari scoprono un appunto all'interno di una gamba cava di una sedia.

Lo fotografano e lo rimettono al suo posto, in modo da non insospettire la donna. Qualche ora dopo, la foto viene analizzata dagli inquirenti e si scopre che è un vero e proprio diario clinico di un malato di cancro. Ma a chi si riferisce? Nessuno dei familiari di Rosalia, da quanto risulta ai carabinieri, soffre di patologie oncologiche. Il sospetto, vista anche la necessità di nascondere il biglietto, è allora che si tratti del latitante.

 I militari dell'Arma partono dalle indicazioni dettagliate sulla patologia e dalle date in cui il paziente, del quale ovviamente Rosalia non fa il nome, è stato operato. Attraverso accertamenti effettuati prima al Ministero della Salute e poi su banche dati sanitarie nazionali, arrivano a identificare un maschio di età compatibile con quella del latitante che si è sottoposto agli stessi interventi chirurgici indicati nell'appunto.

Si tratta di Andrea Bonafede, geometra di Campobello di Mazara e nipote del boss locale. I tabulati telefonici dimostrano, però, che il geometra non può essere il paziente oncologico di cui si parla nel pizzino, perché nei giorni in cui il malato subiva le operazioni, una a Mazara del Vallo l'altra a Palermo, Bonafede si trovava a casa sua a Campobello. Gli indizi a quel punto conducono tutti a Messina Denaro. L'analisi della cartella sanitaria digitale porta gli inquirenti alla visita prenotata a nome Bonafede alla clinica "La Maddalena" il 16 gennaio 2023. E alle 9.15 scatta il blitz che mette fine alla trentennale latitanza del padrino di Castelvetrano.

(ANSA il 3 marzo 2023) Come tutti gli storici latitanti mafiosi, costretti a trovare il modo per comunicare nonostante la vita alla macchia, anche Matteo Messina Denaro usava i 'pizzini'. Emerge dall'inchiesta del procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dell'aggiunto Paolo Guido che ha portato oggi all'arresto della sorella del boss, Rosalia, vera e propria collettrice dei biglietti del fratello.

Decine i pizzini scoperti dopo l'arresto dell'ex latitante. Messaggi arrotolati, sigillati con il nastro adesivo, spesso avvolti in piccoli pacchetti, e indirizzati a destinatari indicati con nomi in codice di "Fragolone (soprannome della sorella Rosalia ndr), Fragolina, Condor, Ciliegia, Reparto, Parmigiano, Malato, Complicato, Mela". I pizzini venivano veicolati attraverso una catena, più o meno lunga, di fedelissimi, che lo stesso boss, nei suoi scritti, definiva 'tramiti'. Nel sistema del latitante finora ancora più impenetrabile di quello degli altri capi, però, c'era una falla.

 Per anni Messina Denaro ha adottato mille cautele, prima fra tutte quella di non Iasciare traccia dei biglietti che venivano rigorosamente distrutti dopo la lettura. Stavolta però il boss è stato il primo a non osservare la regola "avendo la necessità di dialogare in termini più brevi e con minori precauzioni con i suoi familiari, - scrive il gip - e talvolta di conservare la posta, soprattutto quella in uscita, come promemoria delle innumerevoli faccende che gli venivano sottoposte".

Un errore che ha commesso anche la sorella Rosalia che, si legge nella misura cautelare, "ha colpevolmente evitato di distruggere alcuni dei pizzini ricevuti dal fratello o comunque, ne ha trascritto il contenuto su appunti manoscritti e occultati nella sua abitazione a Castelvetrano e nella sua casa di campagna a Contrada Strasatti di Campobello di Mazara". Errori che hanno consentito ai carabinieri di acquisire "preziosissimi elementi probatori da cui potere documentare con certezza il ruolo di tramite e di fedele esecutrice degli ordini del latitante svolto dalla donna nel corso di diversi anni".

(ANSA il 3 marzo 2023) "La progressione investigativa che ha condotto allo storico risultato della cattura dell'ultimo grande stragista è stata originata da uno scritto, improvvidamente custodito, sebbene abilmente occultato, proprio da Rosalia Messina Denaro. Il che dimostra che la donna era stata passo passo resa edotta dal latitante della scoperta della malattia e di tutti i successivi interventi chirurgici, avendo avuto probabilmente più volte occasioni per incontrarlo di persona e sincerarsi delle sue condizioni di salute".

 Si legge nella misura cautelare con cui il gip di Palermo ha disposto l'arresto di Rosalia Messina Denaro, sorella dell'ex latitante finita in cella oggi. Una parte del provvedimento è dedicata al racconto dei passaggi che hanno portato alla cattura del boss.

L'appunto di cui parla il gip, in cui la donna aveva annotato tutto l'iter sanitario seguito dal fratello, è stato scoperto nella sua casa, il 6 dicembre scorso, dai carabinieri intenti a piazzare delle microspie. Il promemoria è stato fotografato e rimesso al suo posto. Il giorno della cattura del capomafia gli inquirenti, perquisendo l'appartamento di Rosalia, l'hanno trovato esattamente nello stesso posto in cui l'avevano scoperto. Era rimasto lì, segno che sorella del capomafia continuava a ritenere sicuro il nascondiglio e non si è mai accorta della "visita" dei carabinieri.

"E' dunque certo - spiega la Procura riportata dal gip - che sia stata Rosalia ad annotare sul 'pizzino' di volta in volta la progressione della malattia, delle cure effettuate e delle condizioni fisiche del fratello; ed è altrettanto certo che la scelta di conservare un grezzo diario clinico di Messina Denaro ha di fatto consentito alla polizia giudiziaria di acquisire fondamentali e decisive informazioni sulla possibilità di localizzare il latitante". Nel corso delle indagini sul ricercato, erano già emerse informazioni sulle sue malattie. Non quelle oncologiche che hanno portato al suo arresto, però. Grazie ad alcune intercettazioni, infatti, nel 2022, si intuì che il boss potesse soffrire di una riacutizzazione del morbo di Chron. Circostanza che aveva indirizzato gli inquirenti verso quel percorso diagnostico. La pista però non diede risultati.

Arrestata dal ROS dei Carabinieri Rosalia Messina Denaro, custode dei “pizzini” e responsabile della gestione della cassa con gli ordini del “boss”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Marzo 2023

I «pizzini» con gli ordini di Matteo Messina Denar e l'appunto sugli interventi e cure che è stato fondamentale per il suo arresto. Per gli investigatori, la donna avrebbe potuto diventare la «nuova mente strategica dell’organizzazione». Rosalia Messina Denaro è la mamma di Lorenza Guttadauro, l’avvocata che il boss ha scelto come difensore

Il ROS dei Carabinieri , con il supporto in fase esecutiva del comando provinciale di Trapani e dello squadrone eliportato “Cacciatori di Sicilia” ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip dr. Alfredo Montanto presidente di sezione presso il Tribunale di Palermo , accogliendo la richiesta formulata dalla locale Direzione Distrettuale Antimafia ed Antiterrosismo , coordinata dal procuratore Maurizio de Lucia e dall’aggiunto Paolo Guido, nei confronti di Rosalia Messina Denaro (sorella del noto boss ergastolano Matteo) indagata per associazione di tipo mafioso, sorella del boss, arrestata perché gestiva i pizzini del fratello. Rosalia era di fatto la “cassiera, incaricata dal fratello di ricevere ingenti somme di denaro, di custodirle, rendicontarle e all’occorrenza distribuirle“. È quanto si legge nella ordinanza di misura cautelare di cui vi offriamo la lettura integrale con cui il gip di Palermo ritiene un “documento di assoluta chiarezza, quello rinvenuto nell’abitazione di Rosetta a via Alberto Mario”.

Rosalia Messina Denaro era diventata di fatto in un vero e proprio luogotenente del fratello Matteo,. è anche la mamma di Lorenza Guttadauro, il legale che il boss ha scelto come proprio difensore. Anche lei ha dei guai giudiziari della famiglia, in quanto suo marito, Luca Bellomo, è stato in carcere perché ritenuto parte del “clan”, ed è stato scarcerato nel novembre scorso.

Rosalia, detta Rosetta, la maggiore delle quattro sorelle di Messina Denaro, nome in codice “Fragolone” (come la indicava il fratello nei biglietti ndr)  è la madre di Lorenza Guttadauro, avvocato che, dal giorno del suo arresto, assiste il capomafia, ma anche la moglie di Filippo Guttadauro che ha scontato 14 anni per associazione mafiosa ed è tuttora ristretto in carcere al cosiddetto “ergastolo bianco”.  Il secondo figlio della donna, Francesco, nipote prediletto del padrino trapanese, a sua volta sta espiando una condanna a 16 anni sempre per “associazione mafiosa“.

Il Gip Montanto scrive nell’ordinanza che nella casa di Rosalia Messina Denaro, “Sempre nella gamba della sedia presente nel salone della casa (ove abitualmente la donna è solita stirare), veniva trovato – minuziosamente occultato insieme ad altri – un `pizzino´ attribuibile all’evidenza all’allora latitante”, pizzino nel quale Matteo Messina Denaro ricorda al destinatario “l’esistenza di una grossa provvista (€uro 64.100) e le spese già affrontate (€uro 12.400} con riferimento ad un periodo appena trascorso. E altrettanto univoco è l’ordine che impartisce a chi avrebbe ricevuto il `pizzino´ su quanto spendere per il periodo successivo (`per il prossimo periodo devi spendere di nuovo 12.400´ )“.

Tale espressione rivela con certezza– scrive il Gip Montanto– “l’esistenza di un fondo riservato: il tenore della espressione `devi´ (e non puoi) lascia certamente intendere che trattasi di somme da utilizzare non per il personale soddisfacimento di chi le aveva in custodia, ossia il destinatario del `pizzino´, ma assai verosimilmente doveva essere costui a sua volta a distribuire il denaro a terzi“. “La cassa– per il Gip – è espressione oramai divenuta notoria con la quale le famiglie di Cosa nostra indicano la giacenza alimentata dai proventi illeciti di denaro in contanti, pronto a essere utilizzato, con cui il gruppo, l’articolazione o il mandamento mafioso fa fronte alle spese per i detenuti, per le loro famiglie, per gli onorari dei legali e più in generale per i bisogni degli associati“.

Subito dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, i Carabinieri hanno fatto immediatamente irruzione nell’abitazione di vai Alberto Mario, e hanno sequestrato il “pizzino” che avevano fotografato il 6 dicembre. Successivamente hanno perquisito anche la casa di campagna di Rosalia, in contrada Strasatto Paratore, dove in una botola del sottotetto c’erano altri preziosi biglietti, tutti con oggetto nomi in codice, ordini e somme di denaro, alcuni scritti per certo dalla sorella del padrino. Uno in particolare faceva riferimento ad altre spese.

Dalla lettura dell’ ordinanza è stato possibile apprendere anche il particolare che ha consentito ai Carabinieri del Ros di apprendere delle gravi patologie di cui soffriva il capomafia, riuscendo dopo ad individuarlo nelle finte vesti del sedicente Andrea Bonafede che si curava presso la clinica La Maddalena di Palermo, dove è stato fermato ed arrestato. 

Agli atti delle indagini del ROS per la cattura del ricercato erano già presenti delle intercettazioni relative al “morbo di Crohn“, sino a quando il 6 dicembre 2022 i Carabinieri sono entrati in casa di Rosalia per piazzare una microspia ed hanno trovato un “pizzino” nascosto nell’incavo della gamba di una sedia, propio dove intendevano piazzare la “cimice”. E proprio quel foglietto, manoscritto dalla sorella del boss, era elencata una serie di date e sigle che potevano riferirsi a malattie, ricoveri e interventi che – come è venuto alla luce successivamente – corrispondevano al quadro clinico di Matteo Messina Denaro. Gli uomini del ROS hanno fotografato il biglietto e lo hanno rimesso dov’era, installando la cimice altrove, ed è stato proprio lavorando su quei dettagli che sono risaliti al nome utilizzato di Bonafede, verificando che costui mentre doveva trovarsi in ospedale in realtà si trovavaa casa sua, a Campobello di Mazara. Nasce da qui l’ipotesi dello scambio di persona, che ha portato all’arresto latitante. L’appunto (dove «ope» sta per operazione, «feg» per fegato e «cicl» per cicli di terapia) era scritto sulla ricevuta di un’operazione bancaria effettuata da Rosalia Messina Denaro il 6 maggio 2021.

Rosalia Messina Denaro continua il gip nell’ordinanza di custodia cautelare “è stata da decenni il punto di riferimento economico del capomafia ricercato e persona di assoluta fiducia del boss al quale garantiva non solo di fronteggiare le difficoltà e assicurarsi il sostentamento, non solo di sottrarsi all’esecuzione di pesantissime pene detentive per i reati più gravi e terribili commessi nella nostra storia repubblicana, non solo di gestire la riservatissima catena dei pizzini attraverso cui il capo provincia veicolava gli ordini mafiosi agli altri associati i sodali; ma anche consentire a Cosa nostra di avere un capo autorevole, di fregiarsi di avere un suo esponente apicale, ultimo stragista, ancora Iibero per il quale il protrarsi della latitanza continuava ad alimentarne la legenda (e quindi il naturale proselitismo che ne derivava e di cui si sarebbe potuta giovare l’intera associazione mafiosa“. Nel provvedimento cautelare si evidenzia il ruolo non certo occasionale, ma certamente strutturato della donna “come dimostrato dal lungo pluriennale arco temporale cui i conteggi della ‘cassà sono riferibili e dalla costante opera di gestione rassegnata dalla Messina Denaro al fratello latitante con periodici resoconti delle spese e dei residui fondi a disposizione“. “Mi fai sempre lo spekkietto finale, così so quanto è la cassa”, si legge in uno dei pizzini trovati rivolti dalla donna al boss. Sono in corso decine di perquisizioni in provincia di Trapani.

Fra i “pizzini” rinvenuti sequestrati dai Carabinieri del ROS inviati da Matteo Messina Denaro alla sorella c’è anche uno scritto in cui il boss chiarisce che “è un onore essere incriminati di mafiosità“.  Un vero e proprio manifesto “politico» scritto a mano dal boss : “Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie. Trattati come se non fossimo della razza umana. Siamo diventati un’etnia da cancellare. Eppure, siamo figli di questa terra di Sicilia, stanchi di essere sopraffatti da uno Stato prima piemontese e poi romano che non riconosciamo. Siamo siciliani e tali volevamo restare”. 

Che continua: “Hanno costruito una grande bugia per il popolo. Noi il male, loro il bene. Hanno affossato la nostra terra con questa bugia. Ogni volta che c’è un nuovo arresto si allarga l’albo degli uomini e delle donne che soffrono per questa terra. Si entra a far parte di una comunità che dimostra di non lasciare passare l’insulto, l’infamia, l’oppressione, la violenza. Questo siamo ed un giorno sono convinto che tutto ci sarà riconosciuto e la storia ci restituirà quel che ci ha tolto la vita”. Redazione CdG 1947

I «pizzini» di Rosalia Messina Denaro con gli ordini del boss, il nome in codice «Fragolone» e la gestione della cassa. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.

I «pizzini» con gli ordini del fratello e l'appunto sugli interventi e cure che è stato fondamentale.  Per gli investigatori, la donna avrebbe potuto diventare la «nuova mente strategica dell’organizzazione». È la  mamma di Lorenza Guttadauro, l’avvocata che il boss ha scelto come difensore

Rosalia Messina Denaro, prima di quattro sorelle del boss Matteo catturato il 16 gennaio scorso, è stata arrestata con l’accusa di associazione mafiosa per avere fatto parte di Cosa nostra; aver aiutato l’ex latitante a rimanere uccel di bosco per trent’anni; avergli consentito di continuare a guidare l’organizzazione criminale; aver gestito la cassa della «famiglia mafiosa» e garantito le comunicazioni del fratello con gli altri associati. 

Una sfilza di attività a sostegno dell’ultimo capomafia stragista rimasto libero fino a un mese e mezzo fa che, secondo gli inquirenti, avrebbero potuto trasformare la donna nella «nuova mente strategica dell’organizzazione».

Lo spunto per la cattura del boss

Nelle oltre 50 pagine del provvedimento che l’ha mandata in carcere firmato dal giudice delle indagini preliminari Alfredo Montalto – su richiesta della Procura distrettuale antimafia di Palermo – si ricostruiscono nel dettaglio gli episodi che avrebbero trasformato Rosalia Messina Denaro (68 anni fra dieci giorni, mamma di Lorenza Guttadauro, l’avvocata che il boss ha scelto come difensore) in un vero e proprio luogotenente del fratello. 

Ma viene svelato anche il particolare che ha consentito ai carabinieri del Ros di risalire alle gravi patologie di cui soffre il capomafia, per poi individuarlo nel sedicente Andrea Bonafede in cura presso la clinica La Maddalena di Palermo, dove è stato preso. 

Agli atti delle indagini per la cattura del ricercato c’erano già alcune intercettazioni relative al «morbo di Crohn», finché il 6 dicembre 2022 i carabinieri sono entrati in casa di Rosalia per piazzare una microspia e hanno trovato un «pizzino» nascosto nell’incavo della gamba di una sedia, dove volevano piazzare la «cimice». Su quel foglietto, manoscritto dalla sorella del boss, era elencata una serie di date e sigle che potevano riferirsi a malattie, ricoveri e interventi che – come s’è scoperto dopo – corrispondevano al quadro clinico di Matteo Messina Denaro. Gli investigatori hanno fotografato e rimesso il biglietto dov’era, ma lavorando su quei dati sono risaliti al nome di Bonafede, verificando che mentre doveva trovarsi in ospedale quella persona era in realtà a casa sua, a Campobello di Mazara. Di qui l’ipotesi dello scambio di persona, che ha portato al latitante. L’appunto (dove «ope» sta per operazione, «feg» per fegato e «cicl» per cicli di terapia) era scritto sulla ricevuta di un’operazione bancaria effettuata da Rosalia il 6 maggio 2021.

Gli affari di mafia

Ma non è il solo «pizzino» trovato nelle due case utilizzate dalla sorella di Messina Denaro: quella di Castelvetrano e una nella campagna di Contrada Strafatti, a pochi chilometri di distanza. Ce n’erano molti altri, che in alcuni casi coincidono con quelli scoperti nel «covo» di Campobello abitato dal boss fino al giorno della sua cattura; li conservava come una sorta di «copia lavoro» per ricordarsi le istruzioni fornite alla sorella e le date delle successive consegne di corrispondenza, all’interno di un sistema di «fermo posta» con le scadenze prestabilite. 

In uno di questi, scritto da Matteo, ci sono i rendiconti di alcune spese che poi la calligrafia di Rosalia ha datato fra il 2014 e il 2015, con le disposizioni per le uscite successive: «Per il prossimo periodo devi spendere di nuovo 12.400. Non di più. E mi fai sempre lo spekkietto finale così so quanto è la cassa».

 In altri consuntivi vergati dalla donna sono indicate le spese legali sostenute dopo l’arresto di altri familiari dell’allora latitante, con uscite singole fino a 80.000 euro; ma anche le avvertenze fornite da Matteo per Rosalia su come sfuggire alla sorveglianza delle telecamere, con le informazioni per distinguere gli apparecchi che registrano da quelli che «rilanciano il segnale». Con l’uso di termini tecnici – sospettano gli inquirenti – che lasciano ipotizzare la complicità di «appartenenti alle forze dell’ordine o di specialisti forniti di uno specifico know how».

Precauzioni per le telecamere

 Di quel biglietto, datato 9 novembre 2021, c’è la copia scritta da Matteo per «Fragolone», il nome in codice scelto per la sorella quando le impartiva gli «ordini mafiosi», relativi alle «esigenze logistiche operative per eludere le indagini» o alla gestione del denaro dell’organizzazione; nei messaggi che riguardavano le questioni relative alla famiglia d’origine, invece, la chiamava «Rosetta». 

Ma c’è pure la versione manoscritta dalla donna, stesse parole con alcune, apposite modifiche: dove lui diceva (per spiegare come comportarsi di fronte a un congegno che poteva nascondere un apparecchio per registrare) «prima ti devi accertare se sono telecamere o cassette di rilancio», lei ha copiato cambiando le istruzioni in «mi devo accertare se sono telecamere o cassette di rilancio». Le precauzioni non hanno però impedito ai carabinieri di sorvegliare a distanza le mosse di Rosalia quando andava nella casa di campagna, come dimostra una delle immagini della donna riprese nel maggio 2022 allegata riprodotta nell’ordine di arresto.

Nomi in codice e segnali

 Altri nomi in codice indicati nei pizzini inviati dal fratello e ricevuti dalla sorella sono Ciliegia, Condor, W., Malato, Parmigiano. Con loro Rosalia aveva contatti per trasmettere le indicazioni del fratello o per recapitare i pizzini a loro destinati. 

E tra le consegne dell’ex latitante c’erano pure i metodi per avvertire gli interlocutori quando non dovevano avvicinarsi alla casa della donna, nel caso ci fosse qualcosa che segnalasse il pericolo di occhi indiscreti o possibili interferenze: l’esposizione di un panno colorato («uno straccio oppure più stracci») fuori dalla casa. Con tanto di disegno esplicativo che poi la sorella ha copiato, e la raccomandazione di «non perdere i contatti per un falso allarme». 

Il nome in codice «Parmigiano» viene utilizzato dal boss in un «pizzino” del 14 maggio scorso per indicare una persona (che gli inquirenti pensano sia «un grosso imprenditore certamente in affari con Cosa nostra») alla quale Rosalia doveva chiedere 40.000 euro per rimpinguare una «riserva» sulla quale erano rimasti solo 85.000 euro: «Quindi parla al Parmigiano e gli spieghi il tutto, digli che non può dire di no perché c’è una situazione di bisogno, digli che 40 mila non cambiano la vita delle persone, e che lui avrà restituito il tutto…». 

Al termine delle lettere, il latitante indicava anche la data e l’orario del successivo «cambio posta», in quel caso fissato al successivo 4 novembre alle 11 del mattino. Cioè sei mesi dopo, a dimostrazione di un sistema di comunicazione molto lente e prudente, per evitare o limitare al massimo ogni rischio di essere scoperti.

Il boss si lamenta della figlia

 Gli stessi canali venivano utilizzati anche per i messaggi relativi a questioni familiari. In uno di questi, indirizzato «per tutti”, con la data 15 marzo 2022 (ma con l’annotazione «spedita 16 marzo 2020», come fosse una copia, o una rilettura di due anni dopo) ci sono considerazioni poco lusinghiere nei confronti della figlia Lorenza, con la quale il boss sembra non avesse più nessun tipo di contatto o rapporto. 

Nella lettera Messina Denaro scrive di aver visto sul giornale un necrologio in ricordo di Nardo Bonafede (capomafia di Campobello di Mazara, zio del vero Andrea Bonafede) firmato dalla nipote Marina, dove la ragazza (coetanea di Lorenza) dice del nonno «onorata di appartenerti». 

Un’espressione che il boss di Castelvetrano avrebbe voluto sentire, riferita a se stesso, dalla figlia nata durante la sua latitanza e cresciuta lontana dal padre fuggiasco. Ma che evidentemente non è mai arrivata. «La mancanza del padre non è di per sé motivo di degenerazione educativa – accusa Matteo Messina Denaro –, è solo Lorenza che è degenerata nell’infimo, le altre di cui so sono tutte cresciute onestamente. La nipote dice al nonno "Onorata di appartenerti”, e lei cosa ha fatto al padre, cioè a me? Ma va bene così, non ho più nulla da recriminare». Prima dell’abbraccio di saluto, in quella lettera Messina Denaro ha scritto «Allego 1 per Fragolone, vi prego fateglielo avere». Dopo gli affari di famiglia, il boss era tornato subito a pensare agli affari di mafia. 

Il «manifesto» politico

Tra i «pizzini» sequestrati dai carabinieri inviati da Matteo Messina Denaro alla sorella c’è anche uno scritto in cui il boss chiarisce che «è un onore essere incriminati di mafiosità». 

Si tratta di un vero e proprio manifesto «politico» scritto a mano: «Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie. Trattati come se non fossimo della razza umana. Siamo diventati un'etnia da cancellare. Eppure, siamo figli di questa terra di Sicilia, stanchi di essere sopraffatti da uno Stato prima piemontese e poi romano che non riconosciamo. Siamo siciliani e tali volevamo restare». 

E ancora: «Hanno costruito una grande bugia per il popolo. Noi il male, loro il bene. Hanno affossato la nostra terra con questa bugia. Ogni volta che c'è un nuovo arresto si allarga l'albo degli uomini e delle donne che soffrono per questa terra. Si entra a far parte di una comunità che dimostra di non lasciare passare l'insulto, l'infamia, l'oppressione, la violenza. Questo siamo ed un giorno sono convinto che tutto ci sarà riconosciuto e la storia ci restituirà quel che ci ha tolto la vita».

Estratto dell’articolo di Riccardo Arena per “la Stampa” il 9 marzo 2023.

C'era Fragolone e c'era Fragolina. Il primo pseudonimo corrispondeva a Rosalia Messina Denaro, la sorella di Matteo, arrestata la settimana scorsa.

La persona nascosta dietro l'altro nickname non è stata individuata, così come tante altre, citate nei bigliettini del superboss: Parmigiano, il Complicato, Ciliegia, la Stazzunara, il Grezzo. Una rete molto ampia, che ha perso un pezzo fondamentale, nei giorni scorsi, con la cattura di Rosalia-Rosa-Rosetta: postina, cassiera, ma anche donna boss e madre di Lorenza Guttadauro, avvocato.

Che difende lo zio, Matteo Messina Denaro, ma non la propria madre. E che oggi – Lorenza, detta Enza – avrebbe dovuto tenere l'arringa nel processo ter di Appello per le stragi di Capaci e via D'Amelio: unico imputato, condannato all'ergastolo in primo grado, proprio Matteo lu Siccu, lo Smilzo.

 A sorpresa, però, l'avvocato Guttadauro nei giorni scorsi ha rinunciato al mandato: non a tutte le difese dello zio, ma giusto a questa, per la quale aveva ottenuto, in gennaio, un termine a difesa, proprio per studiare le carte e prepararsi. Ma non ce l'ha fatta, almeno così ha fatto filtrare, data la complessità del dibattimento, e anziché chiedere un altro termine ha rinunciato.

Oggi il dibattimento in corte d'Assise d'Appello, a Caltanissetta, continuerà con un difensore di ufficio e dunque ci sarà un ulteriore rinvio.

 […]

Con lo zio […] per ora la rinuncia è a un solo procedimento. Però, nelle prossime settimane ce ne saranno altri e allora si vedrà. La madre invece ha preferito affidarsi all'avvocato Daniele Bernardone, del foro di Termini Imerese, quasi 200 chilometri da Castelvetrano.

[…]

Chi è Rosalia Messina Denaro: la sorella del boss. Tra pizzini e conti di famiglia, la più grande delle sorelle Messina Denaro è stata la spalla del capomafia durante i trent'anni di latitanza. Marianna Piacente su Notizie.it il 3 Marzo 2023.

La mafia, un vizio di famiglia. Stamattina 3 marzo 2023, i carabinieri del Ros di Palermo hanno arrestato la più grande delle quattro sorelle del capomafia Matteo Messina Denaro. Ma chi è Rosalia (detta Rosetta) e come è coinvolta nella latitanza di suo fratello Matteo?

Gestiva i pizzini del boss

Manager di pizzini e conti di famiglia. Rosalia Messina Denaro aveva il controllo di tutto ciò che riguardava il fratello, dalle comunicazioni con gli altri mafiosi alle sue questioni di salute: è stato proprio un pizzino sulle condizioni di salute del boss a dare agli investigatori l’input che ha portato all’arresto del capomafia lo scorso 16 gennaio. Volto noto alle forze dell’ordine per i diversi casi di arresto e condanna all’interno della sua famiglia, su di lei grava ora l’accusa di associazione mafiosa.

Fedele esecutrice di suo fratello Matteo

Nell’ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti della donna, si fa riferimento anche a una serie di nomi in codice utilizzati nel giro di Messina Denaro: Rosalia era identificata con il soprannome di «Fragolone». Riceveva direttive rivestendo il ruolo di sorella maggiore all’interno del nucleo familiare d’origine e gestiva le dinamiche interne per come lo stesso latitante richiedeva: una descrizione degna di una “brava sorella”, fedele esecutrice degli ordini mafiosi di Matteo Messina Denaro.

La donna più importante del boss. Chi è la sorella di Matteo Messina Denaro, Patrizia il braccio destro del boss: “Pago per il cognome che porto”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Se Matteo Messina Denaro è riuscito a sfuggire all’arresto per oltre 30 anni forse lo deve anche alla fitta rete familiare che aveva intorno. E che negli anni della latitanza non solo lo hanno aiutato, ma hanno fatto in modo da tenere in mano le redini della cosca. Un ruolo chiave in tutto questo lo ha avuto la sorella del boss, Anna Patrizia Messina Denaro, nata a Castelvetrano il 18 settembre 1970. A 52 anni sta scontando una condanna a 14 anni per associazione mafiosa.

Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, Patrizia, attiva da sempre nella famiglia mafiosa, ha avuto un ruolo fondamentale per lo sviluppo del business mafioso, avrebbe controllato le estorsioni e intessuto rapporti con gli altri boss mafiosi. Secondo le indagini, nell’ambito dell’operazione Eden del 2013, Patrizia era tra i pochissimi ad avere rapporti con suo fratello latitante, poteva incontrarlo fisicamente e confrontarsi con lui sul da farsi. Era lei a gestire i rapporti con il resto dell’organizzazione mafiosa e a rappresentare gli interessi e le istanze del fratello nella cosca.

Arrestata nel 2013, di fronte alla Corte disse: “Non faccio parte di Cosa nostra. Io pago per il cognome che porto, ma di cui sono fieramente orgogliosa. Da vent’anni non ho contatti con mio fratello Matteo”. Poi le indagini smentirono quelle affermazioni rivelando il rapporto stretto che c’era tra fratello e sorella. Nel 2018 la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato la sentenza con cui la Corte d’appello di Palermo l’ha condannata a 14 anni e sei mesi di carcere per associazione mafiosa.

L’operazione Eden rivelò il coinvolgimento anche di altri membri della famiglia. Nello stesso processo fu confermata la condanna a 16 anni per il nipote Francesco Guttadauro, definito il “nipote del cuore” del boss. La sentenza di primo grado era stata emessa dal Tribunale di Marsala il 31 marzo 2015. Zia e nipote sono ritenuti colpevoli di associazione mafiosa (la sorella del boss, in primo grado era stata condannata a 13 anni per concorso esterno) e tentata estorsione a Rosetta Campagna, una delle eredi di Caterina Bonagiuso, madrina di battesimo di Anna Patrizia.

Poi c’è anche un fratello, Salvatore. Arrestato per la prima volta nel 1998, nel 2004 è stato condannato in via definitiva per associazione per delinquere di stampo mafioso pluriaggravata, danneggiamento seguito da incendio aggravato in concorso e tentato incendio pluriaggravato in concorso. Poi è stato arrestato di nuovo nel marzo 2010 per aver veicolato pizzini su ordine del fratello e condannato per questo, nel 2013, a 7 anni. Il 2 marzo scorso ha lasciato la casa di lavoro di Tolmezzo dove si trovava in regime di 41 bis.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto dell’articolo di Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2022.

«Se lei fosse il figlio di Hitler non lo difenderebbe comunque suo padre? Lo Stato è lo Stato, d'accordo, ma lui per noi rimane un grande affetto, noi due da piccoli giocavamo insieme...». Alle quattro del pomeriggio Vincenzo Panicola esce di fretta dalla casa di via Cadorna perquisita in mattinata dai Ros. Con lui ci sono i figli e uno dei ragazzi è la fotocopia perfetta dello zio Matteo da giovane, cappello in testa e gli occhiali scuri. Vincenzo Panicola è il marito di Patrizia Messina Denaro, la sorella di «u Siccu».

 Lei è tuttora in carcere perché accusata di essere l'anello di congiunzione tra le altre famiglie di Cosa nostra e suo fratello Matteo. Panicola si è già fatto 8 anni di prigione, ora è libero e dice di fare l'agricoltore, ma è sinceramente difficile credergli.

Il figlio con lo zuccotto e gli occhiali scuri fa lo strafottente: «Anche Alessandra Mussolini difende sempre suo nonno, che volete da noi? Ma quali boss, il nostro frigo è vuoto, a Castelvetrano non c'è lavoro».

 A trecento metri da via Cadorna, intanto, in piazza Carlo d'Aragona, davanti alla Chiesa Madre si stanno radunando gli scout e le associazioni per dar vita al flashmob serale. Il parroco, don Giuseppe Undari, dice che Castelvetrano «oggi finalmente respira, è stata liberata». […]

Anche per il sindaco, Enzo Alfano, del Movimento 5 Stelle, questo è un giorno bellissimo: «Mi sono svegliato pensando all'ennesima bufala, sono 30 anni che l'arresto di Messina Denaro veniva annunciato. Poi però mi ha chiamato mio genero che fa il poliziotto e mi ha detto: guarda che è vero!».

 Castelvetrano respira, Castelvetrano riparte. Anche l'unica figlia del boss, Lorenza, 28 anni, nel frattempo si è fatta una vita altrove e La vita è altrove è anche il libro che sta preparando Graziella Zizzo, assessore alle Politiche sociali, sulle storie di quelli che con la mafia di Castelvetrano hanno chiuso. Ma la guerra non è finita e bisogna entrare nelle vie strette di Belvedere oppure in quelle di Badìa dove ci sono le case dei familiari, degli amici, dei tifosi di Matteo Messina Denaro, nei quartieri più poveri, per capirlo.

 […]

Elio Indelicato, direttore di Castelvetrano News , giornale online con molti contatti nel territorio, racconta che adesso in tanti qui sono preoccupati: «Un commerciante mi ha confessato di aver paura che da domani gli chiederanno il pizzo, adesso che Matteo Messina Denaro è stato arrestato e finirà la pax ordinata dal boss».

 Paese di lavoratori, di contadini, dove si coltiva la Nocellara del Belice, l'oliva che dà un olio superlativo e lo stesso Matteo Messina Denaro, è emerso dalle indagini, portava in dono ai medici che l'avevano in cura. «Suo padre Francesco (don Ciccio, morto nel '98, ndr ) aveva gli uliveti vicino a Partanna - racconta Vincenzo Catalano, contadino in pensione -. Ma poi glieli hanno sequestrati, non so se è continuata la produzione». Impossibile chiederlo a donna Lorenza Santangelo, la mamma di Matteo, moglie di don Ciccio, che sulla porta di casa, in via Alberto Mario numero 8, tiene inchiodata una targa: «Per mio marito».

Lei e la figlia Rosalia ieri sono salite su un'auto dei carabinieri e nessuno le ha più viste. Anche Bice e Giovanna, le altre due sorelle, barricate in casa. Sono loro le vere donne di Matteo Messina Denaro, quelle che non l'hanno mai abbandonato. Nemmeno Franca Alagna, da cui ebbe Lorenza nel '95, risponde al citofono della sua casa sul corso. Le luci sono spente, niente aria di festa. Una donna anziana si affaccia dalla finestra: «Qui non c'è nessuno e non scrivete di noi».

Il Cugino.

Estratto dell’articolo di Dario Del Porto per repubblica.it il 19 gennaio 2023.

Sì, ho visto quei 500 ragazzi che sono scesi in piazza a Castelvetrano dopo la cattura di Matteo Messina Denaro. Ma sarò davvero contento solo quando manifesteranno i genitori, non i figli[…] ", dice Giuseppe Cimarosa. Sua madre, Rosa Filardo, lo guarda e annuisce. Sono l'unico pezzo della famiglia dell'ultimo stragista di Cosa nostra che ha ripudiato il padrino. La mamma di Rosa e quella del boss sono sorelle. "Purtroppo", aggiunge lei.

 L'ultima foto di "'u siccu" prima della fuga è stata scattata al matrimonio di Filardo con Lorenzo Cimarosa. Giuseppe ha 40 anni, fa l'istruttore di equitazione e il regista di teatro equestre. "Questa parentela sarà pure lontana, ma mi ha rovinato l'infanzia e l'adolescenza. Come uno stigma", afferma.

[…] Avevo conosciuto la storia di Peppino Impastato ed era lui il mio punto di riferimento ideale. Così è iniziato il conflitto profondo con mio padre. Lo hanno arrestato per la prima volta quando avevo da poco compiuto 15 anni".

 Che aveva fatto?

"Ha scontato 5 anni ingiustamente, perché era stato assolto dall'associazione mafiosa e condannato per danneggiamento contro un ex socio. Non aveva commesso lui quel reato, però non disse nulla. Così, una volta tornato libero, fu ritenuto affidabile e venne nuovamente assoldato".

Poi che cosa è accaduto?

"Nel 2013, quando mio padre ha iniziato a collaborare con la giustizia, ho rifiutato il programma di protezione"

 Perché?

"[…] Ho una mia identità di persona onesta […]".

 Quale?

"Sono dieci anni che viviamo con l'ansia di essere ammazzati a colpi di pistola o con una bomba".

Avete subito intimidazioni?

"Dopo la morte di mio padre, la sua tomba è stata distrutta due volte e già questo è un segnale. Ma forse alla famiglia di Matteo Messina Denaro non conveniva farmi del male, mi avrebbe trasformato in un martire. Tanto ci pensavano gli altri, a farmi vivere l'inferno sulla terra".

 A chi si riferisce?

"Alla società, a quelli che mi hanno emarginato. […]

 Che pensa di quei suoi concittadini che in televisione, a "Carta Bianca", hanno definito "un errore" l'arresto di Messina Denaro?

"Sono schifato. Lo trovo avvilente. Capisco che molti abbiano paura, ma se non volete parlare, almeno state zitti".

[…]

«L’arresto di Matteo Messina Denaro è una carezza al cuore che mi dà speranza»: parla il parente che ha ripudiato il boss. «Pensavo che questo giorno non sarebbe mai arrivato, oggi mi sento un po’ meno in pericolo. Grazie allo Stato». Parla Giuseppe Cimarosa, 40 anni, figlio della cugina del boss catturato dopo 30 anni di latitanza e che si era già esposto contro la mafia. Simone Alliva su L’Espresso il 16 Gennaio 2023.

«Una sorpresa bellissima» dice con un sorriso nella voce Giuseppe Cimarosa, 40 anni, figlio della cugina del boss catturato dopo 30 anni di latitanza e che si era già esposto contro la mafia.

Giuseppe, il "ragazzo ribelle" è stato il primo a dire no alla famiglia di Matteo Messina Denaro: «Sono un parente di un mafioso che ha deciso di scagliarsi contro i mafiosi». A 21 anni lascia la Sicilia, si trasferisce a Roma, in contrasto con la famiglia. Si iscrive all'università e coltiva la sua grande passione: i cavalli. Una talento. Lavora come stuntman nel cinema, collabora con i più importanti artisti dello spettacolo equestre fino a quando non crea una sua compagnia di teatro equestre, la prima in italia. Oggi a Castelvetrano è il direttore artistico del teatro equestre Equus. Una vita controvento ma diritta, sorda all'inferno di quel nome ingombrante e innominabile che vuole stravolgergli la vita. Dopo otto anni il rientro a Castelvetrano e qui è proprio lui a convincere il padre Lorenzo, indicato come il cassiere di "U Siccu", a pentirsi. «È stato l'unico che ha rotto questo muro di omertà. Lo dico ad alta voce perché è la cosa di cui vado più orgoglioso, l'eredità più grande che mio padre mi ha lasciato». Dopo l'avvio della collaborazione con la giustizia di Cimarosa, i figli Giuseppe e Michele, la mamma Rosa Filardo e la nonna Rosa Santantelo (sorella della mamma di Matteo Messina Denaro) scelgono di rimanere a vivere a Castelvetrano, rinunciando al programma di protezione. Questo arresto arriva come una "carezza sul cuore", racconta a L'Espresso. Una giornata fatta di felicità dentro il dolore, di sollievo nella cenere ancora sospesa di un'epoca che termina qui. L'arresto del suo «nemico» è il sigillo, il principio di un nuovo tempo: «Per tutti ma forse per me un po' di più»

Matteo Messina Denaro è stato arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza. Come ha accolto questa notizia?

«Con grande gioia, quasi non ci speravo più. Anzi, le dirò, non ci credevo affatto. Una sorpresa bellissima. Una carezza al cuore che mi dà un po’ di speranza in più. In questi anni ho rischiato. Pensavo che questo giorno non sarebbe mai arrivato, oggi mi sento un po’ meno in pericolo. Ringrazio lo Stato».

Lei non lo ha mai conosciuto eppure era una presenza costante, sin da piccolo ha sentito parlare di questo cugino della madre, discorsi a mezza bocca, un'ombra lunga sulla sua vita.

«Ho sentito parlare di lui e ho capito da subito che era una persona pericolosa: per la mia famiglia, per la mia vita. La mia opposizione è nata in maniera naturale. il mio mito non era Matteo Messina Denaro ma Peppino Impastato. Quando vidi per la prima volta il film 'I cento passi' rimasi sconvolto. La storia di Peppino Impastato è stata la chiave di volta nella mia battaglia personale contro la mia famiglia e contro tutto questo sistema. Ha forgiato dentro di me questo sentimento di ribellione che alla fine mi ha portato a convincere mio padre a collaborare con lo Stato. Oggi il mio pensiero va proprio a lui, ha collaborato con la giustizia fino a quando non è morto a causa di un cancro. Certo, questo arresto segna una conquista per tutta la società. Ma per me vale un po’ di più».

Lei ha lasciato la Sicilia per venire a Roma, si è iscritto all'università e ha coltivato la sua passione per lo spettacolo equestre. Era libero nella Capitale. Perché a un certo punto ha deciso di tornare giù, a Castelvetrano?

«Erano diversi i motivi. Io non ero mai scappato dalla Sicilia, ero andato via da qui perché mi sentivo di troppo. Mi sentivo a disagio, ero una specie di mina vagante. Vivere da eretico non è facile. Ho deciso allora di cambiare aria. Ma non era una fuga, semplicemente rimanere era diventato insopportabile. Poi sono rientrato a casa a distanza di otto anni. Sembrava tutto tranquillo ma la vita ti sorprende sempre: l’arresto di mio padre, la collaborazione, i pericoli. La mia esposizione mediatica. Il ripudio della famiglia da parte di mia madre».

Rinuncia al programma di protezione e aveva dichiarato proprio al L'Espresso: “Per colpa di uno che non riescono a prendere da 23 anni, non posso rinunciare alla mia dignità e identità”.

«La collaborazione di mio padre ci aveva anche imposto il programma di protezione che noi da maggiorenni abbiamo deciso di rifiutare. Non potevo accettare di rinunciare alla mia identità, al mio essere Giuseppe Cimarosa: una persona onesta che si è fatta da sé. Ho rinunciato alla protezione in maniera cosciente ma senza nascondere un filo di ansia e di paura. Siamo persone non supereroi. Ci ha portato a fare i conti con i rischi di tutto ciò che conosciamo bene della mafia: ripercussioni, vendette. Ma volevo essere libero».

Come si sente adesso?

«Ho pianto di gioia, mi sento meno in pericolo. Il mio peggior nemico è stato arrestato. Sento di poter uscire di casa un po’ più tranquillo. Tra la vita e la morte, questa notizia è una luce sulla vita. Non solo mia ma di tutte ma tutti i Siciliani, e ancor di più a tutti i Castelvetranesi onesti»

Le Donne.

Tutte le donne del boss. Senza tradimenti. La compagna con cui visse a lungo e l'amante. Il rapporto ritrovato con la figlia in punto di morte. Valeria Braghieri il 26 Settembre 2023 su Il Giornale.

Donne e Denaro. Ci sono andati a nozze tutti, tranne lui. Per quanto la vita del boss sia stata determinata dalle donne almeno quanto dall'orrore, non si è mai sposato. Ha avuto relazioni, «amicizie», complici, persino una figlia, ma mai una moglie vera e propria. Non una «riconosciuta» dallo Stato o dalla Chiesa, com'era forse coerente che fosse. Profondamente diverso anche in questo dai suoi «colleghi» Bernardo Provenzano o Totò Riina, più «ordinari»: matrimoni, figli, meno strutturati per il gusto, e con troppo poco estro per i vizi. Il mondo di Matteo Messina Denaro si è invece scoperchiato grazie all'inchiesta sui fiancheggiatori del capomafia arrestato lo scorso 16 gennaio alla clinica La Maddalena di Palermo, dove andava a sottoporsi alla chemioterapia per curare il tumore al colon che lo ha ucciso. Le donne sono state la prima evidenza del lato sconosciuto del boss ed è anche grazie a loro che la sua latitanza è stata possibile. Donne rivali, gelose, innamoratissime ma che non si sono mai «tradite» e non hanno mai tradito il boss. Si parte dalle signore della latitanza, quelle che hanno svelato un boss insospettabile quanto irredimibile, e si va a ritroso. Attento, romantico, gratificante, ricolmo di citazioni letterarie e piaceri raffinati: sono loro a raccontare un incongruente Messina Denaro. La maestra di matematica soprannominata «Sbrighisi» da Laura Bonafede è stata l'ultima in termini di tempo. Figlia del boss di Campobello, avrebbe avuto per anni una relazione con il capomafia, pur sapendo che lui aveva altre frequentazioni femminili. Subito dopo l'arresto del padrino era corsa dai carabinieri per raccontare la sua storia con il boss. Lo aveva conosciuto al supermercato. «Sapeva ascoltarmi, mi faceva sentire importante», aveva detto ai carabinieri. Ma non sapeva che quell'uomo fosse il più ricercato d'Italia. A lei si era presentato come il medico in pensione Francesco Salsi.

E c'era Laura Bonafede: era con lei che il boss aveva creato una lingua segreta, fatta dei titoli dei libri o dei loro personaggi. Come Macondo, di Cent'anni di Solitudine con il quale si riferiva a Campobello di Mazara, o Tania di Bukovski per chiamare la figlia di Laura Bonafede. Oppure Maria Mesi, la donna con la quale aveva avuto una lunga relazione negli anni 2000 che fu poi condannata per favoreggiamento, e che in codice era diventata «Tecla». Un'altra femmina del boss era Lorena Lanceri «la vivandiera del boss», sposata, lo ha ospitato a casa sua per mesi.

E naturalmente c'era la prima donna di cui Messina Denaro si era innamorato: una giovane austriaca di nome Andrea. Solo dopo arrivò Francesca Alagna, la madre della sua unica figlia, Lorenza (che si chiama come la nonna e la cugina, l'avvocato del boss). Rapporto travagliato quello di Matteo con l'unica figlia che si è rifiutava di avere contatti con lui e di chiamarsi come lui, con quell'ingombrante marchio-onta: Messina Denaro. E poi, in pochissimo tempo, tra loro due è cambiato tutto, Lorenza, oggi giovane madre, nei mesi scorsi ha chiesto di potere avere il cognome del padre. E sembra si siano anche visti. Nelle ultime ore di coma irreversibile nel reparto per detenuti dell'ospedale San Salvatore dell'Aquila, si è precipitata al suo capezzale la madre Lorenza Santangelo, ormai anziana e malata. Ha oltrepassato gli imponenti schieramenti di poliziotti e soldati, si è fatta largo, curva e prostrata, tra tutta la gente in assetto di guerra per andare a toccare la mano immobile e gelida di quel figlio che per tutta la vita le ha dato dannazioni bollenti. Con lei la figlia Giovanna (le altre due, Rosalia e Patrizia, sono in carcere per mafia), lì accartocciate assieme, entrambe a soffrire avendo vergogna di farlo.

Estratto dell'articolo di Francesco La Licata per “la Stampa” il 21 aprile 2023.

In questo ultimo effluvio di retorica mediatica che rischia di negare a Matteo Messina Denaro l'unica condivisibile identità, cioè quella di uomo senza qualità e contenitore vuoto incapace di nutrire sentimenti, abbiamo assistito ad una vera e propria gara (carta stampata e tv) di esaltazione del nulla. I libri, le letture varie di Matteo, le donne, le capacità attrattive di un criminale che, alla fine, si consegna al pubblico come un predatore seriale di donne prigioniere del loro piccolo mondo e speranzose di un riscatto che non può non passare che per la «forza» di un uomo ricco di soldi e basta.

Tutti questi argomenti, scientemente organizzati da investigatori e magistrati, centellinati e dati in pasto ai cronisti, hanno finito per sovrastare gli aspetti più seri della vicenda, per dar vita ad un insopportabile gossip che non serve a nulla. Ovvero servirebbe a meglio delineare la personalità patologica di un capomafia che non è diventato capo supremo, visto anche il pedigree di cui dispone, forse proprio per questa sua ossessione erotica che lo ha sempre accompagnato. Matteo non ama le donne, la sua anaffettività glielo impedisce. Matteo le donne le possiede, le sfrutta, le cattura insieme con tutto il fardello familiare che le circonda. E loro, le donne, lo adulano (cosa che a Matteo piace tanto), gli riconoscono una supremazia («di fronte a te ogni altro uomo scompare»).

A pensarci, è lo stesso meccanismo mentale che ha consentito ad un'intera comunità, quella di Campobello, di «lasciar vivere», per almeno 15 anni, una tranquilla latitanza, […]

Ma il «paesello» non è soltanto fatto di vecchi con la coppola. È lecito chiedersi perché anche la cosiddetta società civile, gli imprenditori, i professionisti, polizia, carabinieri, vigili, avvocati, insomma persone un po' più accorte, soffrissero della stessa distrazione dimostrata dal «paese vecchio»?

Ma questi argomenti non sembrano essere all'ordine del giorno del materiale investigativo rimasto coperto dalla «panna montata» prodotta dalle donne di Matteo 

[…] è innegabile l'importanza che può avere avuto il ruolo di Laura Bonafede […] anche in questa storia, comunque, vien fuori tutta la pochezza del boss incompleto. Tanto inadeguato da infrangere le più elementari regole di Cosa nostra per soddisfare il proprio ego. Laura Bonafede è regolarmente sposata e madre di una figlia anch'essa consegnata all'egoismo del boss che l'ha usata in sostituzione di Lorenza, la figlia naturale che non ha mai voluto riconoscere l'autorità paterna. La ragazza è diventata la figlia ideale per Matteo, […] la stessa relazione con Laura […] è di per sé «scandalosissima» rispetto all'ipocrisia e alla falsa morale mafiosa. L'insegnante innamorata è anche moglie di Salvatore Gentile, un ergastolano (killer) finito in carcere proprio per aver ucciso su commissione di Matteo. Secondo la legge di Cosa nostra, dunque, Matteo avrebbe dovuto essere ucciso per aver «approfittato» della moglie di un uomo d'onore detenuto. Ma le regole, si sa, valgono solo per i deboli e così Laura Bonafede diviene «proprietà» di Matteo. 

Il quale, però, non disdegna altre frequentazioni femminili […]

Adesso a Matteo stanno cucendo addosso l'abito del Casanova. Ma il paragone non regge per un personaggio così inadeguato. […] L'erotomane Matteo, semmai, fa pensare ad un personaggio che i meno giovani dovrebbero ricordare. Era il protagonista di un fotoromanzo popolare che si chiamava «Supersex», un antenato del porno a venire. Supersex era un accumulatore seriale di donne che «catturava» con una formula magica che paralizzava le prede. 

[…] Prima o poi si placherà questa corsa alla ricerca del gossip e allora sarebbe auspicabile che le indagini (e le inchieste giornalistiche) affrontassero i temi cruciali di cosa ha significato per la Sicilia occidentale la presenza di famiglie come i Messina Denaro. […] Un groviglio di mafia e potere che si liberava dei servitori dello Stato fedeli (Giangiacomo Ciaccio Montalto, Alberto Giacomelli) e aggrediva ferocemente i più recalcitranti (Carlo Palermo e Rino Germanà). Questo cancro ha poco a che fare con le gesta di un Casanova di paese.

L’errore fatale di Matteo Messina Denaro: le vivandiere erano anche amanti. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2023 

Le due relazioni e la gelosia: così la sua latitanza ha iniziato a entrare in crisi. Il boss ha violato uno dei pilastri del codice di Cosa nostra: mai avere relazioni con le donne d’onore 

Non esiste boss latitante senza vivandiere, non esiste nessuna latitanza possibile senza assistenza. I boss, quando si nascondono, hanno necessità primarie che devono essere affrontate in modo completamente diverso rispetto a quando sono in libertà e in società. 

Liberi e in attività hanno squadre che girano intorno alle loro case, guardiaspalle, più i familiari sono visibili, attivi in campagna elettorale, presenti negli affari pubblici più il loro potere è celebrato. 

I loro movimenti sono sintomo della presenza del capo sul territorio, la visibilità mostra dominio e vuole comunicare sicurezza a chi si affida al loro potere. 

Tutto cambia in latitanza o meglio in una latitanza in cui si ha certezza d’essere ricercato, lo Stato è debole e squattrinato non ricerca tutti i latitanti. Ebbene quando si è nel mirino non deve esserci traccia di movimenti, i familiari rappresentano un pericolo, vengono pedinati, osservati, continuamente monitorati. 

Gli amici più fidati diventano come orme lasciate dalla belva che gli inquirenti braccano, ogni data di compleanno, di anniversario di matrimonio, di onomastico del boss vede partire rinnovate intercettazioni ambientali e pedinamenti nella speranza di scovarlo ad un incontro.

Ogni post pubblicato fuori zona da chi è vicino al boss fa partire ispezioni nel luogo della foto. Scegliere la figura giusta come vivandiere è molto, molto complicato: deve essere anonima e deve essere affidabile. Nessun trascorso nell’organizzazione, nessun reato. Ancor prima del rischio di essere scoperti dalla catturandi, c’è il rischio di essere venduti ai nemici. Quindi la persona prescelta deve essere inavvicinabile dai rivali, e non perché incorruttibile o perché irreprensibile (studiare le mafie ti porta ad una consapevolezza che l’umanità non è kantianamente un legno storto ma una radice marcia: tutti sono avvicinabili, tutti sono corruttibili) ma semplicemente perché non la identificano e quindi non possono comprarla o minacciarla. 

Da sempre, il ruolo del vivandiere o della vivandiera è quindi il muscolo cardiaco che permette la latitanza di un capo. La regola è sempre la stessa, per prendere un latitante bisogna identificare chi porta il cibo al latitante, chi gli consegna i panni, chi lo sposta quando deve muoversi, chi insomma permette al latitante di svolgere le sue attività vitali che sono appunto mangiare, bere, vestirsi comunicare, e in alcuni casi, fare sesso. Non è raro, infatti, che quando si tratta di vivandiere i capi abbiano poi iniziato relazioni con loro spesso mettendo a rischio il funzionamento del sistema.

Succede anche a Messina Denaro. Il boss sceglie come vivandiera Laura Bonafede moglie di un suo killer Salvatore Gentile e figlia di un uomo d’onore responsabile di mandamento Leonardo Bonafede. 

Pedegree mafioso perfetto possiede Laura, avrebbe dovuto per questo motivo essere scartata come vivandiera perché non rispetta il codice dell’anonimato, dell’assenza di legami con uomini d’onore, facile per gli inquirenti avrebbe dovuto essere monitorare tutte le famiglie di Cosa Nostra della zona di Castelvetrano nei decenni di latitanza di Messina Denaro per scovare chi lo aiutava. Sembra scontato ma non lo è. 

Messina Denaro non è come gli altri latitanti. Gli altri latitanti si nascondevano e si nascondono per continuare ad essere ciò che sono, Messina Denaro aveva un’altra identità non solo per provare a sottrarsi a quella parte di Stato che lo cercava per catturarlo ma per scomparire letteralmente con l’organizzazione e avere con essa solo sporadici contatti. Quindi per chi lo cercava la sfida non era dove fosse Messina Denaro ma chi fosse Messina Denaro. 

Gli altri boss utilizzano documenti falsi per spostarsi, per andare all’estero, ma continuano a essere boss sul loro territorio lui no. Il gip stesso Alfredo Montalto che ha disposto l’arresto di Laura Bonafede scrive che risulta «sconcertante» come questi soggetti fossero monitorati da anni ma nessuno era riuscito ad accorgersi che stessero muovendosi a tutela di Messina Denaro.

I loro codici, il loro modo di comportarsi lasciavano intendere una normale quotidianità di mafia non una certosina assistenza al boss. Laura Bonafede quindi assiste Messina Denaro ma gli inquirenti non sanno più chi è Messina Denaro e ciò permette a Laura Bonafede di curarlo in totale tranquillità e nel tempo tra i due nasce una relazione. Questa è una debolezza legarsi alla propria vivandiera perché la sua frequentazione smette di essere legata alla necessità e inizia a diventare condizione di volontà. 

Leggendo la documentazione negli atti giudiziari le lettere che si scrivono mostrano un sentimento corrisposto e continuato: «Penso che… ci apparteniamo, nel bene o nel male ci apparteniamo e questo è un dato di fatto». E ancora: «Mi manca tutto, anche guardare un film assieme». 

Accade poi che Messina Denaro deve cambiare luoghi avvertito della pressione delle indagini e per farlo deve immergersi nella vita di un altro, fa sempre così per affondare nelle sabbie mobili, chi lo cerca non lo trova perché nella caccia trova sempre orme di altre persone, il boss crea avatar esistenti in cui scomparire. E allora va a vivere nella casa del cugino di Laura, Emanuele Bonafede ma lui è sposato e quindi la convivenza sarà anche con la moglie Lorena Lanceri. 

Laura è infastidita dal tempo che il boss trascorrerà con la nuova vivandiera e un giorno vede l’Alfa Romeo con cui Messina Denaro si muoveva, proprio sotto casa della coppia «stranamente non mi sono arrabbiata (per camuffare scrive di sé al maschile qui riporto al femminile, ndr) , non sono andata su tutte le furie come di solito mi succede. Mi ha dato parecchio fastidio, questo non lo posso negare. Mi ha dato fastidio non sapere cosa stessi facendo in quel momento, non sapere se eravate soli, se ti saresti fermato ancora a lungo, se… se… se… potrei dire mille se...».

E Laura non stava delirando, effettivamente anche con la seconda vivandiera era nata una relazione come tracciato in una lettera che Lorena scrive al boss: «Il bello nella mia vita è stato quello di incontrarti, come se il destino decidesse di farsi perdonare, facendomi un regalo in gran stile. Quel regalo sei tu… Penso che qualsiasi donna nell’averti accanto si senta speciale ma soprattutto tu riesci a far diventare il nulla gli altri uomini». 

Mentre migliaia di poliziotti lo cercano, e milioni di euro vengono investiti per catturarlo una sola persona riesce a monitorare ogni suo movimento ed è Laura Bonafede la vivandiera la cui gelosia è così forte che incolla i suoi occhi su Margot (nome in codice dell’alfetta con cui si muove in paese Messina Denaro) per capire come si sta muovendo il suo amato. 

E il boss che riesce a muoversi libero mentre lo ricercano le squadre d’élite dei carabinieri teme invece solo che gli occhi di Laura lo becchino, e infatti quando deve utilizzare l’altra vivandiera Lorena (nome in codice Tramite) per muoversi è proprio a Laura che chiede il permesso. «Devo dirti allora che me lo hai chiesto tu se potevi fare un giro con Tramite? — aggiunge —. Lasciamo stare il telo macchiato che poteva essere un’illazione. Ma il salire in auto nella piccola stradina. Te lo ripeto: io ti conosco. È vero sai recitare, ma capisco quanto sei coinvolto quando parli di qualcuno». 

Il telo a cui fa riferimento probabilmente è un telo mare macchiato trovato nell’auto del boss che per Laura era prova di un rapporto amoroso consumato in auto tra i due. 

Probabilmente Messina Denaro riuscì a convincerla che erano supposizioni fantasiose ma Laura va oltre le prove biologiche di un rapporto sessuale, lei lo conosce e legge da come parla di Lorena il suo coinvolgimento e stigmatizza il fatto di averla incontrata dandosi appuntamento in una stradina, tutti segnali per lei di un coinvolgimento amoroso reale. 

Sente di essere esclusa dalla sua vita, il boss aveva in più occasioni dato buca e lei lo fa notare: «Caro Amico mio oggi ho rispettato nuovamente l’appuntamento di sabato ma niente, non ho visto…».

A quel punto lo cerca, lo cerca e ancora lo cerca a differenza della polizia lei lo scova sempre. E gli scrive: «Passando da lì ho visto Margot (sempre l’alfa romeo di Messina Denaro) e questo mi ha fatto tanto piacere perché in questi 6 giorni non sapevo più cosa pensare […]. Ho provato un po’ di sana gelosia, puoi capire anche perché. Io non posso partecipare a niente e gli altri si ma va bene lo stesso, almeno so che ti muovi, che puoi uscire con Margot e che continui con le tue abitudini». 

La cosa che le pesa è che lei essendo una «moglie» con marito in carcere non può partecipar a nessun incontro con altre persone a differenza dall’altra vivandiera che invece avendo un marito accanto può partecipare a incontri con Messina Denaro. Per anni Laura è stata la sua vivandiera e non sopporta ora il cambio, avevano vissuto insieme nel «tugurio», così viene chiamato l’appartamento: «Stavamo bene in quel posto: sì, ero felice di trascorrere quel tempo insieme, penso che lo sapevi che era così».

La crisi che nasce con le vivandiere indebolisce il boss, esattamente come nella fenomenologia di tutte le relazioni d’amore, l’assenza si tramuta in rancore, la cura in rabbia, legarsi sentimentalmente alla vivandiera significa sottoporre il rapporto alle regole della passione ossia transitorie, lunatiche, emotive quindi rancorose, irrazionali, ossessive, tossiche. 

Avere vivandieri con cui non si hanno rapporti sentimentali o di amicizia significa poter contare su una garanzia di continuità e una affidabilità igienica. I sentimenti sono volubili e in latitanza l’instabilità lascia pericolose brecce. Questa crisi tra le due vivandiere probabilmente spinge Messina Denaro a farsi gestire da uomini, la sua identità ultima è quella del fratello di Emanuele Bonafede, Andrea Bonafede nella cui vita decide di nascondersi mentre prova a curarsi dal cancro ma non servirà, qualcuno lo vende, qualcuno non lo protegge più e i carabinieri finalmente capiscono non dove si trova, tutti l’hanno sempre saputo, ma chi era Messina Denaro. 

Il boss ha violato uno dei pilastri del codice d’onore di Cosa Nostra che impedisce di poter avere relazioni con le donne d’onore ossia con le mogli di uomini d’onore. La moglie di un affiliato è moglie per sempre e intoccabile, si può risposare ma non con un altro uomo d’onore né un affiliato può stare con lei. Mai. 

Laura Bonafede è proprio sposata con un uomo d’onore Salvatore Gentile e Lorena Lanceri è sposata con Emanuele Bonafede (probabilmente affiliato «riservato» ossia membro sconosciuto alla parte maggiore dell’organizzazione) ma Messina Denaro ha avuto relazione con entrambe che nel codice di Cosa Nostra significa indebolire la propria credibilità e sicurezza. Messina Denaro ha iniziato ad aprire varchi per la sua cattura nel momento in cui ha iniziato a violare le regole su cui si fonda l’edificio delle organizzazioni criminali italiane, non ragionare in altro modo che razionalmente e spietatamente. 

In sintesi la filosofia mafiosa è chiara e tracciabile in queste proposizioni: nascere è una sventura, amare è una stupidità, provare emozioni è una debolezza, il potere è l’unico scopo così da poter scegliere in che posto stare tra le uniche due possibilità a disposizione per chi vive in questo mondo: fottere o essere fottuto.

DAGONOTA il 17 aprile 2023.

Scopate, gelosie, tradimenti e Viagra. Quando è stato arrestato Matteo Messina Denaro, il 16 gennaio 2023, tutti si aspettavano grandi rivelazioni sui segreti degli ultimi trent’anni di Storia italiana. 

Trattative, omicidi, piste e depistaggi. Maddeché! Tre mesi dopo, i giornali sono pieni, sì, ma di racconti pruriginosi sulle sue scopate, della sua passone per la patonza (pardon, sticchio) e della gelosia fra le amanti, che se lo litigavano. 

L’ultima della lunga serie, l’insegnante di matematica di Campobello che ai carabinieri ha raccontato: “Sapeva ascoltarmi, mi faceva sentire importante. Ma non sapevo fosse lui, l’ho scoperto solo dopo l’arresto”. 

Che sia credibile o meno la versione della donna, è solo l’ultima prova che il boss, durante la latitanza, si dedicava più alle passioni carnali che alla gestione di Cosa nostra. Più che “Capo dei capi”, insomma, era ormai “Cap’ ‘e cazz”! 

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per corriere.it il 17 aprile 2023.

Non nascondeva il fastidio che nutriva nei confronti dell’altra. La chiamava «Sbrighisi». Lei, Laura Bonafede, maestra e figlia del boss di Campobello, per anni la donna di Matteo Messina Denaro, sapeva che il capomafia aveva altre frequentazioni femminili, come Sbrighisi, appunto. 

Un soprannome dietro il quale si nasconderebbe un’insegnante di matematica di Campobello di Mazara che, dopo l’arresto del padrino, si è precipitata dai carabinieri a raccontare la sua storia: l’aveva conosciuto al supermercato. Lei stava vivendo una crisi coniugale. Ne era nata una relazione durata fino a pochi giorni prima della cattura del boss.

«Sapeva ascoltarmi, mi faceva sentire importante», ha detto agli inquirenti. Ma che fosse il latitante ricercato in mezzo mondo — ha assicurato — l’ha scoperto solo dopo l’arresto. A lei, l’ex primula rossa di Cosa nostra si sarebbe presentato con una delle sue false identità: il medico in pensione Francesco Salsi. Una versione tutta da verificare, visto che il marito della professoressa ha precedenti per mafia ed è ritenuto uno dei fedelissimi del boss del paese Franco Luppino. Possibile che la moglie non sapesse chi era davvero Francesco Salsi? 

Al di là delle inchieste e del gossip resta la storia dell’ennesima donna coinvolta nella vita di un criminale per 30 anni ricercato per delitti efferati e riuscito, nonostante questo, a creare attorno a sé una rete di consenso ai limiti della venerazione. [...] Donne disposte a sacrificare la loro vita per Messina Denaro e rimaste legate a lui per anni.

Come Laura Bonafede, al servizio del padrino col quale aveva addirittura creato una lingua segreta prendendo in prestito termini e nomi dai libri: Cent’anni di Solitudine aveva ispirato il nome dato a Campobello, «Macondo», Bukowski il «Tania» usato per la figlia della Bonafede. E come Maria Mesi, nome in codice Tecla, amore di gioventù, condannata per favoreggiamento a inizi 2000: la sua casa di Bagheria è stata perquisita, segno che i rapporti col capomafia non apparterrebbero solo al passato. 

E, poi, lo raccontano le inchieste del Ros, ci sono Lorena Lanceri («Diletta»), la vivandiera del padrino: l’ha ospitato a casa per mesi ed era al centro della sua rete di comunicazioni riservate [...].

Patacche di legalità. La mentalità mafiosa di una certa antimafia. Iuri Maria Prado su L'Inchiesta il 17 Aprile 2023.

I provvedimenti della magistratura che ordinano l’arresto della donna che «avrebbe provveduto alle necessità di vita quotidiana del latitante» o di quello che fa avere al mafioso un farmaco contro il cancro ripetono il modulo proprio della cosca che combatte quella avversaria infierendo sulla cerchia familiare

C’è qualcosa di incivile nella cultura e nella pratica cosiddette antimafia. Qualcosa di criminale. Qualcosa che sente di mafia. Ed è l’indagare, l’accusare, il giudicare in perimetro di clan e familiar-onomastico: che è il protocollo mafioso.

I provvedimenti della magistratura antimafia – e già in questa qualificazione, “antimafia”, c’è la denuncia del carattere barbarico-sacerdotale di quella presunta giustizia – che indugiano in modo lombrosian-geografico sulle attitudini di connivenza di una intera comunità sociale, e ordinano l’arresto della donna che «avrebbe provveduto alle necessità di vita quotidiana del latitante», cioè alla fornitura di ricotta e prosciutto, e mettono in vincoli l’altro, quello che fa avere al mafioso un farmaco contro il cancro, ripetono il modulo proprio della cosca che combatte quella avversaria infierendo sulla cerchia familiare.

Lo Stato che trionfa sul crimine organizzato con i rastrellamenti giudiziari e promette guarentigia al recluso che si sottomette al suo potere facendo delazione e rinnegando il proprio sangue, e altrimenti lo mura vivo, riproduce il costume della tribù che assolda il pregresso nemico sotto minaccia di estinguerne la discendenza.

La legalità antimafia che tiene in sospetto la figlia e la moglie del mafioso, ma anche il pizzaiolo del mafioso, il commercialista del mafioso, il farmacista del mafioso, l’elettrauto del mafioso, perché oggettivamente si prestano a garantirne l’impunità, codifica con il sigillo del potere pubblico anziché con quello dei compartimenti di affiliazione un’identica disciplina retrograda: quella per cui la colpa è consanguinea, ambientale ed ereditaria, una colpa da cui ci si assolve appunto rinnegando il seme da cui si è generati e l’ambiente in cui si è cresciuti, e inchinandosi al potere soverchiante.

Ma nulla distingue l’atteggiamento dello Stato che si comporta in questo modo da quello della schiatta che pretende, nell’illegalità, di giustapporvisi: nulla se non la mostrina del potere pubblico, che però è la patacca di legalità appiccicata su un’altra specie di arbitrio, su un’altra specie di violenza, su un’altra specie di ingiustizia.

Può anche darsi che sia perfettamente in linea con il diritto positivo, cioè con la legge che c’è, procedere contro qualcuno che ha alimentato un criminale o ne ha alleviato le sofferenze propinandogli un farmaco. Ma bisognerebbe capire per quali fondate esigenze cautelari quel favoreggiatore dei cicli vitali del mafioso debba andare in prigione prima del processo, e resterebbe in ogni caso il dubbio sul fatto che una giustizia così si ispiri a principi davvero diversi rispetto a quelli che fanno piazza pulita intorno al potere declinante del perdente. Proprio come la mafia.

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per corriere.it il 15 aprile 2023

Non nascondeva il fastidio che nutriva nei confronti dell’altra. La chiamava «Sbrighisi». Lei, Laura Bonafede, maestra e figlia del boss di Campobello, per anni la donna di Matteo Messina Denaro, sapeva che il capomafia aveva altre frequentazioni femminili, come Sbrighisi, appunto.

 Un soprannome dietro il quale si nasconderebbe un’insegnante di matematica di Campobello di Mazara che, dopo l’arresto del padrino, si è precipitata dai carabinieri a raccontare la sua storia: l’aveva conosciuto al supermercato.

 Lei stava vivendo una crisi coniugale. Ne era nata una relazione durata fino a pochi giorni prima della cattura del boss. «Sapeva ascoltarmi, mi faceva sentire importante», ha detto agli inquirenti. Ma che fosse il latitante ricercato in mezzo mondo — ha assicurato — l’ha scoperto solo dopo l’arresto.

A lei, l’ex primula rossa di Cosa nostra si sarebbe presentato con una delle sue false identità: il medico in pensione Francesco Salsi. Una versione tutta da verificare, visto che il marito della professoressa ha precedenti per mafia ed è ritenuto uno dei fedelissimi del boss del paese Franco Luppino. Possibile che la moglie non sapesse chi era davvero Francesco Salsi?

 Al di là delle inchieste e del gossip resta la storia dell’ennesima donna coinvolta nella vita di un criminale per 30 anni ricercato per delitti efferati e riuscito, nonostante questo, a creare attorno a sé una rete di consenso ai limiti della venerazione. Il gip che ha arrestato giovedì la Bonafede parla di «totale adesione alla latitanza» del boss.

Donne disposte a sacrificare la loro vita per Messina Denaro e rimaste legate a lui per anni. Come Laura Bonafede, al servizio del padrino col quale aveva addirittura creato una lingua segreta prendendo in prestito termini e nomi dai libri: Cent’anni di Solitudine aveva ispirato il nome dato a Campobello, «Macondo», Bukowski il «Tania» usato per la figlia della Bonafede.

 E come Maria Mesi, nome in codice Tecla, amore di gioventù, condannata per favoreggiamento a inizi 2000: la sua casa di Bagheria è stata perquisita, segno che i rapporti col capomafia non apparterrebbero solo al passato. E, poi […] ci sono Lorena Lanceri («Diletta»), la vivandiera del padrino: l’ha ospitato a casa per mesi ed era al centro della sua rete di comunicazioni riservate[…]

 L’adorazione del boss prescinde dalla relazione amorosa. Come dimostra l’ultima (per ora) donna a lui legata: Martina Gentile, figlia della maestra Bonafede. Suo padre Salvatore sconta l’ergastolo per due omicidi commissionati proprio da Messina Denaro. Ma nonostante questo lei ha per il capomafia un amore profondo. Lui lo sa e lo racconta alle sorelle. «È come una figlia», scrive. […]

Estratto dell'articolo di Lirio Abbate per “la Repubblica” il 14 aprile 2023.

Il vecchio padrino Francesco Messina Denaro “campava” con le regole tribali di Cosa nostra ed era preoccupato che suo figlio Matteo, per il semplice fatto che aveva tante amanti e una condotta poco in linea con l’etica mafiosa, potesse essere messo da parte nella Cupola.

U siccu tirava dritto per la sua strada criminale: di giorno uccideva e la sera raccoglieva fidanzate. E spesso ammazzava anche per gelosia, non solo per mafia. E u zù Ciccio correva spesso ai ripari per proteggere agli occhi degli altri boss l’onore del figlio. Siamo negli anni Ottanta, e viene assassinato a Palermo un venticinquenne universitario, Calogero “Lillo” Santangelo.

«Matteo all’epoca era un ragazzino di appena vent’anni, veniva a Palermo a trovare a Lillo come si usa dire, per essere svezzato […]», racconta un ex universitario che ha vissuto quella storia.

 Lillo e Matteo sono amici sin dall’infanzia. […] A Palermo divide l’appartamento con altri colleghi, fra cui Salvatore Errante Parrino, anche lui di Castelvetrano. […] Matteo fuggiva da Castelvetrano per partecipare a festini a luci rosse insieme al suo amico d’infanzia […]

La combriccola di Castelvetrano entra nel “giro” di donne di mezza età a cui piace “incontrarsi” con giovani disposti a divertirsi, senza alcun impegno sentimentale.

 «Abbiamo conosciuto signore di Palermo dell’alta borghesia che non lesinavano a fare feste invitando anche ragazzotti e studentelli. Avevamo dunque queste opportunità di divertimento, ci mancava una persona per compensare con le donne presenti, e Lillo invitò Matteo Messina Denaro. Ricordo che lo portammo alla festa e si divertì come un pazzo» spiega Salvatore Parrino.

E poi in altre occasioni: «Abbiamo conosciuto signore che allora si definivano “tardone piacenti”» le quali organizzavano feste «ma ci voleva un numero superiore di picciutteddi rispetto alle signore, perché un ragazzino per ogni donna non ce la faceva.

 Cercammo aiuto, e ognuno di noi si diede da fare per rintracciare qualcuno che ci poteva dare una mano a superare questa nottata che si presumeva abbastanza lunga e intensa. Chiamarono Matteo che era a Castelvetrano e gli dissero di prendere l’auto e correre a Palermo. E così fece» ricostruisce l’ex studente.

 Come spesso accade nelle storie di Cosa nostra, c’è sempre un’altra facciata, un risvolto inatteso. Quella che sembra un’amicizia fraterna, non vale niente di fronte all’offesa recata a un membro della famiglia.

 E per Francesco Messina Denaro l’aver condotto il figlio in un ambiente, secondo la sua mentalità, di totale depravazione, è un insulto.

Da lavare con il sangue. U zu Ciccio , pur avendo tenuto a battesimo Lillo in nome della grande amicizia che lo legava al padre, non esita un istante a ordinarne la morte, dismettendo gli abiti del padrino per vestire quelli del carnefice. Come atto di riguardo verso il padre della vittima, ordina che l’omicidio venga eseguito a Palermo, il 9 novembre 1981, e non a Castelvetrano, nel paese natale.

 Visto che si tratta di una «trasferta », U zu Ciccio chiede l’aiuto di Riina, il quale mette a disposizione i suoi fedelissimi sicari che sorprendono lo studente quasi sotto casa, e lo uccidono a sangue freddo.

[…] per venticinque anni questo delitto è rimasto senza spiegazioni. Nessuno aveva dato un senso all’omicidio di uno studente di Medicina, inspiegabilmente freddato dalla mafia, fino a quando non sono arrivate le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia: si trattava di una vendetta per uno sgarro fatto da Lillo a Francesco Messina Denaro, al quale, dicono, avrebbe fatto sparire una partita di droga.

 Il padre di Lillo si è lasciato morire in ospedale di crepacuore dopo l’assassinio del figlio, incapace di comprendere il motivo di tanta crudeltà. Adesso c’è una risposta giudiziaria, ma è possibile che non coincida con la verità storica.

Un’altra donna in caserma: «Anch’io amavo Messina Denaro, ma si presentava come “dottor Salsi”» Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2023.

È un’insegnante di Campobello, il cui marito è stato arrestato per mafia: tanto che gli inquirenti dubitano che lei non sapesse davvero chi fosse veramente il boss. Il ruolo di tutte le figure femminili attorno capomafia: «Disposte a sacrificarsi per lui»

La chiamava «Sbrighisi», uno dei tanti nomi in codice usati per tutelare la riservatezza delle sue comunicazioni. E non nascondeva il fastidio, a tratti il disprezzo, che nutriva nei suoi confronti. Lei Laura Bonafede, maestra e figlia del boss di Campobello, per anni la donna di Messina Denaro, sapeva che il boss aveva altre frequentazioni femminili, come Sbrighisi, appunto. L’ennesima amica del capomafia sarebbe un’insegnante di Campobello che, dopo l’arresto del padrino, si è precipitata dai carabinieri a raccontare la sua storia. Col boss si erano conosciuti al supermercato, lui l’aveva corteggiata, lei stava vivendo un momento di crisi coniugale e aveva accettato le avances. Ne era nata una relazione, i due si sarebbero frequentati fino a pochi giorni prima della cattura di Messina Denaro.

«Sapeva ascoltarmi, mi faceva sentire importante», ha detto davanti al suo legale e ai magistrati. Ma che fosse il latitante ricercato in mezzo mondo no, quello — ha assicurato — l’ha scoperto solo dopo l’arresto. A lei l’ex primula rossa di Cosa nostra si sarebbe presentato con una delle sue false identità: quella dell’anestesista in pensione Francesco Salsi. Una versione tutta da verificare visto che il marito della donna è stato arrestato qualche anno fa per mafia ed era ritenuto uno dei fedelissimi del boss del paese Franco Luppino. Possibile che la moglie, che ben conosceva anche la Bonafede, non sapesse chi era davvero Francesco Salsi?

Ma al di là degli aspetti giudiziari o pruriginosi (questi ultimi davvero poco rilevanti) resta la storia dell’ennesima donna coinvolta nella vita del padrino ricercato per crimini efferati e riuscito a creare attorno a sé una rete di consenso ai limiti della venerazione. Le indagini della Procura di Palermo raccontano di lungo elenco di presenze femminili che testimoniano quello che il gip, che ha arrestato ieri la Bonafede, definisce «totale adesione alla latitanza» del boss. Donne disposte a sacrificare la loro vita per Messina Denaro e rimaste legate a lui per anni. Come Maria Mesi, in codice Tecla, amore di gioventù, condannata per favoreggiamento, accusata di averne coperto la latitanza a fine anni ‘90 . Il suo nome recentemente è tornato sotto i riflettori degli inquirenti e la sua casa di Bagheria è stata perquisita, segno che i rapporti col capomafia non sarebbero mai stati interrotti.

E, poi, sempre limitandosi alle ultime inchieste, ci sono Lorena Lanceri («Diletta»), la vivandiera del padrino: sposata con Emanuele Bonafede, cugino della maestra, l’ha ospitato a casa per mesi ed era al centro della sua rete di comunicazioni riservate. E un ruolo fondamentale nella tutela del capomafia hanno avuto le sue sorelle Rosalia e Patrizia, entrambe in cella. In nome del fratello minore, il picciriddu, hanno sacrificato la loro libertà e quella dei mariti, entrambi detenuti per favoreggiamento. L’adorazione del boss prescinde, dunque, dalla relazione amorosa. Come dimostra l’ultima (per ora) donna a lui legata: Martina Gentile, figlia della maestra Bonafede. Suo padre Salvatore, uno dei killer del padrino, sconta l’ergastolo per due omicidi commissionati proprio da Messina Denaro. Ma lei nonostante questo ha per il capomafia un amore profondo. Lui lo sa e lo racconta alle sorelle.

«Per me Martina è una figlia — scrive — L’ho cresciuta io» (lui, la madre e la ragazza avrebbero vissuto insieme per anni). Per Martina i pm avevano chiesto gli arresti domiciliari per favoreggiamento. Il gip ha respinto l’istanza ritenendo che non ci fossero i gravi indizi di colpevolezza. Ma – ha scritto –provava «un affetto quasi filiale nei confronti di Messina Denaro, affetto, peraltro, intensamente contraccambiato da quest’ultimo, che apprezzava, soprattutto, la sua adesione ai valori mafiosi del nonno Leonardo Bonafede».

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 14 aprile 2023.

Cinque giorni dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro si è presentata in una caserma dei carabinieri dicendo di avere intrattenuto una relazione sentimentale con quell’uomo visto in televisione. «Mi aveva detto di chiamarsi Francesco Salsi — ha spiegato — e che era un medico anestesista in pensione». […] L’insegnante ha sempre ribadito: «Non ho mai sospettato che si trattasse di Matteo Messina Denaro, sono sotto choc». E ha raccontato la sua storia: «Ho intrapreso quella relazione in un momento di crisi personale e coniugale».

Ha detto di averlo conosciuto in un supermercato di Campobello, vicino casa sua. «È stato lui a presentarsi». Ha spiegato di averlo rivisto a giugno. «A settembre ci siamo scambiati il numero di cellulare». Il mese successivo, la donna era nell’appartamento di via Cb 31, il covo del superlatitante. «Mi diede appuntamento a Mazara del Vallo — ha spiegato — andammo a casa sua con l’Alfa Giulietta che ho visto in Tv». Restarono un paio d’ore prima di ritornare a Mazara. «Mi invitò altre volte — dice lei — ma l’ho sentito solo telefonicamente, sino a pochi giorni prima del suo arresto».

Ma per davvero non sapeva nulla dell’identità di Messina Denaro? Anche l’insegnante è stata al centro di un’indagine dei carabinieri del Ros. E si è scoperto che della relazione era a conoscenza Laura Bonafede.

 A leggere i pizzini fra la maestra arrestata ieri mattina e Messina Denaro sembra che si conoscevano pure: «Oggi sono stato a Macondino — annotava Laura Bonafede, facendo riferimento alla località di Triscina — e quando stavamo andando via c’erano gli Sbrighisi al completo, erano a fare un giro di prova con una potenziale auto di Handicap, perché la sua non funziona bene».

Secondo gli investigatori, “Sbrighisi” e “Handicap” sono due nomi in codice per indicare l’insegnante che ha confessato di essere stata l’ultima amante di Messina Denaro. […] La verità è che Laura Bonafede era parecchio gelosa di Sbrighisi, così come lo era dell’altra donna con cui il boss latitante intratteneva una relazione, la vivandiera Lorena Lanceri.

[…]

D’altro canto, Laura Bonafede e Matteo Messina Denaro avevano avuto una relazione lunga circa dieci anni. […] Ma, poi, la storia con Laura Bonafede era finita. E il superlatitante si era lanciato in nuove avventure.

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2023.

È una storia di sentimenti e forse d’amore, quella tra Laura Bonafede e Matteo Messina Denaro. Ma per gli inquirenti che stanno ricostruendo la rete di protezione del boss rimasto latitante per trent’anni è soprattutto una storia di mafia. Che risale ai rapporti tra i genitori di entrambi, due capi di Cosa nostra: Nardo Bonafede, morto detenuto a 88 anni nel 2020, e Francesco Messina Denaro, deceduto da ricercato nel 1998.

Dopo altri tre Bonafede finiti in carcere per l’assistenza fornita al padrino stragista rimasto in circolazione fino al 16 gennaio scorso, ora è il turno di Laura che con Matteo aveva un «intimo rapporto» provato dai «dati numerosi e assai espliciti» trovati tra le carte sequestrate nell’ultimo appartamento abitato dal boss a Campobello di Mazara.

 […] Con Messina Denaro, Laura Bonafede (il cui marito, Salvatore Gentile, sta scontando l’ergastolo per due omicidi commessi, secondo le sentenze, su ordine del capo arrestato tre mesi fa) ha convissuto in diversi periodi della sua latitanza. Almeno fino al 2017.

[…]

 Di frasi che trasudano trasporto ce ne sono tante nei pizzini passati al setaccio dai carabinieri del Ros, come quelle contenute in una lettera firmata «Loredana 2012», tra i nomi utilizzati dalla donna per camuffarsi (come Blu, Venesia o Amico), insieme all’uso del maschile: «Oggi posso dire che ho conosciuto un uomo particolare, diverso, se vuoi originale e unico sicuramente, ma non dirò come sei, è cosa mia come sei. Ti dico soltanto che è stato un gran peccato che il mondo non ti abbia compreso... Sei rimasto uomo nella sconfitta, e chiunque ti ha conosciuto, non si dimenticherà mai di te. Mi reputo fortunata a far parte della tua vita, e provo pena per chi non ha avuto o voluto questo privilegio».

In un’altra lettera, ricordando la decisione di Messina Denaro di interrompere o diradare gli incontri all’uscita da ricercato del padre e del marito dal carcere, Laura ha scritto: «Mi ero quasi offeso per il tuo dire, come se la nostra Amicizia era per me una sorta di tappabuchi, un passatempo... Penso che ci apparteniamo, nel bene o nel male ci apparteniamo e questo è un dato di fatto».

 In risposta a questi e altri messaggi della donna, uno in occasione della festa di San Valentino, ci sono i messaggi di Messina Denaro, come questo del 17 marzo 2015: «Blu sei stata l’unica cosa buona che mi sia capitata nella vita. Grazie di tutto, ma soprattutto grazie per il tuo affetto».

E ancora, il successivo 3 aprile: «“Eravamo una famiglia”, lo disse Blu. Hai detto bene, hai detto giusto… Io non so quello che sarà di me, ma se avrò un ultimo attimo per pensare, in quel mio ultimo attimo il mio ultimo pensiero sarà per te».

 Copia di questi biglietti la conservava Messina Denaro, mentre Bonafede li distruggeva […]

Negli ultimi mesi di libertà di Messina Denaro, i due si vedevano a giorni e ore prefissati (solitamente il sabato alle 11) fin all’ultimo incontro del 14 gennaio 2023 (48 ore prima della cattura di lui) ripreso dalle telecamere del supermercato Coop. […]

Estratto dell'articolo di S.P. per “la Repubblica” il 14 aprile 2023.

Una donna conosce i segreti più profondi di Matteo Messina Denaro, il mafioso delle stragi. Si chiama Laura Bonafede, 55enne maestra elementare di Campobello, figlia del capomafia del paese e moglie di un ergastolano. È stata l’amante del superlatitante, adesso è in carcere con l’accusa di favoreggiamento.

 Nei suoi pizzini al latitante, ritrovati dai carabinieri del Ros, ci sono tanti misteriosi riferimenti, a persone e covi (il “tugurio”, il “limoneto”). Probabilmente, lei sa dove è nascosto il vero archivio di Matteo Messina Denaro, quello che contiene i pizzini con gli affari e i segreti.

Estratto dell'articolo di today.it il 5 aprile 2023.

Le Iene, in un servizio della puntata del 4 aprile, intervistano il testimone anonimo che ha raccontato di aver partecipato a dei festini a base di droga ed escort con personaggi importanti e di aver incontrato in una di queste serate anche Matteo Messina Denaro sotto il nome di Andrea Bonafede.

 “Stiamo parlando di cinque festini tra il 2020 e il 2021. C’era gente della Palermo bene, cene a base di pesce, champagne e droga. Era tutto di lusso, poi dopo la cena si faceva un bagno in piscina e si chiacchierava, gli uomini si riunivano e iniziavano sniffare, verso la mezzanotte arrivavano le escort. Alcune ragazze sembravano conoscere già le persone che partecipavano”.

Queste le parole con cui il testimone anonimo ribadisce la sua versione ai microfoni di Filippo Roma.

[…] testimone fa anche il nome dell’organizzatore del festino, che l’inviato de Le Iene raggiunge. L’uomo però nega tutto. “Mai stato in queste feste, ma magari!” E poi aggiunge: “In quella zona non c’è nessuna villa con piscina” e invece, le Iene hanno potuto vedere con i loro occhi la villa come descritta.

Poi il racconto di quello che sarebbe stato l’incontro con il boss allora latitante Matteo Messina Denaro.

 “Un uomo si è presentato come Andrea Bonafede”, dice l’intervistato “Vestito mocassino, una camicia di lino, indossava costosi mocassini. Aveva un orologio con un diamante, poi diceva che aveva fatto un’operazione. E’ arrivato accompagnato da un medico, non si spostava senza il medico”.

 […] Continua il testimone: “Al tavolo di Messina Denaro c’erano avvocati, giudici, imprenditori e un politico molto famoso, ma non era venuto con la moglie, ma con una bella ragazza”.

E poi la domanda di Roma: come hai fatto a sapere che era lui?

“Il suo volto, il suo atteggiamento”. E aggiunge: “Per la mia incolumità e della mia famiglia mi sento di restare anonimo. Qui tutti fanno “non vedo, non sento, non parlo”, ma bisogna che qualcuno cominci a parlare invece”.

Il testimone continua quindi a dire di aver partecipato a festini con droga ed escort frequentati da politici, imprenditori e forze dell’ordine e che in una di queste sere c’era anche Matteo Messina Denaro.

L’universo femminile attorno al boss: un vero intrigo. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 20 marzo 2023.

Non ci capisco più niente con le donne di Matteo Messina Denaro. Durante la puntata di domenica di «Non è l’Arena» (La7), Massimo Giletti ha intervistato la donna diventata amica del boss durante il comune percorso ospedaliero (della signora si vedevano solo le mani, con un anello a forma di cuore in primo piano).

La donna ha ribadito di aver sempre ignorato la vera identità del suo interlocutore, avendolo conosciuto sotto il falso nome di Andrea Bonafede. Ma si è parlato anche di Laura Bonafede, una maestra, indagata con l’accusa di aver nascosto la latitanza del boss. Poi c’è il famoso biglietto con dedica al latitante: «Lo sai, ti voglio bene e come dico sempre un bene che viene da dentro. Spero che la vita ti regali un po’ di serenità e io farò di tutto per aiutarti. SEI UN GRANDE!! Anche se tu non fossi M. D. La tua Diletta». Chi è Diletta? È Lorena Lanceri, moglie di Emanuele Bonafede, fratello del «vero» Andrea Bonafede?

Questa Lorena, alias Diletta, alias Tramite, alias Ninfa aveva inviato alcuni biglietti d’amore a Messina Denaro. «Il bello nella mia vita è stato quello di incontrarti, come se il destino decidesse di farsi perdonare facendomi un regalo in grande stile. Quel regalo sei tu», scriveva nel 2019 in un pizzino. Trovato a casa della sorella del boss Rosalia, si concludeva con «Sei un grande anche se non fossi MMD. Tua Diletta».

Che intrigo! Avessi potuto, avrei chiamato Giletti per chiedergli di fare una mappa dell’universo femminile che ruota attorno al boss, a iniziare dall’austriaca «Asi», Andrea Haslehner, che lavorava all’hotel «Paradise Beach» di Selinunte. Poi ci sono state altre donne: Francesca Alagna, la madre della figlia del boss, Lorenza. E poi Maria Mesi, la bellissima donna sempre presente con lui in Venezuela.Tanto efferato nei delitti, quanto «piacione» con le donne. Sì, ci voleva proprio una mappa.

Arrestata la maestra Laura Bonafede. «Provvedeva alle necessità quotidiane di Messina Denaro». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2023.

L’insegnante, figlia dello storico capomafia di Campobello di Mazara era già stata sospesa dal servizio. Le telecamere l’avevano immortalata mentre faceva la spesa con il boss latitante

Nell’inchiesta sui fiancheggiatori che hanno protetto la latitanza di Matteo Messina Denaro il suo nome è uscito settimane fa. Quando è diventato pubblico il frame estrapolato dalle immagini delle videocamere di sorveglianza del supermercato di Campobello di Mazara che la immortala mentre chiacchiera con il capomafia due giorni prima del suo arresto ed è venuta fuori l’appassionata lettera-diario scritta al padrino e scoperta dai carabinieri. Solo alcuni degli indizi che fanno di Laura Bonafede, maestra elementare figlia del boss di Campobello di Mazara, storico alleato della famiglia Messina Denaro, una delle figure chiave della rete di favoreggiatori dell’ex primula rossa di Cosa nostra. I carabinieri del Ros l’hanno arrestata questa mattina per favoreggiamento e procurata inosservanza di pena aggravati dal metodo mafioso.

Cresciuta nel culto del capomafia di Castelvetrano, legata a lui da un rapporto sentimentale strettissimo, ne avrebbe protetto la latitanza dal 1997, quando Matteo viveva ancora alla macchia insieme al padre, don Ciccio Messina Denaro. Per i magistrati — l’inchiesta è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, dall’aggiunto Paolo Guido e dal pm Gianluca De Leo — a vrebbe provveduto alle necessità di vita quotidiana del latitante, gli avrebbe fatto la spesa per fargli avere rifornimenti quando temeva che fosse stato contagiato dal Covid, avrebbe creato insieme a lui un codice cifrato col quale comunicare nei periodi di lontananza per proteggere l’identità di complici, fiancheggiatori e soci in affari.

La maestra, moglie del killer Salvatore Gentile, che sconta l’ergastolo per due omicidi commessi su ordine di Messina Denaro, sospesa dall’insegnamento dopo le polemiche scoppiate in seguito alla diffusione delle prime notizie sul suo rapporto col capomafia, sarebbe stata, dunque, uno dei perni intorno al quale ha ruotato l’intero periodo di clandestinità del padrino. L’ennesima dei Bonafede a finire in galera in nome dell’antica amicizia della famiglia con il ricercato. Prima di lei sono stati arrestati il cugino Andrea, il geometra che ha prestato l’identità usata dal boss per potersi sottoporre alle terapie per il cancro, l’altro cugino, anche lui di nome Andrea, il dipendente comunale che ha procurato centinaia di ricette mediche a Messina Denaro, ed Emanuele Bonafede, uno dei vivandieri del padrino arrestato insieme alla moglie. Un’intera famiglia votata all’accudimento e alla protezione del boss.

Estratto dell'articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 13 aprile 2023.

Chissà quando aveva letto “Cent’anni di solitudine”, il capolavoro di Gabriel Garcia Marquez non c’era fra i libri trovati dai carabinieri del Ros nella casa di via Cb 31. Eppure nel cifrario dei pizzini aveva preso in prestito dal libro il nome di Macondo, il paese immaginario del romanzo, per indicare la città dove si era rifugiato dopo aver saputo della malattia, Campobello di Mazara.

 “Perlana ci serviva – scriveva Laura Bonafede in un biglietto – io mi rendo conto benissimo ma tu ti rendi conto a Macondo non c’è nessuno che si può muovere? Credo sia il posto più controllato della Nazione. Una volta mi dicesti: “Ma se persone non ce ne sono più”, infatti è proprio così, quello a cui si appoggiava ha un Q.I. pari a zero, come si poteva arrivare ad una conclusione. E vedi che parlo anche per esperienza, la storia parla, purtroppo”.

Secondo chi indaga, “Perlana” era uno degli uomini più fidati di Messina Denaro, Franco Luppino, arrestato pure lui di recente. “Macondino” era invece Triscina, un altro dei luoghi dove Messina Denaro si è mosso spesso.

[…]

 Infine, da un altro libro Messina Denaro e Laura Bonafede avevano preso il soprannome della figlia della donna: Tania. A casa di Laura Bonafede c’era un libro di Bukowski con una sottolineatura: “E’ mia figlia Tania”

Estratto dell'articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 13 aprile 2023.

 Si conoscevano dal 1996, il boss Matteo Messina Denaro e la maestra Laura Bonafede. […] A un certo punto, insomma, quell'amicizia era diventata una vera e propria relazione.

Un rapporto intenso, perché nei biglietti più recenti lei aveva parola appassionate per il boss, anche se si fingeva un amico: "Vero è che mi hai fatto vivere delle meravigliose esperienze e che sei e sarai sempre, sempre, sempre nei miei pensieri. E vedi che questo mio "sempre" finirà con me". E, ancora, ricordava con nostalgia i loro incontri amorosi in un "tugurio". "Stavamo bene in quel posto; si ero felice di trascorrere quel tempo insieme, penso che lo sapevi che era così.

Nel libro c'è un tratto segnato in cui Nino buono dice che il posto dove viveva era un tugurio ma per lui era una reggia perché lì aveva vissuto momenti felici". La maestra faceva un riferimento al libro di Mario Vargas Llosa "Avventure della ragazza cattiva", che gli investigatori hanno trovato a casa di Laura Bonafede: a pagina 163, due righe era evidenziate - "Riesco appena a parlare, a pensare, da quanto sono commosso nel sentirti così vicina" - e accanto era scritto "Blu", uno dei nomi in codice di Laura Bonafede.

Erano appassionate le lettere della maestra al boss: "Penso che ci apparteniamo, nel bene o nel male ci apparteniamo e questo è un dato di fatto".

 Il 20 gennaio 2013, Laura Bonafede e sua figlia aveva regalato al boss un quadernetto: […] “Ti dico soltanto che è stato un gran peccato che il mondo non ti abbia compreso Amico Mio. […] Mi reputo fortunata a far parte della tua vita, e provo pena per chi non ha avuto o voluto questo privilegio".

Era il 2012. Il boss ricambiava: "Blu, sei stata l'unica cosa buona che mi sia capitata nella vita. Grazie di tutto, ma soprattutto grazie per il tuo affetto". Questo scriveva il 17 marzo 2015. Il 3 aprile parole ancora più accorate: ""Eravamo una famiglia". Lo disse Blu, hai detto bene, hai detto giusto, hai detto la verità. Eravamo davvero una famiglia. Blu, io non so quello che sarà di me, ma se avrò un attimo per pensare, in quel mio attimo il mio ultimo pensiero sarà per te. Grazie". 

Sospesa Laura Bonafede, l’insegnante che scriveva a Messina Denaro: «Va tutelata l’immagine della scuola». Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 20 Marzo 2023.

Il provvedimento cautelare della durata di 10 giorni adottato dalla dirigente Vania Stallone: «Vasta eco mediatica». La donna aveva un rapporto stretto con il boss, fu ripresa al supermercato di Castelvetrano due giorni prima del suo arresto

La maestra d’infanzia Laura Bonafede, 55 anni, indagata per favoreggiamento di Matteo Messina Denaro, è stata sospesa fino al 31 marzo dalla sua scuola, la “Capuana-Pardo” di Castelvetrano. Non solo. L’assessore regionale siciliano all’Istruzione, Mimmo Turano, ha annunciato che scriverà «al ministro Valditara perché possa prendere ulteriori provvedimenti necessari affinché questa persona non abbia più alcun contatto con il mondo della scuola, tenuto conto del clamore negativo e del turbamento che il provvedimento giudiziario a suo carico ha suscitato nella collettività».

Lei, gentilissima al citofono, non vuole commentare. Sulla soglia di casa, a Campobello di Mazara, dietro al cancello nero di via Roma, suo genero Alessandro Agola, 30 anni, contadino con una laurea in legge, si affaccia solo per dire che questa storia è «un incubo» e non c’è niente di vero, «solo gossip». Sua suocera non ha mai avuto alcun rapporto sentimentale con Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss stragista di Cosa Nostra e «questa cosa qua la possiamo proprio cementificare». Dice così per chiudere il discorso. Accanto a lui, la giovane moglie, Martina Gentile, la figlia della maestra, fa capolino per confermare la versione del marito. «E chi l’ha detto che sono davvero sue?», obietta il genero, quelle parole di gelosia per un’altra donna, Lorena Lanceri, la vivandiera del boss finita in carcere il 16 marzo, che gli inquirenti invece attribuiscono proprio alla signora Bonafede in una lettera indirizzata a Messina Denaro ma scritta al maschile, per depistare, da un «cugino» di fantasia: “Mi ha dato fastidio pensare che eravate soli…”

Insomma, una difesa a riccio, quello della famiglia di Laura Bonafede, malgrado ci siano pure quelle immagini della telecamera di sorveglianza del supermercato di Campobello che la ritraggono a colloquio con Messina Denaro davanti al banco della salumeria: «Chissà cosa penserà di noi l’affettaformaggi», scriverà lui al presunto «cugino» pochi giorni dopo.

La signora Laura ora è indagata per favoreggiamento ma da anni è nel mirino degli investigatori per il legame antico tra suo padre Bernardo, il capomafia di Campobello morto nel 2020 e Francesco Messina Denaro, don Ciccio di Castelvetrano, il padre di Matteo, deceduto in latitanza nel ‘98. Proprio la figlia di Laura, Martina, mamma di un bimbo di 18 mesi, viene celebrata da Matteo Messina Denaro in altri “pizzini” come esempio di devozione al nonno Leonardo e al padre, Salvatore Gentile, il marito della maestra Bonafede, killer di mafia all’ergastolo dal ‘96, un tempo nel gruppo dei fidati di Matteo e ora recluso in Sardegna.

La figura di Martina opposta nei pizzini a quella della figlia Lorenza, «degenerata nell’intimo», che invece non ha mai voluto saperne di lui e che ora non sembra neppure avere voglia di andarlo a trovare in carcere a L’Aquila. Sono passati ormai più di due mesi dall’arresto di “u siccu” e ancora lei non ha fatto istanza.

Estratto dell'articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 16 marzo 2023.

Nelle indagini sulla vivandiera di Messina Denaro, Lorena Lanceri, spunta un’altra donna, Laura Bonafede, la figlia del capomafia di Campobello. […] non è coinvolta in questa indagine e non è stata raggiunta da alcun provvedimento nell’operazione di oggi […] le parole di Laura Bonafede confermano il ruolo avuto dalla vivandiera […]

 Scriveva Laura Bonafede a Messina Denaro: “29-12 ore 21,30. Ho visto Margot alle 18.56 dal tramite, stranamente non mi sono arrabbiato, non sono andato su tutte le furie come di solito mi succede. Mi ha dato parecchio fastidio, questo non lo posso negare”. Per chi indaga “Margot” era l’auto del latitante. E non deve stupire, sostengono procura e carabinieri, che il biglietto fosse scritto al maschile: era un modo per nascondere l’identità della vera interlocutrice, che ogni tanto veniva chiamata “cugino”, oppure “amico”.

La verità è che Laura Bonafede era parecchio gelosa del rapporto di Messina Denaro con la sua vivandiera. E non lo nascondeva: “Mi ha dato fastidio non sapere cosa stessi facendo in quel momento, non sapere se eravate soli, se ti saresti fermato ancora a lungo, se … se … se … potrei di mille se … secondo me so pure perché non mi sono 'arrabbiatissimo': dopo quello che ho detto quando vidi Margot di mattina, ho pensato che non l’avrei vista più in quella zona per evitare di farmi avere delle reazioni, perché non l’avevo più vista, e questa cosa mi faceva incavolare ancora di più. Ma oggi ho pensato: almeno non si nasconde da Blu. Contorto come pensiero? No, solo che preferisco sapere e non essere preso in giro”.

Sembrano davvero le parole di un’amante ferita. Di sicuro, c’era una intensa frequentazione fra Messina Denaro e Laura Bonafede. Gli scriveva ancora un altro messaggio: “Caro Amico mio oggi ho rispettato nuovamente l’appuntamento di sabato ma niente, non ho visto nessuno e allora ho pensato che potevi essere andato a parlare allo Squallido. Insomma possono essere tanti motivi ma quello della romena e dello Squallido sono gli unici che mi balenano nella mente”. Altri nomi in codice da decifrare: Squallido, Rumena.

[…]

La vivandiera era il “Tramite” […]

 Il “Tramite” consegnava i pizzini del boss a Laura Bonafede in momenti particolari. Talvolta, però, gli incontri saltavano. Il boss e la donna si sarebbero pure incontrati al supermercato: “Ci siamo visti da vicino ed anche parlato, mi avrai trovato invecchiato e stanco (…) a me ha fatto piacere vederti e parlarti, cercavo di tenere la situazione sotto controllo, ma non ho visto niente di pericoloso, se non smettevo di parlarti, a parte le due signore madre e figlia suppongo, poi tutto nella regola.

Certo c’è da vedere cosa ha pensato l’affetta formaggi, perché a te ti conosce e sa che tipo sei, a me mi conosce di vista come cliente ma non sa nulla, certo ora che mi ha visto parlare con te sarà incuriosito di sapere chi sono”. L’affetta formaggi era la salumiera, i carabinieri hanno trovato l’immagine di Messina Denaro e Laura Bonafede. […]

Domenica 8: “Carissimo amico mio mi accingo a chiudere questa mia, è una lunga lettera con arrabbiature, tristezza e tanta nostalgia. Non vedo l’ora di leggerti. Oggi sono passato ed ho visto Margot ed ho provato quella sana invidia del perché tutti si ed io no, vuol dire che era scritto c

Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 17 marzo 2023.

La vivandiera che lo riceveva a casa per pranzo e cena gli scriveva parole accorate: «Il bello nella mia vita è stato quello di incontrarti, come se il destino decidesse di farsi perdonare, facendomi un regalo in gran stile. Quel regalo sei tu».

 La figlia del vecchio boss di Campobello, una maestra, era invece gelosa per le tante attenzioni all’amico latitante: «Mi ha dato fastidio — faceva sapere in un pizzino — non sapere cosa stessi facendo in quel momento con lei, non sapere se eravate soli, se ti saresti fermato ancora a lungo, se… se… se… ». Tutte stregate da Matteo Messina Denaro, il padrino, il killer, il mafioso delle stragi.

Il cerchio magico della primula rossa di Cosa nostra continua a popolarsi di figure femminili al suo servizio.

 Ora, vengono arrestati una casalinga di 48 anni, Lorena Lanceri, e il marito, Emanuele Bonafede, di 49: nella loro casa di Campobello il padrino passava giornate intere. Aveva anche conservato una foto, che i carabinieri hanno trovato nel suo telefonino: Messina Denaro seduto sul divano della coppia, in una mano tiene un bicchiere di cognac, nell’altra un sigaro. […]

Estratto dell'articolo di Riccardo Arena per “la Stampa” il 17 marzo 2023.

Vedere come se lo contendevano potrebbe magari suscitare un minimo di invidia, in un uomo, ma il fatto che l'oggetto del desiderio di due mature signore di Campobello di Mazara fosse lo stragista più ricercato al mondo, suscita più vergogna che altro, nell'uomo siciliano. Matteo l'irresistibile, il boss Messina Denaro come un qualsiasi tombeur de femme, la storiella dello sconosciuto che si presentava da ospite come un medico anestesista, Francesco Salsi.

Storielle che non reggono, una rete di fiancheggiatori che perde pezzi e ieri ha visto altri due arresti, Emanuele Bonafede e Lorena Ninfa Lanceri, di 49 e 48 anni, marito e moglie: a totale disposizione del boss catturato il 16 gennaio accanto alla clinica La Maddalena di Palermo, scrive il gip Alfredo Montalto nell'accogliere la richiesta di arresto dei pm guidati da Maurizio De Lucia e Paolo Guido.

Una disponibilità che sarebbe andata ben oltre certi canoni: spesso ospite dei coniugi Bonafede, Messina Denaro avrebbe avuto una relazione, nemmeno troppo nascosta, con la di lui consorte. Ma i Bonafede non sono una famiglia qualsiasi, il cognome è lo stesso dell'alias utilizzato dall'ex superlatitante (Andrea, classe 1963) e del factotum (Andrea, classe 1969), fratello di Emanuele, arrestato ieri. Tutti sono cugini di Laura Bonafede, figlia dell'anziano boss Leonardo, morto di Covid nel 2020 e molto legato a Francesco Messina Denaro, padre di Matteo e morto da latitante, nel 1998. E Laura, moglie di un ergastolano, Salvatore Gentile, è l'altra donna che, da quanto emerge dalle carte, era molto legata al boss.

[…]

(ANSA martedì 5 dicembre 2023) - Agli atti dell'inchiesta che ha portato all'arresto di Martina Gentile, una delle favoreggiatrici della latitanza di Matteo Messina Denaro, ci sono una serie di immagini scattate dalla polizia mesi prima della cattura del boss avvenuta il 16 gennaio scorso. Nei frame di un video del 17 dicembre del 2022, ora rianalizzati dai carabinieri, si vede l'auto del boss passare alle 10.59 davanti alla casa della Gentile e della madre Laura Bonafede - entrambe erano pedinate e intercettate dalla polizia impegnata nella ricerca del padrino, - e rallentare davanti al portone. 

Scene immortalate che però non insospettirono gli investigatori. L'analisi delle immagini fatta dai carabinieri e i pizzini in cui la madre della Gentile Laura Bonafede, sentimentalmente legata a Messina Denaro racconta la gioia provata nel vedere anche solo per un istante il boss passare in auto, confermano che alla guida dell'Alfa ripresa dalle videocamere c'era il padrino ricercato.

(ANSA martedì 5 dicembre 2023) -  Postina, ma non solo. Il ruolo di Martina Gentile nella latitanza di Matteo Messina Denaro, potrebbe essere molto più complesso. Lo sospettano gli inquirenti che ne hanno chiesto e ottenuto l'arresto. "Martina Gentile - scrivono i magistrati - può vantare un tale patrimonio di conoscenze sui meccanismi di controspionaggio adottati dal latitante e sulla sua rete di coperture, tanto da porla strategicamente al centro, accanto alla madre, del suo sistema di assistenza e protezione del latitante e, in tal modo, in grado di condizionarlo, inquinarlo o comunque renderlo ancora oscuro nelle molte parti ancora non svelate". Per i pm la giovane donna era un anello indispensabile delle "reti di protezione sapientemente costruite dal latitante".

"Il livello di fiducia riposto da Messina Denaro nella giovane donna, depositaria infatti di notizie riservate sulla latitanza, l'altissima considerazione sulle sue qualità, l'orgoglio per le convinzioni mafiose che la donna aveva anche pubblicamente manifestato, sono tutti indici che consentono di ritenere certa la conoscenza da parte della Gentile di ulteriori luoghi, persone, dinamiche attinenti alla sfera più intima e complice della latitanza di Messina Denaro", concludono. Le indagini su Martina Gentile potrebbero far scoprire altri canali di scambio di 'pizzini', probabilmente attivi a Palermo, città frequentata dal latitante durante le cure alla clinica La Maddalena e in cui la ragazza si recava spesso.

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per corriere.it martedì 5 dicembre 2023.

Matteo Messina Denaro l’amava come una figlia. E ricordava con rimpianto i periodi trascorsi con lei e sua madre «i due miei affetti che stimo e che hanno fatto parte di me» si legge in uno dei pizzini del padrino trovati dopo la sua cattura. E lei, Martina Gentile, 31 anni, figlia della maestra Laura Bonafede , per anni compagna di vita del capomafia allora latitante, arrestata ad aprile, ricambiava il sentimento tanto da mettersi a disposizione del mafioso più ricercato d’Italia. Per la Gentile la procura di Palermo ha chiesto l’arresto mesi fa, ma secondo il gip a carico della giovane donna non c’erano indizi sufficienti. 

Gli hanno fatto cambiare idea le nuove prove raccolte dai carabinieri del Ros che hanno scandagliato i cellulari della ragazza e della madre, analizzato l’enorme mole di documenti sequestrati al padrino di Castelvetrano e rivisto le immagini girate dalla polizia che riprendevano l’auto del boss passare, indugiando, davanti casa delle due donne già un mese prima della sua cattura, ma che evidentemente non avevano insospettito gli investigatori.

Elementi che hanno spinto il giudice a disporre l’arresto della ragazza per favoreggiamento e procurata inosservanza della pena aggravate pur con la concessione dei domiciliari perché la Gentile è madre di una bambina di tre anni. 

Le 50 pagine del provvedimento cautelare, chiesto dal procuratore di Palermo descrivono una donna profondamente legata al padrino di Castelvetrano che per anni l’ha cresciuta e l’ha amata, una donna profondamente intrisa dei disvalori mafiosi che il padrino, ma anche la sua famiglia d’origine, quella dei Bonafede storici alleati di Messina Denaro, le hanno trasmesso. Per mesi, secondo gli inquirenti, Martina Gentile avrebbe gestito lo scambio della corrispondenza del boss sfruttando il suo rapporto con un altro tramite del padrino, Lorena Lanceri, finita in manette col marito nei mesi scorsi.[…] Lanceri, che aveva rapporti strettissimi con Messina Denaro, dava alla ragazza le lettere che lui scriveva a sua madre Laura Bonafede, e Martina con solerzia le faceva avere alla destinataria.

L’indagata, in codice chiamata da Messina Denaro Tan o Tany, condivideva con il padrino e con gli altri soggetti che interloquivano con lui una sorta di linguaggio cifrato ideato per nascondere l’identità delle altre persone coinvolte nella assistenza al latitante e ne curava inoltre le esigenze logistiche. Una dedizione che, agli occhi dei pm la rende «uno degli ingranaggi indispensabili del sistema di comunicazione ingegnato dal latitante […] ». Messina Denaro appuntava in alcuni giorni un puntino o la parola Tan: gli inquirenti hanno scoperto che si trattava di una abbreviazione di Tania, lo pseudonimo usato per indicare Martina Gentile. In un caso aveva scritto anche la frase «invio Tany».

[…] Ma la ragazza non si sarebbe limitata a fare la postina. «Il livello di fiducia riposto dal Messina Denaro nella giovane donna, depositaria infatti di notizie riservate sulla latitanza, l’altissima considerazione sulle sue qualità, l’orgoglio per le “convinzioni mafiose” che la donna aveva anche pubblicamente manifestato, sono tutti indici che consentono di ritenere certa la conoscenza da parte della Gentile di ulteriori luoghi, persone, dinamiche attinenti alla sfera più intima e complice della latitanza di Messina Denaro», scrivono i magistrati che proprio seguendo le tracce della Gentile sperano di riuscire a ricomporre l’intero puzzle della latitanza dell’ultimo padrino stragista

Ricomparirà sulla scena pubblica solo il 4 aprile, quando un dispaccio della “Novosti Ria” annuncerà il suo arrivo in Russia e la rinuncia delle autorità moscovite a perseguirlo per reati minori. Il 20 giugno, però, l’Interpol segnalerà un nuovo arresto nei territori della Federazione - senza specificare il perché - motivo che indurrà la Cassazione ad annullare l’estradizione verso New York. Da allora si sono perse le sue tracce.

Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” mercoledì 6 dicembre 2023.

Suo nonno Leonardo è morto nel 2020, a 88 anni d’età, detenuto per mafia. Suo padre Salvatore è in carcere dal 1996, condannato all’ergastolo per un paio di omicidi commessi insieme o per conto di Matteo Messina Denaro. 

Sua madre Laura l’hanno arrestata ad aprile scorso, accusata di aver aiutato il boss catturato a gennaio e deceduto a settembre a restare latitante per tanto tempo. Si dice che Laura sia stata una delle amanti di Messina Denaro; di sicuro il capomafia ne ha cresciuto la figlia Martina come fosse sua, anche perché quella naturale — Lorenza — l’ha vista solo in galera e riconosciuta in punto di morte; prima aveva riversato l’affetto paterno su quella ragazza nata a febbraio 1992, mentre lui progettava di uccidere Giovanni Falcone per le strade di Roma

Difficile trovare un così denso ritratto di famiglia in un interno mafioso, che ieri s’è completato con l’arresto che ha colpito proprio lei, Martina Gentile, prelevata dai carabinieri sull’isola di Pantelleria dove insegnava come supplente in una scuola media e portata ai domiciliari anziché in carcere (come richiesto dalla Procura di Palermo) perché madre di una bambina di due anni. 

È indagata per favoreggiamento e procurata inosservanza di pena, con l’aggravante di avere aiutato Cosa Nostra: l’indagine ha accertato una serie di incontri con Messina Denaro latitante e il suo ruolo di «postina» dei messaggi del padrino smistati attraverso un’altra donna (Lorenza Lanceri alias Diletta, anch’essa annoverata tra le amanti del boss e arrestata a marzo insieme al marito).

[…]

Nelle riprese delle telecamere che la polizia aveva messo intorno alla casa dei Bonafede […] è spuntata più volte l’Alfa romeo di Messina Denaro. Il suo volto non compare, ma in almeno un’occasione si vede Martina che saluta; in altre occasioni esce o rientra dagli appuntamenti sospetti con la figlia in braccio o nella carrozzina. 

Proprio la futura educazione di quella bambina è diventata uno degli indizi a carico di Marina Gentile alias Tany, estratto da una lettera di Laura Bonafede a Messina Denaro. Scritta sempre al maschile genere attribuito anche alla nipotina chiamata «mini-cugino». «Ti conoscerà dai miei racconti e da quelli di Tany — prometteva la donna — perché sei stato e sei troppo importante per noi. Non so che tipo sarà il mini-cugino ma ad una domanda che feci a Lupetta (altro appellativo di Martina, ndr ), questa mi rispose che secondo lei è fondamentale il tipo di educazione che si impartisce, che se i mini si fanno crescere dando importanza ad un certo tipo di cose, altre idee nemmeno vengono sfiorate».

Frasi che dimostrano, commenta il giudice che l’ha fatta arrestare, come «l’odierna indagata sia totalmente impregnata della “cultura” mafiosa, e che intende trasferire i suoi malsani “ideali” persino alla figlia». 

Del resto era stato lo stesso Messina Denaro a elogiare di proprio pugno, in una lettera indirizzata alle sorelle a marzo 2022, l’educazione di Martina, «cresciuta onestamente» e rispettosa delle tradizioni familiari (e mafiose); tutt’altra cosa rispetto alla figlia naturale Lorenza «degenerata nell’infimo». Era bastato leggere sul giornale un necrologio firmato dalla ragazza per il nonno morto da capomafia, in cui aveva scritto «onorata di appartenerti», per esaltarne le qualità morali

E in un altro biglietto, destinato alla sorella Giovanna, rivendicava di aver avuto un ruolo di primo piano nella formazione di quella ragazza a cui era mancato il padre ergastolano: «Io ho cresciuto una figlia che non è mia figlia biologica […] se vedessi il suo comportamento ti sembrerei io al femminile». Parlava di Martina Gentile, che secondo gli inquirenti ha vissuto una decina d’anni insieme a sua madre e al latitante, tra il 2007 e 2017 […]

Perché è stata arrestata la figlia dell’amante di Messina Denaro: giudicate i fatti, non i sentimenti. Nulla da dire sulle esigenze cautelari che hanno portato all’arresto della figlia dell’amante di Messina Denaro. Ma che impressione quelle note moraleggianti a contorno del provvedimento restrittivo...Iuri Maria Prado su L'Unità il 6 Dicembre 2023

Fa già abbastanza strano dover discutere dell’arresto (prima del processo) della figlia dell’amante di un deceduto: una specie di catena di Sant’Antimafia. E per carità, saranno sicuramente fondate le esigenze cautelari che hanno ristretto la libertà di questa Martina Gentile, appunto la figlia di Laura Bonafede, l’una e l’altra indagate per non so più quale illecito favoreggiamento del boss Matteo Messina Denaro morto un anno fa.

Ma fa proprio impressione leggere le note di giustizia poste a contorno del provvedimento restrittivo: in buona sostanza – e al di là, si ripete, di necessità cautelari che non vogliamo mettere in dubbio – si tratta di una stupefacente ricognizione psicologico-moraleggiante sul portamento affettivo della donna, sul fatto che ella manifestasse “pieno apprezzamento per la personalità del latitante” e, culmine dell’ignominia, “addirittura un affetto quasi filiale” per un criminale tanto spietato.

Non che siano una novità certe requisitorie indugianti sul profilo eticamente riprovevole dell’indagato, ma è sempre allarmante assistere alla pretesa del potere pubblico di voler fare giustizia sulle amicizie sbagliate e sulle propensioni sentimentali di chicchessia. Di questa signora si legge che dalle sue lettere e dai suoi comportamenti “traspariva nitidamente una vera e propria venerazione per Messina Denaro”.

E ci sta che sia spiacevole, ci sta che per alcuni, per molti o anche per tutti sia una brutta cosa venerare il responsabile di crimini indiscutibilmente orrendi: ma non è un delitto, ci pare, e soprattutto non è – o almeno non dovrebbe essere – materia di sostegno dell’imputazione.

Ma si va anche oltre, nello sfruculiare la moralità dell’arrestata: sulla scorta dell’ulteriore addebito di mafiosità, per così dire, fisico-biologica (è “profondamente intrisa dei disvalori mafiosi”), se ne perlustrano le attitudini materne e si scopre che sono anch’esse corrotte, tanto che questa madre snaturata vorrebbe “trasferire i suoi malsani ideali persino alla figlia”.

Una bambina di tre anni che evidentemente meriterebbe di essere educata al catechismo delle procure della Repubblica, una buona dottrina giurisdizional-democratica che sappia insegnare a quella creatura, prima che sia troppo tardi, che è figlia di una mamma cattiva e di una nonna cattiva, l’una e l’altra da ripudiare perché volevano bene a un uomo cattivo.

Arrestarla, se è indispensabile: va bene. Processarla, se esistono le condizioni per farlo: va bene. Condannarla, se merita condanna: va bene.

Ma in nome di che cosa e con quale diritto lo Stato si fa inquirente e giudice degli affetti di una persona, e dei “valori” che essa intende trasmettere alla prole? E il prossimo passo qual è?

Mettiamo un pubblico ministero a vigilare sulle pulsioni amorose dei cittadini? Mettiamo i magistrati a controllare che le donne non si appartino coi mafiosi, vedi mai che poi si affezionano? Li sterilizziamo tutti, così non c’è caso che generino altra malacarne? Oppure un bel programma di eugenetica antimafia, così estirpiamo dalla fibra italiana quel vizio connaturato e non se ne parla più. Iuri Maria Prado 6 Dicembre 2023

Lettere dal carcere. I carteggi di Cospito e Messina Denaro e la giustizia morale della magistratura. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 6 Dicembre 2023

Esprimere il desiderio di sovvertire lo Stato, pur essendo un concetto riprovevole, non è illegale e non dovrebbe giustificare un regime carcerario come il 41bis. Così come esprimere sentimenti per un criminale potrebbe essere discutibile, ma non dovrebbe essere un motivo per comminare misure restrittive

L’altro giorno, durante una trasmissione televisiva, mi è capitato di ricordare quel che scrisse Alfredo Cospito a proposito del 41bis: il sistema di tortura legalizzata che, per evitare a mafiosi e terroristi (a volte in custodia cautelare, e perciò tecnicamente innocenti) di comunicare con l’esterno, finisce per disporre divieti che sarebbero buffi se non fossero tragicamente effettivi: dai minuti d’aria per non concedere troppa letizia al detenuto fino all’inibitoria della musica neomelodica, perché il boss potrebbe ritrarne motivi di rinvigorito orgoglio. 

Cospito scriveva, in una lettera dalla sua prigionia, di ritenere incivile il regime del 41bis, incivile non perché lui vi fosse sottoposto ma per chiunque. In collegamento c’era il noto «garantista nel processo e giustizialista nella pena» Andrea Delmastro Delle Vedove, il legittimo confidente dell’onorevole Giovanni Donzelli, il quale ha creduto di rinfacciarmi che Cospito al 41bis ci doveva restare perché nelle sue lettere scriveva cose sovversive.

Ho ripensato alla cosa l’altro giorno, sulla notizia dell’arresto della figlia dell’amica di Matteo Messina Denaro. Perché ancora una volta è da una lettera (da una «missiva», come si legge in stile carabinieresco nel provvedimento di giustizia) che si pretende di ricavare materia per giustificare una misura di limitazione della libertà personale (sia essa quella più tenue dell’arresto ai domiciliari, sia invece quella più stringente del cosiddetto carcere duro). Dice: lettere di istruzioni a qualcuno per commettere delitti? No, appunto: lettere che (nel caso di Cospito), accanto alla denuncia dell’ingiustizia del 41bis recavano considerazioni e propositi, farneticanti fin che si vuole, sulla necessità di abbattere lo Stato; e lettere che (nel caso della figlia dell’amante del boss) manifestavano trasporto e sentimenti filiali per il latitante (addirittura «venerazione», si apprende).

Due casi diversissimi, ovviamente, ma resi simili dall’occhio inquirente che in modo identico, in un caso e nell’altro, fa lo scrutinio dei vagheggiamenti altrui con la pretesa di raddrizzarne l’orientamento pervertito.

Non si capisce, evidentemente, che il compito della giustizia è un altro: non si capisce che desiderare la sovversione delle istituzioni statali sarà riprovevole ma non è illecito e non giustifica irrigidimenti del regime carcerario; non si capisce che il lasciarsi andare alla manifestazione di simpatia e sensi amorosi per un criminale sarà anche discutibile secondo il criterio altrui, ma non è un delitto e non può essere messo sul conto della persona da arrestare, che magari va arrestata ma non per quel motivo (e se non è quello il motivo per cui l’arrestano, allora non si capisce perché vi si faccia riferimento nel provvedimento di arresto).

Tutto questo per dire cosa? Solo per dire che c’è un sottosegretario alla Giustizia con scarse cognizioni e parecchia disinvoltura e una magistratura che largheggia in indagini valoriali sugli scritti di una donna che vuole bene all’amico mafioso della madre? Sì, solo per dire questo: e solo per dire che nessuno ne ha detto niente.

«Tu riesci a far diventare il nulla gli altri uomini»: lettere, pizzini e gelosia. Tutte le relazioni di Messina Denaro. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 17 Marzo 2023

Padrino di mafia e padrino di cresima. L’indagine sui nuovi presunti fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro svela il doppio ruolo del boss stragista: capo di Cosa nostra, ma anche uomo dalle molteplici relazioni affettive estese oltre la famiglia d’origine. E così, se la donna che l’ha accolto in casa (insieme al marito) fino alla vigilia della cattura, gli scriveva anni addietro «il bello della mia vita è stato quello di incontrarti», al figlio che pure incontrava regolarmente in quell’appartamento di Campobello di Mazara l’ex latitante si rivolgeva chiamandolo «figlioccio».

Lei è Lorena Lanceri, 48 anni compiuti da poco; lui è suo figlio Giuseppe Bonafede, nato nel 2003, che nel 2017 s’è cresimato e per l’occasione ha ricevuto da Matteo Messina Denaro un orologio Rolex, modello Oyster Perpetual, del valore di 6.300 euro. Regalo importante, come il Rolex che il capomafia regalò a sua figlia Lorenza nel 2014, quando compì 18 anni. 

Su quell’orologio i coniugi Bonafede hanno fornito versioni discordanti, ma i carabinieri del Ros sono risaliti alla gioielleria del centro di Palermo dove fu acquistato nel gennaio 2017, scoprendone il prezzo. E tra i documenti sequestrati nella casa di Campobello abitata negli ultimi mesi da Messina Denaro ce n’era uno con il riassunto di entrate e uscite dove si legge: «Gennaio 2017, 23.000, spesi 18.350», poi una freccia e una parentesi: «(+6.300 Orol.)».

Il pizzino con la contabilità di Matteo Messina Denaro, dov’è è annotata anche la spesa dell’orologio da 6.300 euro regalato per la cresima del figlio di Lorena Lanceri

Per gli inquirenti è la prova che a finanziare l’acquisto del regalo è stato proprio il boss che il 13 gennaio scorso inviò un messaggio vocale a Giuseppe dicendogli «Figlioccio, io sono a Palermo», e che il giovane chiamava «parrino». Avendo cura, come emerge dai messaggi scambiati con la madre, che non fosse in casa quando lui doveva rientrare con qualche amico, o ricevere una consegna: «E se viene il parrino...». Per il giudice che ha fatto arrestare i coniugi Bonafede, manca il «riscontro documentale» che l’allora latitante abbia partecipato alla cresima con q uel ruolo, ma che lo fosse «di fatto è ampiamente provato». 

Così come risulta provato che i pazienti della clinica La Maddalena di Palermo, ignari di sottoporsi alle cure insieme a un super-ricercato, sapessero di una sua «relazione sentimentale con una donna a nome Diletta»; e proprio da «Diletta» è firmata la lettera che gli investigatori attribuiscono a Lorena, datata 12 aprile 2019, piena di trasporto: «È come se il destino decidesse di farsi perdonare, facendomi un regalo in gran stile. Quel regalo sei tu. Penso che qualsiasi donna nell’averti accanto si senta speciale ma soprattutto tu riesci a far diventare il nulla gli altri uomini. Con te mi sento protetta, mi fai stare bene, mi fai sorridere... Ti voglio bene e come dico sempre un bene che viene da dentro. Spero che la vita ti regali un po’ di serenità e io farò di tutto per aiutarti. SEI UN GRANDE! anche se tu non fossi M.D. la tua Diletta».

La lettera di Lorena (Diletta) a Matteo Messina Denaro datata 12 aprile 2019

Quel particolare («anche se tu non fossi M.D.», cioè Messina Denaro), per i magistrati è la conferma che la donna era perfettamente consapevole di frequentare, ospitare e proteggere il primo ricercato d’Italia. Al pari della maestra Laura Bonafede, l’altra donna di questo intreccio sentimental-familiare, cugina di Emanuele (marito di Lorena) e Andrea Bonafede (l’uomo che ha prestato l’identità al boss), figlia del capomafia Nardo Bonafede morto da detenuto nel 2020 e moglie di Salvo Gentile, ergastolano per un paio di omicidi.

La donna è anche madre di Martina, la ragazza di cui Messina Denaro esaltava le qualità a fronte di sua figlia Lorenza «degenerata nell’intimo», con la quale il boss pure si scriveva. Come con la madre, che nei messaggi si firmava «cugino» o «amico». Sono lettere in cui Laura Bonafede — probabilmente per precauzione — parla di sé al maschile, esprimendo però sentimenti di gelosia. Ad esempio il 29 dicembre scorso, quando gli racconta di aver visto la sua Giulietta parcheggiata vicino casa di Lorena-Diletta: «Stranamente non mi sono arrabbiato, non sono andato su tutte le furie come di solito mi succede. Mi ha dato parecchio fastidio, questo non lo posso negare, non sapere cosa stessi facendo in quel momento, se eravate soli, se ti saresti fermato ancora a lungo, se … se … se …». Una settimana dopo, il 6 gennaio, stessa scena e reazione un po’ più esplicita: «Ho provato un po’ di sana gelosia, puoi capire anche perché...». Due giorni prima della cattura di lui, sabato 14, i due si sono incontrati al supermercato (ripresi dalle telecamere interne), e il boss poi le ha scritto: «C’è da vedere che cosa ha pensato l’affettaformaggi».

I pizzini d'amore al boss: "Fai scomparire gli altri uomini". Nelle carte la relazione del padrino con Lorena e la gelosia di Laura. Tiziana Paolocci il 17 Marzo 2023 su Il Giornale.

Matteo Messina Denaro non aveva solo una rete di fiancheggiatori attorno che lo proteggeva, ma anche donne innamorate che lo amavano, consapevoli di avere a che fare con il «padrino» e non con uno sconosciuto.

È quello che emerge dall'ordinanza, che ieri ha portato all'arresto di Emanuele Bonafede e della moglie Lorena Ninfa, accusati di aver favorito la latitanza del boss. Lei nei pizzini compare con il soprannome di Diletta, mentre il coniuge era «malo» e «maloverso», forse perché era inevitabilmente un ostacolo tra lui e Lorena. «Il bello nella mia vita è stato quello di incontrarti, come se il destino decidesse di farsi perdonare facendomi un regalo in grande stile - scrive lei il 14 aprile 2019 -. Quel regalo sei tu», scrive Lorena, alias Diletta, in un biglietto trovato dagli investigatori a casa della sorella del boss Rosalia. «Tu riesci a far diventare il nulla gli altri uomini. - si legge -. Con te mi sento protetta, mi fai stare bene, mi fai sorridere con le tue battute e adoro la tua ironia e la tua immensa conoscenza e intelligenza. Certo hai anche tanti difetti, la tua ostinata precisione e sei un gran rosica...ma chi ti ama, ama anche il tuo essere così. Penso che qualcuno lassù ha voluto che noi due ci incontrassimo per tutto quello di brutto che avevo passato a causa di esseri ignobili. Averti conosciuto è un privilegio e mi dispiace per chi non ha potuto. Lo sai, ti voglio bene e come dico sempre un bene che viene da dentro. Spero che la vita ti regali un po' di serenità e io farò di tutto per aiutarti».

Era lei che gli preparava pranzo e cena e insieme al marito faceva i controlli prima che Messina Denaro uscisse dalla loro casa a Campobello di Mazara, per scongiurare la presenza di polizia e carabinieri. Il legame tra il latitante e Lorena è testimoniato anche da una delle pazienti con cui Messina Denaro, alias Andrea Bonafede, faceva la chemio nella clinica Maddalena di Palermo. La donna, divenuta sua amica, sentita il 18 gennaio dai carabinieri aveva raccontato che l'uomo le aveva confidato di avere una storia con una ragazza di nome Diletta. «Ah c'è Diletta che ha il covid gliel'ho passato io, si sta curando, stiamo qua a casa assieme e lei ti saluta anzi ora te la passo per messaggio» diceva alla paziente Messina Denaro in un vocale. «Io qua con la creatura (fa riferimento al boss) - rispondeva Diletta all'altra - quello che mi sta facendo passare, non solo mi ha trasmesso il covid però alla fine per lo meno mi fa ridere perché è simpatico».

Quanto per il padrino contasse la finta Diletta emerge anche dai messaggi mandati alla sorella Rosalia in cui racconta le ore successive all'intervento chirurgico del maggio 2021: «Ero tutto bagnato dal sudore, Diletta che lavò i miei indumenti li torceva ed uscivano gocce di acqua, era senza parole». E ancora: «Diletta piange continuamente e non so come fare, mi vede spegnere giorno dopo giorno».

Ma Messina Denaro aveva anche un rapporto stretto con Laura Bonafede, figlia del boss Leonardo, che nelle lettere usava il nome «cugino» e parava di se al maschile per non essere scoperta. Ma era gelosa di Lorena. «Ho visto Margot (cioè il nome dato all'auto del boss) alle 18.56 dal Tramite (Lorena Lanceri, ndr.) - sottolineava Laura - stranamente non mi sono arrabbiato, non sono andato su tutte le furie come di solito mi succede. Mi ha dato parecchio fastidio, questo non lo posso negare. Mi ha dato fastidio non sapere cosa stessi facendo in quel momento, non sapere se eravate soli, se ti saresti fermato ancora a lungo, se ... se ... se ... potrei dire mille se. Dopo quello che ho detto quando vidi Margot di mattina, ho pensato che non l'avrei vista più in quella zona per evitare di farmi avere delle reazioni, perché non l'avevo più vista, e questa cosa mi faceva incavolare ancora di più».

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 31 gennaio 2023.

Passato e presente continuano a intrecciarsi nel grande enigma Messina Denaro. Tornano non solo i misteri, ma anche le donne. Una in particolare, Maria Mesi, l’amante che nel 1997 scriveva al superlatitante: «Vorrei stare sempre con te». E ancora: «Ho pensato molto al motivo per cui non vuoi che viva con te e credo di averlo finalmente capito...Ti amo e ti amerò per tutta la vita, tua per sempre ». Ieri mattina, i carabinieri del Ros hanno bussato a casa della donna, con un ordine di perquisizione. Hanno portato via un computer, alcune carte.

 Questa non è più solo una storia d’amore. Gli investigatori sospettano che Maria Mesi abbia continuato ad avere contatti con il padrino arrestato il 16 gennaio. E potrebbe anche averlo aiutato nell’ultimo periodo. Per questo la donna è indagata per favoreggiamento, come il fratello Francesco, anche lui ha ricevuto una visita dei carabinieri, per una perquisizione nella sua abitazione e nella torrefazione di famiglia, che si trovano ad Aspra, frazione marinara di Bagheria.

Maria Mesi non è solo l’amante che scriveva parole appassionate: «Avrei voluto conoscerti fin da piccola e crescere con te, sicuramente ne avrei combinate di tutti i colori perché da bambina ero un maschiaccio ». Maria Mesi conserva alcuni dei segreti più preziosi di Messina Denaro: nel 1997 una misteriosa soffiata consentì al boss e alla sua amante di lasciare il covo di Aspra prima dell’arrivo della polizia.

 […] Da chi Messina Denaro aveva saputo? E come era riuscito ad allontanarsi?

[…] Ora, in procura si ripercorrono quei giorni. L’amante lavorava per un’azienda che commercializza pesce, di proprietà dei Guttadauro, imparentati con i Messina Denaro. Sospetti e misteri. […]

Le donne di Messina Denaro: dall’imprenditrice con il Suv all’insegnante. Alfio Sciacca, inviato a Campobello di Mazara (Trapani) su Il Corriere della Sera l’1 Febbraio 2023.

L’inchiesta sulla rete del boss di Castelvetrano, nel Trapanese. Tre donne piene di misteri e i silenzi della nipote Lorenza Guttadauro, che «’u siccu» ha nominato come suo legale

Da qualche giorno le telecamere all’esterno del locale che gestisce alla periferia di Campobello vigilano soprattutto per tenere alla larga i giornalisti. Il citofono squilla a lungo, ma non risponde nessuno. Eppure il Suv di grossa cilindrata è parcheggiato proprio davanti al portone bianco. Dall’altra parte si nasconde una delle due misteriose donne che avrebbero avuto una relazione con il boss Matteo Messina Denaro durante la latitanza nell’appartamento di vico San Vito. Una bella donna sui 60 anni, separata e madre di una figlia, che in paese non passa certo inosservata, soprattutto per la sua eleganza e il tenore di vita. Ma non è solo gossip pruriginoso.

Le convocazioni

Mercoledì scorso è stata convocata nella caserma di Campobello dai carabinieri del nucleo investigativo di Trapani ed è stata ascoltata, proprio per dare spiegazioni sulla vera o presunta relazione con il boss. Ma lei ha smentito seccamente: «Mai avuta alcuna relazione». E quando l’ufficiale dell’Arma le ha chiesto proprio di quell’auto che a Campobello non hanno in tanti, lei ha replicato secca: «Faccio l’imprenditrice, è tutto frutto del mio lavoro di anni». Il giorno dopo è stata ascoltata un’altra donna (si parla di un’insegnante, ma gli inquirenti sono vaghi) della stessa età. In questo caso la risposta è stata diversa. «Sì, ho avuto una relazione con quell’uomo. Andava avanti da oltre due anni, ma non sapevo che fosse Messina Denaro». Nessuna delle due donne, nonostante quanto è stato detto in questi giorni, si è presentata spontaneamente in caserma, ma sono state convocate. È stato redatto un verbale delle loro dichiarazioni, anche se non sono indagate. I carabinieri invece non hanno ritenuto opportuno, almeno in questo momento, perquisire le loro abitazioni.

La perquisizione

Come invece è avvenuto lunedì in via Milwaukee, nella frazione di Aspra, a Bagheria, dove risiede Maria Mesi, storica amante di Matteo Messina Denaro. In quel caso l’indagine è stata affidata ai Ros che sospettano possa avere avuto un ruolo attivo nel coprire anche l’ultimo periodo della latitanza del boss. Mesi e il fratello Francesco nel 1997 furono già indagati, e successivamente condannati, per aver dato rifugio e copertura di comodo al boss. Il ruolo delle donne sembra essere una costante nella vita, nella latitanza e, probabilmente, anche nel futuro processuale di Matteo Messina Denaro.

La figlia

Controverso il rapporto con la figlia Lorenza. Nelle famose lettere inviate all’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, alias Svetonio, il rammarico per quella figlia che «non ho mai conosciuto» e il tormento, che fa a pugni con la ferocia del carnefice del piccolo Giuseppe Di Matteo, che si chiede: «Perché mia figlia è arrabbiata con me?». Lei si è vista la vita stravolta da un padre così ingombrante. E dopo la notizia che lo aveva rinnegato, tramite un legale, ha smentito: «Non ho mai rinnegato mio padre e non ho mai detto che non andrò a trovarlo in carcere».

La nipote-avvocata

Infine c’è Lorenza Guttadauro, la nipote 44enne scelta come avvocata. In famiglia ha già lavorato per il marito Girolamo Bellomo, che ha scontato 10 anni. E ora, come assisterà lo zio? Per il momento lo sta assecondando: il boss non si è collegato in video nei primi due processi dopo la cattura, a Caltanissetta e Palermo, e anche lei non si è presentata. Impossibile avere sue dichiarazioni. La nipote ha fatto la gavetta nello studio di uno dei migliori penalisti siciliani, Rosalba Di Gregorio, ma non è escluso che il boss voglia allargare attorno a lei il proprio collegio difensivo. In ogni caso Guttadauro, pur essendo un familiare di Messina Denaro, potrà incontrarlo in carcere, aggirando i rigidi divieti del 41 bis. «Una falla» nel regime del carcere duro, come denunciato sul Corriere dall’ex pm Massimo Russo.

(ANSA il 30 gennaio 2023) - Un testimone ha raccontato all'ex Iena Ismaele La Vardera, ora vicepresidente della commissione Antimafia siciliana, di aver partecipato, due anni fa circa, a festini hard col boss Matteo Messina denaro. Agli incontri a luci rosse, che si sarebbero svolti in una villa in provincia di Palermo, avrebbero preso parte anche un esponente delle forze dell'ordine, un medico e un politico.

 Il racconto verrà trasmesso domani, in prima serata, su Italia 1. Sulla testimonianza e sull'attendibilità dell'uomo, ascoltato dai carabinieri del Ros, gli inquirenti stanno facendo accertamenti. Nel racconto ci sarebbero diverse incongruenze. Il testimone avrebbe detto di non essere stato a conoscenza della vera identità dell'uomo dei festini, che gli sarebbe stato presentato con il nome di Andrea. Solo dopo l'arresto avrebbe capito di chi si trattava. 

Da iene.mediaset.it il 30 gennaio 2023.

“Sto andando a denunciare ai Ros dei carabinieri una storia che quando me l’hanno raccontata, onestamente, non ci potevo credere.”. Comincia così il racconto che Ismaele La Vardera, ex Iena, oggi Vicepresidente della Commissione antimafia della Regione Sicilia, decide di fare ai microfoni de Le Iene. Filippo Roma ricostruisce la testimonianza raccolta dal deputato regionale e subito denunciata agli inquirenti, di un presunto testimone che parla di alcuni festini in una villa del palermitano, a cui avrebbe partecipato Matteo Messina Denaro e in cui avrebbe visto anche un uomo appartenente alle forze dell’ordine, un medico e un noto politico italiano. Questa testimonianza è al centro del servizio de Le Iene, in onda domani sera, martedì 31 gennaio, in prima serata, su Italia 1.

“Si parla di un Matteo Messina Denaro che frequentava salotti importanti della borghesia e che partecipava come se nulla fosse a dei festini”, dice La Vardera all’inviato. “Ho denunciato la testimonianza che mi hanno reso al Ros”, il reparto che ha da poco arrestato il superboss. “Il testimone è una persona per bene, che fa una vita normale, che aveva paura di parlare - continua La Vardera - perché le cose che poteva raccontare erano molto delicate e parlavano proprio di quella zona d'ombra che avrebbe potuto proteggere il boss latitante”.

 La Iena e il politico ripercorrono insieme, riascoltandola, i passi salienti della testimonianza, in modo da chiarire, per quanto possibile, i passaggi più controversi. Il vicepresidente dell’antimafia siciliana riferisce a Filippo Roma ciò che il testimone gli ha raccontato, eliminando però numerosi dettagli che ne avrebbero potuto rivelare l’identità.

Il deputato regionale racconta di averlo incontrato, tramite una conoscenza in comune, e di avergli chiesto come mai abbia scelto di raccontare tutto a lui e non a magistrati e forze dell’ordine. “Purtroppo, ho molta paura, non mi fido di nessuno. Tu ti fideresti se allo stesso tavolo vedi persone che potrebbero rappresentare la legge insieme a Matteo Messina Denaro?” è la risposta del testimone. “Ma che vuol dire che ha visto uomini che rappresenterebbero la legge insieme al boss Messina Denaro?” domanda Filippo Roma a La Vardera.

 “Questa persona mi riferisce che ha partecipato più volte a delle feste private; quindi, non si poteva entrare facilmente. Il dove non posso dirtelo perché, inevitabilmente può fare risalire a questa persona. L'obiettivo - chiarisce il vicepresidente dell’antimafia - è restituire ai magistrati tutto quello che so, senza filtri e a voi, semplicemente, frammenti di racconto, per il semplice fatto che questa storia più persone la sappiamo meglio è, a tutela di tutti.”.

La Vardera, a maggiore tutela sua e del testimone, ritiene importante condividere subito parte di queste informazioni con l’opinione pubblica. L’inviato chiede al deputato regionale se ha fatto un riscontro su questo luogo di cui parla il presunto testimone: “Ho trovato riscontri oggettivi attraverso visure catastali” risponde La Vardera e la Iena chiede anche per quale motivo questa persona venisse invitata a queste feste: “Anche a questa domanda non posso rispondere, inevitabilmente si risalirebbe alla persona.”, risponde lui.

 (Ricostruzione della testimonianza raccolta da Ismaele La Vardera):

Testimone: “Due anni fa, dopo il periodo del Covid ho avuto la possibilità di essere presente ad una festa”.

La Vardera: “Chi è che ti chiama per invitarti a questa festa?”

Testimone: “Un amico di …  (nel servizio nome e cognome saranno nascosti, ndr.). Prima di entrare veniva fatta una specie di perquisizione e non potevi portare all’interno il telefono”.

La Vardera: “Ma ti hanno perquisito fisicamente?”.

Testimone: “Si”.

 (Intervista Le Iene a Ismaele la Vardera):

La Vardera: “Questa persona sostiene di esserci stata più di tre volte e quello che vedeva erano ostriche, champagne, gente ben vestita, notabili”, spiegando che il testimone fa capire come tra i presenti ci fossero delle persone che non si sarebbe mai aspettato di trovare per il ruolo delicato che hanno nella vita di tutti i giorni. 

 (Ricostruzione della testimonianza raccolta da Ismaele La Vardera):

Testimone: “Se sei un uomo delle Forze dell’ordine non vai ad una festa privata per fare sniffare gli amici tuoi. Tu lavori per la legge, tu hai questo ruolo importante. Questa cosa mi fa arrabbiare… ho notato che alcuni dei presenti entravano in una stanza.”.

La Vardera: “Cioè, tu vedevi che c’era cocaina sul tavolo? C’era qualcuno che sniffava?”

Testimone: “C’era cocaina. Non era farina 00; sì, quasi tutti.”

“Questi festini esattamente da chi erano frequentati e cos’altro si faceva?” domanda l’inviato a La Vardera a questo punto.

Testimone: “Quelli che erano lì mi si presentano solo per nome, e mi hanno spiegato che chiunque di quelle persone incontrate lì dentro, se io le avessi viste fuori, avrei dovuto far finta di non conoscerle.”

 La Vardera: “Che tipo di persone c’erano?”

Testimone: “Tutte persone di classe. Mangiavano, conversavano.”

La Vardera: “Cosa si mangiava?”

Testimone: “Base di pesce: ostriche, ricci di mare, c’era anche il Mont blanc, champagne e vini molto costosi. Fino alla mezzanotte c'erano le cameriere normali, poi, dopo, arrivavano le escort. Ragazze di lusso.”

La Vardera: “Si faceva sesso dopo mezzanotte?”

Testimone: “Si. È stata data l’opportunità una sera.”

 A questo punto del racconto, entrerebbe in scena, sotto falso nome, Matteo Messina Denaro.

(Ricostruzione della testimonianza raccolta da Ismaele La Vardera):

La Vardera: “E com’è che tu arrivi a capire chi è Andrea Bonafede, cioè Matteo Messina Denaro?”

Testimone: “Io sono consapevole che questa che mi è capitata è una situazione più grande di me. Finché non ho visto i giornali però non avevo collegato. Poi quando ho visto il suo viso, l’ho riconosciuto. Lui era lì.”

La Vardera: “Cioè Matteo Messina Denaro era lì?”

Testimone: “Era lì, a quella festa. Quando l’ho visto, lui era lì seduto con uno che lavora a …  (il testimone fa il nome del luogo che nel servizio sarà nascosto, ndr.), un appartenente alle forze dell’ordine ed uno che fa il medico.”

Il testimone aggiunge una serie di dettagli che porterebbero tutte all’identikit del boss latitante.

La Vardera: “Come fai a dire che è lui?”

 Testimone: “Il viso di adesso, era lui là. Quello che ho incontrato alla festa a … (indica una data che nel servizio sarà nascosta, ndr.), si vedeva che era malato e sofferente.”

La Vardera: “L’hai notato tu?”

Testimone: “Si, si”

La Vardera: “Come si è presentato?”

Testimone: “«Ciao sono Andrea» e aveva ferite post operatorie”

La Vardera: “Come l’hai capito?”

Testimone: “Me L’ha detto lui, aveva una ferita fresca…aveva lo stesso occhiale scuro. E si vedeva un occhio difettoso sotto l’occhiale.”

La Vardera: “Com’era vestito?”

 Testimone: “In camicia e pantaloni. Sembrava una persona per bene, io ho notato un orologio importante. Aveva scarpa stile Hogan, ma della Hermes”.

La Vardera: “Lui parlava con altre persone?”

Testimone: “Sì. Uno che io conosco che lavora nelle forze dell’ordine.”

La Vardera: “Come fai a sapere che faceva parte delle forze dell’ordine?”

Testimone: “Perché… (spiega dove l’ha conosciuto ma nel servizio sarà occultato, ndr.). Poi, comunque sia, abbiamo parlato e mi ha fatto capire che lì non ci siamo mai visti.”

La Vardera: “Ah quindi lui ti ha detto non ci siamo mai visti?”

Testimone: “«Noi non ci siamo mai incontrati. Tu ti fai i fatti tuoi ed io i fatti miei e viviamo tutti felici e contenti».”

 (Intervista Le Iene a Ismaele la Vardera):

Inviato: “Ti ha detto come si chiama il rappresentante delle forze dell'ordine e che grado ha?”. 

La Vardera: “Questa cosa non mi sento proprio di dirtela perché ho paura. Gli ho detto «guarda, io comunque uscendo da qua parlerò con la Procura». 

Inviato: “Ma ti ha detto, ad esempio, se era un personaggio importante nell’ambito delle forze dell’ordine?” continua l’inviato.

 La Vardera: “Mi ha detto che aveva una particolare funzione all'interno delle forze dell'ordine. È giusto che i riscontri li faccia la Procura. Onestamente mi potrò sbagliare, ma le cose che diceva mi lasciano presagire che questa persona dice cose vere, aggiunge in più il dettaglio del medico, entra nello specifico dove lavora, cosa fa, qual è il ruolo, perché ha avuto a che fare con questo medico, e me l'ha fatto vedere.”

Inviato: “Tu lo sai chi è questo medico? Ce lo puoi dire?” 

La Vardera: “No. Ritengo che non sia opportuno”.

 (Continua la ricostruzione della testimonianza raccolta da Ismaele La Vardera):

Testimone: “Se sei una persona, per esempio come quell’Andrea Bonafede, non puoi stare seduto allo stesso tavolo con qualcuno che dovrebbe fare rispettare la legge”.

La Vardera: “Quando tu dici che in quella festa c’erano persone che lavoravano in tribunale come fai a saperlo?”.

Testimone: “Perché io sentivo cosa dicevano. Cose del tipo: «allora com’è andata la settimana scorsa quell’udienza»?

La Vardera: “Cioè, parlavano di questioni giudiziarie tra di loro?”

Testimone: “Si, parlavano di cose di lavoro.”.

La Vardera specifica all’inviato che questo testimone parla di soggetti che sarebbe in grado di riconoscere qualora la Procura glielo chiedesse. Nella conversazione si fa anche riferimento a un politico, visto da questa persona in uno di questi festini.  

Testimone: “Ad uno di questi eventi c'era anche un noto politico”

La Vardera: “Chi era?”

Testimone: “Era … (il testimone fa nome e cognome ma nel servizio sarà omesso, ndr.)”

La Vardera: “Lo puoi affermare con certezza?”

Testimone: “Sì, certamente.”

La Vardera: “E quella stessa sera c’era pure Messina Denaro?”

Testimone: “No”

La Vardera: “Ma anche quando c’era il politico si faceva uso di cocaina?”

Testimone: “Tutte le sere, droghe leggere e pesanti.”

 Filippo Roma pone altre domande al Vicepresidente della Commissione antimafia siciliana.

(Intervista Le Iene a Ismaele la Vardera): 

La Vardera: “Ha aggiunto che a uno di questi incontri ha preso parte un notissimo politico. non un politico qualsiasi, un politico importante.”

Inviato: “Te l'ha fatto il nome?”

La Vardera: “Sì”

Inviato: “Ci puoi dire chi è?”

La Vardera: “No, fino a prova contraria vorrei tanto che la Procura facesse delle indagini per stabilire la presenza o meno di questi soggetti all'interno di queste feste”  

Inviato: “Maggioranza o opposizione?”

La Vardera: “Non te lo posso dire”

Inviato: “Politico nazionale o locale?”

La Vardera: “La sua caratura può essere assolutamente definita come politico nazionale.”

Inviato: “Quando ti ha fatto questo nome?”

La Vardera: “Non ci credevo”

Inviato: “Non ci credevi perché è un insospettabile?”

La Vardera: “No, non ci credevo perché già questa storia è assurda di per sé”

Inviato: “Ma è uno che la gente riconosce per strada?”

La Vardera: “Sì, tant'è che quando io vado via da lì, chiedo subito di essere ascoltato dalla Procura immediatamente, lo stesso giorno faccio la chiamata. Io voglio sapere tutta la verità. Cioè, io pretendo di sapere se ho avuto a che fare con un mitomane o con uno che sapeva. E a questo punto, se è una persona attendibile, questa persona va protetta”.  

Inviato: “E non hai paura che invece possa essere una polpetta avvelenata?”

La Vardera: “Me lo sono chiesto e ti posso dire che in tutte le cose che ho trovato su questa storia non c'è stata nemmeno una che mi ha detto no, questa non è possibile. Quando tu ti trovi davanti una persona che è veramente preoccupata, che hai come l'impressione che quasi si sta pentendo delle cose che ti sta raccontando, ma ormai non può tirarsi indietro.”

 (Continua la ricostruzione della testimonianza raccolta da Ismaele La Vardera):

La Vardera: “Come mai hai parlato con me e non con un magistrato o con dei Carabinieri?”

Testimone: “Per paura. Credimi, in questo momento sto tremando. Mi rendo conto di essere a rischio, che questa storia è troppo più grande di me e quasi quasi mi pento di averti parlato.”

(Intervista Le Iene a Ismaele la Vardera): 

La Vardera, rispondendo alla domanda di Filippo Roma che chiede se è possibile incontrare il testimone, spiega: “In questa fase mi ha detto che non se la sente, ha paura, non vuole parlare. E io l'ho fatto presente, gli ho detto che mi batterò fino alla morte con tutti, perché il suo nome non verrà mai fuori sulla stampa, però chiaramente agli inquirenti lo devo fare perché devono capire se quello che dici sia vero oppure no”.

 In attesa che la Procura faccia tutti gli accertamenti del caso, è una notizia che il Vicepresidente dell’antimafia siciliana sia andato a sporgere denuncia dai Carabinieri su tutto quello che ha sentito. Filippo Roma spiega che, nella ricerca di riscontri al racconto del deputato La Vardera, uno su tutti ha confermato la veridicità di quanto gli è accaduto, ma per proteggere l’identità del testimone non può aggiungere altro.

Esattamente una settimana fa anche il testimone è stato sentito a lungo dal Ros, che verificheranno cosa ci sia di vero in questa storia suggestiva, ma così incredibile da non poter escludere alcuno scenario. Infine, dice: “potrebbe essere una storia totalmente inventata da un mitomane, oppure una storia scritta a tavolino di sana pianta, ma sinceramente non sapremmo dirvi da chi e perché o potrebbe essere una storia vera raccontata da un testimone che ha messo a repentaglio la propria vita e che quindi va protetto”. 

Indagata l’ex amante di Messina Denaro: avrebbe di nuovo mantenuto i contatti coi familiari del boss. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 31 Gennaio 2023.

Questa mattina i carabinieri del Ros hanno perquisito l’abitazione di Maria Mesi e del fratello Francesco, due case in una palazzina di via Milwaukee a poca distanza dall’alcova di un tempo. I carabinieri del ROS hanno passato al setaccio anche la torrefazione Agorà della famiglia Mesi e una casa di campagna. I militari hanno portato via computer e telefoni in quanto sospettano che la donna e il fratello attraverso la sua famiglia mantenessero ancora contatti con il padrino

Maria Mesi già alla fine degli anni ’90, allora poco più che trentenne, sentimentalmente legata al boss Matteo Messina Denaro aveva portato gli investigatori che avevano dato la caccia al latitante erano arrivati a un passo dalla cattura del padrino. Avevano anche individuato l’appartamento di Aspra, frazione marinara di Bagheria, in cui i due amanti si vedevano. Il covo venne messo sotto controllo ma qualcuno avvertì il boss e ancora una volta sfumò l’arresto. Ora torna nell’inchiesta sulla latitanza del capomafia di Castelvetrano.

Questa mattina i carabinieri del Ros hanno perquisito l’abitazione di Maria Mesi e del fratello Francesco, due case in una palazzina di via Milwaukee a poca distanza dall’alcova di un tempo. I carabinieri del ROS hanno passato al setaccio anche la torrefazione Agorà della famiglia Mesi e una casa di campagna. I militari hanno portato via computer e telefoni in quanto sospettano che la donna e il fratello attraverso la sua famiglia mantenessero ancora contatti con il padrino .

I nomi dei due fratelli Mesi sono stati quindi di nuovo iscritti nel registro degli indagati. Come 20 anni fa circa l’accusa è ancora quella di “favoreggiamento”, reato per cui entrambi sono stati condannati in via definitiva. Maria Mesi a 3 anni perché in Cassazione cadde l’aggravante mafiosa, incompatibile, secondo i giudici, con la sua relazione amorosa con il boss. Gli investigatori della Criminalpol, a conferma di quanto già sapevano, anni dopo la condanna, trovarono nel nascondiglio tracce del capomafia: una consolle Nintendo, un foulard di Hermes. La casa venne tenuta sotto controllo per un mese, ma qualcuno avvertì il capomafia ricercato che smise di andarci. “Mery” non scontò tutta la pena, grazie alla buona condotta carceraria. Il fratello Francesco Mesi fu condannato a 4 anni e il Comune di Bagheria gli negò l’apertura della torrefazione, ma il Tar diede ragione al “fiancheggiatore” di Messina Denaro. Una formuletta giuridica passò sopra l’aiuto dato al superlatitante stragista. Aiuto che, stando alle indagini condotte vent’anni dopo dal pool oggi coordinato dal procuratore Maurizio De Lucia, dall’aggiunto Paolo Guido e dal sostituto Pierangelo Padova, sarebbe perdurato fino a oggi.

Gli investigatori scovarono le lettere d’amore che la donna inviava al fidanzato. Dalla corrispondenza trovata in casa di Filippo Guttadauro, cognato di Messina Denaro e collegamento tra il boss latitante e il suo mondo, vennero fuori i pensieri intimi di una coppia per forza di cose clandestina: “Ho voglia di darti tantissimi baci, mi manchi un mondo..”., scriveva la donna, allora poco più che ragazza, al fidanzato. “Avrei voluto conoscerti fin da piccola e crescere con te, sicuramente te ne avrei combinate di tutti i colori perche’ da bambina ero un maschiaccio”, scriveva Maria Mesi. Ed ancora: “Vorrei stare sempre con te, ho pensato molto al motivo per cui non vuoi che viva con te e credo di averlo finalmente capito. Quindi se e’ come penso io ti capisco, ma non sono d’ accordo con te. Ma siccome ti rispetto tantissimo di conseguenza rispetto le tue scelte. Ti amo e ti amero’ per tutta la vita. Tua per sempre Mari. Ps: Scrivimi presto“. 

Ma non solo. Mettendo i suoi telefoni sotto controllo gli investigatori erano riusciti a scoprire che riceveva chiamate da cellulari in uso a Messina Denaro. Ascoltata dalla polizia, dichiarò di conoscere il latitante, ma solo per “motivi professionali”. Resta da capire quale professione…

All’epoca Maria si firmava e si faceva chiamare Mari oppure Mariella. “Avrei voluto conoscerti fin da piccola e crescere con te, sicuramente te ne avrei combinate di tutti i colori perché da bambina ero un maschiaccio”, scriveva la donna che per anni ha lavorato alla Sud Pesca, impresa di conservazione del pesce, del fratello di Filippo Guttadauro, Carlo. Francesco Mesi, invece, e la terza sorella Paola, erano alle dipendenze dell’ingegner Michele Aiello, già condannato a 16 anni per mafia.

L’imprenditore Aiello sospettato di aver investito i soldi del boss Bernardo Provenzano nella sua clinica di Bagheria, venne coinvolto nell’inchiesta sulle cosiddette talpe alla Dda, una rete di insospettabili, tra cui anche esponenti delle forze dell’ordine, che dando ai boss informazioni riservate hanno consentito loro, per anni, di evitare le manette. Inchiesta culminata nello stesso processo «Talpe» che sancì la fine dell’esperienza come presidente della Regione Sicilia di Totò Cuffaro, che ebbe una condanna 7 anni per avere fatto scoprire una microspia a casa di Giuseppe Guttadauro, fratello del cognato di Matteo Messina Denaro. 

Gli investigatori proseguono dunque con le perquisizioni nelle abitazioni degli antichi favoreggiatori, nel tentativo di ricostruire la lunga latitanza del padrino. In cella sono già finiti Andrea Bonafede, il geometra di Campobello di Mazara che gli ha prestato l’identità, e l’incensurato Giovanni Luppino, che ha accompagnato il boss alla clinica “La Maddalena” nel giorno dell’arresto accusato di “associazione mafiosa“, mentre i fratelli Mesi di “favoreggiamento“. Redazione CdG 1947

Perquisita la casa di Maria Mesi, storica amante di Messina Denaro: è indagata. In un video il boss in auto due giorni prima dell’arresto. Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2023.

I carabinieri nell’abitazione della donna e del fratello, a Bagheria e nella loro azienda. I due erano già stati fiancheggiatori del padrino. La dimostrazione che si fidava dei soliti agganci

Tornano nomi del passato nell’indagine sul boss Matteo Messina Denaro. I carabinieri del Ros, coordinati dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, stanno perquisendo la casa di Bagheria di Maria Mesi, storica amante del capomafia, e del fratello Francesco. Entrambi risultano indagati con l’accusa di aver favorito la latitanza del capomafia arrestato il 16 gennaio scorso. Da quanto risulta un’ispezione è scattata anche all’interno della sede della Torrefazione Agorà, impresa gestita dagli stessi Mesi.

Quelli dei Mesi sono nomi che tornano. Maria venne arrestata a giugno del 2000. Gli inquirenti erano certi che la donna incontrasse il boss in un appartamento di Aspra, nel palermitano. Nel nascondiglio vennero trovate tracce del capomafia: una consolle Nintendo, un foulard di Hermes. La casa venne tenuta sotto controllo per un mese, ma qualcuno avvertì il capomafia ricercato che smise di andarci. La Mesi venne condannata in primo e secondo grado per favoreggiamento aggravato alla mafia. La Cassazione annullò parzialmente il verdetto, sostenendo che il rapporto sentimentale che la legava a Messina Denaro fosse incompatibile con l’agevolazione dell’associazione mafiosa.

Gli inquirenti trovarono diverse lettere che i due amanti si erano scambiati. «Ho voglia di darti tantissimi baci, mi manchi un mondo...», scriveva la donna, allora poco più che ragazza, al fidanzato. «Avrei voluto conoscerti fin da piccola e crescere con te, sicuramente te ne avrei combinate di tutti i colori perche’ da bambina ero un maschiaccio», diceva. E ancora: «Vorrei stare sempre con te, ho pensato molto al motivo per cui non vuoi che viva con te e credo di averlo finalmente capito. Quindi se e’ come penso io ti capisco, ma non sono d’ accordo con te. Ma siccome ti rispetto tantissimo di conseguenza rispetto le tue scelte. Ti amo e ti amero’ per tutta la vita. Tua per sempre Mari. Ps: Scrivimi presto». La Mesi e il fratello Francesco, che ha patteggiato la pena, lavoravano alla Sud Pesca, impresa di proprietà di Carlo Guttadauro, fratello di Filippo, cognato di Messina Denaro.

Intanto in un video appena diffuso si vede Messina Denaro percorrere in auto le vie di Campobello di Mazara due giorni prima dell’arresto. Ripreso da alcune telecamere a circuito chiuso, lo si vede a bordo della Alfa Giulietta nera, poi sequestrata dagli inquirenti. Come già capito, il boss si muoveva in paese pressoché indisturbato.

 L’amante segreta di Messina Denaro: «Ci siamo visti, non sapevo fosse lui». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2023.

Incontri fino a pochi giorni prima del blitz. In molti dagli inquirenti per paura di essere coinvolti. Nell'ultimo covo del boss 5 diversi documenti di identità, intestati ad altrettante persone

È andata dagli investigatori dopo aver visto la foto dell’uomo che ha frequentato per mesi. «Non avevo idea della sua vera identità, a me si è presentato con un nome diverso. Non potevo sapere che fosse Matteo Messina Denaro ».

Parla con gli inquirenti la donna che ha avuto una relazione con il capomafia arrestato due settimane fa a Palermo, dopo 30 anni di latitanza. E racconta una storia d’amore come tante, se non fosse per il protagonista maschile.

La testimone si è presentata spontaneamente dopo essersi resa conto — ha detto — che il suo amante era il capomafia di Castelvetrano. La coppia si sarebbe vista fino a pochi giorni prima del blitz a casa di lui, l’appartamento di vicolo San Vito, a Campobello di Mazara, in cui il boss ha trascorso l’ultimo periodo da uomo libero, il covo in cui gli inquirenti hanno trovato documenti, telefoni e pizzini.

Assicura di non aver mai nutrito sospetti, parla dell’ex amante come di un uomo gentile e attento. Chi indaga, però, non è convinto che dica tutta la verità e sta cercando riscontri ai suoi racconti. Ma la donna del padrino, che al momento non è indagata, non è l’unica a essersi rivolta agli investigatori.

La «sfilata» dei testimoni

Dal giorno in cui Messina Denaro è finito in manette in tanti si sono presentati ai carabinieri. Una sfilata di testimoni dopo 30 anni di silenzio. Il ritrovato senso civico, per alcuni di loro, dipenderebbe, però, dal timore di conseguenze giudiziarie.

Nella casa del boss, nei suoi cellulari sono stati trovati, infatti, molti numeri di telefono: contatti con persone che Messina Denaro ha frequentato nell’ultimo anno vissuto quasi da uomo qualunque. Risalire alle identità degli interlocutori del capomafia non è difficile.

Perciò in molti anticipano le mosse della giustizia e si presentano a riferire di occasionali, brevi o lunghe frequentazioni con il padrino. L’ha fatto nei giorni scorsi il traslocatore incaricato di portare i mobili del boss dal covo di via San Giovanni al suo ultimo nascondiglio, l’ha fatto il proprietario della concessionaria di Palermo in cui Messina Denaro, con i documenti del suo ultimo alias Andrea Bonafede, ha acquistato la sua Giulietta.

Lo fanno i ristoratori che l’hanno visto nei loro locali, i pazienti della clinica La Maddalena a Palermo che l’hanno incontrato durante la chemioterapia e anche diverse donne.

Una rivelazione, quest’ultima, che non ha sorpreso gli investigatori che sanno da tempo che il capomafia ha un debole per il sesso femminile. Tutti giurano, comunque, di non aver mai sospettato di aver davanti il grande ricercato.

Le false identità

Che Messina Denaro usasse false identità è, però, certo: i pm lo hanno sempre sospettato e ora ne hanno la conferma. Nell’ultimo appartamento occupato dal boss sono stati trovati cinque documenti di riconoscimento intestati ad altrettante persone, compatibili per età con il capomafia, vive e, a quanto pare, incensurate.

Le carte di identità scoperte avrebbero assicurato all’ex latitante generalità sicure per almeno 15 anni. E gli avrebbero consentito di viaggiare anche all’estero e occuparsi dei suoi affari milionari. Sui cinque documenti contraffatti indagano i magistrati della Dda di Palermo che dovranno accertare se il capomafia avesse a disposizione tessere precompilate e si sia limitato a mettere la sua foto o se abbia goduto della complicità di chi era incaricato del rilascio. E se gli alias fossero a conoscenza dell’uso che il boss faceva delle loro generalità.

Su due personaggi i pm però non hanno dubbi: Giovanni Luppino, l’insospettabile che ha accompagnato in auto Messina Denaro a fare la chemioterapia il giorno del suo arresto. E Andrea Bonafede che, tra mezze ammissioni e tante bugie, ha anche confessato di avergli prestato l’identità. Entrambi sono in carcere.

Estratto dell’articolo di Fabrizio Caccia per il "Corriere della Sera" il 29 gennaio 2023.

[…]

«Dentro la tasca dei pantaloni gli hanno trovato un foglietto con due numeri da chiamare, quando Iddu voleva la compagnia...», ti dicono al bar […] Quei numeri corrisponderebbero ai cellulari di due donne di Campobello alle quali i carabinieri sono già andati a bussare: del resto, nel covo di vicolo San Vito dove Matteo Messina Denaro ha vissuto dal 4 giugno scorso fino alla cattura, sono stati scoperti anche abiti femminili e una parrucca e gli inquirenti hanno già escluso fossero travestimenti dell’ultimo stragista.

 […]

Le due donne sono diversissime l’una dall’altra, entrambe di mezza età, entrambe lavoratrici, ma una dai capelli lunghi e neri, l’altra bionda con i capelli corti.

«Lei è pazzo, vada via» ci ha detto la prima affacciandosi dal balcone, infuriata ma con garbo, con l’auto di lusso da 70 mila euro parcheggiata sotto casa. «Non è stato un regalo di nessuno, l’ha comprata lei un anno fa sfruttando un’occasione, toglietevi dalla testa certe idee», ci ha raccontato ieri un familiare, cogliendo al volo il perfido accostamento a un possibile atto di generosità del padrino ora recluso a L’Aquila.

La donna, una piccola imprenditrice, questa settimana è stata vista uscire dalla caserma dei carabinieri di viale Risorgimento accompagnata da un’amica: «È andata a dare qualche chiarimento», ha confermato ieri il parente ben informato. Gli inquirenti, secondo quanto ricostruito, sarebbero stati già a casa sua «a scattare qualche foto agli ambienti» e lo stesso avrebbero fatto perquisendo la casa dell’altra, quella bionda coi capelli corti, commerciante.

[…]

 Ma se il presente è così avaro di dettagli, i ricordi del passato invece affiorano nitidi: «Matteo Messina Denaro era molto più grande di età, però dicevano fosse innamorato pazzo di lei — racconta un’impiegata comunale quasi coetanea della donna con i capelli neri —. Alla fine degli anni Ottanta andavamo tutti a ballare al Blues, un locale di Campobello che ormai non c’è più, il biglietto d’ingresso costava tanto, 40 mila lire. Lui entrava coi suoi cappotti lunghi, gli stivaletti, sempre elegantissimo. Poi restava in disparte con la sua comitiva, non dava confidenza a noi del popolo».

Lo vedevano arrivare su una Porsche bianca e prima di iniziare la serata si metteva fuori a prendere l’aperitivo seduto al tavolino di un bar. «Chissà, magari 30 anni dopo — conclude a bassa voce l’impiegata — lui l’ha rincontrata qui in paese e lei ha deciso di aiutarlo».

(ANSA il 26 gennaio 2023) - Nel covo del boss Matteo Messina Denaro, in vicolo San Vito, a Campobello di Mazara, è stata trovata anche una parrucca da donna. Gli investigatori escludono che sia stata utilizzata dall'ex latitante per travestimenti. L'ipotesi più probabile è che a indossarla siano state donne che nel tempo hanno frequentato il padrino di Castelvetrano.

Messina Denaro, il covo segreto e le due donne del mistero: perquisite le presunte amanti del boss. Storia di Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 29 gennaio 2023.

In questo paese senza semafori sfreccia veloce anche la diceria, la chiacchiera popolare, corrono le voci e i mezzi sorrisi di chi crede di sapere tutto e forse non sa niente. «Dentro la tasca dei pantaloni gli hanno trovato un foglietto con due numeri da chiamare, quando Iddu voleva la compagnia...», ti dicono al bar tra un arancino e una sfogliata, alludendo agli amori segreti del boss e alle pillole di Viagra che aveva in casa. Quei numeri corrisponderebbero ai cellulari di due donne di Campobello a cui i carabinieri sono già andati a bussare: del resto, nel covo di vicolo San Vito dove ha vissuto dal 4 giugno scorso fino alla cattura, sono stati scoperti anche abiti femminili e una parrucca e gli inquirenti hanno già escluso fossero travestimenti dell’ultimo stragista.

Così in attesa delle analisi su impronte e tracce di Dna rinvenute, ecco che ora il passatempo più diffuso, tra gli ulivi del Belice e i baretti di Tre Fontane, è dare un nome alle due misteriose figure che potrebbero aver varcato la porta del capomafia. Si parla molto di loro in questi giorni. Le due donne sono diversissime l’una dall’altra, entrambe cinquantenni, entrambe lavoratrici, ma una dai capelli lunghi e neri, l’altra bionda con i capelli corti. «Lei è pazzo, vada via» ci ha detto la prima affacciandosi dal balcone, infuriata ma con garbo, con l’auto di lusso da 70 mila euro parcheggiata sotto casa. «Non è stato un regalo di nessuno, l’ha comprato lei un anno fa sfruttando un’occasione, toglietevi dalla testa certe idee», ci ha raccontato ieri un familiare, cogliendo al volo il perfido accostamento a un possibile atto di generosità del padrino ora recluso a L’Aquila. La donna, una piccola imprenditrice, questa settimana è stata vista uscire dalla caserma dei carabinieri di viale Risorgimento accompagnata da un’amica: «È andata a dare qualche chiarimento», ha confermato ieri il parente ben informato. Gli inquirenti, secondo quanto ricostruito, sarebbero stati già a casa sua «a scattare qualche foto agli ambienti» e lo stesso avrebbero fatto perquisendo la casa dell’altra, quella bionda coi capelli corti, commerciante.

La donna dai capelli lunghi e neri l’hanno vista entrare in questi mesi, di solito intorno alle 11, pure i commessi del negozio adiacente a vicolo San Vito: «Che significa? — dicono loro, sbuffando —. Qui ci viene tutta Campobello a comprare creme e profumi, perché vi meravigliate?». Si meravigliano anche i carabinieri della stazione: «Noi non l’abbiamo riconosciuto? Vero, ma eravamo in 14 a vigilare su un paese di 11 mila anime che diventano 40 mila d’inverno con i raccoglitori di olive e 60 mila d’estate con i turisti. Senza considerare i tanti, tantissimi, che qui rientrano dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Germania per godersi le loro pensioni. Facce nuove tra cui bene poteva confondersi il boss sessantenne».

Lui e le sue donne. Ma se il presente è così avaro di dettagli, i ricordi del passato invece affiorano nitidi: «Matteo Messina Denaro era molto più grande di età, però dicevano fosse innamorato pazzo di lei — racconta un’impiegata comunale quasi coetanea della donna con il Suv —. Alla fine degli anni Ottanta andavamo tutti a ballare al Blues, un locale di Campobello che ormai non c’è più, il biglietto d’ingresso costava tanto, 40 mila lire. Lui entrava coi suoi cappotti lunghi, gli stivaletti, sempre elegantissimo. Poi restava in disparte con la sua comitiva, non dava confidenza a noi del popolo». Lo vedevano arrivare su una Porsche bianca e prima di iniziare la serata si metteva fuori a prendere l’aperitivo seduto al tavolino di un bar. «Chissà, magari 30 anni dopo — conclude a bassa voce l’impiegata — lui l’ha rincontrata qui in paese e lei ha deciso di aiutarlo».

COSCIA NOSTRA. Estratto dell’articolo di Luca Bottura per “La Stampa” il 24 gennaio 2023.

«Nel covo di Matteo Messina Denaro trovati anche abiti femminili. Speriamo non fossero suoi, altrimenti è la volta buona che lo scomunicano».

Estratto dell'articolo di Riccardo Lo Verso per “il Messaggero” il 24 gennaio 2023.

C'è un mistero nel mistero della latitanza di Matteo Messina Denaro. Ed è legato, ancora una volta, ad una figura femminile.

[…]

Nel covo di via Cb31, a Campobello di Mazara, sono stati trovati vari indumenti femminili ed altri effetti personali.

[…] Vi andava spesso e forse parlare di convivenza potrebbe non essere un azzardo. […]

L'IDENTITÀ DA TROVARE Chi è la donna del mistero? Sarebbe una donna del luogo, di Campobello di Mazara o di un paese vicino. A lei si potrebbe arrivare attraverso i telefonini che sono stati sequestrati al latitante al momento dell'arresto. I vestiti in casa sono la spia di un rapporto che andava oltre gli incontri occasionali. Ci sono voci, non confermate ma neppure smentite fino in fondo, di una figura femminile presente nella fase in cui Messina Denaro ha abitato in via San Giovanni. Vi ha vissuto prima di trasferirsi nel suo ultimo rifugio di via CB 31.

[…]

Una decina di anni fa, intercettando i parenti più stretti, si arrivò a ipotizzare che Messina Denaro avesse avuto un secondo figlio, oltre a Lorenza che ha preso il cognome dalla madre, Franca Alagna. […]

 I RAPPORTI SEGRETI Nella sua vita ci sono state altre donne. Come Sonia dalla quale, all'inizio della sua latitanza, prima di scomparire nel nulla, si congedò con un pizzino d'amore: «Non voglio nemmeno pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò per il semplice fatto che non so come e quando ci sono entrato. Non pensare più a me, non ne vale la pena...». Come Maria Mesi, che Messina Denaro incontrò nel 1998 in un nido di amore ad Aspra, nel Palermitano. Seguendola gli investigatori scoprirono un covo in Milwaukee.

 La loro presenza era evidente, solo quella però. Erano già andati via. Come l'austriaca Andrea Haslener, sua fidanzata all'inizio degli anni Novanta. Faceva la receptionist all'hotel Paradise Beach di Castelvetrano. Piaceva anche al direttore della struttura, Nicola Consales, che pagò con la vita il suo inconsapevole sgarbo al latitante. Uno dei due uomini era di troppo.

[…]

Messina Denaro, una delle amanti era piemontese di Santena (e gli ha dato una figlia). Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2023.

Francesca Alagna, originaria del comune della cintura torinese, diede alla luce Lorenza, che il boss però non avrebbe mai conosciuto. La ragazza oggi va all'università ed è madre di un bambino

Francesca Alagna, una delle amanti di Matteo Messina Denaro, ha radici settentrionali. Come riporta Torino Cronaca, Francesca detta Franca sarebbe originaria di Santena, in provincia di Torino: vero che le donne accreditate al boss sono tante, però Francesca all'ex primula rossa ha dato una figlia, Lorenza. Bimba che «U siccu» non avrebbe mai incontrato, come confidò a un amico. Anche se poi Francesca e Lorenza sono state accolte sin dal primo momento a casa della madre del boss a Castelvetrano. Se ne sarebbero andate solo nel 2013. 

Di Alagna nessuno ha memoria nel piccolo comune della cintura torinese. Al municipio hanno spiegato che Francesca avrebbe vissuto a Santena da bambina per poi trasferirsi nel Trapanese, ossia il territorio da cui partirà la carriera omicida di Messina Denaro. 

Lorenza ha frequentato il liceo scientifico e adesso studia all'università. Due anni fa è diventata mamma. Raggiunta dai media dopo l'arresto del boss ha preferito il no comment («No, guardi, non voglio sapere niente. Se ne può andare da dove è venuto», ha replicato a un cronista del Fatto quotidiano).

A conferma dello stretto riserbo già manifestato alcuni anni fa al Tg2, quando disse: «Non voglio rilasciare interviste, non voglio stare sotto i riflettori. Basta, io sono una ragazza normalissima come tutte le altre e voglio essere lasciata in pace, anzi dovete fare finta che io non esisto».

La lontananza da Lorenza non è stata indolore per Messina Denaro. Che in una delle lettere a lui attribuite si legge: ««Io non conosco mia figlia, non l’ho mai vista, il destino ha voluto così, spero che la vita si prenda tutto da me per darlo a lei. Se io le dovessi dire cosa si prova nel non conoscere i propri figli non saprei cosa dirle, posso però affermarle, con assoluta certezza, che essere genitore padre o madre che sia, e non conoscere i propri figli è contro natura».

Messina Denaro, sesso spinto: non solo viagra, cos'hanno trovato nel covo. Libero Quotidiano il 17 gennaio 2023

Non c'erano solo vestiti eleganti e orologi di lusso, profumi e scarpe modello sneackers (di marca), anche costose, diversi modelli di occhiali ray-ban, una tv di ultima generazione, un frigorifero ben rifornito e diverse ricevute di ristoranti nel covo-appartamento di via CB31, a Campobello di Mazara, l’ultimo utilizzato dal boss Matteo Messina Denaro, arrestato ieri 16 gennaio dai carabinieri a Palermo. C'erano anche preservativi e Viagra.

Insomma, Messina Palermo, nella sua trentennale latitanza, "non faceva certo una vita monastica, in stile Provenzano così per fare un esempio", conferma il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Guido. Anzi. Il boss avrebbe anche avuto diverse "frequentazioni amorose" con alcune donne. Non solo. Messina Denaro girava "indisturbato" per locali e ristoranti che amava molto frequentare. E nessuno, nemmeno i vicini di casa, sembrava conoscerlo.

L'appartamento di Campobello - secondo i primi accertamenti - risulterebbe di proprietà di Andrea Bonafede. Nell’appartamento "dove viveva da almeno sei mesi" - tra le altre cose - sarebbero state rinvenute "pillole" da utilizzare in occasioni "amorose", non si sa bene con chi.

Le indagini intanto proseguono per verificare e individuare la rete dei favoreggiatori: dal medico Alfonso Tumbarello, 70enne medico di Campobello di Mazara, che ha effettuato le prescrizioni mediche per le cure anticancro; ad Andrea Bonafede, iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di favoreggiamento aggravato.  

Messina Denaro, il teste: "Chi lo ha invitato al festino hard", nomi pesantissimi. Libero Quotidiano il 17 gennaio 2023

Dopo l'arresto, piovono testimonianze e racconti su Matteo Messina Denaro. E uno di questi è di un teste che, nel corso di una deposizione per omicidio, parlò delle notti di fuoco del super-boss. A parlare è Errante Parrino, che racconta come l'alta borghesia di Palermo volle introdurre Messina Denaro in alcuni festini a luci rosse. "Avevmo conosciuto delle signore di Palermo dell'alta borghesia che non lesinavano a fare feste invitando anche ragazzotti e studentelli. Ci mancava una persona per compensare con le donne presenti, e Lillo invitò Matteo. Ricordo che lo portammo alla festa e si divertì come un pazzo", racconta il teste. Lillo, stando al suo racconto, sarebbe Lillo Santangelo.

E ancora, aggiunge il testimone secondo quanto scritto da La Stampa: "Questo genere di inviti proseguì anche altre volte. C'era un nostro collega iscritto a medicina che conosceva molte signore che allora si definivano tardone piacenti. Organizzò una festa e di queste donne ne erano presenti sei o sette, ma ci voleva un numero superiore di picciutteddi perché un ragazzino per ogni donna non ce la faceva. Cercammo aiuto, e ognuno di noi si diede da fare per rintracciare qualcuno che ci potesse dare una mano a superare la nottata che si presumeva abbastanza lunga e intensa. Chiamammo Matteo, perché prendeva la macchina e veniva di corsa da Castelvetrano. E così fece", racconta. 

E ancora, Messina Denaro sarebbe stato coinvolto in festini hard organizzati sempre a Palermo dall'alta borghesia, festini con studenti universitari. Il retroscena, per inciso, emerse quasi 20 anni fa nel corso del dibattimento davanti ai giudici della Corte d'Assise di Palermo per l'omicidio di Calogero Santangelo, un giovane di 25 anni iscritto a Medicina e originario di Castelvetrano.

La casa a Campobello di Mazara. Abiti di lusso, viagra e preservativi nel covo di Matteo Messina Denaro: “Caccia a incontri e conoscenze femminili”. Vito Califano su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Presso il covo di Matteo Messina Denaro sono stati ritrovati indumenti e accessori di lusso. E viagra, preservativi, scarpe e abbigliamento di grandi griffe. Zero armi. Si nascondeva ma neanche troppo, viveva – a quanto pare in quell’abitazione da non molto tempo – a Campobello di Mazara, il boss mafioso, latitante dal 1993, “Primula Rossa” di Cosa Nostra arrestato ieri a Palermo presso la clinica La Maddalena, nel quartiere San Lorenzo. A circa otto chilometri dal suo paese d’origine, Castelvetrano, in provincia di Trapani. Sarebbe stato questo l’ultimo nascondiglio del capomafia.

La casa si trova in pieno centro abitato, in un palazzetto a due piani circondato da altri palazzi. L’abitazione a pian terreno era ordinata e pulita, intestata ad Andrea Bonafede, l’uomo che aveva prestato l’identità a Matteo Messina Denaro, la stessa con cui si stava curando presso il centro specializzato a Palermo, tumore al colon. Risulta a nome Andrea Bonafede anche l’acquisto di quell’appartamento lo scorso giugno. Bonafede ha cominciato a rispondere alle domande degli inquirenti della procura di Palermo. Secondo il comandante provinciale dei carabinieri di Trapani, Marco Bottino, il boss ci viveva da circa sei mesi. Il latitante usciva ed entrava, salutava i vicini ignari della sua identità, andava a fare la spesa. La perquisizione è andata avanti per tutta la notte.

Si sapeva amasse il lusso: sono state trovate – riporta Lapresse – all’interno dell’abitazione decine di scarpe Prada e Vuitton. Profumi costosi e occhiali sempre di marca. Aveva dovuto rinunciare ad automobili di lusso, altra sua grande passione, quelle no: presumibilmente per non dare nell’occhio. D’altronde al momento della cattura indossava un orologio Franck Muller da valore di circa 35mila euro e un giubbotto imbottito marca Brunello Cucinelli. I magistrati stanno cercando di capire anche se abbia convissuto o abbia avuto compagnie femminili. All’interno dell’appartamento sono state ritrovati infatti anche preservativi e pillole per potenziare i rapporti sessuali, viagra.

A Tv2000 una donna ha raccontato di aver condiviso con Messina Denaro le sedute di chemioterapia. “Faceva la chemio con me ogni lunedì. Stavamo anche nella stessa stanza, era una persona gentile, molto gentile”. Alcune amiche avevano persino il suo numero di telefono, scambiava messaggi con alcune. “Ha scambiato messaggi con una mia amica fino a questa mattina. Lei è ora sotto shock a casa”. Andrea Bonafede lo conoscevano in parecchi insomma nella clinica.

Secondo Il Corriere della Sera non sarebbero stati ritrovati documenti: aspetto che sta convincendo gli inquirenti del fatto che per nasconderli usasse un altro luogo. Ma secondo Palermo Today sarebbe stata ritrovata un’agenda con nomi e numeri di telefono. Per Lapresse due telefoni cellulari e un’agenda bordeaux su cui annotava impegni e appuntamenti gli sarebbero stati trovati addosso al momento della cattura. Particolari tutti da chiarire. A individuare il covo i Carabinieri del Ros e la Procura di Palermo. Messina Denaro ieri sera è sbarcato all’aeroporto di Pescara con un volo militare. “Sono stato trattato bene”, avrebbe detto ai militari. Sarà detenuto all’Aquila, nella struttura di massima sicurezza interamente dedicata a particolari regimi di detenzione in località Costarelle di Preturo, dotata anche di un buon centro oncologico. La Dda di Palermo ha chiesto in via formale l’applicazione del 41 bis, il carcere duro. A firmare ora dovrà essere il ministro Carlo Nordio.

Come tutti i grandi latitanti di Cosa Nostra Messina Denaro è stato arrestato in Sicilia, nel suo territorio. “C’è stata certamente una fetta di borghesia che negli anni ha aiutato Messina Denaro e le nostre indagini ora stanno puntando su questo”, ha detto in conferenza stampa il capo della procura di Palermo Maurizio De Lucia. Dalle intercettazioni telefoniche gli investigatori avevano ipotizzato che il superlatitante fosse gravemente malato. Le indagini sono andate avanti scremando persona dopo persona fino a stringere il cerchio intorno a una rete di contatti più stretta. Messina Denaro è stato bloccato in una stradina laterale alla struttura dove si curava. Dopo essersi registrato all’accettazione era uscito per prendere un caffè al bar.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Estratto dell'articolo di Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 18 gennaio 2023.

Sono almeno sei le donne della sua vita da latitante, ma una Matteo Messina Denaro non l’ha mai vista: sua figlia. Così dicono. Frutto di un amore rapido e furtivo con una compaesana di Castelvetrano, Franca Alagna, la donna che partorì quando il boss era ormai braccato, cosciente di non doversi più avvicinare né alla compagna né alla piccola perché tenute sotto continua osservazione dalle forze di polizia già al momento della nascita. Siamo nel 1995 […]

 Una vita segnata anche da qualche tenerezza e qualche obbligata scelta. Mollando non solo la madre di sua figlia ma anche qualche fidanzata. Sempre per precauzione, guardingo, come si intuisce in una lettera che risale al primo periodo di latitanza, un «pizzino» d’amore che chiude il rapporto con la fiamma di allora, Sonia: «Non voglio nemmeno pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò per il semplice fatto che non so come e quando ci sono entrato. Non pensare più a me, non ne vale la pena...».

Si chiude una storia, ma se ne apre un’altra con Maria Mesi, una sventurata finita nei guai, arrestata per favoreggiamento. Anche perché nel 1995 fece consegnare a Messina Denaro una lettera temendo un’operazione sgancio: «Ti prego non dirmi di no, desidero tanto farti un regalo. Sai ho letto sulla rivista dei videogiochi che è uscita la cassetta di Donkey Kong 3 e non vedo l’ora che sia in commercio per comprartela. Quella di Secret Maya 2 ancora non è arrivata. Sei la cosa più bella che ci sia». Si rividero e fu pedinando lei che la polizia sfiorò la cattura del boss. Era il 1998 […]

Talvolta le storie si accavallano e quando Matteo il viveur molla un’avventura è perché ne incrocia un’altra. Come accadde con l’austriaca Andrea Haslener, che lui chiamava Asi. Fidanzati per quattro anni, dal 1989 al 1993. Lei, bionda receptionist all’hotel Paradise Beach di Castelvetrano. Lui, arrogante frequentatore dell’albergo. Generoso con i suoi «picciotti», tutti invitati a caccia di aperitivi e turiste. Senza pagare. Sgradito al direttore della struttura, Nicola Consales, una persona perbene, anche lui innamorato della bella straniera e per questo ucciso in un agguato nel 1991.

 Scattò nel 1995 l’infatuazione per Franca Alagna, rimasta incinta di Lorenza […]

Franco Nicastro per l’Ansa il 16 gennaio 2023.

All'inizio fu Andrea, una giovane austriaca che gli aveva fatto perdere la testa. Poi è arrivata Francesca, che a Matteo Messina Denaro ha dato anche una figlia. E tra una storia e l'altra nella vita del padrino ha fatto irruzione Maria che s'è presa anche una condanna per favoreggiamento per averlo ospitato e accompagnato durante la latitanza.

 La presenza di tante donne traccia già il profilo di un boss "moderno" che, almeno nella vita privata, ha segnato una forte discontinuità con il sistema di valori familiari e sentimentali della mafia tradizionale. Tra tutte le donne che gli sono state attribuite, Maria Mesi è quella che forse ha contato di più nella vita di Messina Denaro.

Certamente quella che non gli ha fatto mancare appassionate attestazioni di amore insieme con le tenere attenzioni di una compagna premurosa. "Sei la cosa più bella che ci sia" è il messaggio che aveva affidato a uno dei "pizzini", intercettati dagli investigatori. Maria pensava anche alle innocenti passatempi di Matteo con i videogiochi Nintendo, ancora di prima generazione. Attenzioni che si intrecciavano con le confidenze di due innamorati.

 Dalla corrispondenza saltata fuori in casa di Filippo Guttadauro, cognato e collegamento tra il boss latitante e il suo mondo, sono riaffiorati i pensieri intimi di una coppia per forza di cose clandestina. Maria si firmava e si faceva chiamare Mari oppure Mariella. "Avrei voluto conoscerti fin da piccola e crescere con te, sicuramente te ne avrei combinate di tutti i colori perché da bambina ero un maschiaccio", gli scriveva.

Diventata grande, non ha pensato più alle marachelle. Ha diviso con Diabolik i disagi di un menage con poca intimità ma anche i rari momenti di evasione e le vacanze. Come quella di agosto 1995 in un residence messo a disposizione dal boss Vito Mazzara (il mandante dell'uccisione di Mauro Rostagno) a San Vito Lo Capo, tra la spiaggia sabbiosa, il mare e le escursioni nella suggestiva riserva naturale dello Zingaro.

 In questo ambiente, che era quello del suo regno criminale, Matteo Messina Denaro poteva muoversi con temeraria sicurezza perché era circondato da amici e fiancheggiatori fidati. Una sola accortezza a Vincenzo Sinacori, divenuto poi pentito, rimase nella memoria. Il padrino usava chiamare la sua donna con un altro nome, Tecla.

Più rischiosa perché affrontata senza alcuna rete protettiva la vacanza in Grecia dell'anno prima, che il boss aveva organizzato sotto il falso nome di Matteo Cracolici e sempre con la compagna. Prima che Mariella lo conquistasse, la fama di uomo fatale di Diabolik aveva fatto colpo su Andrea Hasleher, giovane e bella austriaca che lavorava in un albergo di Selinunte. Matteo Messina Denaro, non ancora Diabolik ma già in carriera, frequentava l'albergo e la donna che a un certo punto si trasferì in una villa di Triscina affittata dal boss.

 Il cambio improvviso aveva una spiegazione: di lei si era invaghito il direttore dell'albergo, Nicola Consales, che nel 1991 sarà ucciso a Palermo con due scariche a bruciapelo dopo avere confidato ai suoi collaboratori che presto avrebbe messo alla porta "questi quattro mafiosetti" degli amici di Matteo.

 Le cronache di quel tragico amore raccontano che, dopo il delitto, Messina Denaro andò a trovare la sua amica in Austria. E non aggiungono altro perché intanto era nata un'altra storia con Francesca Alagna, sorella del commercialista di fiducia dell'ex patron della Valtur, Carmelo Patti, sospettato di essere un prestanome del padrino.

Dalla relazione con Francesca Alagna nel 1996 Messina Denaro ha avuto una figlia Lorenza. Mai conosciuta, ha confidato a un amico, anche se la donna e la ragazza sono state accolte sin dal primo momento a casa della madre del boss a Castelvetrano. Se ne sono andate solo nel 2013. Non è stato mai chiarito se sia stato un atto di ribellione della ragazza o, come appare più probabile, una scelta causata dal fatto che madre e figlia non riuscivano più a vivere in una casa assediata da polizia e carabinieri. Nel 2021 Lorenza ha avuto un bimbo che non si chiama Matteo come il nonno.

I Fiancheggiatori veri o mediatici.

Le Istituzioni.

La ‘Ndrangheta.

L’Ambiente.

Giovanni Risalvato.

Il Senatore D’Alì.

La Massoneria.

La Sanità.

Le Istituzioni.

Escluso l’adempimento del dovere e il valore morale. Messina Denaro, confermata la condanna del colonnello dei Carabinieri. Fuga di notizie segrete in ambiente mafioso. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista il 26 Maggio 2023 

Confermata la condanna a quattro anni in Cassazione per il tenente colonnello dei Carabinieri Alfio Marco Zappalà. La vicenda riguarda la fuga di notizie durante la latitanza di Matteo Messina Denaro. Secondo l’accusa, l’ufficiale al tempo in forze alla Dia, avrebbe ricevuto due screenshot delle conversazioni tra due soggetti sottoposti a indagine nei quali si commentavano alcuni aspetti del funerale di Lorenzo Cimarosa, collaboratore di giustizia morto nel 2017 e parente di Messina Denaro. Ad inviare le foto a Zappalà sarebbe stato l’addetto alla trascrizione delle intercettazioni presso la compagnia di Castelvetrano, l’appuntato Barcellona.

Zappalà avrebbe a sua volta girato gli screenshot all’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino che sarebbe stato libero a sua volta di farne uso a suo piacimento. Per i giudici la rivelazione del “contenuto di una intercettazione riservata e relativa ad un procedimento penale in fase di indagine” è stata fatta a un personaggio “già condannato per mafia e in contatto con Matteo Messina Denaro all’epoca già latitante“.

La sentenza sottolinea la “profonda gravità della condotta tenuta dall’imputato, che ha più volte violato norme penali non disdegnando di diffondere notizie di estrema delicatezza in un contesto criminale di spessore”. Anche se lo scopo era la cattura del super latitante, il fine non giustifica i mezzi. Giulio Pinco Caracciolo

Estratto dell’articolo di Vincenzo Iurillo per “il Fatto quotidiano” il 22 maggio 2023.

La storia della cattura di Matteo Messina Denaro è ancora tutta da scrivere. E c’è da scrivere anche quella della foto, o delle foto, di Silvio Berlusconi con il generale Francesco Delfino e il mafioso stragista Giuseppe Graviano, scattata durante la latitanza di Graviano e durante l’estate delle bombe in Sicilia. 

Stasera a Report su Rai3 si ascolterà un funzionario di polizia giudiziaria che saprebbe molte cose sui rapporti tra la massoneria e la mafia. Sostiene che Giuseppe Tumbarello, il medico massone che ha curato Messina Denaro forse sapendo che la sua identità era quella coperta dal geometra Andrea Bonafede, era una fonte dei servizi segreti. 

E ipotizza un ruolo dei servizi intorno a un giallo: chi avvertì Mmd che “la ferrovia non è più praticabile”, come scrive in una lettera del maggio 2022 alla sorella Rosalia, ovvero che la polizia sta intercettando la sua posta? 

E come mai la polizia, che ha piazzato per prima le cimici nella casa della sorella, pur fotografando molte carte in quella abitazione non arriverà per prima al pizzino sulle condizioni di salute di Mmd? Verrà ritrovato solo dai carabinieri del Ros, nel dicembre 2022, e da lì, e dal successivo screening sui malati oncologici, si arriverà a Bonafede-Messina Denaro nella clinica di Palermo. Senza il pizzino, bisognerebbe pensare a una consegna spontanea. Ma il pizzino che prima non c’è e poi sì suggerisce un possibile intervento dei Servizi. […]

La pupiata. Report Rai PUNTATA DEL 22/05/2023 di Paolo Mondani

Collaborazione di Marco Bova e Roberto Persia

Siamo alla ricerca della verità sui fatti di mafia e sulle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese.
Sono passati oltre trent’anni e ancora siamo alla ricerca della verità sui fatti di mafia e sulle stragi che hanno insanguinato il nostro Paese. Racconteremo i particolari fino a oggi rimasti segreti delle fasi propedeutiche che hanno portato all'arresto di Matteo Messina Denaro, e quelli che riguardano la sua latitanza. Trent’anni sono passati dalla strage di Firenze in via dei Georgofili. La mafia in quegli anni metteva bombe qua e là per il Paese, ma secondo una nota del Sisde non era sola nella pianificazione della strategia stragista. Grazie al recentissimo lavoro della Commissione parlamentare antimafia aggiungiamo pezzi di verità sui mandanti e sugli esecutori.

LA PUPIATA. Paolo Mondani Collaborazione di Marco Bova, Roberto Persia Filmaker: Dario D'India, Cristiano Forti, Alessandro Spinnato Montaggio: Elisa Carlotta Salvati, Giorgio Vallati

VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Ragazze buongiorno. Sono in autostrada. Niente di nuovo. Io in genere sfuggo dal farmi conoscere, anche da mia mamma, e quando le persone mi studiano minchia mi infastidisco come una belva.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La cattura di Matteo Messina Denaro è diventata una soap opera. Pettegolezzi spacciati come segreti, le sue cartelle cliniche, i suoi selfie, le sue chat, i suoi amori veri o presunti, le amanti gelose che si mortificano e lo esaltano, il suo omertoso paese a fare da scenario, come se avesse gestito affari per cinque miliardi di euro tutti da Campobello di Mazara.

VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Non ho vissuto nel salottino seduto con le ciabatte. Io sono stato un tipo che il mondo lo ha calpestato. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Come se bastassero il medico Tumbarello, l'alter ego Bonafede e l'autista Luppino, a raccontare i suoi fiancheggiatori. Mancano pezzi decisivi della dinamica dell’arresto. E soprattutto continuiamo a non sapere nulla delle protezioni di cui ha goduto per trent'anni. È un vero boss questo Messina Denaro o solo un simbolo utile a dichiarare la mafia sconfitta?

VOCALI WHATSAPP DI MATTEO MESSINA DENARO Lo sai questo fatto di scrivere un libro me lo hanno detto tante volte. È che veramente tutta la vita è un’avventura. Se ti raccontassi cose…veramente cose assurde.

ANTONINO DI MATTEO – MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Io ritengo che nessun mafioso per quanto potente può restare latitante per 30 anni senza poter godere di protezione, ovviamente, anche molto alte. Ed è cresciuto in quella provincia di Trapani, che da sempre più delle altre provincie siciliane è stato il crocevia degli intrecci tra Cosa Nostra, la massoneria e ambienti particolari e deviati dei servizi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quella di Trapani non è una provincia qualsiasi. Già nel 1986, nel centro storico, all'interno di un circolo culturale, Scontrino, la polizia scopre sei logge massoniche, tra le quali Iside uno e Iside due, quelle che presumibilmente sono state inaugurate dal Gran maestro della loggia P2 Licio Gelli, ecco dentro quelle liste ci sono i nomi di politici e imprenditori, uomini delle forze dell'ordine e prefetti. Tutti dialogavano con i grembiulini mafiosi. E poi, nel 1987 viene scoperta la base Scorpione, quella riferibile a Gladio, a due passi da San Vito Lo Capo. Insomma, Trapani è la seconda provincia d'Italia per numero di logge massoniche. Nel 2016 il magistrato Marcello Viola, che oggi è capo della Procura di Milano, ha depositato una lista di 460 massoni che erano suddivisi in 19 logge, sei solo a Castelvetrano. Una lista che è stata anche ampliata dalla commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che, con l'aiuto di alcuni grandi maestri dell'obbedienza, ha poi potuto sottolineare il proliferare di massoni nella provincia, nella città di Matteo Messina Denaro, Castelvetrano. E infine, dopo l'arresto di Matteo Messina Denaro 16 gennaio scorso, emerge che uno dei più grandi fiancheggiatori del super latitante era il medico Alfonso Tumbarello, i cui contatti con Matteo Messina Denaro erano noti ai servizi segreti italiani già negli anni 2000. E si scoprirà solo però dopo l'arresto che il medico era iscritto alla loggia massonica Valle di Cusa di Campobello di Mazara, affiliata al Grande Oriente d'Italia. Ora il magistrato Maria Teresa Principato, che per anni ha dato la caccia a Matteo Messina Denaro, nel corso di un interrogatorio a Giuseppe Tuzzolino, architetto, scopre che Matteo Messina Denaro aveva messo in piedi una loggia massonica tutta sua, La Sicilia. E la rete della massoneria è stata fondamentale nella copertura della sua latitanza. Il nostro Paolo Mondani, con la collaborazione di Roberto Persia

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2017, l’architetto Giuseppe Tuzzolino, dopo anni di collaborazione con la giustizia, viene arrestato e condannato per calunnia. Aveva raccontato la balla di un pericolo imminente corso dai due magistrati che lo interrogavano. Ma alcune sue rivelazioni erano state riscontrate. Tuzzolino aveva dichiarato di essere iscritto a una loggia massonica coperta di Castelvetrano, denominata La Sicilia, in cui sedeva Matteo Messina Denaro e l'esponente di Forza Italia trapanese ed ex senatore Antonio D'Alì, la cui famiglia dava lavoro al padre di Matteo, don Ciccio Messina Denaro. D'Alì, già sottosegretario agli Interni del secondo governo Berlusconi ha sempre smentito l'appartenenza alla loggia. Oggi è in carcere, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. PAOLO MONDANI Il senatore D’Alì era dentro la loggia?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA D’Alì era al di sopra di ogni tipo di riunione. Quindi tutto quello che avveniva forse in loggia era perché D’Alì lo aveva in parte deciso o chi per lui.

PAOLO MONDANI Una sorta di Gran Maestro emerito.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Una sorta di Gran M…, bravissimo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Tuzzolino a verbale aveva fatto i nomi degli aderenti alla loggia La Sicilia, peccato che le indagini su questi iscritti eccellenti si siano inspiegabilmente fermate.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA In quegli anni il puparo della massoneria era Gasperino Valenti, quindi era lui che gestiva i due mondi massonici del Grande Oriente d’Italia e della Gran Loggia Regolare d’Italia. Mi propone di far parte di questa super loggia, La Sicilia, una loggia itinerante, quindi senza un tempio fisso e senza delle riunioni specifiche predefinite. Quindi avvenivano comunicazioni una sera prima e il pomeriggio ti dicevano, tu ti recavi a Castelvetrano, e il pomeriggio ti dicevano: stasera ci vediamo là. Poi magari poteva pure cambiare il luogo. Questa segretezza di questa super loggia era dovuta al fatto che vi appartenevano personaggi politici di un certo spessore come onorevoli e vi appartenevano imprenditori, quindi che non volevano figurare.

PAOLO MONDANI Tutti della zona del trapanese?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Tutti gli imprenditori erano assolutamente e solo della zona della provincia di Trapani.

PAOLO MONDANI Lei però raccontò agli inquirenti che questa loggia in qualche modo tutelava la latitanza di Matteo Messina Denaro.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Le posso dire che conosco in loggia un personaggio, di cui tutti avevano una reverenza straordinaria oserei dire, davvero straordinaria. Lui era accompagnato da una donna, quindi brasiliana di origine molto bella, e lui si chiamava per quel periodo Nicolò Polizzi. Si diceva che fosse un imprenditore di origine Castelvetrano, che però operava nel settore mobilificio in Brasile, una città vicino San Paolo. La reverenza era davvero assoluta. Camminava con due macchine, quindi camminava con un’autista e soprattutto veniva in orari specifici, dalle 23 in poi.

PAOLO MONDANI E questo Nicolò Polizzi che ruolo aveva?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Solo dopo la terza volta che lo vidi. Ci incontrammo comunque in una riunione conviviale a Maastricht, in una riunione massonica del tutto internazionale e lì venne anche Nicolò con la sua compagna. Fu in quella specifica occasione che io capii che lui era quell’uomo. Era Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI E lei oggi che ha visto la faccia del vero Matteo Messina Denaro può dire che era lui?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Era lui.

PAOLO MONDANI Nicolò Polizzi?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si era lui Nicolò Polizzi.

PAOLO MONDANI Ricorda qualche cosa? Un suo discorso? Due parole che lui ha scambiato con lei o con altri?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si, mi disse che io ero una brava persona quindi gli piacqui. Poi mi disse, gli parlai io di un progetto che avevo da svolgere a New York e lui mi raccomandò, mi diede dei contatti su New York e da lì partì la mia esperienza americana. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2016 il collaboratore di giustizia Marcello Fondacaro, colletto bianco della 'Ndrangheta che frequentava la mafia di Castelvetrano, conferma l'esistenza della loggia La Sicilia.

PAOLO MONDANI E Fondacaro dirà addirittura ai magistrati calabresi che la loggia La Sicilia era una loggia di diretta derivazione della P2.

PIERA AMENDOLA - ARCHIVISTA COMMISSIONE PARLAMENTARE SULLA P2 1981-1988 Fondacaro sostiene che Matteo Messina Denaro apparteneva a questa loggia. Quando dice che questa loggia è di derivazione, deriva dalla P2, ecco questa cosa non mi stupisce. Perché anche Bontate, che era massone e che era Maestro Venerabile di una loggia massonica, che si chiamava la loggia dei Trecento era entrato in rapporti molto stretti con Licio Gelli.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stefano Bontate è stato il capo dei capi di Cosa Nostra ucciso dagli emergenti corleonesi di Totò Riina nel 1981. La sua Loggia dei Trecento era conosciuta anche come Loggia Sicilia-Normanna, e forse stiamo parlando della stessa loggia di Matteo Messina Denaro. Pentiti autorevoli come Gioacchino Pennino e Angelo Siino hanno dettagliato con estrema precisione i viaggi di Gelli in Sicilia.

PIERA AMENDOLA - ARCHIVISTA COMMISSIONE PARLAMENTARE SULLA P2 1981-1988 Gelli andava lì per incontrare Bontate perché la loggia di Bontate era collegata alla P2, era considerata una appendice della P2 in Sicilia. Allora se tanti anni dopo viene fuori che anche quella di Matteo Messina Denaro era collegata alla P2 vuol dire che il discorso è andato avanti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Matteo Messina Denaro è coperto da una rete massonica. L'aveva detto Maria Teresa Principato, il magistrato che ha dato a lungo la caccia al super latitante. Ma nessuno le aveva creduto. Ora che il territorio di Trapani, dove la mafia regna dal 1800, fosse un territorio coperto da un'amalgama di poteri difficilmente penetrabile, l'aveva già detto nel 1838 il prefetto Olloa al procuratore del re. E tra questi poteri c'è sicuramente la massoneria. Il collaboratore, Fondacaro, nel processo del novembre 2022, ha ricostruito davanti al magistrato Giuseppe Lombardo a Reggio Calabria la penetrazione della 'ndrangheta all'interno della P2, ha ricostruito la rete massonica e ha detto anche di essere entrato in contatto con la Loggia della Sicilia, cioè la loggia voluta da Matteo Messina Denaro, alla quale si erano iscritti per volere proprio del boss solo uomini fidati, per lo più professionisti, ingegneri, avvocati, architetti, imprenditori e anche qualche giornalista e anche qualche politico. Una loggia itinerante nella quale Matteo Messina Denaro si muoveva a suo agio nei panni di un imprenditore, Nicolò Polizzi, e dispensava consigli e anche contatti per chi voleva investire all'estero. Ecco, insomma, poi, secondo Tuzzolino, l'architetto interrogato dalla Principato, a questa loggia faceva anche parte il senatore, l'ex senatore D'Alì, l'ex sottosegretario al ministero dell'Interno del governo Berlusconi 2001-2006. Lui ha sempre smentito l'appartenenza alla Loggia. Ora a vigilare sui terreni di famiglia c'era Messina Denaro, padre, Ciccio, e figlio e la famiglia D'Alì era anche proprietaria della Banca Sicula. Lo zio era proprio il presidente e il nome era nelle liste della loggia P2 di Licio Gelli. Ora l'ex sottosegretario è stato condannato definitivamente ed arrestato a dicembre scorso. Pochi giorni dopo qualcuno ha notato la coincidenza, è stato arrestato Matteo Messina Denaro e a proposito dell'arresto, questa sera siamo in grado di rivelarvi alcuni dei particolari rimasti fino a oggi segreti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Benito Morsicato, soldato di Cosa Nostra di ultima generazione di base a Bagheria si pente nel 2014 e le sue dichiarazioni portano in carcere i parenti di Messina Denaro e vari altri affiliati. Ma lascia il programma di protezione nel 2020 protestando per il trattamento subìto.

PAOLO MONDANI Lei quanti appartenenti alla famiglia di Matteo Messina Denaro ha conosciuto?

BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Il nipote del cuore di Matteo Messina Denaro, che è Luca Bellomo, e poi c’è anche un altro nipote sempre del cuore, si chiama Francesco Guttadauro.

PAOLO MONDANI Con questi Messina Denaro ci era diventato amico?

BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Con i nipoti si, lavoravamo assieme nell’ambito delle rapine.

PAOLO MONDANI Ha mai sentito dire da altri appartenenti a Cosa Nostra perché Matteo Messina Denaro non viene catturato?

BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Certo che se ne parla. Anche io con altri soldati, ne parlavo anche io con l’ex, con il collaboratore di giustizia...

PAOLO MONDANI Chi?

BENITO MORSICATO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Salvatore Lopiparo. Se ne parlava che c’erano dei personaggi dello Stato, che garantivano diciamo la latitanza di Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI In loggia c’erano uomini delle forze dell’ordine?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Tantissimi.

PAOLO MONDANI E uomini dei servizi di sicurezza? Che in qualche modo lei è venuto a sapere.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Quello che era ai tempi il responsabile dei servizi segreti per la Sicilia occidentale.

PAOLO MONDANI Lei a verbale dice anche di sapere che Matteo Messina Denaro frequentava la Spagna e l’Inghilterra.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si. Io nel 2015, il 2 aprile o il 3 aprile con esattezza del 2015, quindi era 2 o 3 giorni prima di Pasqua riferisco in località segreta alla dottoressa Principato la posizione geografica esatta dell’ultimo covo di Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI E cioè?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Che era a Roquetas De Mar. In una villa a Roquetas De Mar. Gli dico chi era il proprietario…

PAOLO MONDANI Che sta in Spagna?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Che sta in Spagna, in Andalusia, sì. Vicino Almeria.

PAOLO MANDANI Lei c’era stato?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Per Messina Denaro, il modo migliore per assaporare il fascino di Roquetas de Mar è recarsi a Playa Serena, fare shopping, e osservare una ragazza che spunta dalla piscina di un albergone.

PAOLO MONDANI Quanti giorni è stato là?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Una settimana, suo ospite.

PAOLO MONDANI Wow.

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA In un hotel di lusso, sì

PAOLO MONDANI E lui era contornato da belle ragazze? Ha molti amici?

GIUSEPPE TUZZOLINO - EX COLLABORATORE DI GIUSTIZIA Si, si, molti amici. Il sindaco di Almeria venne a farci onore quindi che ci venne lì con grande.. erano davvero un ambiente molto spudorato ecco.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Se la Sicilia è metafora del mondo come diceva Leonardo Sciascia, più umilmente, Giovanni Savalle è la metafora di Castelvetrano, patria di Matteo Messina Denaro. A Savalle, l'imprenditore più facoltoso della zona, la Guardia di Finanza sequestrò, nel 2018, 64 milioni di euro, tra cui una importante quota della proprietà del Kempinsky hotel di Mazara del Vallo. Poi gli è piombata addosso la bancarotta fraudolenta per due sue società. Ma nell'agosto scorso è caduta l'accusa più pesante: essere alle dipendenze di Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI Sui giornali è stato persino definito il cassiere di Matteo Messina Denaro.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, non il cassiere, il tesoriere, che è diverso.

PAOLO MONDANI Vabbè, insomma, diciamo. Una delle contestazioni che le sono state fatte riguarda una società che si chiama Atlas cementi. Alcuni membri della sua famiglia erano parte di quella compagine azionaria.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA È vero.

PAOLO MONDANI L’Atlas cementi era di Rosario Cascio.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, no. L’Atlas cementi era di Gianfranco Becchina.

PAOLO MONDANI E Rosaro Cascio?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Rosario Cascio l’ha comprata da Gianfranco Becchina.

PAOLO MONDANI Benissimo, ma Rosario Cascio è stato coinvolto nell’inchiesta mafia appalti e quindi diciamo così a cascata i suoi famigliari, quindi lei siete stati indicati come….

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Io Io le posso dire che Gianfranco nel 1990, '91 ora non …

PAOLO MONDANI Stiamo parlando di Gianfranco Becchina?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Becchina, quando ha venduto

PAOLO MONDANI Che è un noto trafficante di reperti archeologici.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No dottore, oggi è un trafficante di reperti archeologici. Ma Gianfranco Becchina a me mi è stato presentato da Aldo Bassi, Aldo Bassi...

PAOLO MONDANI Che era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Due volte.

PAOLO MONDANI Del quinto governo Andreotti.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Non lo so.

PAOLO MONDANI …e del primo governo Cossiga.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Benissimo, quindi vede una persona di grande qualità.

PAOLO MONDANI E quando lo ha conosciuto lei non era un trafficante di reperti archeologici?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Assolutamente. Tutti volevano avere a che fare con Gianfranco Becchina.

PAOLO MONDANI Perché lui vendeva olio in tutto il mondo.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Bravissimo. Ricordi che l’olio di Gianfranco Becchina è andato sul tavolo di Bill Clinton.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A Gianfranco Becchina il 24 maggio dell'anno scorso è stato confiscato un patrimonio stimato in 10 milioni di euro. Secondo la Dia, Becchina sarebbe stato a capo di un’organizzazione dedita al traffico internazionale di reperti archeologici con cui avrebbe accumulato ingenti ricchezze. Mentre Sarino Cascio, suo socio nella Atlas Cementi, accusato di essere uno dei cassieri di Matteo Messina Denaro, nel 2005 è stato condannato per associazione mafiosa. Ma la Cassazione nel 2021 ha ammesso la revisione della condanna perché già assolto per gli stessi fatti in un altro processo.

PAOLO MONDANI Le hanno contestato i rapporti con un noto mafioso.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Quale?

PAOLO MONDANI Giuseppe Grigoli.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Ma allora, anche lì, Giuseppe Grigoli, io ho fatto una piccola consulenza praticamente cinque milioni delle vecchie lire, 2.500 euro, questo è il mio rapporto con Pino Grigoli, ma di cosa stiamo parlando dottore? PAOLO MONDANI Poi le vengano contestati i rapporti con Filippo Guttadauro, che è nientemeno che il marito di Rosalia Messina Denaro. GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Benissimo, perfetto dottore.

PAOLO MONDANI Alla figlia di loro, Maria, lei ha procurato un posto di lavoro.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No dottore.

PAOLO MONDANI Avrebbe procurato...

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Ecco, avrei procurato. Perché Maria Guttadauro era bravissima nel rappresentare il territorio perché lo conosceva, perché aveva studiato per questa cosa.

PAOLO MONDANI I suoi rapporti con Filippo Guttadauro?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Mah, quali rapporti? Conoscenza praticamente così e nulla di particolare, nulla di particolare.

PAOLO MONDANI Con Bellomo?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Luca Bellomo, dottore, anche lì: Luca Bellomo è il figlio del signor Bellomo. Io conosco il signor Bellomo grazie al fatto che...

PAOLO MONDANI Anche lui noto mafioso, Luca Bellomo.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA No, no, non è un mafioso. Luca era un ragazzo che ha sposato la sorella di Maria Guttadauro.

PAOLO MONDANI I suoi rapporti con la politica?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Buoni, buoni. Io ho mantenuto rapporti con tutti.

PAOLO MONDANI Con quale parte della politica?

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE - COMMERCIALISTA Mah, destra, sinistra, centro, non ho mai, ma guardi...

PAOLO MONDANI Sopra, sotto.

GIOVANNI SAVALLE - IMPRENDITORE – COMMERCIALISTA Totò mi disse una volta: "Perché non ti presenti come senatore?" Totò ma io non faccio la politica, mi piace fare questo lavoro e quant’altro. Non l’ho seguito ed è stato un peccato perché oggi sarei senatore della Repubblica italiana.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il mentore del quasi senatore è Totò Cuffaro che ha scontato cinque anni di reclusione per favoreggiamento a Cosa Nostra. Il resto degli amici di Savalle inizia con Pino Grigoli, re dei supermarket nel trapanese, riciclatore di denaro delle cosche e fiancheggiatore di Matteo Messina Denaro; poi Filippo Guttadauro, da anni in carcere, sposato con la sorella di Matteo, Rosalia, arrestata nel marzo scorso; e Luca Bellomo, nipote del cuore di Matteo, per anni in carcere per mafia, traffico di droga e rapina. Insomma, una lunga catena di affetti che non si può spezzare. Della quale avrebbe fatto parte anche il medico Alfonso Tumbarello arrestato nel febbraio scorso per aver curato Messina Denaro forse sapendo che la sua identità era coperta da quella del geometra, Andrea Bonafede. Il 70enne Tumbarello, in passato impegnato in politica con Totò Cuffaro e con Alleanza nazionale aveva un’altra passione.

PAOLO MONDANI Tumbarello era appartenente alla loggia Valle di Cusa, Giovanni di Gangi 1035 all'Oriente di Campobello di Mazara. Il Gran Maestro che ha da dire rispetto al fatto che questo venga arrestato per concorso esterno?

STEFANO BISI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE D'ITALIA Appena ho saputo che era stato indagato l'ho sospeso. Prima dell'Ordine dei Medici che l'ha sospeso soltanto quando è stato arrestato.

PAOLO MONDANI Alfonso Tumbarello era noto processualmente come ponte verso la famiglia di Messina Denaro sin dal 2012. Voi, l'idea che mi sono fatto è che arrivate sempre molto dopo. Non mancate di vigilanza sui vostri iscritti?

STEFANO BISI - GRAN MAESTRO DEL GRANDE ORIENTE D'ITALIA Che Tumbarello potesse essere indagato per concorso esterno in associazione mafiosa non me lo sarei aspettato. Io non ho il potere di intercettare, non ho il potere di perquisire, non ho il potere di andare a vedere i conti correnti delle persone.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Eppure, il 19 ottobre del 2012, 11 anni fa, l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino testimoniando al tribunale di Marsala sosteneva che il suo tramite con la famiglia di Messina Denaro era stato proprio Alfonso Tumbarello. Si voleva prendere il latitante? Bastava inseguire Tumbarello. E un funzionario della polizia giudiziaria ci dice qualcosa in più del medico massone di Messina Denaro.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Il medico Tumbarello era una fonte dei servizi segreti. Ed è lui secondo me che fa confidenze su Messina Denaro ma sin dai tempi delle lettere a Vaccarino.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La nostra fonte ci sta parlando di un rapporto epistolare tra il sindaco Antonio Vaccarino e Matteo Messina Denaro intercorso tra il 2004 e il 2007. Una vicenda ancora oggi misteriosa. Perché l'operazione venne organizzata dal Sisde, il servizio segreto civile, diretto dal generale Mario Mori che aveva reclutato Vaccarino nel tentativo di comunicare con il latitante. Ma di questa iniziativa non è mai stato chiaro il fine.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA L'Operazione Vaccarino, non era finalizzata alla cattura di Messina Denaro, ma serviva a preparare il terreno ad un accordo per la consegna.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questo dice la nostra fonte. E chissà se è vero che anche Tumbarello era della partita. Ma Giuseppe De Donno, ufficiale dei carabinieri e braccio destro di Mario Mori, finito anche lui al Sisde, il 12 maggio del 2020, spiega in un processo a Marsala che lo scambio di lettere fra Vaccarino e il latitante era stato concertato dal servizio per realizzare la consegna spontanea di Matteo Messina Denaro.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Questo è un pre-tavolo di trattativa. E Matteo Messina Denaro in una lettera a Vaccarino spiega esattamente quel che vuole.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il primo febbraio del 2005 Messina Denaro scrive al sindaco Vaccarino: "hanno praticato e praticano ancora oggi la tortura nelle carceri...hanno istituito il 41 bis, facciano pure e che mettano anche l’82 quater, tanto ci saranno sempre uomini che non svenderanno la propria dignità...Per l’abolizione dell’ergastolo penso che con il tempo ci si arriverà, ma tutto andrà da sé con il processo di civilizzazione". Messina Denaro è chiaro: l'ergastolo e il 41 bis sono il centro della trattativa. Dopo questa lettera passano 18 anni. Matteo si ammala e improvvisamente cambia abitudini.

PAOLO MONDANI Messina Denaro dà il suo cellulare alle signore che fanno con lui la chemioterapia, si fa un selfie con un infermiere della clinica Maddalena di Palermo, prende il nome di Andrea Bonafede nipote di un pregiudicato di mafia, il suo secondo covo a Campobello di Mazara è intestato a un soggetto già indagato per mafia. Come se volesse lasciare delle briciole sul suo percorso, delle tracce. Mi chiedo e le chiedo: si è fatto arrestare?

ANTONINO DI MATTEO - MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA Sono tutti comportamenti assolutamente anomali. Nessuno dei grandi latitanti di mafia si è comportato in questo modo, anzi in modo esattamente contrario. Ha adottato quindi un comportamento che è giustificabile solo in due modi: o si sentiva talmente sicuro delle protezioni da comportarsi in maniera incauta sapendo che non sarebbe stato catturato perché non lo volevano catturare oppure si è fatto arrestare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La testimonianza che ora ascoltiamo viene da un investigatore che per anni ha braccato Matteo Messina Denaro.

PAOLO MONDANI Parliamo della cattura di Matteo Messina Denaro il 16 gennaio scorso. Da dove cominciamo?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Cominciamo dal maggio 2022, quando la polizia sfiora la cattura di Messina Denaro. Lui inviava delle lettere alle sorelle Giovanna e Bice via posta. E la polizia ne intercetta quattro e accerta su queste lettere la presenza del DNA del latitante. E poi vengono piazzate 150 telecamere vicino alle buche delle lettere di Mazara, Campobello, Castelvetrano e Santa Ninfa in attesa che lui vada lì a imbucarle.

PAOLO MONDANI Poi però Messina Denaro ad un certo punto inspiegabilmente si ferma.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Sì, l'ultima lettera intercettata è del 24 maggio 2022, era indirizzata alla nipote, Stella Como, e aveva come mittente un mafioso di Santa Ninfa. Nella lettera c'erano due pizzini destinati alle sorelle, uno destinato a Fragolone, probabilmente il soprannome della sorella Rosalia. E Matteo scrive: "È andato tutto a scatafascio, la ferrovia non è praticabile, è piena...quindi capirai che non si può".

PAOLO MONDANI Un messaggio in codice, cosa vuol dire?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Vuol dire che Matteo Messina Denaro si era accorto che la Polizia intercettava le lettere e da quel momento non scriverà più.

PAOLO MONDANI Evidentemente c'era una talpa...

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Possibile.

PAOLO MONDANI E i carabinieri come entrano nell'inchiesta?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Ros e polizia hanno sempre condotto delle indagini parallele. Poi a un certo punto succede qualcosa di strano: i carabinieri chiedono alla polizia, a dicembre 2022, le chiavi dell'appartamento di Rosalia. L'appartamento era già pieno delle microspie della polizia e i carabinieri vogliono aggiungerne una nel bagno. La polizia a questo punto si arrabbia: ma come, che ci andate a fare nel bagno, non succede nulla là dentro. Rischiate di compromettere tutto, già Rosalia si era accorta dei movimenti del Ros attorno e dentro le sue case, anche in quella di campagna.

PAOLO MONDANI A questo punto però la polizia non può certo rifiutarsi di dare le chiavi ai carabinieri.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA E infatti consegna le chiavi al Ros che il 6 dicembre del 2022 entra e si concentra nell'intercapedine della sedia dove ci sono le copie dei pizzini e trova degli appunti sulla condizione medica di Matteo.

PAOLO MONDANI Che è il pizzino decisivo, quello che permette ai carabinieri di fare lo screening sui malati di tumore e arrestarlo. Ma loro come sanno del nascondiglio nella sedia?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA A casa di Rosalia era piazzata una telecamera gestita insieme dal Ros e dalla polizia. La polizia monitorava già Rosalia attraverso le microspie che erano sparse in vari punti della casa e voleva intercettarle anche il telefono. La Procura però dà il permesso soltanto ai carabinieri.

PAOLO MONDANI Qui non capisco una cosa, quando la polizia è entrata in casa di Rosalia l'aveva visto quel pizzino sulla malattia di Matteo?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA La polizia entra per prima...

PAOLO MONDANI Prima dei carabinieri.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Cerca, trova, fotografa tutti i pizzini oggi resi noti, ma non trova quello della malattia.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Riassumendo. La sorella di Matteo, Rosalia, è la chiave della cattura del fratello. La polizia lo capisce subito e con i carabinieri si contendono microspie e intercettazioni. Sulla carta, tutti sanno tutto, eppure solo i carabinieri trovano il pizzino con gli appunti sulla malattia di Matteo. La polizia entra prima di loro in quella casa ma quel pizzino non c'è. La cosa lascia pensare, perché solo quel pezzo di carta spiega la cattura di Messina Denaro alla clinica la Maddalena. Senza quel pizzino dovremmo parlare di consegna del latitante. E poi, tutti entrano in casa sua, ma Rosalia non si accorge mai di nulla?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Rosalia impazzisce quando scopre che il 6 dicembre erano entrati i carabinieri e la polizia se ne accorge, lo capisce perché a Rosalia avevano messo una microspia anche nella ciabatta.

PAOLO MONDANI Insomma, carabinieri e polizia non collaborano e si pestano i piedi.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Bah, a me sembra che pestano i piedi alla polizia che stava sulla pista già da parecchio tempo. Quando nel 2021 Matteo Messina Denaro lascia l'Albania è la polizia a capire che si trova qui nel trapanese. E da lì il risveglio dell'interesse per le indagini da parte dei carabinieri.

PAOLO MONDANI E come viene individuato Matteo Messina Denaro in Albania?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Perché la polizia intercetta uno scambio di dati tra Giovanna, la sorella, e Matteo. Matteo viveva praticamente ormai là, in Albania. Tant'è vero che anche la sua amante, Andrea Hassler, l'amante austriaca lo va a trovare lì. Poi improvvisamente Matteo decide di lasciare l'Albania e torna nel trapanese e la polizia traccia Rosalia attraverso alcuni video che Rosalia sposta, a Matteo, erano video registrati e indirizzati a lui con i saluti della vecchia madre.

PAOLO MONDANI Torniamo un attimo però al pizzino del maggio dell'anno scorso, quello dove Matteo scrive: "La ferrovia è piena"... A me sembra la chiave di tutta la vicenda della cattura questo.

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Lo è. Perché lui in quel modo dichiara che non vuole più utilizzare la posta, non è sicura, e solo di questo si preoccupa. E infatti, quando lui poi si trasferisce in Via CB 31 è a poche centinaia di metri da casa sua. Vuol dire che a Campobello lui si sente sicuro. Nonostante la presenza delle telecamere.

PAOLO MONDANI Insomma, in estrema sintesi, qualcuno spinge Matteo a non scrivere più lettere perché non vuole che sia catturato dalla polizia a maggio del 2022, ma questo perché?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA Questa è un'operazione dell’intelligence.

PAOLO MONDANI Che significa?

FUNZIONARIO POLIZIA GIUDIZIARIA I servizi segreti non vogliono che Matteo venga preso dalla polizia a maggio del 2022 perché il governo Draghi non sarebbe caduto. Siamo di fronte a un nuovo round della trattativa. Questo significa che ne hanno a guadagnare anche i vari Graviano, Lucchese, Bagarella, Madonia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo questo alto funzionario di polizia giudiziaria, la cattura di Matteo Messina Denaro sarebbe il segmento di una trattativa che ha le radici nel tempo, da quando cioè l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, incaricato dal Sisde di Mario Mori, cerca di prendere contatti con Matteo Messina Denaro. E lo fa attraverso la mediazione del medico Alfonso Tumbarello, il medico massone. E comincia con il super latitante un singolare scambio di lettere sotto degli pseudonimi, Vaccarino è Svetonio, Matteo Messina Denaro, Alessio. E proprio Alessio scrive, Matteo Messina Denaro scrive, ad un certo punto una lettera particolare: “hanno praticato e praticano ancora oggi la tortura nelle carceri e hanno istituito il 41 bis. Facciano pure, che mettano anche l'82 quater. Tanto ci saranno sempre uomini che non svenderanno la propria dignità”. “Per l'abolizione dell'ergastolo - scrive Matteo Messina Denaro - penso che con il tempo ci si arriverà, ma tutto andrà da sé con il processo di civilizzazione”. Ecco, Matteo Messina Denaro è chiaro: il 41 bis è ancora un nervo scoperto per la mafia, è un punto della trattativa. Questo singolare scambio epistolare è rimasto a lungo un mistero fino al maggio 2020, quando l'ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, uomo fedelissimo di Mario Mori, lo segue anche al Sisde, lo spiegherà in un processo a Marsala. Ecco, quelle lettere servivano a preparare il terreno per una consegna di Matteo Messina Denaro. Passano 18 anni. Da allora Matteo Messina Denaro si ammala e cambiano le sue abitudini e verrà arrestato. Come? La storia comincia quando i carabinieri ad un certo punto cercano di, vogliono entrare nell'appartamento della sorella Rosalia per inserire una loro cimice nel bagno. L'appartamento è già pieno di telecamere e cimici della polizia, alcune anche in condivisione. Tuttavia, i carabinieri entrano il 6 dicembre 2022, si soffermano sull'intercapedine di una sedia all'interno della quale trovano i pizzini. Uno in particolare, quello sulle condizioni di salute di Matteo Messina Denaro è quello che consentirà di fare lo screening di tutti i malati di tumore e individuare il super latitante. Ora i carabinieri sanno che in quella sede ci sono i pizzini perché l'hanno osservata con una telecamera in condivisione con la polizia. Anche la polizia era entrata in quell'appartamento, aveva trovato i pizzini, li aveva fotografati tutti. Mancava però quello decisivo. Come mai? Perché quella è l'unica carta che giustificherebbe l'arresto di Matteo Messina Denaro presso la clinica La Maddalena. Un arresto che un grillo parlante ben informato aveva anticipato con modalità e anche tempistiche perfette.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A questo punto entra in scena Salvatore Baiardo, il favoreggiatore dello stragista Giuseppe Graviano. Che nel 2020 nel processo 'Ndrangheta stragista a Reggio Calabria aveva raccontato di aver incontrato per tre volte da latitante Silvio Berlusconi, finanziato dalla sua famiglia per 20 miliardi delle vecchie lire. Baiardo, nel 2021, aveva rivelato a Report che gli incontri con Berlusconi erano stati molti di più e che Graviano aveva persino ricevuto l'Agenda Rossa di Paolo Borsellino. Tutte fandonie, secondo Berlusconi. Ma nello scorso novembre, Massimo Giletti, che lo aveva visto a Report, porta Baiardo su La7 e lui predice il futuro. Annuncia che "Messina Denaro era molto malato, e che avrebbe potuto consegnarsi lui stesso facendo un regalino al governo”.

NON È L’ARENA 5/11/2022 MASSIMO GILETTI E quando avverrebbe questo ipotetico arresto di Matteo Messina Denaro?

SALVATORE BAIARDO Giletti ci sono delle date che parlano non è che Baiardo si sta inventando…

MASSIMO GILETTI Eh ma lei ha detto che quando allo Stato farà comodo oppure lui non servirà più…

SALVATORE BAIARDO Questo lo avevo detto già in tempi non sospetti

MASSIMO GILETTI …verrà preso. È arrivato questo periodo, questo momento forse?

SALVATORE BAIARDO Presumo, presumo di si

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Le parole di Baiardo suonavano come la previsione di uno scambio: l'arresto dell'ultimo dei Corleonesi con la fine dell'ergastolo ostativo, e magari anche del 41 bis. Il 16 gennaio scorso Messina Denaro viene arrestato e siccome Baiardo indovino non è e qualcuno quelle cose gliele deve aver suggerite, nel marzo scorso chiediamo a lui cosa sa di questa cattura annunciata.

PAOLO MONDANI Come avviene l’arresto di Matteo Messina Denaro? Tu ne sai qualcosa? Perché lì la polizia stava a un passo, come hanno fatto i carabinieri a passargli davanti?

SALVATORE BAIARDO Ma c’era già un accordo che dovevano prenderlo loro

PAOLO MONDANI Qualche particolare in più sulla cattura di Matteo?

SALVATORE BAIARDO In che senso, dimmi cosa vuoi sapere.

PAOLO MONDANI Gli uomini che hanno preso contatti con te e Graviano sono gli uomini di chi?

SALVATORE BAIARDO Dei Servizi.

PAOLO MONDANI Servizi, certo. Ma sono gli uomini di Mori dei servizi? Sì o no?

SALVATORE BAIARDO Sì.

PAOLO MONDANI Ascoltami, Graviano è convinto che lo tolgono il 41 bis?

SALVATORE BAIARDO Se non succede quello che succede questo governo cade, questo governo cade.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L'Aisi, il servizio segreto civile, smentisce qualsiasi coinvolgimento nella cattura di Messina Denaro. A noi Baiardo ha confermato il nome del funzionario dei servizi che avrebbe interloquito con lui. Nome che su richiesta, abbiamo riportato all'autorità giudiziaria. Sarà fatalità ma abitavano tutti a Omegna o lì vicino, fra il '92 e il '93. I fratelli Giuseppe e Filippo Graviano latitanti, il loro favoreggiatore Salvatore Baiardo e il generale dei carabinieri Francesco Delfino, che aveva una villa a Meina. E qui, come è noto, ci sarebbe di mezzo una foto che ritrae Giuseppe Graviano, Silvio Berlusconi e il generale dei carabinieri Delfino seduti al bar vicino al lago a prendere un caffè. Di Delfino si può scrivere un libro: impegnato per anni al Sismi, coinvolto e assolto per avere sviato le indagini sulla strage di Brescia del 1974, condannato per avere intascato i soldi del sequestro dell'imprenditore Giuseppe Soffiantini, accusato da pentiti della 'ndrangheta di essere l'uomo chiave della strategia della tensione e finito dentro un’indagine sugli attentati del 1993. Che ci faceva Delfino al bar con Graviano e Berlusconi? È quella foto esiste davvero? Una cosa sola sappiamo: che sul lago d'Orta, nell'estate del 1992, la mafia si gioca il futuro.

PAOLO MONDANI L’altra volta tu mi dicevi che Graviano ha in mano delle foto. Foto che ritrarrebbero, mi dicevi, Berlusconi, Graviano e Delfino. Queste foto sono una o più di una?

SALVATORE BAIARDO Più di una.

PAOLO MONDANI Ma chi le aveva scattate? Delfino?

SALVATORE BAIARDO Ma che Delfino, Delfino era seduto.

PAOLO MONDANI No, intendo dire era lui ad aver proceduto a farle scattare, Delfino? Voi? Graviano?

SALVATORE BAIARDO (Alza la mano sinistra)

PAOLO MONDANI Tu? Tu hai scattato le foto? Fantastico. Quindi….

SALVATORE BAIARDO E se non va tutto come deve andare, nel libro usciranno le foto.

PAOLO MONDANI Cosa vuol dire nel libro? Stai facendo un libro?

SALVATORE BAIARDO Sì.

PAOLO MONDANI Comunque, queste foto ritraggono seduti a tavolino dove, a Omegna?

SALVATORE BAIARDO A Orta.

PAOLO MONDANI A Orta. In che periodo lo posso sapere?

SALVATORE BAIARDO ’92. C’era in ballo la nascita di Forza Italia.

PAOLO MONDANI La foto con Graviano, Delfino e Berlusconi fatta a Orta nel ’92 quando? In estate? Prima di Borsellino o dopo la morte di Borsellino?

SALVATORE BAIARDO Dopo.

PAOLO MONDANI Mi domando: avete altri documenti, Altre foto, altre cose di questo tipo?

SALVATORE BAIARDO No.

PAOLO MONDANI Berlusconi sa che avete le foto?

SALVATORE BAIARDO Uh.. (in segno di approvazione)

PAOLO MONDANI E come gli è stato comunicato che voi avete queste foto? Glielo hai comunicato tu?

SALVATORE BAIARDO Secondo te come c’è stato l’incontro con Paolo?

PAOLO MONDANI Tu sei andato a parlare con Paolo Berlusconi e all’incontro con Paolo Berlusconi gli hai detto che ci sono le foto? Gliele hai fatte anche vedere a Paolo Berlusconi?

SALVATORE BAIARDO (Annuisce)

PAOLO MONDANI Tosta. E Paolo Berlusconi come ha reagito? Dimmi una cosa almeno.

SALVATORE BAIARDO (Fa il segno della paura)

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO L’avvocato di Paolo Berlusconi ci informa che “percepito il tono insinuante di Baiardo, Berlusconi lo ha allontanato bruscamente e nessun riferimento fu fatto a fotografie di alcun genere”. Paolo Berlusconi sul punto si è avvalso della facoltà di non rispondere di fronte ai magistrati di Firenze. Ma un poliziotto della sua scorta ha testimoniato che Baiardo era venuto a screditare Silvio, il fratello che conta di più. Niente di vero per Baiardo che a Firenze dice che l'incontro, avvenuto nel 2011, gli era servito solo per chiedere a Paolo Berlusconi un posto di lavoro. Quindi non gli avrebbe mostrato le famose foto. Ultimo atto. Massimo Giletti rivela ai magistrati fiorentini di averne vista persino una, a noi Baiardo dice di averle addirittura scattate. Ma dopo la sospensione del programma di Giletti per ragioni ancora da chiarire e dopo che diventa pubblica la sua testimonianza alla Procura di Firenze, Baiardo compie la giravolta: su TikTok nega l'esistenza delle foto e racconta che le sue rivelazioni a Report del 2021 erano tutta un'invenzione.

SALVATORE BAIARDO – 16/05/2023 La Procura l'altro giorno mi sente proprio sulla base di queste dichiarazioni su Berlusconi. Son saltate fuori cose inimmaginabili: che addirittura ho delle foto che ritraggono lui insieme a Graviano e al generale Delfino. Tutte cose da fantascienza.

SALVATORE BAIARDO – 01/05/2023 Quando mi vedo arrivare questo signor Mondani, giornalista di Report, la prima cosa che vedo che cos'è, che questo ha una telecamera nascosta. Perciò, non è che questo mi dice Baiardo facciamo un'intervista, le va bene così gli avrei detto di sì. Gli avrei raccontato altre cose, magari veritiere. Appena mi sono accorto che questo qui aveva una telecamera nascosta, mi ruba l'intervista a telecamera nascosta e il Baiardo cosa fa: il Baiardo si sfoga a raccontargli un mucchio di fesserie.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Contento lui. Comunque alcune cose le ha confermate poi alla magistratura, altre le ha confermate parlando al telefono mentre era ascoltato dalla magistratura che lo aveva messo sotto intercettazione proprio a partire dal 2021 dopo la nostra puntata. Ed è così che i magistrati scoprono che l'uomo che ha gestito la latitanza dei fratelli Graviano ad un certo punto mostra una foto a Massimo Giletti e Massimo Giletti viene convocato dai magistrati e a quel punto non può non dire la verità all'autorità giudiziaria. Ecco Giletti dice di aver visto una foto stile Polaroid dai colori sbiaditi. Baiardo gliela mostra nascondendola nella tasca interna della giacca e riconosce, seduti intorno ad un tavolo nella piazza del Lago d'Orta, due persone su tre. E al centro c'è Silvio Berlusconi. Indossa una polo scura e alla sua sinistra c'è il generale Delfino, anche lui vestito in borghese di scuro, che Giletti conosce benissimo perché era suo padre, amico dell'imprenditore rapito Soffiantini. Accanto a loro c'era un giovane seduto che Giletti non riconosce, ma che secondo Baiardo è Giuseppe Graviano. Ora dell'esistenza di queste foto, Baiardo parla anche al nostro Paolo Mondani a marzo 2023. Poco prima che succedesse tutto il caos. E aggiunge anche dei particolari. Dice che le foto sono tre e anche di averla scattata lui. Ecco, è il 2 marzo e Baiardo a quel punto comincia a giocare su due tavoli in via una foto sua e del nostro inviato Mondani a Massimo Giletti e gli dice "Ma gli hai parlato tu delle foto?". Giletti dice: Ma quali? Quelle che ben sai, quelle che conosci. E poi gli dice di fare attenzione alla data dell'8 marzo. Ecco, noi da una prima ricerca abbiamo scoperto che quella data coincide con il pronunciamento della prima sezione penale della Cassazione in merito alla riforma dell'ergastolo ostativo del governo. Insomma, una sorta di banco di prova. Ma che gioco gioca Baiardo, per conto di chi gioca Baiardo? Ora noi non conosciamo i motivi per cui è stata sospesa la trasmissione di Massimo Giletti e della sua squadra, ma se dovessero essere questi che abbiamo visto i motivi e non vogliamo pensarlo, sarebbe grave per la libertà di stampa e soprattutto per il futuro del nostro Paese. L'oracolo Baiado aveva presentato, aveva azzeccato la malattia di Matteo Messina Denaro e anche l'arresto, la data. Aveva detto “è un regalo per il governo” e ha detto “Ci sono delle date - usando il plurale – “date che parlano da sole”. Questo l'aveva detto mesi prima. Poi Matteo Messina Denaro è stato arrestato il 16 gennaio. Il giorno dopo, cioè quel 15 gennaio in cui fu arrestato Totò Riina trent'anni fa. Quel 15 gennaio che coincide con il compleanno della premier Giorgia Meloni. Ora la mafia, da quello che ci risulta da alcune investigazioni ancora segrete, la mafia sarebbe anche un po' irritata nei confronti della premier perché non ha ceduto nonostante le pressioni all'indebolimento del 41 bis. E la Meloni ha detto più volte “Io non sono ricattabile”. Vivaddio. Ecco, tra 30 secondi passiamo invece ad un altro oracolo. Giusto il tempo di dare qualche consiglio su come aiutare la popolazione dell’Emilia-Romagna

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora stavamo parlando di Salvatore Baiardo, l'oracolo che aveva predetto con incredibile precisione la malattia e l'arresto di Matteo Messina Denaro. Noi come giornalisti, non possiamo far altro che notare e sottolineare un'altra coincidenza. Nel 1992 ci fu un altro personaggio di quelle presunte foto, il generale Delfino, che aveva Balduccio Di Maggio come confidente, e indossò i panni dell'oracolo. Baiardo ante litteram, profetizzando anche lui un regalino, questa volta per l'allora ministro della Giustizia Martelli. Insomma, o è l'aria del lago che rende tutti così visionari o sono le frequentazioni?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La storia della cattura di Totò Riina è il principio di ogni mistero. Perché è da quel momento che mafia, stato, stragi, e depistaggi si incastrano. Il mafioso Balduccio Di Maggio venne arrestato l'8 gennaio del 1993 a Borgomanero che è a un passo da Omegna e da Meina dove svernavano Baiardo, i fratelli Graviano e il generale Delfino a cui Di Maggio racconterà come catturare Totò Riina che verrà arrestato dal Ros dei carabinieri il 15 gennaio successivo. Ecco quel che racconta Giuseppe Graviano al processo 'ndrangheta stragista. Qualche giorno prima della cattura di Balduccio Di Maggio succede qualcosa di strano sul lago d'Orta.

GIUSEPPE GRAVIANO BOSS MAFIOSO PROCESSO 'NDRANGHETA STRAGISTA - 21.02.2020 Eravamo io, Baiardo, mio fratello e un’altra persona. Ci facciamo una partitina a carte, a poker. Che cosa è successo? Si erano fatte le sei, sette…sei e mezzo, una cosa del genere. Il signor Baiardo è andato a prendere i cornetti per la colazione. Ritorna e dice…sapete? C’è un altro collaboratore di giustizia, si chiama Balduccio Di Maggio. A proposito questo vi dimostra, che se io avessi voluto avrei avvisato o’ signor Riina o chi per lui per dire state attenti c’è Balduccio Di Maggio che sta collaborando e io vi posso indicare anche la villa dove è stato portato.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giuseppe Graviano non avverte Riina e sa dove è stato portato il neo-pentito Balduccio Di Maggio, che però verrà arrestato formalmente solo tempo dopo, l’8 gennaio del 1993. A che gioco giocava Graviano? Cominciamo a capirlo ascoltando quel che capitò alcuni mesi prima al ministro della Giustizia di allora, Claudio Martelli.

PAOLO MONDANI Siamo nell'estate del 1992 e ad un certo punto la viene a trovare il generale Delfino.

CLAUDIO MARTELLI - MINISTRO DELLA GIUSTIZIA 1991-1993 Eravamo all’indomani della strage di via D’Amelio e ancora però non si erano viste reazioni adeguate. Ha esordito dicendo: “non si angosci, non si preoccupi Presidente glielo portiamo noi Riina. Le facciamo noi un regalo per Natale, noi, noi. Glielo portiamo noi”. Io l’ho guardato tra il sorpreso e l’incuriosito, ma lui non ha voluto aggiungere altro.

PAOLO MONDANI L’8 gennaio del 1993 infatti viene catturato Balduccio Di Maggio, che poi racconterà di Riina eccetera. Balduccio Di Maggio stava a Borgomanero da molto tempo, quindi lei ebbe l’impressione dopo, ci ripensò, rifletté su quello che le aveva detto Delfino? Pensò che l’avessero già preso?

CLAUDIO MARTELLI - MINISTRO DELLA GIUSTIZIA 1991-1993 Se già da luglio Delfino si espresse in quei termini vuol dire che già da luglio lo avevano perlomeno sondato. Perché l’atteggiamento di Delfino è di chi era molto sicuro del fatto suo, cioè mi ha dato una comunicazione che nessuno poteva immaginare men che meno io, con grande certezza. Addirittura fissando la data.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Salvatore Baiardo predice la cattura di Messina Denaro e trenta anni prima il generale Delfino predice quella di Totò Riina. Due veggenti o dietro di loro si muove la stessa trama, quella di uno scambio dove la mafia incontra uomini dello Stato? Il solito Baiardo, su Di Maggio, Graviano e Delfino, forse non a caso, sa qualcosa in più.

PAOLO MONDANI A dibattimento "‘Ndrangheta stragista" Graviano dice quella storia di te poco prima del Capodanno ‘92 ‘93, che vai a prendere i cornetti una mattina dopo una lunga partita di poker. La racconta Graviano.

SALVATORE BAIARDO Quella è la storia di Di Maggio.

PAOLO MONDANI Quella che torni dicendo Di Maggio, ma Di Maggio era stato portato lì da Graviano.

SALVATORE BAIARDO Sì a Borgomanero lì all’officina, ma lui gli aveva trovato da lavorare lì.

PAOLO MONDANI Perché lui aveva insidiato la fidanzata di Brusca e Brusca non era...

SALVATORE BAIARDO E voleva farlo fuori.

PAOLO MONDANI Ascoltami, ma chi l’ha consegnato Balduccio Di Maggio a Delfino?

SALVATORE BAIARDO Lo ha fatto consegnare Graviano.

PAOLO MONDANI E come lo consegna, glielo presenta? Che fa’? Che succede? Materialmente lui?

SALVATORE BAIARDO È stato Balduccio Di Maggio ad andare da Delfino.

PAOLO MONDANI È stato Balduccio Di Maggio ad andare da Delfino? A casa sua? Lì in questo paesino, a Meina?

SALVATORE BAIARDO È così.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stando a questa ricostruzione, Graviano consegna Di Maggio a Delfino. E così vende Totò Riina allo Stato. E la storia si incastra con quanto raccontò il pentito Gaspare Spatuzza, uomo fidato di Giuseppe Graviano che a lui confidò particolari importantissimi che spiegano cosa c'era in ballo con Berlusconi. Siamo al 21 gennaio del 1994 al bar Doney, in via Veneto a Roma.

GASPARE SPATUZZA - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA PROCESSO DEPISTAGGIO STRAGE VIA D'AMELIO - 05/02/2019 Siamo entrati in questo bar, con un'espressione, io che sono cresciuto con Giuseppe Graviano, di una felicità immensa. Quindi Giuseppe Graviano mi indica che avevano chiuso tutto e avevamo ottenuto tutto quello che noi cercavamo. In tale circostanza venne a dire che la personalità, quello che aveva gestito un po' tutto era Berlusconi, gli dissi: ma chi quello del Canale Cinque? E lui mi ha detto che era quello del Canale Cinque. E tra cui c'è di mezzo un nostro compaesano: Dell'Utri.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Parlando con il compagno di detenzione Umberto Adinolfi, Graviano è esplicito su quello che pensa oggi di Berlusconi. E lo indica precisamente come l'Autore.

CARCERE DI ASCOLI PICENO INTERCETTAZIONE TRA GIUSEPPE GRAVIANO E UMBERTO ADINOLFI - 14/03/2017 Io ti ho aspittatu fino adesso picchì haio cinquantaquattr’anni, i giorni passano, gli anni passano, sto invecchiando... e no, e tu mi stai facennu morire ‘ngalera senza io aver fatto niente, che sei tu l’autore. Ma ti viene ogni tanto in mente, di fariti ‘na passata... di passarite a mano ‘nta cuscienza, se è giusto che per i soldi tu fai soffrire le persone così?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I fratelli Graviano e il loro favoreggiatore Baiardo hanno sempre detto di essere stati a un passo da Berlusconi. E Berlusconi li ha sempre smentiti. Ora parliamo di due verbali dimenticati. Nel 1996 Francesco Messina era alla Dia e indagava sulle stragi del 1993 insieme al magistrato fiorentino Gabriele Chelazzi, quando firmò due verbali con le rivelazioni di un confidente fino ad allora sconosciuto, Salvatore Baiardo.

PAOLO MONDANI Baiardo le confessa di avere assistito nella sua casa tra il 91 e il 92 a conversazioni telefoniche tra Filippo Graviano e Marcello Dell’Utri dalle quali si evinceva che i due avevano interessi economici in comune in Sardegna.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Dunque, lui disse di avere assistito a una conversazione telefonica tra Filippo Graviano e un tale Marcello, non disse che si trattava di Dell’Utri, questo bisogna dirlo per onore della cronaca.

PAOLO MONDANI Successivamente Baiardo aveva capito dai fratelli Graviano, tramite un commercialista di Palermo che era Fulvio Lima, parente del politico Salvo Lima, che venivano trasferiti ingenti capitali proprio a Marcello Dell’Utri.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Parlò di questo co-interessamento anche di Fulvio Lima a questo genere di trasferimento di capitale. Ma anche questo comunque fu rammostrato, fu riferito all’autorità giudiziaria.

PAOLO MONDANI La villa dove i Graviano stavano nell’agosto del ’93, dopo le stragi, era ubicata a Punta Volpe, ed è Baiardo che paga l’affitto per conto dei Graviano. Quanto distava dalla villa di Silvio Berlusconi quella villa?

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Ma guardi lui raccontò di avere accompagnato, di avere dovuto recapitare una valigia ai fratelli Graviano che si trovavano in vacanza in Sardegna. E che questa valigia a un certo punto fu recapitata in una villa che era diciamo nel comprensorio vicino a dove c’era la villa del prossimo Presidente del Consiglio.

PAOLO MONDANI Cosa le sembra che Gabriele Chelazzi avesse intuito alla fine del suo percorso investigativo sulla strage di Firenze e sulla strage di Milano, le stragi del’ 93.

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE POLIZIA DI STATO Io credo che lui avesse percepito chiaramente da tempo, che, diciamo, dietro a questi fatti non c’era soltanto l’ala militare di Cosa Nostra corleonese.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Quindi Salvatore Baiardo diventò testimone fiduciario della Dia e del pubblico ministero Gabriele Chelazzi -che morirà improvvisamente nel 2003- sui presunti rapporti tra Graviano e Berlusconi. Recentemente Baiardo è stato più volte interrogato dal pubblico ministero di Firenze Luca Tescaroli nell'ambito delle indagini sui mandanti delle bombe di Firenze, Roma e Milano del 1993, che dopo alcune archiviazioni vedono Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri ancora sotto indagine. Mentre è accertato che Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro sono stati la mente pensante di quelle stragi.

DANILO AMMANNATO - ASSOCIAZIONE PARENTI VITTIME STRAGE VIA DEI GEORGOFILI Cosa Nostra nel ’93 con le stragi colpisce il vecchio per favorire, per facilitare l’avvento del nuovo soggetto politico. La sentenza 5 agosto 2022 secondo grado Trattativa, ci attesta, ci prova che ci fu una convergenza di interessi, cito testualmente: “Vi fu chi come Marcello Dell’Utri tramava, dialogando direttamente con gli esponenti mafiosi. Dell’Utri portò avanti su imput di Provenzano e Graviano questa opera di mediazione per canalizzare il voto mafioso in previsione di assicurare dei vantaggi alla organizzazione.”

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sulla trattativa Stato mafia, la Cassazione ha confermato l'assoluzione in appello degli ufficiali del Ros e di Marcello Dell'Utri per non aver commesso il reato che è quello di attentato agli organi politici dello Stato. Però già nella sentenza del 2022 della Corte d'Appello, che assolveva già Marcello Dell'Utri, c'è scritto che Dell'Utri “aveva tramato per assicurare certi risultati elettorali dialogando direttamente con gli esponenti mafiosi”. Ecco in queste settimane la Procura di Firenze deve decidere come procedere nei confronti di Dell'Utri e Berlusconi, indagati come mandanti esterni delle bombe del '93 e del '94. È un filone che viene da lontano, dal 1998 e viene rimbalzato tra le procure di Caltanissetta e Firenze. Un reato, lo diciamo, un'ipotesi di reato, per la quale sia Berlusconi che Dell'Utri sono stati già archiviati tre volte. E ora questa nuova inchiesta parte invece dalle nuove intercettazioni in carcere e dalle dichiarazioni di Giuseppe Graviano nel procedimento “'ndrangheta stragista” a Reggio Calabria. Graviano, che al 41 bis in cerca di benefici, ha detto che sarebbero stati investiti vecchi 20 miliardi di lire dal nonno nelle attività di Silvio Berlusconi. E ora i magistrati hanno avviato anche delle perquisizioni nelle case dei familiari dei Graviano in cerca di questa carta privata e poi hanno avviato anche nuove perizie sui flussi finanziari della Fininvest, che sarebbero risultati 70 miliardi di vecchie lire di cui la provenienza non sarebbe certa. E hanno analizzato anche i flussi di denaro tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Sarebbero spuntate fuori delle donazioni per milioni di euro e un compenso mensile di 30mila euro secondo Berlusconi sono un segnale di riconoscimento, di stima, di gratitudine nei confronti dell'amico Marcello e anche per ricompensarlo delle spese legali per i procedimenti che ha dovuto affrontare. Ora per i pm, invece, sarebbero la prova del pagamento di un ringraziamento, diciamo così, nei confronti di Marcello Dell'Utri per non aver coinvolto il Cavaliere nei processi di mafia. Ecco, una tesi che è entrata anche in una informativa della Dia di Firenze del 2021. Ora, ci scrive invece l'avvocato di Silvio Berlusconi, Giorgio Perroni, e dice che tutto il suo patrimonio è perfettamente ricostruibile. Dice che siamo di fronte a una macchina del fango illegale perché le due perizie sarebbero ancora protette da segreto istruttorio. In realtà sarebbero state già depositate al Tribunale del Riesame di Roma in un altro procedimento. Solo che a Giorgio Perroni ancora non erano state notificate, non le aveva ricevute. Ecco, qu questo punto l'avvocato ha presentato una denuncia alla Procura della Repubblica di Firenze, chiedendo di individuare chi siano gli autori di questa presunta fuga di notizie. Vedremo come andrà a finire. Tornando invece alla strage dei Georgofili del 27 maggio di trent'anni fa, dove hanno perso la vita cinque persone, tra cui due bambine, ecco va detto che il pentito Gaspare Spatuzza ha detto "questi morti non ci appartengono". E allora? E allora insomma, in una recente relazione della commissione Antimafia è spuntato o sono spuntate informazioni e sono inquietanti sull'esecuzione dell'attentato. L'autore è un magistrato che a lungo ha indagato sulle stragi, Gianfranco Donadio.

GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA La commissione parte innanzitutto da un dato indiscusso. A via dei Georgofili furono collocati 250 chili di esplosivo. I mafiosi a Firenze disponevano all’incirca di 130, 140 chili

PAOLO MONDANI Qualcuno che non è mafioso quindi aggiunge l’esplosivo militare.

GIANFRANCO DONADIO – PROCURATORE DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO NAZIONALE ANTIMAFIA Nelle automobili dei mafiosi vi sono solo tracce di tritolo. Dobbiamo escludere che i mafiosi avessero altro. Quindi, altri hanno aggiunto alle cariche portate dai mafiosi esplosivo ad alto potenziale di tipo militare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I periti balistici della strage di Firenze hanno da poco rifatto la perizia sulla bomba dei Georgofili.

PAOLO MONDANI La miscela dell’esplosivo di Georgofili era composta da?

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Tritolo, probabilmente in parte preponderante visto gli annerimenti eccetera

PAOLO MONDANI Gli annerimenti delle pietre, della zona.

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Gli annerimenti della zona attorno al punto di scoppio. Poi dinitrotoluene, che potrebbe anche derivare dall’esplosione del tritolo. Poi T4, pentrite e nitroglicerina.

PAOLO MONDANI Per la parte che riguarda l’esplosivo da cava mi è chiaro dove si possa reperire. Ma il T4 e la pentrite dove si reperisce?

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO Questi due tipi di esplosivo sono assieme nel plastico di fabbricazione cecoslovacca, che veniva utilizzato in campo civile cioè in miniera denominato Semtex H. Separatamente il T4 può stare insieme al tritolo in tritoliti, cosiddetti, di cui la più comune è quella di origine americana Compound B.

PAOLO MONDANI Stabilire se il T4 viene dal Semtex H di produzione cecoslovacca o dal Compound B di produzione americana è possibile?

LORENZO CABRINO- PERITO BALISTICO No.

PAOLO MONDANI Dopo l’esplosione?

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO No. Chimicamente non è possibile.

PAOLO MONDANI Quindi non sappiamo se viene dalla Cecoslovacchia o dagli Stati Uniti.

LORENZO CABRINO - PERITO BALISTICO No.

ROBERTO VASSALE PERITO BALISTICO - EX COMANDANTE COMANDO RAGGRUPPAMENTO SUBAQUEI LA SPEZIA I reparti speciali hanno due plastici, uno con la pentrite e l’altro con il T4. Però è difficilissimo recuperarlo. Bisogna entrare a Comsubin, ammazzare la sentinella e andarle a prendere.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Rimane quindi un mistero chi ha procurato l’esplosivo al plastico per la strage di Firenze. Ma i misteri irrisolti non finiscono qui. Alcuni uomini della polizia giudiziaria fiorentina fecero indagini che non piacquero a molti.

EX AGENTE DI POLIZIA GIUDIZIARIA Una nostra fonte interna al mondo massonico fiorentino ci disse che nella Torre dei Pulci c'era un centro di raccolta dati metereologici guidato da Giampiero Maracchi, un climatologo di livello internazionale che è morto pochi anni fa. Ora questo centro era un Laboratorio di Monitoraggio collegato a satelliti con i computer sempre accesi. Quindi per molto tempo si disse che c’era un collegamento con i servizi segreti. Poi ci fu raccontato che l'Accademia dei Georgofili che era ospitata sempre all’interno della stessa Torre era una istituzione in mano alla massoneria, quella che conta di più a Firenze, e che poteva essere diventata il bersaglio di una massoneria collegata alla mafia. Insomma, non era detto che il vero obiettivo della bomba fossero gli Uffizi ma poteva essere che i Georgofili fossero diventati il bersaglio di una mente criminale più raffinata insomma.

PAOLO MONDANI Giungeste a delle conclusioni in queste indagini?

EX AGENTE DI POLIZIA GIUDIZIARIA Dopo due mesi di indagini accaddero tre fatti. Primo fatto: un ex carabiniere che era stato assunto nella Security di una grande azienda ci venne a dire che se continuavamo con le indagini ci dovevamo ricordare della vicenda dei militari morti dopo Ustica, cioè di quelle morti strane degli ufficiali che avrebbero dovuto testimoniare su quello che era successo la notte che fu abbattuto l'aereo. E noi lo prendemmo come un avvertimento pesante. Secondo fatto: quando dovevamo procedere con la perquisizione a casa del soggetto centrale dell’inchiesta, un nostro superiore lo chiamò e lo avvertì che stavamo arrivando e di fatto ci ha bruciato le indagini. E poi terzo fatto: un importante magistrato improvvisamente impose al nostro capo di troncare le indagini.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Da 30 anni si indaga anche sulla presunta presenza di una donna nelle stragi del 1993. Ecco gli identikit della bionda che avrebbe partecipato alla strage di Firenze di via dei Georgofili e della mora che avrebbe preso parte a quella di via Palestro a Milano. In un documento del Sisde, il servizio segreto civile, oggi Aisi, datato 19 agosto 1993 conservato all’archivio centrale dello Stato si legge: “una fonte del servizio operante nell’ambito della criminalità organizzata del capoluogo lombardo ha riferito: il commando che ha preparato e innescato l’autobomba esplosa in via Palestro a Milano sarebbe stato composto da due artificieri appartenenti ad una organizzazione parallela ed affiliata alla Mafia e da una donna che avrebbe parcheggiato la macchina con l’esplosivo. In passato sarebbe stata soprannominata “Cipollina”. Della bruna Cipollina e della bionda ci parla Marianna Castro, ex compagna del poliziotto Giovanni Peluso indagato come "compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci". La catena di comando di questo nucleo occulto di agenti speciali di cui avrebbe fatto parte anche Peluso secondo la signora Castro era formata da Giovanni Aiello, faccia di mostro, e da Bruno Contrada ex numero tre del Sisde.

PAOLO MONDANI Faccia di mostro per suo marito era il?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, lavoravano insieme però è un suo superiore.

PAOLO MONDANI Contrada?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Era il superiore di loro.

PAOLO MONDANI Suo marito sparisce qualche giorno durante l’attentato a Falcone, no?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, sì, venerdì mattina.

PAOLO MONDANI Tre giorni. Successivamente le dice che secondo lui Falcone era stato ucciso….

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Si ha detto che a uccidere Falcone non era stata la mafia ma erano stati i servizi segreti.

PAOLO MONDANI E lei non ha chiesto spiegazioni? A chi dava fastidio Falcone? Perché i servizi segreti hanno fatto saltare Falcone?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Dice che dava fastidio alla politica italiana e poi dice che era pure dei favori fatti a degli amici americani.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO A questo punto Marianna Castro ci racconta di un viaggio a Milano fatto da Peluso a fine luglio del ’93, alla viglia dell’attentato in via Palestro. Stesso viaggio anche a Firenze poco prima della strage

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO La sera stacco dal lavoro alle otto allora ha detto: ti devi sbrigare a venire a casa perché mi devi accompagnare allo svincolo di Napoli perché ci sono tre persone che lavoriamo tutti e quattro insieme e dobbiamo partire per fare delle indagini. Allora io arrivo e lo accompagno là e c’era la macchina che l’aspettava e lì dentro c’era pure Giovanni Aiello con due donne, una bionda davanti e una mora di dietro.

PAOLO MONDANI E dove andavano?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Eh…no dice che dovevano andare a Milano per fare delle indagini. Poi è tornato dopo la strage di Milano.

PAOLO MONDANI Sì.

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Gli ho detto scusa ma…siete partiti, siete tornati e c’è stato questo attentato? Ha detto: che vuoi dire che siamo stati noi? Ma e scusa che siete andati a fare fin là, a fare le indagini di che?

PAOLO MONDANI E lui come rispose?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Niente. Perché poi lui spariva, ritornava. Non…e a Firenze è stata la stessa storia con la strage di Firenze.

PAOLO MONDANI Cioè?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sempre a dire mi devi accompagnare che mi aspettano, che qua… che là…benissimo lo accompagno là

PAOLO MONDANI E sempre faccia da mostro con...?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Con la donna davanti dice…lui diceva: la donna davanti è la segretaria.

PAOLO MONDANI Bionda.

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Bionda, che era la nipote di Parisi.

PAOLO MONDANI Lui dice che era la nipote di Parisi?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Eh, era la nipote di Parisi quella Antonella. Io quando mi hanno fatto vedere le foto, prima mi hanno fatto vedere l’identikit delle donne bionde…e ho riconosciuto quella con i capelli un po' più lunghi e ho detto questa le assomiglia.

PAOLO MONDANI Ma se io le faccio vedere la fotografia della persona eh…che è stata pure dalla Procura di Firenze indicata come la possibile...

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO La Cipollina, la possibile Cipollina, che lui chiamava Cipollina.

PAOLO MONDANI Lui chi? Suo marito? La chiamava Cipollina?

MARIANNA CASTRO – EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO E allora a un certo punto siccome a mia figlia quella piccola la chiamava Cipollina io gli ho detto: “Scusa ma perché chiami Cipollina?” dice: “perché io ho una collega che lavoriamo insieme che c’ha……porta i capelli corti mori a uso cipolla”.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo Marianna Castro la donna bionda era nipote del capo della Polizia Parisi. In effetti in questi anni indagini calabresi si sono concentrate su Virginia Gargano, parente acquisita di Vincenzo Parisi e ritenuta vicina a Giovanni Aiello, Faccia di Mostro. Vicinanza mai accertata. Il legale di Virginia Gargano ritiene che le ipotesi di accusa siano indimostrate e indimostrabili. Marianna Castro riconosce anche la donna mora, che risulta essere soprannominata Cipollina esattamente come risultava al Sisde. Il 27 luglio del 1993 una bomba in via Palestro a Milano uccide cinque persone e ne ferisce dodici. I magistrati ritengono che ci sia un buco di 48 ore nella ricostruzione della preparazione della strage perché nessuno dei collaboratori di giustizia sa dire quel che accadde dopo. Come se i mafiosi avessero passato nelle mani di altri l’esecuzione. Fabrizio Gatti nel 2019 scrive “Educazione americana” la storia di un agente della Cia di stanza a Milano che gli rivela i retroscena della strage.

FABRIZIO GATTI - GIORNALISTA Dice di chiamarsi Simone Pace, il suo nome convenzionale, quindi io credo che sia anche un nome finto, e racconta e rivela che in quegli anni degli attentati così come prima e negli anni successivi esiste in Italia e anche a Milano una squadra clandestina della Cia formata da cittadini italiani e americani e in particolare lui, nei mesi precedenti all’attentato di via Palestro, viene coinvolto dal suo capo americano che dice di chiamarsi Viktor, viene coinvolto in un sopralluogo in via Palestro.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo in un sabato di metà aprile del 1993, il responsabile Cia Viktor porta Simone Pace senza alcun preavviso in via Palestro. Lì prende delle misure con i passi e si annota a matita su un foglio alcune informazioni. E poi, passano ai fatti.

FABRIZIO GATTI - GIORNALISTA Viktor il suo capo, che loro chiamano in gergo "il controllore" chiede a Simone Pace di comprare del fertilizzante a base di nitrati, della carbonella e dello zolfo, che sono i componenti per produrre, per fabbricare la polvere da sparo. Si danno appuntamento al primo maggio, sempre del 1993 in un appartamento dalle parti di Arluno e lì in questo appartamento in un caseggiato popolare dove Viktor dice di abitare, fabbrica, Viktor, con questi ingredienti e un tubo di plastica una miccia e con un timer misurano la durata di combustione di questa miccia che è due minuti e nove secondi circa.

PAOLO MONDANI Si scopre che ad Arluno, a poche centinaia di metri dalla casa di Viktor, "il controllore", il capo di questa squadra clandestina della Cia, i due mafiosi Carra e Lo Nigro avevano portato l’esplosivo per la strage, appunto...

FABRIZIO GATTI GIORNALISTA L’autista del camion Pietro Carra, che poi diventerà collaboratore, racconta di un uomo che prende in consegna questo esplosivo, che arriva all’appuntamento su una 127 bianca e dalla sua descrizione potrebbe trattarsi dello stesso Viktor: un uomo sui quarant’anni, abbastanza calvo, che tra l’altro si muove con una 127 bianca.

PAOLO MONDANI Questo agente della Cia, Simone Paci, che è un po’ la tua fonte, che cosa ti dice a proposito del contesto di quei giorni? Della strage...

FABRIZIO GATTI GIORNALISTA Lui si definiva un facilitatore della storia, laddove i governi non possono arrivare ci sono gli agenti segreti che in qualche modo anticipano gli eventi e creano le condizioni perché tutto questo accada.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nell'ultima relazione l’Antimafia scrive: “si impone una verifica dei dati e delle informazioni raccolte dal Sisde in ordine all'esistenza di un'organizzazione parallela con finalità terroristiche che avrebbe affiancato la mafia nelle stragi”. Ecco, noi di Report in questi anni abbiamo dimostrato, raccontato, portato prove e testimonianze che le stragi del '92 e del '93 non sono altro che la continuazione di quella strategia della tensione cominciata negli anni '70 e '80 con lo stesso sistema criminale. E poi è quello anche che è emerso dalle recenti sentenze della strage di Bologna. Ora la domanda è questa verifica dei fatti che chiede l'antimafia, qualcuno la sta facendo?

Gli insospettabili. Report Rai. PUNTATA DEL 08/05/2023

di Claudia Di Pasquale

Consulenza di Rino Giacalone

Collaborazione di Norma Ferrara

Il 16 gennaio 2023 è stato catturato Matteo Messina Denaro dopo trent'anni di latitanza. ​​​​​​

Matteo Messina Denaro dopo trent'anni di latitanza. Ora sappiamo che ha trascorso gli ultimi anni a Campobello di Mazara, che ha un tumore, che è stato operato già due volte e che ad aiutarlo nella gestione della latitanza sono stati i parenti più stretti dell'ex capofamiglia di Campobello, Leonardo Bonafede, deceduto nel 2020 all'età di 88 anni. Oggi sono agli arresti la figlia dello storico boss e tre dei suoi nipoti. Ma cosa facevano prima i cugini Bonafede? Davvero non era possibile immaginare un loro eventuale coinvolgimento nella gestione della latitanza di Matteo Messina Denaro? In una girandola di incredibili paradossi Report tocca con mano la commistione, gli intrecci insospettabili, le relazioni inconsapevoli tra favoreggiatori, istituzioni e società civile.

GLI INSOPETTABILI Di Claudia di Pasquale Consulenza di Rino Giacalone Collaborazione di Norma Ferrara Immagini di Dario D'India, Giovanni De Faveri, Cristiano Forti e Paolo Palermo Montaggio di Daniele Bianchi e Andrea Masella Grafiche Giorgio Vallati

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La notte del 25 gennaio 1983 nel trapanese, a Valderice, è stato ucciso all’età di 41 anni il magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto. Ai funerali parteciparono migliaia di persone, c’era anche l’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini. In prima fila la moglie e le figlie.

MARENE CIACCIO MONTALTO – FIGLIA DEL MAGISTRATO CIACCIO MONTALTO Mia madre ci portò in una stanza e testuali parole: “bambine mie, vi devo dire una cosa terribile, papà è morto”. Alla domanda: ma com’è morto? Mia madre subito rispose: un arresto cardiaco. Quindi io venni a sapere la verità soltanto dopo i funerali.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Per l’omicidio di Giangiacomo Ciaccio Montalto sono stati condannati all’ergastolo Totò Riina e il boss di Mazara del Vallo, Mariano Agate. Restano però ancora oggi molte verità da scoprire.

MARENE CIACCIO MONTALTO – FIGLIA DEL MAGISTRATO CIACCIO MONTALTO Fra le varie ipotesi era stato anche detto che potesse esserci anche Matteo Messina Denaro nel commando quella notte.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei ha detto che vorrebbe quasi incontrarlo Matteo Messina Denaro?

MARENE CIACCIO MONTALTO – FIGLIA DEL MAGISTRATO CIACCIO MONTALTO Sì, gli vorrei chiedere: chi erano i mandanti e soprattutto chi era coinvolto da un lato e anche dall’altro.

CLAUDIA DI PASQUALE Dalla parte delle istituzioni?

MARENE CIACCIO MONTALTO – FIGLIA DEL MAGISTRATO CIACCIO MONTALTO Soprattutto dalla parte delle istituzioni.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il magistrato Gian Giacomo Ciaccio Montalto aveva indagato sugli interessi della mafia trapanese nel traffico internazionale di stupefacenti. Sul riciclaggio di quel denaro sporco e sulle troppe banche presenti a Trapani.

RINO GIACALONE – GIORNALISTA “LA STAMPA” Nelle indagini che il magistrato trapanese Gian Giacomo Ciaccio Montalto svolse, spuntano fuori il nome dei Messina Denaro e il legame fra la mafia trapanese con Leonardo Bonafede, capomafia di Campobello di Mazara.

MARENE CIACCIO MONTALTO – FIGLIA DEL MAGISTRATO CIACCIO MONTALTO In questi 40 anni il nome di mio padre alla fine è andato completamente perduto. E da solo è morto in quella stradina dove nessuno si è dato la briga di allertare la polizia ed è stato trovato il mattino dopo.

CLAUDIA DI PASQUALE Tutti in silenzio.

MARENE CIACCIO MONTALTO – FIGLIA DEL MAGISTRATO CIACCIO MONTALTO Tutti in silenzio. Non ci stupiamo del fatto che Messina Denaro sia vissuto per trent’anni indisturbato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO E indisturbato Matteo Messina Denaro ha vissuto gli ultimi anni della sua latitanza proprio a Campobello di Mazara dove, nelle ultime settimane, sono saltati fuori i nomi di vari favoreggiatori.

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Si tratta di cittadini che fino a ieri erano per noi persone insospettabili, incensurate e quant'altro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Giuseppe Castiglione è stato eletto per la prima volta sindaco di Campobello nel 2014.

ELEZIONI COMUNALI 17/11/2014 GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) La sincerità, la lealtà, la coerenza, la trasparenza fanno di me il punto di forza e la città ha capito e ha letto nel mio cuore nella mia mente il messaggio che io ho lanciato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel 2014 a sostenere la sua candidatura c'era anche il movimento “Io amo Campobello”, che annoverava tra i suoi fondatori, Calogero John Luppino, imprenditore nel settore delle scommesse online condannato in primo grado nel 2021 a 18 anni. L'ipotesi è che i ricavi delle sue attività servissero anche al sostentamento delle famiglie mafiose di Campobello, Mazara e Castelvetrano.

CLAUDIA DI PASQUALE Allora a sostenerlo c’era questa “Io Amo Campobello” che poi è passata all’opposizione.

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Subito dopo la mia elezione.

CLAUDIA DI PASQUALE Però diciamo anche loro hanno contribuito, immagino.

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Sì. Sono tutti fulmini a ciel sereno che mi sono capitati addosso in questo periodo che diciamo sono estranei a quelli che sono i miei percorsi di vita.

CLAUDIA DI PASQUALE Tra gli animatori del movimento politico “Io amo Campobello” c’era anche Salvatore Mario Giorgi, condannato in appello nel 2022 per estorsione.

CLAUDIA DI PASQUALE La moglie di Giorgi che fa?

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) È impiegata al comune.

CLAUDIA DI PASQUALE È impiegata al comune.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi è Angelo Greco, invece?

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Un altro che era impiegato di questo comune, impiegato, operaio di questo comune, e che è stato arrestato per mafia.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A festeggiare l’elezione di Castiglione nel 2014 c'era anche l'ex consigliere comunale di An, Paolo Salvatore Truglio.

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Truglio è un sostenitore.

CLAUDIA DI PASQUALE E a lei risulta che abbia dei precedenti per droga?

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Trent’anni fa, forse sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Facciamo venti.

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Non lo so, dico, io non sto qua con il calendario in mano a ricordare le cose.

PAOLO SALVATORE TRUGLIO - IMPRENDITORE 23 anni fa ho avuto questo diciamo incidente di percorso, l’ho pagato, sono stato purtroppo forse l’unico in Italia che su una pena di quattro anni e sei mesi è stato in carcere quattro anni e 10 mesi.

CLAUDIA DI PASQUALE Senta in quel famoso video del comune, no? Ci siete lei, Calogero John Luppino.

PAOLO SALVATORE TRUGLIO - IMPRENDITORE C’è Calogero John Luppino in quel video?

CLAUDIA DI PASQUALE Giuro… giuro… Ruggirello…

PAOLO SALVATORE TRUGLIO - IMPRENDITORE …

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A sostenere la candidatura di Castiglione nel 2014 c'era anche Paolo Ruggirello, ex deputato regionale, oggi sotto processo a Trapani per i suoi presunti rapporti con personaggi in odore di mafia.

CLAUDIA DI PASQUALE Nelle carte del processo si dice che Ruggirello aveva anche avuto contatti con personaggi mafiosi o comunque contigui alla mafia proprio per le elezioni di Campobello del 2014 e che alla fine il suo intervento ha portato anche alla sua vittoria.

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Sì, Ruggirello non dimentichiamo che era un deputato regionale, un deputato questore fra l’altro.

CLAUDIA DI PASQUALE Sì.

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Ma potevo immaginare che eventualmente lui potesse avere contatti con persone malavitose o mafiose o quant’altro?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In aula il pm ha fatto ascoltare l'audio di un'intercettazione tra un esponente mafioso di Paceco e Ruggirello che commentava così la vittoria di Castiglione nel 2014.

INTERCETTAZIONE TELEFONICA ORIGINALE DEL 17 NOVEMBRE 2014 Paolo Ruggirello: Il sindaco è salito il nostro. Carmelo Salerno: Minchia! Paolo Ruggirello: Abbiamo preso 480 voti sicuri.

DANIELA TROJA – GIUDICE TRIBUNALE DI TRAPANI Sentenza in nome del popolo italiano

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Alla fine, lo scorso 12 aprile Ruggirello è stato condannato in primo grado a 12 anni per concorso esterno in associazione mafiosa.

ENRICO SANSEVERINO – AVVOCATO DI PAOLO RUGGIRELLO Il paradosso oggi è che Ruggirello viene ritenuto responsabile per avere favorito l'elezione del sindaco Castiglione, e il sindaco Castiglione favorito è immune da qualsiasi censura di carattere penale.

CLAUDIA DI PASQUALE So che non può rilasciare dichiarazioni, mi sto occupando in realtà di Campobello, ho intervistato anche il sindaco.

ENRICO SANSEVERINO – AVVOCATO DI PAOLO RUGGIRELLO Non può parlare con persone estranee perché è ai domiciliari.

PAOLO RUGGIRELLO – DEPUTATO REGIONE SICILIANA 2006-2017 Si faccia soltanto una domanda che se mi hanno dato questa conferma di 416, di concorso esterno, come mai il sindaco non è stato arrestato.

CLAUDIA DI PASQUALE Mi ha detto proprio: fatevi una domanda com'è che non hanno arrestato il sindaco!

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Questa è una cosa gravissima mi sta facendo trasalire e incazzare fortemente.

CLAUDIA DI PASQUALE Loro hanno sollevato la contraddizione.

 GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Ma io non vedo nessuna contraddizione perché io sono vittima semmai perché io se avessi avuto mai sentore che lui fosse vicino ad ambienti mafiosi giammai l'avrei fatto avvicinare alla mia campagna elettorale, giammai.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Giammai. Giuseppe Castiglione l’abbiamo visto festeggiare nel 2014 la vittoria delle elezioni con a fianco personaggi con precedenti penali e altri che saranno poi coinvolti in inchieste di mafia. Ad appoggiare la sua elezione era anche l’ex deputato regionale Ruggirello, che è stato condannato poche settimane fa a dodici anni di reclusione in primo grado per aver favorito Cosa Nostra, per i suoi presunti contatti con uomini, con mafiosi durante le campagne elettorali. Ecco, dalle carte emergerebbe che proprio Castiglione sarebbe stato il destinatario degli interessi di Cosa Nostra. Per questo Ruggirello ci ha chiesto: “Ma se sono stato coinvolto io, perché non è stato coinvolto anche il sindaco Castiglione?” Ecco, noi abbiamo girato la domanda al sindaco che si è inalberato e ha detto: “Io non ho mai saputo di essere al centro degli interessi di Cosa Nostra” e noi gli crediamo, ovviamente, fino a prova contraria. Tuttavia, quella che raccontiamo stasera è la storia di una gigantesca ipocrisia che riguarda proprio la città che amministra da nove anni, che ha offerto copertura a Matteo Messina Denaro, una rete di grandi complicità. È stato arrestato dopo 30 anni con il nome di Andrea Bonafede, perché Bonafede? È andato sull’usato garantito. Ora, Leonardo Bonafede era il capofamiglia di Campobello di Mazara e negli anni ’70 aveva, si era preso cura della latitanza dei capi di Cosa Nostra: Riina, Bernardo Provenzano e poi, successivamente, Ciccio Messina Denaro e di suo figlio Matteo. Dunque, era così imprevedibile che si appoggiasse ai Bonafede per la sua latitanza? Il primo a capire l’importanza di Leonardo Bonafede e la centralità di Campobello di Mazara nello scacchiere di Cosa Nostra trapanese è stato il magistrato Ciaccio Montalto, ucciso nel 1983 perché stava indagando sulla mafia trapanese: gli affari, i canali di riciclaggio attraverso le banche e poi anche i rapporti tra la mafia trapanese e quella di Campobello di Mazara. Aveva illuminato la figura di Leonardo Bonafede, che è morto nel 2020 a 88 anni. E adesso sono stati arrestati per aver favorito Matteo Messina Denaro la figlia Laura, maestra di asilo, e anche i tre nipoti: Andrea Bonafede, classe ‘69, impiegato comunale; Andrea Bonafede del ’63, colui che ha ceduto la sua identità e poi Emanuele Bonafede, sposato con Lorena Lanceri, la vivandiera di Matteo Messina Denaro. Ecco, tutte persone nelle cui vite Matteo Messina Denaro entrava come fossero porte girevoli di un albergo. L’inchiesta di questa sera ci lascia una certezza: Matteo Messina Denaro è stato un fantasma solo per chi non voleva vedere. Già negli anni ’80 Paolo Borsellino, da capo della Procura di Marsala, aveva detto davanti alla commissione sul fenomeno mafioso: attenzione, quella tra Castelvetrano, Campobello di Mazara e Mazara del Vallo è il santuario di Cosa Nostra. Un’area di grandi, grandissimi latitanti. La nostra Claudia Di Pasquale, che ha anche aggiunto qualche tassello.

PAOLO BORSELLINO - COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SULLA MAFIA 11/12/1986 Mi sono chiesto. Perché mai Provenzano Bernardo e Rina Salvatore, capi riconosciuti di Cosa nostra, hanno l'uno parenti qui e le altre grosse proprietà terriere a Castelvetrano.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A meno di dieci chilometri da Castelvetrano si trova il piccolo comune di Campobello di Mazara, che vanta un lungo litorale sabbioso. Nella frazione di Tre Fontane hanno trascorso la loro latitanza estiva dal 1975 al 1977 i corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano grazie all’interessamento del capomafia di Campobello, Leonardo Bonafede.

RINO GIACALONE – GIORNALISTA “LA STAMPA” Leonardo Bonafede era una figura molto importante nella storia di Cosa nostra trapanese, di quella Cosa nostra che comincia a occuparsi anche delle imprese, degli appalti, dei rapporti fra la mafia e la politica.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Leonardo Bonafede si è occupato anche della gestione della latitanza di Francesco Messina Denaro, padre di Matteo e capomafia di Castelvetrano, resosi irreperibile nel 1990, dopo che Paolo Borsellino ne aveva chiesto la sorveglianza speciale sulla base delle indagini svolte dal commissario Calogero Germanà.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei interrogò anche Matteo Messina Denaro?

CALOGERO GERMANÀ – EX COMMISSARIO DI POLIZIA MAZARA DEL VALLO (TP) Sì a seguito di un omicidio che si era verificato a Castelvetrano, verificammo anche la posizione di un gruppo di Campobellesi.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Matteo Messina Denaro ha fatto parte anche del commando che nel settembre del 1992 ha provato ad uccidere sul lungomare di Mazara del Vallo proprio il commissario Germanà.

CALOGERO GERMANÀ - EX COMMISSARIO DI POLIZIA MAZARA DEL VALLO (TP) L'ordine però era arrivato da Totò Riina.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma perché volevano ucciderla?

CALOGERO GERMANÀ - EX COMMISSARIO DI POLIZIA MAZARA DEL VALLO (TP) Ci rispondo alla Sciascia, bisognava chiederlo a Totò Riina, o forse bisognerebbe chiederlo ora a Messina Denaro Matteo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Pochi mesi dopo il fallito attentato a Germanà, nell'estate del ‘93, Matteo Messina Denaro si è dato alla latitanza, la cui gestione per volere del padre Francesco fu affidata sempre al capomafia di Campobello, Leonardo Bonafede. È stato catturato però solo trent’anni dopo, il 16 gennaio 2023. Ora sappiamo che Matteo Messina Denaro viveva proprio a Campobello, che ha un tumore, che è stato operato già due volte, e che a prescrivergli farmaci ed esami era il medico massone, Alfonso Tumbarello.

CLAUDIA DI PASQUALE Alfonso Tumbarello lei lo conosceva, ovviamente?

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Eh, sì è stato il mio medico fino al nove dicembre, quando poi è andato in pensione.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi era proprio il suo medico.

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Sì sì. Che dire? Io diciamo sono sorpreso quanto voi, ma più di voi perché sono il sindaco di questa città.

CLAUDIA DI PASQUALE Senta ma la moglie di Tumbarello che fa nella vita?

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Era impiegata al comune.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO A ritirare le ricette e a fare da postino tra il medico Alfonso Tumbarello e il super latitante era, secondo l’accusa, Andrea Bonafede, nipote proprio dell'ex boss Leonardo Bonafede, che storicamente si era occupato della latitanza dei Messina Denaro.

CLAUDIA DI PASQUALE Andrea Bonafede era dipendente del comune?

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Sì. Lui si occupava di tutte le manutenzioni, dei servizi, dei servizi idrici a quelli elettrici a quelli manutentivi delle strade. Per noi, per il Comune, Andrea Bonafede era quell’operaio infaticabile, indefesso lavoratore che non si fermava mai, né di notte né di giorno.

CLAUDIA DI PASQUALE Ho trovato delle delibere che riguardano Andrea Bonafede dove gli avete integrato lo stipendio, dandogli mille euro in più al mese.

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Saranno state diciamo delle integrazioni per potere sopperire alla mancanza di personale che noi abbiamo al Comune.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Insomma, ogni tanto gli integravano le ore e quindi lo stipendio. Peccato che l’indefesso dipendente Andrea Bonafede abbia usato proprio l'auto del Comune per incontrare il superlatitante. In questo filmato, ripreso dalle telecamere di videosorveglianza, si vede Matteo Messina Denaro che entra dentro la sua Giulietta, e poi la 600 bianca del Comune con a bordo Andrea Bonafede, che gli si affianca per scambiare due parole, bloccando il traffico.

CLAUDIA DI PASQUALE Come ha appreso la notizia che anche lui era coinvolto, alla fine?

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Questa è stata davvero una mazzata. Come si suol dire.

CLAUDIA DI PASQUALE E voi sapevate comunque che era il nipote del boss?

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Sì, sì, sì assolutamente sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Andrea Bonafede ha un fratello, Emanuele, che è sposato con Lorena Lanceri. L’11 gennaio 2023 Matteo Messina Denaro esce più volte dalla loro casa. Gli orari corrispondono a quelli del pranzo e della cena. A turno marito e moglie controllano la strada. La scena si ripete nei due giorni successivi. Le immagini vengono riprese dalla telecamera installata presso il negozio adiacente alla casa dei coniugi Bonafede-Lanceri. CLAUDIA DI PASQUALE Buongiorno, disturbiamo, siamo di Rai3.

TITOLARE NEGOZIO Noi purtroppo lavoriamo, non sappiamo che dirvi. Se voi rimanete qua a intervistare o a domandare possiamo chiudere e andarcene a casa a morire dalla fame.

CLAUDIA DI PASQUALE No, siccome abitavano qui Andrea Bonafede e Lorena Lanceri.

TITOLARE NEGOZIO Noi siamo degli affittuari dei signori.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè il locale è loro? TITOLARE NEGOZIO Purtroppo sì, e a me dispiace perché per noi sono delle brave persone.

CLAUDIA DI PASQUALE Visto che Matteo Messina Denaro veniva tutti i giorni qui, voi l’avete mai visto?

TITOLARE NEGOZIO Non sappiamo niente.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La vivandiera Lorena Lanceri, moglie di Emanuele Bonafede, per oltre vent'anni ha collaborato con lo studio dell'architetto Stefano Tramonte, che fa parte del Pd Locale e che oggi è assessore ai lavori pubblici del comune di Campobello.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei come ha preso la notizia del suo arresto, del suo coinvolgimento nella gestione della latitanza di Messina Denaro?

STEFANO TRAMONTE – ASSESSORE AI LAVORI PUBBLICI - COMUNE DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Abbiamo provato una forma di tradimento perché sino all’ultimo è venuta qua.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi sapevate ovviamente che il marito era nipote dell'ex capomafia Leonardo Bonafede, immagino?

STEFANO TRAMONTE – ASSESSORE AI LAVORI PUBBLICI - COMUNE DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Sì, certo che lo sapevamo.

CLAUDIA DI PASQUALE E cosa ne pensavate voi di questa cosa?

STEFANO TRAMONTE – ASSESSORE AI LAVORI PUBBLICI - COMUNE DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Che aveva preso un’altra strada.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il marito e fiancheggiatore Emanuele Bonafede d'estate lavorava come cameriere per il ristorante Cibus. Il paradosso è che questo locale si trova all'interno di un immobile confiscato ai familiari di un imprenditore ritenuto vicino agli ambienti mafiosi di Campobello e Castelvetrano. E oggi a gestirlo è il cognato di Emanuele Bonafede.

CLAUDIA DI PASQUALE Il paradosso no? Che un locale che era stato confiscato a un imprenditore ritenuto… GIUSEPPE GABRIELE - RISTORANTE CIBUS Perché lei ritorna il paradosso perché, perché, perché, perché…

CLAUDIA DI PASQUALE Perché è un paradosso.

GIUSEPPE GABRIELE - RISTORANTE CIBUS Mi dà fastidio. Questi pensieri

CLAUDIA DI PASQUALE Lui lavorava qua.

GIUSEPPE GABRIELE - RISTORANTE CIBUS Ma dopo che lavorava qua, ma dopo che lavorava qua, mio cognato è! Perché vi stranizza questa cosa che noi non sappiamo niente, non c’entriamo niente?

CLAUDIA DI PASQUALE Io non ho insinuato che lei sapeva qualcosa però, non ho fatto questa insinuazione.

GIUSEPPE GABRIELE - RISTORANTE CIBUS No, mi dà fastidio questo discorso allora questo locale confiscato

CLAUDIA DI PASQUALE Questo è un dato di fatto.

GIUSEPPE GABRIELE - RISTORANTE CIBUS A me il curatore l'ha dato, il tribunale l'ha dato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel 2017, infatti, l'amministrazione giudiziaria affitta il ristorante alla cooperativa Cibus, amministratrice Franca Lanceri, sorella di Lorena, la vivandiera di Matteo Messina Denaro. Poi però nel 2019 la confisca dell'immobile diventa definitiva e Cibus deve levare le tende. Cosa che non avviene. Alla fine, solo lo scorso dicembre l'agenzia dei beni confiscati assegna il fabbricato al comune di Campobello. E cosa fa il sindaco Castiglione?

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Siccome non possiamo fare assegnazione diretta, abbiamo fatto un bando, una manifestazione pubblica per vedere quanti fossero interessati.

CLAUDIA DI PASQUALE Ed è stato riassegnato a Cibus.

GIUSEPPE CASTIGLIONE- SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) E ha partecipato solo Cibus.

CLAUDIA DI PASQUALE Ha partecipato solo la cooperativa Cibus?

GIUSEPPE GABRIELE - RISTORANTE CIBUS Il comune di Campobello ha fatto un bando pubblico.

CLAUDIA DI PASQUALE Sì.

GIUSEPPE GABRIELE - RISTORANTE CIBUS E io ho partecipato di nuovo

CLAUDIA DI PASQUALE E se l'è, diciamo…

GIUSEPPE GABRIELE - RISTORANTE CIBUS Riaggiudicato.

CLAUDIA DI PASQUALE Riaggiudicato.

GIUSEPPE GABRIELE - RISTORANTE CIBUS È tutto alla luce del sole.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La scadenza per la presentazione delle offerte era il 21 marzo. Eppure la cooperativa Cibus già il giorno prima stava effettuando dei lavori per riaprire il locale.

TELEFONATA - 20 MARZO 2023 CLAUDIA DI PASQUALE Ho visto che siete chiusi. I primi di aprile riapro

GIUSEPPE GABRIELE - RISTORANTE CIBUS CLAUDIA DI PASQUALE Ah ad aprile..

GIUSEPPE GABRIELE - RISTORANTE CIBUS Lo sto sistemando per aprire prima di Pasqua.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Solo dieci giorni dopo questa telefonata, il comune approva l’affidamento del fabbricato confiscato per sei anni alla cooperativa Cibus, amministratrice Franca Lanceri.

CLAUDIA DI PASQUALE Diciamo che l'assegnazione del bene è avvenuta a due settimane dall'arresto di Emanuele Bonafede e Lorena Lanceri.

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Considerato che c'è questa situazione noi abbiamo chiesto, stiamo chiedendo, l'antimafia per tutti i soci e abbiamo scritto pure alla prefettura per sapere cosa dobbiamo fare.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La vivandiera Lorena Lanceri ha scritto invece queste parole a Matteo Messina Denaro: “il bello della mia vita è stato quello di incontrarti facendomi un regalo in gran stile, (…) quel regalo sei tu”.

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Con questi comportamenti, secondo me, fa pensare che non è più lui il reggente. Questo parla di disturbare femmine e di andarci a letto.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè secondo lei è non è più un capomafia?

GIUSEPPE CASTIGLIONE SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Secondo me, ma non può essere ora uno che è ricercato a livello mondiale e decide negli ultimi due anni di mettersi a girare per le vie del paese? Ma che mafioso è? Oggi?

CLAUDIA DI PASQUALE Questo pensiero io lo ritengo molto pericoloso.

GIUSEPPE CASTIGLIONE SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Perché?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel 2020 Matteo Messina Denaro è stato condannato all'ergastolo in primo grado come uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via d'Amelio. Tra gli agenti della scorta di Borsellino morti quel 19 luglio 1992 c'era anche Agostino Catalano. Il caso vuole che il fratello Salvatore abiti proprio a Campobello.

SALVATORE CATALANO – FRATELLO DI AGOSTINO CATALANO Questo è Agostino, Agostino aveva 43 anni, aveva fatto a maggio – il 16 maggio – 43 anni.

CLAUDIA DI PASQUALE Come avete vissuto quel momento, il giorno della strage?

SALVATORE CATALANO - FRATELLO DI AGOSTINO CATALANO A me l’hanno fatto vedere, c’era una bara con un lenzuolo bianco tutto sistemato. E ho visto il profilo di mio fratello, che era riconoscibilissimo, però non c’era altro. Non so se i resti erano suoi o di qualche altro collega.

CLAUDIA DI PASQUALE Come ha vissuto il fatto che Matteo Messina Denaro vivesse proprio qui?

SALVATORE CATALANO - FRATELLO DI AGOSTINO CATALANO A me mi è venuta una rabbia ma rabbia di quella che non potrei nemmeno descriverla… Di vista conoscevo Emanuele Bonafede. Mi ricordo come mi salutava. Sempre rispettoso. Vederlo come fiancheggiatore mi sono sentito ancora più male.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei sapeva che Emanuele Bonafede era pure nipote di Leonardo Bonafede?

SALVATORE CATALANO - FRATELLO DI AGOSTINO CATALANO No. Mio figlio, tra l’altro, ha anche un lido balneare qui a Tre Fontane, e lui frequentava il lido, avevano anche un ombrellone preso.

CLAUDIA DI PASQUALE Nel lido di suo figlio?

SALVATORE CATALANO - FRATELLO DI AGOSTINO CATALANO Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Questo è il lido del figlio di Salvatore Catalano. Si chiama La Loggia e per un caso del tutto fortuito di fronte si trova la strada dove Emanuele Bonafede e Lorena Lanceri avevano la casa al mare. Non solo. Da giorni si rincorre la voce che questa estate i due fiancheggiatori portassero Matteo Messina Denaro in spiaggia annunciandolo come "il dottore".

CLAUDIA DI PASQUALE Ma lei vorrebbe parlare con Matteo Messina Denaro? Avrebbe qualcosa da chiedergli? SALVATORE CATALANO - FRATELLO DI AGOSTINO CATALANO Se realmente questa agenda rossa ce l’hai tu, parla, dì qualche cosa. Realmente cosa è successo nel ‘92. Chi erano i politici, chi erano i magistrati collusi, chi erano le forze dell’ordine che ti hanno dato l’input per potere fare queste cose? Perché senza di loro non avrebbero potuto fare tutto quello che hanno fatto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Matteo Messina Denaro è imputato a Caltanissetta quale mandante delle stragi di via D’Amelio e di Capaci. È stato condannato in primo grado all’ergastolo ma a marzo, durante l’udienza del processo di appello, ha rinunciato a comparire. Ma non è il primo ergastolo sulle spalle del boss: è stato condannato anche per le stragi, per gli attentati del ’93 a Roma, Firenze e Milano; per il maxiprocesso alla mafia trapanese e poi per la sanguinaria faida di Alcamo. Inoltre, per il rapimento e l’omicidio del piccolo Di Matteo, il cui corpicino poi è stato sciolto nell’acido. Ma il primo ergastolo l’ha avuto perché è stato accusato di essere il mandante dell’omicidio di un agente carcerario. Ora, Matteo Messina Denaro è latitante dal 1993. Tutto quello che sta emergendo dopo la sua cattura “mette in luce l’incredibile e inspiegabile insuccesso di anni ed anni di ricerche”. Ecco, non lo diciamo noi, lo scrive il gip Alfredo Montalto che è quello che sta firmando tutte le ordinanze di custodia cautelare che riguardano i favoreggiatori. Il primo, tra i primi c’è stato proprio il medico massone Tumbarello. Tumbarello era noto, l’abbiamo mostrato noi di Report un documento, era noto già dal 2012 che fosse il tramite per arrivare a Matteo Messina Denaro. L’aveva dichiarato in un’udienza pubblica l’ex sindaco di Castelvetrano Vaccarino, che aveva detto che dal 2001 il Sisde di Mario Mori, ex colonnello del Ros, l’aveva incaricato di creare un link con il capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. Ecco, Tumbarello era anche il medico di Castiglione, l’abbiamo sentito. A ritirare le ricette per Matteo Messina Denaro, e faceva anche da postino, c’era Andrea Bonafede classe 1969, impiegato comunale tuttofare dallo stipendio incrementato. Lo abbiamo visto girare con la macchina del Comune e fermarsi tranquillamente a parlare con il superlatitante in mezzo alla strada. Poi c’era il fratello, c’è il fratello, Emanuele Bonafede che, con la moglie Lanceri, aveva ospitato Matteo Messina Denaro ore pasti e poi andava a fare il cameriere nel ristorante Cibus, ristorante che è dentro un immobile confiscato alla criminalità organizzata e che è gestito dalla sorella della moglie. Poi, gira e rigira, dopo un bando comunale è stato riassegnato un’altra volta alla cognata di Bonafede. Poi c’è Laura Bonafede, figlia del boss Leonardo, del capomafia di Campobello di Mazara: il suo nome era emerso alle autorità giudiziarie proprio in un’inchiesta che aveva portato all’arresto del padre. Tuttavia, questo non le ha impedito di avere un ruolo fondamentale nella gestione della latitanza di Matteo Messina Denaro. L’ha conosciuto nel 1996 e per dieci lunghi anni, dal 2007 al 2017, ha avuto con lui un rapporto stabile di natura familiare. Ecco, e con loro c’era anche la figlia Martina.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Martina Gentile è la nipote diretta dell’ex capomafia di Campobello Leonardo Bonafede, fino a poche settimane sul suo profilo fb c’era la foto del padrino. La madre è Laura Bonafede, figlia dell’ex boss, mentre il padre è Salvatore Gentile.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi è Salvatore Gentile?

RINO GIACALONE – GIORNALISTA “LA STAMPA” Un ergastolano, un killer di mafia, faceva parte della cerchia degli amici più intimi di Matteo Messina Denaro.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In questa lettera Matteo Messina Denaro ha descritto Martina Gentile come una figlia, il suo alter ego al femminile. Lei, la madre Laura Bonafede e il superlatitante avrebbero avuto un rapporto stabile di tipo familiare dal 2007 al 2017. Poi la giovane si è laureata e ha fatto un tirocinio presso lo studio di architettura dell'attuale assessore ai lavori pubblici Stefano Tramonte, con cui aveva collaborato per oltre 20 anni anche Lorena Lanceri, la vivandiera di Matteo Messina Denaro.

CLAUDIA DI PASQUALE Martina Gentile per quanto tempo ha fatto il tirocinio?

STEFANO TRAMONTE – ASSESSORE AI LAVORI PUBBLICI – COMUNE DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Sei mesi.

CLAUDIA DI PASQUALE E cos’è che ha fatto in quei sei mesi?

STEFANO TRAMONTE – ASSESSORE AI LAVORI PUBBLICI – COMUNE DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Ha fatto la sanatoria della propria casa a Tre Fontane, l’ha definita.

CLAUDIA DI PASQUALE Non so se lo sa, ma proprio la pratica di sanatoria della casa di Tre Fontane è nella relazione del 2009, che ha portato allo scioglimento per mafia del comune.

STEFANO TRAMONTE – ASSESSORE AI LAVORI PUBBLICI – COMUNE DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) No, questo non lo sapevo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La domanda di sanatoria della casa di Tre Fontane, in origine, è stata presentata dal padre, Salvatore Gentile, poi condannato per mafia. Il comune prima l’aveva respinta ordinando nel ‘98 la demolizione dell’immobile, salvo poi otto anni dopo revocare l'ordine di demolizione senza fare alcuna istruttoria. Per questo la pratica è finita nella relazione del 2009. Una volta che la tiriamo fuori l'assessore cambia versione e nega che durante il tirocinio Martina Gentile abbia definito la sanatoria della sua casa.

STEFANO TRAMONTE – ASSESSORE AI LAVORI PUBBLICI – COMUNE DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Era già concessionata.

CLAUDIA DI PASQUALE C’era già la concessione.

STEFANO TRAMONTE – ASSESSORE AI LAVORI PUBBLICI – COMUNE DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Quando lei è venuta qua si era occupata di una manutenzione, di una ristrutturazione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Chiediamo dunque all’assessore di andare insieme al Comune per verificare i tempi esatti della sanatoria. E alla fine emerge che la prima risposta era quella giusta.

CLAUDIA DI PASQUALE Possiamo dire quindi che Martina Gentile durante il tirocinio ha completato, come lei mi aveva detto in effetti in prima battuta, la pratica di sanatoria.

STEFANO TRAMONTE – ASSESSORE AI LAVORI PUBBLICI – COMUNE DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Sì sì ha completato la sua pratica.

CLAUDIA DI PASQUALE Con la copertura del suo ufficio, del suo studio.

STEFANO TRAMONTE – ASSESSORE AI LAVORI PUBBLICI – COMUNE DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Che copertura gli devo dare io?

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi la sanatoria le viene concessa di fatto, il documento proprio ufficiale, dopo questo tirocinio?

STEFANO TRAMONTE – ASSESSORE AI LAVORI PUBBLICI – COMUNE DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Sì, forse, penso dopo il tirocinio, ma non capisco l’attinenza…

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Martina Gentile oggi è indagata per favoreggiamento. Il suo nome però compariva già nelle carte dell'inchiesta della magistratura Campus Belli, che ha travolto il comune di Campobello nel 2011. In questo caso lei non era indagata ma citata in quanto da minorenne avrebbe inviato al padre in carcere, tramite la sua corrispondenza, i messaggi di un sodale del gruppo Bonafede.

RINO GIACALONE – GIORNALISTA “LA STAMPA” Campus Belli racconta, fa i nomi e cognomi di persone, che oggi sono al centro delle indagini sulla latitanza di Messina Denaro in quel paese, a cominciare dal nome di Leonardo Bonafede.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO L'inchiesta Campus Belli nasce da alcune intercettazioni, risalenti al 2005, in cui si faceva riferimento anche alla figlia di Nardo Bonafede, Laura, in quanto sarebbe stata lei a indicare i soggetti da far lavorare a Campobello mentre il padre era detenuto. Lui però fu poi scarcerato e questa pista non fu più seguita. E così solo oggi a distanza di anni emerge che Laura Bonafede e Matteo Messina Denaro si incontrassero addirittura al supermercato.

CLAUDIA DI PASQUALE Salve signora Bonafede, mi volevo presentare sono Di Pasquale Claudia di Report, noi volevamo chiederle una intervista per capire la sua posizione rispetto agli ultimi fatti.

TG2 DEL 13/04/2023 – CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Laura Bonafede è accusa di aver favorito e protetto la latitanza del boss.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Alla fine, Laura Bonafede è stata arrestata per favoreggiamento lo scorso 13 aprile. Eppure, già nel 2021, era stata raggiunta da un decreto di perquisizione ma per tutti era rimasta la maestra d'asilo della scuola Capuana Pardo di Castelvetrano.

VANIA STALLONE – DIRIGENTE ISTITUTO COMPRENSIVO CAPUANA - PARDO DI CASTELVETRANO (TP) Ma la signora si presentava, anche di fronte diciamo, al contesto dove lavorava quasi come una vittima.

CLAUDIA DI PASQUALE Vittima di cosa?

VANIA STALLONE – DIRIGENTE ISTITUTO COMPRENSIVO CAPUANA - PARDO DI CASTELVETRANO (TP) Vittima della sua famiglia.

CLAUDIA DI PASQUALE Vittima della sua famiglia o dello Stato che aveva messo in carcere il marito e prima il padre?

VANIA STALLONE – DIRIGENTE ISTITUTO COMPRENSIVO CAPUANA - PARDO DI CASTELVETRANO (TP) Guardi io queste cose non gliele so dire…

CLAUDIA DI PASQUALE Voi sapevate comunque che era la figlia del capomafia Leonardo Bonafede?

VANIA STALLONE – DIRIGENTE ISTITUTO COMPRENSIVO CAPUANA - PARDO DI CASTELVETRANO (TP) Certo, era la figlia del capomafia, era la moglie di….

CLAUDIA DI PASQUALE Era la moglie di Salvatore Gentile, ergastolano.

VANIA STALLONE – DIRIGENTE ISTITUTO COMPRENSIVO CAPUANA - PARDO DI CASTELVETRANO (TP) Era la mamma di… Sì, sapevamo tutto.

CLAUDIA DI PASQUALE Mi chiedo cosa diceva il 23 maggio anniversario della strage di Capaci ai bambini?

VANIA STALLONE – DIRIGENTE ISTITUTO COMPRENSIVO CAPUANA - PARDO DI CASTELVETRANO (TP) Signora, preferisco chiudere l’intervista perché andiamo su una situazione in cui io non intendo né difendere la signora e nemmeno dire che qui non si fa legalità.

CLAUDIA DI PASQUALE La sensazione che si dà all’esterno è che tutti cadete dal pero.

VANIA STALLONE – DIRIGENTE ISTITUTO COMPRENSIVO CAPUANA - PARDO DI CASTELVETRANO (TP) Lei l’avrebbe riconosciuto a Messina Denaro?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Alla luce dell'indagine Laura Bonafede è stata sospesa dalla scuola. Contro di lei si è subito schierato l'assessore regionale all'istruzione, Mimmo Turano.

MIMMO TURANO – ASSESSORE ALL’ISTRUZIONE - REGIONE SICILIANA Questa vicenda che porta ad una contaminazione fra il mondo dell’istruzione e della scuola, dunque della formazione dei giovani, e la mafia è assolutamente incompatibile per il mio modo di vedere le cose.

CLAUDIA DI PASQUALE Già nel 2021, a settembre del 2021, Laura Bonafede aveva ricevuto un decreto di perquisizione.

MIMMO TURANO – ASSESSORE ALL’ISTRUZIONE - REGIONE SICILIANA È la prima volta che la sento questa cosa.

CLAUDIA DI PASQUALE E’ uscita anche sui giornali.

MIMMO TURANO – ASSESSORE ALL’ISTRUZIONE - REGIONE SICILIANA Rimango basito vuol dire già aveva destato sospetto.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nessuna parola è stata spesa invece dall’ assessore, così come da altri politici, lo scorso dicembre per la condanna in via definitiva, per concorso esterno in associazione mafiosa, dell'ex senatore Antonio D'Alì, processato anche per i suoi legami con i Messina Denaro. Francesco Messina Denaro, padre di Matteo, era infatti il campiere dei terreni della famiglia d'Alì.

MIMMO TURANO – ASSESSORE ALL’ISTRUZIONE - REGIONE SICILIANA Io non commento le sentenze. Le sentenze si appellano e quando diventano definitive si eseguono.

CLAUDIA DI PASQUALE E lei lo conosce Antonio d’Alì?

MIMMO TURANO – ASSESSORE ALL’ISTRUZIONE - REGIONE SICILIANA Come no… Però io non mi sottraggo alle domande che lei vuole fare, ma abbiamo chiuso l’argomento della signora Bonafede?

CLAUDIA DI PASQUALE Per me sì.

MIMMO TURANO – ASSESSORE ALL’ISTRUZIONE - REGIONE SICILIANA E allora per me è finita l’intervista.

CLAUDIA DI PASQUALE Le ha dato fastidio che le ho fatto la domanda su D’Alì?

MIMMO TURANO – ASSESSORE ALL’ISTRUZIONE - REGIONE SICILIANA Assolutamente no. Mi ha detto lo conosce e infatti le ho risposto.

CLAUDIA DI PASQUALE E io le sto chiedendo, perché voi che fate politica non avete detto nulla rispetto alla condanna di Antonio d’Alì, ex senatore, fondatore di Forza Italia…

MIMMO TURANO – ASSESSORE ALL’ISTRUZIONE - REGIONE SICILIANA Sì, è stato condannato…

CLAUDIA DI PASQUALE Mi sembra corretto visto che lei mi ha fatto ora un bellissimo discorso sul fatto che la mafia è incompatibile con le istituzioni.

MIMMO TURANO – ASSESSORE ALL’ISTRUZIONE - REGIONE SICILIANA Uhm. Ho già risposto, cosa vuole che le aggiunga?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La mafia è incompatibile con le istituzioni tranne però che a Campobello, una città come, un po’ come a Macondo, la città immaginaria creata dalla penna magica di Garcia Marquez, tutto ruota attorno a una dinastia che non fa capo a José Arcadio Buendía ma al boss storico Leonardo Bonafede, che aveva preso a cura la latitanza a partire dagli anni ‘70 dei capi di Cosa Nostra - Totò Riina, Bernardo Provenzano – poi Ciccio Messina Denaro e il figlio Matteo, il quale ha anche un rapporto consolidato con la figlia del boss, Laura Bonafede. Nonostante il nome di Laura Bonafede fosse emerso in un’inchiesta del 2005 che aveva portato poi all’arresto del padre. E c’era anche un’intercettazione nella quale emergeva il fatto che Laura Bonafede avrebbe di fatto poi gestito gli affari della famiglia mafiosa durante gli arresti del padre. Tuttavia, per tutti era una semplice maestra d’asilo. Poi c’era la figlia Martina, anche lei nota agli uffici giudiziari. Il suo nome era entrato nell’inchiesta Campus Belli. Non indagata, da minorenne consegnava i pizzini che gli venivano consegnati da un mafioso destinati al padre, il killer Salvatore Gentile, all’ergastolo poiché coinvolto in omicidi commissionati proprio da Matteo Messina Denaro. Ecco, come tutto questo possa essere accaduto è un mistero. è “inspiegabile”, scrive il gip Montalto, " e non privo di conseguenze". Anche alla luce del fatto che c’è una relazione riservata del 2009 che ha portato alla chiusura, allo scioglimento per mafia del comune di Campobello di Mazara nel 2012. All’epoca l’attuale sindaco era a capo del consiglio comunale. Bene, una commissione ha avuto accesso al Comune: era composta da un viceprefetto, da un capitano dei carabinieri, da un commissario di polizia e da un capitano della Guardia di finanza. Hanno fatto la radiografia dei politici, dei loro parenti, dei dipendenti comunali, dei mafiosi, di come girano gli appalti nel Comune di Campobello di Mazara. Ecco, quella relazione è rimasta chiusa in un cassetto del ministero dell’Interno. Dentro c’erano i nomi dei favoreggiatori, quasi tutti, della latitanza di Matteo Messina Denaro. C’era anche il nome di Andrea Bonafede, classe 1963, colui che ha ceduto la propria identità, carta d’identità e la tessera sanitaria al superlatitante. Ora, poi noi abbiamo aggiunto anche qualche tassello perché, dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, sono arrivate in redazione delle segnalazioni scritte da alcuni imprenditori.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il carnevale è per antonomasia la festa dell'allegria. Nel 2019 però a Vita, un piccolo comune del trapanese, lo scherzo si è trasformato in minaccia per il presidente l'associazione Belice Soccorso Onlus, che aveva il compito di gestire a bordo di un'ambulanza il presidio sanitario dell'evento. EX PRESIDENTE BELICE SOCCORSO ONLUS Alla fine della manifestazione ho subìto una aggressione. E il tentativo di furto del mezzo di soccorso.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma una aggressione di che tipo?

EX PRESIDENTE BELICE SOCCORSO ONLUS Ci siamo fermati con questa collega per prendere un caffè all’interno di un bar. Lì abbiamo trovato quattro individui che pretendevano che io consegnassi le chiavi dell’ambulanza: al mio diniego praticamente sono stato colpito da queste quattro persone, aggredito, calci, pugni schiaffi.

CLAUDIA DI PASQUALE Una volta che voi vi siete barricati dentro il bar è successo qualcos’altro?

EX PRESIDENTE BELICE SOCCORSO ONLUS Sentivamo dall’esterno che loro prendevano a calci l’ambulanza, cercavano di forzarla.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Oggi i quattro aggressori sono a processo con l'aggravante di avere agito al fine di agevolare Cosa nostra.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa ha fatto lei dopo?

EX PRESIDENTE BELICE SOCCORSO ONLUS Sono stato costretto ad andare via, sono quattro anni che non torno in Sicilia.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma nessuno ha provato a dirle qualcosa?

EX PRESIDENTE BELICE SOCCORSO ONLUS Qualcuno mi ha detto a chi io avessi chiesto il permesso per aprire questa associazione. Poi un’altra cosa che mi fu detta: ma tu credi che ti permettevano di andare a casa della gente con la tua associazione a vedere quello che succede?

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quello che l’imprenditore picchiato non poteva immaginare è che alla fine degli anni ’90, a Campobello, era stata creata un'associazione con lo stesso nome, Belice Soccorso Onlus, finita dentro la relazione che aveva portato, nel 2012, allo scioglimento per mafia del comune. Dentro c'erano infatti più nipoti dello storico boss Leonardo Bonafede. E in poco più di due anni aveva ricevuto oltre 400mila euro di appalti dal comune.

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Conosco la Belice Soccorso perché era una associazione di volontari per assistenza sanitaria e quant’altro.

CLAUDIA DI PASQUALE Quando il comune viene sciolto per mafia, lei che faceva?

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Il presidente del consiglio.

CLAUDIA DI PASQUALE E qual era il problema? Che dentro – fra i soci fondatori - c’erano i nipoti di Bonafede fra cui Andrea Bonafede del 1963, quello che ha dato la carta d’identità.

GIUSEPPE CASTIGLIONE – SINDACO DI CAMPOBELLO DI MAZARA Quello del prestanome. Questi fatti così precisi che lei è andata a cercare non li conosco ma Andrea Bonafede del ‘63 - dico - oggi sta uscendo fuori che è una persona poco di buono eventualmente non prima.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Andrea Bonafede, classe 1963, è stato il primo nipote dell’ex capomafia Leonardo ad essere arrestato per favoreggiamento. È stato lui, infatti, a cedere la sua carta d’identità a Matteo Messina Denaro. E a comprare per suo conto la casa in vicolo San Vito usata come ultimo covo.

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE Andrea Bonafede è stato un collaboratore mio, per diversi anni, quello che lei gli diceva di fare, si è rotto un lampadario, si è rotto un tubo d’acqua, aveva le mani d’oro.

CLAUDIA DI PASQUALE E lei come ha appreso la notizia del suo arresto?

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE Ho sprofondato.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Fano Napoli è il gestore tecnico della Evergreen dove lavorava prima del suo arresto Andrea Bonafede.

CLAUDIA DI PASQUALE Cos’è l’Evergreen esattamente?

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE È una società di servizi che si occupa di trasporti conto terzi e di servizi di rifiuti.

CLAUDIA DI PASQUALE Che tipo di rifiuti trattate?

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE Tutti i tipi di rifiuti. Anche le televisioni che mi stanno pubblicando.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La sede legale della Evergreen è in provincia di Bologna a Bentivoglio. Fuori c'è l'insegna di un B&B con tanto di cellulare. Chiamiamo, ma non risponde nessuno. Pochi minuti dopo arriva qualcuno. CLAUDIA DI PASQUALE Salve, ci stiamo occupando dell'Evergreen, visto che diciamo Andrea Bonafede era dipendente, no? Com'è che la sede dell'Evergreen sta qui a Bentivoglio, in provincia di Bologna?

ANDREA ACCARDI –IMPRENDITORE Avete un numero.

CLAUDIA DI PASQUALE Sì.

ANDREA ACCARDI - IMPRENDITORE Del nostro legale.

CLAUDIA DI PASQUALE Sì.

ANDREA ACCARDI - IMPRENDITORE Se non ce l’ha glielo do.

CLAUDIA DI PASQUALE Sì. Ce l'ho.

ANDREA ACCARDI - IMPRENDITORE Lo chiami.

CLAUDIA DI PASQUALE Lei, è Andrea Accardi.

ANDREA ACCARDI - IMPRENDITORE E si faccia dare tutte le risposte che vuole.

CLAUDIA DI PASQUALE Noi vogliamo comprendere meglio i suoi rapporti anche con Fano Napoli. Cerchiamo di ricostruire un po’ di vicende.

CLAUDIA DI PASQUALE L’evergreen ha sede a Bentivoglio dove c’è in effettivamente fisicamente questo Andrea Accardi.

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE Perché logicamente avendo sempre problemi con le banche per motivi di protesti, abbiamo cercato di creare questa sede a Bologna che c’erano le uniche banche che ci aprivano i conti erano sull’Emilia – Romagna.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO In passato la magistratura ha ritenuto Fano Napoli il socio occulto di un'altra società, la cooperativa Il Faro, che negli anni ‘90 ha realizzato questo albergo a Tre Fontane. A fargli da prestanome sarebbe stato proprio Andrea Accardi.

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE Non è mai stato un prestanome mio, ma è stato sempre un socio mio di minoranza. Io sono stato a tipo il mediatore… di far fare questa combinazione.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Quel che è certo è che tra i principali soci e finanziatori della cooperativa il Faro, che ha realizzato l’albergo, c’era Giovanni Stallone, da vent’anni vive in Emilia - Romagna ed è il cognato di Andrea Bonafede, quello che ha prestato la sua carta d’identità al superlatitante e che in passato ha lavorato proprio per la cooperativa il Faro.

GIOVANNI STALLONE – EX IMPRENDITORE - COGNATO DI ANDREA BONAFEDE Quando abbiamo iniziato i lavori l’ho assunto io in qualità di direttore della cooperativa per fare il direttore di cantiere.

CLAUDIA DI PASQUALE Voi come avete vissuto il fatto che Andrea Bonafede, cioè suo cognato, si è trovato coinvolto in tutta questa storia di Matteo Messina Denaro, che gli ha prestato la carta d’identità, che gli ha comprato la casa…

GIOVANNI STALLONE – EX IMPRENDITORE - COGNATO DI ANDREA BONAFEDE Sin dal primo giorno mia moglie era incredula e diceva a tutte le colleghe, “è mio fratello ma non ci credo”, e siamo convinti ancora dell'errore. In base alle dichiarazioni…

CLAUDIA DI PASQUALE Non sembra diciamo essere un errore, ha ammesso lui stesso di avere comprato lui la casa.

GIOVANNI STALLONE – EX IMPRENDITORE - COGNATO DI ANDREA BONAFEDE In base alle dichiarazioni che ha fatto lui siamo ancora più a sentirci ancora più male.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Andrea Bonafede ha poi lavorato per questo parco acquatico realizzato davanti all’albergo da un'altra società, l'Acquasplash srl. A questo investimento ha partecipato ancora una volta suo cognato Giovanni Stallone insieme a Fano Napoli.

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE Acquasplash viene da una mia pazzia.

CLAUDIA DI PASQUALE Cosa faceva Andrea Bonafede per l’Acquasplash?

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE L’Acquasplash era un manutentore, si occupava delle piscine, di tutte queste cose.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Nel 2001 Giovanni Stallone e Fano Napoli insieme ad altri sono finiti agli arresti con l’accusa di avere riciclato nel parco acquatico e nell’albergo i proventi di una rapina miliardaria in Svizzera.

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE Con un’accusa che noi i soldi di Basilea, dentro una lavatrice, con i nostri camion li portiamo a Campobello di Mazara.

CLAUDIA DI PASQUALE E vi arrestano con l’accusa di riciclaggio, insomma?

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE Riciclaggio, perfetto, brava.

CLAUDIA DI PASQUALE I proventi di questa rapina.

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE Riciclaggio, 14 anni.

GIOVANNI STALLONE – IMPRENDITORE - COGNATO DI ANDREA BONAFEDE Tutti assolti per non aver commesso nessun fatto, tranne un reato che è caduto in amnistia.

CLAUDIA DI PASQUALE In prescrizione.

GIOVANNI STALLONE – IMPRENDITORE - COGNATO DI ANDREA BONAFEDE In prescrizione, scusi.

CLAUDIA DI PASQUALE Il reato che è andato prescritto non è da poco. Loro calcolano esattamente tipo 4,4 miliardi di lire di false fatture e dicono Giovanni Stallone ha anche ammesso...

GIOVANNI STALLONE – IMPRENDITORE - COGNATO DI ANDREA BONAFEDE L'unico illecito commesso è stato questo: falsa fatturazione per ottenere un falso rimborso di credito Iva.

CLAUDIA DI PASQUALE Nella sentenza si dice: è andato in prescrizione però quello che si configura è un reato di truffa aggravata. GIOVANNI STALLONE – IMPRENDITORE - COGNATO DI ANDREA BONAFEDE Ma se poi c’è stato il condono e il condono ha sanato tutto!

CLAUDIA DI PASQUALE E certo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO La magistratura non è riuscita a provare che i soldi provenissero dalla rapina di Basilea, ma non è riuscita neanche a ricostruire l’origine di tutti i flussi finanziari, e ha rilevato tutta una serie di versamenti anomali di poco inferiori a 20 milioni di lire per eludere la normativa sulla trasparenza bancaria.

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE Il direttore della banca un giorno mi chiama e mi dice: Napoli, io le devo dire che ci dobbiamo calmare perché lei è capace a creare moneta fittizia. Perché noi che facevamo? Prendevamo 20 milioni di assegno, possibilmente andavamo a Bologna o a Partanna, alle banche, cambiavamo quei 20 milioni e li portavamo alla cassa di risparmio. Ma il gioco era sempre 20 milioni!

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Il risultato è che durante gli anni del processo, il parco acquatico di Tre Fontane è finito sotto amministrazione giudiziaria, ma Andrea Bonafede non ha mai smesso di lavorarci.

CLAUDIA DI PASQUALE Quindi anche l’amministrazione giudiziaria si fidava di questo Andrea Bonafede?

EPIFANIO NAPOLI – IMPRENDITORE Sì, sì.. minchia, è stato a tipo Rivera nel Milan negli anni ’60, con la fascia di capitano. Ora dice che è diventato delinquente, come i giudici non lo sapevano? I tribunali? che questo era lì, nominato, è tutt’ora nominato dal tribunale.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Andrea Bonafede è stato, infatti, nominato custode del parco acquatico dal curatore fallimentare della nuova società, che lo gestiva, la New Acquasplash srl, fallita nel 2021 e finita sotto la lente della Dia per una presunta bancarotta fraudolenta. Secondo le indagini ancora in corso, l’amministratrice della società era solo un fantoccio, si chiama Rosa Leone ed è l’ex fidanzata proprio di Andrea Bonafede.

CLAUDIA DI PASQUALE Salve, buongiorno, cercavamo Rosa.

MADRE DI ROSA LEONE Mia figlia non c’è per ora qui. È fuori.

CLAUDIA DI PASQUALE Io so che Rosa era la ex fidanzata di Andrea Bonafede.

MADRE DI ROSA LEONE Sì, ma si sono lasciati, non è che…

CLAUDIA DI PASQUALE Dopo… che è stato arrestato.

MADRE DI ROSA LEONE Dopo. Sì, sì.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma voi ve l’aspettavate?

MADRE DI ROSA LEONE No, siamo mezzi morti.

CLAUDIA DI PASQUALE Ma la New Acquasplash cioè sua figlia l’amministrava veramente o Andrea Bonafede gli aveva chiesto mettiti qui a fare l’amministratrice mi serve questa roba qui.

MADRE DI ROSA LEONE Non lo so. Ha consumato mia figlia. Non lo so.

CLAUDIA DI PASQUALE Non lo sa. Ma sua figlia che lavoro faceva?

MADRE DI ROSA LEONE Mia figlia faceva pulizie dalle persone, se mia figlia aveva soldi non è che se ne andava a fare le pulizie dalle persone. Vergogna, lo prenderei e lo sbatterei al muro.

CLAUDIA DI PASQUALE Ad Andrea Bonafede?

MADRE DI ROSA LEONE Certo.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Accanto all’Acquasplash un altro imprenditore ha provato a costruire delle strutture turistiche ma senza successo, si chiama Vito Quinci e nel 2010 ha denunciato due ex consiglieri comunali che gli avevano chiesto una mazzetta di circa 20mila euro per realizzare un residence con 18 villette bifamiliari.

VITO QUINCI – IMPRENDITORE Ho denunciato che queste persone mi stavano chiedendo una tangente e che non mi lasciavano completamente lavorare perché il cantiere era fermo. La guardia di finanza fa il blitz, li arrestano con gli assegni in mano.

CLAUDIA DI PASQUALE Di fatto sono stati condannati alla fine questi due ex consiglieri comunali?

VITO QUINCI – IMPRENDITORE Questi due ex consiglieri sono stati condannati.

CLAUDIA DI PASQUALE Il comune gliel’ha approvata alla fine la trasformazione?

VITO QUINCI – IMPRENDITORE No, non mi ha approvato niente. Perché io sono il nemico numero uno, io ero l’infame che ha denunciato delle persone innocenti. Ora mi ritrovo con una lottizzazione che non posso dare l’abitabilità a chi ho venduto.

CLAUDIA DI PASQUALE Di fatto alla fine la società che ha realizzato queste villette?

VITO QUINCI – IMPRENDITORE È dichiarata fallita.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO All’inizio degli anni 2000 Vito Quinci ha acquistato un altro terreno sul litorale di Tre Fontane, dove realizzare una grande struttura alberghiera rimasta ancora oggi incompiuta. Nel corso dei lavori gli hanno imposto dove comprare il calcestruzzo e ha subito anche diversi danneggiamenti. Per cui per diversi anni è stato sotto protezione.

VITO QUINCI – IMPRENDITORE Nel frattempo, avevo: il contatore che me l’avevano bruciato, altri furti dei fili della corrente. Lì avevo una casa e quindi me la sono trovata tutta aperta. E tutti i mobili rotti.

CLAUDIA DI PASQUALE Le hanno imposto altro?

VITO QUINCI – IMPRENDITORE È venuto un altro personaggio che si chiama Giuseppe Grigoli, è stato condannato perché uomo vicino a Matteo Messina Denaro. Mi dice, senti: a te ti è venuto a trovare Luca Bellomo. Luca Bellomo, sì, mi ha fatto una proposta dei mobili. Tu sai chi è Bellomo? Luca Bellomo è il nipote di Messina Denaro.

CLAUDIA DI PASQUALE Nipote acquisito.

VITO QUINCI – IMPRENDITORE Nipote acquisito. E Matteo Messina Denaro ti manda a dire di comprare tutto quello che Bellomo ti offre.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Alla fine, Quinci non ha comprato nulla visto che i lavori si sono interrotti. Eppure, nel 2010 ha denunciato di avere pagato un’altra tangente di circa 30mila euro per ottenere l’avallo del consiglio comunale proprio per realizzare questa struttura alberghiera. A chiedergli questi soldi sarebbe stato l’ex sindaco di Campobello, Ciro Caravà, deceduto nel 2017 prima della fine del processo.

CLAUDIA DI PASQUALE Caravà viene condannato in primo grado, poi che succede?

VITO QUINCI – IMPRENDITORE Nel frattempo, andavamo nel secondo grado, si presenta un signore che si chiama Marcianò Giuseppe.

CLAUDIA DI PASQUALE Chi è Marcianò Giuseppe?

VITO QUINCI – IMPRENDITORE Marciano Giuseppe è genero del boss di Mazara del Vallo, di Pino Burzotta.

CLAUDIA DI PASQUALE FUORI CAMPO Giuseppe Marcianò ha chiesto allora a Vito Quinci di ritirare le sue denunce, ma soprattutto gli ha fatto questa rivelazione sconvolgente.

VITO QUINCI – IMPRENDITORE Lui mi ritorna dopo un mese circa, qualcosa del genere, molto impaurito: che Giuseppe che problemi ci sono? Io mi voglio costituire. Perché costituire? Perché a casa mia ogni mattina si fanno delle riunioni, Matteo Messina Denaro, tutti i boss, perché lì c’era il problema di eleggere i nuovi boss.

CLAUDIA DI PASQUALE Cioè non ho capito, Marcianò le ha raccontato che nel 2017 avvenivano dei summit a casa sua? VITO QUINCI Sì.

CLAUDIA DI PASQUALE E chi c’era? VITO QUINCI – IMPRENDITORE Matteo Messina Denaro, c’erano gli Spezia, c’erano i Bonafede, non so se erano gli eredi. Ora, dice, io sono in grado di fare arrestare a tutti. Per fare arrestare a tutti, cosa facciamo, mi dice, io divento collaboratore di giustizia, prima di diventare collaboratore di giustizia gli faccio mettere le cimici, le telecamere a casa mia, sotto l’albero dove avvengono le riunioni, loro prendono a tutti e a me mi devono arrestare. Agli occhi di tutti non doveva essere il collaboratore, ma deve diventare…

CLAUDIA DI PASQUALE Doveva essere l’arrestato…

VITO QUINCI – IMPRENDITORE L’arrestato.

CLAUDIA DI PASQUALE E pochi giorni dopo cosa succede?

VITO QUINCI – IMPRENDITORE Lo ammazzano.

CLAUDIA DI PASQUALE A Marcianò.

VITO QUINCI – IMPRENDITORE Marcianò. Gli sparano in testa.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’omicidio di Marcianò, avvenuto nel luglio del 2017, è ancora oggi rimasto senza colpevoli. Se è vero quello che dice Quinci, è servito però ad evitare l’arresto precoce di Matteo Messina Denaro, che si sarebbe riunito in alcuni summit proprio in quella zona di Campobello, a Tre Fontane. Ecco, questo Quinci ce l’ha detto a febbraio scorso e a marzo, un mese dopo, sono emerse dopo l’arresto le prove della sua presenza. Nel 2017 Matteo Messina Denaro avrebbe regalato un rolex da oltre 6 mila euro al figlio di Emanuele Bonafede e Lorena Lanceri per la sua cresima. Poi è emerso il rapporto con Laura Bonafede, figlia del boss Leonardo, dal 2007 al 2017. Infine, nel 2019 un imprenditore, presidente di un’associazione – la Belice soccorso onlus, che doveva occuparsi di un primo intervento durante la festa di carnevale in quelle zone – è stato aggredito perché, secondo qualcuno, non aveva l’autorizzazione a operare in quelle zone, non aveva cioè l’autorizzazione a ficcare il naso nelle abitazioni dei cittadini qualora avessero bisogno di soccorso. L’imprenditore non poteva sapere che, già a partire dagli anni ‘90, in quella zona operava un’omonima associazione, sempre dedita al soccorso, che era stata però fondata anche dai nipoti Bonafede, tra cui Andrea Bonafede classe 1963, che ritroveremo anche come dipendente negli investimenti del cognato Giovanni Stallone e dell’imprenditore Fano Napoli. Entrambi sono stati coinvolti nel 2001 da un’inchiesta giudiziaria per fatture inesistenti per miliardi di lire e poi anche per operazioni contabili, insomma, un po’ particolari, creative e che erano finalizzate a drenare denaro pubblico. Ecco, tutto prescritto: le società oramai sono fallite; l’albergo è stato venduto; il parco acquatico è al centro di un’indagine per bancarotta fraudolenta. Bene. E invece Andrea Bonafede nonostante tutto, come ha detto Fano Napoli, è stato sempre là, come Rivera nel Milan degli anni ‘60, con la fascia da capitano. Lo abbiamo trovato come manutentore della piscina, nella biglietteria ma anche come custode, incaricato proprio dal curatore fallimentare del tribunale. Ecco, come è stato possibile tutto questo? Grazie alla cecità e all’indifferenza dell’autorità giudiziaria e delle forze dell’ordine. E poi lo spessore di Matteo Messina Denaro, è quello che emerge dalle lettere ritrovate dopo il suo arresto, quelle lettere d’amore che lo dipingono come un “femminaro” che suscita gelosie e che dispensa vocali sul problema del traffico a Palermo o sulla geopolitica? E quei messaggi d’amore sono reali o sono dei messaggi invece in codice? Ecco, non è che è un simulacro invece che doveva essere alimentato perché doveva alimentare quell’immaginario collettivo, per tenere lontano i riflettori da quello che sarebbe diventato in questi ultimi anni il vero capo di Cosa Nostra, che magari dal carcere detta regole e alimenta ricatti incrociati. Proprio in questi giorni c’è stata la sentenza della Cassazione che ha confermato quello che era accaduto nella Corte d’appello d’assise sul processo Stato-mafia, trattativa. E ha confermato le assoluzioni per gli uomini delle istituzioni e noi siamo contenti di questo. Però, tra tutti quei fiumi d’inchiostro di quei giornalisti che festeggiavano e erano contenti non c’è una riga che spieghi, e scommettiamo che non la troveremo neppure tra le motivazioni della sentenza, il perché della latitanza 40 anni di Bernardo Provenzano, indisturbata, e quella dei 30 anni di Matteo Messina Denaro. Tutti a casa loro.

Matteo Messina Denaro è stato favorito da “talpe” ed esperti. Stefano Baudino su L'Indipendente il 5 marzo 2023.

Mentre era latitante, Matteo Messina Denaro è stato molto probabilmente favorito e supportato da “talpe” all’interno delle forze dell’ordine o comunque da tecnici esperti. Lo sottolinea il gip di Palermo Saverio Montalto nell’ordinanza di custodia cautelare per la sorella del boss di Castelvetrano, Rosalia Messina Denaro – arrestata venerdì scorso dagli uomini del Ros – sulla base di quanto emerso dal contenuto di una serie di documenti rinvenuti nelle abitazioni della donna. Rosalia, la maggiore delle quattro sorelle di “u Siccu”, è accusata di aver favorito la latitanza del fratello, di aver gestito la cassa familiare e di aver agito come “messaggera” per la distribuzione dei “pizzini” con cui il boss veicolava informazioni e impartiva ordini ai suoi uomini più fidati. Quegli stessi “pizzini” che, ora nella disponibilità degli inquirenti, stanno facendo emergere ulteriori elementi scottanti.

A fare luce sulle potenziali entrature di Messina Denaro nell’universo delle forze di pubblica sicurezza o nel mondo dei “professionisti” sarebbe in particolare un vademecum, scritto a mano dalla stessa Rosalia – la quale aveva ricopiato una lettera inviatale dal fratello il 9 novembre 2021 – che conteneva informazioni recuperate dal boss “attraverso canali tutti da investigare” in merito alle microspie piazzate dalle forze dell’ordine nelle case in cui vivevano i membri della sua famiglia. Il gip ne evidenzia un “evidente tecnicismo lessicale” che può essere proprio solo di “specialisti forniti di uno specifico know how nel settore”, in particolare nel riferimento alle “‘cassette di rilancio segnale’ che vengono impiegate per occultare la trasmissione dei segnali audio e video”.

Nel foglio, infatti, si legge: “Quando si tratta di telecamere, ci deve essere nella cassetta necessariamente un buco, il buco è nella direzione dove vogliono guardare. Senza buco non può mai essere telecamera ci sono tante cassette senza buco, che loro montano nei pressi delle case dove montano microspie e telecamere. Queste cassette si chiamano “cassette di rilancio segnale”, cioè, le telecamere e le microspie che loro montano nelle case non hanno la forza di mandare il segnale sin dove sono loro. Allora ci vogliono queste cassette di rilancio che captano il segnale dalle vicine microspie e telecamere e lo rilanciano fin dove sono loro, queste cassette di rilancio fanno arrivare il segnale a centinaia di km […] Se sono cassette di rilancio segnale perché montarli proprio ora e non prima dato che le microspie da te ci sono da sempre?“.

Il boss forniva quindi alla sorella indicazioni specifiche per evitare guai: “Prima ti devi accertare se sono telecamere o cassette di rilancio, e questo lo puoi capire se c’è il buco o meno. Se non ti convinci chiami un elettricista e gli dici chiaramente che ti hanno montato queste cose e che da quando le hanno montate a casa tua hai problemi di luce […]. Quindi gli dice che vuoi sapere cosa sono e che le vuoi tolte, se ha problemi fa che usi carta intestata dove attesti che sei tu che le hai volute tolte perché hai problemi di luce a casa, e che e che firmi il foglio […] non prendere la corrente ti prego, usa sempre pinze con manici isolanti e i fili toccarli sempre ad uno ad uno, mai toccarli due assieme, e stacca sempre il contatore, e quando fai ciò portati qualche familiare”.

Eppure, oltre all’attenzione certosina riservata alle precauzioni pratiche per il buon proseguimento della latitanza, i documenti dimostrano che nelle comunicazioni con le persone più vicine Messina Denaro amava anche rimarcare l’approccio “spirituale” con cui incarna orgogliosamente il ruolo di boss mafioso. “Essere incriminati di mafiosità, arrivati a questo punto, lo ritengo un onore – scrive “U Siccu” in un pizzino del 15 dicembre 2013, scritto pochi giorni dopo l’arresto di sua sorella Patrizia e del nipote Francesco e ritrovato insieme agli altri nella casa di Rosalia -. Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie, trattati come se non fossimo della razza umana, siamo diventati un’etnia da cancellare. Eppure, siamo figli di questa terra di Sicilia, stanchi di essere sopraffatti da uno Stato prima piemontese e poi romano che non riconosciamo“. Il tono del boss si fa sempre più ontologico e identitario: “Siamo siciliani e tali volevamo restare. Hanno costruito una grande bugia per il popolo. Noi il male, loro il bene. Hanno affossato la nostra terra con questa bugia. Ogni volta che c’è un nuovo arresto si allarga l’albo degli uomini e delle donne che soffrono per questa terra. Si entra a far parte di una comunità che dimostra di non lasciare passare l’insulto, l’infamia, l’oppressione, la violenza. Questo siamo ed un giorno sono convinto che tutto ci sarà riconosciuto e la storia ci restituirà quel che ci ha tolto la vita“. Insomma, l’ennesimo (ed emblematico) pezzo di propaganda mafiosa, che attraverso carismatici interpreti trova costantemente la forza per essere alimentata. [di Stefano Baudino]

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 24 gennaio 2023.

La prima cosa che è balzata agli occhi dei carabinieri, nel covo di via Cb 31, è stata una busta di plastica del supermercato Coop. Lunedì pomeriggio, poche ore dopo la cattura del superlatitante, c’era ancora una bottiglia di detersivo Dixan sul pavimento, in cucina. Nel portafoglio del capomafia, c’era invece lo scontrino, emesso alle 11.08 di sabato 14 gennaio.

 Matteo Messina Denaro era uscito senza problemi, probabilmente con l’auto, per andare al supermercato di viale Risorgimento, che dista circa tre chilometri dalla sua abitazione. Aveva comprato anche due Dreher e un po' di tritato scelto. “Una spesa complessiva di 26,61 euro”, hanno scritto i carabinieri del Ros in una nota inviata alla procura di Palermo.

“Ulteriori elementi emergevano dall’ispezione nelle altre stanze – prosegue la nota – in una si trovava posizionata la panca per l’allenamento e diverse paia di scarpe di marca, in un’altra veniva rinvenuta la slot della Sim Card “1 Mobile”, circostanza questa che faceva valutare la possibile riconducibilità all’utenza cellulare 377*****, che veniva rinvenuta nella disponibilità del latitante al momento del suo arresto”.

Alessia Candito per repubblica.it il 24 gennaio 2023.

"È protetto, i giovani lo elogiano, il paese è malato". Il 19 novembre 2021 c'è qualcuno che parla con i carabinieri di Campobello di Mazara. Chiede l'anonimato, ma per gli investigatori è una fonte attendibile. E su Matteo Messina Denaro sa dare indicazioni precise, che le indagini oggi confermano. […]

 Non è l'unica traccia che porti a Campobello di Mazara. Ce n'è un'altra ancora più risalente. È il 2012, l'ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, che con Messina Denaro per conto del Sisde di Mario Mori ha avuto una lunga corrispondenza, è di nuovo a processo. E davanti ai giudici racconta come anni prima, "dopo il 2001 e prima del 2004" per entrare in contatto con i Messina Denaro "in accordo con il Sisde" si fosse rivolto al dottore Tumbarello, storico medico condotto di Campobello di Mazara, massone di alto rango con velleità politiche, adesso indagato perché in cura aveva sia il latitante, sia l'uomo di cui usava l'identità.

"Sono stato io - aveva detto in aula - a chiedere al dottore Tumbarello di poter incontrare Salvatore Messina Denaro (il fratello di Matteo, ndr), perché era suo assistito. Lo contattai perché ritenevo potesse portarsi avanti un'iniziativa, assolutamente legittima, creare un'area di servizio presso l'area Costa Gaia sull'autostrada, che porta in direzione Palermo da Castelvetrano".

Il dottore non si tira indietro, organizza nel suo studio l'incontro fra l'ex sindaco - negli anni Novanta finito in carcere con accuse di mafia - e il boss. […]

Il Sisde di Mori - regolarmente informato da Vaccarino sull'andamento delle chiacchierate epistolari con il latitante - aveva già il nome di Tumbarello, per certo sapeva che lui era stato un canale efficace per agganciare il latitante. Ma dal dottore, per decenni, nessuno sembra essere andato a bussare per chiedere spiegazioni.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “La Stampa” il 24 gennaio 2023.

È il 19 novembre del 2021, i carabinieri della stazione di Campobello di Mazara, il paese di poco più di 11 mila abitanti in cui Matteo Messina Denaro ha trascorso, indisturbato, almeno gli ultimi due anni e mezzo di latitanza in più covi di cui ancora due scoperti dai carabinieri del Ros, redigono e depositano agli atti un'annotazione di servizio.

 […] In sintesi estrema c'è un informatore "noto agli uffici e di provata fede" (in gergo di caserma, credibile), ma rimasto anonimo negli atti trasmessi, che racconta che «Matteo Messina Denaro vive in zona. Non lo vogliono prendere! Qualcuno gli deve portare i vestiti e da mangiare. Dove pensate che sia se non qui? Non li avete visti quei due (fa i nomi) che fanno avanti e indietro da Torretta (Torretta Granitola comune del Trapanese, ndr)? C'è il vedovo della ginecologa e quello del bar».

[…] «E agli scriventi – annotano i militari – è parso si riferisse a "U Siccu", Matteo Messina Denaro». Dopo ulteriori accertamenti «si conferma che parlava di Matteo Messina Denaro».

 […] Di certo c'è che all'epoca dei fatti i carabinieri del Ros stavano già indagando sui fedelissimi […] ma è anche vero che alla pista di Torretta ci era arrivato anche Report anni prima nel 2017 tornandoci nella puntata di ieri sera. E che comunque la fonte anonima, un anno e tre mesi fa, ha detto che Matteo Messina Denaro era già lì.

Di più: «Ha sempre la stessa faccia ma è molto invecchiato. A Campobello è protetto, i giovani lo amano, il paese è malato». I ragazzi lo vedono come un idolo anche se adesso dicono tutti di non averlo mai riconosciuto. Passano con i motorini e fotografano i giornalisti appostati sotto il covo di via San Vito, ex via Cb 31/7. […]

Lo stato del latitante. Report Rai. PUNTATA DEL 23/01/2023

Paolo Mondani, Walter Molino, Giulio Valesini, Danilo Procaccianti, Giorgio Mottola

Collaborazione di Marco Bova, Cataldo Ciccolella, Norma Ferrara, Federico Marconi, Roberto Persia, Andrea Tornago

Indagando su alcuni illeciti commessi da funzionari del Consiglio Nazionale delle Ricerche, nel 2017 Report aveva raccolto diverse testimonianze e registrazioni audio secondo cui la sede del Cnr di Capo Granitola - a pochi chilometri da Campobello di Mazara e Castelvetrano - avrebbe ospitato Matteo Messina Denaro durante la latitanza. Report aveva inoltre scoperto un contratto di affitto del Cnr per un immobile nella frazione marina, le cui finalità non sono mai state chiarite. Seguendo le tracce delle visure, i nostri reporter avevano scoperto che il fratello del proprietario è il noto medico massone di Castelvetrano Claudio Renato Germilli, che aveva avuto rapporti societari con uomini di mafia come Giovanni Risalvato e Lorenzo Catalanotto, ma soprattutto era stato socio proprio di Errico Risalvato, l’uomo che si è poi scoperto possedere il covo-bunker del boss. Partendo dalle inchieste realizzate in questi ultimi sei anni, Report ricostruirà, con nuove rivelazioni e testimonianze, la lunga latitanza di Matteo Messina Denaro, le tracce che portano alle coperture eccellenti di cui avrebbe usufruito, le trame che lasciano intravedere un coinvolgimento di appartenenti a logge massoniche, e le responsabilità istituzionali.

IL MIO NOME È MATTEO MESSINA DENARO di Danilo Procaccianti Collaborazione di Andrea Tornago, Marco Bova Immagini di Carlos Dias, Andrea Lilli Montaggio e grafica di Monica Cesarani

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ecco gli ultimi istanti di libertà di Matteo Messina Denaro: entra tranquillo e deciso dentro la clinica La Maddalena, eccellenza della sanità privata siciliana; esce dopo pochi minuti forse per prendere un caffè o forse perchè ha capito qualcosa…nel parcheggio però viene arrestato dai carabinieri.

AUDIO ORIGINALE CARABINIERI “Obiettivo identificato, lo abbiamo catturato”.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Un fantasma che si materializza dopo trent’anni di latitanza.

AUDIO ORIGINALE CARABINIERI CARABINIERE Come ti chiami?

MATTEO MESSINA DENARO L’ho detto…dai…

CARABINIERE Ridillo, ridillo come ti chiami?

MATTEO MESSINA DENARO L’ho detto: Matteo Messina Denaro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Matteo Messina Denaro è stato latitante per trent’anni. Buonasera. Aveva addirittura rinunciato, ventotto anni fa, quando era nata la figlia, ad andare a conoscerla per evitare di essere catturato. Oggi invece si scopre che si muoveva con agilità tra supermercati, bar, ristoranti, a casa sua, praticamente, a Campobello di Mazara. Può sembrare uno scandalo che con le nuove tecnologie a disposizione, con la preparazione delle nostre forze dell’ordine, Matteo Messina Denaro sia rimasto per trent’anni un fantasma. Qualcuno, dopo l’arresto di Bernardo Provenzano, aveva ipotizzato che fosse morto, che fosse all’estero, che avesse cambiato il suo aspetto ricorrendo alla chirurgia plastica. E invece l’hanno arrestato praticamente a casa sua, e con il suo viso naturale. Ora: ha abbassato le protezioni perché ha saputo di essere un malato terminale per via del tumore al colon, oppure perché sono cadute le protezioni istituzionali, quelle che hanno consentito di anticipare i blitz che lo avrebbero arrestato? I medici che lo hanno avuto in cura in questi anni non hanno avuto nulla da segnalare? Tuttavia, il nostro Danilo Procaccianti ha recuperato un documento in base al quale c’è la prova che gli investigatori sapevano che Matteo Messina Denaro era a Campobello di Mazara, vicino alla sua casa, già a partire dal 2021.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Da sei mesi il latitante più ricercato al mondo faceva il suo ciclo di chemioterapia per un tumore al colon in questa clinica privata di Palermo, ³La Maddalena´. Non una clinica qualunque.

ANTONIO FRASCHILLA - GIORNALISTA LA REPUBBLICA Lo stesso patron della clinica ³La Maddalena´, Guido Filosto, è un nome molto importante nell'imprenditoria e che ha molti legami anche con il mondo della politica. Basti pensare che il giorno prima dell'arresto di Messina Denaro festeggiava il suo compleanno, 94 anni, con il governatore attuale della regione siciliana, Renato Schifani e con il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, e con lo stesso Cuffaro.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Lo stesso uomo che pur di non rischiare nulla non ha mai conosciuto la figlia ventottenne, sembra fare di tutto per attirare l’attenzione. Si fa i selfie con il suo oncologo di riferimento e, addirittura, si scambia il numero di telefono con le altre pazienti.

AUDIO ORIGINALE PAZIENTE CLINICA ³LA MADDALENA´ DI PALERMO Lui veniva a fare terapia e stavamo sempre tutti insieme, che magari ci andavamo a prendere il caffè al bar e lui era una persona che si metteva a disposizione per tutte cose. Con le altre due amiche mie, si sentivano messaggisticamente.

DANILO PROCACCIANTI Per trent'anni era un fantasma, non ha conosciuto nemmeno la figlia e poi all'improvviso impazzisce, si fa i selfie, si scambia numeri.

FABIO BOTTINO - COMANDANTE PROVINCIALE CARABINIERI TRAPANI Il motivo io lo riconduco alla sua, alle sue condizioni di salute, alla sua patologia grave. La sua malattia ha rappresentato un punto debole su cui noi abbiamo lavorato.

DANILO PROCACCIANTI Però abbassare la guardia è un discorso «fare il selfie con un medico significa quasi alzare la bandierina e dire: “Sono qui, prendetemi”. Sembra una resa.

FABIO BOTTINO - COMANDANTE PROVINCIALE CARABINIERI TRAPANI È vero, è una leggerezza che può essere in qualche modo compresa, se non in un suo atteggiamento di abbassamento della guardia. Ma questo non vuol dire che in qualche modo se l'è andata a cercare perché non se l’è andata a cercare, lo abbiamo cercato noi.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma lui non ha fatto nulla per non farsi trovare. A cominciare dalla scelta del luogo dove operarsi per il tumore: non una clinica all’avanguardia, magari all’estero, ma l’ospedale di Mazara del Vallo.

MASSIMO RUSSO - PROCURATORE DDA PALERMO 1994 - 2007 Avendo denaro a gogo, tanto, tanto denaro che gronda sangue, perché non andarsene in un centro oncologico per farsi operare? Va a Mazara, va in un centro dove non c'è nemmeno la rianimazione e si va a operare lì? È una domanda alla quale ciascuno può dare una risposta.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La prima risposta che otteniamo noi è che il 13 novembre 2020 a operare Matteo Messina Denaro sarebbe stato Giacomo Urso, un chirurgo molto apprezzato da queste parti.

DANILO PROCACCIANTI Questo Urso che era bravo…

DIRIGENTE SANITARIO OSPEDALE AJELLO - MAZARA DEL VALLO Sì, sì, sì. Quindi molti si rivolgevano qua perché lui era un punto di riferimento della Sicilia occidentale per il tumore del colon.

DANILO PROCACCIANTI Ma l’ha operato Urso o no? No, Urso non c’è più…

DIRIGENTE SANITARIO OSPEDALE AJELLO - MAZARA DEL VALLO No, c’era Urso. L’intervento è stato fatto da lui, lui lo ha fatto e Pietro Fazio, c’era Urso…2020, parliamo.

DANILO PROCACCIANTI E quanti giorni è stato qui?

DIRIGENTE SANITARIO OSPEDALE AJELLO - MAZARA DEL VALLO Mi sembra 8 giorni.

DANILO PROCACCIANTI Però diciamo, non è complottismo, almeno pensare che il chirurgo che mette le mani su Matteo Messina Denaro sapesse dove stava mettendo le mani? Oppure abbiamo visto troppi film?

FABIO BOTTINO - COMANDANTE PROVINCIALE CARABINIERI TRAPANI No, guardi, sono gradi di responsabilità. Dovremo vagliare posizione per posizione e per farlo dovremmo indagare, fare accertamenti e lavorare per stabilire il livello eventuale di responsabilità di tutti questi medici.

GIACOMO URSO - PRIMARIO CHIRURGIA OSPEDALE AJELLO 2018 - 2022 - MAZARA DEL VALLO Pronto?

DANILO PROCACCIANTI Dottor Urso buongiorno, sono Danilo Procaccianti di Report, di Raitre.

GIACOMO URSO - PRIMARIO CHIRURGIA OSPEDALE AJELLO 2018 - 2022 - MAZARA DEL VALLO Sì, prego.

DANILO PROCACCIANTI È stato lei a operare Matteo Messina Denaro?

GIACOMO URSO - PRIMARIO CHIRURGIA OSPEDALE AJELLO 2018 - 2022 - MAZARA DEL VALLO Guardi, non …arrivederci, buonasera.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il dottor Urso probabilmente qualche spiegazione dovrà darla, così come dovrà darla il dottor Filippo Zerilli, primario del reparto di oncologia dell’ospedale di Trapani, dove Matteo Messina Denaro sarebbe stato ricoverato per almeno un mese. Sotto inchiesta poi è anche un altro medico, il dottor Alfonso Tumbarello, medico di base, oggi letteralmente scomparso. Sarebbe stato lui a preparare tutte le impegnative per le operazioni e le cure del boss sotto il falso nome di Andrea Bonafede.

DANILO PROCACCIANTI Però a un certo punto questo Andrea Bonafede falso, cioè Matteo Messina Denaro, si è operato. Avrà avuto una ferita, dei punti. Cioè il Bonafede vero non ce l'aveva. Come fa quindi Tumbarello, se fa una visita, a non accorgersi che è cambiato? O quello non ha la ferita o comunque quello è Matteo Messina Denaro.

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) È una domanda a cui io in questo momento non so dare una risposta. Il dottore, Luppino, persone incensurate, sono state costrette a subire determinate situazioni e quindi poi in quel momento la persona, il medico, il professionista, chiunque esso sia deve fare una scelta: rischio di farmi ammazzare - che lui ad ammazzare persone ci stava un attimo…?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Sembra di essere tornati indietro nel tempo negli anni ‘80, in una Sicilia degli anni ‘80: nessuno ha visto niente. Eppure il latitante più famoso al mondo, almeno negli ultimi sei mesi, ha vissuto in questo stabile, che insiste su un’arteria principale di Campobello di Mazara.

DANILO PROCACCIANTI Glielo avranno chiesto tutti…

ADDETTO RIFORNIMENTO BENZINA Tutti me lo hanno chiesto!

DANILO PROCACCIANTI Però adesso, mi dice la verità.

ADDETTO RIFORNIMENTO BENZINA Minchia.

DANILO PROCACCIANTI Eh? ora che non c’è nessuno…

ADDETTO RIFORNIMENTO BENZINA Tutti, tutti, sempre la stessa storia.

DANILO PROCACCIANTI E qual è la risposta? “Non l’ho visto”?

ADDETTO RIFORNIMENTO BENZINA Ma non è omertà!

DANILO PROCACCIANTI Lo avete mai visto venire a fare la spesa?

CASSIERA SUPERMERCATO No.

DANILO PROCACCIANTI Cioè non è mai capitato, nemmeno dopo che avete visto la foto?

DANILO PROCACCIANTI Niente.

CASSIERA SUPERMERCATO No no.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO E invece proprio in quel supermercato Matteo Messina Denaro era entrato.

FABIO BOTTINO - COMANDANTE PROVINCIALE CARABINIERI TRAPANI Abbiamo accertato che il 14 gennaio era entrato in un supermercato di Campobello di Mazara. Lo scopriamo perché? Perché in tasca aveva uno scontrino di questo supermercato, con la data. Siamo andati quindi andati a prelevare le telecamere lì intorno e l'abbiamo visto.

DANILO PROCACCIANTI Quello a fianco al covo?

FABIO BOTTINO - COMANDANTE PROVINCIALE CARABINIERI TRAPANI Quello a fianco, quindi questo è vero.

MASSIMO RUSSO - PROCURATORE DDA PALERMO 1994 - 2007 Io penso che qualcuno l'avrà riconosciuto e però, come si dice dalle mie parti, “ma cu mu fa fari”? Chi me lo fa fare, andare a mettermi contro il boss e andarlo a denunciare?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO A non vedere sarebbero stati in molti. Per esempio, la casa dove viveva Matteo Messina Denaro è stata acquistata dal vero Andrea Bonafede a cui Matteo avrebbe dato i soldi in contanti.

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Quella casa secondo me a meno di 50mila euro non sarà stata comprata, se davvero è stata comprata. E il trasferimento dei soldi e il pagamento come è avvenuto? Se io faccio…vado dal notaio per fare un atto, vuole la tracciabilità. Se a lui gli ha dato i soldi, per come dice, Matteo Messina Denaro, saranno transitati in banca perché dal notaio 15mila euro non glieli poteva portare. I movimenti di denaro superiori a 5mila euro vanno segnalati sia alla Banca d'Italia che alla Guardia di Finanza. Tutte queste cose?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Incredibile, ma vero: a non vedere sarebbero stati anche gli stessi carabinieri che proprio a Campobello di Mazara hanno fatto decine di blitz, l’ultimo lo scorso settembre, in cui era stato arrestato il boss del paese. Il bar San Vito, che sta accanto al covo di Matteo Messina Denaro, era stato riempito di telecamere e cimici. Eppure, il boss non lo avevano visto.

DANILO PROCACCIANTI Questo è un aspetto importante: ci può confermare che qui è pieno di telecamere, di cimici, di controlli?

GIUSEPPE CASTIGLIONE - SINDACO CAMPOBELLO DI MAZARA (TP) Sì sì, il paese qui è pieno da trent’anni di telecamere, di cimici, di intercettazioni.

DANILO PROCACCIANTI Esclude pure che possa aver perso delle protezioni anche istituzionali? Qualcuno che l'abbia abbandonato…?

FABIO BOTTINO - COMANDANTE PROVINCIALE CARABINIERI TRAPANI Guardi, può aver goduto di protezioni anche di un certo livello, perché no? Sicu…probabilmente più negli anni passati rispetto ad ora. Questo può essere.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO E chissà se le protezioni istituzionali di cui parla il colonnello ci siano state anche negli ultimi periodi quando più di qualcuno ha avvistato Matteo Messina Denaro a Torretta Granitola, frazione di Campobello di Mazara. Lo aveva raccontato Report nel 2017 e oggi vi mostriamo in esclusiva questa annotazione dei carabinieri: è del novembre 2021.

MARCO BOVA - GIORNALISTA Questa annotazione è una fonte anonima. Sostanzialmente riferiva al comandante della stazione dei carabinieri di Campobello di Mazara che Matteo Messina Denaro si trovava a Torretta Granitola e tra l'altro la cosa mi ha sconvolto leggendola adesso, dopo l'arresto di Matteo Messina Denaro, perché scopriamo che Andrea Bonafede, quello che gli ha prestato l'identità, è uno dei soci del New Acqua Splash, un parco acquatico che si trova a Torretta Granitola ed è un luogo simbolo.

DANILO PROCACCIANTI Quindi il sospetto è che, così come ci aveva detto una nostra fonte, Matteo Messina Denaro prima di andare in questi covi ultimi a Campobello di Mazara, sia passato veramente dalla frazione di Torretta Granitola?

MARCO BOVA - GIORNALISTA Beh, la segnalazione è parecchio dettagliata e poi la frazione di Torretta Granitola non è proprio nuova nella storia di Matteo Messina Denaro, anche in virtù delle scorribande giovanili. Insomma, Torretta Granitola è davvero uno dei suoi luoghi.

MASSIMO RUSSO - PROCURATORE DDA PALERMO 1994 - 2007 Ma come mai in provincia di Trapani sono passati i vertici di Cosa Nostra e non sono mai stati catturati? Riina aveva una casa a Mazara, perché stava a Mazara? Lo stesso dicasi per Messina Denaro Matteo, lo stesso dicasi per Bagarella, lo stesso dicasi per Brusca che era a Castellamare. Perché? Probabilmente la rete di protezione lo garantiva.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E si vede che nella provincia di Trapani si sentono al sicuro. Il colonnello Bottino, che è il comandante provinciale proprio di quella zona, dal 2008 è sulle piste di Matteo Messina Denaro e dice di non escludere protezioni istituzionali. I trent’anni della latitanza di Matteo Messina Denaro sono stati - veniva definito Diabolik proprio per la sua capacità di anticipare i blitz che l’avrebbero incastrato - comunque sono stati segnati da una storia brutta di talpe, sabotaggi, alcuni compiuti proprio da quegli uomini dello Stato che avrebbero dovuto arrestarlo. È come se un corpo sano dello Stato avesse contrastato un corpo malato dello Stato, contagiato da un virus nato da un incubatore, quello della massoneria deviata, dei servizi segreti deviati, della destra eversiva. Il magistrato che più ha cercato di arrestare Matteo Messina Denaro è Maria Teresa Principato, la ascolteremo, ascolteremo la testimonianza di un rinomato e stimato investigatore della Procura di Palermo che però ad un certo punto viene coinvolto nell’indagine delle talpe della Dda - appunto - di Palermo, perché passava informazioni su Bernardo Provenzano e su Matteo Messina Denaro. Parla per la prima volta al microfono del nostro Giorgio Mottola.

LO STATO DEL LATITANTE – LE INDAGINI Di Giorgio Mottola Collaborazione Marco Bova e Norma Ferrara Immagini Dario D’India Montaggio Giorgio Vallati

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Gli anni della latitanza di Messina Denaro sono stati segnati da una storia brutta di talpe, sabotaggi, alcuni compiuti proprio da quegli uomini dello Stato che avrebbero dovuto arrestarlo. È come se un corpo sano dello Stato avesse contrastato un corpo malato dello Stato, contagiato da un virus nato da un incubatore quello della massoneria deviata, dei servizi segreti, dei servizi segreti deviati, della destra eversiva. Il magistrato che più ha cercato di arrestare Matteo Messina Denaro è Maria Teresa Principato, la ascolteremo. Ascolteremo anche la testimonianza di un rinomato e stimato investigatore della procura di Palermo che però ad un certo punto viene coinvolto nell’indagine delle talpe della Dda, appunto di Palermo, perché passava informazioni su Bernardo Provenzano e su Matteo Messina Denaro. Parla per la prima volta ai microfoni del nostro Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per trent’anni Matteo Messina Denaro è stato un fantasma, qualcuno ha messo persino in dubbio che fosse ancora vivo. Gli investigatori disponevano solo di vecchie foto ingiallite risalenti agli anni ’80 e nessuno aveva sentito la sua voce, se non quella risalente a trent’anni fa.

TRIBUNALE DI MARSALA 18/3/1993 Giudice: il signor Messina Denaro Matteo

Matteo Messina Denaro: Matteo Messina Denaro

Giudice: residente in Castelvetrano, ha detto, in via?

Matteo Messina Denaro: Alberto Mario...

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per trent’anni mai una telefonata, mai è stata rilevata un’impronta digitale nei presunti covi del boss che sono stati scoperti e perquisiti.

ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE PALERMO 2013- 2022 Abbiamo disseminato di cimici tutta la sua parentela, tutta la rete dei suoi favoreggiatori, però su di lui non c’era niente. C’era un’assoluta accortezza nel non lasciare tracce. Quindi diciamo un vero Diabolik.

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO PALERMO 2009-2017 Era capace di travestirsi, utilizzava ogni escamotage pur di rimanere assolutamente fuori da tutto. Era veramente un imprendibile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma negli ultimi mesi, prima del suo arresto, il suo comportamento è improvvisamente cambiato. Messina Denaro ha iniziato a vivere stabilmente nello stesso luogo, Campobello di Mazara, posava senza problemi davanti all’obbiettivo di una fotocamera e addirittura ha scambiato il suo numero di telefono con altri pazienti, partecipando a gruppi WhatsApp.

GIORGIO MOTTOLA Lei come se lo spiega questo cambiamento così repentino?

ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE PALERMO 2013- 2022 Conosco l’assoluta trasparenza e capacità dei colleghi che hanno fatto le indagini e quindi escludo radicalmente che ci possa essere stato qualcosa di ambiguo a questo livello, devo supporre che a livello superiore rispetto a coloro che hanno fatto le indagini sia stato, come dire, detto a Matteo Messina Denaro che era venuto il tempo in cui doveva lui doveva cessare di essere latitante e che quindi probabilmente ha deciso di farsi prendere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino allo scorso lunedì Messina Denaro è sempre riuscito sempre sistematicamente, ad anticipare, le mosse di chi gli dava la caccia.

ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE PALERMO 2013- 2022 Io ricordo un episodio che mi colpì. Avevamo percepito una conversazione per cui sembrava che la sorella e la madre stavano andando a trovarlo, abbiamo improvvisato subito una macchina che seguisse quella macchina. A un certo punto la polizia stradale ferma la macchina della polizia e quelli vanno avanti.

MASSIMO RUSSO –MAGISTRATO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA 1994-2007 PALERMO Ci sono stati momenti in cui siamo stati vicini alla cattura, eppure le immagini sono state sabotate. Sabotate da chi ha tradito la divisa che indossava.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli anni numerosi sono stati gli appartenenti alle forze dell’ordine arrestati per aver rivelato dettagli segreti delle inchieste a uomini vicini a Cosa Nostra. Uno dei casi più incredibili è stato quello del maresciallo Giuseppe Ciuro, investigatore tra i più apprezzati della Procura Antimafia di Palermo e braccio destro dell’allora pm Antonio Ingroia. L’ex maresciallo è stato condannato a quattro anni e mezzo per aver fornito dettagli su indagini riservate a Michele Aiello, ras della sanità siciliana e fedelissimo del boss Bernardo Provenzano.

GIUSEPPE CIURO – EX MARESCIALLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA PALERMO Perfetto, io ho sbagliato, mi sono preso le mie colpe, sono stato buttato fuori dalla guardia di finanza, dalla dia, dai servizi, dovunque stavo andando.

GIORGIO MOTTOLA In trent’anni Messina Denaro era sempre un passo avanti...

GIUSEPPE CIURO – EX MARESCIALLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA PALERMO A tutti

GIORGIO MOTTOLA Anche perché molte indagini sono state sabotate e secondo le accuse, uno dei sabotatori saresti stato tu.

GIUSEPPE CIURO – EX MARESCIALLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA PALERMO No, la storia di Messina Denaro riguarda solo Riolo e Borzacchelli.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Giorgio Riolo, ex maresciallo dei Ros condannato a 5 anni e mezzo per favoreggiamento non aggravato, e Antonio Borzacchelli, ex carabiniere diventato consigliere regionale in Sicilia con Totò Cuffaro la cui posizione è stata prescritta, insieme a Ciuro hanno passato informazioni riservate a Michele Aiello sulle indagini dell’antimafia. E in alcuni casi tali rivelazioni hanno riguardato le inchieste in corso sulla cattura di Bernardo Provenzano e Messina Denaro.

GIUSEPPE CIURO – EX MARESCIALLO DIREZIONE INVESTIGATIVA ANTIMAFIA PALERMO Riolo lo posso capire, ma Borzacchelli che fa l’onorevole come fa a sapere tutte queste cose? se non glielo dicono i carabinieri che lo fanno? ma lo scrivono loro: guardate che sono i carabinieri che gli hanno dato la notizia perché lo ritenevano che era sempre un loro collega.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così all’inizio degli anni 2000, con la complicità dell’ex maresciallo del Ros Giorgio Riolo, evapora una delle piste più calde per arrivare a Messina Denaro. Dalla lettura dei pizzini gli inquirenti erano riusciti a scoprire l’identità dell’amante del boss latitante, una certa Maria Mesi, che però era sorella della segretaria della segretaria dell’informatissimo Michele Aiello.

MASSIMO RUSSO – MAGISTRATO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA 1994-2007 PALERMO Maria Mesi probabilmente si sentì oggetto di investigazione, chiese ad Aiello. Aiello chiese ai suoi amici, in particolare a Riolo. Riolo andò con un aggeggio per verificare se nell’appartamento di fronte a quello di Maria Mesi ci fossero installate delle apparecchiature, le rilevò e da quel momento si bruciò quel covo e quello che era il nostro progetto di cogliere nell’alcova Messina Denaro Matteo con la Mesi è naufragato.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La storia della caccia a Messina Denaro è purtroppo innanzitutto una storia di sabotaggi. Che non sono stati determinati solo da delazioni e fughe di notizia ma anche da scelte investigative incomprensibili. Come nella vicenda di Leo Sutera, boss agrigentino di Sambuca, che 11 anni fa avrebbe potuto portare direttamente a Matteo Messina Denaro, come ci racconta Teresa Principato, il magistrato che ha guidato il pool per la cattura del boss per otto anni.

GIORGIO MOTTOLA Quindi Sutera è un mafioso che incontra personalmente Messina Denaro?

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Certamente.

GIORGIO MOTTOLA Più volte?

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Più volte, certamente.

GIORGIO MOTTOLA Quindi è l’uomo giustoi da seguire? T

ERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 È l’uomo giusto da seguire.

GIORGIO MOTTOLA Dopo mesi di intercettazioni, gli investigatori scoprono che il boss Leo Sutera potrebbe presto incontrare di persona Matteo Messina Denaro.

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Abbiamo tutti pensato: ci siamo. Ed è a quel punto che succede l’incomprensibile perché il procuratore del tempo mi chiama e comincia ad esprimermi dei dubbi che non aveva mai espresso: ma tu sei sicura che le intercettazioni che ti portano quelli del Ros siano vere.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Pochi giorni dopo, nonostante l’opposizione di Teresa Principato e degli altri Pm del pool, l’allora procuratore capo odi Palermo Francesco Messineo dispone l’arresto di Leo Sutera, nell’ambito di un’altra indagine minore che aveva al centro episodi di estorsione. E così il contatto più prossimo a Messina Denaro viene fatto uscire di scena.

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Quindi ci toglie, ci stoppa l’indagine. Dirle che per me e per tutti gli altri che ci lavoravano è stato come essere trafitti da un coltello al cuore è dire poco.

GIORGIO MOTTOLA Perché era la pista più calda che aveste trovato in 20 anni praticamente?

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Appunto, che senso ha?

GIORGIO MOTTOLA Non si poteva aspettare un altro e rimandare po’ e rimandare l’arresto di Leo Sutera?

FRANCESCO MESSINEO – PROCURATORE CAPO PALERMO 2006-2014 Rispondo perentoriamente no. In materia di reati di mafia vige il principio di obbligatorietà dell’azione penale. Cioè la ricerca sia pure di un latitante della caratura e dell’importanza di Matteo Messina Denaro non può comportare lo stop alle altre attività della Dda.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Messineo viene denunciato al Consiglio Superiore della Magistratura. E, poco dopo, nonostante il procedimento a suo carico venga archiviato, decide di andare in pensione con due anni di anticipo.

GIORGIO MOTTOLA Ma questa è una storia di rivalità tra magistrati o è un sabotaggio delle indagini?

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Io credo che non ci siano letture alternative onestamente, cioè uno che ti stoppa così le indagini su Messina Denaro, ti viene qualche sospetto?

GIORGIO MOTTOLA Questa pista Sutera per Messina Denaro è stata sabotata?

FRANCESCO MESSINEO – PROCURATORE CAPO PALERMO 2006-2014 Sabotata è una parola molto molto grossa. I sabotatori dovremmo indicarli nella Polizia di Stato e certamente mi rifiuto di prefigurare persino questo tipo di ipotesi.

GIORGIO MOTTOLA Perché secondo quanto dice la Principato, dovremmo indicare anche in lei un eventuale sabotatore.

FRANCESCO MESSINEO – PROCURATORE CAPO PALERMO 2006-2014 Sì, un altro sabotatore sarei stato io. Respingo questo tipo di…non mi vedo, non mi configuro nella veste del sabotatore

GIORGIO MOTTOLA È vero che all’epoca dei fatti suo cognato era coinvolto in un provvedimento della direzione distrettuale antimafia di Palermo?

FRANCESCO MESSINEO – PROCURATORE CAPO PALERMO 2006-2014 Non credo che ci sia una questione di questo genere e comunque da 30 anni non avevo più contatti con mio cognato, le sue vicende processuali non mi interessavano.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dopo lo scontro con Messineo, Teresa Principato prosegue la caccia a Messina Denaro e si concentra su una nuova pista, la massoneria.

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Perché c’era stato un collaboratore che essendo lui stesso massone ed essendo stato cooptato alla loggia di Castelvetrano mi aveva parlato dell’attività posta in essere da Matteo Messina Denaro di creazione di una loggia coperta, La Sicilia, ma non è che si limita a questo. Lui fa i nomi di tutti, di avvocati, di dentisti, di medici.

GIORGIO MOTTOLA Di politici?

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Di polizia, stava facendo nomi preziosi.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’architetto massone Giuseppe Tuzzolino rivela agli inquirenti l’esistenza a Trapani di una loggia coperta fondata dal boss latitante, La Sicilia, fornisce informazioni sui viaggi all’estero di Messina Denaro e sulla rete di protezione Massonica di cui gode in Italia ed all’estero. Ma nel momento in cui si iniziano a raccogliere riscontri alle sue dichiarazioni, scoppia un altro conflitto in procura a Palermo. Il nuovo capo Francesco Lo Voi invita la Principato ad interrompere la collaborazione con Tuzzolino, ritenendolo non attendibile.

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 E quindi le mie indagini sulla massoneria vengono ritenute campate in aria.

GIORGIO MOTTOLA Quindi questo pentito viene delegittimato dai suoi colleghi?

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Si, perché non è attendibile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma dai particolari che stanno emergendo dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, almeno in quest’ultima fase della sua latitanza sembra che ad aver giocato un ruolo fondamentale siano stati propri alcuni appartenenti alla massoneria trapanese. Come Alfonso Tumbarello, il medico di base di Campobello di Mazara che ha firmato le prescrizioni ad Andrea Bonafede, alias di Messina Denaro.

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Appena ho sentito il nome del medico, ho fatto un balzo sulla sedia perché Tumbarello Alfonso non è un personaggio da poco.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La vicenda di Tumbarello si intreccerebbe a quella di Antonio Vaccarino, l’ex sindaco di Castelvetrano, che per conto del Sisde di Mario Mori prova a prendere contatti diretti con Matteo Messina Denaro agli inizi degli anni 2000.

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Il professore Vaccarino ottiene un appuntamento con Salvatore Messina Denaro tramite il dottor Alfonso Tumbarello che era l’unico medico condotto di Campobello di Mazara.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo questa ricostruzione finora inedita, Vaccarino chiede ad Alfonso Tumbarello di organizzare un incontro con il fratello del boss Salvatore Messina Denaro. A riferirlo è lo stesso Vaccarino nel corso di un’udienza del 2012 ha ritrovato nel suo archivio il collega Marco Bova. Durante il dibattimento pubblico, Vaccarino spiega che nel 2001 Tumbarello organizzò all’interno del suostudio a Campobello di Mazara il colloquio con Salvatore Messina Denaro, anche lui paziente del medico massone. Tre anni dopo quell’incontro favorito da Tumbarello, Antonio Vaccarino, con lo pseudonimo di Svetonio, avvierà per conto del Sisde di Mario Mori la corrispondenza epistolare con il boss latitante.

GIORGIO MOTTOLA Nel verbale di udienza del 2012 risulta che questa storia viene spiegata nei minimi dettagli.

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Nei minimi dettagli.

GIORGIO MOTTOLA Viene messo sotto osservazione? Viene pedinato? Intercettato?

TERESA PRINCIPATO – PROCURATORE AGGIUNTO DIREZIONE DISTRETTUALE ANTIMAFIA PALERMO 2009-2017 Dopo tanto tempo io non sono in grado di dire quale sia effettivamente stata l’evoluzione delle eventuali indagini.

SIGFRIDO RANUCCI Questa notizia apre uno scenario inquietante, se volete, che Report vi ha dato in esclusiva. Insomma, Alfonso Tumbarello, il medico che aveva in cura Andrea Bonafede, alias di Matteo Messina Denaro, era il tramite per arrivare al boss. Ed era emerso già nel 2012. A dirlo è Antonio Vaccarino, l’ex sindaco di Castelvetrano, che era stato incaricato dal Sisde di Mario Mori, di creare un link con il boss. Vaccarino utilizza proprio Tumbarello e incontra nel suo studio il fratello di Matteo Messina Denaro, Salvatore, e poi con il boss comincia un rapporto epistolare, dove Svetonio, dove Svetonio è Vaccarino e Alessio è lo pseudonimo di Matteo Messina Denaro. Ecco, tutto questo emerge in una udienza pubblica. E Vaccarino era stato gestito dal Sisde di Mario Mori. L’ex colonnello del Ros, coinvolto nel processo della trattativa, condannato in primo grado e assolto poi in Appello. Perché in dieci anni nessuno ha mai indagato su questa pista. Poi è emerso che Tumbarello è capo di una loggia massonica, Valle di Cusa, legata al Grande Oriente d’Italia. Insomma, Trapani è una provincia permeata di logge massoniche, la seconda per numero di logge presenti. Secondo la Principato anche Matteo Messina Denaro aveva una sua loggia, l’aveva creata, La Sicilia. E anche l’allora presidente della Commissione d’inchiesta antimafia aveva identificato a Castelvetrano ben dieci logge massoniche però lo Stato brancola nel buio nel capire quali sono i nomi, quanti sono gli iscritti. Quello che è certo è che comunque la massoneria ha avuto un ruolo nella copertura della latitanza di Messina Denaro.

LO STATO DEL LATITANTE – IL CNR Di Giulio Valesini e Aldo Ciccolella Collaborazione Norma Ferrara Immagini Paolo Palermo Montaggio Riccardo Zoffoli Grafiche Michele Ventrone

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quello che è certo è che la massoneria ha avuto un ruolo nella latitanza di Messina Denaro. Un po’ lo avevamo scoperto anche noi nel 2017 quando stavamo realizzando un’inchiesta sugli illeciti del Cnr, e, andando a Capogranitola ci eravamo trovati di fronte a delle testimonianze che denunciavano la presenza di Messina Denaro proprio da quelle parti. Avevamo trovato anche imbattuti in alcuni personaggi, uno di questi era Errico Risalvato, che con suo fratello Giovanni è stato accusato di essere uno dei fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro. Errico Risalvato è stato anche assolto, ma è stato trovato oggi in quel luogo di Campobello di Mazara. Allora le testimonianze ci sembravano incredibili, alla luce di quello che è successo oggi ci sembrano inquietanti

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Una delle sette sedi dell’Istituto Ambiente Marino Costiero è a Capo Granitola, a pochi chilometri da Castelvetrano, il feudo del capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. È in una vecchia tonnara ristrutturata più di mille metri quadri per uffici e laboratori, una parte è nuova di zecca. È dotata anche di un piccolo porto privato. La regione Siciliana ci ha investito tre milioni di euro. Peccato che la nuova sede sia rimasta vuota per diversi anni. Nel 2017 avevamo trovato a presidiare la sede, giorno e notte, festivi compresi, Giovanni Cicchirillo da Castelvetrano. Uno strano personaggio assunto dalla ditta di pulizie.

GIOVANNI CICCHIRILLO Restavo qui perché volevo stare qui perché non volevo fare danneggiare tutta la struttura diciamo che c’è.

GIULIO VALESINI Anche perché è meravigliosa.

GIOVANNI CICCHIRILLO Farla distruggere da questi vandali: due sbarchi e ho dovuto usare l’attrezzo da caccia per poterli farli andare.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’allora direttore del centro Salvatore Mazzola, nel 2010 aveva affittato per quattro anni una foresteria del CNR proprio a Capo Granitola. L’anomalia è che non risulta registrato il contratto, e così si era giustificato in un’intervista di allora.

GIULIO VALESINI Perché per esempio una roba del genere, un contratto non viene neanche registrato?

SALVATORE MAZZOLA - EX DIRETTORE ISTITUTO AMBIENTE MARINO COSTIERO - CNR Perché se lo sono dimenticati, Giulio.

GIULIO VALESINI Ad un certo Germilli, fu affittata questa casa.

SALVATORE MAZZOLA - EX DIRETTORE ISTITUTO AMBIENTE MARINO COSTIERO - CNR Sì. GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Salvatore Mazzola nel frattempo è deceduto, e non può fornire ulteriori spiegazioni. Ma chi è Riccardo Germilli, il personaggio a cui il Cnr aveva preso in affitto una foresteria? Scopriamo che suo fratello Claudio, secondo la Digos, è iscritto alla loggia massonica Francisco Ferrer 908 di Castelvetrano, ma Claudio Germilli, è stato socio nella Habitat Eco Sistemi, smaltimento rifiuti. Ma lui ha sempre fatto il ginecologo.

CLAUDIO GERMILLI - GINECOLOGO Ma io non mi sono mai occupato di rifiuti, perché ho sempre fatto altre attività.

GIULIO VALESINI Infatti, quando me l’hanno detto ho detto guardi…è ginecologo il dott. Germilli, Lei non era socio di una società Habitat?

CLAUDIO GERMILLI - GINECOLOGO No. Habitat sembra più una società immobiliare.

GIULIO VALESINI No! Habitat con l’h davanti. Mi sembra che i soci erano i Rivalsato…No?

CLAUDIO GERMILLI - GINECOLOGO Non saprei che dirle.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Eppure, si trattava di soci ingombranti. Giovanni Risalvato è stato condannato a 14 anni per essere uno dei fiancheggiatori del capo di Cosa Nostra. Mentre il fratello Errico Risalvato, è l’inquilino del secondo covo appena trovato di Matteo Messina Denaro. Ma durante l’inchiesta sul Cnr avevamo anche scoperto uno strano giro di finanziamenti pubblici. Lo aveva detto l’allora capo della sede del CNR di Capo Granitola, Mario Sprovieri, quando parla di come sono stati gestiti i 100 milioni di fondi provenienti dal Ministero e destinati alla ricerca. Sprovieri viene registrato in questo documento, che Report ha proposto in esclusiva.

MARIO SPROVIERI – REGISTRAZIONE AGOSTO 2014 Con la Gelmini, cento milioni di euro di Pon. Questi cento milioni, per le cose che bisognava fare non è stato speso nulla. Improvvisamente sono spuntati i consorzi, i giri. Se vuoi io ti faccio avere il dossier su tutte queste persone, che io ho letto. Ed è agghiacciante. Tieni presente che Capo Granitola è la casa di Matteo Messina Denaro. Il boss ricercato al mondo numero uno, è là.

GIULIO VALESINI La persona che l’aveva registrata era Laura Giuliano, all’epoca direttrice dell’istituto del Cnr, nipote di Boris Giuliano capo della squadra mobile di Palermo ucciso dalla mafia. Era rimasta sconvolta dalle dichiarazioni di Sprovieri. Aveva denunciato e scoperchiato il malaffare nel CNR, facendo partire un audit. Ma poi Laura Giuliano si è dimessa ed è andata a lavorare all’estero. Oggi parla in esclusiva con Report.

LAURA GIULIANO Ho sentito molto precocemente parlare di Messina Denaro in quella zona e quindi, come faccio a dire che sono sorpresa?

GIULIO VALESINI Lei si riferisce alla registrazione che fece lei in cui Mario Sprovieri le disse: Capo Granitola è la casa di Matteo Messina Denaro.

LAURA GIULIANO Lo presi per un pazzo, ho pensato: è un pazzo. Però adesso lo penso molto di meno, insomma. Tutto quello che mi aveva detto era tutto vero; tutte le cose che io ho potuto in documenti vari, trasmettere anche via l’audit alla procura, erano cose che mi aveva detto. Poi l’audit passò anche da Capo Granitola com’è passato dalle altre sedie e quella fu un’altra delle situazioni un po’ anomale, perché quando è passato da Capo Granitola molti dei documenti non sono mai stati consegnati all’audit perchè probabilmente non esistevano più.

GIULIO VALESINI Quindi posso pensare maliziosamente che c’erano dei contratti, che c’erano degli affidi, che c’erano delle spese, che non dovevano uscir fuori?

LAURA GIULIANO Io ricordo soltanto che alcuni documenti erano essenziali

GIULIO VALESINI Perché la guardiania notturna era affidata non ad un soggetto assunto da una ditta di security ma assunto da una ditta di pulizie, da quello che mi risulta, armato.

LAURA GIULIANO a me hanno spiegato che appunto era più facile trovare una persona come lui che una guardia giurata in quel contesto, perché nessuno voleva stare a Capo Granitola.

GIULIO VALESINI Ma lei è stata spinta alle dimissioni? Cioè qualcuno le ha detto “vattene”? La verità…

LAURA GIULIANO sì, mi hanno suggerito forse che la cosa migliore da fare era di andare via

GIULIO VALESINI Dai vertici del CNR dell’epoca.

LAURA GIULIANO Era un auspicio che veniva da vari livelli, compresi quelli più alti.

GIULIO VALESINI Lei di questa storia di Messina Denaro, della registrazione, di Capo Granitola, è stata mai ascoltata dall’autorità giudiziaria?

LAURA GIULIANO Ah sì, sì sì. Io sono andata di mia sponte nonostante l’audit a chiedere comunque di essere ascoltata

GIULIO VALESINI Procura di?

LAURA GIULIANO Di Napoli.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A confermare che Matteo Messina Denaro fosse in quella zona, è il collaboratore di giustizia Benito Morsicato. Racconta che nel 2013 proprio per non turbare la latitanza del capo di Cosa Nostra, fu rinviata una rapina all’ufficio postale di zona, poco distante dalla sede del CNR di Capo Granitola. Durante l’inchiesta abbiamo anche incontrato un dipendente che giura di averlo visto davanti alla sede del CNR. DIPENDENTE CNR Ero fuori orario di lavoro. Mi trovavo da quelle parti, cioè mi avvicino verso i cancelli e questa persona tipo, rimane a distanza. Ma tu hai presente quando dici “ma io questo lo conosco”? Per me guarda, era lui…Matteo Messina Denaro. Ero scioccato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Aveva scioccato anche noi. Poi abbiamo tirato, unito i punti di questa storia e aumentano gli interrogativi. Intanto emerge già da un’informativa del 2021 che i carabinieri sapevano la presenza di Matteo Messina Denaro a Campobello di Mazara e Torre Granitola. Boss e fiancheggiatori a casa loro. Mentre Laura Giuliano, nipote del capo della squadra mobile, Boris Giuliano, ucciso nel 1979 per mano della mafia, ricercatrice colei che ha dato il via alle indagini e all’audit sulle anomalie del Cnr di Capogranitola, è stata costretta ad andare all’estero per fare ricerca.

IL SENATORE Ê COSA NOSTRA di Walter Molino Collaborazione Federico Marconi

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Qui una volta era tutta mafia. Ê in questo feudo di una Sicilia arcaica che la famiglia dei baroni D’Ali ha costruito, consolidato e difeso un secolo di potere nella provincia di Trapani. Ed è tra questi vigneti che il potere negli anni ha trasformato il suo volto. I latifondisti hanno creato banche e sono entrati in politica, hanno scalato i vertici delle istituzioni. I campieri si sono fatti boss e scalato la gerarchia di Cosa Nostra, hanno fatto stragi e ricattato lo Stato, fino a diventare imprenditori del crimine globale.

WALTER MOLINO Lei tra il 1992 e il 1994 è senatore del partito repubblicano.

VINCENZO GARRAFFA - SENATORE PARTITO REPUBBLICANO 1992-1994 Si.

WALTER MOLINO Poi, ‘94 nuove elezioni: si ricandida nel collegio di Trapani e il suo avversario è Antonio D’Alì. VINCENZO GARRAFFA - SENATORE PARTITO REPUBBLICANO 1992-1994 Un avversario sicuramente prestigioso, perché era uno dei proprietari di quella che era la banca pi importante privata siciliana, la Banca Sicula. Una campagna elettorale faraonica, costata quattro miliardi delle vecchie lire. WALTER MOLINO Quella campagna elettorale per D’Alì è un trionfo.

VINCENZO GARRAFFA - SENATORE PARTITO REPUBBLICANO 1992-1994 Un giorno mi venne a trovare un collega di Salemi. Mi disse: Vincenzo, con il cuore ti appoggerà, farà quello che posso però non mi posso pi esporre perché da Castelvetrano è venuto qualcuno e mi ha detto, riferisco la testuale frase: “Duttu’ si tirasse u su rimo” (Dottore, tiri il suo remo in barca), come a dire: dottore si faccia gli affari suoi, non deve appoggiare il senatore Garraffa.

WALTER MOLINO Questo messaggero arrivava da Castelvetrano.

VINCENZO GARRAFFA - SENATORE PARTITO REPUBBLICANO 1992-1994 Da Castelvetrano.

WALTER MOLINO Paese di Messina Denaro.

VINCENZO GARRAFFA - SENATORE PARTITO REPUBBLICANO 1992-1994 Esatto. La famiglia Messina Denaro era stata in rapporti di lavoro e di affari con il futuro senatore D’Alì.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Senatore della Repubblica per 24 anni, presidente della provincia di Trapani, sottosegretario agli interni dal 2001 al 2006, nel più longevo dei governi di Silvio Berlusconi. Quando Antonio D’Alì è finito sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa, era sicuro che l’avrebbe fatta franca.

ANTONIO D’ALI’- SENATORE FOR=A ITALIA 1994-2018 -SOTTOSEGRETARIO AGLI INTERNI 2001-2006 Sul mio processo risponderanno i fatti, i fatti hanno già risposto perché abbiamo smontato tutte le illazioni. Non c’è un riscontro di fatto.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO E invece, dopo cinque processi, è stato condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione a sei anni di carcere e il 14 dicembre scorso si è costituito nel carcere di Opera, a Milano. Un mese dopo è finita la trentennale latitanza di Matteo Messina Denaro.

TERESA PRINCIPATO - PROCURATORE AGGIUNTO DI PALERMO 2009-2017 A Trapani lui aveva sin dalla nascita praticamente una rete di protezione tra le pi forti. In particolare, il senatore D’Alì, sottosegretario agli Interni fino al 2006, quando tu hai la possibilità di manovrare tutta la polizia sei il padrone della Sicilia. Aveva avuto come campiere Ciccio Messina Denaro, aveva inserito in una delle sue banche il fratello di Matteo.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Andrea Tarondo è stato il magistrato che per primo ha indagato su Antonio D’Alì. Sostituto procuratore a Trapani per 22 anni, dal 2019 si è trasferito in Per a combattere il narcotraffico.

INTERVISTA ANDREA TARONDO ± SOSTITUTO PROCURATORE TRAPANI 1997- 2019 Fondamentalmente D’Alì ha costituito uno dei meccanismi attraverso cui la mafia trapanese e Messina Denaro si è interfacciato con i settori della società che non poteva raggiungere direttamente. Era un’interfaccia anche per il mondo bancario.

WALTER MOLINO Che cosa significa per Cosa nostra avere un punto di riferimento a Roma, in uno dei gangli vitali del governo?

INTERVISTA ANDREA TARONDO - SOSTITUTO PROCURATORE TRAPANI 1997- 2019 Ê stato Sodano il primo a farci notare, poi abbiamo anche fatto indagini, che noi confiscavamo ma alla fine la mafia continuava a controllare i beni confiscati.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il prefetto di Trapani Fulvio Sodano, nei primi anni duemila, provò a fare una piccola rivoluzione. Era l’epoca in cui lo Stato confiscava ingenti patrimoni mafiosi che poi non sapeva a gestire. E Cosa nostra riusciva sempre a rimetterci le mani.

INTERVISTA ANDREA TARONDO - SOSTITUTO PROCURATORE TRAPANI 1997- 2019 Tutto è cominciato con strutture imprenditoriali come la Calcestruzzi Ericina, quindi un presidio sul territorio, in quel settore economico che è il settore dell’edilizia, etcetera, che era una spina nel fianco veramente per l’associazione mafiosa.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Negli anni ‘90, la Calcestruzzi Ericina era il fiore all’occhiello del capo mafia di Trapani Vincenzo Virga, dominava il mercato del cemento. Poi però arrivò il sequestro della magistratura, e con l’amministrazione giudiziaria gli affari colarono a picco. Cosa Nostra aveva deciso che l’azienda in mano allo Stato doveva fallire, ma il prefetto Sodano si mise di traverso.

GIACOMO MESSINA - PRESIDENTE COOPERATIVA CALCESTRUZZI ERICINA LIBERA Sostanzialmente ci siamo trovati la mafia in casa, quanto meno in azienda. Nel 2000 arriva la confisca definitiva, noi eravamo sempre gli stessi operai, eravamo sempre nello stesso sito e producevamo sempre lo stesso tipo di materiale del calcestruzzo. Però non riuscivamo ad aggiudicarci commesse e un’impresa dello Stato che non doveva lavorare.

WALTER MOLINO Oggi possiamo dire che questo piano di Cosa nostra fosse supportato da un sottosegretario agli Interni, dal senatore D’Alì?

GIACOMO MESSINA - PRESIDENTE COOPERATIVA CALCESTRUZZI ERICINA Il prefetto Fulvio Sodano è stato cacciato da Trapani perché stava favorendo anche la Calcestruzzi Ericina.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Nel 2003, all’improvviso, Sodano fu trasferito ad Agrigento. La firma sul Decreto è del Ministro degli interni Pisanu. Aveva dovuto cedere alle insistenze del suo sottosegretario D’Alì. Fulvio Sodano, il prefetto del popolo, se n’è andato in punta di piedi nel 2014, alla fine di una lunga malattia. Lo Stato lo ha dimenticato e nel processo all’ex senatore, alla famiglia Sodano è stato impedito di costituirsi parte civile.

MARIA AUGELLO - MOGLIE DI FULVIO SODANO Noi ci siamo costituiti parte civile…

ANDREA SODANO - FIGLIO DI FULVIO SODANO Ma ci è stata rifiutata. Siamo stati l’unica parte civile rifiutata

MARIA AUGELLO - MOGLIE DI FULVIO SODANO Quando si è insediato, come sottosegretario, D’Alì, mio marito è stato invitato a pranzo da lui. E da subito si è presentato dicendo: ³Io ho carta bianca dal ministro, da me dipendono i trasferimenti dei prefetti e dei questori´. Col senno di dopo, di appena dopo, tutto questo è suonato come un’avvisaglia: ³Attento a quello che fai´.

WALTER MOLINO Perché Antonio D’Alì ce l’aveva così tanto con suo padre?

ANDREA SODANO - FIGLIO DI FULVIO SODANO Nel febbraio 2003 durante la venuta del presidente della Repubblica dell’epoca Carlo Azeglio Ciampi papà venne ritenuto responsabile del fatto che il presidente non fosse andato a far visita alle sue saline. Testuali parole che sono state proferite da D’Alì a mio padre: ³Di questo la riterrà responsabile´.

WALTER MOLINO Lei ha scritto tante lettere alle istituzioni, ma siete stati sempre ignorati

MARIA AUGELLO - MOGLIE DI FULVIO SODANO Sempre. Se si abbandona un servitore dello Stato, che ti chiede aiuto e ti chiarisce quelli che sono i motivi, cioè quello di schierarsi a protezione della legalità, della giustizia, te lo dimostra in tutti i modi, e tu lo isoli e lo abbandoni, tu Stato lo stai consegnando alla mafia.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO Trapani, provincia di Cosa nostra e massoneria. Di logge regolari e logge segrete. Camere di compensazione per colletti bianchi, professionisti insospettabili, e mafiosi. Nel 2016 un censimento della Digos ha contato 19 logge regolari nel trapanese. Tra gli iscritti alla loggia ³Valle di Cusa´ di Campobello di Mazara c’era Alfonso Tumbarello, il medico di base di Matteo Messina Denaro. Nel 2006 Tumbarello si candidò alle elezioni regionali nella coalizione di Totò Cuffaro ma pochi ricordano che cinque anni dopo, nel 2011, tentò la corsa a sindaco di Campobello. Sostenuto da Antonio D’Alì.

ANTONIO D’ALI’- SENATORE FORZA ITALIA 1994-2018 -SOTTOSEGRETARIO AGLI INTERNI 2001-2006 Il dottore Tumbarello è una persona di grande serietà morale e di grande capacità amministrative.

ROBERTO SCARPINATO - SENATORE M5S PROCURATORE GENERALE DI PALERMO 2013-2022 Trapani è stata la patria della massomafia, cioè della confederazione organica della parte peggiore della massoneria, quella piduista e la mafia. La loggia Scontrino era un’articolazione della P2 di Gelli a Trapani, Gelli veniva lì. Era iscritto il fior fiore della borghesia trapanese, diversi mafiosi. E non dimentichiamo che Trapani era la cellula di un'articolazione di Gladio, Scorpio, la cui attività è sempre rimasta misteriosa e che aveva a disposizione delle piste di atterraggio dove atterravano degli aerei militari e anche delle postazioni dove potevano atterrare aerei che sfuggivano ai controlli radar di Palermo e di Trapani Birgi. E che questa attività dei servizi non si può fare in un territorio come quello di Trapani, controllato palmo a palmo dalla mafia, se non hai un rapporto di complicità con la mafia.

CONSIGLIERE COMUNALE Stasera c’è Report in consiglio comunale, vengono a fare delle riprese. Li ho appena incrociati.

WALTER MOLINO Ma questa sera parlate dell’arresto di Matteo Messina Denaro?

CONSIGLIERE COMUNALE No, ne abbiamo già parlato.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO A Palazzo Cavarretta, gioiello del barocco trapanese, si riunisce il consiglio comunale. All’ordine del giorno non c’è la mafia, ma la cittadinanza alla memoria di Aristide Zucchinari, bomber del Trapani calcio degli anni ¶50.

CHIARA CAVALLINO - CONSIGLIERE COMUNALE M5S TRAPANI Trapani diciamo che si sveglia con una notizia eclatante, un fatto eclatante, una vittoria grandiosa, e lo fa in silenzio.

WALTER MOLINO FUORI CAMPO A presiedere l’assemblea è Giuseppe Guaiana, l’ultimo pupillo della scuderia di D’Alì. Cresciuto all’ombra dell’ex senatore, Guaiana ha lasciato Forza Italia nel 2017 e alle ultime elezioni regionali si è candidato con Totò Cuffaro. WALTER MOLINO Lei è mister preferenze a Trapani

GIUSEPPE GUAIANA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO COMUNALE DI TRAPANI Ê la ben terza volta che sono il primo degli eletti.

WALTER MOLINO L’ultimo pupillo dell’ex senatore D’Alì.

GIUSEPPE GUAIANA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO COMUNALE DI TRAPANI Ma guardi con il senatore non ci sentiamo da tempo al di là delle vicende che sono avvenute.

WALTER MOLINO Ma la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa dell’ex senatore D’Alì. Come l’ha vissuta lei questa notizia?

GIUSEPPE GUAIANA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO COMUNALE DI TRAPANI Ma guardi sono dell’idea che le sentenze devono soltanto essere rispettate e non vanno commentate.

WALTER MOLINO Avete discusso della sentenza di condanna qui in consiglio comunale?

GIUSEPPE GUAIANA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO COMUNALE DI TRAPANI No, no, quello è un argomento che non è stato citato.

WALTER MOLINO E anche il senatore D’Alì merita tutta la sua stima.

GIUSEPPE GUAIANA - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO COMUNALE DI TRAPANI Quello lo dicono i magistrati e le sentenze vanno applicate. La mia stima come senatore della Repubblica, il mio affetto come senatore della Repubblica, si è impegnato per questo territorio.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nella sentenza della Cassazione si legge: che D’Alì, con piena coscienza e volontà ha favorito Cosa nostra per pi di 20 anni e ³Ha stretto un patto politico/mafioso con Cosa nostra che in cambio ha garantito l’appoggio elettorale´. Ora, a testimoniare sono stati collaboratori di giustizia, un sacerdote, la moglie Maria Antonietta Picci Aula, che conosceva i suoi rapporti pericolosi e li ha confermati alla giustizia tra l’ex marito e Matteo Messina Denaro. Ecco, appena nominato sottosegretario all’Interno nel 2001, D’Alì poi ha favorito la mafia. Come? Spostando il prefetto Fulvio Sodano, con cui aveva avuto un contrasto sulla gestione dei beni confiscati, poi cercando di spostare il capo della Squadra Mobile di allora, Linares, che stava indagando sui rapporti tra mafia, investitori, politica, ed era alla caccia di Matteo Messina Denaro. In una provincia complicata, difficile. Giovanni Falcone diceva che la provincia di Trapani era la Svizzera per la mafia. E la magistratura era ben attenta a non ficcare il naso là dentro. Anche perché sostanzialmente c’erano delle situazioni particolari. Nel 1986, presso il circolo Scontrino, viene sequestrata la lista degli iscritti alla Loggia massonica Iside 2, quella fondata da Licio Gelli. Nel 1987 era attivo il Centro Scorpione di Gladio, a pochi passi da San Vito Lo Capo. Nel 2016 il procuratore Marcello Viola deposita una lista con 460 massoni, in cui dentro c’era anche Tumbarello, il medico di Matteo Messina Denaro ± ma c’erano dentro anche i nomi di politici, avvocati, imprenditori, uomini delle forze dell’ordine. E insomma, e poi, questo evidenziava un tessuto sociale assai complicato. Insomma, nella provincia di Trapani è dal 1800 che regna la mafia. Nel 1838 addirittura il prefetto di allora Ulloa descriveva al procuratore del re il trapanese come un territorio ³coperto da un’amalgama di poteri difficili da penetrare´. Insomma, dove le cose si vengono a sapere con mezzo secolo di ritardo. Come l’omicidio del giornalista Mauro Rostagno, avvenuto nel 1988. Solo oggi si può dire che l’ordine di uccidere un ³pericoloso ficcanaso´, così veniva definito, era arrivato da don Ciccio Messina Denaro, il padre di Matteo, campiere di quel senatore D’Alì. E tuttavia anche oggi, dopo il suo arresto, nella scheda di presentazione del Parlamento lo Stato lo presenta come banchiere e agricoltore. Il nostro Paolo Mondani.

LATITANTE DI STATO Di Paolo Mondani Collaborazione di Marco Bova, Roberto Persia Immagini Alfredo Farina Montaggio Elisa Carlotta Salvati

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Messina Denaro viaggiava. Dall'Albania, ultima sua destinazione estera conosciuta, alle vacanze a Selinunte, qui a due passi dalla zona archeologica, proprio l'estate scorsa. E poteva contare sulla non collaborazione fra le forze dell'ordine che lo cercavano. E fanno fatica anche i processi: tanto che occorre aspettare il 21 ottobre del 2020 per vederlo condannato come mandante delle stragi del 1992 in seguito al lavoro del pubblico ministero Gabriele Paci.

GABRIELE PACI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TRAPANI All'interno dell’abitazione di Messina Denaro c’era una specie di sottofondo dove Francesco Messina Denaro, il padre, si nascondeva quando negli anni ‘80 lo venivano a cercare. Quindi ogni volta che lo andavano a cercare non lo trovavano mai. Al che Matteo Messina Denaro prende carta e penna con una certa, con una spavalderia che denota lo spessore del personaggio, giovanissimo, dice: guardate mio padre va in giro per lavoro non ha tempo di venire quindi lasciate perdere, e non insistete!

PAOLO MONDANI Dice Brusca, nel processo a Matteo Messina Denaro, che Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro erano un po' come il secchio e la corda. In qualche modo i veri eredi di Cosa Nostra.

GABRIELE PACI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TRAPANI Si

PAOLO MONDANI È così?

GABRIELE PACI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TRAPANI Si è così. Riina ha bisogno secondo me di blindare la strategia stragista e una delle tante funzioni che svolge Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano è quello di essere sentinella di questo, di questo progetto. Quella famosa frase: "parla con Matteo, se mi succede qualche cosa voglio che tu parli con Matteo´ sta a significare che Matteo era a conoscenza di tutti i segreti di Totò Riina.

PAOLO MONDANI Che idea si è fatto lei di Matteo Messina Denaro capo di Cosa Nostra. Lo è davvero il capo di Cosa Nostra?

GABRIELE PACI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA TRAPANI Ha fatto tutto quello che Totò Riina gli ha chiesto fino a quando questo è servito per scalare rapidamente la scala gerarchica di Cosa Nostra quando Totò Riina è stato arrestato finita la stagione delle stragi lui ha preso in mano la situazione e si è adattato alla nuova cosa nostra. È il grande cruccio di Riina, dice: io me lo sono cresciuto, l’ho creato io, l’ho tenuto quattro- cinque anni ed era picciotto bravo proprio come lo volevo io poi adesso si è dimenticato tutto e si è messo a fare affari e si è dimenticato di fare quello che io gli avevo insegnato, cioè mettere le bombe

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Messina Denaro e Graviano erano quindi ritenuti fratelli gemelli. Nell'estate del 2020, Salvatore Baiardo, favoreggiatore della latitanza di Giuseppe Graviano, ci spiegò perché il boss stava raccontando per la prima volta ai magistrati dei suoi rapporti di affari con Silvio Berlusconi – l’Italia è il paese che amo - Tanto da far immaginare un vero e proprio ricatto.

SALVATORE BAIARDO Lui ha ancora una speranza PAOLO MONDANI Graviano?

SALVATORE BAIARDO Si PAOLO MONDANI Legata a che cosa?

SALVATORE BAIARDO Legato che... tirino via sto 41 bis, che l’ergastolo venga abrogato e lui facendosi 30 anni di galera, già se ne è fatti 27 quasi. Quella è ancora l’unica sua speranza

PAOLO MONDANI Le sembra possibile?

SALVATORE BAIARDO Non è impossibile

PAOLO MONDANI Nel 1996 lei era alla Dia di Milano e indaga sulle stragi del ‘93 e insieme alla Dia di Firenze a un certo punto firma una informativa sulle rivelazioni di un testimone, Salvatore Baiardo, amico strettissimo dei fratelli Graviano. Chi era Baiardo?

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE DELLA POLIZIA DI STATO Risultò essere un manutengolo dei fratelli Graviano, cioè uno che sostanzialmente aveva favorito la latitanza ospitandoli direttamente

PAOLO MONDANI Voi quando fate la seconda informativa quella del ‘97 e Baiardo vi racconta dove è stato in vacanza: Venezia, Riccione e in Sardegna i Graviano è precisissimo e voi riscontrate tutto un bel po’ di cose vere ve le ha raccontate

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE DELLA POLIZIA DI STATO Le sapeva PAOLO MONDANI …e le sapeva

FRANCESCO MESSINA - DIRETTORE CENTRALE ANTICRIMINE DELLA POLIZIA DI STATO Si sì non c’è dubbio

PAOLO MONDANI Giuseppe con Matteo si vedevano spesso?

SALVATORE BAIARDO Veniva anche qua a trovarlo

PAOLO MONDANI Veniva anche qui a Omegna? Più di una volta?

SALVATORE BAIARDO Si PAOLO MONDANI Sempre da solo? Cioè accompagnato

SALVATORE BAIARDO Con la compagna, ma non voglio parlare di lui

PAOLO MONDANI No, ma lei lo ha visto di viso? Stava bene, stava in salute?

SALVATORE BAIARDO Sì, anche se adesso dicono che è malaticcio, non lo so.

PAOLO MONDANI L'aveva fatto anche con Report nel 2020 ma nel novembre scorso a Non è l’arena su La7, Salvatore Baiardo annuncia che "l'unica speranza di Graviano è che venga abrogato l'ergastolo ostativo...E visto che Matteo Messina Denaro è molto malato, dice Baiardo, potrebbe consegnarsi lui stesso. E farebbe magari anche un regalino al governo´. Le parole di Baiardo suonano come la previsione di uno scambio: l'arresto dell'ultimo dei Corleonesi in cambio della fine dell'ergastolo ostativo, e magari anche del 41 bis che sono le cose che più odiano i mafiosi.

ANTONINO DI MATTEO - MEMBRO DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Attorno all'ergastolo ostativo si è giocato, e forse si gioca ancora, una partita importante, non per Giuseppe e Filippo Graviano, ma per l'organizzazione Cosa Nostra. Se facciamo questa premessa le dichiarazioni di Baiardo diventano ancora più interessanti da indagare e approfondire. Ricordando una cosa. Che nel '92-'94, quella questione dell'ergastolo fu una delle questioni principali della trattativa portata avanti a suon di bombe. Anche, questo lo dicono le sentenze definitive, proprio dai Graviano. A distanza di trent'anni se effettivamente i Graviano avessero auspicato o autorizzato quelle dichiarazioni di Baiardo ci sarebbe da chiedersi qual è il loro scopo.

PAOLO MONDANI La trattativa stato mafia, nel senso di una continuativa camera di compensazione dove elementi dello Stato trattano con la criminalità organizzata, continua secondo lei?

ANTONINO DI MATTEO - MEMBRO DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Per tanti anni noi siamo stati, i pubblici ministeri di Palermo, accusati di avere costruito teoremi, complotti, di avere inventato storie inesistenti. Oggi una sentenza che non è più quella di condanna degli alti ufficiali del ROS ma è quella di assoluzione degli stessi imputati da parte della Corte di Assise di Appello però afferma che una trattativa ci fu. E afferma, per scendere più nel concreto, che la latitanza di Provenzano fu protetta in un periodo storico particolare anche da quegli alti ufficiali del ROS. Io sono fiducioso che in ogni caso oggi, con l'esperienza di ieri, lo Stato non accetterebbe nessun tipo di trattativa. Però non sono certo che da parte delle menti raffinate della mafia non ci sia la volontà di continuarla. In questo senso le dichiarazioni di Baiardo possono essere interpretate o come una attualizzazione e prosecuzione della vecchia trattativa o come una volontà di parte di Cosa Nostra di riprendere un tipo di dialogo con lo Stato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quella che gli stragisti arrestati nel 93, 94 escano dal carcere è una speranza di tutta Cosa Nostra non solo dei Graviano, alcuni di loro poi sono giovani e ambiscono alla libertà. Con la riforma dell’ergastolo ostativo possono uscire anche senza collaborare, senza spiegare il motivo della mancata collaborazione. Una legge che favorisce il concetto di omertà, perchè favorisce i mafiosi e non invece quelli che vogliono collaborare, aderire al servizio di protezione e che sono obbligati a denunciare i propri beni, quelli che non sono stati ancora confiscati. Matteo Messina Denaro ha pochi mesi di vita davanti a lui però ha già detto che non collaborerà, anche perchè potrebbe inguaiare gli amici fraterni, i Graviano. Potrebbe farlo solo se lo Stato si presenta compatto a chiedergli la verità. Secondo il collaboratore Giuffrè era cosa nota tra tutti I capi di Cosa Nostra che Matteo Messina Denaro possedesse l’archivio di Totò Riina, quello uscito dal covo non perquisito, è stata quella la garanzia della sua latitanza, l’arma del ricatto. Perchè la forza della mafia non è solo nelle bombe, ma anche nella capacità di ricattare chi deve contrastarlo. Ora solo se lo Stato si mostrerà compatto, dicevamo a chiedere la verità, Matteo Messina Denaro potrebbe raccontare il ruolo della Falange Armata, nata dalla costola del Sismi, il servizio militare, il ruolo di Gladio nel Trapanese, I suoi rapporti con Saro Naimo, l’uomo, il capo di Cosa Nostra, uno dei boss di Cosa Nostra americani in contatto con la Cia, il ruolo di quelle lettere a Svetonio scritte a quattro mani con il sindaco Antonio Vaccarino di Castelvetrano sotto la gestione del Sisde di Mario Mori e soprattutto potrebbe dire la verità sulle bombe del 92 e del 93. Nel 93 in particolare quelle che sono state messe per la prima volta fuori la Sicilia, in continente. Le bombe di Firenze, Roma, Milano, che sono servite per la prima volta non a regolare i conti con uomini dello Stato e che hanno provocato però 10 morti tra cui due bambine, una di 9 anni, Nadia Nencioni che prima di morire sotto le bombe dei Georgofili ha scritto una poesia “Tramonto´: è già sera – recita l’ultima strofa – ed è tutto finito. Noi invece vogliamo sperare che non sia morta invano, che questa sia l’alba di una nuova era

La ‘Ndrangheta.

Così imprenditori e ‘ndranghetisti erano al servizio di Matteo Messina Denaro. Stefano Baudino su L'Indipendente il 13 maggio 2023.

Interrogato davanti ai magistrati un mese dopo l’arresto, lo scorso 16 febbraio, Matteo Messina Denaro ha fatto lo “gnorri”. Ha sostenuto di non aver mai fatto parte di Cosa Nostra, di saperne qualcosa solo perché «letto sui giornali», e di non aver avuto mai alcuno dei soprannomi che hanno accompagnato il suo personaggio, che gli sarebbero invece stati «attaccati dai giornalisti» quando era latitante. Una narrazione in perfetto stile mafioso, che pare un copia e incolla delle dichiarazioni del suo mentore Totò Riina davanti ai giudici negli anni Novanta. Eppure, nell’occasione qualche dettaglio sulle sue strategie finanziarie Messina Denaro se lo fa scappare. E, in contemporanea, le indagini continuano, svelando elementi importanti sulle protezioni di cui “U Siccu” avrebbe goduto prima della cattura.

«Mi chiamo Matteo Messina Denaro, lavoravo in campagna ed ero un agricoltore». Queste le prime parole messe a verbale dal boss, che davanti al gip Alfredo Montalto e ai sostituti procuratori Gianluca De Leo e Giovanni Antoci si considera «un apolide», non avendo una residenza ufficiale «da tanto tempo». I magistrati gli chiedono se possegga dei beni. Il boss diventa ironico e dice: «Li avevo, ma me li avete tolti tutti, se qualcosa ho, non lo dico, sarebbe da stupidi».

Le cronache ci raccontano che, durante gli anni della latitanza, molti beni del capomafia e decine di suoi prestanome sono stati scoperti dagli inquirenti. Ingenti i sequestri: un miliardo e mezzo era stato tolto all’imprenditore “re dell’eolico” Vito Nicastri; un altro miliardo e mezzo a Carmelo Patti, patron dell’ex Valtur, cui la Dia ha confiscato decine di società, villaggi turistici, appezzamenti di terreno, immobili e disponibilità bancarie; 700 milioni a Giuseppe Grigoli, che gestiva una quarantina di supermercati tra Trapani ed Agrigento; 500 milioni a Rosario Cascio, considerato “l’interfaccia economico di Matteo Messina Denaro”, nel settore dell’edilizia. In totale, la quota riconducibile al mafioso di Castelvetrano ammonta a oltre 4 miliardi.

Dai pizzini, si è scoperto che ogni anno Messina Denaro appuntava un’entrata fissa di circa 20mila euro. Per provare a comprendere da dove provenissero, si può forse fare riferimento a una «prassi» riferita proprio dal boss nel corso dell’interrogatorio. Il meccanismo è lineare: «nel momento in cui avrei deciso che avevo bisogno io, lo facevo sapere»; il finto proprietario del bene «lo vendeva e mi mandava i soldi»; ma «prima se li metteva in banca e poi, a poco a poco, li prendeva», racconta il boss.

Nel frattempo, importanti risultanze investigative fanno ulteriore luce sulle entrature del padrino al di fuori degli ambienti di Cosa Nostra. Dagli ultimi elementi raccolti dagli investigatori, è infatti emerso che il teatro dell’ultima fase della latitanza del boss prima del suo approdo a Campobello di Mazara è stata la Calabria. Messina Denaro avrebbe trovato rifugio tra le città di Lamezia Terme e Cosenza, protetto dalla ‘ndrangheta, dove poté seguire affari legati alla droga, al business dell’eolico e alla realizzazione di un villaggio turistico. «Dice che Matteo era in Calabria ed è tornato…», rivela il boss di Partanna Nicola Accardo ad un altro “punciuto”, Antonino Triolo, il 3 settembre del 2016. I due mafiosi, intercettati dagli inquirenti, parlano proprio degli spostamenti di Matteo Messina Denaro.

Solo pochi mesi fa, si sono aperte le porte del carcere per Antonino D’Alì, ex senatore di Forza Italia e sottosegretario all’Interno condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, il quale strinse numerosi patti politico-mafiosi con Cosa Nostra e favorì Messina Denaro e altri esponenti illustri dell’organizzazione.

Lo scorso marzo, nell’ordinanza di custodia cautelare per la sorella del boss di Castelvetrano, Rosalia, che curò la latitanza del fratello e agì al suo servizio come “messaggera”, il gip di Palermo Saverio Montalto aveva invece fatto riferimento ai favori che il boss avrebbe ricevuto prima dell’arresto da parte di “talpe” delle forze dell’ordine o di “tecnici esperti”. Lo stesso gip fa riferimento a “canali tutti da investigare“. L’impressione è che questi “canali” siano numerosi e variegati. E che le indagini sul network che ha curato, sostenuto e protetto la latitanza di Matteo Messina Denaro proseguiranno ancora per molto tempo. [di Stefano Baudino]

Gli ultimi anni di Messina Denaro? In Calabria protetto dalla 'ndrangheta. Si nascondeva in casolari fatiscenti. Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2023.

La ricostruzioni degli inquirenti: prima di rientrare a Campobello di Mazara, il boss viveva tra Cosenza e Lamezia Terme. I dettagli della riappacificazione con la figlia naturale: trovate decine di lettere. Lorenza andò a vivere a Londra e lui non lo tollerò

Decine di lettere per ricucire un rapporto interrotto anni fa, quando Lorenza Alagna decise di lasciare la casa e la difficile famiglia paterna e andare a vivere a Londra. Un affronto mai perdonato dal padre naturale, il boss Matteo Messina Denaro che, da allora, con la figlia non ha più voluto avere a che fare. Ma l’arresto del padrino ha cambiato tutto. E la ragazza, nel frattempo tornata in Sicilia e diventata mamma, dopo la sua cattura l’ha cercato più volte. Gli ha scritto lunghe missive alle quali il boss ha risposto, poi l’ha voluto incontrare nel carcere de L’Aquila.

Da allora il capomafia e Lorenza, che probabilmente non aveva retto la convivenza con la madre e le sorelle del boss, non si sono più lasciati. Che i due non si siano mai visti durante gli anni della latitanza dell’ex primula rossa di Cosa nostra è tutto da accertare. Gli inquirenti, che non escludono affatto che padre e figlia abbiano potuto incontrarsi, stanno tentando di scoprirlo.

Mentre è ormai sicuro che Matteo Messina Denaro, prima di trasferirsi a Campobello di Mazara, il paese a otto chilometri da Castelvetrano in cui ha passato gli ultimi anni, abbia vissuto in Calabria. Gli anni calabresi, però, sarebbero assai diversi da quelli trascorsi, negli agi, in provincia di Trapani, dove il padrino è riuscito, pur sotto falso nome, a vivere un’esistenza quasi normale. E piuttosto ricorderebbero le difficili latitanze di capimafia storici come Bernardo Provenzano, costretto a nascondersi in fatiscenti casolari di campagna e a spostarsi continuamente.

Protetto dalle ‘ndrine locali, Messina Denaro, dunque, ha trovato rifugio tra Lamezia Terme e Cosenza, territori in cui avrebbe realizzato anche diversi affari: da quello dei traffici di droga in cui i clan locali hanno ormai conquistato un ruolo di primo piano, a progetti di realizzazione di un villaggio turistico e di impianti eolici, business sul quale Messina Denaro, attraverso l'imprenditore Vito Nicastri, avrebbe investito anche in Sicilia. Della esistenza calabrese del capomafia, che, secondo gli investigatori, avrebbe vissuto anche lunghi periodi all’estero, parlavano d’altronde anche i suoi.

Il 3 settembre del 2016. Nicola Accardo e Antonino Triolo, due mafiosi di Partanna, nel trapanese, non sapendo di essere intercettati rivelavano: «Dice che Matteo era in Calabria ed è tornato…». Il lavoro di ricostruzione dei 30 anni di vita alla macchia del boss, comunque, è solo all’inizio. E tra i capitoli tutti da scrivere c’è anche quello della convivenza con Laura Bonafede, la maestra figlia del capomafia di Campobello arrestata per favoreggiamento. È lei stessa, nei pizzini, a parlare della coabitazione con Matteo Messina Denaro pur non specificando dove sia avvenuta. Racconto confermato di fatto dal padrino che, in una lettera alla sorella, ha rivelato di aver cresciuto la figlia della insegnante, Martina, come fosse la propria.

L’Ambiente.

Chi ha tradito Matteo Messina Denaro? Soffiata dal 41 bis: “La Palermo bene ora trema”. Il Tempo il 19 marzo 2023

Sono passati appena dodici giorni dal clamoroso arresto di Matteo Messina Denaro e in quel periodo il boss non riesce a capacitarsi di come i carabinieri del Ros lo abbiano circondato e poi fermato. A raccontare il retroscena sui discorsi del numero uno di Cosa Nostra dal carcere de L’Aquila, dove è detenuto al 41 bis, è Repubblica, che svela il colloquio tra l’ex primula rossa  la dottoressa che lo visita nei consueti controlli per via della malattia: “Dottoressa, lei è mai stata a Palermo? È una città bellissima di un milione di abitanti, e le dico una cosa… Da qualche giorno a questa parte tutta la Palermo bene ha le unghie 'ammucciate', nascoste”.

“Detto questo si stampa sulla faccia del boss un sorriso esteso fino quasi alle orecchie, una specie di ghigno orribile, che spaventa. Il ghigno del boss, che nei giorni successivi all'arresto non si capacita su come è stato scoperto, è rivolto a questo atteggiamento, che non riguarda tutta la società palermitana, ma quelli che lo hanno favorito. ‘U siccu’ parla proprio di Palermo, punta il dito sulla città, fa credere che potrebbe avere avuto a che fare con persone della borghesia palermitana, dei salotti del capoluogo” la ricostruzione effettuata da Lirio Abbate sul quotidiano. In particolare Messina Denaro ipotizza che sia stato proprio qualcuno di Palermo a venderlo, magari qualcuno nella galassia della clinica Maddalena, dove è stato arrestato. E intanto le indagini vanno avanti, cercando di ricostruire la rete del capomafia, che a Campobello di Mazara era piuttosto estesa.

Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per “la Repubblica” il 19 marzo 2023.

 «Dottoressa, lei è mai stata a Palermo? » chiede Matteo Messina Denaro al medico che lo sta visitando in carcere, e lei risponde: «No, non sono mai andata a Palermo». Il boss sorride e replica subito, vorrebbe attaccare bottone: «È una città bellissima di un milione di abitanti, e le dico una cosa… », il capomafia la guarda in faccia, accenna con l’espressione della bocca ad un sorriso ironico, imposta il tono della voce come per fare un annuncio serio e importante, e lancia una bordata che lascia senza parole la dottoressa.

 «Da qualche giorno a questa parte», dice Messina Denaro, «tutta la Palermo bene ha le unghie “ammucciate”, nascoste». Detto questo si stampa sulla faccia del boss un sorriso esteso fino quasi alle orecchie, una specie di ghigno orribile, che spaventa.

Messina Denaro parla della “Palermo bene” dopo dodici giorni dal suo arresto e lo fa in seguito alle dichiarazioni pubbliche del procuratore della città, Maurizio De Lucia, il quale ha spiegato come «Cosa nostra sia riuscita a entrare nei salotti buoni dove si discute di affari, finanziamenti, appalti, dove si decidono le politiche pubbliche. E vi è entrata dalla porta principale, parlando con i suoi interlocutori da pari a pari».

Il magistrato si è soffermato sul fatto che «la mafia ha sempre avuto rapporti strettissimi con una parte della società », sottolineando «come Messina Denaro abbia goduto di un appoggio molto ampio, non solo di certa borghesia».

 […] Non graffiano. Non parlano. Stanno rintanati. Perché hanno paura di lui, ma ancor di più, delle indagini sulla sua latitanza, che si sviluppano di giorno in giorno coordinati dal procuratore De Lucia e dall’aggiunto Paolo Guido.

[…] Messina Denaro non aveva messo in conto di poter essere arrestato né tantomeno di essere tradito. E la sua rabbia in carcere, camuffata dal ghigno, l’ha portato ad ipotizzare che a Palermo i pesci dell’acqua in cui si muoveva lo avessero “venduto”, che poteva essere stato abbandonato forse da qualcuno della clinica Maddalena in cui è stato arrestato. Questo passaggio fa ipotizzare, dunque, che nella struttura c’era chi conosceva la sua vera identità? E lo ha coperto durante le cure?

 “U siccu” non ha mai pensato ad una soffiata arrivata da Campobello di Mazzara. […] Era sicuro dei suoi “sudditi”. Purtroppo in questa zona del Trapanese, Matteo è stato solo amato. […]

Estratto dell’articolo di Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 6 febbraio 2023.

Non è mai stato un «uomo d’onore». Ma in pochi, dentro Cosa nostra, sono stati così vicini a Totò Riina e soprattutto a Matteo Messina Denaro. Ciccio Geraci prima della sua collaborazione con i magistrati di Palermo e Caltanissetta, è stato l’uomo più fidato del boss di Castelvetrano.

 Tanto che MMD gli aveva affidato il suo tesoro e quello del Capo dei capi. Gioielli e lingotti d’oro per un valore di 2 miliardi di lire. Geraci è morto a 59 anni in una clinica di Milano per un tumore al colon. Lo stesso che ha colpito il boss trapanese.

La prima vita di Geraci è a Castelvetrano. È un bambino, di due anni più giovane di MMD: «Ci conosciamo dall’infanzia perché giocavamo assieme da piccolini. Abita vicino casa mia, in linea d’aria saranno un 200 metri», metterà a verbale anni dopo.

 Le loro strade si separano quando sono adolescenti e Messina Denaro inizia a seguire le orme del padre Francesco: «Lui ha preso la sua strada e io la mia». Ciccio Geraci apre una gioielleria con i fratelli, proprio a Castelvetrano. Poi qualcuno si presenta a chiedere il pizzo. Sono gli anni Ottanta e il controllo di Cosa nostra è soffocante.

Lui sa dove andare, si rivolge al vecchio amico e trova protezione. È l’inizio della seconda vita perché Messina Denaro chiede in cambio un piccolo favore: diventare custode della cassa di famiglia.

 Inizia a portare gioielli e contanti che Geraci nasconde nel caveau, poi quando capisce che può contare sul silenzio dell’amico, si presenta in gioielleria Totò ‘u curtu, il capo della commissione di Cosa nostra. Di incontri ce ne saranno diversi. È lui in persona, a consegnare una borsa con i gioielli delle sue donne: «Sono orecchini, collane e qualche altra cosa, tienili tu».

Quel tesoro sarà scoperto alla fine di settembre del 1996 proprio su indicazione di Geraci, arrestato due anni prima, che in quell’anno diventa collaboratore di giustizia. In una botola profonda un metro e larga 50 centimetri, gli investigatori scoprono anelli di Cartier, spille, bracciali, orologi di lusso e 32 lingotti d’oro per due miliardi di valore. […]

Estratto dell'articolo di Lara Sirignano per il “Corriere della Sera” il 23 gennaio 2023.

 Quando parla del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dalla mafia dopo quasi due anni di prigionia, gli si incrina la voce. «Il bimbo», lo chiama monsignor Domenico Mogavero, vescovo emerito di Mazara del Vallo che, ieri, ha detto messa a Campobello, paese in cui il boss Matteo Messina Denaro si è nascosto, ne sono certi gli investigatori, almeno negli ultimi tre anni.

«Non è una persona per cui possiamo avere troppa pietà. È uno che ha ammazzato tanto, ha sparso tanto sangue, ha ucciso tanti innocenti come Giuseppe», dice al termine della funzione che ha voluto celebrare in un luogo emblematico: la chiesa che si trova a pochi metri dall’ultimo covo del capomafia.

 Mogavero, per anni voce dei migranti e degli ultimi, non crede che il boss stragista possa pentirsi. «Non penso che abbia voglia di parlare», risponde ai giornalisti all’uscita della parrocchia Madonna di Fatima.

 […] «Se non ci fossero state tante coperture, per affetto, per amicizia, sarebbe stato arrestato prima», spiega.

La Sicilia don Mogavero la conosce bene. Conosce complicità e commistioni e sa quanto sia forte e radicata, in alcuni settori della società, la mentalità mafiosa. «In certi ambienti — commenta — non si può dire di no e non tanto per paura, ma per intimità, per vita trascorsa insieme».

 Contro Cosa nostra il vescovo ha sempre parlato apertamente. Lo fa anche ora rivolgendo un appello agli abitanti di Campobello. «Chi sa, parli, perché potrebbe svelare fatti che possono giovare a tante indagini — ammonisce — Usciamo nelle piazze ed esprimiamo la nostra soddisfazione per questa vittoria dello Stato, ma anche il nostro no alla mafia e a tutti i malavitosi. Non ci vuole coraggio, si deve solo essere coerenti col proprio ministero».

Parole non nuove per un religioso che, nel 2011, denunciò espressamente l’esistenza di commistioni tra la Chiesa e la mafia e, nel 2013, negò i funerali religiosi al boss di Mazara del Vallo, Mariano Agate.

Estratto dell’articolo di Rino Giacalone per “La Stampa” il 23 gennaio 2023.

La mafia “arcaica” per rimettere in sesto Cosa nostra. E poi al fianco degli uomini d’onore dai cognomi pesanti, altri uomini fidati, meglio se massoni, l’area grigia di Cosa nostra. Questo insieme per decenni ha costituito la Cosa nostra nelle mani di Matteo Messina Denaro.

 Un’area occulta di «colletti bianchi» in particolare impiantati all’interno della sanità pubblica, dove Matteo Messina Denaro ha avuto forti interessi e intercettato fiumi di denaro. Una scelta strategica di Matteo Messina Denaro coltivata nel periodo della sua latitanza, ancora prima degli arresti di Riina e Provenzano.

 Lo si deduce dai nomi che sono emersi nelle indagini di questi giorni e lo si è potuto dedurre scorrendo le cronache giudiziarie di questi anni di latitanza del boss. Vecchi capi mafia tornati in auge in nome e per conto di Messina Denaro: Vito Gondola a Mazara, Franco Luppino a Campobello di Mazara, Mimmo Scimonelli a Partanna, o ancora Ciccio Pace, Franco e Pietro Virga figli dell’ergastolano Virga e l’ex consigliere comunale Francesco Orlando a Trapani.

Il pentito Nino Giuffrè nel 2002 raccontò in che modo Messina Denaro stava riorganizzando la “provincia” trapanese, «ritornando alle origini e ad antichi appoggi». La mafia controllata da Matteo Messina Denaro si è rigenerata rimettendo al vertice i boss di un tempo e rinvigorendo il legame con la massoneria.

 Un pentito calabrese, un medico, Marcello Fondacaro, ha raccontato dell’esistenza di una loggia segreta chiamata “Sicilia” alla quale apparterrebbe proprio Messina Denaro. Fondacaro è un profondo conoscitore della mafia trapanese, qui era venuto a trovare soci e soldi per costruire un resort in Calabria, a Capo Vaticano, e la mafia trapanese con lui voleva costruire una clinica specialistica a Marsala.

 […] il medico personale, Alfonso Tumbarello, indagato, è risultato essere un iscritto alla massoneria del Grande Oriente d’Italia; il nome di un altro medico massone, Quintino Paola della loggia “Ferrer” di Castelvetrano, è saltato fuori dall’agenda di Giovanni Luppino, l’autista del latitante.

È poi di venerdì la notizia che i carabinieri sono andati a perquisire la casa di Antonio Messina, avvocato (sospeso da anni dall’ordine forense), mafioso, secondo alcuni pentiti uomo d’onore e massone tenuto riservato anche tra le logge. […]

L’avvocato Messina è uno dei nomi della vecchia mafia che con Messina Denaro sono tornati a comandare e fare affari. Uno specialista nei traffici di droga, ma anche uno di quelli capaci di trovare il “ventre molle” nel mondo della giustizia per arrivare a condizionare, o spiare, il lavoro di magistrati e giudici.

Messina Denaro, l'arresto che mette in crisi l'antimafia militante. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 23 gennaio 2023.

L’arresto di un mafioso di tal calibro significa innanzitutto la decurtazione di una buona somma di rendita antimafia: meno materia per i reportage fantasiosi che fanno dell’Italia intera il latifondo della criminalità organizzata, meno ciccia per gli editori dei romanzi cospirazionisti che teorizzano che il sole si leva perché paga il pizzo e i ghiacciai si ritirano per favorire Cosa Nostra, meno trasmissioni televisive per i pubblici ministeri che fanno carriera proprio sulle latitanze dei boss e poi mannaggia i carabinieri li arrestano, e mo’ noi che facciamo, occorre indagare ancora, stai a vedere che li hanno arrestati per fare un favore a Berlusconi, oppure al ciuffo di Donald Trump, alle verruche di Viktòr Orban, o magari in esecuzione della trattativa per sabotare il Ddl Zan.

Nell’attesa del reddito da disoccupazione antimafia, giornalisti, scrittori, registi, attori, conduttori, sindacalisti, influencer della magistratura da telecamera, tutti sono tramortiti nel nuovo scenario deprivato della presenza dell’ennesimo capo dei capi finalmente finito in galera: non va bene, c’è del marcio a Palermo, del marcio perché lo arrestano, mentre se non lo arrestavano vabbè, pazienza, però intanto ci sta un altro libro, un altro film, un altro pippone per spiegare alla gente che deve essere triste perché c’è la mafia, che deve andare a letto pensando che c’è la mafia, svegliarsi ricordando che c’è la mafia e stare attenta a lavarsi i denti perché signori miei la mafia ormai è ovunque e anche gli spazzolini e il collutorio potrebbero fare concorso esterno. C’è da capirli, porelli. Economia in recessione.

In Onda, Scarpinato su Messina Denaro: "Politica? No, chi lo ha protetto". Libero Quotidiano il 22 gennaio 2023

Roberto Scarpinato è intervenuto in collegamento a In Onda, la trasmissione di La7 condotta da Concita De Gregorio e David Parenzo. La presenza dell’ex pm antimafia eletto tra le file del Movimento 5 Stelle è giustificata dall’argomento della serata: Matteo Messina Denaro e i punti oscuri del suo arresto. Da uno degli uomini simbolo della lotta alla mafia, Scarpinato ha dichiarato che il boss “ha goduto di protezioni ad altissimo livello”. 

Altrimenti non sarebbe stato possibile nascondersi per 30 anni, tra l’altro senza neanche rifarsi i connotati: “Negli anni abbiamo visto l’arresto di diversi esponenti delle forze di polizia e degli apparati dei servizi, quindi non si tratta solo di protezioni locali o di professionisti collusi. È una protezione di sistema perché Messina Denaro conosce i segreti delle stragi e gode quindi di un sistema di protezione che va al di là di quello mafioso”. 

Scarpinato ha poi specificato cosa intende quando parla di sistema di protezione: “Mi riferisco ad apparati di servizi e forze di polizia, strutture che hanno coperto anche le stragi di Brescia e Bologna. La politica va e viene, queste strutture sono invece radicate all’interno dello Stato. Dentro lo Stato legalitario, dove ci sono tantissimi funzionari fedeli allo Stato, c’è anche uno Stato profondo che risponde ad altri generi di potere”. 

Striscia la Notizia, “non lo fa nessuno”: la scoperta-choc nella città di Messina Denaro. Libero Quotidiano il 22 gennaio 2023

L’arresto di Matteo Messina Denaro è un fatto storico, dato che il boss dei boss era latitante da trent’anni. Alla fine è stato catturato nel posto più ovvio: casa sua, che lo ha protetto per tantissimo tempo. Stefania Petyx, inviata di Striscia la Notizia, si era recata nel 2018 a Castelvetrano, la cittadina vicina a Trapani. 

In quel servizio il tg satirico di Canale 5 mostrò un fatto particolare: molti dei passanti fermati dall’inviata si sono rifiutati di scattare una foto reggendo in mano il cartello “la mafia fa schifo”. Probabilmente il motivo del rifiuto è da ricercare nella paura di dissociarsi, più che nel sostegno reale alla mafia. A proposito di Messina Denaro, nelle ultime ore è stato accertato che si presentava in ospedale e negli studi medici come Andrea Bonafede, mentre a Campobello di Mazara utilizzava un nome diverso. Una strategia che, secondo gli investigatori, ha aiutato il boss mafioso a condurre una vita normale. 

In pratica utilizzava l’identità di uno degli abitanti di Campobello, il geometra Andrea Bonafede, soltanto per sottoporsi alle cure mediche, dato che non sarebbe stato prudente utilizzarla anche nel paese in cui si nascondeva. Adesso gli investigatori stanno cercando di ricostruire l'ultimo periodo della latitanza - Messina Denaro sarebbe stato a Campobello almeno fin dal 2020 - comprese le generalità con le quali il boss si presentava alle persone e nei luoghi che frequentava in paese.

Petyx aggredita nel paese del covo di Messina Denaro: cosa è accaduto. L'inviata di Striscia la Notizia tentava di realizzare un'iniziativa nel comune del trapanese: un selfie contro la mafia. Federico Garau il 29 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Proponeva agli abitanti di Campobello di Mazara, in provincia di Trapani, ultimo paese che ha ospitato il latitante Matteo Messina Denaro, di fare dei selfie contro la Mafia: per questo motivo Stefania Petyx è stata aggredita durante un servizio realizzato per Striscia La Notizia. "Un paese fino a qualche giorno fa famoso per l'olio di qualità", racconta l'inviata mentre introduce il filmato ai telespettatori di Canale 5, "oggi invece famoso perché ospitava i covi di Matteo Messina Denaro".

L'iniziativa

"Certamente qui c'è tanta gente onesta che non merita questa fama", prosegue Petyx, "quindi noi siamo qui per dare voce a queste persone, seguendo l'esempio di Peppino Impastato". La frase scelta nel cartello da utilizzare nello scatto è rimarcata anche nel film "I Cento Passi": "La Mafia è una montagna di me**a". Un'iniziativa, quella del selfie che non è stata apprezzata da tutti. Alcuni ringraziano ed evitano di partecipare, stando lontani dai microfoni di Striscia La Notizia, altri si avvicinano ma evitano di esporsi in maniera eccessiva."Io sono convinta che la mafia è una montagna di me**a", dice l'inviata a un gruppo di persone, "Voi siete convinti?". "Se volete fare una storia, fate la storia. La storia fatela da soli", replica un uomo che tenta di evitare di rimanere coinvolto. "Lascia perdere, andiamo", suggerisce un altro, prima di allontanarsi."Noi non siamo niente. Né di qua nè di là", replica invece cittadino dall'interno della propria auto.

Dopo essere riuscita a trovare una donna che accetta di fare il selfie col cartello, Petyx si reca al supermercato dove recentemente il boss aveva fatto la spesa. "Sarebbe stato assurdo pensare di riconoscere qualcuno che non si è mai conosciuto", replica il titolare, che poi posa accanto all'inviata per l'autoscatto previsto dall'iniziativa. Diverso destino col titolare del bar in cui Messina Denaro faceva colazione ogni giorno: dopo aver fatto riferire a Petyx dai suoi dipendenti che sarebbe arrivato una volta conclusa una preparazione in cucina, l'uomo ha preferito allontanarsi e sparire nel nulla. "Sono davvero in pochi a lasciarsi avvicinare", è la considerazione dell'inviata.

L'aggressione

"Stiamo facendo una figuraccia", esorta la donna verso un cittadino che si allontana in scooter. "Bastardi maledetti", replica l'uomo, prima di decidere di fermarsi in mezzo alla strada e, dopo aver messo il cavalletto, di avvicinarsi minacciosamente ai cameraman che lo stavano riprendendo. A difendere i collaboratori ci prova l'inviata di Striscia, che si frappone tra loro e il furioso aggressore, che riesce a sferrare dei colpi. "Non rompete i co***oni", intima l'uomo, "'sti scimuniti...Bastardi!". "Vada via, vada, stia tranquillo...", replica Petyx. Una volta in sella, tuttavia, il cittadino accelera e si dirige verso i cameraman investendo inevitabilmente l'inviata che continua a proteggere la sua troupe."Levati, levati", intima l'uomo prima di allontanarsi, "bastardi".

Il commento

"Mi dispiace se ha avuto difficoltà a trovare persone disponibili al dialogo", commenta il sindaco del paese. "Oggi più che mai lo Stato deve essere presente nel nostro territorio. Deve aiutare questa città a tutte quelle che sono state penalizzate e messe in ginocchio dalla presenza di questi mafiosi", aggiunge Giuseppe Castiglione.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 20 Gennaio 2023.

[…] Dopo una vita da pm antimafia a Palermo e Caltanissetta, Gabriele Paci da un anno e mezzo è procuratore di Trapani, il feudo di Messina Denaro.

 Si è stupito della rete di complicità di cui godeva?

«No. Questa è Trapani. Una roccaforte […]».

 Perché roccaforte?

«Questo era un paradiso fiscale per i corleonesi. Banche, finanziarie e prestanome come in Lussemburgo. Riina passava le estati tra Mazara e Castelvetrano, investiva in terreni e immobili. Si appoggiò ai trapanesi per vincere la guerra di mafia contro i palermitani, incoronando il fedelissimo padre di Messina Denaro, don Ciccio, come capo provinciale».

E oggi?

«L'immagine della città è cambiata, il sostrato sociale e criminale no». […] «[…] oggi non ci sono più cadaveri per strada, la mafia fa affari. Tutto passa dai nuovi strumenti di comunicazione. Per questo le intercettazioni sono imprescindibili per corruzione e reati economici».

 Se ne fanno troppe?

«Rispetto a quale parametro? In Inghilterra hanno un Messina Denaro? In Danimarca hanno visto saltare per aria un'autostrada per ammazzare un giudice?».

No, però...

«... però dovrebbe vedere gli sguardi dei colleghi stranieri quando racconto che a Gela lavoravo su due famiglie di cosa nostra, due articolazioni della stidda, una fazione di fuoriusciti. Cinque clan per 70mila abitanti».

 Le piace l'idea di dare budget alle Procure?

«Mi pare un sistema brutale e arbitrario. Se scompare un bambino che faccio, intercetto o rispetto il budget?».

Non si spende troppo?

«Un corretto conto economico dovrebbe sottrarre il valore dei beni confiscati grazie alle intercettazioni e dare un valore ai crimini scongiurati. Comunque, lo Stato potrebbe comprare le strumentazioni, anziché affittarle dai privati. Sarebbe meno caro e più sicuro».

 […] Le intercettazioni finiscono sui giornali.

«Un momento. Se intercetto un boss che racconta all'amante dove ha messo i soldi delle estorsioni è chiaro che prima o poi, nel processo, viene fuori. Altro discorso se si tratta di conversazioni irrilevanti, gratuitamente pruriginose».

 La legge Orlando funziona o no?

«Le regole ci sono. Siamo indietro sulla professionalità - di tutti, anche nostra - rispetto a una realtà cambiata. Non nego gli errori».

Quali?

«Accumuliamo una mole impressionate di dati sensibili. Non siamo attrezzati per gestirli adeguatamente».

 C'è scarsa sensibilità per la privacy?

«È una questione di preparazione, di cultura. Ma attenzione a non buttare il bimbo con l'acqua sporca».

 Chi è il bimbo?

«La corruzione esiste, è radicata, priva la collettività di denaro e servizi. Tanto più quando arriva un fiume di soldi europei».

Senza intercettazioni non si possono fare le indagini?

«Per reati come la corruzione, le possibilità sono nulle. Se la politica vuole elevare la privacy a valore assoluto, a scapito di ogni esigenza di sicurezza collettiva, lo dica. La privacy è più importante della corruzione? Ne prenderemo atto. Ma sia chiaro che significa chiudere gli occhi di fronte a una radicata realtà criminale».

 Che ci sia corruzione si sa anche senza intercettazioni.

«Ma noi dobbiamo accertare fatti e responsabilità. Servono prove. E mezzi adeguati per trovarle. Altrimenti siamo disarmati». […]

L'appello al Parlamento a non essere «supino ai pm» è stato molto applaudito.

«Sembra che le intercettazioni siano un capriccio dei pm che giocano a spiare le persone. Veniamo trattati come un'associazione a delinquere».

 Dice il ministro: se si sostiene che la mafia è ancora forte, vuol dire che l'antimafia ha fallito. Si sente un fallito?

«Perché non abbiamo eliminato fenomeni criminali radicati da un secolo e mezzo? Abbiamo non solo neutralizzato la cupola stragista, ma chiuso le scuole di formazione dei nuovi quadri. Impedendo che un nuovo Messina Denaro crescesse "sulle mie ginocchia", come diceva Riina. Per farlo, abbiamo tagliato l'erba ogni giorno, con la legislazione antimafia. Ora per qualcuno il tagliaerba non serve più».

Covi, pizzini e coperture: la vita «al buio» di Matteo Messina Denaro. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

Cercato anche all’estero,  era nascosto nella sua Sicilia. Con i gli affari illeciti avrebbe accumulato un tesoro di 4 miliardi di euro

Trent’anni di latitanza sono un segno di potere e di esercizio del potere; una sfida nella quale Matteo Messina Denaro non è soltanto sfuggito alla cattura, ma ha continuato a guidare un pezzo importante di Cosa nostra contando sul prestigio derivante anche dall’essere l’ultimo latitante della mafia stragista che aveva messo in ginocchio lo Stato. All’appello mancava solo lui, Matteo Messina Denaro, uno dei «rampolli» di Totò Riina, ricercato dal 1993 da subito dopo l’arresto del «capo dei capi», mentre era in corso l’attacco terroristico della mafia corleonese alle istituzioni e alla convivenza civile, di cui il boss di Castelvetrano è stato uno dei protagonisti. 

Per gli inquirenti e gli investigatori che l’hanno cercato così a lungo era una sfida da vincere; per il «popolo di Cosa nostra» un legame col passato e con la storia. Al punto da essere chiamato in causa forse perfino strumentalmente, da chi pensava di spendere il suo nome per conservare la propria influenza. Era il sospetto di un mafioso di medio calibro della provincia trapanese, che — intercettato da una delle migliaia di microspie che in questi anni hanno invaso la Sicilia nel tentativo di raccogliere una voce che potesse portare al superlatitante — diceva: «Io sono del parere che questo qualche giorno, a meno non lo abbia già fatto, si ritira… e gli altri vanno a fare cose a nome suo quando lui ormai non c’è più qua…». 

Invece non si era ritirato, ed era ancora là. Ha continuato a gestire il potere e il patrimonio accumulato grazie agli affari: droga, estorsioni, riciclaggio, investimenti nell’eolico, nei supermercati, nel turismo e in altri settori. Un tesoro stimato da qualcuno in 4 miliardi di euro, sebbene avventurarsi in cifre e calcoli sia un esercizio rischioso. Una latitanza trascorsa in Sicilia e in altre parti d’Italia, forse con qualche puntata fuori dai confini.

 Di Matteo Messina Denaro rifugiato all’estero s’è parlato spesso: una volta in Spagna, un’altra in Albania. Ma tutte le indagini, alla fine, ritornavano sempre in Sicilia, nel triangolo fra Castelvetrano, Marsala e Trapani che fu il suo regno e prima ancora del padre Francesco, morto latitante nel 1998, per il quale Matteo ha continuato a far pubblicare l’annuale necrologio di ricordo insieme al resto della famiglia, firmato «i tuoi cari». In quella terra e in quel legame hanno germinato le radici mafiose di un boss che è sempre stato «nel cuore» di Totò Riina. 

Il legame stretto dei Messina Denaro con il «capo dei capi» corleonese lo confermò lo stesso Riina nei suoi colloqui con il compagno di detenzione, intercettati in carcere nel 2013: «Suo padre buonanima era un bravo cristiano, un bel cristiano ‘u zu Ciccio di Castelvetrano… ha fatto tanti anni di capomandamento… a lui gli ho dato la possibilità di muoversi libero… però era un cristiano perfetto, un orologio». Poi passò a parlare del figlio: «Lo ha dato a me per farne quello che ne dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene, minchia…». Finché non cominciò a pensare prima di tutto a sé, a investire per conto proprio, quasi dimenticando il destino dell’organizzazione. Guadagnandosi per questo i rimbrotti di Riina, che sui giornali ha letto degli investimenti nell’energia eolica ed è sbottato: «A me dispiace dirlo, questo fa il latitante, fa questi pali… eolici, i pali della luce… Questo si sente di comandare, si sente di fare luce ovunque, fa pali per prendere soldi, ma non si interessa di…».

  Fu quasi una scomunica nei confronti del figlioccio che dopo il ‘93 non decise di proseguire con la strategia delle bombe: «Se ci fosse stato qualcun altro avrebbe continuato. E non hanno continuato, non hanno intenzione di continuare…». Si sentiva tradito, Totò Riina: «Una persona responsabile ce l’ho, e sarebbe Messina Denaro, però che cosa per ora questo.... Io non so più niente… Potrebbe essere pure all’estero… L’unico ragazzo che poteva fare qualcosa perché era dritto… Non ha fatto niente… io penso che se n’è andato all’estero». 

Invece era ancora in Italia, e aveva messo in piedi un sistema di comunicazione attraverso pizzini recapitati e ritirati in aperta campagna, con i postini che andavano e venivano parlandosi con linguaggio cifrato («il macellaio sono, mi aveva ordinato la fiorentina si ricorda? Domani alle 9.30 se la può venire a prendere») finché le indagini della Procura di Palermo nel 2015 smantellarono anche quel «fermo posta».

 Costringendo il latitante a inventarne uno nuovo per restare fuggitivo. Contando su appoggi che non prevedessero più i legami con la famiglia d’origine (finita in galera quasi per intero), ma conservando — anche a distanza — quelli con chi ha continuato a garantirgli protezione: compresi forse pezzi di potere istituzionale o massonico, come ipotizzato più volte dagli inquirenti che gli davano la caccia. Di sicuro ha avuto dalla sua parte qualcuno che gli ha procurato i documenti semi-autentici (con la sua foto e il nome di un altro, ma il timbro regolare del Comune di Campobello) che aveva in tasca al momento dell’arresto.

  Catturato Riina e salito al trono Bernardo Provenzano, Matteo si adeguò alla metamorfosi della «mafia sommersa» messa in pratica dall’ultimo padrino, con il quale interloquiva con i pizzini firmati «Alessio» e sequestrati nel rifugio corleonese dove l’altro padrino fu arrestato nel 2006: «Quello che lei decide per me va bene… I suoi amici sono i miei amici…», scriveva con deferenza Messina Denaro. Sempre a proposito di affari e spartizioni.

 I pizzini recapitati a mano sono sempre stati la garanzia migliore per comunicare tentando di sfuggire alle indagini; ancora lo scorso anno gli investigatori ne hanno intercettato qualcuno in cui parlava dei suoi movimenti. Scriveva, dava indicazioni e si lamentava. Persino di come i familiari tenevano la tomba del padre; o della figlia Lorenza, nata durante la sua latitanza, che non lo avrebbe «onorato» come altri figli o nipoti di boss mafiosi. Un anno e mezzo fa quella donna l’ha reso nonno, ma il bambino non si chiama Matteo.

I vizi del boss e la rete di fiancheggiatori. L’orologio di Messina Denaro, la vita agiata e il covo che non c’è più: 30 anni di latitanza si fanno con i soldi. Redazione su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

Al polso un orologio di lusso (un Richard Mille da 35mila euro) oltre a capi d’abbigliamento firmati e alla solita retorica sulla vita agiata dell’ultimo boss stragista di Cosa Nostra. Alcuni dettagli sulla conferenza stampa di Palermo dopo l’arresto, dopo ben 30 anni di latitanza, di Matteo Messina Denaro lasciano davvero il tempo che trovano. E’ piuttosto scontato infatti che un mafioso, che per tre decenni è riuscito a sfuggire alla cattura, vivesse in condizioni economiche piuttosto agiate.

La latitanza costa, così come raccontato da decine di collaboratori di giustizia e confermato dagli stessi inquirenti. Così come costa anche garantirsi la dedizione e soprattutto la discrezione di una fitta rete di fiancheggiatori. Persone che hanno consentito al 60enne boss di Castelvetrano (Trapani) di potersi muovere nello stesso territorio dove è nato e cresciuto.

Stesso discorso vale per l’operazione chirurgica e le chemioterapie avviate presso la clinica privata La Maddalena dove era in cura da oltre un anno per un tumore al colon con metastasi al fegato. Una struttura, col dipartimento Oncologico di terzo livello e convenzionata col servizio sanitario nazionale, che rappresenta un fiore all’occhiello della sanità siciliana.

Davanti a spese del genere, sembra quasi ininfluente il costo dell’orologio di lusso che aveva al polso così come i capi d’abbigliamento di pregio che amava indossare. “Abbiamo elementi per ritenere che Messina Denaro vivesse in una condizione agiata, tutti sanno a Palermo che la clinica in cui si recava è una assoluta eccellenza e vestiva con abiti di pregio” ha spiegato il magistrato Paolo Guido in conferenza stampa. Pazienti e personale della clinica lo descrivono come un uomo elegante, che in reparto aveva la giacca da camera, metteva soprabiti in pelle con camicie stile hawaiano.

Adesso fondamentale sarà trovare il covo, l’abitazione dove ha vissuto negli ultimi tempi Messina Denaro. I magistrati e le forze dell’ordine starebbero per individuarlo anche se difficilmente troveranno all’interno informazioni utili ai fini investigativi: probabile infatti che chi curava la latitanza del boss abbia già fatto sparire tutto dopo la notizia dell’arresto.

Il riferimento di procura e forze dell’ordine è il piccolo come di Campobello di Mazara dove vive Giovanni Luppino, l’imprenditore incensurato del settore olivicolo che ha accompagnato  il boss alla clinica per il day hospital, e dove risiede Andrea Bonafede l’uomo che ha prestato, ancora da capire se consapevolmente meno, l’identità al capomafia.

Dopo il caso Riina e la mancata perquisizione del covo, da ore la zona tra Campobello e Castelvetrano, paese di Messina Denaro, è battuta palmo a palmo. Così come resta da ricostruire la fitta rete di fiancheggiatori che hanno aiutato il boss in tutti questi anni di latitanza (già in passato  sono finiti in cella centinaia di fedelissimi del padrino tra i quali sorelle, cognati e fratelli) e il patrimonio accumulato che, secondo gli inquirenti, ammonterebbe a solo 13 milioni di euro.

Non esistono latitanti imprendibili, solo fiancheggiatori bravi. Non esistono latitanti perfetti ma esistono fiancheggiatori bravi, complici studiati e fedeli e sistemi che alla lunga finiscono col diventare più efficienti dei ceffi che devono proteggere. Giampiero Casoni su Notizie.it il 17 Gennaio 2023

Non esistono latitanti perfetti ma esistono fiancheggiatori bravi, complici studiati e fedeli e sistemi che alla lunga finiscono col diventare più efficienti dei ceffi che devono proteggere.

Ed è esattamente questo il motivo per cui tutti quelli che nell’arresto di Matteo Messina Denaro ci vedono una “mezza vittoria” figlia dello sbrago di un fuggitivo stanco e malaticcio sbagliano di grosso. Sbagliano perché non vedono – o fingono di non vedere tarantolati dal “furor” dei social – che ci sono sempre state due realtà a governare i piani si cui si svolge la lotta alla mafia o al crimine organizzato in genere.

Ci sono due Sicilie, due Campanie e due Lombardie e si, ci sono perfino due Svezie e due Poli Nord quando si parla di mafia.

Perché non esistono latitanti imprendibili

Ci sono quelli che le odiano concettualmente ma in maniera neutra e passiva e quelli che le amano e le proteggono visceralmente ma in maniera attiva. E questi ultimi sono di meno ma “migliori”, nel senso che sono più funzionali.

Il comune cittadino perbene altro non può fare che seguire l’usta etica de “la mafia è una montagna di merda”, ma il colluso che deve proteggere la latitanza di un boss e che deve scegliere negli anni chi raccoglierà il suo testimone è un esecutore micidiale. Ecco perché i latitanti durano fin quanto il “face advancing” non ci rimanda immagini di canuti, grigi ragionieri che prima avevano il sangue perfino sulla faccia, non perché lo Stato arrivi tardi come scrivono gli studiati dei social, ma perché quelli che stanno contro lo Stato sono legione e sono fanaticamente fedeli al loro dominus.

E poi perché troppo spesso quelli che aspirano alla giustizia non concorrono a realizzarla e stanno zitti, in attesa di giudicare ma mai pronti ad essere parte attiva nel processo che porta al giudizio, si chiama omertà e della mafia è ancora l’ancella più fedele assieme alla sua sorella cretina cupidigia.

I complici e il ruolo cruciale che hanno

Dove sarebbe andato U’ Curtu Riina se non avesse avuto i Ganci del quartiere La Noce che lui giustamente diceva di “tenere nel cuore” e centinaia di concittadini che, pur non “punciuti”, in lui vedevano un uomo a proteggere? Che fine avrebbe fatto Binnu Provenzano se il nipote Carmelo Gariffo non si fosse barcamenato per anni fra ricotte e pizzini di cui essere postino? E Matteo Messina Denaro sarebbe stato sicuro e tronfio nella clinica dove lo hanno preso quei sant’uomini di Ros e Gis se non avesse avuto Giovanni Luppino, un inerte ulivicultore del Belice, a fargli da autiere e fantesca? Avrebbe potuto girare per 30 anni in Sicilia se una parte spuria e minoritaria della stessa non gli avesse fatto bordone?

Il conto del piccolo Giuseppe

Il sunto è che dovremmo iniziare a chiederci dove finisce la sicumera nel giudicare tardiva l’azione dello Stato e dove inizia lo specchio nel quale non vediamo più quanto sia marcia la società che non è mafia, ma che alla mafia da sempre dà una mano. E magari finirla di dire e scrivere “tanto era vecchio”, perché noi, gli italiani, lo Stato, quelli buoni o anche solo quelli neutri, a quel tipo là abbiamo un contro da presentare.

In nome di Giovanni, Paolo, di quelli morti con loro e di decine di altri morti che abbiamo pianto ma senza farceli mancare troppo evidentemente. E in nome del piccolo Giuseppe, che, dovunque sia adesso, lì ci è andato a 12 anni liquefatto ed anche per ordine di chi oggi è chiamato a pagare.

Pagare tutto.

Ma qualcuno ha protetto il vecchio boss. A conti fatti, il Nostro non si è tumulato da nessuna parte. Anzi, in questi trent’anni di latitanza, ha condotto una vita piuttosto agitata (e agiata) tra donne, affari, guai di salute, capi firmati e orologi da decine di migliaia di euro. Leonardo Petrocelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Gennaio 2023.

C’è una battuta che da ieri gira sui social: «Ritrovata la penna persa trent’anni fa. È sempre stata sulla scrivania». Ed, in effetti, Matteo Messina Denaro, l’ultimo grande boss dell’era delle stragi di mafia, è sempre stato lì. In Sicilia. Ma non chiuso in qualche bunker anti-atomico e nemmeno in qualche hollywoodiana stanza segreta di quelle che si rivelano tirando il candelabro o il libro giusto dallo scaffale.

A conti fatti, il Nostro non si è tumulato da nessuna parte. Anzi, in questi trent’anni di latitanza, ha condotto una vita piuttosto agitata (e agiata) tra donne, affari, guai di salute, capi firmati e orologi da decine di migliaia di euro. Altro che vecchia mafia coppola e lupara. Andava allo stadio, Messina Denaro, a seguire le partite del suo amato Palermo. Trascorreva le vacanze in Germania, a Baden, attraversando le strade d’Europa in macchina. Macchina, sia detto per inciso, segnalata anche da una foto satellitare presso una sua presunta villa tedesca nel 2015 ma tutto morì lì. Senza seguiti né troppi approfondimenti. Ancora, U Seccu intratteneva fecondi rapporti commerciali (francesismo) con altri campanili d’Italia ma anche con la Spagna, gli Stati Uniti, il Sud America. Poi la malattia, l’operazione all’ospedale «Abele Ajello» di Mazara del Vallo, il ciclo di chemio. Anche tre dosi di vaccino anti-Covid, come protezione per sé e dimostrazione di alto senso civico. E questo solo grattando la superficie e trascurando tutti i racconti di folklore sui selfie con i medici, sul «solito bar» frequentato ogni giorno, sulla quantità industriale di gente che sapeva perfettamente chi e dove fosse. Bisogna aggiungere, poi, che da qualche settimana a questa parte qualcuno si è messo a vendere palle di vetro. Una l’ha comprata Salvatore Baiardo, l’ex factotum dei fratelli Graviano, che, intervistato da Massimo Giletti, vaticinò l’arresto di Messina Denaro già a novembre. Con uno scarto di 24 ore: «Pensavo lo arrestassero nell’anniversario della cattura di Riina, il 15 gennaio, e invece hanno atteso un giorno in più», ha confidato ai taccuini del Fatto. L’altra palla, più modesta, l’ha comprata il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che il 9 gennaio scorso aveva buttato lì una frase di speranza: «Vorrei essere il ministro che arresterà Messina Denaro». Ragazzi, passateci due numeri per il Lotto perché le palle funzionano benissimo.

Fuori dalle ironie, il combinato disposto fra l’incredibile latitanza trentennale e gli spoiler sull’imminente arresto hanno scolpito nella cittadinanza una doppia convinzione: la prima è che a Messina Denaro sia stato «permesso» di rimanere libero per tutto questo tempo e che l’arresto sia stato in qualche modo «concordato». O, quanto meno, sia il frutto di una trattativa tra l’interessato, ormai vecchio, malato e probabilmente isolato, e lo Stato. Complottismi? Illazioni? È la vox populi, bellezza, che troverà conferma o smentita nelle dichiarazioni che il vecchio boss renderà agli inquirenti. L’inchiostro nella penna ritrovata dopo trent’anni sarà il mercurio nel termometro della verità.

Nel frattempo, senza abbandonarsi ai complottismi, resta da capire chi abbia protetto il boss per sei lustri. Perché qualcuno, di certo, l’ha fatto. La mafia, ovvio, insieme a cittadini poco desiderosi di passare alla storia (e a miglior vita). Anche la «fetta di borghesia siciliana», evocata del procuratore Maurizio de Lucia, avrà di certo avuto un ruolo. Imprenditori, professionisti, forse qualche politico di medio cabotaggio. La borghesia, in fondo, è questa. Tutto perfettamente comprensibile e probabilmente vero, ma, signori, non basta. Non si gozzoviglia indisturbati sotto casa, tra orologi di lusso, donne e il «solito bar», senza che a proteggerti sia qualcuno più in alto. L’unico che può. L’Innominabile. Magari quella parte «deviata» che è l’eterno cacio su tutti i peggiori maccheroni della storia del Paese, ma comunque siamo lì. Viene alla mente la celebre scena del film Il Camorrista, magistralmente interpretato da Ben Gazzara nei panni romanzati di Raffaele Cutolo, ormai divenuto così potente da avere i grandi poteri pubblici in fila dietro la porta di casa. «Scenderanno a patti con me, verrà lo Stato», grida euforico al poliziotto/Leo Gullotta che, innamorato della propria utopia, replica: «Chiunque verrà, quello non è lo Stato». Dategli il nome che volete. Ma, alla fine, qualcuno da Gazzara/Cutolo ci va davvero. E qualcuno ha protetto Matteo Messina Denaro.

Giovanni Risalvato.

Risalvato, il fiancheggiatore di Messina Denaro: «Non rinnegherò mai la mia amicizia, ma con la latitanza non c’entro». Fabrizio Caccia, inviato a Castelvetrano (Trapani), su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.

Le parole dello storico complice: «Sono stato intercettato dal 2004 al 2010, poi mi sono fatto 12 anni di branda. Da quando è diventato latitante non l’ho mai visto. Mi hanno condannato per millanteria»

Giovanni Risalvato, 69 anni, detto Vanni «Pruvulazzu», Vanni «la polvere», perché è quella che alza ogni volta che parla, ci accoglie in cucina nella sua casa di Castelvetrano, a poche decine di metri dalla villa di Tonino Vaccarino, l’ex sindaco morto di Covid che si firmava «Svetonio» nei pizzini scambiati con Matteo Messina Denaro durante la latitanza. Quando accetta di parlare al Corriere dice: «Io so raccontare bene le barzellette, le faccio quasi diventare realtà». Bisogna stare attenti, però, alle «barzellette» di Risalvato perché quando parla c’è sempre dietro qualcosa. 

Condannato in via definitiva a 14 anni e mezzo per associazione mafiosa, è uscito dal carcere il 3 dicembre 2021 ma ancora oggi è un sorvegliato speciale e deve passare due volte alla settimana in commissariato, a Castelvetrano, perché ha l’obbligo di firma. È considerato dagli inquirenti uno degli uomini più vicini a «u Siccu», un fiancheggiatore storico, devotissimo al boss. Nella casa del fratello Errico, a Campobello di Mazara, mercoledì sono entrati i Ros e hanno trovato una stanza blindata con dentro gioielli e altra roba.

 La casa era a disposizione del boss? 

«Macché. Non troveranno tracce lì dentro di Messina Denaro, solo canne da pesca e trofei di pesca per la passione di mio fratello Errico, eppoi qualche vecchio paiolo con cui i genitori di Totuccia mia cognata facevano la ricotta. E i gioielli sì che ci stanno, ma sono di famiglia, regali di fidanzamento, regali del matrimonio di Errico e Totuccia, collane di Nicoletta mia nipote. Hanno fatto una stanza blindata per paura dei rapinatori: qualche anno fa a un altro mio nipote Salvatore e a sua moglie ignoti entrarono in casa e li massacrarono, portarono via tutto. Io comunque con mio fratello Errico non ci parlo da 11 anni, perché non è mai venuto una volta a trovarmi in carcere». 

Magari suo fratello, già in passato indagato per favoreggiamento, ha fatto tutto da solo, senza dirle niente? 

«Lo escludo. Errico soffre di esaurimento nervoso dalla nascita di sua figlia Nicoletta, che rischiò di morire. Per lui fu un grande stress e non si è più ripreso».

 Ma i legami della sua famiglia con Messina Denaro appaiono molto stretti. Ci sono delle sue frasi, signor Giovanni, intercettate durante la latitanza del boss, che fanno impressione. Per esempio, questa: «Chissà cosa pagherei per fumarmi un pacchetto di sigarette con lui. Una volta ce ne siamo fumati insieme una stecca». Se la ricorda? 

«Sì che me la ricordo, ma una stecca… esageravo, era una millanteria. Eravamo giovani, dicembre 1991, gennaio 1992, io lo accompagnavo a giocare a poker o a ramino al circolo e fumavamo insieme, è vero, ma mica così tanto. Lui era educato, rispettoso, gentile con tutti…». 

E sanguinario, però.

 «Io non c’entro coi gruppi di fuoco». 

E quell’altra frase captata da una microspia: «Meglio un giorno da leone che cent’anni da pecora. Gliel’ho detto mille volte a Matteo, io me ne vado con lui». Se la ricorda?

 «Certo, io non la rinnego mica la mia amicizia per lui, l’affettuosità. Le amicizie che risalgono all’infanzia sono quelle che non si dimenticano. Le altre invece si scordano sempre. Noi due fino al 1968, fino al terremoto del Belice, eravamo vicini di casa in via Rossini, poi la nostra casa rimase danneggiata e fummo costretti a trasferirci. Avevo 14 anni. Ma poi con Iddu non ho fatto niente».

 Ne è sicuro? Lei per esempio faceva molti affari col calcestruzzo.

 «Per niente, avevo un’impresa edile che non ha mai lavorato. Se avessi avuto alle spalle Messina Denaro quell’impresa avrebbe volato, che ne dice? Gestivo l’impresa di un altro, in realtà, prendevo lo stipendio e una percentuale sulla produzione, nient’altro. Mi hanno vestito con gioielli e bracciali, dipinto come chissà cosa, ma io sono sempre stato solo un operaio». 

Un operaio devoto, però.

 «Senta, sono stato intercettato dal 2004 al 2010, quando poi mi hanno arrestato e mi sono fatto 12 anni di branda. In tutti questi anni, li ho forse portati sulle tracce di Messina Denaro? Da quando divenne latitante non l’ho più visto. Mi hanno condannato per una millanteria». 

È un’altra barzelletta? 

«No, è la verità». 

Ha qualcosa da dire oggi al suo amico d’infanzia?

 «Prima o poi tutti dobbiamo morire. Io spero solo che lui si faccia prima un esame di coscienza e che collabori, che dica la verità, per il bene di tutti, anche il nostro».

Il Senatore D’Alì.

Estratto dell’articolo di G. Cal. Per “il Fatto quotidiano” il 17 gennaio 2022.

Cercare una spiegazione a trent' anni di latitanza fa inevitabilmente incorrere nel rapporto di Messina Denaro con la politica. Legami molto stretti.

Tra i punti fermi c'è la storia tra le famiglie Messina Denaro e D'Alì, un rapporto di lunga data. Il padre - quel don Ciccio per cui l'ultimo stragista si è speso fino a qualche anno fa per pubblicare sul Giornale di Sicilia il necrologio nell'anniversario della morte - era il campiere dei terreni dei potenti D'Alì, il guardiano, l'uomo di fiducia, insomma, a protezione della roba. E, potente, era anche don Ciccio, capo del mandamento di Castelvetrano.

Con l'arresto di Matteo Messina Denaro si è chiuso un cerchio il cui penultimo atto era andato in scena, giusto un mese prima, al carcere Opera di Milano: l'ex senatore e ex sottosegretario Antonio D'Alì si costituisce dopo la sentenza della Cassazione che conferma i sei anni di detenzione per concorso esterno in associazione mafiosa.

 […]

I D'Alì, oltre al latifondo, possedevano anche la Banca Sicula, dove fu addirittura assunto un altro figlio di don Ciccio Messina Denaro, Salvatore. […]

Da video.lastampa.it il 17 gennaio 2022.

La testimonianza di uno dei vicini di casa di Matteo Messina Denaro. "Lo vedevamo che usciva di casa come le persone normali".

Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 17 gennaio 2022. 

[…]

Non c'è aria di festa a Castelvetrano, nessuno parla, non una tv accesa nei bar dove tutti ostentano indifferenza. I pochi che non fanno finta di non sapere liquidano la questione così: «Lo Stato non ha preso proprio nessuno, casomai si è consegnato, come fece suo padre». Don Ciccio Messina Denaro, lo storico capomafia fattore della famiglia dei banchieri D'Alì, per la verità si fece "ritrovare" morto il 30 novembre del 1998 nelle campagne di Castelvetrano dopo una latitanza durata otto anni. Matteo era già uccel di bosco e non si presentò mai a dare l'ultimo saluto al padre, a cui però la famiglia non ha mai mancato di rendere omaggio con un necrologio pubblicato ogni anno.

«Qui gli anziani lo sapevano e lo dicevano da mesi che Matteo era gravemente malato, mia nonna me l'aveva detto», racconta Lucia, una giovane donna che si ferma davanti casa dei Messina Denaro e ammette quello che adesso sono pronti a sussurrare in tanti. «Dicevano che si era fatto la plastica, ma non è vero. È uguale. Ora che l'ho visto in foto sono sicura che si muovesse liberamente a Castelvetrano e nei paesi del circondario, Montevago, Menfi, Santa Margherita Belice. Dicono che abitasse in una casa di campagna da queste parti. Anche io penso di averlo visto qualche mese fa al Belicittà, il centro commerciale della zona».

[…]

Sette chilometri più in là, a Campobello di Mazara, il paese di Giuseppe Luppino, l'uomo arrestato insieme al boss, lo stesso silenzio, la stessa indifferenza. […]

Nascosta dietro le griglie di una tapparella, solo una donna sussurra: «La palazzina sembrava disabitata da tempo. Solo ogni tanto veniva un giovane a ritirare la posta dalla cassetta ». Di carabinieri nemmeno l'ombra, segno che non è qui che occorre cercare i "pizzini" di Matteo Messina Denaro.

La vedova del prefetto Fulvio Sodano: «Matteo Messina Denaro catturato dopo l’arresto del suo protettore politico». Enrico Bellavia su L’Espresso il 20 Gennaio 2023.

Il marito fu prefetto di Trapani, trasferito vent’anni fa su pressioni dell’allora ras berlusconiano Antonio D’Alì, consegnatosi in carcere un mese prima del blitz alla clinica Maddalena. Dopo lunga malattia il funzionario morì nel 2014. «Giustizia è stata fatta? Assolutamente no fino a quando non sarà resa dignità ai veri servitori dello Stato», scrive Maria Sodano. In una lettera che pubblichiamo integralmente

Il marito, Fulvio Sodano, fu prefetto nella Trapani delle banche, delle logge e della mafia. Con l’economia sotto il ferreo controllo degli uomini dei boss Vincenzo Virga e Matteo Messina Denaro. Protetti da schiere di fiancheggiatori e da un politico potentissimo che mal tollerava quel darsi da fare di pochi investigatori, magistrati e funzionari dello Stato integerrimi. Osteggiato e isolato, Sodano, un eroe borghese dimenticato, fu allontanato su pressione dell’allora sottosegretario all’Interno Antonino D’Alì. La vedova del prefetto, Maria Sodano, ha analizzato la cattura del boss in un appunto per fissare i pensieri suscitati dalle immagini e dai commenti sull’arresto e conclude: «Ho sempre ritenuto che si sarebbe giunti alla cattura di Mattia Messina Denaro conseguentemente all'arresto per concorso esterno in associazione mafiosa di un noto soggetto appartenuto alle Istituzioni». 

La correlazione di tempi e storie è al centro della riflessione di Maria Sodano che pubblichiamo integralmente qui sotto. Perché tra l’arresto di D’Alì e quello di Messina Denaro intercorrono 32 giorni in fondo a una storia che inizia più di vent’anni fa. 

Il prefetto Fulvio Sodano, napoletano d’origine arrivò in Sicilia nel 1990. A Trapani nel 2000. Lì si spese senza riserve per tenere in piedi la Calcestruzzi ericina, la società del cemento che con il boss Virga al comando aveva il monopolio delle forniture ai cantieri e dopo il sequestro rischiava il fallimento.

Il messaggio dei boss era chiaro: con noi si campa, con l’antimafia si muore. Il prefetto riuscì a tenerla in piedi e a rafforzarla, denunciando l’isolamento in cui l’azienda si era ritrovata. Aprì le porte del Palazzo alla città, contribuendo al risveglio delle coscienze trapanesi, come gli riconobbe l’allora Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi. Poi toccò anche a lui patire la messa all’indice, come fosse un’anomalia. Perché mentre i boss tentavano di tornare al comando della Calcestruzzi, D’Alì vedeva nell’azione del prefetto un intralcio al corso placido degli affari trapanesi all’insegna del compromesso. In un faccia a faccia gelido gli disse a muso duro: «Io ho carta bianca su trasferimenti e nomine». Un preavviso di sfratto che arrivò puntuale. Nel 2003 il prefetto fu trasferito ad Agrigento su disposizione del governo Berlusconi.

Ci rimase fino al 2005 quando dovette prepensionarsi per l’avanzare inesorabile della Sla che lo divorò ferocemente con il crescere delle sue amarezze. In televisione, durante una puntata di Anno Zero di Michele Santoro, impossibilitato a parlare, scrisse su un foglio il nome del mandante del suo trasferimento. Come aveva già denunciato ripeté il nome del sottosegretario all’Interno, Antonino D’Alì. Potentissimo luogotenente trapanese del leader forzista, D’Alì, apparteneva a una famiglia di banchieri e imprenditori agricoli che i Messina Denaro li avevano in casa come campieri. «Subiti e allontanati», disse lui. Per nulla, secondo i magistrati che hanno ricostruito il sostegno elettorale dei boss al senatore e sottosegretario.

Così l’ombra dell’ingombrante rapporto tra D’Alì e Messina Denaro ha inseguito il politico per vent’anni costellati da un processo conclusosi prima con un’assoluzione, poi con un nuovo verdetto: condanna a 6 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, divenuta definitiva.

Durante l’iter giudiziario la vicenda Sodano è stata ricostruita insieme con la storia di un altro intervento del politico per il trasferimento del funzionario di polizia Giuseppe Linares, ovvero del poliziotto che guidava le ricerche di Matteo Messina Denaro. Una rimozione alla quale Sodano ovviamente si era opposto. 

Il 14 dicembre 2022, Antonino D’Alì si è consegnato al carcere di Opera. Poco più di un mese dopo Matteo Messina Denaro è stato catturato.

Nella sua lettera che pubblichiamo integralmente qui, Maria Sodano, nota la coincidenza temporale, tiene a non togliere nulla alla meritoria opera di indagine dei carabinieri e dei tanti che hanno partecipato con passione e dedizione alla trentennale ricerca del latitante ma non può non notare il singolare tempismo.

Al prefetto Sodano, il prefetto del popolo, morto nel 2014, amato dalla migliore comunità trapanese, osteggiato dal potere locale, un gruppo spontaneo avrebbe voluto assegnare la cittadinanza onoraria ma per lungo tempo l’amministrazione non la concesse. Quando alla fine gliela concessero, il prefetto la rifiutò. E per vent’anni sul prefetto che smascherò la doppiezza del politico più influente della provincia di Trapani è caduto l’oblio. Non un riconoscimento statale, non una citazione tra le vittime di una lotta alla mafia combattuta nell’impegno quotidiano.

LA LETTERA INTEGRALE DI MARIA SODANO

«Forse deluderò molti nel pensare senza tentennamenti che in quella di oggi leggo una rivincita un po' più sociale legata ai cittadini onesti più che statale pur riconoscendo un grande merito all'Arma dei Carabinieri. La lunga latitanza di Mattia Messina Denaro, peraltro preannunciata da un po' di tempo dai media (e quindi mi stupisce lo scalpore) è frutto di coperture e fiancheggiatori soprattutto all'interno di un mondo politico istituzionale corrotto e connivente che stenta a venire allo scoperto, una sfida tuttavia resa meno impossibile perché semplicemente è crollato il sistema, sono venute meno le protezioni importanti grazie alla cocciutaggine di qualche Magistrato fedele che le ha indebolite con la condanna di soggetti che ne garantivano la latitanza . È così difficile comprenderlo?

Ma lo Stato ha vinto veramente? Dopo 30 anni personalmente sarei cauta agli eccessi di clamore, ripeto senza togliere il grande merito a quanti oggi hanno contribuito alla cattura. A mio avviso bisognerebbe fare un lavoro di prevenzione sul territorio e sulle reti di relazioni per smascherare le connivenze e gli infedeli servitori dello Stato che spesso si annidano li dove è possibile esercitare il potere. Cercarli dopo lascia il tempo che trova.

Affermare che oggi lo Stato ha vinto e che la mafia è un ricordo è molto azzardato e rischioso.

Lo Stato può dire di vincere solo quando riconoscerà Giustizia Verità e Dignità ai suoi uomini migliori, molti dei quali oggi non ci sono più, involontariamente divenuti eroi. Solo motivati da un forte credo personale hanno lottato, denunciato con coraggio nomi eccellenti della criminalità organizzata ma anche soggetti all'interno delle Istituzioni dai comportamenti certamente distanti dai valori di autentica Giustizia e Legalità ma non sono stati creduti. Ciò avrebbe consentito di mettere in luce molte verità inquietanti, di smantellare certe strane e anomale alleanze. Hanno esposto a rischio le loro vite per sconfiggere quel sistema, nella lucida consapevolezza di essere isolati e abbandonati da chi doveva proteggerli, consegnandoli così alla mafia.

Lo Stato che sapeva e taceva, uno Stato omertoso, complice che sceglie di rendere martiri e perseguitare i suoi uomini migliori.

Spero che spinti dal volere del popolo si porti avanti quello che la nostra Costituzione afferma ma che non sempre ad oggi è stato garantito: il diritto alla Giustizia, altrimenti si rischia di svuotare ancora di significato l'operazione di oggi.

Per la mia esperienza familiare ho sempre ritenuto che si sarebbe giunti alla cattura di Mattia Messina Denaro conseguentemente all'arresto per concorso esterno in associazione mafiosa di un noto soggetto appartenuto alle Istituzioni. Della notizia del suo arresto risalente a circa un mese fa, ostacolato fino alla fine, si è cercato di contenerne la diffusione. Non doveva fare scalpore seppure risaputo e confermato da atti giudiziari di avere mantenuto rapporti in affari con lo stesso Mattia Messina Denaro e la sua famiglia.

Il suo ruolo istituzionale e politico ricoperto per anni gli ha consentito, abusando indisturbato, di avere "carta bianca" nell'assumere certe "decisioni.." a propria convenienza nel settore della Giustizia, nel mondo degli affari, cacciare via i soggetti a lui scomodi ...., spiare e depistare le indagini, insomma padrone di gettare la Giustizia nella fogna.

Il 13 marzo 1993 Mattia Messina Denaro, in occasione della deposizione per l'omicidio di Francesco Accardo presso il Tribunale di Marsala dichiara di svolgere l'attività di agricoltore nelle tenute del soggetto delle Istituzioni (Contrada Zangara di Castelvetrano (vedi documenti processuali) e che uno dei fratelli ha lavorato alle dipendenze della Banca Sicula della famiglia del suddetto importante soggetto.

Per tornare alla mia disumana esperienza familiare, una certa parte dello Stato, con precisa volontà, per convenienza e/o per vigliaccheria, piuttosto ha preferito isolare e abbandonare al suo atroce destino un suo vero fedele servitore il Prefetto Fulvio Sodano che con coraggio ha pubblicamente denunciato quel noto soggetto delle Istituzioni, gli ha negato il dovuto sostegno pur in presenza di una atroce malattia, senza pietà, rendendola così più atroce fino alla morte. Lascio ogni riflessione agli umani con cuore.

Giustizia è stata fatta? Assolutamente no fino a quando non sarà resa Dignità ai Veri Servitori dello Stato e che lo Stato continua a non riconoscere e fino a quando non avrà cacciato via la mafia all'interno dei suoi apparati, fino a quando consentirà in maniera incontrollata a certi suoi uomini di agire in assoluta libertà, consentendo loro di istituzionalizzare e legalizzare certi comportamenti distorti che hanno dimostrato favorire la criminalità organizzata.

Mi chiedo da cittadina e da familiare vittima innocente di tali connivenze, cosa vuol dire fare prevenzione. Personalmente senza presunzione di fare lezione di Giustizia e Legalità ma semplicemente come tanti cittadini onesti credo che fare prevenzione possa significare agire sul territorio costantemente con trasparenza, cercando da subito di individuare i fiancheggiatori che spesso la storia ha dimostrato essere lì dove non dovrebbero assolutamente stare, nei centri di potere.

Da decenni si studiano le organizzazioni della mafia, se ne è interpretato il loro comportamento e le loro regole grazie al contributo di qualche Collaboratore di Giustizia. Si continua a ripetere che i boss di un certo calibro, da latitanti non si allontanano dal loro territorio per mantenerne il potere, l'esperienza della cattura di Toto Riina e Virga lo confermano. E allora perché lo si è cercato soprattutto all'altro mondo? Eppure circolava con disinvoltura nel suo paesino e dintorni ed era facilmente riconoscibile e somigliante ai tanti identikit».

«Date una medaglia alla memoria del prefetto cacciato da Trapani per aver combattuto la mafia». La proposta al capo della polizia è di Tina Montinaro, vedova del caposcorta di Giovanni Falcone. Fulvio Sodano fu trasferito su pressione di Antonino D’Alì, l’ex sottosegretario forzista in carcere come complice di Matteo Messina Denaro. Enrico Bellavia su L’Espresso il 21 Febbraio 2023.

Un ulivo nel Giardino della memoria per ricordarlo e la richiesta che il ministro dell’Interno assegni la medaglia al valor civile all’ex prefetto di Trapani Fulvio Sodano. L’iniziativa è di Tina Montinaro, moglie di Antonio, il caposcorta del giudice Giovanni Falcone, ucciso con lui a Capaci assieme alla moglie del magistrato Francesca Morvillo e ai colleghi Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Per Sodano si tratta di un riconoscimento postumo dovuto a un servitore dello Stato, isolato e poi estromesso dalla frontiera trapanese da Antonio D’Alì, il più influente dei colletti bianchi complici dell’allora superlatitante Matteo Messina Denaro. Fu infatti l’allora sottosegretario all’Interno con delega ai collaboratori di giustizia, oggi in carcere per scontare una condanna a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa, a perorare l’allontanamento del prefetto.

Il decreto di trasferimento fu firmato dal ministro Giuseppe Pisanu. D’Alì si è consegnato a Opera giusto un mese prima della cattura del superboss. Una circostanza temporale sottolineata in un appunto della vedova di Fulvio Sodano, Maria che L’Espresso ha pubblicato all’indomani della cattura del capomafia.

Il marito morì nel 2014, fiaccato dalla Sla che ne aveva minato il corpo, privandolo della parola ma lasciandolo lucido fino all’ultimo.

Sodano era arrivato a Trapani nel 2000. Gestendo la Calcestruzzi Ericina, patrimonio confiscato al boss trapanese Vincenzo Virga, non volle rassegnarsi alla penuria di commesse che con la gestione pubblica stavano segnando la fine dell’azienda e dei lavoratori. Contrariato, D’Alì, in un pranzo a quattr’occhi, minacciò obliquamente il prefetto, ricordandogli di avere carta bianca sul trasferimento dei prefetti. Sodano andò dritto per la propria strada e nel 2003 il prefetto fu trasferito ad Agrigento su disposizione del governo Berlusconi. Ci rimase fino al 2005.

Possidente con interessi diretti nella Banca Sicula, poi ceduta alla Comit, D’Alì aveva avuto Francesco Messina Denaro, il padre di Matteo come campiere, ruolo poi ereditato dal figlio. A chi gli rinfacciava quei rapporti sosteneva di averli subiti. La realtà delle indagini racconta di una disponibilità ininterrotta nei confronti dei boss.

Attento ai rapporti con la comunità che gli valse l’epiteto di prefetto del popolo, Sodano, contribuì al risveglio delle coscienze trapanesi, come gli riconobbe il capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi. «Per questo – dice Tina Montinaro – va chiuso il ciclo e restituita la memoria che merita al prefetto Sodando da parte di quello stesso Stato che lo ha mortificato: chiederò al ministro Piantedosi il conferimento della medaglia e nel giardino di Capaci pianteremo un albero di ulivo per Sodano. Gli altri alberi, in ricordo delle tante, troppe vittime del dovere, danno già i loro frutti. Produciamo l’olio per le funzioni sacre in loro ricordo. Un olio che idealmente contrapponiamo all’olio sporco di sangue di cui Messina Denaro menava gran vanto».

Il fango sull'ex senatore. D’Alì non c’entra niente con Messina Denaro. Redazione su Il Riformista il 21 Gennaio 2023.

Riceviamo e pubblichiamo la nota degli avvocati Fabrizio Merluzzi e Arianna Rallo, legali dell’ex senatore Antonio D’Alì.

I violenti attacchi mediatici degli ultimi giorni e la subdola suggestione espressa da alcuni e divulgata dai media che il Senatore D’Alì possa avere in qualunque misura supportato la latitanza trentennale del boss Matteo Messina Denaro, impongono un chiarimento immediato ed una forte smentita per amore di verità e nel rispetto di una persona che si trova in carcere.

La sentenza di condanna riguarda contestazioni che si esauriscono nel 2006 e non prospetta neppure in embrione tale illazione. Non esiste né è mai esistito uno spunto investigativo in tal senso orientato nel processo che ha visto il Senatore dapprima imputato e oggi condannato.

Il Senatore è un uomo di 71 anni che espia una pena che sente ingiusta e non ha mai smesso di professare la propria innocenza. Ha, comunque, manifestato rispetto e soggezione alla legge ed alla magistratura che ne è espressione costituendosi in carcere non appena ricevuta la notizia che la sentenza a suo carico era divenuta definitiva. Si attendono ancora le motivazioni della Cassazione solo all’esito delle quali valuteremo eventuali iniziative.

Il caso dell'ex parlamentare FI. Il calvario di Antonio D’Alì, sbattuto in cella dopo due assoluzioni. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Dicembre 2022

Se ti vota un “mafioso” automaticamente diventi mafioso. È quanto accaduto ad Antonio D’Alì, ex parlamentare di Forza Italia ed ex sottosegretario al Ministero dell’interno nel secondo governo Berlusconi. La sua storia giudiziaria è la seguente: assolto in primo e secondo grado. La Cassazione annulla e dispone un nuovo processo d’appello. Risultato? D’Alì viene condannato a sei anni di prigione per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Dopo la conferma ieri della sentenza della Corte d’appello di Palermo da parte della Cassazione, D’Alì si è costituito nel carcere milanese di Opera.

La vicenda processuale dell’ex senatore originario di Trapani, iniziata ad ottobre del 2011, è semplicemente surreale. A giugno del 2013 i pm palermitani, ritenendo che la sua prima elezione in Parlamento nel 1994 fosse stata “appoggiata elettoralmente dall’associazione mafiosa”, in particolare dal super boss Matteo Messina Denaro, avevano chiesto nei suoi confronti la condanna a sette anni e quattro mesi nel procedimento con rito abbreviato. Il gup lo aveva assolto per i fatti successivi al 1994 dichiarando prescritti quelli precedenti. La sentenza, come detto, era confermata tre anni dopo in Corte d’Appello.

Per i giudici non era stato provato che D’Alì continuò ad avere dei legami con Cosa nostra, dopo la sua entrata in Senato. La condotta dell’imputato non può “essere significativamente assunta come sintomatica della volontà di permanere, sia pure come extraneus, nell’associazione mafiosa, fornendo un contributo al rafforzamento della stessa”, avevano scritto i giudici nelle motivazioni della sentenza d’Appello. A D’Ali, in particolare, veniva contestata una compravendita di un terreno a dei familiari del superlatitante di Castelvetrano.

L’appello della Procura generale veniva accolto fino all’annullamento disposto dalla Cassazione a gennaio del 2018. Nel provvedimento la Suprema Corte aveva voluto sottolineare che le motivazioni dei giudici di secondo grado avevano “illogicamente e immotivatamente svalutato il sostegno elettorale di Cosa Nostra a D’Alì“.

Ad agosto 2019 la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Trapani gli aveva imposto l’obbligo di dimora in città per tre anni sostenendo la sua “pericolosità sociale”, misura poi revocata a inizio 2021 dalla Corte d’Appello. A luglio del 2021 ecco arrivare la condanna a sei anni. Nella requisitoria dell’appello bis, chiedendo a sette anni e quattro mesi di carcere, il pg aveva definito D’Alì “il politico a disposizione dei Messina Denaro, prima del vecchio don Ciccio e poi del figlio Matteo, tuttora ricercato”. E lo aveva accusato di aver “contribuito al sostegno e al rafforzamento di Cosa nostra, mettendo a disposizione dei boss le proprie risorse economiche, e, successivamente, il proprio ruolo istituzionale di senatore della Repubblica e di sottosegretario di Stato”. L’ex parlamentare aveva sempre respinto tutte le contestazioni.

Nel processo si era fatto ricorso a numerosi collaboratori di giustizia, uno dei quali aveva raccontato che tutto il ‘cerchio magico’ di Messina Denaro era presente alla festa per la prima elezione al Senato di D’Alì, nel marzo 1994. Testimonianza ritenuta attendibile.

Per i pm, il senatore trapanese, oltre al superlatitante Matteo Messina Denaro, avrebbe avuto rapporti con i boss Vincenzo Virga e Francesco Pace, fin dai primi anni ’90, e avrebbe cercato fin dagli inizi l’appoggio elettorale dei clan. Ma, a parte i voti eventualmente presi dai mafiosi, non è dato sapere quale sia stata la contropartita.

L’appoggio elettorale eventualmente fornito a D’Alì da Cosa nostra in occasione delle elezioni al Senato del 1994, “in considerazione della preponderante vittoria delle forze politiche di centrodestra non assurge di per sé ad elemento sintomatico di un patto elettorale politico-mafioso”, avevano scritto i giudici nella prima assoluzione. “Le condotte oggetto di contestazione – continua – non risultano essere compiutamente comprovate per mancanza di adeguati e specifici riscontri, negli interventi fatti da D’Alì, nella sua veste istituzionale, successivamente al 1994 appare difficile ipotizzare che lo stesso abbia inteso avvantaggiare l’associazione mafiosa piuttosto che taluni imprenditori che soltanto in epoca successiva sono stati condannati per associazione mafiosa”. Forza Italia nel 1994 aveva fatto il pieno. D’Alì 54mila voti. Tutti, evidentemente, di mafiosi invece per i giudici del secondo processo che hanno disposto la condanna, ribaltando l’assoluzione.

Paolo Comi

La Massoneria.

Estratto dell’articolo di Alessia Candito per repubblica.it il 24 gennaio 2023.

"Che nella rete di Matteo Messina Denaro emerga la massoneria non mi stupisce. Ho denunciato e provato a combattere queste connessioni trent'anni fa, ma mi hanno fatto la guerra". Professore di filosofia all'Università di Trento, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia fino agli anni Novanta, quando è andato via sbattendo la porta dopo aver svelato le infiltrazioni di mafia nelle logge, Giuliano Di Bernardo oggi per molti dei suoi ex "fratelli" è fumo negli occhi, per alcuni magistrati, che indagano sulle connessioni fra massonerie e mafie, una risorsa. Di certo è uno che di obbedienze ne sa parecchio. Dopo aver abbandonato il Goi, ha fondato la Gran Loggia Regolare d'Italia, salvo poi tagliare i ponti anche con quella quando ha scoperto che anche lì c'era del marcio.

[…]

Il medico dell'ex superlatitante era un massone regolarmente iscritto al Grande Oriente. La cosa la stupisce?

"Assolutamente no. Subito dopo la mia elezione a Gran Maestro del Goi nel 1990, accadde un fatto che destò in me molta preoccupazione: l'arresto per collusioni con la mafia di Antonino Vaccarino, sindaco di Castelvetrano, potente personaggio della politica, con un ruolo importante nel Goi. Ero stato appena eletto e ignoravo quelle realtà".

 All'epoca ha chiesto spiegazioni?

"I vertici siciliani, da me convocati, mi dissero che in alcune logge del Trapanese vi erano infiltrazioni della mafia. Mi parlarono del circolo "Scontrino" e della loggia "Iside 2"".

 […]

Che intende per "infiltrazioni"?

"La presenza di affiliati all'interno delle logge".

Che interesse ha la mafia a mischiarsi con la massoneria?

"È un canale o una copertura per le loro attività, un modo per operare in certi ambienti. Non riguarda solo la mafia, ma soprattutto la 'ndrangheta. E di certo non solo il Sud Italia".

[…]

 Ritiene che la massoneria possa essere coinvolta nelle stragi?

"Alcuni massoni di alcune obbedienze probabilmente sì".

[…]

Goffredo Buccini per il “Corriere della Sera” il 24 gennaio 2023.

‘U Siccu aveva in testa un’idea grandiosa: che la mafia si pigliasse la politica. Come? Creando logge massoniche coperte «ove vengano affiliati solo personaggi di un certo rango e ove la componente violenta della mafia ne divenga il braccio armato», scrivono cinque anni fa i parlamentari della Commissione antimafia nella loro relazione conclusiva. Era stato lo stesso obiettivo di un altro padrino dalla vista lunga: Stefano Bontate, il «Principe di Villagrazia», massone della prima ora e monarca della vecchia mafia, ammazzato dai Corleonesi nel 1981.

Come lui, anche Matteo Messina Denaro pensava in grande […] dopo le stragi aveva sterzato la sua Cosa nostra sugli affari, l’aveva immersa nel «gioco grande» di cui parlava Falcone, relazioni a New York e in Venezuela, Spagna e Inghilterra, eolico, edilizia, supermercati, cliniche, villaggi turistici, piccioli per tutti, un giro stimato da Libera attorno ai quattro miliardi, meno sangue e tanti legami occulti, fino a farsi, secondo qualche pentito, una loggia segreta tutta sua, La Sicilia.

[…]

Teresa Principato, l’ex procuratrice di Palermo che a lungo ha dato la caccia al latitante, ha raccontato due anni fa a Carlo Bonini di essere rimasta «sconcertata», scoprendo che il padre di Matteo, il boss don Ciccio, mandante del delitto Rostagno, era campiere della famiglia D’Alì, banchieri e proprietari terrieri: «Matteo ha avuto uomini fidati in tante amministrazioni, dalle questure ai Servizi. Così riusciva a sapere in tempo reale delle nostre indagini». Ora ha spiegato che «una rete di copertura di carattere massonico lo ha protetto in tutto il mondo».

Carte e agendine sequestrate nei suoi covi potranno dire molto. Ma parecchio può dire anche la vita quotidiana di Castelvetrano e dintorni. Uno degli eredi dei D’Alì, Antonio, è appena entrato in carcere per scontare una condanna a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa: è stato senatore di Forza Italia e sottosegretario agli Interni. Un medico assai influente nella sanità siciliana come Giovanni Lo Sciuto, sotto processo per l’inchiesta Artemisia, passato da Forza Italia al Nuovo Centrodestra di Alfano, è arrivato a sedere nella Commissione regionale antimafia mentre, intercettato con un «fratello» di loggia segreta, si vantava dell’amicizia con Matteo: «Quando eravamo ragazzini ci volevamo bene, poi lui ha fatto la sua strada … minchia, come mi tratta, mi tratta mi tratta».

 Si definiva «sentinella» nell’Antimafia, ma con un’accezione un po’ particolare: «Se arrivano cose sulla massoneria, quando sono cose di qui le prendo e le strappiamo».

[…]

 Nella sola Castelvetrano la Commissione Bindi segnala sei delle diciannove logge attive nella provincia di Trapani e legate a quattro «obbedienze». Il Comune, sciolto a suo tempo per infiltrazione mafiosa, era arrivato ad avere metà dei suoi consiglieri e dei suoi assessori affiliati a qualcuna di esse. «Pare un ossimoro, ma la massoneria è stato un luogo di occultamento alla luce del sole», sorride triste Claudio Fava, che da vicepresidente ha firmato la relazione Antimafia del dicembre 2017.

[…]

Il boss nascosto? Di che vi stupite quelle logge sono piene di mafiosi. MARCO ANTONELLIS su Il Quotidiano del Sud il 20 Gennaio 2023.

Intervista a Giuliano di Bernardo ex Gran maestro del Goi che spiega la commistione tra alcune logge massoniche e i boss mafiosi

Giuliano Di Bernardo, docente di filosofia all’Università di Trento, è stato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (GOI) dal 1990 al 1993. Iniziato nel 1961 nella Loggia bolognese “Risorgimento-8 Agosto” (GOI), nel 1988 (a soli 49 anni di età) viene ammesso nel Supremo Consiglio del 33° ed ultimo grado del Rito Scozzese Antico e Accettato (RSAA).

Dopo qualche anno si dimette dal Supremo Consiglio. Poi nel 1993 lascia il GOI e fonda la Gran Loggia Regolare d’Italia (GLRI) ottenendo il prestigioso riconoscimento della Massoneria di Londra (United Grand Lodge of England – UGLE) e di altre Grandi Logge del circuito filo-inglese.

Nel 2002 Di Bernardo lascia la GLRI e la Massoneria ma senza smettere di essere massone. In quell’anno fonda a Trento una nuova associazione iniziatica, l’ “Accademia degli Illuminati”, o “Ordine degli Illuminati”, o “Dignity Order” con sede a Vienna. Il Dignity Order ha Gran Priorati in Italia, Ucraina, Slovacchia, Serbia. Dal 2002 Di Bernardo è Gran Maestro dell’Ordine degli Illuminati.

Professore, Matteo Messina Denaro è stato finalmente arrestato e sono state scoperte connivenze con la massoneria. Lei cosa ne pensa?

Oggi che viene arrestato Matteo Messina Denaro, c’è chi mostra stupore per le connivenze di massoni trapanesi con il capo della mafia. Come è possibile? Racconto, al riguardo, un episodio. Dopo la mia elezione a Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia nel 1990, com’è consuetudine, venni invitato a visitarne le Logge, in una solenne cerimonia che si tenne a Palermo. In quell’occasione venni supplicato, nel segreto di squadra e compasso, di non accettare l’invito, che mi sarebbe stato fatto, di visitare le Logge di Campobello di Mazara perché tutte le Logge di quella zona sono infiltrate dalla mafia. Più tardi, scoprii che tali organizzazioni avevano esteso i loro tentacoli anche nelle altre regioni d’Italia. Per quel che riguarda quelle mie esperienze massoniche, ormai è storia.

Ma lei cercò di cambiare quello stato di cose?

Quando mi resi conto del grave stato di crisi in cui versava il GOI, iniziai una cura radicale con il “progetto trasparenza”, che avrebbe dovuto riportarlo alla legalità e al rispetto dei principi morali. Fui avversato con veemenza da tutti, da coloro che non lo compresero e da coloro che volevano riprendersi il potere. Il resto è storia.

Qual è la situazione di oggi?

Dalle “confessioni” che mi vengono rese e da ciò che si apprende dai mezzi di comunicazione, sembra che abbia prevalso il detto: “il medico pietoso fece la piaga cancrenosa”. Ed è così che si arriva a Matteo Messina Denaro e ai suoi complici massoni. È così che si arriva ad Alfonso Tumbarello, medico di Messina Denaro, membro della Loggia “Valle di Cusa-Giovanni di Gangi” (numero 1035) all’Oriente di Campobello di Mazara, all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia. La sua “sospensione a tempo indeterminato” non basta. Ciò significa che Tumbarello continua a far parte del GOI. Ricordo che il Gran Maestro e la Giunta possono adottare provvedimenti non previsti e poi sottoporli all’approvazione della Gran Loggia. In questo caso, nessuno voterebbe contro. Forse, però, è meglio temporeggiare, visto che si avvicina l’elezione del Gran Maestro e la Sicilia è portatrice di tanti voti.

In questa vicenda, irrompe con forza la questione morale della Massoneria italiana. Che cosa intende per “questione morale”?

Vorrei spiegare a tutti i massoni italiani perché la morale non è un optional ma l’essenza stessa della Massoneria. Parto dalla stessa definizione di Massoneria” unanimemente accettata: “La Massoneria è in sistema particolare di morale velato con allegorie e illustrato da simboli”. Da ciò segue che i fini della Massoneria sono un insieme di principi morali, il perseguimento dei quali avviene sulla base di rituali e simboli che conferiscono alla Massoneria le caratteristiche tipiche di una società iniziatica. La Massoneria, pertanto, è un edificio che poggia su due pilastri: la morale e il simbolismo. Se si toglie il pilastro della morale, l’intero edificio crolla. È proprio ciò che sta accadendo nella Massoneria italiana.

Massoneria braccio destro della mafia: il piano di Messina Denaro. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

In trent'anni di latitanza, Matteo Messina Denaro cercava maggiori rapporti con la politica. La loggia l'avrebbe protetto anche fuori dal Trapanese

U Siccu aveva in testa un’idea grandiosa: che la mafia si pigliasse la politica. Come? Creando logge massoniche coperte «ove vengano affiliati solo personaggi di un certo rango e ove la componente violenta della mafia ne divenga il braccio armato», scrivono cinque anni fa i parlamentari della Commissione Antimafia nella loro relazione conclusiva. Era stato lo stesso obiettivo di un altro padrino dalla vista lunga: Stefano Bontate, il «Principe di Villagrazia», massone della prima ora e monarca della vecchia mafia, ammazzato dai Corleonesi nel 1981. Come lui, anche Matteo Messina Denaro pensava in grande, diversamente dal viddano Riina che pure l’aveva tenuto a balia ma ne capiva solo di scannare cristiani. Anche ‘U Siccu, figlio del capomafia di Castelvetrano «don Ciccio» e istruito dal Capo dei capi come killer («impara bene…»), aveva ammazzato «tanta gente da riempire un camposanto», s’intende. Ma dopo le stragi aveva sterzato la sua Cosa Nostra sugli affari, l’aveva immersa nel «gioco grande» di cui parlava Falcone, relazioni a New York e in Venezuela, Spagna e Inghilterra, eolico, edilizia, supermercati, cliniche, villaggi turistici, piccioli per tutti, un giro stimato da Libera attorno ai quattro miliardi, meno sangue e tanti legami occulti, fino a farsi, secondo qualche pentito, una loggia segreta tutta sua, La Sicilia. 

Radici

«La massoneria è un cemento che lega le persone e le fa stare anche fisicamente in un’unica stanza, di compensazione, dove possono realizzare i loro interessi non sempre leciti», spiegò Michele Prestipino all’Antimafia quando era procuratore aggiunto di Reggio Calabria, altra terra dove molti uomini d’onore portano e portavano il grembiulino, a cominciare da don Paolino De Stefano, il mammasantissima che regalava scarpe a mezza città («così chisti camminano sulle scarpe mie»). Per trent’anni Messina Denaro è sfuggito agli «sbirri» sempre inseguendo la sua idea di potenza, che sempre ha avuto una radice profonda nella sua Castelvetrano, tanto che la Commissione presieduta da Rosy Bindi nel 2017 dedica a questa cittadina del Trapanese di trentamila anime (dove l’altro giorno a manifestare in piazza contro il boss sono scesi in trenta) il primo capitolo del fondamentale dossier su massoneria e clan: la chiave è «il consenso della società civile», non vessata dal pizzo ma, anzi, aiutata dal «sostegno mafioso» e pronta a offrire in cambio «la titolarità di quote delle imprese»: e non solo quella. Teresa Principato, l’ex procuratrice di Palermo che a lungo ha dato la caccia al latitante, ha raccontato due anni fa a Carlo Bonini di essere rimasta «sconcertata», scoprendo che il padre di Matteo, il boss don Ciccio, mandante del delitto Rostagno, era campiere della famiglia D’Alì, banchieri e proprietari terrieri: «Matteo ha avuto uomini fidati in tante amministrazioni, dalle questure ai Servizi. Così riusciva a sapere in tempo reale delle nostre indagini». Ora ha spiegato che «una rete di copertura di carattere massonico lo ha protetto in tutto il mondo». Carte e agendine sequestrate nei suoi covi potranno dire molto. Ma parecchio può dire anche la vita quotidiana di Castelvetrano e dintorni. Uno degli eredi dei D’Alì, Antonio, è appena entrato in carcere per scontare una condanna a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa: è stato senatore di Forza Italia e sottosegretario agli Interni. Un medico assai influente nella sanità siciliana come Giovanni Lo Sciuto, sotto processo per l’inchiesta Artemisia, passato da Forza Italia al Nuovo Centrodestra di Alfano, è arrivato a sedere nella Commissione regionale antimafia mentre, intercettato con un «fratello» di loggia segreta, si vantava dell’amicizia con Matteo: «Quando eravamo ragazzini ci volevamo bene, poi lui ha fatto la sua strada … minchia, come mi tratta, mi tratta mi tratta». Si definiva «sentinella» nell’Antimafia, ma con un’accezione un po’ particolare: «Se arrivano cose sulla massoneria, quando sono cose di qui le prendo e le strappiamo». È un crocevia dei misteri d’Italia, questo. Nel 1950 fu ritrovato qui, nel cortile di un avvocato, il cadavere del bandito Giuliano, col suo carico di enigmi e depistaggi («Di sicuro c’è solo che è morto», fu il mitico incipit di Tommaso Besozzi sull’Europeo). A metà anni Ottanta scoppia a Trapani il caso della loggia segreta Iside 2, sotto l’insegna del circolo Scontrino, dove s’incontrano uomini delle istituzioni e boss come Mariano Agate, «per comporre interessi mafiosi, politici e imprenditoriali compresi quelli riconducibili ai Messina Denaro». Nella sola Castelvetrano la Commissione Bindi segnala sei delle diciannove logge attive nella provincia di Trapani e legate a quattro «obbedienze». Il Comune, sciolto a suo tempo per infiltrazione mafiosa, era arrivato ad avere metà dei suoi consiglieri e dei suoi assessori affiliati a qualcuna di esse. «Pare un ossimoro, ma la massoneria è stato un luogo di occultamento alla luce del sole», sorride triste Claudio Fava, che da vicepresidente ha firmato la relazione Antimafia del dicembre 2017.

Occupazione

Certo, non è lecito generalizzare. Il Grande Oriente d’Italia ha reso noto d’aver subito sospeso il medico massone trapanese indagato per la latitanza di Messina Denaro, richiamando tutti alla presunzione d’innocenza. Principio sacrosanto che nulla toglie, tuttavia, alla storia delle logge da queste parti. Agli atti della sentenza d’Assise contro Giuseppe Graviano per l’omicidio di due carabinieri, si trova la testimonianza di Giuliano Di Bernardo, già gran maestro del Goi, poi uscito dalla massoneria, che ce ne rende la profondità. Nel 1993 il capo del Grande Oriente siciliano, Massimo Maggiore, un avvocato di Palermo, gli consiglia di rifiutare l’invito a visitare le logge del Trapanese «perché in quella zona tutte le nostre logge sono state occupate dalla mafia... non l’abbiamo potuto evitare». Quello è l’anno in cui Messina Danaro diventa un fantasma. La «doppia appartenenza», ha raccontato il pentito Siino, è ormai accettata dai boss e subita dai massoni per reciproca convenienza. Le inchieste più recenti a Reggio Calabria hanno raccontato come ‘ndranghetisti e mafiosi abbiano fatto un passo ulteriore negli ultimi dieci anni, piegando alcune logge verso la zona schermata degli «invisibili», «soggetti che restano occulti alla stessa massoneria», tra nomi del mondo di sopra che non si possono pronunciare. Se la malasorte non lo avesse spedito a fare la spola tra reparti di oncologia, quello era di sicuro il posto che ‘U Siccu si era assegnato.

I segreti del padrino. Dalla «borghesia mafiosa» alla massoneria, le ipotesi sui fiancheggiatori di Messina Denaro. L’Inkiesta il 18 Gennaio 2023.

Il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia dice: «Certamente indagheremo su chi lo ha protetto consentendogli praticamente indisturbato, fino a lunedì, di curarsi in una delle strutture mediche più note di Palermo, indagheremo per capire chi gli ha consentito il tenore di vita agiato che ha condotto e lavoreremo per ricostruite l’intera sua latitanza». L’ex procuratrice Principato parla di una loggia costituita proprio dal boss che si chiamava “La Sicilia”

Dopo l’arresto del boss Matteo Messina Denaro, ora si cerca di fare luce sulla fitta rete dei fiancheggiatori che hanno permesso la latitanza di trenta lunghi anni dell’ultimo stragista di Cosa nostra e, in particolare, sulla cosiddetta «borghesia mafiosa».

Il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia ha fatto intendere subito che le «attenzioni» investigative del suo ufficio saranno rivolte a questa zona grigia. «Mi riferivo a una circostanza che viene fuori dalle nostre indagini, ma anche da ricerche e studi storici e sociologici. La mafia ha sempre avuto rapporti strettissimi con una parte della società che, per semplificare, abbiamo definito borghesia mafiosa», spiega il procuratore al Corriere. «Parlo del mondo delle professioni, dell’imprenditoria, della politica. Ovviamente alludo a singole complicità e non è mia intenzione generalizzare, ma è innegabile che Cosa nostra abbia prosperato, si sia consolidata e diffusa così nel profondo nella nostra terra, anche grazie a quella zona grigia, quella terra di mezzo che a volte ha chiuso gli occhi, fingendo di non vedere. E altre ha avuto invece un ruolo di co-protagonista nella storia criminale del Paese. Non dico nulla di nuovo. Parlo di dati consolidati, acquisiti fin dai tempi del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone».

In una latitanza così lunga, «certamente le connivenze di determinati ambiti sociali sono stata utili. Ovviamente Messina Denaro ha goduto di un appoggio molto ampio, non solo di certa borghesia», precisa De Lucia. «Quello dei favoreggiatori è un capitolo ancora tutto da scrivere, ma mi faccio delle domande. Come è possibile che uno dei più pericolosi ricercati italiani si sia fatto operare e per mesi si sia sottoposto a visite in una delle cliniche più note della città, senza che, fino al nostro intervento, nessuno si sia accorto di nulla? Qualcuno sapeva e lo ha coperto? Vogliamo una risposta a queste domande. La vogliono i cittadini».

E poi assicura: «Certamente indagheremo su chi lo ha protetto consentendogli praticamente indisturbato, fino a lunedì, di curarsi in una delle strutture mediche più note di Palermo, indagheremo per capire chi gli ha consentito il tenore di vita agiato che ha condotto e lavoreremo per ricostruite l’intera sua latitanza, non limitandoci all’ultimo periodo, per comprendere come abbia governato Cosa nostra».

E su Repubblica, l’ex procuratrice aggiunta di Palermo, Teresa Principato, parla invece di possibili coperture da parte della massoneria. Durante la sua fuga, afferma Principato, il padrino di Castelvetrano ha potuto contare «su una rete di copertura di carattere massonico che lo ha protetto in tutto il mondo».

Non stiamo parlando «di una persona nascosta in un casolare, che mangiava pane e ricotta come Bernardo Provenzano», dice. «Tutt’altro. Oltre ad essere abbastanza colto, amava la bella vita, era un maniaco del lusso. E non rimaneva troppo a lungo fermo nello stesso luogo. Ha viaggiato molto, anche all’estero». Dalla Sicilia al Venezuela, dall’Inghilterra alla Spagna. In Venezuela, ad esempio, «c’è una larghissima, intricata, realtà massonica e sicuramente gli ambienti frequentati da Messina Denaro, siciliani trapiantati che gestivano un negozio di mobili molto fiorente, erano massonici. In Inghilterra, la massoneria è addirittura uno status. In Spagna invece ho qualche dubbio sul carattere massonico dei rapporti intrecciati da Messina Denaro con coloro che lo hanno ospitato». Ma c’è dell’altro. «Un collaboratore di giustizia massone ha parlato di una loggia coperta costituita proprio da Messina Denaro che si chiamava “La Sicilia”. Ci sono altri esempi di logge coperte, come la “Scontrino”, di cui facevano parte persone di ogni livello sociale. Lo stesso si può dire per “La Sicilia”».

Questi suoi rapporti, secondo Principato, «lo hanno messo al riparo dal pericolo di essere rintracciato». Naturalmente, aggiunge, «la protezione non può essere stata esclusivamente massonica, anche perché Messina Denaro, per il territorio, rappresentava una gallina dalle uova d’oro: i suoi affari andavano dalla grande distribuzione alle pale eoliche».

Estratto dell'articolo di Rino Giacalone per “La Stampa” il 18 gennaio 2023.

Sfogliando pagine conservate nell'Archivio di Stato o quelle anche di recenti sentenze di condanna, si scopre il comune denominatore che unisce questa terra trapanese, incastonata nella Sicilia più occidentale, a cavallo di tre secoli: la sommersione del potere mafioso. Le commistioni con i poteri pubblici, sia quando erano teste coronate a governare, sia quando l'Italia è rinata repubblicana e democratica. Trapani e quella incarnata cultura secondo la quale la mafia non esiste.

[…]

A Trapani non ci sono coppole e lupare, ma manager, imprenditori, anche non punciuti ma legati a Cosa Nostra, da pari, senza sudditanza. A metà degli anni '80 la Squadra Mobile scopre dietro la copertura di un circolo culturale la sede di alcune logge massoniche segrete: tra gli iscritti, mafiosi, professionisti, uomini delle istituzioni, dell'impresa e della finanza. Anni dopo un altro magistrato, Andrea Tarondo, in una requisitoria evidenzia un dato reale, l'assenza di denunce per estorsioni, «qui - affermò - le imprese pagano ma non il pizzo, semmai la quota associativa a Cosa Nostra, così da avere aperte tutte quelle porte che al contrario resterebbero loro chiuse».

 Qui la mafia è stata sempre legata alle sue origini, mantenendo la caratteristica della sommersione e la connotazione borghese, niente coppole ma uomini in grisaglia. La mafia, si legge in decine di sentenze, è fatta da latifondisti, imprenditori, politici scoperti essere uomini d'onore riservati.

Se Palermo è la capitale della mafia, Trapani grazie a Matteo Messina Denaro è diventata la capitale del settore finanziario, lo zoccolo duro di Cosa Nostra dove il controllo del territorio per decenni è stato pressocché totale, dove il rapporto con le istituzioni e con la massoneria è tradizionale. Massoneria e mafia, due facce della stessa medaglia. Entrano nella vita della gente, decidono le sorti, distribuiscono prebende. È questa l'incarnazione della mafia borghese, sin da quando capo mafia di Castelvetrano era tale Melchiorre Allegra, medico di professione, arrestato nel 1937. Fece il pentito ma non venne creduto. Mafia borghese che, oltre a proteggere il boss durante la lunga latitanza, ne ha permesso l'arricchimento.

[…]

Estratto da open.online il 18 gennaio 2023.

Teresa Principato, ex procuratrice aggiunta di Palermo, in un’intervista rilasciata oggi a Repubblica si rallegra per l’arresto di Matteo Messina Denaro. Ma al tempo stesso si dice turbata. Perché durante la sua fuga l’ultimo dei Corleonesi ha potuto contare «su una rete di copertura di carattere massonico che lo ha protetto in tutto il mondo».

 Principato era convinta che Messina Denaro non si sarebbe mai fatto prendere. «Da quello che ho potuto verificare con le mie indagini, arrivate fino al 2017, Messina Denaro era proprio inafferrabile. Non stiamo parlando di una persona nascosta in un casolare, che mangiava pane e ricotta come Bernardo Provenzano. Tutt’altro. Oltre ad essere abbastanza colto, amava la bella vita, era un maniaco del lusso. E non rimaneva troppo a lungo fermo nello stesso luogo. Ha viaggiato molto, anche all’estero», sostiene.

La loggia “La Sicilia”

Principato ha seguito le tracce di Messina Denaro «dalla Sicilia al Venezuela, dall’Inghilterra alla Spagna. Attraverso le rogatorie abbiamo trovato tracce della sua presenza. Ma non lui». E spiega: «In Venezuela, ad esempio, c’è una larghissima, intricata, realtà massonica. E sicuramente gli ambienti frequentati da Messina Denaro, siciliani trapiantati che gestivano un negozio di mobili molto fiorente, erano massonici. In Inghilterra, la massoneria è addirittura uno status.

 In Spagna invece ho qualche dubbio sul carattere massonico dei rapporti intrecciati da Messina Denaro con coloro che lo hanno ospitato. Ma c’è dell’altro». Ovvero: «Un collaboratore di giustizia massone ha parlato di una loggia coperta costituita proprio da Messina Denaro che si chiamava “La Sicilia”. Ci sono altri esempi di logge coperte, come la “Scontrino”, di cui facevano parte persone di ogni livello sociale. Lo stesso si può dire per “La Sicilia”. Questi suoi rapporti, ne sono convinta, lo hanno messo al riparo dal pericolo di essere rintracciato».

La “borghesia mafiosa”

Principato parla di una grossa rete di carattere massonico che lo proteggeva. Ma il procuratore capo dell’epoca non era convinto della pista: «Il collaboratore non era ritenuto credibile. Non lo era su molti versanti, ma la sua qualità di massone, il fatto che fosse stato cooptato in una delle logge di Castelvetrano mi fa ritenere più che attendibili le sue dichiarazioni su questo aspetto».

 E la protezione non poteva essere soltanto massonica perché il boss «per il territorio rappresentava una gallina dalle uova d’oro. I suoi affari andavano dalla grande distribuzione alle pale eoliche. E Principato dice che c’è stato un momento era davvero vicina ad arrestarlo: «Tra il 2016 e il 2017 Messina Denaro aveva ripreso i suoi rapporti con un vecchio sodale, Leo Sutera, condannato per associazione mafiosa. Che era stato scarcerato. Sentivamo di essere a poca distanza dal risultato finale, ma l’allora procuratore ritenne di far arrestare Sutera in un’altra indagine»

(...)

Giu. Leg. per “La Stampa” il 21 gennaio 2023.

[…] «Le indagini sulle ricerche di Matteo Messina denaro furono totalmente ostacolate. Ogni volta che si alzava il livello, ad esempio sulla massoneria, in molti […] cominciavano a non crederci più (per esempio sui collaboratori che stavamo sentendo) nonostante in otto anni di lavoro alla Dda di prove sulla mia professionalità ne avessi seminate.

 E gli ostacoli furono frapposti nonostante gli scenari della cattura fossero molto promettenti. Sia io sia altri colleghi cercammo di convincere il procuratore a fermare i colleghi del gruppo agrigentino che volevano procedere all'arresto di un boss che secondo noi ci avrebbe portato dal ricercato. Avrebbero vanificato tutto. Anche i carabinieri del Ros ci parlarono. Invano».

 […] Teresa Principato, magistrato in pensione dal gennaio 2022. È la donna che più di tanti altri in passato ha dato la caccia a Messina Denaro […]. Nove anni di lavoro su piste estere e italiane cadute sul più bello, al miglio decisivo, sul più grande fantasma degli ultimi 20 anni. L'addio alla procura di Palermo nel 2018 e il passaggio alla direzione nazionale antimafia per quattro anni, sono l'appendice di una vita in magistratura.

Dottoressa, lasciò volontariamente la procura di Palermo?

«Considerato l'atteggiamento tenuto nei miei confronti da alcuni colleghi e responsabili dell'ufficio giudiziario dell'epoca me ne andai via, insalutata ospite. Non ritenevo ci fossero più le condizioni per rimanere».

 Con quale stato d'animo se ne andò da Palermo?

«Mi costò molto. Ero arrabbiata, delusa. Tanto da pensare che non ci fosse la reale volontà di catturare il latitante. Lo credevano anche altri miei colleghi e diversi investigatori».

 Ma di che storia sta parlando?

«Della storia di un'indagine stoppata della quale ho cercato anche di dimenticare alcuni particolari».

Ce li racconti e – se ritiene – ometta il meno possibile.

«Seguivamo un capomafia, Leo Sutera. Appena uscito dal carcere incontrò Messina Denaro. Aveva anche il compito di farlo incontrare con due mafiosi palermitani. Fotografammo Sutera in un casolare mentre da sotto una pietra estraeva un pizzino del latitante. Lo lesse e lo rimise al suo posto».

 «[…] Eravamo tutti certi che ci avrebbe potuto portare da Messina Denaro […] invece i colleghi che investigavano sul territorio agrigentino volevano arrestarlo in un'altra operazione, ma cosi ci avrebbero bruciato».

[…] Cosa le disse il vertice dell'ufficio?

«Mi chiese se fossi certa, del contenuto delle intercettazioni consegnatemi dal Ros. Confermai, ma non si convinse e successe un'altra cosa strana».

 Quale?

«Seppi che poco dopo, in quei giorni, si recò in aula bunker dove venivano effettuate le intercettazioni sulle ricerche del boss. Chiese a un ufficiale di sapere se ve ne fossero di interesse».

 […] Parlò coi colleghi della vicenda?

«Lo dissi direttamente al procuratore capo cercando di dimostrare che più stringente della cattura degli agrigentini era il fermo del latitante».

 […]  Le arrestano l'unico uomo che poteva portarla a Messina Denaro...

«Non solo».

 […] «Poco tempo dopo arrestarono anche i due mafiosi palermitani che dovevano essere condotti dal latitante. [..] Pensai che l'indagine fosse stata totalmente ostacolata, che la cattura non fosse ritenuta prevalente e che sarebbe stato impossibile ricominciare daccapo».

 E invece?

«Ripartimmo con enorme fatica dalla massoneria […] ma non fu facile nemmeno stavolta […] Mi ritrovai in una riunione senza nemmeno il consenso dei colleghi. Completamente sola e, inascoltata ospite, decisi di andare via in anticipo».

 […] E Messina Denaro è stato preso...

«Non credo si sia consegnato. Certo – senza nulla togliere al lavoro di alcuni – era stanco, aveva abbassato le difese. Lei se lo vede uno che per prudenza non incontra mai la figlia per 20 anni mettersi in coda per fare un tampone?».

 […] «E poi aveva forti rapporti politici. Pensi alla storia di D'Alì […] D'Alì ha fatto assumere in una delle sue banche il fratello dell'ex latitante e un Prefetto che voleva togliere dalle grinfie della mafia un'azienda fu fatto trasferire sempre da lui, cosi come il capo della squadra Mobile Giuseppe Linares».

 E questo cosa le fece capire?

«Mi fece riflettere sulla possibilità della mancata realizzazione di altre indagini sulla cattura che in quegli anni andarono a monte».

Lettera di Teresa Principato, ex procuratrice aggiunta di Palermo, pubblicata da “La Stampa” il 22 gennaio 2023.

In riferimento all'intervista pubblicata su La Stampa di ieri, non ho mai detto che «le mie indagini furono totalmente ostacolate. Pensai non lo volessero prendere».

 Ho condotto per otto anni insieme ai miei colleghi indagini che sono sfociate in numerosi e importanti provvedimenti cautelari.

 «Ogni volta che si alzava il tiro, per esempio sulla massoneria, in molti cominciavano a non crederci più» . Questo tipo di indagini è stato condotto da me una sola volta, sul finire della mia esperienza di aggiunto.

 Ciò in quanto il Procuratore ed i miei colleghi, al contrario di me sul capitolo massoneria, non ritenevano più credibile il collaboratore da cui le relative indagini erano scaturite. Le modalità della riunione in cui tale discussione fu affrontata mi offesero molto.

Uno stop alle indagini fu dato solo quando dal Procuratore e dal gruppo di colleghi agrigentini venne arrestato Leo Sutera , personaggio indispensabile alle mie indagini con il Ros, circostanze di cui il giornalista parla correttamente.

 Non è vero che andai via dalla Procura di Palermo perché, visto l'atteggiamento tenuto nei miei confronti in quella riunione, «non ritenevo ci fossero più le condizioni per rimanere»; in realtà erano scaduti gli otto anni in cui avevo svolto la funzione di Aggiunto.

 Vero è che da quel momento al momento in cui mi venne conferito altro incarico alla Procura Nazionale non mi recai più in Ufficio.

Teresa Principato

Replica di Giuseppe Legato:

La dottoressa sa perfettamente che le è stato inviato in visione il testo dell'intervista e che, alle 21,15, su sua richiesta telefonica di parziali modifiche al testo, le stesse sono state accolte nel corpo pubblicato.

 Peraltro è lei stessa a parlare di "stop" all'indagine per la cattura di Messina Denaro in questa richiesta.

 La vicenda del collaboratore, in relazione alle indagini sulla massoneria, è spiegata nel prosieguo dell'intervista.

Giuseppe Legato

Matteo Messina Denaro, il medico, le cure al boss e la massoneria (che ora lo ha sospeso). Storia di Alfio Sciacca inviato a Palermo su Il Corriere della Sera il 18 gennaio 2023.

Forse la sospensione dalla massoneria è una delle cosa che più lo amareggia in queste ore. Di quella appartenenza Alfonso Tumbarello non faceva mistero a Campobello di Mazara. Una loggia ufficiale (la Valle di Cusa — Giovanni di Gangi - 1035) con 40-50 iscritti e sede al primo piano di uno stabile di via Rodi. Uno dei due sodalizi di liberi muratori (l’altro è Domizio Torrigiani - 413) che ci sono in un paese di 11.800 abitanti. A conferma che se la densità massonica nel Trapanese è tra le più alte d’Italia (dieci quelle ufficiali) a Campobello questa densità si respira come una nebbiolina sospesa a mezz’aria. Senza tener conto delle logge coperte, in passato al centro di inchieste per sospette connivenze con ambienti mafiosi. Alcuni pentiti hanno raccontato persino di una loggia, denominata «La Sicilia», costituita personalmente dal boss Messina Denaro.

Il sindaco

Nel caso di Tumbarello invece era tutto alla luce del sole. «Qualche anno fa — ricorda il sindaco di Campobello, Giuseppe Castiglione — hanno anche organizzato una giornata “massoneria porte aperte”, per spiegare come opera una loggia». Ora Tumbarello, 70 anni, due figli, specializzato in pneumologia, «il dottore di tutti» che molti ancora ricordano anche come potente ala sinistra della squadra locale, è finito nei guai. È indagato per favoreggiamento e procurata inosservanza di pena, perché sarebbe stato il medico di base sia del geometra Andrea Bonafede, sia del latitante che si nascondeva dietro quell’identità: . Da quando è venuta fuori la notizia è letteralmente scomparso. Al citofono di casa, in via Garibaldi, il corso principale, non risponde nessuno. Chiuso il vecchio studio medico da perennemente massimalista con 1.500 assistiti. «Praticamente tutti siamo stati curati da lui — conferma il sindaco —, anche io ero un suo assistito».

Video correlato: Matteo Messina Denaro, Salvatore Borsellino: «Mi aspetto che venga ritrovato il suo sterminato archivio dei rapporti tra mafia e Stato» (Corriere Tv)

La politica

Dopo il calcio, la medicina, la massoneria, l’altra sua grade passione è stata la politica dove comunque non gli è mai riuscito il grande salto. Un’esperienza da consigliere provinciale nel 2003 e poi la delusione alle Regionali, con una lista che appoggiava Cuffaro e, soprattutto, la corsa a sindaco. Nel 2011, con la sua lista «Il Popolo della Libertà», rimediò appena 610 voti. Interrogato dopo l’arresto del boss Tumbarello avrebbe argomentato che lui ha assistito solo il geometra . Una versione che non convince gli inquirenti perché si immagina che, avendolo visitato qualche volta in passato, lo conoscesse anche. È possibile che non si sia accorto che dietro lo stesso nome, ad un certo punto, si celava in realtà Matteo Messina Denaro al quale ha prescritto farmaci per cure e trattamenti oncologici senza nemmeno visitarlo? Ma il suo legale, Giuseppe Pantaleo, nega persino che sia stato ancora interrogato. «In questo momento — spiega— è comprensibilmente turbato perché investito da una tempesta mediatica, ma è anche sereno e pronto a fornire agli inquirenti tutti i chiarimenti. Nel merito però non posso dire nulla perché, nonostante le dichiarazioni che gli vengono attribuite, fino ad ora non c’è stato alcun interrogatorio. Almeno in mia presenza».

Il Grande Oriente

Senza attendere la magistratura è comunque arrivata la presa di distanze dei vertici del Grande Oriente d’Italia. «Viste le notizie di stampa — scrive il gran maestro Stefano Bisi — secondo le quali sarebbe sottoposto a indagini per reati di rilevante gravità, se ne decreta la sospensione a tempo indeterminato». Chi non vuole trarre giudizi affrettati è invece il sindaco. «Io milito su altre sponde —spiega—, sono stato socialista e ora guido una giunta di centro-sinistra. Posso però dire di aver conosciuto una persona perbene, stimata e disponibile con tutti. Prima di cambiare giudizio attendo di capire meglio le accuse. Immaginarlo al servizio di Messina Denaro mi farebbe raggelare il sangue e sarebbe un grandissima delusione».

Estratto dell'articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” il 19 gennaio 2023.

Giovanni Lo Sciuto per cinque anni da leader del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano […] deputato eletto a Trapani. Oggi è sotto processo perché sospettato di essere tra i vertici di una loggia massonica segreta che avrebbe raggruppato il ghota di tutta la provincia. Lui non è ufficialmente massone e si dice estraneo alle accuse. Ma intercettato si vantava con un suo amico, massone, di aver conosciuto il superlatitante Matteo Messina Denaro: «Quando eravamo ragazzini ci volevamo bene, poi lui ha fatto la sua strada». E aggiungeva: «Siccome noi ci volevamo bene, capito, assai ci volevamo bene, perciò da me puoi stare tranquillo che né mi manderà nessuno, né viene nessuno. Sono in commissione antimafia, appena arrivano lettere anonime sulla massoneria le strappo».

[…] Politica, massoneria, Regione e salta sempre fuori quel nome: Messina Denaro. Perfino l'ultimo medico che lo ha visitato a Campobello di Mazara, dove ha vissuto negli ultimi mesi indisturbato, è un massone: Alfonso Tumbarello, ieri espulso dal Grande oriente dal Gran maestro Stefano Bisi.

 Quando si parla di logge segrete il nome di Matteo salta fuori puntuale come un orologio e non c'è collaboratore di giustizia che non abbia ribadito come uno dei capisaldi del potere e della forza del boss in questi trent' anni di latitanza sia stata la sua vicinanza se non appartenenza a logge nascoste e con uomini che poi, guarda caso, hanno sempre entrature nei palazzi del potere siciliano.

[…]

 Mafia e massoneria sono andati a braccetto da sempre, non è una novità. I verbali dei processi sulla vecchia mafia sono pieni di testimonianze.

 Diversi pentiti raccontato che alla massoneria erano affiliati Totò Riina, Michele Greco, Francesco Madonia, Stefano Bontade, Angelo Siino, Vito Cascioferro: i capi storici di Cosa Nostra.

 Michele Sindona, il banchiere della mafia, è stato associato alla loggia Camea […] E in queste logge agivano anche funzionari della Regione: come Salvatore Bellassai, che aveva la sua stanza proprio di fronte a quella del presidente Piersanti Mattarella. Bellassai era il capo della P2 di Gelli per la Sicilia e la Calabria. Ma queste sembrano narrazioni ormai da libri di storia della mafia.

[…] Di certo c'è che Messina Denaro e le sue sentinelle sparse per la Sicilia occidentale, nel suo regno che va da Agrigento a Trapani, hanno avuto legami strettissimi con esponenti di logge massoniche segrete e non, che a loro volta hanno avuto entrature nei palazzi della politica e della burocrazia del capoluogo di regione, Palermo […]

Matteo Messina Denaro nascosto nel feudo massone. Nel Trapanese il più alto numero di logge, sei quelle individuate a Castelvetrano. ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 19 Gennaio 2023

Nella provincia a più alto tasso massonico d’Italia può capitare che un agente a cui erano delegate le indagini sul super boss Matteo Messina Denaro fosse in affari con un suo parente e che un ex componente dell’Assemblea regionale siciliana si vantasse di conoscerlo e di godere della sua protezione. E chissà se è un caso che Alfonso Tumbarello, il medico di base indagato che aveva in cura Andrea Bonafede, alias del boss, fosse massone (il gran maestro Stefano Bisi lo ha appena sospeso).

Forse anche perché la zona grigia è così trafficata, da quelle parti, che ha fatto sì che tutto diventasse invisibile, anche il più pericoloso ricercato d’Italia. Su 19 logge massoniche censite nella provincia di Trapani sei sono nella sola Castelvetrano, cittadina di meno di 30mila abitanti nota soprattutto per essere il feudo dell’ormai ex super latitante.

Dalla relazione della Prefettura di Trapani sulle vicende inerenti lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del consiglio comunale di Castelvetrano, nel giugno 2017, era emerso che quattro su cinque assessori erano iscritti alla massoneria, ma erano “fratelli” anche sette consiglieri comunali su 30 e vari dirigenti e dipendenti del Comune.

La stessa Prefettura di Trapani segnalava che probabilmente gli elenchi ufficiali degli iscritti nel Trapanese alle logge erano incompleti per difetto, e che si poteva ipotizzare che la quota di massoni tra amministratori pubblici e dirigenti poteva essere ben più elevata. Sono dati che la dicono lunga sugli elementi caratterizzanti della mafia trapanese, di cui Messina Denaro era vertice indiscusso, e sul contesto in cui si muoveva indisturbato; elementi che inducono a ritenere che la rete di connivenze e complicità di cui l’ultimo capo dei capi ha goduto si annidano, appunto, in una vasta e vischiosa zona grigia.

Per comprendere quel milieu può essere utile rileggere le audizioni delle magistrate Sara Morri e Francesca Urbani della Procura di Trapani, nell’aprile 2021 ascoltate dalla Commissione parlamentare presieduta, nella scorsa Legislatura, da Nicola Morra. Sono le pm titolari dell’indagine che portò all’operazione “Artemisia” con la quale sarebbe stata fatta luce, secondo la tesi accusatoria, su un’associazione segreta avente i caratteri sanzionati dalla legge Spadolini-Anselmi.

Scorrendo il capitolo della Relazione della Commissione parlamentare antimafia relativo ai rapporti tra criminalità organizzata e logge, del quale era proponente l’ex senatrice crotonese Margherita Corrado, ci si rende conto di quanto la rete massonica locale sia articolata nel Trapanese. Le indagini svolte dagli inquirenti hanno riguardato le condotte, ritenute illecite, di un ex parlamentare dell’Assemblea regionale siciliana, Giuseppe Lo Sciuto, che sarebbe stato al centro di un giro di corruzione, clientelismo, e influenze politiche derivanti dallo sfruttamento degli agganci massonici.

Conversando con il suo interlocutore, Lo Sciuto riferiva la propria opinione circa le reali ragioni che sottendevano all’interesse della Commissione parlamentare antimafia verso le vicende del Comune di Castelvetrano, collegandole alla lunga latitanza di Messina Denaro, che affermava di conoscere sin dall’adolescenza vantandosi di poter contare sul suo appoggio, almeno secondo la ricostruzione della Procura. Dichiarazioni non frutto di “millanteria”, sempre secondo le pm. In un’altra intercettazione, l’ex politico citava anche Lorenzo Cimarosa, cugino acquisito del latitante e testimone di giustizia in numerosi processi contro esponenti di Cosa Nostra castelvetranese, e non faceva mistero di non averne mai avuto una buona considerazione.

Da uno dei filoni d’inchiesta sarebbero, in particolare, emersi elementi circa l’esistenza di un meccanismo corruttivo che, se confermati dagli sviluppi processuali, rivestirebbe aspetti inquietanti: vi sarebbe cioè il coinvolgimento di almeno tre appartenenti alle forze dell’ordine operanti in uffici investigativi in prima linea nella lotta alla mafia, quali la Questura di Palermo, la Sezione operativa di Trapani della Dia e il Commissariato della polizia di Stato di Castelvetrano.

«Degna di nota», è detto nel dossier della Commissione antimafia, è la circostanza relativa ad uno degli agenti di polizia, cui sarebbe stata delegata in passato la redazione di informative sulla ricerca di Messina Denaro e che peraltro sarebbe stato, secondo l’ufficio del pm, in rapporti economici con uno stretto congiunto dell’ex latitante. Gli inquirenti avrebbero poi accertato una serie impressionante di fughe di notizie relative ai procedimenti e alle intercettazioni a carico del principale indagato.

Le pm audite hanno anche sottolineato che le ben sei logge attive a Castelvetrano sono appartenenti a differenti obbedienze massoniche. Secondo la Procura di Trapani, in sintesi, l’associazione riconducibile all’ex parlamentare dell’Ars si fonderebbe sulla partecipazione ad una loggia massonica (la loggia Hypsas), che si sarebbe avvalsa anche di un centro culturale – il Centro sociologico italiano (Csi) – dove, tra l’altro, avevano sede al tempo dell’indagine diverse logge massoniche. Gli approfondimenti investigativi sui soci del Csi avrebbero fatto emergere, ad esempio, che la maggioranza (82 su 96) risultavano iscritti a cinque diverse logge massoniche (di Castelvetrano e non), e che il Csi sarebbe capofila e contenitore di cinque associazioni aderenti.

Le pm, durante l’audizione, hanno evidenziato anche che Lo Sciuto è stato uno dei membri della Commissione antimafia siciliana: in quanto tale «era potenzialmente in grado di monitorare, ed eventualmente occultare o neutralizzare, tutte le notizie e gli esposti anonimi che giungevano a quella Commissione sui rapporti tra politica e massoneria». E siccome la relazione della Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi su mafie e massoneria in Sicilia e Calabria aveva riacceso i riflettori sulla la politica locale di Castelvetrano, temeva in particolare che l’attività d’inchiesta avrebbe messo a nudo il sistema dei favoritismi alla base delle carriere dei referenti politici delle logge. Le inquirenti parlano di un «vero e proprio patto di reciproco vantaggio tra politica e massoneria».

Non a caso Lo Sciuto spiegava, secondo le pm, ai suoi interlocutori come fosse stato costretto a far cancellare dalle logge un proprio congiunto, a cui diversamente non avrebbe potuto far ottenere alcun incarico, sia un altro suo sodale, anch’egli iscritto alla massoneria regolare, a cui aveva già fatto ottenere l’incarico di revisore dei conti presso l’Asp di Trapani, ciò per evitare eventuali attacchi mediatici.

Campobello di Mazara, dove sono stati individuati i due covi del super boss, è a due passi da Castelvetrano. Quel latitante della porta accanto tanto somigliante al famigerato identikit che imperversava sui media da decenni chissà quanti l’avranno notato e, come ha detto lo stesso sindaco di Campobello di Mazara, Giuseppe Castiglione, chissà quanti hanno messo “la testa sotto la sabbia”. Senza dire delle chat con le pazienti con cui condivideva l’attesa nella clinica Maddalena, prima di sottoporsi a cure oncologiche, e del selfie con un chirurgo che rischia un procedimento disciplinare. Ma le connivenze potrebbero essere a un livello superiore.

La Sanità.

L'arresto in clinica. "Sì, il boss sono io". Le accuse delle toghe. "Coperture borghesi". Patricia Tagliaferri il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

È stato catturato ieri mattina Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa Nostra più ricercato d'Italia. Dopo 30 anni di latitanza e a 30 anni esatti dall'arresto di Totò Riina, la notizia ha fatto il giro del mondo in una manciata di minuti

È stato catturato ieri mattina Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa Nostra più ricercato d'Italia. Dopo 30 anni di latitanza e a 30 anni esatti dall'arresto di Totò Riina, la notizia ha fatto il giro del mondo in una manciata di minuti.

Dopo averlo cercato ovunque per decenni, i carabinieri del Ros lo hanno trovato come un paziente qualunque, sotto falso nome, nella clinica La Maddalena di Palermo, a meno di un chilometro dalla Direzione distrettuale antimafia, dove era in cura per un tumore da un anno, o forse due, come ha raccontato un medico della struttura.

Quando si è reso conto di essere stato scoperto e che la clinica era circondata, con militari in assetto da guerra ad ogni piano, il superlatitante ha tentato di allontanarsi. Una fuga durata pochi minuti. I carabinieri lo hanno bloccato in strada presso un ingresso secondario insieme al suo autista, Giovanni Luppino, un agricoltore incensurato e insospettabile di Campobello di Mazara, paese vicino a Castelvetrano, città natale di Matteo Messina, ora accusato di favoreggiamento. Quando al boss è stato chiesto chi fosse non ha opposto nessuna resistenza e ha rivelato il suo vero nome: «Sì, sono Matteo Messina Denaro». Cappello bianco in testa e occhiali scuri, indossava una giacca di pelle e un orologio da 35mila euro al polso. Non era armato e non aveva il giubbotto antiproiettile. Aveva l'aspetto di un paziente qualunque, smagrito e sofferente, con il volto stanco, conseguenza delle terapie a cui era sottoposto per un tumore al colon per il quale era già stato operato nel 2001 e che poi aveva intaccato anche il fegato. Il boss si sottoponeva a cicli di chemio ogni sei mesi e anche ieri era in clinica per la terapia. Aveva già fatto il tampone ed aspettava di essere ricoverato in day hospital. In clinica lo conoscevano tutti come Andrea Bonafede, classe 1963, geometra, l'identità sul documento che usava per la latitanza. E che aveva utilizzato anche per ricevere tre dosi di vaccino anti Covid. Alcuni sanitari lo descrivono come «un uomo generoso», ogni volta che andava a curarsi portava olio o altre specialità contadine. È stato portato via senza manette e trasferito prima in caserma per le operazioni di identificazione, poi in elicottero in una località protetta. «L'arresto dell'ultimo stragista onora i martiri di Cosa nostra», ha commentato il procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia. Le sue condizioni sono state ritenute compatibili con il carcere. L'aggiunto Paolo Guido ha detto che è stato già proposto il 41 bis, anche se al momento non è possibile sapere a quale struttura sarà destinato. Continuerà ad essere curato e farà la terapia in un centro adeguato. «Certo non abbiamo trovato un uomo distrutto, era in apparente buona salute, curato» ha detto Guido.

Nessuna soffiata all'origine del blitz, ma un'indagine «pura», fatta con intercettazioni e pedinamenti. Non c'erano stati contatti preliminari con la clinica, dove al momento non sono state rilevate complicità, ma solo ricerche sul database dei malati oncologici per individuare possibili soggetti con una patologia compatibile con quella del latitante. La conferma che fosse lui è arrivata solo ieri. Il boss, ha spiegato De Lucia, è riuscito a sfuggire alla giustizia per 30 anni anche grazie all'aiuto di una «fetta di borghesia mafiosa»: «Ha goduto di protezioni importanti e le indagini ora sono concentrate su questo». Ora gli investigatori sono sulle tracce del covo. «La cattura è stata possibile grazie alla determinazione dei carabinieri e al metodo Dalla Chiesa, attraverso la raccolta e l'analisi di un'enorme mole di dati» ha twittato il comandante generale dei carabinieri, Teo Luzi, sul profilo dell'Arma. Anche Angelo Jannone, che è stato capitano della compagnia di Corleone negli ultimi due anni di Falcone, ha parlato di un'indagine tradizionale, fatta seguendo il passaggio dei «pizzini» di mano in mano, di staffetta in staffetta, con la protezione di cui godono i mafiosi in territori come il trapanese, dove ci sono logge massoniche cosiddette «spurie» legate a personaggi deviati della politica, che insieme agli imprenditori costituiscono una rete di copertura e di appoggio.

I personaggi chiave della cattura di Messina Denaro: l’autista, l’avvocata, il medico di base e l’oncologo. Alfio Sciacca, Fabrizio Caccia e Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

L’«insospettabile» amico di lunga data, la legale parente del boss, chi gli prescriveva la chemio e chi lo curava nella clinica di Palermo. Ecco tutti gli uomini del capomafia

L’autista del padrino: il «signor nessuno» cresciuto nei campi

Schivo, a tratti burbero. Abituato alla fatica da una vita di lavoro nei campi. «Un signor nessuno», ha detto il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia in conferenza stampa parlando di Giovanni Luppino, agricoltore sconosciuto alle forze dell’ordine fino a due giorni fa, quando i carabinieri l’hanno arrestato insieme a Matteo Messina Denaro. Oggi dovrebbe comparire davanti al gip per difendersi, nel corso dell’udienza di convalida, dalle accuse di favoreggiamento e procurata inosservanza della pena. Il giorno del blitz c’era lui alla guida dell’auto con cui il boss è arrivato alla clinica La Maddalena. Il contadino di Campobello di Mazara ha tentato una breve fuga. Pochi istanti, poi è stato immobilizzato dai carabinieri. Recentemente aveva messo su una piccola attività che gestiva insieme ai figli. Un insospettabile, fatto che avrebbe spinto il padrino trapanese ad assegnargli un ruolo fondamentale: scortarlo durante i suoi spostamenti. Ai carabinieri non ha detto una parola.

L’avvocata parente del capo: «Non mi aspettavo che mi nominasse»

Ha scelto un avvocato di famiglia il boss. È Lorenza Guttadauro, stesso cognome della madre di Matteo Messina Denaro e stesso nome della nonna, essendo figlia di Filippo Guttadauro, a sua volta marito di una sorella di Matteo Messina Denaro. Un intreccio di parentele che forse già fa capire come sarà difficile convincere l’ultimo dei padrini a tentare la via della collaborazione o del pentimento. Giura che la notizia l’ha colta di sorpresa Lorenza Guttadauro, Enza per amici e colleghi, 40enne, madre di tre figli: «Mio zio ha sempre avuto legali d’ufficio, non mi aspettavo di essere nominata». Prima tappa l’interrogatorio di garanzia. Poi la prima udienza in cui teoricamente il boss potrebbe apparire alla sbarra, giovedì a Caltanissetta, per il quinto processo su Capaci e via D’Amelio. La parente-avvocata ha peraltro un altro imputato da assistere in famiglia, il marito Girolamo Bellomo, condannato a 10 anni in appello. Altri parenti sono stati arrestati per favoreggiamento. Il fratello di suo padre è quel Giuseppe Guttadauro, chirurgo a Palermo, che inguaiò l’ex governatore Totò Cuffaro con frasi captate da una microspia piazzata nel salotto di casa.

Il medico di base pensionato che firmava le ricette per la chemio

Per anni ha avuto in cura il vero Andrea Bonafede, geometra di 59 anni, e quello che in realtà era Messina Denaro. Alfonso Tumbarello, 70 anni, medico di famiglia in pensione, è ora indagato per procurata inosservanza di pena aggravata dal metodo mafioso. Interrogato ha provato a difendersi sostenendo di conoscere solo il vero Bonafede. Ma come faceva a non capire che dietro quel nome si celavano due diverse persone? Sono firmate da lui le richieste di cure specialistiche per le quali il boss faceva la spola con la Maddalena. Nel passato di Tumbarello anche la politica. Nonostante un nutrito pacchetto di voti, aveva mancato le elezioni a consigliere provinciale, poi all’Assemblea regionale e a sindaco della città. «Uno stimato professionista», lo difende il sindaco Giuseppe Castiglione, «voglio pensare che sia solo vittima di un complotto a sua insaputa. Forse ha visto esami presentati dal vero Bonafede ma che non appartenevano a lui. Altrimenti sarebbe una grande delusione».

L’oncologo: «Di recente la sua malattia è molto peggiorata»

Quando l’oncologo che lo aveva in cura gli ha comunicato che la sua situazione si era aggravata lui ha accolto la notizia «con grande dignità». Così ricorda Vittorio Gebbia, responsabile dell’oncologia clinica della Maddalena. Discepolo di Umberto Veronesi, docente universitario, Gebbia è una delle massime autorità nel settore, ma non aveva «mai sospettato nulla». «Da medici non circoliamo certo con gli identikit dei latitanti, se qualcuno mi avesse detto che si trattava di Messina Denaro non ci avrei creduto». Chiaramente l’oncologo non entra nei dettagli delle condizioni cliniche del boss. Ma alla sua riservatezza fanno da contraltare le parole di altri sanitari del day hospital che si trova al terzo piano della clinica La Maddalena. Un infermiere che vuole restare anonimo lo dice senza tanti giri di parole che «le aspettative di vita di quel paziente hanno un orizzonte molto limitato». Il professor Gebbia conferma solo che «le sue condizioni di salute si sono aggravate negli ultimi mesi». Anche lui parla di una persona «garbata che, dal modo di vestire, sembrava anche benestante», mentre i tanti pazienti che lunedì mattina erano in attesa del loro ciclo di chemio raccontano di «un signore che indossava abiti costosi e griffati e spesso portava regali per i medici, ma mai avremmo pensato si trattasse di un boss». Piuttosto Gebbia sembra turbato da quella che definisce una «coincidenza inquietante». Il riferimento è all’intervista rilasciata a Massimo Giletti da Salvatore Boiardo che parlò di Messina Denaro gravemente malato. Questo pochi giorni dopo che Gebbia gli aveva riferito che si era aggravato. «Strano, visto che erano informazioni riservate e noi non sapevamo la vera identità di Bonafede».

Estratto dell’articolo di Carlo Bonini per “la Repubblica” il 17 gennaio 2022.

[…] Come ieri ha ricordato il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e, con lui, il suo predecessore e oggi procuratore di Roma, Francesco Lo Voi, il luogo in cui Messina Denaro è stato alla fine catturato, la macchina immatricolata a Trapani con cui faceva la spola tra il suo mandamento e l'astanteria del reparto dove lottava contro le metastasi di un tumore al colon, le testimonianze che, oggi e solo oggi, lo raccontano in questi anni spesso avvistato nei comuni della valle del Belice, ci raccontano quanto Cosa Nostra e i suoi boss debbano a quello che Leonardo Sciascia raccontava mezzo secolo fa nel suo Contesto.

A quella borghesia mafiosa delle professioni e della rendita fondiaria, a quell'area grigia di connivenze consapevoli o peggio ancora distratte, di interessi economici, finanziari, politici che, da quando Cosa Nostra esiste, dell'organizzazione sono state insieme l'humus e lo scrigno.

 Basterebbe del resto anche solo ricordare che Matteo Messina Denaro è cresciuto sui terreni della famiglia trapanese degli Staiti D'Alì e che nella loro banca siciliana (coinvolta in indagini di mafia per riciclaggio) avrebbe lavorato suo fratello Salvatore. Che Antonio D'Alì, senatore di Forza Italia fu voluto da Berlusconi sottosegretario all'Interno.

Che il boss è stato ed è capo mandamento di una città - Trapani - in cui Cosa Nostra ha costruito la sua crescita finanziaria e dove, nel tempo, si sono contate 16 logge massoniche. O che per trent' anni […] ha potuto godere di una rete di complicità, cointeressenze, convenienze che, prima ancora della paura, sono le colonne d'Ercole delle organizzazioni mafiose.

 Una rete capace di reggere, negli anni, il peso di almeno 100 arresti. Anche perché sorretta da indicibili complicità. Le stesse che, come ebbe modo di raccontare a questo giornale la pm Teresa Principato, magistrato che ha dedicato parte della sua vita professionale alla caccia di Messina Denaro, ne avevano reso la cattura una chimera. «Ogni volta che eravamo vicini al latitante accadeva sempre qualcosa. C'erano spifferi, notizie, che in un modo o nell'altro trapelavano. Accadevano troppe cose strane intorno alla nostra indagine. La verità è che siamo di fronte a un grande latitante di mafia che ha un rapporto forte con la massoneria e la politica».  […]

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2022.

 […] Invece era ancora in Italia, e aveva messo in piedi un sistema di comunicazione attraverso pizzini recapitati e ritirati in aperta campagna, con i postini che andavano e venivano parlandosi con linguaggio cifrato («il macellaio sono, mi aveva ordinato la fiorentina si ricorda? Domani alle 9.30 se la può venire a prendere») finché le indagini della Procura di Palermo nel 2015 smantellarono anche quel «fermo posta».

Costringendo il latitante a inventarne uno nuovo per restare fuggitivo. Contando su appoggi che non prevedessero più i legami con la famiglia d'origine (finita in galera quasi per intero), ma conservando - anche a distanza - quelli con chi ha continuato a garantirgli protezione: compresi forse pezzi di potere istituzionale o massonico, come ipotizzato più volte dagli inquirenti che gli davano la caccia.

Di sicuro ha avuto dalla sua parte qualcuno che gli ha procurato i documenti semi-autentici (con la sua foto e il nome di un altro, ma il timbro regolare del Comune di Campobello) che aveva in tasca al momento dell'arresto. […]

Di chi è la clinica dove si trovava Matteo Messina Denaro al momento dell’arresto. di Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

Il noto boss mafioso Matteo Messina Denaro, latitante da 30 anni, è stato arrestato nella clinica privata «La Maddalena», in via San Lorenzo 312 a Palermo, mentre effettuava alcune terapie in «day hospital». La struttura ospedaliera fa capo a una società omonima, La Maddalena S.p.A, intestata alla famiglia siciliana Filosto. Ai vertici dell’azienda, infatti, ci sono Guido Filosto (che ha festeggiato 94 anni ieri, domenica 15 gennaio), nel ruolo di presidente, il figlio Leone Filosto, come amministratore delegato, e Mauro Bellassai, il direttore.

La struttura oncologica

La clinica «La Maddalena», in Sicilia, ha la fama di essere una delle migliori strutture oncologiche della regione, essendo un dipartimento di terzo livello, il più elevato nella classificazione degli ospedali oncologici siciliani pubblici e privati. Sono gli stessi dati recenti a dimostrarlo: nel 2021 il personale medico della struttura ha realizzato 5.122 interventi chirurgici con 4.158 ricoveri ordinari e 6.675 in day hospital. Notevole anche il giro d’affari, con ricavi che sfiorano i 50 milioni di euro e un utile di quasi 900 mila euro. La famiglia controlla il 51% della società a cui fa capo il centro medico, mentre il resto del capitale fa capo a un altro gruppo familiare palermitano, i Ponte-De Gennaro, rappresentati anche nel consiglio di amministrazione.

Il blitz

Pare che Messina Denaro fosse in cura alla clinica «La Maddalena» da almeno un anno e che usasse il falso nominativo di “Bonafede”. «I carabinieri sono stati bravissimi — ha raccontato al Corriere la direttrice Stefania Filosto, figlia del proprietario — senza creare alcun panico fra i pazienti e i famigliari che attendevano all’interno e all’esterno della struttura». Durante il blitz che ha portato alla cattura del boss mafioso, il centro medico è stato circondato da decine di carabinieri del Ros a volto coperto. Per tutta la mattina i pazienti non hanno potuto accedere alla struttura. «Era in coda per fare un tampone, come tanti pazienti della clinica, nessuno avrebbe mai pensato che si trattasse di Matteo Messina Denaro. Confuso fra i pazienti, e coperto da un falso nome, ormai vecchio e malato, ha tentato di fuggire superando i cancelli ma i carabinieri lo hanno acciuffato».

Le dichiarazioni del Ros e le testimonianze di un medico della struttura sanitaria. Com’è stato arrestato Matteo Messina Denaro: la “tentata fuga” dalla clinica e gli applausi dei palermitani alla cattura del superlatitante. Redazione su Il Riformista il 16 Gennaio 2023

È stato accolto dagli applausi l’arresto di Matteo Messina Denaro. Gli applausi dei presenti, dei palermitani nei pressi della clinica La Maddalena nel quartiere San Lorenzo e dai “bravi, bravi!”, le urla di incoraggiamento di decine di pazienti e familiari riportate dall’Ansa. Era considerato l’ultimo dei corleonesi, anche se capomafia figlio del capomafia Ciccio di Castelvetrano, in provincia di Trapani, latitante considerato tra i più pericolosi al mondo da trent’anni, in cima alla lista dei ricercati italiani, sparito da una vacanza a Forte dei Marmi nell’estate del 1993 dopo la quale fece perdere ogni traccia. Non era mai stato in carcere: neanche in gioventù.

La notizia era esplosa in mattinata: “Oggi 16 gennaio 2023 i Carabinieri del Ros, del Gis e dei comandi territoriali della Regione Sicilia nell’ambito delle indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Palermo hanno tratto in arresto il latitante Matteo Messina Denaro all’interno di una struttura sanitaria a Palermo dove si era recato per sottoporsi a terapie cliniche“, le parole all’Agi del generale di divisione Pasquale Angelosanto, comandante dei Ros. Anche versioni discordanti sull’operazione. L’operazione di arresto è stata messa in atto dagli uomini del raggruppamento speciale del Ros assieme a quelli del Gis e dei comandi territoriali della Legione Sicilia. Il blitz è scattato intorno alle 9 con tutti i militari a volto coperto. L’area è stata sigillata con carabinieri ad ogni uscita della struttura. Secondo le prime versioni non avrebbe opposto resistenza ai militari ma “il dispositivo era in grado di poter fronteggiare qualsiasi emergenza anche per le persone presenti nella clinica”. È stato fatto salire su un furgone nero, trasferito dalla caserma San Lorenzo ed è diretto all’aeroporto di Boccadifalco per essere portato in una struttura carceraria di massima sicurezza.

Secondo SkyTg24 è stato arrestato mentre faceva colazione, in un bar nel quartiere San Lorenzo, nei pressi della nota clinica. L’Agi ha invece appreso da ambienti della clinica che Messina Denaro soffriva di tumore al colon e aveva metastasi epatiche per cui si sottoponeva a cicli periodici di trattamenti chemioterapici: il cognome che avrebbe utilizzato era quello di Bonafede. Presso la stessa clinica sarebbe stato operato. La stessa clinica ha aggiunto che il latitante avrebbe tentato la fuga e che era riuscito ad allontanarsi ancora una volta ma arrivato in un bar è stato infine catturato.

Secondo la testimonianza di un medico – che preferisce restare anonimo – raccolta sempre dall’agenzia Agi Messina Denaro era in cura da un paio di anni o almeno uno. Si sarebbe recato nella clinica per fare un tampone anti-covid dovendo essere ricoverato in day hospital. “Frequentava la clinica – dice il medico – ed era stato operato in Chirurgia, ora veniva seguito in Oncologia. Stamattina alle 6 non c’era nulla, poi i miei collaboratori mi hanno chiamato: ci sono i Ros, mi hanno detto, e si è presentato un militare in assetto di guerra, stiamo cercando una persona, mi ha detto, stia tranquillo. In ogni piano c’era uno di loro, dei carabinieri in assetto di guerra, lui è scappato, è andato fuori al bar e lo hanno preso. Ha tentato la fuga al bar e c’è stato molto trambusto. Era seguito in chirurgia dove è stato operato e oncologia, era venuto qua per un tampone stamattina e poi per seguire i trattamenti con un altro nome, era un paziente noto alla clinica, ha fatto anche dei trattamenti. Un anno sicuramente per il day hospital. Ma non avevamo alcuna idea di chi fosse, figuriamoci se potevamo saperlo o riconoscerlo“.

60 anni, detto “u’siccu”, definito la “Primula Rossa” della Mafia siciliana, era il primo nella lista dei ricercati in Italia. Il padre Ciccio era stato storico alleato dei corleonesi di Totò Riina. Era sparito nel nulla nel 1993, quando esplosero le bombe della Mafia a Milano, Firenze e Roma. Le sue tracce si persero dopo una vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano. Era ricercato anche all’estero per associazione mafiosa, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto. Condannato per decine di omicidi tra cui quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia. E per gli attentati del 1992 che uccisero i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Messina Denaro era stato avvistato centinaia di volte, nei luoghi e nei Paesi più disparati. Gli investigatori avrebbero in mano una sola immagine recente del boss, sfocata, risalente al 2009 e registrata da una telecamera nell’agrigentino. Per la Direzione Investigativa Antimafia restava una “figura criminale carismatica della mafia trapanese”. Diverse testimonianze e versioni avevano ipotizzato la sua permanenza in Sicilia, da latitante. L’arresto dell’ultimo super boss di Cosa Nostra arriva a trent’anni e un giorno esatti dall’arresto di Totò Riina.

Il medico della clinica: «Matteo Messina Denaro stava scappando, lo hanno preso al bar». Un dottore della “Maddalena” di Palermo: «Stamattina alle 6 non c'era nulla, poi i miei collaboratori mi hanno chiamato: ci sono i Ros, mi hanno detto, e si e' presentato un militare in assetto di guerra, stiamo cercando una persona, mi ha detto, stia tranquillo» Il Dubbio il 16 gennaio 2023

Matteo Messina Denaro ha tentato la fuga ed era riuscito ad allontanarsi ancora una volta ma arrivato in un bar è stato catturato. E' quanto si è appreso in ambienti della clinica La Maddalena di Palermo, dove il superlatitante di Cosa nostra in passato era stato operato, sotto falso nome.

Messina Denaro era in cura alla Maddalena da un paio d'anni «o almeno uno», dice un medico ad AGI che preferisce restare anonimo, per un tumore in zona addominale. Nella struttura sanitaria era andato per fare un tampone antiCovid, dovendo essere ricoverato in day hospital.

Aveva dato un nome fittizio, Bonafede «Frequentava la clinica - dice il medico - ed era stato operato in Chirurgia, ora veniva seguito in Oncologia. Stamattina alle 6 non c'era nulla, poi i miei collaboratori mi hanno chiamato: ci sono i Ros, mi hanno detto, e si e' presentato un militare in assetto di guerra, stiamo cercando una persona, mi ha detto, stia tranquillo».

«In ogni piano c'era uno di loro, dei carabinieri in assetto di guerra, lui è scappato, è andato fuori al bar e lo hanno preso. Ha tentato la fuga al bar e c'è stato molto trambusto. Era seguito in chirurgia dove è stato operato e oncologia, era venuto qua per un tampone stamattina e poi per seguire i trattamenti con un altro nome, era un paziente noto alla clinica, ha fatto anche dei trattamenti. Un anno sicuramente per il day hospital. Ma non avevamo alcuna idea di chi fosse, figuriamoci se potevamo saperlo o riconoscerlo».

Dal “Corriere della Sera” il 16 Gennaio 2023.

«Faceva la chemio con me ogni lunedì. Stavamo anche nella stessa stanza, era una persona gentile, molto gentile». Lo racconta una donna, in un video di Tv2000 anticipato ieri sera dal Tg2000 , che spiega di aver condiviso le sedute di chemioterapia con Matteo Messina Denaro all'interno della clinica privata «La Maddalena» di Palermo in cui ieri mattina il boss mafioso è stato catturato dai carabinieri del Ros. «Ci sono anche mie amiche che hanno il suo numero di telefono.

Lui mandava messaggi a tutti - sono le parole pronunciate dalla paziente -. Ha scambiato messaggi con una mia amica fino a questa mattina. Lei è ora sotto choc a casa». «Lui veniva chiamato Andrea», prosegue la donna mostrando un tono di voce che si fa via via più stupito, nel video di Tv2000 che sarà trasmesso integralmente dal programma «Siamo noi» oggi alle ore 15.15.

 Quel che emerge dalla testimonianza della signora è uno scenario di normali confidenze e preoccupazioni scambiate giorno dopo giorno tra quei malati di tumore in cura a «La Maddalena». «Ho fatto terapia da maggio a novembre. Abbiamo fatto la terapia insieme per tutta l'estate e lui veniva anche con la camicia a maniche lunghe».

Estratto dell'articolo di Giusi Spica per repubblica.it il 16 gennaio 2023.

Operato due volte, la prima nel novembre del 2020, e ricoverato in day hospital almeno sei volte in due anni. Andrea Bonafede, alias Matteo Messina Denaro, era ormai di casa alla clinica La Maddalena di Palermo. Tanto che ogni volta che tornava per le chemioterapie, portava regali per tutti: "Era molto generoso, come i pazienti più facoltosi. Spesso regalava bottiglie di olio di Castelvetrano a medici e infermieri", racconta sotto shock un camice bianco che chiede di restare anonimo.

[…]

La prima volta che il capomafia ha messo piede a La Maddalena era il 13 novembre del 2020, per una visita pre-operatoria. Andrea Bonafede, classe 1963: questi i dati scritti sulla cartella clinica. Qualche giorno dopo, fu operato per l'asportazione di un tumore al colon e rimase ricoverato per sei giorni. Da allora seguiranno almeno altri sei accessi in day hospital e un secondo intervento nel maggio del 2021 per l'insorgenza di metastasi epatiche.

In ospedale in molti ricordano il suo volto: era stato visitato da oncologi, chirurghi, anestesisti. A novembre scorso era tornato per eseguire una Tac, a dicembre si era ripresentato per una Risonanza magnetica. Le sue condizioni stavano peggiorando e i medici gli avevano dato appuntamento per oggi per eseguire un tampone, in vista di un nuovo ricovero in day hospital.

[…]

(AGI su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2023) - Matteo Messina Denaro ha tentato la fuga ed era riuscito ad allontanarsi ancora una volta ma arrivato in un bar è stato catturato. È quanto si è appreso in ambienti della clinica La Maddalena di Palermo, dove il superlatitante di Cosa nostra in passato era stato operato, sotto falso nome.

 Messina Denaro era in cura alla Maddalena da un paio d'anni "o almeno uno", dice un medico ad AGI che preferisce restare anonimo, per un tumore in zona addominale. Nella struttura sanitaria era andato per fare un tampone anti-Covid, dovendo essere ricoverato in day hospital. Aveva dato un nome fittizio, Bonafede "Frequentava la clinica - dice il medico - ed era stato operato in Chirurgia, ora veniva seguito in Oncologia. Stamattina alle 6 non c'era nulla, poi i miei collaboratori mi hanno chiamato: ci sono i Ros, mi hanno detto, e si è presentato un militare in assetto di guerra, stiamo cercando una persona, mi ha detto, stia tranquillo.

In ogni piano c'era uno di loro, dei carabinieri in assetto di guerra, lui è scappato, è andato fuori al bar e lo hanno preso. Ha tentato la fuga al bar e c’è stato molto trambusto. Era seguito in chirurgia dove è stato operato e oncologia, era venuto qua per un tampone stamattina e poi per seguire i trattamenti con un altro nome, era un paziente noto alla clinica, ha fatto anche dei trattamenti. Un anno sicuramente per il day hospital. Ma non avevamo alcuna idea di chi fosse, figuriamoci se potevamo saperlo o riconoscerlo".

Da lastampa.it il 16 gennaio 2023.

Totò Schillaci, ex bomber della nazionale di calcio e della Juventus, era tra gli utenti che stamattina erano presenti alla clinica La Maddalena quando è scattato il blitz dei carabinieri con l'arresto di Matteo Messina Denaro. Ecco la sua testimonianza Arrestato il boss superlatitante Matteo Messina Denaro, considerato il capo di Cosa Nostra

Estratto da unionesarda.it il 17 gennaio 2022.

Totò Schillaci, l’ex capocannoniere dei Mondiali 1990, è stato uno dei testimoni diretti dell’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro, avvenuto ieri mattina nella clinica La Maddalena di Palermo.

 «Ero in ospedale, stavo aspettando per entrare...saranno state più o meno le 8.15, poi ho visto arrivare tutti i carabinieri mascherati, incappucciati e ci hanno bloccati tutti», racconta l’ex bomber alla stampa. 

Quando è iniziato il blitz dei Carabinieri del Ros Schillaci si trovava nella struttura per sottoporsi a delle visite, poi l’arrivo dei militari: «Ero nella zona del bar e non sono nemmeno arrivato a entrare perché mi stavo fumando una sigaretta quando li ho visti arrivare e ci hanno fermato. Ci hanno detto di rimanere fermi dove eravamo. Sembrava un manicomio, sembrava una scena da Far west».

Totò Schillaci nella clinica Maddalena durante l’arresto di Messina Denaro. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 16 Gennaio 2023.

L’ex attaccante della Nazionale era alla clinica «La Maddalena» stamattina durante la cattura del boss Messina Denaro. «Sembrava un far west»

«Sembrava un far west». Totò Schillaci è uno dei testimoni diretti della cattura di Matteo Messina Denaro , il boss 60enne arrestato questa mattina alla clinica «La Maddalena» di Palermo. Lo stesso ospedale dove, in quei minuti, si trovava l’ex attaccante della Nazionale. Quando è iniziato il blitz dei carabinieri del Ros, Totò era appena arrivato nella struttura: «Ero lì — dice indicando l’ingresso della clinica, cappellino in teta e maglione a collo alto, in un’intervista video a La Stampa —. Stavo aspettando di entrare, erano le 8.15, 8.20. Poi ho visto tutti gli agenti incappucciati. “Fermi tutti”, ci hanno urlato. Ci siamo bloccati. Era un manicomio», racconta l’uomo delle Notti Magiche di Italia 90.

Schillaci — alla clinica «La Maddalena» per sottoporsi ad alcune terapie — non ha visto Messina Denaro. «Stavo per entrare al bar, mi stavo fumando una sigaretta fuori, ero lì e ci hanno bloccato tutti, sembrava un far west». I militari hanno infatti chiuso ogni accesso all’ospedale, fermato gli ascensori e i movimenti del personale medico all’interno dei reparti. Nessuno, neanche infermieri e dottori, sapeva quello che stava succedendo. «Tra i sanitari prevale la delusione per aver curato un latitante senza sapere chi fosse», dice un ragazzo che ha frequentato la clinica in questi giorni. Lui come Schillaci, testimoni della cattura di Matteo Messina Denaro.

L’Avvocato.

Messina Denaro, la nipote rinuncia alla difesa. L’avvocata Lorenza Guttadauro avrebbe dovuto tenere oggi la sua arringa al processo sulle stragi di via d'Amelio e Capaci. Il Dubbio l’8 marzo 2023

Lorenza Guttadauro, legale di Matteo Messina Denaro, ha rinunciato a difendere lo zio nell'ambito del processo sulle stragi di via d'Amelio e Capaci che si celebra in corte d'Assise d'Appello a Caltanissetta. In primo grado, l'ex latitante, è stato condannato all'ergastolo.

Proprio nell'udienza fissata per oggi nell'aula bunker del carcere di Caltanissetta, l'avvocata Guttadauro avrebbe dovuto tenere la sua arringa. Ma non si presenterà in aula, ufficialmente perché non ha fatto in tempo a preparare l'arringa per i molti impegni con lo zio detenuto a L'Aquila. Nei giorni scorsi i carabinieri del Ros hanno arrestato anche sua madre Rosalia Messina Denaro per associazione mafiosa. 

Nella scorsa udienza, celebrata il 19 gennaio, il boss aveva formalizzato la nomina della nipote. In quell'udienza, nella quale la legale è stata sostituita dall'avvocato d'ufficio Salvatore Baglio che ha seguito il primo grado, era stato chiesto un termine a difesa rappresentando che la notifica dell'ordinanza cautelare all'imputato e la contestuale nomina dell'avvocato di fiducia era avvenuta quel giorno.

Secondo le procedure, la Corte d'Appello di Caltanissetta adesso nominerà un avvocato d'ufficio e nell'udienza di domani, Messina Denaro, che potrebbe collegarsi in videoconferenza dal carcere di L'Aquila, potrebbe nominare un suo legale di fiducia o la nomina potrebbe avvenire tramite l'ufficio matricola.

Estratto dell'articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it l’8 marzo 2023.

C'era tanta attesa per l'arringa che l'avvocata Lorenza Guttadauro avrebbe dovuto tenere domani mattina, in difesa dello zio Matteo Messina Denaro, nell'aula della corte d'assise d'appello di Caltanissetta. Il processo è quello che vede imputato il capomafia trapanese di essere fra i mandanti delle stragi Falcone e Borsellino: in primo grado è già arrivata una condanna all'ergastolo. Ma domani mattina l'avvocata Guttadauro non sarà in aula, ha rinunciato al mandato. E il caso diventa adesso un giallo.

 Nei giorni scorsi, i carabinieri del Ros hanno arrestato la madre di Lorenza Guttadaura, Rosalia, la sorella del padrino […]

L'avvocata Guttadauro ha fatto una sola uscita pubblica dopo l'arresto del boss: parlando con Rai News 24 ha detto che le "condizioni di salute dello zio sono gravi" […] La difesa di Messina Denaro punta a dichiarare l'incompatibilità fra le condizioni di salute del detenuto e il carcere, un modo per provare a lasciare la cella al 41 bis, magari per un posto in un ospedale.

Adesso, la rinuncia alla difesa nel processo di Caltanissetta. Lorenza Guttadauro continua invece ad assistere lo zio a Palermo. Almeno per il momento.

La nipote di Messina Denaro è un avvocato, non un complice”. I penalisti di Cosenza replicano a un articolo del Corsera: “Riteniamo che su questo facile accostamento avvocato-assistito, mediaticamente agevolato dal legame familiare, possa intraprendersi quel percorso che conduce alla demolizione dello Stato di diritto”. Redazione su Il Dubbio il 21 gennaio 2023

Pubblichiamo di seguito la nota stampa della Camera penale di Cosenza in risposta a un articolo pubblicato sul Corriere della Sera dal titolo “Chi è Lorenza Guttadauro, l’avvocata e nipote di Matteo Messina Denaro che difende tutti i parenti”.

«Il titolo – diciamo la verità - non ci aveva illuso di poter leggere la biografia professionale di un Avvocato; tanto meno di poter ragionare sui temi di uno Stato di diritto e democratico, quali la funzione costituzionale della difesa e la necessaria visione dell’avvocato quale tutore, in ogni sede, del diritto alla libertà, dell’inviolabilità e dell’effettività della difesa, nonché sentinella, nel processo, della regolarità del giudizio e del contraddittorio. Seppur preparati, dunque, “al peggio”, abbiamo dovuto constatare che “al peggio non c’è fine”.

Scacciato qualsiasi riferimento alla funzione della Toga, dunque accantonatone il rilievo costituzionale e sociale, il tema di cronaca si è rivelato l’esatto contrario: “il regime del 41 bis impedisce contatti diretti fra detenuti e familiari ma non all’avvocato, anche se nipote diretta … una mossa che spiazza lo Stato, che rivela un vuoto normativo… Matteo Messina Denaro ha trovato il vuoto della norma. E lo colma. Spiazzando l’avversario, lo Stato, a rischio scacco matto…” e continua – citando testualmente un Magistrato - “dovremmo pure porci la questione di un parente-avvocato”.

Non siamo rimasti attoniti in quanto oramai, purtroppo, assuefatti alla continua erosione di spazi di democrazia. Ma neppure insensibili, poiché riteniamo che su questo facile accostamento avvocato-assistito, mediaticamente agevolato dal legame familiare, possa intraprendersi quel percorso che conduce alla demolizione dello Stato di diritto. Che inizia, sempre, con la distruzione dei vessilli delle libertà, gli Avvocati, come dimostra la tragica testimonianza del regime turco.

Pensare all’esistenza di un vuoto normativo dinanzi al diritto di difesa e di assistenza che l’avvocato esercita quale alta e nobile funzione verso il proprio assistito non significa dover riscrivere norme e codici. Vuol dire stracciare la Costituzione. Significa non riconoscere la inviolabilità della difesa. Significa dimenticare il motivo per cui la Toga è uguale per tutte le parti del processo: “riduce chi la indossa ad essere a difesa del diritto senza distinzione di posizione”.

In definitiva, la Toga indossata dall’Avvocato, al pari della Toga del Magistrato, è garanzia di democrazia, di cui la carta stampata è  dovrebbe essere - “il cane da guardia”.

L’avvocata nipote di Messina Denaro che difende tutti i parenti. Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.

Lorenza Guttadauro, 44 anni, tre figli e il marito da poco in libertà. La penalista difende i parenti sotto processo dribblando i paletti del 41 bis, il carcere duro: è il solo parente del padrino a poterlo vedere

La penalista Lorenza Guttadauro, figlia di una sorella di Matteo Messina Denaro, moglie di un fiancheggiatore condannato a 10 anni in appello e sorella di un altro sospettato già arrestato, è l’avvocata che ora dovrà difendere il boss dei boss.

I due legali «opposti»

Ieri non si è presentata in aula, come lo zio stragista che ha disertato il collegamento audio-video dal carcere, ma prima o poi dovrà presentarsi e allora, oltre che i pm, si troverà di fronte un suo collega legato a ben altra famiglia. Da una parte, l’avvocata Guttadauro, alta, scura, capelli non lunghi, tre figli, un’esistenza dedicata ai parenti sotto processo. Una vita e una professione segnate. Dall’altra, l’avvocato Fabio Trizzino, genero di Paolo Borsellino. Storie e vissuti paralleli che potranno incrociarsi come non è mai avvenuto.

Lorenza è sempre rimasta nella sua città: 44 anni, casa e studio a Palermo, a due passi da Piazza Tosti, lo stesso edificio costruito da suo nonno dove soggiornava da latitante Leoluca Bagarella. Intrecci e misteri, forse casuali. Minimizzati da lei che continua ad occuparsi prevalentemente di guai familiari.

Il dubbio

Delle inchieste che hanno colpito la madre Rosalia, una delle sorelle del boss finite al carcere dei Pagliarelli, e del marito Girolamo Bellomo, arrestato nell’operazione Eden 2, condannato a 10 anni in appello, pena scontata, da poco in libertà. Una donna rimasta sola a lungo, rivedendo per anni il suo uomo in tribunale come avvocato e ai colloqui come moglie. Stessa storia per il fratello Francesco, assistito davanti ai giudici e visitato in parlatorio. E questo accadrà pure con lo zio più famoso di Sicilia. La vedremo in aula sul banco della difesa, ma potrà superare anche i portoni blindati del supercarcere abruzzese, attraversando come se non esistessero le maglie del 41 bis, il regime che impedisce contatti diretti fra detenuti e familiari. Ma non all’avvocato. Anche se nipote diretta. Ed è questo che pone qualche dubbio, che inquieta tanti investigatori e magistrati impegnati in passato a caccia del boss. La preoccupazione, analoga a quella dei colleghi che adesso setacciano i segreti del boss, è sintetizzata da un ex sostituto della Direzione antimafia di Palermo, Massimo Russo: «Temiamo la beffa e lo scacco matto del padrino appena arrestato».

Il segugio

Nato e cresciuto a Mazara del Vallo, per 13 anni segugio dell’imprendibile Messina Denaro, insieme a poliziotti del calibro di Giuseppe Linares, Russo individua nella nomina dell’avvocata-nipote «una mossa che spiazza lo Stato, che rivela un vuoto normativo». Il riferimento è proprio alle strette maglie del cosiddetto carcere duro, come spiega: «Maglie che si allargano, costringendo a doverci fidare della deontologia professionale dell’avvocata Guttadauro. Ma se il 41 bis nasce per escludere rapporti con il mondo esterno al carcere e, soprattutto, possibili intese sotterranee con i parenti anche durante i colloqui, dovremmo pure porci la questione di un parente-avvocato. Cosa che non ha mai fatto nessuno. Matteo Messina Denaro ha trovato il «vuoto» della norma. E lo colma. Spiazzando l’avversario, lo Stato, a rischio scacco matto».

La carriera

Questione aperta, anche se nessuno può insinuare dubbi sulla deontologia dell’avvocata che cominciò la carriera nello studio di Rosalba Di Gregorio, penalista con il merito di avere svelato i primi errori e il depistaggio sul caso Borsellino. Allora faceva gavetta Lorenza Guttadauro. Poi passata in proprio, mentre il padre, Filippo, scontava i suoi 14 anni di carcere proprio perché citato nei pizzini scambiati fra Matteo lo zio e Bernardo Provenzano. Citato in codice con un numero: «121».

Lorenza Guttadauro, chi è l’avvocata nipote di Messina Denaro a cui il boss ha affidato la difesa: «Non mi aspettavo la nomina». Storia di Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

Ha scelto un avvocato di famiglia il boss da lunedì in cella. Anzi, una avvocata nipote, Lorenza Guttadauro. Stesso nome della madre di Matteo Messina Denaro, cioè della nonna, essendo figlia di Filippo Guttadauro, a sua volta marito di una delle sorelle dell’imputato eccellente adesso rinchiuso in carcere a L’Aquila. Un intreccio di parentele che forse già fa capire come si presenti difficoltosa l’eventuale opera di chi proverà a convincere l’ultimo dei padrini di area corleonese a tentare la via del dialogo, di una pur parziale collaborazione o addirittura di un pentimento.

In attesa di notifica

Giura che la notizia l’ha colta di sorpresa Lorenza Guttadauro, Enza per amici e colleghi, quarantenne, madre di tre figli: «Non ho ancora ricevuto la nomina ufficiale, in attesa delle notifiche. Mio zio ha sempre avuto legali d’ufficio, non mi aspettavo di essere nominata». Prima tappa l’interrogatorio di garanzia. «Ma la data non è ancora stata fissata». Poi la prima udienza in cui teoricamente il boss potrebbe apparire alla sbarra, giovedì a Caltanissetta, per l’ennesima udienza del quinto processo su Capaci e via D’Amelio. Sorpresi anche due giovani avvocati recentemente nominati d’ufficio per la primula adesso in cella, Giovanni Pace e Salvatore Baglio. Sono i primi a volere capire se giovedì accanto a loro si presenterà la nuova collega.

Il marito condannato a 10 anni

La parente-avvocata nominata dal boss arrestato in clinica ha peraltro un altro imputato da assistere nel nucleo familiare, il marito Girolamo Bellomo, arrestato nell’operazione Eden 2 e condannato a 10 anni in appello. Ci sono anche altri parenti arresti per favoreggiamento. Mazzate assestate dalla procura quando si temeva che la latitanza del super boss fosse destinata a proseguire a lungo, forte di deviate coperture negli apparati e di complicità all’interno di «una certa borghesia mafiosa», stando alla definizione dei magistrati. Saranno loro a ricevere per le prime istanze l’avvocata Lorenza, una carriera cominciata, per la pratica legale, nello studio di una avvocata molto nota a Palermo, Rosalba Di Gregorio, difensore di alcuni presunti boss triturati nel depistaggio seguito alla strage di via D’Amelio, in parte condannati e poi assolti con la revisione del processo.

I guai di Guttadauro e Cuffaro

Una pagina amara in cui si specchiano anche le doppie verità e le zone grigie di una antimafia non sempre cristallina, di deviazioni antiche, di coperture sospette. Tema che ha finito per segnare non solo la vita professionale di Lorenza, da sempre immersa nei drammi di famiglia visto che il fratello di suo padre è proprio quel Giuseppe Guttadauro, chirurgo al Civico di Palermo, che finì per inguaiare pure l’ex presidente della Regione Totò Cuffaro con frasi captate da una microspia piazzata nel salotto di casa.

Lo stato di salute

Chi segue da vicino le vicende di mafia è portato ad escludere con questa opzione del padrino la possibilità di un atteggiamento di disponibilità al dialogo con gli inquirenti. Ma è anche vero che la scelta potrebbe essere legata soprattutto allo stato di salute del boss. Pronto a coltivare la speranza che la malattia e la necessità di essere sottoposto a continui cicli di chemioterapia possano essere ritenuti incompatibili con il regime del 41 bis già chiesto dal procuratore Maurizio De Lucia e dall’aggiunto Paolo Guido e firmato martedì mattina dal ministro di Giustizia.

Estratto dell’articolo di Riccardo Arena Giuseppe Legato per “la Stampa” il 20 Gennaio 2023.

[…] Lorenza Guttadauro, penalista, 44 anni, cassazionista da meno di 6 mesi, è un caso che ritorna. Perché se è vero che nessuno formalmente può (e vuole) contestare la nomina di difensore dello zio Matteo Messina Denaro, lo è altrettanto il fatto che l'avvocatessa è già finita in una relazione della commissione parlamentare antimafia per aver condotto - «unico caso e di rilievo» si legge negli atti - colloqui sia da parente sia da legale con più di un congiunto.

 Tra questi il padre Filippo Guttadauro (la madre è Rosalia Messina Denaro, sorella del boss) condannato per associazione mafiosa a 14 anni. Anche il fratello Francesco ha avuto problemi con la giustizia e il marito Girolamo Bellomo, detto Luca condannato in appello a 10 anni a cui sarebbe stato attribuito il ruolo di un «rappresentante» degli «affari» di Messina Denaro nel tessuto economico del Trapanese. Con il consorte c'è poi un'altra storia. È il 20 novembre 2014 e il marito di Lorenza Guttadauro, è davanti al Gip del Tribunale di Palermo, Nicola Aiello: appena arrestato con altri fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro, Girolamo Bellomo si presenta con il proprio avvocato. Che è sua moglie.

Il pm Maurizio Agnello contesta però al difensore la posizione di incompatibilità: «Subito dopo la consumazione della rapina del 5 novembre del 2013 - aveva detto il magistrato - l'avvocato ha cercato di fornire un alibi al marito nel corso di alcune conversazioni telefoniche», ma era stata smentita dalle videoriprese fatte in un distributore di benzina «e quindi Bellomo non poteva essere a casa quella sera. Sapeva benissimo di essere intercettata, sosteneva Agnello. Che non si era limitato a questo: «Negli ultimi viaggi che il Bellomo ha compiuto in particolare in Albania, per importare 13 chili di droga, la signora è stata reiteratamente intercettata con il marito e ha mandato soldi tramite la Western Union a Bellomo».

Signora, non avvocato, perché in quel caso lei era moglie e non difensore, aveva chiosato il pm […] Enza Guttadauro aveva risposto anche lei a muso duro: «Proprio perché non ho favorito nessuna condotta, non rinuncio al mandato».

 Nel caso specifico, il favoreggiamento personale alla moglie non si poté contestare e la Cassazione aveva ritenuto pure illegittima «la sostituzione del difensore in ragione delle incompatibilità con la funzione di testimone, in quanto detta incompatibilità non sussiste». E dunque Enza, moglie e avvocato, era rimasta al suo posto. […]

Nipote del padrino: chi è l'avvocato che difende i boss e "dribbla" il 41bis. La penalista Lorenza Guttadauro è la figlia della sorella di Matteo Messina Denaro. Sarà lei a seguire le vicende giudiziarie dello zio. Ignazio Riccio il 21 Gennaio 2023 su Il Giornale.

“Lo Stato rischia di subire uno scacco matto dalla mafia”. L’ex sostituto della Direzione antimafia di Palermo, Massimo Russo, ha lanciato l’allarme. Al Corriere della Sera ha espresso la sua preoccupazione per un vuoto normativo che potrebbe favorire il boss Matteo Messina Denaro, appena catturato dalle forze dell’ordine. Il timore è nato per la scelta del capomafia di farsi difendere in aula dalla nipote, la penalista Lorenza Guttadauro, figlia di sua sorella. Il regime del 41 bis, a cui è sottoposto Messina Denaro, esclude i rapporti con i familiari e con il mondo esterno del detenuto, il quale può colloquiare solo con il proprio legale, anche se quest’ultimo è un parente. È qui che, secondo Russo, c’è l’inghippo. Seppure Lorenza Guttadauro è la nipote dell’imputato assegnato al regime carcerario duro, in quanto suo avvocato potrà avere contatti con lui.

Il vuoto normativo

È quindi evidente che ci sia un gap nella norma e che, come sono certi gli inquirenti, il boss Messina Denaro ne stia approfittando. Lo Stato, a questo punto, deve esclusivamente fidarsi della deontologia del legale. “Si tratta di una mossa – ha spiegato l’ex sostituto della Direzione antimafia – che spiazza lo Stato, che rivela un vuoto normativo. Le maglie del 41 bis in questo modo si allargano e siamo costretti a fidarci della professionalità dell’avvocato Guttadauro. Il problema, però, è che se il carcere duro nasce per escludere rapporti con il mondo esterno e, soprattutto, possibili intese sotterranee con i parenti anche durante i colloqui dovremmo pure porci la questione di un familiare-avvocato. Cosa che non ha mai fatto nessuno”.

Chi è l’avvocato Lorenza Guttadauro?

Ma qual è la storia dell’avvocato Guttadauro? Il quotidiano di via Solferino ne tratteggia la figura, sia dal punto di vista professionale sia personale. Figlia di una sorella di Messina Denaro, è sposata con un uomo condannato a dieci anni di reclusione in appello come fiancheggiatore. Guttadauro ha anche un fratello nei guai con la giustizia e una madre che è stata più volte indagata. Da legale si è sempre occupata lei dei problemi giudiziari della famiglia e così farà anche nel caso del noto zio capomafia di Palermo. Nella giornata di ieri era attesa in tribunale, ma ha disertato, così come Messina Denaro, il quale non ha effettuato il collegamento video dal carcere. La notizia curiosa riguarda un possibile incrocio nelle aule del Palazzo di giustizia quando gli attori del processo saranno tutti presenti. Da un lato ci sarà la penalista nipote del boss e dall’altro l’avvocato Fabio Trizzino, genero di Paolo Borsellino.

Chi è Lorenza Guttadauro, avvocato e nipote di Messina Denaro: “Sorpresa dalla nomina”. Redazione su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Sarà la nipote a difendere Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano arrestato il 16 gennaio in una clinica ospedaliera di Palermo dopo esattamente 30 anni di latitanza. L’avvocato Lorenza Guttadauro sarà il legale di fiducia dell’ultimo boss stragista di Cosa Nostra. La penalista è la figlia della sorella del boss, Rosalia, e di Filippo Guttadauro, figlio a sua volta dello storico boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro. Ha già difeso la zia Anna Patrizia, sorella di “U siccu”, e il fratello Francesco, arrestati con l’accusa di essere il braccio operativo del capomafia.

La nomina non è stata ancora ufficializzata, ma preannunciata alla professionista che non ha nascosto lo stupore. “Sono rimasta sorpresa anche io dalla nomina ricevuta da Matteo Messina Denaro, le dico la verità, non me l’aspettavo. Sono sincera” spiega la penalista all’agenzia Adnkronos. Anche perché “ha sempre avuto legali d’ufficio aggiunge. “Ancora non mi è arrivata la notifica ufficiale – dice la legale – Ho ricevuto una telefonata informale in cui mi veniva comunicata la scelta del cliente, diciamo che sono ancora in attesa. Ora devo capire se questa nomina riguarda anche gli altri procedimenti in corso”.

In attesa che venga definito l’interrogatorio di garanzia per il capomafia, che si trova da poche ore nel carcere di massima sicurezza de L’Aquila, Lorenza Guttadauro potrebbe già difendere lo zio il prossimo 19 gennaio quando, nell’aula bunker di Caltanissetta, ci sarà l’udienza in cui è imputato per le stragi di mafia di Capaci e via D’Amelio, avvenute nel 1992 e dove persero la vita i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, oltre agli uomini della scorta e a Giovanna Morvillo (moglie di Falcone). Se la penalista dovesse ricevere l’incarico anche per quel procedimento l’udienza potrebbe essere rinviata in caso di un’eventuale richiesta di concessione di termini a difesa.

Lorenza Guttadauro è la moglie di Girolamo Bellomo, arrestato nel 2014 nell’operazione Eden 2, con l’accusa di essere l’ultimo ambasciatore del padrino di Castelvetrano, e condannato a 10 anni in Appello. Nel processo è emerso che da Palermo gestiva direttamente il traffico di droga, imponeva le ditte edili e pianificava le estorsioni per controllare il territorio. Filippo Guttaduro, papà dell’avvocato di Messina Denaro, venne arrestato una prima volta nel 1994 e condannato per associazione mafiosa. Poi nel 2006 il nuovo arresto e la condanna in Appello a 14 anni di reclusione.

Il carcere de L’Aquila ospita il maggior numero di detenuti al 41 bis. Carcere duro a cui verrà sottoposto anche Messina Denaro, in gravi condizioni di salute perché da oltre un anno ha un tumore al colon con metastasi al fegato. Nel corso del suo primo giorno nel carcere abruzzese, il boss siciliano è stato sottoposto alle cure dei medici della Asl che operano all’interno dell’istituto. A breve comincerà anche la chemioterapia in una stanza ad hoc allestita nel carcere. Ad assistere il boss sarà il primario Luciano Mutti che terrà sotto controllo eventuali reazioni negative o effetti collaterali della terapia. Messina Denaro “riceverà lo stesso trattamento di tutti gli altri detenuti con patologie sanitarie – spiega il Garante dei detenuti dell’Abruzzo, Gianmarco Cifaldi -. Garantiremo il suo diritto alla salute”.

Il Dottore.

Filippo Zerilli.

Alfonso Tumbarello.

Filippo Zerilli.

(ANSA il 18 gennaio 2023) - L'oncologo trapanese Filippo Zerilli è indagato nell'inchiesta sulla rete dei favoreggiatori del boss Matteo Messina Denaro. Avrebbe eseguito l'esame del dna necessario alle cure chemioterapiche a cui il padrino di Castlelvetrano doveva sottoporsi. Il paziente si era presentato al medico con i documenti di Andrea Bonafede, il geometra che gli avrebbe prestato l'identità e che, come Zerilli, è finito ora sotto inchiesta.

 Lo studio del medico sarebbe stato perquisito dai carabinieri che devono accertare se Zerilli fosse a conoscenza delle generalità del paziente. Nella lista dei possibili fiancheggiatori era finito anche un altro dottore: Alfonso Tumbarello, medico di base di Campobello di Mazara che aveva in cura sia il boss, alias Andrea Bonafede, sia il vero Bonafede.

Estratto dell'articolo di Salvo Palazzolo per repubblica.it il 18 gennaio 2023.

[...] Il gran maestro del Grande Oriente d'Italia Stefano Bisi ha firmato un provvedimento di sospensione - "A tempo indeterminato da ogni attività massonica" - per il medico indagato per aver firmato ricette e cure al superlatitante Matteo Messina Denaro". [...]

Alfonso Tumbarello, che ha 70 anni, è indagato per "procurata inosservanza della pena", con l'aggravante di aver favorito un mafioso. Sentito dai carabinieri del comando provinciale di Trapani, si è difeso dicendo di non sapere nulla del boss arrestato lunedì. "Credevo di curare il vero Andrea Bonafede".

 Ma è una ricostruzione che non ha convinto gli investigatori e i magistrati della Procura distrettuale antimafia di Palermo. Nell'autunno 2020, il dottore Tumbarello prescrisse il primo intervento per Bonafede-Messina Denaro. Il 17 novembre, il boss è finito sotto i ferri all'ospedale Abele Sjello di Mazara del Vallo, per la malattia di cui soffre.

Il medico adesso finito sotto inchiesta è molto noto in provincia di Trapani. Consigliere provinciale negli anni Novanta, nel 2006 è stato candidato con l'Udc alle elezioni regionali.

Alfonso Tumbarello.

Arrestato Alfonso Tumbarello, il medico di Messina Denaro: «Lo conosceva e gli ha firmato 137 ricette». Fermato un altro fiancheggiatore. Alfio Sciacca, inviato a Campobello di Mazara su Il Corriere della Sera il 7 Febbraio 2023.

Era il dottore a firmare ricette (almeno 137) e le richieste di ricovero sia per il boss, che per il prestanome Andrea Bonafede. È accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e il falso ideologico.

Ancora due arresti nella rete dei fiancheggiatori del boss Matteo Messina Denaro, catturato il 16 gennaio scorso davanti alla clinica «La Maddalena» di Palermo, dopo 30 anni di latitanza. A Campobello di Mazara i carabinieri del Ros hanno arrestato il medico in pensione Alfonso Tumbarello, 70 anni. Si tratta dell’ex medico di famiglia di Andrea Bonafede, il geometra incensurato che ha prestato la sua identità al boss latitante. Ma era sempre Tumbarello, secondo l’accusa, a firmare le ricette e le richieste di ricovero per chi si nascondeva dietro l’identità di Bonafede, cioè il boss Messina Denaro.

Stando alle indagini della Procura per il boss che si nascondeva dietro l’identità di Andrea Bonafede il medico avrebbe firmato ben 137 ricette. Un’infinità di prescrizioni per consentire al boss di curarsi: dall’intervento chirurgico a Mazara del Vallo, nel 2020, alle ripetute richieste di farmaci, cure e terapie oncologiche alle quali si sottoponeva presso la clinica Maddalena di Palermo, dove è stato arrestato. «Tumbarello ha personalmente visitato il paziente Matteo Messina Denaro — scrive il gip— raccolto l’anamnesi, indicatogli un percorso terapeutico, poi seguito con estrema attenzione, prescritto farmaci e analisi mediche, per patologie molto gravi, di cui effettivamente soffriva e soffre il boss, intestandole ad uno proprio assistito, che in realtà godeva di ottima salute».

Il fermo è stato firmato dal gip di Palermo Alfredo Montalto che ha accolto la richiesta del procuratore capo Maurizio de Lucia e dell’aggiunto Paolo Guido. Il medico era già stato indagato il giorno dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro per favoreggiamento e procurata inosservanza di pena. In quella occasione venne anche interrogato ed era stato anche perquisito il suo vecchio studio medico e l’abitazione privata. Nell’ordinanza di custodia cautelare ora gli vengono contestati il concorso esterno in associazione mafiosa e il falso ideologico.

Massone dichiarato Alfonso Tumbarello era iscritto ad una delle due logge di Campobello di Mazara. Ma dopo la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati i vertici del Grande Oriente d’Italia lo avevano sospeso. Nel suo passato anche la politica. Nel 2003 era stato eletto consigliere provinciale, ma gli era andata male la corsa per l’Assemblea Regionale Siciliana con una lista che appoggiava Cuffaro. Nel 2011 tentò anche la corsa a sindaco nella sua città con una lista denominata «Il Popolo della Libertà», ma riuscì a rimediare appena 610 voti.

Arrestato, sempre oggi, anche Andrea Bonafede, cugino e omonimo del geometra che ha prestato l’identità a Messina Denaro. A quest’ultimo viene contestano il favoreggiamento e la procurata inosservanza di pena aggravati dall’aver favorito la mafia. Quest’ultima sarebbe stato una sorta di «postino» incaricato di consegna delle ricette mediche al boss latitante.

Nell’ordinanza di custodia cautelare di Alfonso Bonafede i magistrati parlano di «un inquietante reticolo di connivenze e complicità in diversi luoghi e in svariati ambiti professionali (a cominciare da quello medico - sanitario), reticolo sul quale sarà necessario proseguire le investigazioni che doverosamente dovranno condurre a individuare e perseguire, se sussistenti, tutte le condotte integranti possibili profili di responsabilità penale».

Riccardo Arena Giuseppe Legato per “la Stampa” l’8 febbraio 2023.

[...] Alfonso Tumbarello, medico di base ultrasettantenne, è stato arrestato ieri dai carabinieri del Ros. Ha garantito prescrizioni a Messina Denaro («Almeno 95 per la somministrazione di farmaci e almeno 42 per analisi ed esami diagnostici»), formalmente intestate ad Andrea Bonafede, nato a Campobello di Mazara il 23 ottobre 1963 e già arrestato nelle scorse settimane.

 Per Tumbarello «ci sono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza - scrive il gip - e la sua posizione nell'indagine è «ancor più melliflua e sfuggente perché celata attraverso lo svolgimento di una nobile professione». Risponde di concorso esterno in associazione mafiosa. In cella pure un altro Andrea Bonafede, cugino omonimo del prestanome che ritirava le prescrizioni compilate dal medico condotto.

Tumbarello – si legge agli atti - «ha personalmente visitato il paziente Messina Denaro, raccolto l'anamnesi, indicatogli un percorso terapeutico, poi seguito con estrema attenzione, prescritto in più di un centinaio di occasioni farmaci e analisi mediche, per patologie molto gravi, di cui effettivamente soffriva e soffre Messina Denaro, intestandole ad uno proprio assistito che in realtà godeva di ottima salute e lui ne era consapevole». […]

Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” l’8 febbraio 2023.

[…] Il primo intervento chirurgico a cui si è sottoposto il boss «è stato reso possibile grazie alla falsa scheda formata da Tumbarello il 5 novembre 2020 a nome Bonafede nella quale ha dato atto di aver eseguito personalmente un’accurata anamnesi e valutazione clinica del paziente...». Documento che, secondo i magistrati, « prova in modo incontrovertibile che ha visitato più volte Messina Denaro (e non già il suo assistito Bonafede) e ne è divenuto stabile interlocutore del lungo percorso terapeutico».

 Del resto, ravvisa il gip, il medico conosceva benissimo il vero Bonafede «non fosse altro perché entrambi appartenenti alla piccola comunità di Campobello e il cui stato di salute era palesemente incompatibile con quanto invece documentato dal percorso clinico».

Durante l’interrogatorio Andrea Bonafede (il prestanome del boss) ha provato in tutti i modi a scagionare il medico sostenendo di «... essersi recato di volta in volta da Tumbarello per avere le ricette destinate a Messina Denaro e che il medico era convinto che fossero per lui». Ma è stato clamorosamente smentito persino dalla segretaria del medico che ha raccontano di non averlo mai visto nello studio («forse una volta 17 anni fa» ha dichiarato la donna).

[…]

Arrestato Tumbarello, il medico di Messina Denaro. Il gip: “Il medico massone ha firmato 137 ricette per il latitante”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Febbraio 2023.

Tumbarello ha visitato personalmente il boss latitante «più ricercato al mondo», è stato il primo a diagnosticargli il tumore, gli ha prescritto, in quasi due anni, più di un centinaio di farmaci e analisi mediche intestandole ad un proprio assistito, che in realtà godeva di ottima salute, sapendo perfettamente di avere davanti Matteo Messina Denaro.

Reggono davanti al gip Alfredo Montalto le accuse che la Procura di Palermo contesta ad Alfonso Tumbarello, medico di base di Campobello di Mazara, paese in cui il padrino si è nascosto nell’ultimo periodo della latitanza, arrestato oggi per “concorso esterno in associazione mafiosa” e “falso ideologico“. Nelle 31 pagine della misura cautelare disposta dal giudice Alfredo Montalto, su richiesta del procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, dell’aggiunto Paolo Guido e dei pm Piero Padova e Gianluca De Leo, ordinanza che potete leggere integralmente sul CORRIERE DEL GIORNO, il giudice per le indagini preliminari ribadisce più volte che il professionista, da qualche mese in pensione, era “consapevole e informato della reale identità del paziente”.

Per il gip Montalto, ci sono esigenze cautelari a carico del medico tali da superare il fatto che abbia più di 70 anni e il carcere è la sola misura adeguata. In carcere assieme a Tumbarello, è finito anche un altro abitante di Campobello, Andrea Bonafede, cugino e omonimo del geometra che aveva ceduto consapevolmente l’identità al boss mafioso Messina Denaro, ma con le accuse di “favoreggiamento” e “procurata inosservanza della pena” aggravate dall’aver favorito Cosa nostra . A lui i pm della Procura di Palermo contestano di aver fatto la spola con lo studio di Tumbarello per consegnare al boss le ricette mediche e al professionista i documenti sanitari che il padrino di volta in volta gli sottoponeva.

Tumbarello come si legge nell’ ordinanza del giudice “continua a svolgere l’attività professionale di medico nonostante il pensionamento e soltanto con la più grave misura coercitiva può essergli impedito di prodigarsi ancora a favore di altri esponenti mafiosi“, mettendo in evidenza il passato del medico, protagonista “di un rapporto ben più risalente (sino agli anni novanta del secolo scorso) e diverso da quello più strettamente professionale con Messina Denaro”.

Nei giorni scorsi, dopo le polemiche sul ruolo massonico di Tumbarello, era immediatamente intervenuto il vertice del GOI – Grande Oriente d’Italia, a cui il professionista risulta essere stato iscritto: il Gran Maestro Stefano Bisi ha sospeso il medico massone a tempo indeterminato, che faceva parte della loggia “Valle di Cusa – Giovanni di Ganci”. Il medico pneumologo siciliano, che ha studio in corso Umberto primo a Campobello di Mazara , è andato in pensione il 31 dicembre scorso. Ma come emerso dalle indagini del ROS dei Carabinieri è rimasto in servizio a tempo pieno per il superlatitante Matteo Messina Denaro “boss” di Cosa nostra.

Nel passato di Tumbarello c’è stata anche la politica. Eletto consigliere provinciale nel 2003, successivamente gli era andata male la candidatura per l’Assemblea Regionale Siciliana non venendo eletto, con una lista che appoggiava Totò Cuffaro. In seguito nel 2011 tentò anche la corsa a sindaco nella sua città guidando una lista denominata “Il Popolo della Libertà“, riuscendo ad ottenere soltanto 610 voti. Che non gli sono bastati.

Per Andrea Bonafede, cugino omonimo di colui che aveva ceduto la propria identità al boss Matteo Messina Denaro, è scattata l’immediata sospensione di dipendente del Comune di Campobello di Mazara. Bonafede, di 6 anni più giovane del cugino già in carcere, è stato arrestato oggi pomeriggio a Campobello di Mazara. Contrattista del Comune di Campobello di Mazara sino al 2019, il “giovane” Andrea Bonafede è stato stabilizzato il primo luglio 2019, insieme a tutti gli altri 50 ex articolisti che prestano servizio all’ente. Sino ad oggi ha prestato servizio presso il settore “Servizi alla città” del Comune.

Il nome di Alfonso Tumbarello emerge peraltro anche in una vecchia indagine sull’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino, già condannato per traffico di droga e poi deceduto di Covid. Vaccarino, massone, amico della famiglia del boss Messina Denaro, si rivolse proprio al medico Tumbarello per organizzare un incontro con Salvatore Messina Denaro, fratello dell’ex latitante e mafioso di spicco.

Sono durissime le parole dei pm della DDA di Palermo che nella richiesta di arresto del medico e del factotum del boss, accolta dal Gip, stigmatizzano l’omertà diffusa di Campobello, scrivendo nella richiesta di misura cautelare del medico di Matteo Messina Denaro: “Tutte le indagini ancora in pienissimo e frenetico svolgimento sulla ricostruzione delle fasi che hanno preceduto la cattura di Messina Denaro hanno innanzitutto offerto uno spaccato dell’assordante silenzio dell’intera comunità di Campobello di Mazara che, evidentemente con diversi livelli di compiacenza omertosa, paura, o addirittura complicità, ha consentito impunemente al pericoloso stragista ricercato in tutto il mondo di affrontare almeno negli ultimi due anni cure mediche e delicatissimi interventi chirurgici in totale libertà“.

Il riferimento dei magistrati è alla rete di “fiancheggiatori” che è stata svelata al momento solo in parte , consentendo l’arresto dell’autista del “boss” e del geometra Bonafede, entrambi di Campobello. Per quest’ultimo il tribunale del Riesame oggi ha ribadito il carcere respingendo la richiesta di revoca della misura avanzata dal suo difensore. “Sorprende e ferisce leggere di “assordante silenzio dell’intera comunità campobellese”. Se la presenza del superlatitante a Campobello era così palese ed evidente a tutti, mi chiedo come mai non sia stato trovato prima?” ha replicato il sindaco Giuseppe Castiglione che dimentica che la presenza è stata scoperta solo nei giorni scorsi, mentre molti suoi concittadini “mafiosi” ne erano perfettamente a conoscenza, Redazione CdG 1947

Doctor mafia e le ricette del boss. Rita Cavallaro su L’Identità il 9 Febbraio 2023.

La latitanza dorata, con tanto di feste e donne, e le cure garantite per il tumore. Gli ultimi anni di libertà di Matteo Messina Denaro sono stati favoriti da una rete di fiancheggiatori che va al di là degli affiliati a Cosa nostra, ma ha visto la collaborazione di medici, amici d’infanzia, gente comune. E con l’arresto del dottore del padrino emergono nuovi particolari che delineano la reverenza verso il capo dei capi e smentiscono le versioni di chi, davanti agli inquirenti, sostiene di non sapere che quel simpatico sessantenne fosse il ricercato numero uno d’Italia. I carabinieri del Ros hanno ricostruito la condotta del medico 70enne di Campobello di Mazara, il massone Alfonso Tumbarello, e hanno accertato non solo che il dottore conosceva bene il capomafia e sapeva che quell’uomo non era Andrea Bonafede, il geometra in carcere per aver fornito la sua identità al latitante, ma che ha firmato almeno 137 ricette per il boss a nome dell’alias, il quale non è affetto da alcun tumore. “Tumbarello ha personalmente visitato il paziente Matteo Messina Denaro, raccolto l’anamnesi, indicatogli un percorso terapeutico, poi seguito con estrema attenzione, prescritto farmaci e analisi mediche, per patologie molto gravi, di cui effettivamente soffriva e soffre il boss, intestandole ad uno proprio assistito, che in realtà godeva di ottima salute”, scrive il gip di Palermo, Alfredo Montalto, che nelle 31 pagine con cui ha disposto la custodia cautelare in carcere per il medico delinea l’impianto che regge le accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e falso ideologico. Reati ben più gravi delle contestazioni mosse a Tumbarello dal giorno seguente all’arresto di Messina Denaro, quando il medico era stato indagato per favoreggiamento e procurata inosservanza di pena. Gli accertamenti successivi del Ros hanno portato a individuare il medico di base come il “protagonista centrale di tutto il percorso terapeutico seguito da Messina Denaro”, si legge, “le cui prestazioni sono state indispensabili nel corso degli ultimi due anni per consentire al latitante di essere curato e assistito dalle diverse strutture sanitarie pubbliche che lo hanno preso in carico, oltreché per ottenere i farmaci la cui somministrazione è stata necessaria per la sua attuale sopravvivenza”. Inoltre, sottolinea il gip, “le cure assicurate personalmente dal dottor Tumbarello hanno così garantito a Messina Denaro non solo le prestazioni sanitarie necessarie per le gravi patologie sofferte, ma soprattutto la riservatezza sulla sua reale identità, e dunque continuare a sottrarsi alle ricerche, restare a Campobello di Mazara, e gestire l’associazione mafiosa”. Insomma l’operato del medico è stato indispensabile per evitare la cattura del boss, arrestato poi lo scorso 16 gennaio alla clinica La Maddalena, dove il capo dei capi era andato per sottoporsi alla chemioterapia che faceva a seguito di due interventi chirurgici, effettuati sempre sotto falso nome presso la struttura sanitaria il 13 novembre 2020 e il 4 maggio 2021 su prescrizione di Tumbarello, per un cancro al colon. Scrive il gip: “Il primo intervento chirurgico cui è stato sottoposto Messina Denaro Matteo è stato reso possibile grazie alla falsa scheda formata dal dottor Tumbarello il 5 novembre 2020 a nome di Bonafede Andrea, nella quale ha dato atto di aver eseguito personalmente un’accurata anamnesi e valutazione clinica del paziente, che già aveva eseguito una colonscopia ed era in cura farmacologica, sollecitandone il ricovero cui faceva seguito, a distanza di pochi giorni, l’intervento chirurgico del 13 novembre 2020. Tumbarello ha chiesto poi, in calce alla “scheda”, di essere informato – attraverso una “esauriente relazione clinica” – delle condizioni di salute del paziente Bonafede/Messina Denaro al termine del ricovero”. Il documento, firmato dal medico e allegato agli atti dell’inchiesta, “prova in modo incontrovertibile che costui ha visitato più volte Messina Denaro (e non già il suo assistito Bonafede), e ne è divenuto stabile interlocutore del lungo e tormentato percorso terapeutico del suo assistito”, sottolinea il gip, aggiungendo che il dottore “seguirà il percorso del paziente per i successivi due anni, continuando a prescrivergli delicatissimi e costosissimi esami diagnostici”. Le indagini hanno accertato, tra l’altro, che Tumbarello non solo sapeva che il malato fosse il latitante, perché “in un contesto ristretto quale quello di Campobello ben sapeva che il Bonafede non aveva alcuna delle gravissime patologie diagnosticate e che dunque il malato non era il suo assistito”, ma anche perché il dottore aveva “rapporti con la famiglia Messina Denaro, ed in particolare con il fratello di Matteo, Salvatore”, si legge. “Messina Denaro Salvatore è stato residente proprio a Campobello di Mazara ed il legame con l’indagato Tumbarello era emerso con evidenza dalla inquietante e delicatissima vicenda relativa all’ex sindaco Vaccarino, che – come accertato in più sentenze passate in giudicato – per conto del Sisde ha cercato e poi trovato un canale di collegamento con Messina Denaro Matteo, negli anni 2004-2006. Dal verbale di esame reso dal Vaccarino nel corso del processo celebrato nei confronti di altro parente del latitante, Panicola Vincenzo, ed altri imputati (e poi condannati) per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. (e in particolare per la gestione dei cc.dd. pizzini rivolti e inviati da Messina Denaro Matteo), risulta che Vaccarino aveva inviato un messaggio a Messina Denaro Matteo, in quel momento già latitante da 10 anni, proprio attraverso il fratello Salvatore, convocato per tale scopo presso lo studio del dottor Tumbarello su richiesta dello stesso Vaccarino”. E ancora: “È evidente come Vaccarino abbia potuto contare sull’affidabilità e riservatezza del dottor Tumbarello cui chiedeva di organizzare un incontro con Messina Denaro Salvatore, presso lo studio medico di quest’ultimo, evidentemente luogo ritenuto sicuro per non esporre i partecipanti a rischi, già facilmente prospettabili dal semplice fatto che Vaccarino ed il fratello del latitante avevano evitato una diretta interlocuzione sfruttando il tramite, insospettabile, dell’odierno indagato”. Con il medico è stato arrestato pure un altro Andrea Bonafede, cugino del geometra che ha prestato l’identità all’ultimo degli stragisti. A lui viene contestato di essere il “postino”, ovvero l’incaricato dal boss di ritirare al bisogno le ricette mediche allo studio, per poi consegnarle al latitante.

Ha assicurato terapie a un mafioso malato di cancro. Perché è una follia l’arresto di Alfonso Tumbarello, il medico di Matteo Messina Denaro. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 9 Febbraio 2023

Starà anche nel perimetro della legge il provvedimento con cui la magistratura palermitana ha arrestato Alfonso Tumbarello, il medico in pensione che avrebbe fornito cure e ricette intestate al prestanome di Matteo Messina Denaro e di cui quest’ultimo avrebbe in realtà usufruito. Ma il fatto che quel provvedimento sia in ipotesi legittimo, se possibile, aggrava la notizia. Che è questa: un medico settantenne può essere indagato, e sbattuto in galera prima del processo, perché ha assicurato terapie a un mafioso malato di cancro anziché denunciarlo e rifiutarsi di curarlo.

Gli si addebita di aver “personalmente visitato il paziente Matteo Messina Denaro”, col supplemento doloso di avergli indicato ”un percorso terapeutico” e di averlo seguito “con estrema attenzione”, con la prescrizione “di farmaci e analisi mediche per patologie molto gravi”. D’accordo, in realtà fingeva di curare qualcun altro – il prestanome, appunto, e qui interviene il falso di cui lo si accusa – ma per essere un buon medico e cioè, par di capire, un medico antimafia, che cosa avrebbe dovuto fare? Visitarlo non “personalmente” ma via Skype, sotto la supervisione dei carabinieri? E il percorso terapeutico? Non doveva “indicarglielo”? Doveva dirgli di farselo indicare dalla Procura della Repubblica? È l’”estrema attenzione” con cui ha seguito il paziente? Doveva seguirlo, diciamo così, distrattamente, senza impegnarsi troppo? E i farmaci e le analisi? Doveva limitarsi al placebo?

Lasciamo ai tecnici qualsiasi valutazione sul fatto che la magistratura potesse legittimamente, o no, assumere i provvedimenti che ha assunto nei confronti di questo signore. Se non poteva, e cioè se il provvedimento restrittivo è illegittimo, molto male. Se invece poteva, e cioè se davvero si può arrestare un medico perché si rende responsabile di quei comportamenti, molto peggio. Molto peggio perché significa che siamo alla follia della legge, e che un simile arbitrio può essere perpetrato ineccepibilmente in nome del popolo italiano. Quel medico (è il solito “concorso esterno” a fare il lavoro sporco in questa inenarrabile giurisprudenza) avrebbe favorito la criminalità organizzata curando un malato anziché comportarsi come si deve: l’antimafia del medico-secondino, che non cura ma denuncia; non interferire nel corso democratico del tumore, lasciando che abbia tranquillo sfogo la collaborazione di giustizia delle metastasi.

Tutto un paese, quel borgo siciliano, è rappresentato come una specie di covo diffuso da perlustrare per rastrellarne ogni indizio di complicità, e c’è da trasecolare leggendo quel che giungono a scrivere i pubblici accusatori quando si esercitano nella descrizione di “uno spaccato dell’assordante silenzio dell’intera comunità di Campobello di Mazara”, la quale avrebbe consentito al malato di curarsi senza essere arrestato. E infatti c’è da credere che qualche ristoratore sapesse chi era e che, ciò non ostante, gli abbia dato da mangiare, in tal modo indubitabilmente “favorendo” il boss mafioso. E magari conosceva pure i suoi gusti, e con indicibile complicità gastronomica gli ha preparato piatti speciali: ci sta l’aggravante grossa come una casa. Ma senza perdersi nei dettagli, visto che è il paese intero ad aver tenuto bordone: perché non li arrestano tutti, gli abitanti di Campobello di Mazara? Poi come sindaco ci mettono un pubblico ministero e siamo a posto.

E tornando, per chiudere, alla vicenda del medico. C’è un elemento di fanatismo, di crudele forsennatezza, di impietoso delirio persecutorio nell’idea che curare un malato sia riprovevole, e persino illecito, giusto perché si tratta di un criminale. Non è infatti la falsa attestazione di identità (aver simulato di curare il prestanome, sapendo che era un prestanome) ad aver portato in galera questo Tumbarello, né tanto meno è quel reato a procurargli la reprimenda moraleggiante dei magistrati: è che ha curato un mafioso, e togliere un cancro a un mafioso fuori dal protocollo antimafia è illecito. Iuri Maria Prado

La rete dei fiancheggiatori. Messina Denaro, arrestato il medico Tumbarello che ha firmato 137 ricette per il boss: “Assordante silenzio della comunità di Campobello di Mazara”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 7 Febbraio 2023

Altri due arresti nella rete di fiancheggiatori di Matteo Messina Denaro, il capomafia di Castelvetrano e ultima ‘Primula rossa’ di Cosa Nostra arrestato dopo una latitanza trentennale terminata a Palermo lo scorso 16 gennaio.

I carabinieri del Ros hanno tratto in arresto a Campobello di Mazara, la città di 11mila abitanti ultimo ‘feudo’ del boss, il medico in pensione Alfonso Tumbarello. Il 70enne è l’ex medico di famiglia di Andrea Bonafede, il geometra che ha prestato la sua identità al ‘Padrino’, acquistando per lui anche il primo dei ‘covi’ trovati dagli inquirenti nella cittadina.

Secondo le accuse era Tumbarello a firmare le ricette mediche che hanno permesso al boss di accedere alle cure del Servizio sanitario nazionale negli ultimi due anni sotto il falso nome di Bonafede.

Stando alle indagini sarebbero state ben 137 le ricette: si va dall’intervento chirurgico a Mazara del Vallo, nel 2020, alle ripetute richieste di farmaci, cure e terapie oncologiche alle quali si sottoponeva presso la clinica ‘La Maddalena’ di Palermo, dove Messina Denaro è stato arrestato.

Indagato il giorno dopo l’arresto di MMD per favoreggiamento e procurata inosservanza di pena, in quell’occasione venne interrogato e il suo vecchio studio medico perquisito, così come la sua abitazione. In occasione dell’interrogatorio Tumbarello aveva negato di conoscere la reale identità della ‘Primula rossa’ di Cosa nostra.

Con l’arresto firmato dal gip di Palermo Alfredo Montalto, che ha accolto la richiesta del procuratore capo Maurizio de Lucia e dell’aggiunto Paolo Guido, a Tumbarello viene contestato anche il concorso esterno in associazione mafiosa e il falso ideologico.

Nell’ordinanza il gip scrive che il medico “ha personalmente visitato il paziente Matteo Messina Denaro raccolto l’anamnesi, indicatogli un percorso terapeutico, poi seguito con estrema attenzione, prescritto farmaci e analisi mediche, per patologie molto gravi, di cui effettivamente soffriva e soffre il boss, intestandole ad uno proprio assistito, che in realtà godeva di ottima salute”.

Con Tumbarello è stato arrestato anche Andrea Bonafede, cugino ed omonimo del geometra che aveva prestato la sua identità al boss. Bonafede ‘due’ sarebbe considerato una sorta di “postino”, incaricato di consegnare le ricette mediche al boss latitante. Al secondo Bonafede viene contestato il favoreggiamento e la procurata inosservanza di pena aggravati dall’aver favorito la mafia.

Il provvedimento del gip è poi un atto di accusa durissimo sulle varie e ancora inesplorate complicità che hanno permesso la latitanza di Messina Denaro: “Tutte le indagini ancora in pienissimo e frenetico svolgimento sulla ricostruzione delle fasi che hanno preceduto la cattura di Messina Denaro – scrivono i pm nella loro richiesta – hanno innanzitutto offerto uno spaccato dell’assordante silenzio dell’intera comunità di Campobello di Mazara che, evidentemente con diversi livelli di compiacenza omertosa, paura, o addirittura complicità, ha consentito impunemente al pericoloso stragista ricercato in tutto il mondo di affrontare almeno negli ultimi due anni cure mediche e delicatissimi interventi chirurgici in totale libertà“.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il dottore di Messina Denaro indagato, si chiude in casa: «Il Bonafede vero mi ha ingannato». Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2023.

Il dottor Alfonso Tumbarello deve essere sentito dai magistrati in Procura a Palermo. È indagato nell’ambito dell’inchiesta che ha portato all’arresto del boss trapanese Matteo Messina Denaro

«Io ho la coscienza pulita: Andrea Bonafede, quello vero, mi ha tratto in inganno», ripete da giorni a chiunque incontri in paese. Gli unici ai quali nega le sue spiegazioni sono i giornalisti. Il dottor Alfonso Tumbarello, 70 anni, figlio del merciaio di Campobello, con pazienza certosina, ago e filo, come deve avere imparato da suo padre, sta preparando con cura la sua difesa per quando lo chiameranno a Palermo i magistrati.

È indagato nell’ambito dell’inchiesta che ha portato all’arresto di Matteo Messina Denaro.

Forse sarà convocato già oggi e dovrà spiegare finalmente quel mucchio di certificazioni e prescrizioni firmate da lui stesso nel corso degli ultimi due anni a beneficio del suo assistito Andrea Bonafede, che in realtà però era il boss di Cosa nostra con in tasca la carta d’identità del prestanome.

Le ricette

Un mucchio di ricette per consentire al capomafia, operato a Mazara del Vallo nel novembre 2020, di effettuare le cure oncologiche di cui aveva bisogno presso le strutture convenzionate della Sicilia. Ma Tumbarello era al corrente del trucco oppure no?

Il circo mediatico lo insegue da giorni inutilmente. La settimana scorsa, mentre tutti lo cercavano con la moglie Caterina, le figlie Giovanna e Annamaria e il figlio Gaetano, nella casa al mare di Tre Fontane, Tumbarello era tranquillo a pranzo da «zio Giovanni» a Castelvetrano, la trattoria gestita dal fratello della mamma di Matteo Messina Denaro, Lorenza Santangelo, con il manifesto al muro di Salvatore Giuliano e l’olio per condire l’insalata che si chiama «Primula Verde», chissà se un omaggio alla «primula rossa» di famiglia, ormai però catturata dopo 30 anni di latitanza.

L’avvocato

Alessandro Quarrato, responsabile di primapaginacastelvetrano.it, è tra i pochi ad aver parlato col suo legale, Giuseppe Pantaleo, un altro che ama poco le interviste: «Il mio assistito — taglia corto l’avvocato — ha piena fiducia nella magistratura ed attende di essere sentito per far piena luce sulla vicenda».

Sarà. Nel frattempo Stefano Bisi, Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, lo ha sospeso a tempo indeterminato e anche i fratelli massoni della loggia «Valle di Cusa — Giovanni di Gangi» di Campobello, di cui Tumbarello fa parte, si mantengono prudenti nel giudizio.

Il medico pneumologo con lo studio in corso Umberto I fino allo scorso 31 dicembre, quando è andato in pensione, a Campobello conosce tutti: è stato a lungo il medico di base. Molto stimato anche in Procura a Marsala, dove per anni ha fatto il consulente. Possibile che abbia ricevuto in ambulatorio Matteo Messina Denaro senza nutrire il minimo sospetto? E dunque: il boss andava in studio da lui? Secondo quello che il medico ha raccontato ai conoscenti, la risposta è una: «No impossibile, durante la pandemia i soggetti fragili come i malati di tumore restavano a casa».

Quindi, sempre secondo questa parzialissima ricostruzione, da Tumbarello si serviva solamente il vero Bonafede, che lui conosceva bene in quanto suo assistito e al quale inviava le ricette via mail. Il medico avrebbe spiegato che anche la calvizie del vero Bonafede l’avrebbe tratto in inganno, portandolo a pensare all’effetto di una cura in svolgimento. Intanto, il cognato Giuseppe, per proteggerlo dall’assedio dei media, ogni giorno gli fa la spesa. Mentre lui attende dietro le persiane chiuse, al primo piano, che arrivi il giorno della verità.

Estratto dell’articolo di Saul Caia per “il Fatto quotidiano” il 23 gennaio 2023.

Si sapeva già dal 2012 che Alfonso Tumbarello, medico di base e massone, poteva essere un tramite per arrivare a Matteo Messina Denaro. Lo rivela Report, nella puntata in onda stasera alle 21,25 su Rai3, mostrando il verbale dell’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino (morto di Covid nel 2021): processo Golem II, durante l’udienza del 19 ottobre 2012 celebrata al tribunale di Marsala; proprio quel Vaccarino, alias Svetonio, che ha intrattenuto una corrispondenza epistolare (per conto dei servizi segreti) con Matteo Messina Denaro, che si firmava Alessio.

Nella trascrizione, recuperata dall’archivio del giornalista Marco Bova, Vaccarino spiega in aula che in “accordo con il Sisde prese l’iniziativa di contattare” il fratello del latitante. “Sono stato io a chiedere al dottore Tumbarello di poter incontrare Salvatore Messina Denaro (il fratello di Matteo, ndr), perché era suo assistito”, riferisce Vaccarino.

[...]

 Lui ottiene un appuntamento con Salvatore tramite il dottor Alfonso Tumbarello che era l’unico medico condotto di Campobello di Mazzara”, spiega ai microfoni di Report Teresa Principato, procuratore aggiunto a Palermo tra il 2009 e 2017, per anni sulle tracce del super latitante. L’incontro nello studio del medico Tumbarello sarebbe avvenuto tra “il 2001 e il 2002”, è Vaccarino a precisare in aula che l’arco temporale rientrava “dopo il 2001 e prima del 2004”, ovvero la “data della prima lettera a Matteo”.

Non basta, Matteo Messina Denaro sarebbe stato avvistato già nel 2021 a Torretta Granitola, frazione di Campobello di Mazara. […]

(ANSA il 17 gennaio 2022) Alfonso Tumbarello, 70 anni, il medico che aveva in cura Andrea Bonafede, alias Matteo Messina Denaro, è indagato nell'ambito dell'arresto del super latitante. Tumbarello è di Campobello di Mazara ed è stato per decenni medico di base in paese, sino a dicembre scorso, quando è andato in pensione. Tumbarello sino a qualche mese fa è stato medico del vero Andrea Bonafede, 59 anni, residente a Campobello di Mazara e avrebbe prescritto le ricette mediche a nome dell'assistito. Ieri i carabinieri hanno perquisito le abitazioni di Campobello, di Tre Fontane e l'ex studio del medico che è stato anche interrogato.

Il dottore 'seguiva' Andrea Bonafede. Chi è Alfonso Tumbarello, il medico indagato per aver curato Messina Denaro sotto falso nome: fu candidato alle Regionali con Cuffaro. Redazione su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

È sospettato di aver aiutato Matteo Messina Denaro, alias Andrea Bonafede, durante la sua latitanza. Per questo Alfonso Tumbarello, il medico di Campobello di Mazara (Trapani) sul quale adesso si concentrano le attenzioni degli investigatori, è finito iscritto nel registro degli indagati.

Tumbarello, 70 anni, era il medico di base di Bonafede, sia quello vero, il geometra che ha prestato il suo nome al boss, che quello finto, ovvero la ‘Primula rossa’ di Cosa Nostra arrestato lunedì mattina dopo una latitanza durata 30 anni.

Secondo gli inquirenti Tumbarello, per decenni medico di base in paese, sino a dicembre scorso, quando è andato in pensione, avrebbe firmato le prescrizioni mediche e l’accesso alle visite oncologiche per il ‘Padrino’ di Cosa Nostra.

Il medico esercitava nel paesino a cinque chilometri circa da Castelvetrano, la città del boss mafioso, in quella Campobello di Mazara dove le forze dell’ordine hanno trovato il covo di MMD.

L’ipotesi di reato nei suoi confronti per ora è di procurata inosservanza di pena aggravata dal metodo mafioso: sia il suo studio medico che l’abitazione del professionista sono state perquisite.

Gli inquirenti non credono che il medico possa essere caduto nel ‘tranello’ di  uno strano caso di omonimia in una cittadina di soli 11mila abitanti, anche perché il vero Bonafede è sano come un pesce, il Bonafede-boss è invece reduce da due interventi per un tumore e cure, tra cui la chemioterapia.

Tamburello è stato già interrogato dai magistrati dopo il blitz di lunedì in cui i carabinieri del Ros hanno arrestato Messina Denaro. A quanto apprende l’agenzia Lapresse avrebbe dichiarato agli inquirenti: “Non sapevo nulla. Per me lui era il signor Bonafede”.

Prova a difenderlo e a credere nella sua onestà anche Giuseppe Castiglione, il sindaco della cittadina del Trapanese. “Voglio pensare che sia rimasto vittima di un complotto a sua insaputa – spiega all’AdnKronos -, che abbia visitato il ‘vero’ Andrea Bonafede e non Matteo Messina Denaro, magari ha visto esami che venivano presentati dal vero Bonafede ma che non appartenevano a lui. Sarebbe una grossa delusione se non fosse così“.

Medico che in passato ha avuto anche una notevole ‘passione’ per la politica. Nel 2006 si era candidato alle elezioni regionali con l’Udc, lista che quell’anno col centrodestra ottenne la rielezione del governatore Totò Cuffaro, poi condannato a 7 anni di carcere per favoreggiamento mafioso.

Tumbarello, che era stato consigliere provinciale sempre per il partito centrista, mancò però l’elezione: ottenne 2.697 preferenze, quasi 5mila meno di Girolamo Turano, eletto nel Trapanese e ora assessore regionale in quota Lega nella giunta di Renato Schifani. Non andò meglio nel 2011, quando si candidò a sindaco di Campobello di Mazara col centrodestra: arrivò quinto ottenendo 610 voti, il 7,55%, nella tornata vinta da Cirò Caravà, la cui amministrazione venne poi sciolta per i rischi di infiltrazioni mafiose.

Proprio Cuffaro, tirato in ballo per il passato politico di Tumbarello, ha immediatamente ‘disconosciuto’ il medico. “Gli inquirenti accerteranno cosa c’entra il dottor Alfonso Tumbarello con Messina Denaro, ma è certo che non c’entra niente con me”, spiega l’attuale commissario regionale della DC.

“A chi della stampa non perde occasione per spargere fango contro di me voglio ricordare che nel 2006 la mia lista, era la ‘Lista del Presidente’ chiamata ‘Arcobaleno’, e il dottor Tumbarello non era candidato con la mia lista, era candidato nella lista della Udc e – precisa ancora Cuffaro – le candidature di Trapani non sono state scelta da me“. “Nel 2011, quando si è candidato a sindaco, io ero già in carcere e, quindi, non l’ho potuto scegliere come candidato. Quello che si sta scrivendo contro di me è semplicemente vergognoso e non degno di una informazione seria ma soltanto diffamatoria“, conclude Cuffaro.

 Estratto dell’articolo di Fabio Amendolara e Marco Bova per “La Verità” il 17 gennaio 2022.

 Per le cure e le ricette mediche, però, si sarebbe rivolto ad Alfredo Tumbarello, già candidato sindaco a Campobello e considerato vicino ad Antonio D'Alì, l'ex senatore ed ex sottosegretario all'Interno forzista condannato (e poi arrestato) per concorso esterno anche per l'ipotizzata vicinanza con i Messina Denaro.

Estratto dell’articolo di Lara Sirignano per corriere.it il 17 gennaio 2022.

Per anni ha avuto come paziente Matteo Messina Denaro. L’ha ricevuto allo studio, gli ha dato farmaci, consigliato visite specialistiche, cure. Tutto prescritto all’alias usato dal padrino: Andrea Bonafede. Ma di malati con lo stesso nome Alfonso Tumbarello, medico di base storico di Campobello di Mazara, paese in cui il boss finito in manette ieri ha trascorso l’ultimo periodo della latitanza, ne aveva due. Il capomafia e il vero Bonafede, il geometra che ha prestato il suo nome al boss e per questo ora è indagato. [….]

 Non ci credono i magistrati di Palermo che hanno indagato Tumbarello, interrogato ieri dai carabinieri, per procurata inosservanza di pena aggravata dal metodo mafioso. Un’accusa grave di cui deve rispondere anche Giovanni Luppino, l’autista del capomafia arrestato ieri. Nelle prossime ore il gip deciderà se convalidare il provvedimento cautelare.

Tumbarello, tra l’altro, era stato candidato alle comunali del 2011 come sindaco di Campobello di Mazara, in provincia di Trapani, per l’allora Pdl. Nel 2006 il medico fu candidato, invece, tra le fila dell’Udc per in consiglio regionale, a sostegno della candidatura di Totò Cuffaro. Alle comunali ottenne 610 preferenze (7,55% dei votanti).

Estratto da “Il Messaggero” il 18 gennaio 2023.

Due pazienti con lo stesso nome. Strano, ma vero. Uno era Matteo Messina Denaro, l'altro Andrea Bonafede, che al padrino trapanese ha prestato l'identità. Per anni hanno frequentato entrambi lo studio di Alfonso Tumbarello, 70 anni, molto noto a Campobello di Mazara per la sua lunga attività di medico di base e pneumologo, e per l'impegno politico.

 «Non poteva non sapere del gioco sporco», dicono gli investigatori che ora gli contestano il reato di procurata inosservanza di pena aggravata dal metodo mafioso. La pena sono gli ergastoli a cui finora Messina Denaro era sfuggito.

Andrea Bonafede, quello vero, era un assistito del medico.

Lo è stato per anni. Ad un certo punto gli è subentrato Matteo Messina Denaro. Tumbarello non si è reso conto di avere a che fare con il più ricercato fra i ricercati? Di sicuro, dicono gli investigatori, non si è fatto troppe domande per quei due pazienti uguali e diversi. E così avrebbe ricevuto il padrino corleonese nel suo studio, gli avrebbe suggerito di sottoporsi ad accertamenti e prescritto farmaci. Non una, ma diverse volte. Troppe per ritenere occasionale il loro rapporto.

 Quando Messina Denaro si è ammalato in maniera più grave gli ha suggerito le mosse necessarie per affrontare il cancro. Nel suo studio di via Giuseppe Garibaldi ieri le serrande erano abbassate. I carabinieri lo hanno perquisito. Stessa cosa davanti alla casa di via Marsala, dove c'era il cognato che ne ha giustificato il comportamento: «Non poteva sapere chi fosse quell'uomo che si spacciava per Andrea Bonafede».

[…] Dottore con la passione per la politica. Si era candidato nel 2011 a sindaco di Campobello Di Mazara, appoggiato dal Popolo delle Libertà. Raccolse il 7,55% dei voti, meglio della lista che portava il suo nome, ma lontano da ciò che serviva per l'elezione. Nel 2006 ci aveva provato alle Regionali nella lista collegata a Per la Sicilia Cuffaro Presidente di Totò Cuffaro, attuale commissario regionale della Dc, condannato a 7 anni di carcere (scontati) per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra. Andò male anche quella volta. […]

Il geometra.

Estratto dell'articolo di Lara Sirignano per corriere.it il 23 gennaio 2023.

A una settimana dal blitz che ha portato alla cattura del boss Matteo Messina Denaro è stato arrestato, con l’accusa di associazione mafiosa, Andrea Bonafede, geometra di Campobello di Mazara che avrebbe «prestato» l’identità al capomafia finito in manette dopo una fuga lunga 30 anni. 

 Bonafede è ritenuto dagli inquirenti uno dei fiancheggiatori più fedeli del padrino, l’uomo che, secondo i pm di Palermo, oltre a consegnare all’ex latitante la sua carta di identità, per consentirgli di ottenere un falso documento, e la tessera sanitaria necessaria per terapie e visite mediche, ha acquistato con i soldi del boss la casa di Campobello di Mazara in cui il capomafia ha trascorso l’ultimo periodo della latitanza. 

[..] Bonafede ha confessato anche di aver dato al boss il bancomat da lui usato per le spese sostenute in latitanza [...] E di averlo aiutato a comprare la Giulietta con cui si spostava abitualmente, indisturbato, per le vie di Campobello. La macchina, acquistata un anno fa personalmente dal padrino in una concessionaria di Palermo, formalmente era intestata alla madre di Bonafede [...]

Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 24 gennaio 2023.

Cedere la propria identità a un latitante come Matteo Messina Denaro non significa solo aiutare il primo ricercato d’Italia a sottrarsi alla cattura, ma consentirgli di «continuare a svolgere le proprie funzioni direttive nell’associazione mafiosa». Cioè il «ruolo di capo». E così, a una settimana di distanza dal padrino stragista, Andrea Bonafede, l’uomo che ha fornito nome e cognome di copertura all’esponente di Cosa nostra autore di stragi e omicidi efferati, si ritrova in carcere come lui; arrestato ieri sera dai carabinieri del Ros con l’accusa di avere fatto parte della stessa organizzazione criminale, «unitamente a Matteo Messina Denaro e ad altre persone non ancora identificate».

Il ruolo del capo Secondo il giudice Alfredo Montalto, che ha firmato l’ordine di arresto su richiesta del procuratore Maurizio De Lucia, dell’aggiunto Paolo Guido e del sostituto Pierangelo Padova, la figura di Bonafede corrisponde a quella di «un affiliato “riservato” al servizio diretto del capomafia». Categoria importante e anzi strategica, perché ha garantito al latitante malato di continuare a guidare il suo clan; persino «la disponibilità di ingenti risorse economiche», confermata al momento della cattura, «non può trovare altra spiegazione se non nella persistenza del ruolo direttivo e operativo al vertice dell’organizzazione mafiosa».

Mantenuto «anche mediante la sua presenza nel territorio» grazie ad Andrea Bonafede, l’uomo che gli ha prestato le generalità per avere accesso alle cure sanitarie, alle case in cui ha abitato, alle macchine utilizzate per spostarsi almeno negli ultimi due anni e mezzo, ma probabilmente anche prima.

 Quando s’è trovato a dover fornire a carabinieri e magistrati una spiegazione per quella carta d’identità intestata a lui ma con la foto dell’uomo più ricercato d’Italia, Bonafede ha cercato di minimizzare.

Versione inverosimile Secondo il suo racconto, i guai sono cominciati da un incontro occasionale, un anno fa per le strade di Campobello di Mazara, con la richiesta del boss — che lui conosceva da ragazzo avendo frequentato la stessa scuola — di aiutarlo nelle cure per il tumore che lo ha assalito; qualche giorno più tardi ce ne fu un secondo, stavolta su appuntamento, dove il boss ha chiesto carta d’identità e tessera sanitaria; la terza volta s’è parlato della casa, e Bonafede ha accettato la proposta di acquistare l’appartamento di vicolo San Vito con il denaro consegnatogli direttamente dal capomafia, da lui utilizzato per l’emissione di un assegno circolare dal proprio conto corrente postale.

Tutto qui, secondo la versione del prestanome. Alla quale pm e giudice non hanno dato la minima affidabilità. Soprattutto per l’importanza che gli inquirenti attribuiscono al rifugio di un mafioso latitante.

 La regola sui «covi» La ricostruzione dell’indagato «non è minimamente credibile», scrive il gip nel suo provvedimento: «L’esperienza dell’arresto di tutti i più importanti latitanti di Cosa nostra insegna che i soggetti di vertice dell’organizzazione, per evidenti ragioni di sicurezza personale, tendono a escludere dalla conoscenza del “covo” persino la gran parte degli associati mafiosi, limitando piuttosto tale conoscenza a una cerchia più ristretta e più fedele di coassociati».

[…]

Un non mafioso, insomma, non può essere il custode di un segreto così importante come il rifugio di un capomafia. Ma Bonafede ha mentito anche perché la sua assistenza al padrino è cominciata molto prima di quanto da lui ammesso.

 Le ricette dal dottore Il capomafia s’è operato la prima volta con il suo alias già il 13 novembre 2020. Ma già il 27 luglio 2020 aveva comprato una Fiat 500L con lo stesso documento, intestandola alla madre di Bonafede; è la stessa auto ceduta in permuta a gennaio 2022 quando il boss ha deciso di sostituirla con la Giulietta nera ritrovata dalla polizia e ancora all’esame della Scientifica.

Il contributo del prestanome, definito dai pm «strategico per l’attività dell’associazione mafiosa», è proseguito con l’attivazione di un bancomat a disposizione del boss sul proprio conto corrente; e ancora nel contatto con Alfonso Tumbarello, il medico di Campobello al quale Bonafede ha confessato di avere chiesto alcune ricette per farmaci e prestazioni a suo nome ma necessarie a Messina Denaro.

Senza rivelargli chi fosse il vero paziente, ha detto lui ai pm, ma l’indagine a carico di Tumbarello è tuttora in corso per accertarne la consapevolezza di ciò che stava facendo.

 […] il prestanome ha pure il pedigree per essere scelto dal boss come custode di segreti: suo zio Leonardo […] è stato «reggente» della famiglia mafiosa di Campobello che ha sempre protetto la latitanza del boss. […]

Estratto dell'articolo da "la Repubblica" il 23 gennaio 2023.

In clinica medici, infermieri e pazienti lo conoscevano come Andrea Bonafede, a Campobello di Mazara, il paese in cui ha trascorso almeno tre dei trent’anni di latitanza, avrebbe usato però un altro nome di copertura. Matteo Messina Denaro, ex primula rossa di Cosa nostra arrestata lunedì dai carabinieri del Ros, non voleva rischiare d’essere scoperto.

 «Io lo conoscevo come Francesco», ha detto il suo autista Giovanni Luppino, finito in carcere con il boss. I carabinieri stanno cercando di approfondire. Eccolo, l’ultimo sviluppo dell’inchiesta sulla lunga fuga del padrino di Castelvetrano. [...]

Estratto dell'articolo di Giuseppe Legato per “la Stampa” il 23 gennaio 2023.

 Se fosse il titolo di un romanzo sarebbe "Uno, nessuno, centomila", ma era atteso che col passare dei giorni – e con l'incedere dell'indagine sulla cattura di Matteo Messina Denaro – si sarebbe aperto il capitolo di ulteriori alias dell'ex latitante che certo molto prima di utilizzare l'identità di Andrea Bonafede avrà sciorinato chissà quanti nomi e cognomi.

È dunque verosimile che in clinica medici e infermieri lo conoscessero come Andrea Bonafede, ma a Campobello di Mazara, il paese in cui ha trascorso almeno tre dei 29 anni di latitanza, avrebbe usato un'altra identità di copertura. E d'altronde per fare una vita quasi normale in un centro di 11 mila abitanti non poteva certo presentarsi con le stesse generalità del vero impiegato di 60 anni di un centro acquatico, che in paese conoscevano in tanti.

 Ha l'aria di essere la prima puntata di una lunga saga, ma intanto la posizione di Andrea Bonafede – quello vero – si complica ogni giorno di più. È un fatto che la Giulietta ritrovata sabato dalla polizia, acquistata in contanti da Messina Denaro, era stata fatta intestare alla mamma di Bonafede. C'è la loro conoscenza fin da bambini, la vicinanza delle due famiglie fin dai tempi del padre del latitante e dello zio del suo alias, entrambi mafiosi di rango uniti da battesimi, cresime e comparati.

[…] Indagato per favoreggiamento, procurata inosservanza della pena e – verosimilmente – per una serie di falsi (in concorso con Messina Denaro), tutti titoli di reato "appesantiti" dall'aggravante mafiosa, Bonafede rischia seriamente l'arresto.

E la luce resta accesa proprio su questo alloggio, dimora da almeno sei mesi di Messina Denaro nel quale il capo della mafia trapanese ha lasciato tracce dei suoi gusti letterari e non solo.

[…] tra le letture preferite dell'innominabile "Iddu", ci fosse "Les Fleurs du Mal", "I fiori del male" raccolte di poesie di Charles Baudelaire

[…] a un primo esame delle tracce lasciate da quei telefonini sequestrati al momento dell'arresto pare abbiano riscontrato come Messina Denaro, negli ultimi mesi, si sia mosso anche in altre province al netto di quelle di Trapani e Palermo. Evidentemente lo smartphone non è sempre stato in "modalità aereo".

Arrestato Andrea Bonafede, per aver ceduto la sua identità a Matteo Messina Denaro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Gennaio 2023.

Nel provvedimento che pubblichiamo nella sua versione integrale il gip ha accolto le considerazioni del Procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, dell'aggiunto Paolo Guido e del pm Piero Padova, viene disposto l'arresto smontando le bugie raccontate ai pm dal geometra di Campobello di Mazara, accusato non di favoreggiamento ma del più grave reato di "associazione mafiosa".

I carabinieri del Ros hanno arrestato con l’accusa di associazione mafiosa Andrea Bonafede, geometra di Campobello di Mazara che avrebbe prestato l’identità al boss Matteo Messina Denaro, su disposizione del presidente della sezione Gip del Tribunale di Palermo dr. Alfredo Montalto. L’arresto è stato effettuato a Tre Fontane, una località balneare del trapanese, in casa di una sorella. Secondo gli inquirenti sarebbe “Un uomo d’onore riservato” come scrive il Gip nella misura cautelare. “Si è in presenza, in sostanza, sia pure, in termini di gravità indiziaria di un’affiliazione verosimilmente riservata di Bonafede per volontà del Messina Denaro“, si legge nel provvedimento.

Andrea Bonafede (quello vero) ha 59 anni, è nipote dello storico capomafia Leonardo Bonafede, deceduto nel novembre del 2020 all’età di 88 anni. Proprio controllando le mosse del geometra oggi finito in manette i Carabinieri sono arrivati a scoprire il superlatitante: il suo nome era emerso da uno screening sui malati oncologici. Nel giorno di un intervento chirurgico a Palermo, il vero Andrea Bonafede si trovava a casa sua. E scattò il blitz del ROS dei Carabinieri che ha assicurato alla giustizia ed arrestato il boss mafioso Messina Denaro

Nel provvedimento che pubblichiamo nella sua versione integrale il gip ha accolto le considerazioni del Procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, dell’aggiunto Paolo Guido e del pm Piero Padova, viene disposto l’arresto smontando le bugie raccontate ai pm dal geometra di Campobello di Mazara, accusato non di favoreggiamento ma del più grave reato di “associazione mafiosa”.

Bonafede viene ritenuto uno dei “fiancheggiatori” più fedeli del boss Messina Denaro, l’uomo che, secondo i pm di Palermo, oltre a consegnare all’ex latitante la sua carta di identità, per consentirgli di utilizzare la propria carta di identità falsificata, e la tessera sanitaria necessaria per terapie e visite mediche, ha acquistato con i soldi del boss la casa di Campobello di Mazara in cui il capomafia ha trascorso l’ultimo periodo della latitanza., con 20mila euro in contanti ricevuti da Matteo Messina Denaro, somma che Bonafede aveva versato sul proprio conto corrente postale per poi chiedere l’emissione di un assegno circolare da utilizzare all’atto del rogito notarile. Grazie a questa operazione di “mascheramento” dell’operazione di acquisto immobiliare, l’ex latitante ha ottenuto la disponibilità di un appartamento intestato ad una persona che non faceva parte del proprio entourage più ristretto e quindi di un covo sicuro ed introvabile nelle ricerche delle forze dell’ ordine.

Bonafede tra ammissioni parziali e tentativi di sminuire il proprio ruolo e le sue responsabilità, ha confessato anche di aver persino ceduto al boss il bancomat da lui usato per le spese sostenute in latitanza: cene in ristoranti, acquisti di abiti griffati. E di averlo aiutato a comprare la Giulietta con cui si spostava abitualmente, indisturbato, per le vie di Campobello. La macchina, acquistata un anno fa personalmente dal “padrino”boss” in una concessionaria di Palermo, era stata formalmente intestata alla madre di Bonafede.

Il gip ha smontato anche la difesa del geometra Bonafede che aveva ammesso solo ciò che non aveva potuto negare, come l’acquisito dell’ abitazione, sostenendo di aver incontrato Messina Denaro solo alcuni pochi mesi fa. In realtà come si legge nel documento che il CORRIERE DEL GIORNO pubblica in esclusiva risulta che “L’acquisto della abitazione e la cessione di un documento di identità sul quale apporre la propria fotografia risalgono ad un periodo risalente almeno al 27 luglio 2020 (epoca di acquisto della prima autovettura) o comunque al 13 novembre 2020 (epoca del primo intervento subito da Messina Denaro sotto le mentite spoglie di Andrea Bonafede)” scrive il giudice per le indagini preliminari. L’ennesimo rivelazione dell’indagine conclude una giornata densa per gli investigatori che hanno proseguito le ricerche di bunker e stanze segrete nelle abitazioni del boss e di suoi favoreggiatori. Nell’ultima casa in cui Messina Denaro ha vissuto a Campobello di Mazara sono stati trovati anche vestiti femminili sicuramente lasciati da una donna con la quale il capomafia aveva una relazione stabile. La Procura indaga anche su questa pista per scoprire l’identità della donna. Redazione CdG 1947

Identità in prestito: in arresto Bonafede. "Un uomo d'onore dedicato a U Siccu". Il geometra in carcere con l'accusa di associazione mafiosa. Il gip: "Profilo di estrema rilevanza. Da oltre due anni logista del boss, Messina Denaro usò il suo nome già per l'intervento del 2020". Tiziana Paolocci il 24 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Sono ore frenetiche di interrogatori, perquisizioni e riscontri incrociati, quelle che contraddistinguono l'attività del Ros, chiamato a ricostruire i contatti e gli spostamenti di Matteo Messina Denaro.

A una settimana dalla cattura del boss, gli inquirenti si muovono velocemente, perché temono che i fiancheggiatori possano coprirne le tracce, tagliando quella ragnatela su cui potrebbero rimanere intrappolati altri personaggi. Ieri sono scattate le manette ai polsi di Andrea Bonafede, il geometra di Campobello che ha prestato l'identità a «U Siccu» già a partire dal primo intervento chirurgico del 13 novembre 2020, oltre alla tessera sanitaria. Il provvedimento per Bonafede, «uomo d'onore riservato» del capomafia, è stato disposto dal gip di Palermo Alfredo Montalto su richiesta del procuratore capo Maurizio de Lucia e il 59enne è stato arrestato a casa della sorella a Tre Fontane. «Per oltre due anni ha fornito a Messina Denaro ogni strumento necessario per svolgere le proprie funzioni direttive: identità riservata, un covo sicuro, mezzi di locomozione da utilizzare per spostarsi in piena autonomia - scrive il gip - Ha, in concreto, fornito un apporto di non certo secondaria importanza per le dinamiche criminose avendo così consentito al boss, non solo di mantenere la latitanza, ma soprattutto, anche mediante la sua presenza nel territorio, di continuare ad esercitare il ruolo direttivo dell'organizzazione mafiosa». Perquisita ieri sera anche l'abitazione del cugino, Emanuele Bonafede.

Sotto la lente d'ingrandimento dei carabinieri resta Campobello di Mazara, scelto dal padrino come rifugio negli ultimi tre anni. È caccia però con il georadar ad altri bunker. Passata al setaccio anche la casa di Antonio Luppino, figlio di Giovanni, l'insospettabile ma fedelissimo che lunedì scorso ha accompagnato in auto il capomafia nella clinica palermitana dove sono stati catturati. In un'area all'aperto adibita a parcheggio di sua proprietà, era nascosta l'Alfa Romeo Giulietta nera usata da Messina Denaro per i suoi spostamenti. Attualmente il figlio dell'autista è stato ascoltato solo come «persona informata sui fatti». «Non so se io e mio fratello siamo indagati, lo scoprirò nelle prossime ore», ha detto. Sull'arresto del padrino non ha voluto parlare: «Sto qua, non mi interesso mai di nessuno». Gli investigatori hanno già sentito il titolare della concessionaria di Palermo dove il superlatitante un anno fa comprò la macchina, che aveva già fatto diversi passaggi di proprietà. Il commerciante, viste le foto del capomafia, lo ha riconosciuto e ha rivelato che è stato il padrino ad acquistare la Giulietta personalmente, pagando 10 mila euro in modo «tracciabile». Dai documenti trovati nell'ultima casa abitata da Messina Denaro, in vicolo San Vito, via Cb31, a Campobello emerge che la macchina era stata intestata alla madre 87enne di Andrea Bonafede. Altra tegola che pesa sul geometra.

Nella stessa abitazione gli investigatori hanno trovato immagini e calamite, tazze e poster del film «Il Padrino», libri su Putin e Hitler. Nei suoi covi sarebbero stati sequestrati anche abiti femminili, che farebbero pensare che il boss avesse una relazione stabile con una donna. E c'è chi si spinge a ipotizzare che avesse un figlio, perché sul frigorifero c'erano attaccati magneti di «Masha e Orso». Ma si tratta allo stato di voci, non confermate dagli inquirenti, che cercano invece di svelare l'identità dell'amante di Messina Denaro. Ci sarebbero però altri nascondigli oltre a quello di via Cb31, di via San Giovanni e del bunker nella palazzina di via Maggiore Toselli, dove l'uomo si sarebbe eclissato. Tra questi l'unità operativa del Cnr a Capo Granitola, nel Trapanese. Una fonte confidenziale «degna di fede» aveva fatto presente ai carabinieri di sapere che il latitante era lì in zona. Ma la pista non era stata battuta abbastanza.

Le indagini sull'ex Primula rossa. Arresto Messina Denaro, sequestrata anche la casa della mamma dell’alias Bonafede. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Gennaio 2023

Il cerchio attorno a Matteo Messina Denaro continua a stringersi, in particolare rispetto alla possibile lista di fiancheggiatori dell’ex Primula Rossa di Cosa Nostra arrestato lunedì mattina dopo 30 anni di latitanza all’interno della clinica privata ‘La Maddalena’ di Palermo.

Questa mattina le forze dell’ordine hanno posto sotto sequestro la casa proprietà della mamma di Andrea Bonafede, il 59e geometra di Campobello di Mazara che ‘prestava’ la sua identità e la sua abitazione nel paesino di 11mila abitanti (acquistata coi soldi del boss) all’ultimo ‘Padrino’ della mafia siciliana.

La casa si trova all’angolo tra la via Marsala e la via Cusmano a Campobello di Mazara. L’appartamento al pian terreno ha due ingressi. Da tempo però la casa è disabitata: la madre di Bonafede infatti vive assieme ad una delle figlie in un appartamento di Tre Fontane.

Sequestro che arriva dopo le perquisizioni delle due abitazioni-covo del latitante. Il secondo, trovato a un chilometro circa dal primo, quella che sarebbe stata la “residenza ufficiale” di Messina Denaro quantomeno negli ultimi sei mesi, potrebbe esser stato il nascondiglio del boss.

Sono numerosi gli indizi che hanno portato gli investigatori alla scoperta del piccolo bunker di via Maggiore Toselli nascosto dietro il fondo scorrevole di un armadio. Lo screening dei dati catastali acquisiti dalle Fiamme Gialle ha aiutato nella scoperta del bunker a tutti gli effetti ricavato in un appartamento al piano terra di una palazzina di Campobello di Mazara.

All’interno però non sono stati trovati i “pizzini”, il “tesoro” del boss né tantomeno l’archivio di Totò Riina che Messina Denaro avrebbe ereditato con il compito di custodirlo. Invece la Guardia di Finanza ha trovato appunti e carte ancora da interpretare, gioielli e pietre apparentemente preziose, pezzi di argenteria, custodie vuote di gioielli e scatole anch’esse vuote. E qui il sospetto che quel luogo possa essere stato ripulito.

I sospetti su un ipotetico secondo covo sono nati da alcune intercettazioni e dalla notizia di possibili e ripetute visite nei mesi scorsi del boss in quella casa da poco ristrutturata. Così poco prima dell’ora di pranzo gli investigatori del Gico e del Ros sono arrivati a colpo sicuro nell’anonima palazzina a due piani tra i vicoli del paese, di proprietà del 70enne Errico Risalvato.

Indagato e poi assolto nel 2001 dall’accusa di associazione mafiosa, è fratello di Giovanni Risalvato, condannato a 14 anni per mafia e ora libero, imprenditore del calcestruzzo.

Quando finanzieri e carabinieri sono arrivati all’appartamento, Risalvato ha subito consegnato le chiavi della porta blindata trovata dietro l’anta scorrevole di un armadio. L’uomo ha sostenuto che si trattasse di un nascondiglio sicuro di beni della sua famiglia, nessun accenno a Messina Denaro.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Matteo Messina Denaro, l’ex compagna di Andrea Bonafede: «Non mi aveva detto nulla, l’ho lasciato appena ho saputo». Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

Rosa Leone si dice sconvolta dopo aver scoperto che il suo uomo «ha prestato» l'identità al boss Matteo Messina Denaro: «Le telecamere fuori casa nostra? Per i vandali»

Rosa Leone è sull’uscio di casa, ha sentito arrivare una macchina nella strada stretta, così d’istinto ha aperto la porta, forse pensava che fosse lui: Andrea Bonafede. Questa non è un’intervista, è lo sfogo di una donna che racconta di essere in frantumi, l’incontro con una persona incredula, spaventata, ancora sotto shock dal giorno dell’arresto di Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa nostra che lunedì a Palermo aveva in tasca la carta d’identità dell’uomo che era convinta di conoscere. «Mi è esplosa una bomba in casa», dice appena ci presentiamo. Lo ripeterà più volte.

Buongiorno signora, lei è la moglie del vero Andrea Bonafede?

«In realtà io sono la sua compagna da 11 anni, l’ex moglie si chiama Antonella Leone, abbiamo lo stesso cognome ma non siamo imparentate. Adesso però l’ho lasciato, ho chiuso con lui, non voglio saperne più niente».

Come, scusi?

«L’ho lasciato appena ho saputo, io non mi ero accorta di nulla, Andrea mi ha nascosto tutto».

Possibile che lei dopo 11 anni di vita insieme non ne sapesse nulla? E perché mai avrebbe dovuta tenerla all’oscuro? Per proteggerla, per non sconvolgerle la vita?

«Ah, perché adesso invece la nostra vita forse non è sconvolta? La nostra vita è distrutta, glielo dico io, ci è esplosa una bomba in casa, è tutto finito. Anche se io l’amo ancora tantissimo».

Comincia a piangere a singhiozzi. Un pianto disperato. Andrea Bonafede fino a ieri era l’uomo di cui si fidava ciecamente, che aveva presentato ai suoi genitori, ai suoi figli. Il loro album è pieno di ricordi: mille foto di viaggi, feste, compleanni. Ora cerca di trovare una spiegazione per tutto questo.

Almeno ha provato a chiarire con Bonafede, a parlarci?

«Sì, dopo essere stato interrogato per ore è venuto a casa, abbiamo parlato. E lui mi ha scongiurato, mi ha detto: “Scusa Rosa ma che dovevo fare? Iddu si è presentato da me e mi ha chiesto i documenti...”».

Ha detto se è stato minacciato da Messina Denaro?

«Non lo so questo, Andrea mi ha detto che loro due si conoscono da quando erano ragazzi. In fondo lo capisco, mi metto nei suoi panni: come faceva a dire di no a Matteo Messina Denaro? Credo che anch’io avrei fatto così se mi fosse capitato, anch’io per paura avrei ceduto a un boss di quel calibro la mia carta d’identità. Anzi, le dico di più...».

Prego.

«Tutti secondo me al suo posto l’avremmo fatto».

Non proprio tutti. E lei intanto ha scelto di non perdonarlo...

«Ho deciso così, non lo voglio più vedere, sono delusa, arrabbiata. Lui mi ha nascosto tutto!».

Anche di aver comprato una casa a nome suo ma con i soldi di Messina Denaro?

«Non mi ha mai detto niente di niente. Così adesso sono pure molto preoccupata. Gli inquirenti hanno sequestrato il telefonino anche a me! Ora mi aspetto interrogatori, l’assedio dei giornalisti, una vita d’inferno. Non ce la faccio proprio. La notte non dormo più, mi aiuto con i farmaci ma è durissima».

Ha messo anche quattro telecamere fuori...

«Ma non c’entrano gli ultimi fatti. Le telecamere ci sono da tempo. Subii un atto di vandalismo contro la porta di casa».

Parliamo di Bonafede.

«Lui è buono, gentile con tutti, un gran lavoratore. Piace molto anche ai miei due figli che ormai sono grandi ma lo considerano il loro papà».

Dove vi siete conosciuti?

«All’Acquasplash di Tre Fontane, io ero l’amministratrice del parco che purtroppo non ha più riaperto dopo la pandemia. Lui lavorava lì».

Era una specie di factotum, staccava i biglietti, puliva la piscina, riparava gli scivoli...

«Sì, Andrea aggiusta tutto. E undici anni fa ci siamo messi insieme, tra noi ci sono 15 anni di differenza».

Lui a ottobre prossimo compirà 60 anni.

«Infatti era una storia bellissima (Rosa ora piange di nuovo, ndr). Avremmo vissuto la nostra vecchiaia insieme…».

La compagna di Andrea Bonafede: "Tutti l'avremmo fatto al posto suo". Rosa Leona, ex compagna di Andrea Bonafede, geometra che ha donato la propria identità al boss Matteo Messina Denaro non condanna l'uomo e spiazza tutti con una frase qualunquista. Emanuele Fragasso il 21 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Nella piccola cittadina di Campobello di Mazara, in provincia di Trapani e a soli sette chilometri da Castelvetrano, luogo di nascita del boss Matteo Messina Denaro, in molti conoscevano la sua reale identità e favoreggiavano la sua latitanza, permettendogli di muoversi liberamente nel territorio e di vivere una vita quanto più possibile normale.

Si faceva chiamare Andrea Bonafede, un’identità sottratta a un geometra che il boss conosce da quando era piccolo. L’uomo, forse terrorizzato da una possibile vendetta dell’ultimo padrino ha acconsentito per anni a dargli la propria carta d’identità, a comprargli una casa dove poter abitare e a facilitargli la dura vita da latitante. Chi invece giura di non aver mai saputo nulla sulla vicenda è l’ormai ex compagna di Andrea Bonafede, Rosa Leone, che dopo aver scoperto il favoreggiamento dell’uomo ha finito la deciso di mettere una pietra sopra la relazione, lunga ben 11 anni.

Non condanna l'ex compagno

La donna, intervistata dal Corriere della Sera, ancora scossa per l’accaduto, non condanna l’ex compagno."Mi metto nei suoi panni: come faceva a dire di no a Matteo Messina Denaro? - si chiede la Leone - Credo che anch’io avrei fatto così se mi fosse capitato, anch’io per paura avrei ceduto a un boss di quel calibro la mia carta d’identità”.

"Lo amo ancora"

Il compagno - sostiene la donna - gli avrebbe sempre tenuto nascosto tutto, senza mai renderla partecipe del suo crimine. Una bugia che è costata all’uomo l’affetto della sua fidanzata, nonostante lei non nasconda di amarlo ancora."Mi è esplosa una bomba in casa - ha detto Rosa Leone al Corriere della Sera - io non mi ero accorta di nulla, Andrea mi ha nascosto tutto. La nostra vita è distrutta, è tutto finito. Anche se io l’amo ancora tantissimo”.

La frase shock della donna

Il signor Bonafede ha poi provato a far comprendere le proprie scelte alla donna, che ai microfoni del Corriere della Sera conclude con una frase qualunquista che ha scatenato molte polemiche: “Tutti secondo me al suo posto l’avremmo fatto”.

Secondo il racconto dell’ex fidanzata di Bonafede “Iddu” (Lui, rivolto a Matteo Messina Denaro) si sarebbe presentato dal geometra chiedendogli di prestargli la sua identità.

Alla donna è stato sequestrato il telefonino dalle forze dell’ordine, probabilmente nei prossimi giorni sarà interrogata anche lei. La signora Leone descrive l’ex compagno come un uomo buono, gentile con tutti e un gran lavoratore, che si è riuscito ad accaparrare anche le simpatie dei due figli della donna, che ormai lo consideravano il loro papà.

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini, Romina Marceca per “la Repubblica” il 19 gennaio 2023.

[…] « questa non è la storia di una fuga ma, piuttosto, quella di una sostituzione. È la più grande caccia degli ultimi trent' anni a un uomo che, però, non c'era. Semplicemente perché era diventato un altro. […] Matteo Messina Denaro potrebbe essere stato fermato a un posto di blocco e lasciato andare. Nei database risultano infatti un paio di controlli stradali a quell'Andrea Bonafede che nessuno saprà mai se era il boss o il bagnino.

[…] Messina Denaro aveva scelto il suo avatar non a caso.

Anzi. Doveva rispondere ad alcune caratteristiche precise. Era un signore della sua stessa età, in modo da non dare nell'occhio davanti ai medici o in eventuali controlli. Aveva una storia familiare giusta (era infatti nipote di un vecchio amico di Messina Denaro, capobastone locale) che gli assicurava silenzio. E bisogno di denaro. In più non c'era alcun affetto privato a cui dare spiegazioni, una volta a casa. Né intemperanze da fedina penale che avrebbero potuto fare accendere allarmi.

L'Avatar perfetto, appunto.

Si conoscevano appena. Si erano incrociati qualche volta da ragazzi, poi niente più. Ma questo non era importante. Importante era quello che "Iddu" conservava nella tasca: la carta di identità.

Ora è nelle mani del Ris ma a una prima analisi non sembra alterata. Questo può significare due cose: o la foto è stata sostituita da un professionista. O, invece, è stata emessa direttamente così grazie alla complicità di qualcuno all'interno dell'amministrazione. Certo è che la carta è stata rilasciata nel 2016 da un Comune dalla storia non esattamente trasparente. «L'amministrazione è stata sciolta per infiltrazioni e diverse indagini hanno documentato l'intreccio tra mafia, potere politico e massoneria» ricorda oggi uno degli investigatori.

[…] Interrogato dai carabinieri Bonafede, quello vero, ha mentito. Ha raccontato di aver dato il documento a Messina Denaro un anno fa circa, poche settimane prima dell'acquisto della casa dove il capomafia viveva. Le indagini però hanno documentato che l'aveva almeno dal 13 novembre 2020 quando si sottopose all'intervento chirurgico per il cancro al colon nell'ospedale di Mazara. Perché Bonafede mente? Per capirlo è cruciale sapere quello che "Andrea Bonafede" ha fatto in questi anni. Acquisti, viaggi, movimenti bancari.

A suo nome non risultano società. C'è invece almeno un conto corrente, acceso all'ufficio postale, quello dal quale è stato emesso il vaglia con cui è stata acquistata la casa. Il conto era alimentato da versamenti in contanti che Bonafede (quello vero) ha raccontato di ricevere volta per volta dal boss. Lui andava allo sportello e versava. Senza che nessuno, come invece probabilmente avrebbe dovuto, inviasse una segnalazione di operazione sospetta. Su quel conto era appoggiato anche un bancomat che Messina Denaro utilizzava con frequenza: per esempio pagava le colazioni al bar delle sue "compagne" di chemioterapia.

È possibile non fosse l'unica carta a disposizione del boss. A Bonafede erano intestate anche le schede telefoniche che Messina Denaro utilizzava senza discrezione (le sue amiche-pazienti avevano il numero). Con un'accortezza, però: ogni qual volta arrivava a Palermo spegneva i cellulari in modo da non dare alcuna indicazione. Il geometra Bonafede era uno che non si muoveva mai da Campobello.

Perché mai avrebbe dovuto andare a Palermo? E potrebbe essere stato anche questo eccesso di zelo a fregarlo. La prova che Bonafede non fosse Bonafede i carabinieri l'hanno avuta proprio grazie ai telefoni: il giorno in cui Messina Denaro era sotto i ferri a Palermo, il telefono del geometra Andrea era in provincia di Trapani. Com' era possibile?

[...]

Estratto dell’articolo di Riccardo Lo Verso per “Il Messaggero” il 18 gennaio 2023.

[…] Andrea Bonafede, l'uomo che al latitante ha prestato la propria identità. Ha fatto delle ammissioni ai magistrati. […]  Hanno vissuto fianco a fianco nelle piccole e grandi faccende quotidiane, nella salute e nella malattia. Significa che c'è molto di più della sola carta d'identità con le sue generalità da geometra con la quale il latitante ha fatto accesso in cliniche e ospedali per curarsi.

[…] messo alle strette dal procuratore Maurizio de Lucia e dell'aggiunto Paolo Guido della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, ha confessato di conoscere da tempo l'ormai ex latitante.  È vero, ha detto, la casa di vicolo San Vito è a lui intestata (fatto che non poteva negare), ma ha aggiunto una circostanza che complica la sua posizione. I soldi per comprarla glieli ha dati Matteo Messina Denaro. Sono circa 15 mila euro con cui lo scorso maggio, in concomitanza con il secondo intervento chirurgico eseguito alla clinica La Maddalena di Palermo, è stata perfezionata la compravendita. Questo conferma che il latitante ha comunque disponibilità di soldi in contanti.

[…] Basta scorrere i reati che gli vengono contestati per capire che non è stato un semplice uomo di fiducia. Oltre alla procurata inosservanza di pena pluriaggravata (e cioè la pioggia di ergastoli definitivi che macchiano in maniera indelebile la fedina penale di Messina Denaro), al geometra di 59 anni viene contestata l'associazione mafiosa.

 La sua conoscenza con Messina Denaro risale al periodo della giovinezza, ma è di recente che i loro rapporti si sono rinsaldati per fare uno scatto di qualità. La carta d'identità era valida per altri tre anni con scadenza il 23 ottobre del 2026. […]

 Nella casa di Campobello di Mazara è stato trovato uno scatolone con una sfilza di referti di esami specialistici e di laboratorio che non riguardano solo le gravi patologie epatiche per cui è stato prima operato e poi sottoposto alla chemioterapia. Ad esempio, ci sono i documenti per i suoi cronici problemi alla vista. Nessun medico si è accorto di nulla? Gli investigatori non ci credono, tanto che sarebbe già stato iscritto nel registro degli indagati un oncologo trapanese. […]

Il vero Bonafede confessa. La speranza delle toghe. "U Siccu può collaborare". Trent'anni di misteri. Matteo Messina Denaro era nebbia. Impalpabile, eppure c'era. Impartiva ordini, riorganizzava la Cupola dopo gli azzeramenti dei vertici dovuti alle operazioni antimafia dei carabinieri negli ultimi anni. Valentina Raffa il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Trent'anni di misteri. Matteo Messina Denaro era nebbia. Impalpabile, eppure c'era. Impartiva ordini, riorganizzava la Cupola dopo gli azzeramenti dei vertici dovuti alle operazioni antimafia dei carabinieri negli ultimi anni, aveva le mani in pasta in tutti i settori, dalla droga al commercio, alle energie rinnovabili ai finanziamenti pubblici. Sembrava ovunque, ma nessuno sapeva dove fosse. Tanti i fiancheggiatori, i prestanome, persino tra gli esponenti delle istituzioni, i boss e i gregari pronti a eseguire il suo volere. Eppure tutto era velato dal mistero. Ma adesso si inizia a far luce.

Comincia a dissiparsi la nebbia, e molto - si ritiene in ambienti investigativi - si otterrà dall'analisi del materiale acquisito ieri. Il primo a cantare è il vero Andrea Bonafede, 59 anni, colui che ha prestato, negli ultimi tempi, l'identità alla primula rossa arrestata martedì dai carabinieri del Ros, su coordinamento della procura di Palermo, nella clinica La Maddalena. Messina Denaro possedeva una carta di identità del prestanome. Il geometra indagato, con la prospettiva di una condanna severa, anche per procurata inosservanza di pena pluriaggravata, sta facendo ammissioni che potrebbero affievolire le eventuali esigenze cautelari. Ha dichiarato di conoscere l'ultimo stragista del '92 e '93 sin da quando erano ragazzi e ha ammesso di essersi prestato a comprare, con i soldi del capomafia, la casa a Campobello di Mazara, in cui Messina Denaro ha vissuto gli ultimi due anni. Un covo comodo perché nello stesso paese viveva il favoreggiatore Giovanni Luppino, l'autista arrestato a sua volta martedì mentre attendeva il boss per riportarlo a casa. Un appartamento nel centro della città «ben ristrutturato, che testimonia che le condizioni economiche del latitante erano buone. Arredamento ricercato, di un certo tenore, non di lusso ma di apprezzabile livello economico» ha detto il comandante provinciale carabinieri di Trapani, Fabio Bottino. Potrebbe non essere l'unico covo.

C'erano sneaker griffate, vestiti di lusso, orologi costosi, ricevute di ristoranti, un frigorifero pieno, Viagra e profilattici. E qui spunta la figura del medico, Alfonso Tumbarello, 70 anni, indagato. «Non sapevo nulla. Per me era il signor Bonafede» si è difeso davanti agli inquirenti, ma per loro c'è di più. Tumbarello per decenni è stato medico di base a Campobello di Mazara fino a dicembre 2021, quando è andato in pensione. Messina Denaro figurava tra i suoi pazienti come Andrea Bonafede. Tumbarello è stato sentito e i carabinieri hanno perquisito il suo ex studio medico e le abitazioni di Campobello di Mazara e Tre Fontane.

L'attenzione della procura è incentrata su tre filoni di inchiesta. «Il primo è la rete che ha consentito a Messina Denaro di vivere: ad esempio chi ne curava gli spostamenti spiega il procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia Ma anche le eventuali relazioni intrattenute. L'altro, partendo dal tenore di vita alto, riguarda il modo in cui è riuscito a finanziarsi: la provenienza del denaro, come ne veniva in possesso. Non c'è dubbio che esista il patrimonio ingente di cui si parla, ma come ne è venuto in possesso e come poteva attingere da esso. Infine c'è il profilo più complesso che riguarda, sulla scorta del materiale acquisito oggi, la ricostruzione del lungo periodo in cui non abbiamo tracce del suo passaggio. Sappiamo che ha vissuto gli ultimi due anni a Campobello di Mazara dice De Lucia C'è un ambiente che lo conosce e, in un certo senso, lo ha protetto. Ma ci sono 28 anni di buio. Chi lo ha protetto?». Poi il procuratore viene stuzzicato sulla possibile collaborazione del boss: ««Non speriamo in nulla, facciamo il nostro lavoro e vediamo che evoluzione avrà».

Sarà l'avvocato Lorenza Guttadauro, nipote di U Siccu e dello storico boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, il legale di Messina Denaro che domani nell'aula bunker di Caltanissetta è chiamato a rispondere delle stragi del '92, di Capaci e via D'Amelio. Per il primo degli appuntamenti del boss con la giustzia. Che - anche trent'anni dopo - ora gli presenta il conto.

Il geometra parla agli inquirenti. Il ‘vero’ Andrea Bonafede ammette: “Ho comprato la casa-covo di Messina Denaro con i suoi soldi, lo conosco da quando eravamo ragazzini”. Redazione su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Non avrebbe soltanto “prestato” la sua identità al boss Matteo Messina Denaro per consentire all’ex ‘Primula rossa’ di Cosa Nostra di sottoporsi a due operazioni e alle terapie.

Andrea Bonafede, il geometra di Campobello di Mazara indagato per associazione mafiosa e favoreggiamento aggravato, ha ammesso parlando ci i magistrati della DDA di Palermo che lo hanno sentito nelle scorse ore di aver comprato l’abitazione nel paesino della provincia di Trapani che il capo di Cosa Nostra ha utilizzato come covo nell’ultimo anno.

“Conosco Messina Denaro fin da quando eravamo ragazzini. La casa in cui viveva l’ho comprata io con i suoi soldi”, avrebbe detto infatti Bonafede agli inquirenti, col ‘padrino’ di Castelvetrano che gli avrebbe fatto avere 20mila euro per l’acquisto dell’abitazione.

Le ammissioni del 59enne geometra davanti ai magistrati e ai carabinieri del Ros potrebbero affievolire le eventuali esigenze cautelari. L’immobile nel pieno centro di Campobello di Mazara dove le forze dell’ordine hanno scoperto oggi il covo di MMD risulta infatti intestato proprio a lui.

Il sindaco del paesino, Giuseppe Castiglione, ha commentato con stupore, “grande amarezza e tanta incredulità”, la scoperta della latitanza del boss di Castelvetrano proprio nella sua piccola città.

“In mezzo alle tante persone perbene che oggi, come me, non potranno che sentirsi mortificate e sconfitte. Non abbiamo perso, però: oggi lo Stato ci ha dimostrato che la mafia si può e si deve sconfiggere”, ha detto Castiglione.

Quanto all’abitazione-covo di Messina Denaro, i carabinieri hanno trovato al suo interno, oltre a sneakers costose, profumi di lusso e occhiali Ray Ban, pillole per aumentare le prestazioni sessuali e profilattici. Da sempre amante delle belle donne e con una lunga collezione di fidanzate nonostante la vita ‘difficile’ di super latitante, anche nella piccola Campobello di Mazara MMD non avrebbe dunque rinunciato alla compagnia femminile, è il sospetto degli investigatori.

Sempre a Campobello di Mazara viveva anche il medico di base che prescriveva cure e farmaci al boss intestando le ricette ad Andrea Bonafede. Il medico Alfonso Tumbarello, ora in pensione e con un passato anche in politica, è attualmente indagato.

L’Oncologo.

Estratto dell'articolo di Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 18 gennaio 2023.

Sa di non avere molto tempo davanti a sé, Matteo Messina Denaro. Una «prognosi infausta» quella che i medici della clinica La Maddalena hanno dovuto comunicargli poco più di due mesi fa quando i controlli, dopo il previsto ciclo di chemioterapia, hanno rivelato l'estendersi del tumore al colon per il quale era stato operato, prima, all'ospedale di Mazara del Vallo, a novembre 2020, poi nel centro di eccellenza oncologico di Palermo.

 Quel giorno del novembre 2022 il paziente che tutti conoscevano come Andrea Bonafede accolse la notizia «con grande dignità», ricorda Vittorio Gebbia, direttore responsabile dell'Oncologia, dove il boss era seguito da un anno e mezzo.

Professor Gebbia, dunque Messina Denaro è consapevole delle proprie condizioni di salute. Come ha accolto la prognosi?

«[…] ha accolto la prognosi e le terapie con grande dignità».

 Mai nessun sospetto? A vederlo non sembra poi molto dissimile dagli ultimi identikit diffusi dagli investigatori.

«Ma scherza? A parte il fatto che noi medici non è che circoliamo con gli identikit dei latitanti in tasca, è facile dirlo ora dopo averlo visto in volto. Io lo avrò ricevuto nel mio studio due o tre volte e le assicuro che, tra le migliaia di pazienti che visito, questo non mi è mai balzato all'occhio per nessun motivo. Per noi era il signor Andrea Bonafede, tutti i documenti e le prescrizioni in regola, nessun motivo di sospetto. Semmai di inquietante c'è altro».

 Che cosa?

«L'intervista rilasciata da questo signor Baiardo (due mesi fa in tv ha ventilato la possibilità che il latitante si sarebbe consegnato perché gravemente malato, ndr ) pochissimi giorni dopo l'aggravarsi delle condizioni del paziente, una coincidenza temporale davvero inquietante considerata la riservatezza delle informazioni e - col senno di poi - la reale identità del signor Bonafede. Erano passati non più di tre, quattro giorni da quando - in seguito agli accertamenti diagnostici dopo un ciclo di chemioterapia - abbiamo rilevato un aggravamento del tumore che ci ha indotto a cambiare terapia e ha reso più severa la prognosi».

[…]

Dottore, quanto è grave Messina Denaro? Il procuratore aggiunto Paolo Guido ha detto di essersi trovato davanti un uomo in buona salute, è così?

«Le sue condizioni sono gravi, la malattia ha avuto un'accelerazione negli ultimi mesi. Non lo definirei un paziente in buone condizioni di salute. Sono certo che continuerà a ricevere tutte le cure di cui ha bisogno. I carabinieri mi hanno chiesto se posticipare di qualche giorni il ciclo di chemioterapia che avrebbe dovuto fare qui avrebbe avuto conseguenze e io ho firmato l'autorizzazione perché un ritardo così contenuto non avrà alcun effetto sul suo stato di salute».

"Nessun sospetto", dice il responsabile dell'oncologia. “Era molto gentile, chattava con tutte le mie amiche”, la malattia di Messina Denaro e la testimonianza di una paziente in cura col boss. Fabio Calcagni su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Un paziente come tanti che dietro la falsa carta d’identità nascondeva in realtà il più pericoloso tra i boss, il super latitante Matteo Messina Denaro. La cattura della ‘Primula rossa’ di Cosa Nostra nella clinica privata ‘La Maddalena’ di Palermo è stata accolta con stupore tra pazienti e medici della struttura sanitaria dove lunedì mattina il boss è stato arrestato in un blitz dei carabinieri del Ros.

Messina Denaro lo conoscevano in molti all’interno de ‘La Maddalena’, ovviamente col falso nome di Andrea Bonafede, l’alias utilizzato dal ‘capo dei capi’ per poter curarsi: come ormai noto, MMD era sottoposto a cicli di chemioterapia per le precedenti operazioni dovute ad un tumore al colon e per le metastasi al fegato.

A raccontare dei comportamenti in clinica di Matteo-Andrea è una paziente che, intervistata da Tv2000, spiega di aver condiviso col boss di Castelvetrano le sedute di chemioterapia.

La donna ha raccontato che il boss di Cosa Nostra frequentava la struttura ogni lunedì quando era sotto terapia: “Faceva la chemio con me ogni lunedì. Stavamo anche nella stessa stanza, era una persona gentile, molto gentile”.

Messina Denaro era addirittura ‘popolare’ tra le persone in cura nella struttura sanitaria, tra le più importanti del Mezzogiorno nelle cure oncologiche. “Ci sono anche mie amiche che hanno il suo numero di telefono. Lui mandava messaggi a tutti, fino alla mattina in cui lo hanno arrestato. Ha scambiato messaggi con una mia amica fino a questa mattina. Lei è ora sotto shock a casa”, spiega la donna in cura a ‘La Maddalena’.

Paziente che ora è ovviamente sconvolta per quanto emerso lunedì mattina, con l’arresto del boss e la scoperta della sua vera identità: “ Ho fatto la chemio con un boss, incredibile… ho fatto terapia da maggio a novembre. Abbiamo fatto la terapia insieme per tutta l’estate e lui veniva anche con la camicia a maniche lunghe”.

Stupore che si legge anche nelle parole di Vittorio Gebbia, responsabile dell’oncologia medica della clinica ‘La Maddalena’. Anche per lui, intervistato da Repubblica, il sanguinario boss di Cosa Nostra era un paziente come l’altro.

Gebbia allontana ogni sospetto su complicità o altro, in particolare in merito alla somiglianza tra il boss con gli ultimi identikit diffusi dagli investigatori. Per il responsabile dell’oncologia “è facile dirlo ora dopo averlo visto in volto. Io lo avrò ricevuto nel mio studio due o tre volte e le assicuro che, tra le migliaia di pazienti che visito, questo signor Andrea Bonafede non mi è mai balzato all’occhio per nessun motivo. Anzi, se mi avessero detto prima che si poteva trattare di Messina Denaro non ci avrei creduto”.

Il responsabile del reparto lo ricorda in realtà come “una persona del tutto ordinaria, il classico paziente della provincia siciliana, accento trapanese, come a migliaia ne arrivano da noi, certamente benestante ma anche lì di persone con orologi di grande valore al polso ne vediamo tante, mai arrogante, al massimo un po’ eccentrico nell’abbigliamento con quelle camicie vistose e costose come lui stesso ha raccontato ad alcuni miei collaboratori”.

Anche perché nessun dubbio era mai emerso sulla validità dei suoi documenti: “Per noi Matteo Messina Denaro era il signor Andrea Bonafede, tutti i documenti e le prescrizioni in regola, nessun motivo di sospetto”, spiega Gebbia.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket

L’autista agricoltore.

Estratto dell’articolo di Riccardo Arena per “la Stampa” il 20 Gennaio 2023.

[…] Gli inquirenti, coordinati dal procuratore Maurizio De Lucia e dall'aggiunto Paolo Guido, aspettano la decisione del Gip Fabio Pilato su Giovanni Luppino, l'autista, arrestato lunedì assieme a Messina Denaro alla clinica La Maddalena. Ieri Luppino ha risposto al giudice: «Me lo presentò Bonafede come suo cognato, mi disse che si chiamava Francesco», ha raccontato l'agricoltore e commerciante di olive.

Luppino dice che l'assai presunto cognato «domenica sera mi incontrò e mi disse che era malato, chiedendomi se lo potevo accompagnare a Palermo». Da buon samaritano, lui si era prestato e mal gliene incolse: «Vi pare che lo avrei fatto, se avessi avuto il sospetto che si trattasse di Messina Denaro?».

Al giudice, che deciderà stamattina, il pm Pierangelo Padova ha presentato una serie di atti e anche di valutazioni: «Una figura – si legge nella memoria depositata – che è letteralmente riuscita a trascorrere indisturbata circa 30 anni di latitanza, si è attorniata di figure inconsapevoli dei compiti svolti e dei connessi rischi? ».

Pizzini e coltello nella giacca dell'autista. II gip: "Un fedelissimo, custode di segreti". "È finita" gli avrebbe detto il boss all'arrivo dei carabinieri. Ma Luppino continua a negare: "Non sapevo chi fosse davvero". Maria Sorbi il 21 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Altro che un passaggio in macchina dato a Messina Denaro per la prima volta e «per cortesia». Altro che «non sapevo chi fosse». A quanto risulta ai pm di Palermo, Giovanni Luppino - l'autista che lunedì mattina ha accompagnato il boss latitante alla clinica La Maddalena - sarebbe «la persona più vicina allo storico capo della mafia trapanese su cui forze di polizia giudiziaria e magistratura siano riusciti ad oggi a mettere le mani».

Nella richiesta di convalida dell'arresto e di ordinanza di custodia cautelare di Luppino, 59enne, finora incensurato, viene chiaramente scritto che il commerciante di olive trapanese è un «collaboratore certamente fidato», perfettamente a conoscenza di chi fosse colui che si celava dietro l'identità di Andrea Bonafede. Anche perchè altrimenti è dura pensare che una persona si potesse alzare alle 5 del mattino per dare un passaggio a uno sconosciuto.

L'autista di un boss, affermano, è «necessariamente un soggetto di assoluta fiducia e inevitabilmente al corrente del delicato compito affidatogli». Soprattutto se si considera che Messina Denaro è riuscito a restare latitante per 30 anni, cosa che mai avrebbe potuto fare senza poter contare su una cerchia di alleati. Luppino ha quindi «contribuito, in senso materiale e causale, alla prosecuzione della latitanza: facendogli da accompagnatore personale ha certamente garantito» al boss «possibilità di spostamento in via riservata senza necessità di dover ricorrere a mezzi di locomozione direttamente condotti dallo stesso latitante o mezzi di locomozione pubblici o privati che potessero in qualche modo esporlo alla cattura».

Lunedì mattina, Luppino, vedendo i carabinieri avvicinarsi, avrebbe chiesto al capomafia se cercassero lui. «Si, è finita» avrebbe risposto Messina Denaro. A riferirlo al gip è lo stesso autista, sostenendo di essersi reso conto della vera identità del boss solo in quel momento.

Eppure ogni dettaglio stride con il suo racconto ed ora l'uomo è in carcere con l'accusa di favoreggiamento aggravato. Lasciarlo libero vorrebbe dire dargli la possibilità di far sparire chissà quali prove o documenti, a cominciare dai pizzini, alcuni dei quali nascosti nella tasca del suo giaccone al momento dell'arresto, assieme ad appunti e a una serie di numeri su cui gli investigatori avranno parecchio da lavorare. «Custodisce segreti» sono convinti gli inquirenti che vedono in lui un possibile testimone chiave. Non solo, Luppino aveva addosso anche un coltello a serramanico della lunghezza di 18,5 centimetri. E due cellulari, dettaglio che ha insospettito ulteriormente il gip: «Si segnala, al riguardo la particolare accortezza dimostrata da Luppino che ha posto i cellulari in modalità aerea prima di spegnerli, nell'evidente tentativo di innalzare al massimo il livello di cautela e riserbo onde evitare che gli apparecchi si agganciassero alle celle telefoniche di zona, così consentendo la mappatura dello spostamento».

Messina Denaro, l'autista e il coltello a serramanico: la scoperta. Libero Quotidiano il 20 gennaio 2023.

Non poteva non sapere l'autista che Andrea Bonafede in realtà era Matteo Messina Denaro. "Al di là di ogni considerazione logica, sono le risultanze investigative a fornire il dato decisivo, nella misura in cui il possesso del coltello e dei due cellulari, entrambi tenuti spenti e in modalità aereo, suggeriscono che il Luppino fosse talmente consapevole dell’identità del Messina Denaro da camminare armato e ricorrere a un contegno di massima sicurezza per evitare possibili tracciamenti telefonici", scrive il gip Fabio Pilato nell’ordinanza cui dispone la misura cautelare del carcere nei confronti di Giovanni Luppino, arrestato assieme al boss Matteo Messina Denaro, lunedi scorso alla clinica La Maddalena di Palermo, dove il boss alias Andrea Bonafede doveva sottoporsi a una seduta di chemioterapia.

Il coltello di Luppino era a serramanico e della lunghezza di 18,5 centimetri. "Si segnala, al riguardo - prosegue il Gip - la particolare accortezza dimostrata dal Luppino che ha posto i cellulari in modalità aerea prima di spegnerli, nell’evidente tentativo di innalzare al massimo il livello di cautela e riserbo onde evitare che gli apparecchi si agganciassero alle celle telefoniche di zona, così consentendo la mappatura dello spostamento".

Il concreto e attuale pericolo per l'acquisizione o la genuinità della prova nell’ambito di una indagine ancora in corso e il pericolo di fuga sono gli ulteriori motivi per cui il gip dispone la misura cautelare del carcere: "Nessun’altra misura all’infuori del carcere è dunque idonea a contenere le esigenze cautelari sopra rappresentate, ivi compresa la meno afflittiva degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico che lascerebbe comunque all’indagato uno spazio eccessivo di movimento", conclude.

Estratto dell'articolo da gds.it il 19 gennaio 2023.

«Non sapevo che fosse Matteo Messina Denaro, solo un pazzo avrebbe potuto accompagnarlo sapendo che si trattava del boss». Si è difeso così Giovanni Luppino, l’autista del super latitante arrestato lunedì scorso a Palermo mentre lo accompagnava alla clinica la Maddalena.

[...]

Luppino, 59 anni, commerciante di olive, ha sostenuto di non conoscere Messina Denaro, che gli era stato presentato come cognato di Andrea Bonafede,e di averlo accompagnato perchè doveva sottoporsi alla chemioterapia.

[…]

 Luppino è stato arrestato insieme al capomafia e risponde di favoreggiamento aggravato e procurata inosservanza della pena. [...]

L'autista Luppino: "Non sapevo fosse lui". Il gip: "Sodali da anni". La difesa del commerciante di olive non convince i magistrati. Sotto torchio anche il medico Tumbarello. Tiziana Paolocci il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Collaboratore, fiancheggiatore, persona di fiducia del boss. Per il gip Fabio Pilato non c'è dubbio che Giovanni Luppino, il commerciante di olive di Campobello di Mazara (Trapani), arrestato insieme a Matteo Messina Denaro fuori dalla clinica La Maddalena, sapesse bene chi stava accompagnando a fare la chemioterapia.

Non è possibile, infatti, che un padrino di Cosa Nostra si contorni di figure delle quali non si fida totalmente. Non lo avrebbe fatto nessuno, figuriamoci «U Siccu», che è riuscito a restare 30 anni latitante. Per queste ragioni ieri mattina il giudice, al termine dell'interrogatorio di garanzia nel carcere Pagliarelli di Palermo, ha convalidato l'arresto del 59enne accusato di favoreggiamento aggravato e procurata inosservanza della pena, riservandosi di decidere sulla misura cautelare. Luppino non è parente del boss omonimo, anzi sarebbe un volto nuovo per gli inquirenti, mai coinvolto in passato in operazioni antimafia. Difeso dall'avvocato Giuseppe Ferro, è comparso davanti ai pm della procura di Palermo, Pierangelo Padova e Alfredo Gagliardi e si è difeso. «Non sapevo che fosse Matteo Messina Denaro, solo un pazzo avrebbe potuto accompagnarlo sapendo che si trattava del boss - ha detto - mi era stato presentato come Francesco, cognato di Andrea Bonafede, il geometra al quale era intestata la falsa carta d'identità utilizzata dal super latitante».

Luppino ha raccontato di aver incontrato Bonafede, alias Matteo Messina Denaro, solo qualche mese fa e di averlo accompagnato lunedì scorso per la prima volta a Palermo, dove il boss doveva sottoporsi alla chemio, perché gli era stata chiesta questa cortesia a causa delle sue condizioni di salute. La difesa perciò si è opposta sostenendo, tra le altre cose, che il fatto non costituisce reato. Ma il giudice ha dato ragione ai pm della Dda di Palermo, che nella richiesta di convalida dell'arresto erano stati chiari. «Luppino ha certamente contribuito, in senso materiale e causale alla prosecuzione della latitanza di Messina Denaro, facendogli da autista e accompagnatore personale - scrivevano - ha certamente garantito a questi possibilità di spostamento in via riservata senza necessità di ricorrere a mezzi di locomozione direttamente condotti dallo stesso latitante o mezzi di locomozione pubblici o privati che potessero in qualche modo esporlo alla cattura». E ancora: «È un collaboratore certamente fidato di uno degli ultimi storici capi della stagione stragista e terroristico mafiosa dell'organizzazione Cosa nostra, fino ad oggi capace di mantenere l'anonimato e il suo stato di latitanza a fronte di centinaia di arresti di fiancheggiatori e decine di prossimi congiunti». E poi l'ultima stoccata. «Costituisce fatto notorio che l'autista di una figura di spicco di un'organizzazione mafiosa sia necessariamente soggetto di assoluta fiducia della persona accompagnata» si legge ancora. E c'è un altro dettaglio: Luppino aveva con se un coltello a serramanico con lama da 18,5 cm. «Lo porto sempre con me», ha detto al gip che chiedeva perché lo avesse anche in ospedale.

E ora tocca ad Alfonso Tumbarello, 70 anni, il medico di base di Campobello di Mazara in pensione, che ha avuto in cura sia il vero che il finto Andrea Bonafede. È indagato e potrebbe essere ascoltato nei prossimi giorni dall'Ordine di Trapani, dove è iscritto, perché rischia la radiazione. I carabinieri, che lo hanno interrogato, hanno perquisito le sue abitazioni di Campobello e Tre Fontane. «Il mio assistito è fiducioso nella magistratura e nelle forze dell'ordine affinché si accerti la verità - ha dichiarato ieri l'avvocato di fiducia Giuseppe Pantaleo -. L'atteggiamento del dottor Tumbarello non credo possa essere diverso da chi intende dare chiarimenti che può e che è in condizioni di dare».

Estratto dell’articolo di Alessia Candito per “la Repubblica” il 17 gennaio 2022.

 […] «Un signor nessuno», lo bolla il procuratore di Palermo, Maurizio de Lucia. Al secolo, Giovanni Luppino. Agricoltore, neanche mezzo ettaro di oliveti e una piccola azienda. Due figli, attivi nello stesso settore: a Campobello di Mazara hanno un centro per l'ammasso delle olive, con clientela per lo più campana. Castelvetrano, il regno di "Iddu", uno dei tanti soprannomi di Matteo Messina Denaro, è a un passo.

Ma con lui, con le famiglie di mafia trapanesi, inclusi quei Luppino negli anni divenuti noti alle cronache, non risulta che il cinquantanovenne, arrestato ieri insieme al boss, avesse rapporti. Com' è arrivato a fare da chaperon a Messina Denaro? Ci si sta lavorando e la speranza è che i cellulari che avevano addosso parlino.

  Lì ci sono rubriche di contatti, forse messaggi, dati di navigazione, che potrebbero aiutare a ricostruire una rete e dare un'identità a chi necessariamente deve aver lavorato alla grande fuga del boss. A partire da chi gli ha regalato l'identità di Andrea Bonafede. Quello che Matteo Messina Denaro usava non è una copia, è un documento vero emesso dal Comune di Campobello di Mazara nel 2016, con foto sostituita. Un rinnovo? Una sostituzione?

Il vero Bonafede, geometra e nipote di uomo di mafia, è stato sentito, ma avrebbe fatto scena muta. Involontariamente però a lui si deve un riscontro fondamentale: con una telefonata ieri mattina ha attivato una cella distante decine di chilometri dalla clinica La Maddalena. Traduzione: quello in fila non poteva essere lui e alla clinica è scattato il blitz. […]

Messina Denaro, chi è Giovanni Luppino: arrestato pure l'autista del boss. Il Tempo il 16 gennaio 2023

Giovanni Luppino, 59 anni, l’uomo arrestato oggi insieme con Matteo Messina Denaro per favoreggiamento era per gli investigatori un perfetto sconosciuto. Nessuna parentela con il boss omonimo Franco Luppino, come reso noto dal Procuratore aggiunto Paolo Guido. Fino ad oggi Luppino non era mai stato coinvolto in operazioni antimafia. È un agricoltore e da qualche anno si è dedicato alla coltivazione delle olive Nocellara del Belìce. “L’uomo che lo accompagnava è, come si dice, un perfetto sconosciuto se non per l’omonimia con un altro soggetto noto invece alle cronache, si chiama Giovanni Luppino e al momento è stato arrestato con l’accusa di favoreggiamento”, l’ulteriore chiarimento del procuratore della Repubblica di Palermo, Maurizio de Lucia.

A parlare è anche un conoscente di Luppino, l’autista di Messina Denaro: “Il boss avrà approfittato di Giovanni per il fatto che era incensurato. È sempre stato un grande lavoratore e ha avviato anche i figli in un’azienda agricola dal nome ‘Fratelli Luppino’. Non mi spiego perché si è andato a cacciare in questa situazione. È rimasto vedovo da qualche anno a questa parte, ha tre figli, due maschi e una femmina. In paese il suo soprannome è ‘lu mustusu’. Bisogna dire anche che a Campobello di Mazzara è difficile sdradicare l’humus mafioso”.

I Latitanti.

Le grandi operazioni che hanno "decapitato" la Mafia. La battaglia dell'Aspromonte, l'arresto di Riina, la cattura di Provenzano. L'operazione con cui è stato preso Matteo Messina Denaro è solo l'ultima di una serie di missioni compiute dai reparti delle Forze dell'Ordine. Andrea Muratore il 19 Gennaio 2023 su Il Giornale.

L'arresto di Matteo Messina Denaro, ultima grande "primula rossa" tra i boss corleonesi di Cosa Nostra, ha segnato nella giornata di lunedì 16 gennaio un capitolo importante della lotta alla Mafia. L'Operazione Tramonto, così intitolata dal nome di una poesia di Nadia Nencioni, bambina di nove anni uccisa nella strage fiorentina di Via dei Georgofili del 1993, è solo l'ultima di una lunga serie di azioni compiute da Polizia e Carabinieri per incastrare i boss più pericolosi e mettere così in ginocchio Cosa Nostra. Ma anche per colpire altre Mafie oggi ugualmente pericolose della Cosa Nostra degli anni d'oro dei Corleonesi.

Molto nota - giustamente - è l'attività d'indagine dei magistrati. Molti dei quali (tra tutti Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Rosario Livatino) hanno pagato con la vita l'azione decisa contro padrini e picciotti. Meno nota, e comprensibilmente meno pubblicizzata, l'attività di Carabinieri, reparti speciali e operatori delle forze dell'ordine per materializzare gli arresti.

L'arresto di Totò Riina: il capolavoro del Capitano Ultimo

Calogero, Stefano, Domenico e Raffaele Ganci e Francesco Paolo Anselmo: sono questi i nomi chiave per comprendere come il 15 gennaio 1993, trent'anni prima di Messina Denaro, siano scattate le manette per Totò Rina, detto "U Curtu", sanguinario padrino della mafia corleonese diventato "Capo dei Capi". Artefice della "Mattanza" della seconda guerra di Mafia prima (Anni Ottanta) e del sanguinario assalto allo Stato di inizio Anni Novanta poi, inizio della fine dello strapotere mafioso.

Al centro dell'azione contro Riina il Raggruppamento Operazioni Speciali (Ros) dei Carabinieri. Unico reparto della Benemerita con competenze anti-terrorismo e anti-criminalità organizzata. Operativo dal 1991, il Ros nacque dall'esperienza interforze del Nucleo speciale antiterrorismo creato a Torino nel 1974 dal generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa per contrastare il fenomeno del terrorismo e che produsse la vittoria dello Stato contro gli opposti estremismi. I Ganci e Anselmo furono pedinati giorno e notte, per mesi, dopo le stragi di Capaci e Via d'Amelio dagli uomini del Ros, comandati dal generale Mario Mori e diretti sul campo dal Capitano Sergio De Caprio, detto "Ultimo".

Nome in codice: Operazione Belva. Da settembre a dicembre 1992 il gruppo Crimor dei Ros militarizza Palermo, sfrutta tutti i poteri speciali per avvia un servizio di osservazione con riprese video e servizi di pedinamento sui componenti della famiglia Ganci, lacchè e sostenitori di Riina. Nei primi giorni di ottobre, Domenico Ganci, figlio di Raffaele, viene seguito per le vie del quartiere Uditore, mentre a Borgomanero Baldassare Di Maggio viene arrestato e collabora. Dalla ricerca attorno ai fiancheggiatori di Riina vengono costruite le mappe dei suoi spostamenti, delle sue abitudini, delle sue frequentazioni. Grazie alla collaborazione di Di Maggio, sulla base dei dati sugli spostamenti dei Ganci e di Anselmo i figli e la moglie di Riina sono individuati con chiarezza mentre escono dal complesso di via Bernini 54 a Palermo. Quanto basta per tessere la tela in cui, il 15 gennaio 1993, cadrà il Capo dei Capi. Arrestato direttamente da Ultimo su via Regione Siciliana, nel traffico del capoluogo siciliano.

La "battaglia dell'Aspromonte" contro Morabito, super-boss della 'ndrangheta

70 anni, dodici in latitanza, decine di omicidi e un curriculum criminale degno dei maggiori boss di Cosa Nostra alle spalle, Giuseppe Morabito è stato per anni inarrestabile nelle operazioni anti-'ndrangheta di Polizia e Carabinieri. Fino al 18 febbraio 2004, quando fu fermato in un'operazione congiunta dei carabinieri del Ros e del comando provinciale dell'Arma di Reggio Calabria in una frazione montana di Cardeto, un centro aspromontano roccaforte della mafia calabrese.

Anni di indagini, ricostruzioni e appostamenti avevano fatto del Ros gli occhi e le orecchie delle forze dell'ordine nella regione. La spessa coltre di nebbia della 'ndrangheta, che negli anni del declino di Cosa Nostra si trovava a ereditare il controllo sui traffici di eroina oltre Atlantico e ambiva a diventare la Mafia più potente d'Italia, era stata squarciata costruendo la mappa mentale della rete di Morabito.

L'operazione fu costruita con appostamenti e camuffamenti, per non dare nell'occhio. Morabito sembrava invisibile. Molti 'ndranghetisti di primo piano furono seguiti e non arrestati per arrivare diretti al vertice. Il 18 febbraio 2004 bastò seguire un uomo diretto al casolare di Morabito per far scattare le manette ai polsi del latitante, allora, più pericoloso d'Italia.

La caduta di Provenzano

Prima di Messina Denaro, l'ultmo arresto di un boss paragonabile a "Diabolik" era avvenuto l'11 marzo 2006, giorno della cattura di Bernardo Provenzano in una masseria di Corleone. Binnu U Tratturi, killer spietato e mente raffinata dell'assalto mafioso allo Stato, fu incarcerato dopo 43 anni di latitanza.

Ros e magistrati avevano braccato per anni Provenzano. Scoprirono come nel 2003 fosse uscito dall'Italia spacciandosi per un panettiere. E con il nome di quello si è fatto ricoverare in una clinica di Marsiglia, città chiave per lo spaccio di eroina e i legami globali della Mafia, in un viaggio di salute e affari dopo il quale tornò con un intervento alla prostata riuscito e numerosi affari conclusi.

Si spacciava per Gaspare Troia, padre di Salvatore, un picciotto "a disposizione" dei Corleonesi. Provenzano era un boss sfuggente, capace di assumere molte identità. Le ricerche furono delegate in questo caso ai poliziotti della Squadra mobile di Palermo guidati da Giuseppe Gualtieri, che operarono sul campo trovando i messaggi in codice con cui Provenzano comunicava. I famigerati "pizzini" divennero la pistola fumante con cui, anno dopo anno, corrieri e prestanome di Provenzano venivano ricercati. "A Corleone non è facile guardare senza essere visti", dichiarava spesso Gualtieri. Che infiltra uomini ovunque: panetterie, negozi, caffè del paese. La pistola fumante arriva da un carico di biancheria proveniente da Provenzano con annessi pizzini. Segno che un casolare da tempo tenuto sotto osservazione era l'abitazione del Boss erede di Riina. Quel giorno cadde il secondo Capo dei capi e iniziò il regno dell'ultimo padrino. Giunto al tramonto con l'operazione omonima di lunedì. L'ennesimo colpo alle mafie dei servitori dello Stato.

I più ricercati d'Italia. Liggio, Provenzano e Riina: storia delle latitanze più lunghe e di come sono finite. David Romoli su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

Oltre che i più sanguinari nella storia di Cosa Nostra i corleonesi sono stati anche i maestri insuperati della latitanza, prolungatasi per decenni anche se i capi dei “viddani”, come li chiamavano le sprezzanti famiglie dell’aristocrazia prima di finire sterminate, per lo più non si sono mai allontanati molto da casa. I boss della cosca figurano ininterrottamente nella lista dei più ricercati d’Italia sin dal 1948. Nel novembre di quell’anno Luciano Leggio, conosciuto come Liggio per un errore di trascrizione, avrebbe dovuto presentarsi in tribunale per essere spedito al confino. Era sospettato dell’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto, per conto del capomafia locale, il medico Michele Navarra. Non si fece vedere, entrò in latitanza e ci si rimase per 16 anni, anche dopo l’assoluzione per insufficienza di prove per quel delitto nel 1952. Lo ribattezzarono subito “la primula rossa”.

La latitanza non ha mai ostacolato i corleonesi nei loro affari. In quei 16 anni Leggio ebbe modo di mettersi in proprio, creare un paio di società, arrivare ai ferri corti con Navarra per la costruzione di una diga. Il medico provò a fare ammazzare Leggio nel giugno 1958. Non ci riuscì e a finire assassinato in un agguato fu invece lui, in agosto. La latitanza di quello che era diventato il padrone di Corleone finì il 14 maggio 1964. Lo trovarono nascosto nel posto più insospettabile, in casa di Leoluchina Sorisi, ex fidanzata proprio di Placido Rizzotto. Attilio Mangano, noto superpolizotto, riuscì ad attribuirsi senza gran fondamento il merito dell’arresto. In compenso lo stesso Mangano aveva davvero messo in manette, l’anno prima, il principale luogotenente di Leggio, Salvatore Riina, detto Totò. Di luogotenenti che gli diedero una mano nello sterminare i “navarriani” Leggio ne aveva altri due, destinati entrambi a campeggiare nella lista dei superlatitanti. Uno era Bernardo Provenzano, alla macchia dal 10 settembre 1963, accusato di aver eliminato alcuni rivali della fazione di Navarra. Quando lo presero, nel 2006, vantava un record insuperato: 43 anni latitante.

L’altro picciotto di Leggio a cui la polizia diede la caccia per decenni, Calogero Bagarella, fratello maggiore di Leoluca e della moglie di Riina Antonietta, latitante dal 1957, non avrebbe dovuto far parte della lista dei ricercati ma di quelli dei morti. Era stato ucciso nella strage di via Lazio del dicembre 1969, a Milano, quando killer di varie cosche travestiti da finanzieri regolarono i conti con Michele Cavataio, protagonista a inizio decennio della prima guerra di mafia. Il soprannome di “u’ tratturi” Binnu Provenzano se lo guadagnò quel giorno. Nella sparatoria ci rimise la pelle anche Bagarella ma i corleonesi si portarono via il cadavere e la polizia continuò a cercarlo fino al 1987, quanto il pentito Antonino Calderone vuotò il sacco. Leggio e Riina furono assolti nel 1969 e se andarono insieme a vivere a Bitonto. Entro la fine dell’anno sarebbero stati entrambi di nuovo latitanti. Leggio fu tradito cinque anni dopo da quattro bottiglie di Dom Perignon. Le trovarono nel nascondiglio in cui era tenuto prigioniero il sequestrato Luigi Rossi di Montelera e di lì arrivarono al nascondiglio milanese di Leggio con il sospetto, mai dimostrato, che a vendersi il capo fossero stati gli scalpitanti vice.

Riina rimase latitante per 33 anni e la sua sanguinosissima carriera in quei decenni è universalmente nota. Ignote, o almeno fortemente sospette, sono invece le circostanze del suo arresto. La mancata perquisizione della sua abitazione, la presunta scomparsa di documenti deflagranti da quell’appartamento ma anche il dubbio universale che a permettere la cattura di un boss dittatoriale, diventato scomodo sia per la intollerabile ferocia che per la caccia a tappeto che gli veniva data dopo gli omicidi Falcone e Borsellino, sia stato il suo compare di sempre, Binnu Provenzano. L’ex “tratturi” fu arrestato 13 anni dopo, l’11 aprile 2006, seguendo la pista dei suoi “pizzini”, i foglietti in calligrafia minuta a cui si affidava per comunicare con i suoi uomini. Col tempo l’ex “tratturi” era diventato più cauto e diplomatico, un moderato malato che forse scelse la resa. Di certo appena preso in un casolare a 2 km da Corleone si complimentò con i poliziotti, ci tenne a stringer loro la mano. La palma del più ricercato passò a Matteo Messina Denaro, in fuga dal 1993. Lo hanno catturato a trent’anni esatti dall’arresto di Riina. Se si tratta di una coincidenza è tra le più eloquenti. David Romoli

I nuovi super latitanti d'Italia. Dopo la cattura di Matteo Messina Denaro ecco chi sono i grandi ricercati e perché è così complicato catturarli. Linda Di Benedetto su Panorama il 17 Gennaio 2023.

Con l'arresto del boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, il numero dei latitanti italiani di massima pericolosità inseriti nell’elenco del Ministero dell’Interno è sceso a 4. Di loro ormai da anni si è persa traccia ma continuano le ricerche e si sospetta che almeno un paio siano morti già da tempo.

In cima alla lista del Ministero c’è il boss di Cosa Nostra Giovanni Motisi classe 1959 conosciuto come 'U Pacchiuni. Capo del clan Motisi, palermitano, è considerato il latitante più pericoloso e ricercato d'Italia dopo Matteo Messina Denaro. L'uomo, un tempo reggente del mandamento Pagliarelli, salì al potere prendendo il posto dello zio Matteo Motisi. Considerato il killer di fiducia di Totò Riina, Motisi è stato condannato all'ergastolo per l’omicidio del commissario Giuseppe Montana, ucciso a colpi di pistola il 28 luglio 1985 a Santa Flavia, alle porte di Palermo. Giovanni Motisi risulta a tutti gli effetti latitante dal 1998. Per gli inquirenti si sarebbe avvicinato all'ala moderata di Cosa nostra guidata da Bernardo Provenzano. Dal 1999 è ricercato anche a livello internazionale nel 2016 la sua figura venne inserita nella lista dei criminali più ricercati d'Europa e potrebbe aver preso il posto di Matteo Messina Denaro. A sparire nel nulla invece dal 1997 è Attilio Cubeddu nato ad Arzana nel 1947. L’uomo dopo un permesso, non fece ritorno alla Casa Circondariale di Nuoro, dove era detenuto per sequestro di persona, omicidio e lesioni gravissime. Cubeddu è uno dei membri storici dell'Anonima sequestri, coinvolto secondo le forze dell'ordine italiane nel sequestro di Ludovica Rangoni Machiavelli e Patrizia Bauer, due ragazze rapite a Bologna nel 1983. Cubeddu fu arrestato a Riccione nell'aprile del 1984 e condannato a 30 anni di carcere. Uscito nel gennaio del 1997 per un permesso premio Cubeddu avrebbe dovuto fare rientro in carcere il 7 febbraio di quell'anno, ma si diede alla latitanza e da quel momento non si sono più avute sue notizie. Dal 1998 è ricercato in campo internazionale, anche se all'epoca si fece strada l'ipotesi che fosse morto, forse ucciso da Giovanni Farina, un suo complice, per non dividere il denaro del riscatto per il sequestro Soffiantini. L’unico esponente della camorra ad essere presente nella lista dei latitanti italiani più ricercati è Renato Cinquegranella nato a Napoli nel 1949. Secondo gli inquirenti l'uomo avrebbe avuto un ruolo nell'omicidio di Giacomo Frattini, detto "Bambulella". Il suo corpo fu trovato avvolto in un lenzuolo nel bagagliaio di un'auto, mentre la testa, le mani e il cuore furono trovati chiusi in due sacchetti di plastica all'interno dell'auto. Il 21 gennaio 1982 Cinquegranella sarebbe stato coinvolto anche nel delitto del capo della Mobile Antonio Ammaturo e del suo autista Pasquale Paola, il 15 luglio 1982, per mano delle Brigate Rosse. Renato Cinquegranella è ricercato dal 2002 per associazione a delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi e estorsione ma solo nel 2018 si è deciso di diramare le ricerche in campo internazionale. Infine è stato recentemente inserito il presunto capo-società della 'ndrina calabrese di Sant'Onofrio e Stefanaconi Pasquale Bonavota, nato a Vibo Valentia il 10 gennaio 1974. La sua latitanza è iniziata il 28 novembre 2018, dopo che una importante operazione avviata alla fine del 2017 contro la 'ndrina dei Bonavota aveva permesso di ricostruire con precisione l'organigramma della cosca che aveva esponenti anche in Piemonte e Roma. Le loro attività comprendono l’estorsione, l’usura, il traffico di droga e il riciclaggio. La famiglia Bonavota ha controllato l’amministrazione comunale di Sant’Onofrio fino al 2009, quando è stato sciolto e commissariato per infiltrazione mafiosa, grazie a un’operazione di polizia che ha portato all’arresto del capobastone, cioè il mafioso a capo della famiglia, Domenico Bonavota. Pasquale Bonavota è ricercato per associazione di tipo mafioso e omicidio aggravato in concorso. «Questi latitanti a parte Giovanni Motisi, che oggi per me ha preso il posto di Messina Denaro e ricopre un ruolo fondamentale in seno alla commissione di Cosa Nostra, potrebbero essere dei personaggi mitologici» commenta il magistrato Alfonso Sabella, sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo Cosa intende? «Ovviamente è un mio pensiero perché non me ne sono occupato personalmente ma per farle capire cosa intendo le racconto una mia esperienza. Nel 1999 c’èra un certo Nino Parisi anche lui latitante morto ormai da tempo ed i mafiosi usavano il suo nome per addossarli i loro reati. Ecco qualche latitante di quelli che lei mi nomina potrebbe essere morto mentre ripeto Motisi oggi è il superboss. Pensi nel mio ufficio avevo il suo albero genealogico appeso perché tutti i membri della sua famiglia si chiamano o Giovanni o Matteo ed era difficile capire tutte le volte chi fossero». Perché la cattura di un boss a volte richiede molti anni? «Tutti i latitanti che sono stati presi dopo tanti anni erano soggetti scarsamente operativi sul territorio per questo è stato difficile trovarli, perché non lasciavano traccia del loro passaggio. Boss spariti per decenni dai radar come Messina Denaro che fino al 1996 non si è poi cercato così tanto. Messina denaro deve la sua notorietà a Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella». Sono stati usati strumenti adeguati per la ricerca dei latitanti? «Non sempre. La colpa della latitanza di alcuni soggetti prima delle stragi è da imputare allo Stato che non utilizzava gli strumenti e le norme adeguate per assicurare alla giustizia questi criminali. Dopo le stragi del 1993 tutto è cambiato e se Falcone e Borsellino avessero avuto gli strumenti di oggi molte cose sarebbero andate diversamente. Io sono rimasto a Palermo fino al 1999 e le assicuro che Provenzano ha avuto il controllo totale di Cosa Nostra mentre Messina Denaro ha fatto un passo indietro occupandosi solo del territorio di Trapani. Io ho arrestato Bagarella seguendo il suo autista, ma era un boss attivo e che aveva una sua strategia militare poi abbandonata da Provenzano che era il capo mentre Messina non era più nulla. Resta il fatto che il suo arresto è stata un’operazione straordinaria».

Simone Tagliaventi per ansa.it il 16 gennaio 2023.

Con l'arresto di Matteo Messina Denaro si assottiglia l'elenco dei latitanti di massima pericolosità facenti parte del "programma speciale di ricerca" del gruppo Interforze.

 Si tratta di Attilio Cubeddu (Cosa Nostra), nato il 2 marzo 1947 a Arzana (Nuoro) e ricercato dal 1997 per non aver fatto rientro, al termine di un permesso, nella Casa Circondariale di Badu è Carros (Nuoro), ove era ristretto, per sequestro di persona, omicidio e lesioni gravissime.

 Giovanni Motisi (Anonima Sequestri), nato il primo gennaio 1959 a Palermo, ricercato dal 1998 per omicidi, dal 2001 per associazione di tipo mafioso ed altro, dal 2002 per strage ed altro; deve scontare la pena dell'ergastolo; il 10 dicembre 1999 sono state diramate le ricerche in campo internazionale, per arresto ai fini estradizionali.

Renato Cinquegranella (Camorra), nato il 15 maggio 1949 a Napoli, ricercato dal 2002 per associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione ed altro; il 7 dicembre 2018 sono state diramate le ricerche in campo internazionale, per arresto ai fini estradizionali.

 Infine Pasquale Bonavota ('ndrangheta), nato il 10 gennaio 1974 a Vibo Valentia, ricercato dal 2018 per "associazione di tipo mafioso" e "omicidio aggravato in concorso".

Dopo Messina Denaro, ecco chi sono gli altri quattro super latitanti. Il Quotidiano del Sud il 16 Gennaio 2023

L’ultimo dei capi di mafia è caduto. A Palermo, il Ros ha arrestato Matteo Messina Denaro, latitante da 30 anni. Ma chi sono i latitanti a cui viene data la caccia? Sono criminali che hanno fatto perdere le loro tracce, quasi spariti nel nulla, nascosti sotto falsi nomi, coperti da rete di omertà dei propri sodali, dalla complicità di chi tace: sono cinque, dopo l’arresto del boss della ‘ndrangheta Rocco Morabito, arrivato oggi in Italia, estradato dal Brasile, i latitanti di “massima pericolosità” inseriti nella lista del Viminale, consultabile sul sito del Ministero.

A loro gli investigatori danno la caccia, seguendo ogni minimo indizio per stanarli dai loro covi. I latitanti rientrano nel “Programma speciale di ricerca selezionati dal Gruppo integrato interforze, il Giirl.

MATTEO MESSINA DENARO, detto ‘U siccu (il magro)

Il primo della lista, il più ricercato è Matteo Messina Denaro, boss della mafia. Di lui si sono perse le tracce nel 1993, anno dal quale è ricercato per associazione di tipo mafioso, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti. Dal ’94 su di lui pende un mandato di cattura internazionale. ‘U siccu’, il magro, è sparito nel ’93, agli anni delle bombe a Roma, Milano, Firenze. Figlio di Francesco Messina Denaro, a capo della cosca di Castelvetrano e del relativo mandamento, ha subito negli anni confische e sequestri, gli investigatori hanno provato a fargli intorno terra bruciata con numerosi arresti. Di lui, qualche tempo fa, è stata sentita la voce, comparso da un vecchio nastro processuale.

ATTILIO CUBEDDU

Nel 1997, approfittando di un permesso, non ha fatto rientro nel carcere di Badu e Carros, in provincia di Nuovo, dove era detenuto per sequestro di persona, omicidio e lesioni gravissime. Dall’anno successivo, contro di lui è stato spiccato un mandato di cattura internazionale. Cubeddu è un nome storico dell’Anonima sequestri. È stato il carceriere dell’imprenditore bresciano Giuseppe Soffiantini.

GIOVANNI MOTISI, detto ‘U pacchiuni (il grasso)

È ricercato dal 1998 per omicidi, dal 2001 per associazione di tipo mafioso ed altro, dal 2002 per strage. Deve scontare la pena dell’ergastolo. Dal 1999 su di lui pende un mandato di cattura internazionale. È il killer di fiducia di Totò Riina, secondo un collaboratore di giustizia presente anche quando si parlò per la prima volta di ammazzare il generale Alberto Dalla Chiesa. Nel 1999, durante la perquisizione della sua villa di Palermo, è stata ritrovata una fitta corrispondenza tra lui e la moglie Caterina, bigliettini recapitati da “postini” fidati assieme a vestiti e regali. La sua ultima apparizione è di quello stesso anno: partecipa alla festa di compleanno della figlia e viene fotografato. Ma alle pareti del posto in cui festeggiano sono affisse lenzuola bianche per impedirne il riconoscimento.

RENATO CINQUEGRANELLA

Boss della camorra, è latitante dal 2002. Cinquegranella è ricercato per associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione. Dal 2018 è ricercato in ambito internazionale. Cinquegranella era storicamente legato alla Nuova Famiglia, storica rivale della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. È implicato nell’omicidio di Giacomo Frattini, affiliato della Nco, torturato, ucciso e fatto a pezzi nel gennaio dell’82. Cinquegranella è coinvolto nell’omicidio di Antonio Ammaturo, capo della Squadra mobile, massacrato, nel luglio dell’82 da un commando delle Brigate rosse, davanti al portone della sua casa in piazza Nicola Amore, centro di Napoli, insieme con il suo autista, l’agente Pasqquale Paola. Quell’omicidio confermò un patto criminale tra camorra e Br.

PASQUALE BONAVOTA

Esponente di spicco della ‘ndrangheta locale di Sant’Onofrio, è ricercato dal 28 novembre 2018 per associazione di tipo mafioso e omicidio aggravato in concorso.

«Ecco chi è Pasquale Bonavota, uno dei 4 super latitanti d'Italia». Egidio Lorito su Panorama il 18 Gennaio 2023.

A colloquio con la dott.ssa Marisa Manzini, magistrato che ha già incontrato nel suo cammino il pericoloso criminale, ricercato

Nel nostro paese esiste un apposito elenco contenente tutti i nomi dei latitanti di massima pericolosità: si tratta cioè, a mente dell’art. 296 del Codice di procedura penale, di chi “volontariamente si sottrae alla custodia cautelare, agli arresti domiciliari, al divieto di espatrio all’obbligo di dimore o ad un ordine in cui si dispone la carcerazione”. Quest’elenco viene materialmente predisposto dal Gruppo integrato interforze per la ricerca dei latitanti, istituito presso la Direzione centrale della polizia criminale nell’ambito del Programma speciale di ricerca: è il criterio della maggiore pericolosità quello utilizzato per la relativa iscrizione. Gli estremi del latitante (fotografia segnaletica, indicativo nominale, precedenti giudiziari, anno di inizio della latitanza) corredano il curriculum della persona iscritta sin dal 1992, anno in cui la disciplina ha avuto inizio. In realtà, accanto alla lista principale con i trenta latitanti più pericolosi, ne esiste un’altra nella quale sono inseriti altri cento latitanti: una sorta di serie B, contenente quelli considerati meno pericolosi. Lo spirito della disciplina è anche quello di coinvolgere la società civile a farsi parte diligente e segnalare persone sospette o veri latitanti: infatti si legge che “l’iniziativa è volta a stimolare lo spirito di collaborazione della collettività con le Forze di Polizia nel settore della ricerca di pericolosi malviventi”. Si tratta, dunque, di latitanti caratterizzati dalla massima pericolosità e facenti capo ad ognuna delle tradizionali mafie italiane (anonima sarda, mafia, camorra e ‘ndrangheta), meritevoli, perciò, di essere inseriti nel Programma speciale di ricerca. Come detto la decisione di inserire un latitante in questo particolare elenco viene assunta dal Gruppo Integrato Interforze per la ricerca dei latitanti che risulta istituito presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza: la struttura ha il compito istituzionale di analizzare il complesso informativo fornito dalle forze dell’ordine (Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza) dalla Direzione investigativa antimafia, dall’Agenzia informazioni e sicurezza interna e da quella esterna e di valutare tutte le decisioni inerenti i latitanti in base al rispettivo profilo criminale. Proprio sul tema dei latitanti abbiamo sentito Marisa Manzini, sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Catanzaro, per anni magistrato inquirente alla Direzione distrettuale antimafia del capoluogo calabrese, che ben conosce il profilo criminale proprio del latitante Pasquale Bonavota, per averlo indagato.

Dottoressa Manzini, lei si è imbattuta in Pasquale Bonavota, oggi nell’elenco dei primi quattro latitanti più pericolosi.

«Ho conosciuto la cosca dei Bonavota appena fatto ingresso nella Distrettuale antimafia, allorquando la provincia divenne il centro di una sanguinosa faida tra le famiglie dei Bonavota di Sant’Onofrio e i Petrolo-Bartalotta di Stafanaconi, due piccoli comuni confinanti della provincia di Vibo Valentia: addirittura il secondo comune in quegli anni venne ribattezzato la “Corleone calabrese” per la violenza degli episodi, e il giovane Pasquale Bonavota, benché minorenne, era già parte attiva della cosca familiare tanto da essere destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per partecipazione ad associazione mafiosa».

Pasquale Bonavota era più che un bambino nel giorno della strage dell’Epifania.

«Il 6 gennaio del 1991 un commando aprì il fuoco all’impazzata nella piazza principale di Sant’Onofrio: pistole e kalasnikov fecero irruzione nella piazza antistante la chiesa di Maria Santissima delle Grazie lasciando a terra 2 morti e 11 feriti: tredici innocenti. Quest’episodio avrà sicuramente segnato l’infanzia del piccolo Pasquale, cresciuto poi in una famiglia chiamata a vendicare l’assalto al proprio territorio».

In quest’elenco compare al fianco di criminali incalliti: tra l’altro è il più giovane.

«Non ha ancora compiuto 50 anni: lo ricordo come una persona che assommava le due facce criminale: quella di ‘ndranghetista vecchia maniera, cresciuto all’interno di un clan che aveva fatto della dinamica violenta il leit motiv della propria vita, e quella del rampollo intenzionato ad estendere la propria presenza ben al di fuori dei limiti territoriali del suo comune. Le cronache lo rintracciano infatti a Carmagnola, nel torinese, dove il clan poteva contare su numerosi accoliti, e a Roma».

Nella capitale dicono che la ‘ndrangheta comandi il mercato della droga…

«E infatti Pasquale Bonavota investe, a Roma, ingenti quantitativi di denaro per acquistare numerose attività commerciali diventate, nel tempo, vere piazze di spaccio, aprendo anche la via all’interessante e lucroso affare dei videogiochi, al punto da risultare, dalle indagini, titolare di una società intenzionata a investire in questo mercato che era all’inizio dello sfruttamento criminale». Lei immaginava di ritrovarselo, anni dopo, in questo elenco? «Ricordo bene che ogni qualvolta ci siamo confrontati per motivi di giustizia, avesse sempre mantenuto un atteggiamento formalmente corretto (non ha mai dato in escandescenza nel corso degli interrogatori cui lo sottoposi): sicuramente si capiva che il suo crescente profilo criminale si fondava su un carisma molto marcato, ereditato sicuramente dal padre Vincenzo, ucciso nel 1997, e dalla circostanza di essersi trovato da bambino al centro di una guerra di ‘ndrangheta». Un profilo criminale montante, dunque… «Assolutamente, grazie ad una folta rete di contatti in tutt’Italia e, soprattutto, ai lasciti paterni, materiali e di conoscenze: a Roma, ad esempio, era sodale di un certo Angiolino Servello, suo conterraneo, che aveva stretto rapporti di con la famiglia dei Casamonica».

Matteo Messina Denaro si nascondeva a Palermo: Bonavota è in Calabria?

«La sua è una doppia latitanza: di recente gli si è anche sommato l’essersi sottratto al blitz “Rinascita Scott” del 19 dicembre 2019. Se partiamo dal presupposto che egli fosse già poco presente in Calabria, ne dovremmo dedurre che forse andrebbe ricercato altrove: certo, non possiamo dimenticare che nel vibonese è rimasta la sua famiglia, il suo legame di sangue che per la ‘ndrangheta è un valore indissolubile. Ma c’è un altro aspetto da ricordare». Quale? «Che a differenza degli altri tre dell’elenco in cui è inserito, per Pasquale Bonavota, ad oggi, le condanne più pesanti (ovvero all’ergastolo) non sono definitive. La Cassazione e la Corte d’appello hanno infatti annullato le sentenze di condanna a suo carico».

Marisa Manzini (Novara, 1962) è Sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Catanzaro: è stata procuratore aggiunto di Cosenza, sostituto procuratore presso la Procura distrettuale di Catanzaro e sostituto procuratore a Lamezia Terme. Si è occupata per diversi anni della criminalità organizzata presente sul circondario della Procura di Vibo Valentia. È specializzata in Criminologia clinica con indirizzo socio-psicologico; si è occupata della direzione del comitato scientifico nel corso di Alta Formazione sulle Politiche di contrasto alla mafia – Analisi delle mafie e delle strategie di contrasto organizzato dalla Fondazione dell’Università Magna Graecia di Catanzaro. Già consulente della Commissione parlamentare antimafia in Roma, ha pubblicato Fai silenzio ca parrasti assai (Rubbettino, 2018) e Donne custodi. Donne combattenti. La signoria della ‘ndrangheta su territori e persone (Rubbettino 2022).

Giovanni Motisi, Attilio Cubeddu e Renato Cinquegranella. Chi sono i cinque latitanti più ricercati d’Italia: da Messina Denaro a Graziano Mesina, ai sospetti di morte. Ciro Cuozzo su Il Riformista l’1 Ottobre 2021. In alto da sinistra Matteo Messina Denaro e Giovanni Motisi. In basso da sinistra: Renato Cinquegranella, Attilio Cubeddu e Graziano Mesina. Sono cinque i latitanti di massima pericolosità ricercati dalle forze dell’ordine italiane. Si tratta di due boss di Cosa Nostra (Matteo Messina Denaro e Giovanni Motisi), un camorrista (Renato Cinquegranella, Raffaele Imperiale è stato arrestato il 4 agosto 2021 a Dubai) e due responsabili di ‘gravi delitti’ (Attilio Cubeddu e Graziano Mesina), entrambi sardi che, pur non facendo parte di organizzazioni criminali di spicco, sono ricercati in quanto responsabili di delitti di particolare gravità ed efferatezza, tali da essere percepiti come soggetti socialmente pericolosi. E’ quanto emerge dall’ultimo report (17 agosto 2021) diffuso dal Ministero dell’Interno e redatto dalla direzione centrale della Criminalpol quale sintesi dell’attività svolta dal Gruppo integrato interforze per la ricerca dei latitanti (Giirl). Dal 2010 al 2020 sono stati assicurati alla giustizia 22 latitanti di massima pericolosità, di cui 17 arrestati in Italia, e 110 latitanti pericolosi, di cui 69 nel nostro paese. All’estero spiccano gli arresti nell’ultimo anno di due esponenti di spicco della ‘ndrangheta, Francesco Pelle (scovato in Portogallo lo scorso 29 marzo ed estradato in Italia a settembre) e Rocco Morabito (rintracciato in Brasile il 24 maggio), entrambi inseriti nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità ed in attesa di estradizione.Per quanto riguarda, invece, i latitanti pericolosi, l’elenco include, attualmente, 62 soggetti, di cui 18 affiliati alla ‘ndrangheta, 3 alla camorra, 4 alla criminalità pugliese, 2 a cosa nostra, 2 all’area dei sequestri di persona e 33 responsabili di ‘gravi delitti’. Ai latitanti di massima pericolosità, il sito web del Ministero dell’Interno dedica un’apposita sezione, pubblicandone le foto e una descrizione del profilo criminale. La finalità di tale iniziativa è duplice: da un lato, far conoscere i soggetti più pericolosi ricercati dallo Stato, dall’altro, stimolare lo “spirito di collaborazione” della collettività con le Forze dell’ordine nello svolgimento dell’attività di ricerca.

Matteo Messina Denaro e le leggende sulla sua latitanza

Le due ‘primule rosse‘ di Cosa Nostra figurano anche nell’elenco dei più ricercati a livello europeo. Il più popolare resta Messina Denaro, “u siccu”, “il magro”, letteralmente sparito nel nulla nel 1993, l’anno delle bombe a Milano, Firenze e Roma, dopo una vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano: è ricercato in campo internazionale per “associazione di tipo mafioso, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto ed altro”. Figlio di Francesco, capo della cosca di Castelvetrano (Trapani) e del relativo mandamento, nell’ultima tranche dei suoi 59 anni ha visto farsi “terra bruciata” intorno a colpi di arresti e sequestri di beni ma continua a restare imprendibile. Protagonista di un numero imprecisato di esecuzioni e tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo – rapito per costringere il padre Santino a ritrattare le rivelazioni sulla strage di Capaci e poi strangolato e sciolto nell’acido dopo 779 giorni di prigionia – Messina Denaro secondo molti inquirenti non sarebbe il capo di Cosa nostra ma sicuramente continua a rivestire un ruolo di assoluto rilievo: la rivista “Forbes” lo ha incluso tra i dieci latitanti più pericolosi del mondo.

Difficile distinguere il vero e il falso in quello che di Messina Denaro raccontano informatori e pentiti: che, beffando chi lo bracca da anni, vivrebbe in Sicilia, spostandosi di continuo; che si sarebbe sottoposto in Bulgaria (o in Piemonte) a una plastica ai polpastrelli e al viso; che avrebbe seri problemi agli occhi e ai reni, tanto da aver bisogno della dialisi; che godrebbe della protezione dalla ‘ndrangheta. Di volta in volta, c’è chi lo ha collocato sulle tribune del “Barbera” per un Palermo-Sampdoria, chi su una spiaggia greca, in vacanza con la compagna Maria, chi in una casa di Baden, in Germania. Ma l’unica certezza resta la sua irreperibilità dal 1993.

Giovanni Motisi e il sospetto che possa essere morto

Giovanni Motisi, “u pacchiuni”, “il grasso”, 59 anni, palermitano doc, ricercato dal ’98 per omicidio, dal 2001 per associazione di tipo mafioso e dal 2002 per strage. Ha l’ergastolo da scontare, il killer di fiducia di Totò Riina, secondo un collaboratore di giustizia presente anche quando si parlò per la prima volta di ammazzare il generale Dalla Chiesa. Nel ’99, durante la perquisizione della sua villa di Palermo, spunta una fitta corrispondenza tra lui e la moglie Caterina, bigliettini recapitati da ‘postini’ fidati assieme a vestiti e regali. Ed è dello stesso anno l’ultima ‘apparizione’ certa in Sicilia di “u pacchiuni”, alla festa di compleanno della figlia: nelle foto ritrovate diversi anni dopo risaltano le pareti coperte con lenzuola bianche per non far riconoscere il posto. Da allora, più niente tanto da alimentare il sospetto – ricorrente nelle grandi latitanze – che Motisi possa essere morto. Un’altra ipotesi è che abbia cercato, e trovato, riparo in Francia: l’esattore del racket Angelo Casano ha raccontato che nel 2002 Motisi “perse” la reggenza di Pagliarelli a vantaggio di Nino Rotolo e che per un paio d’anni si nascose nell’Agrigentino, “terra” di Giuseppe Falsone. Boss arrestato nel 2010 dalla Gendarmeria francese a Marsiglia

Renato Cinquegranella e il brutale omicidio

Elemento apicale della camorra, anche di Renato Cinquegranella, 72 anni, si sono praticamente perse le tracce dal 2002. Ricercato da quasi venti anni per associazione a delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione ed altro, originariamente legato alla “Nuova Famiglia”, storici rivali della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, di lui resta negli archivi una vecchia foto sgranata in bianco e nero, calvizie incipiente, occhiali, baffi neri e sguardo fisso nell’obiettivo. Un volto come tanti, eppure il suo nome compare nelle cronache giudiziarie di due dei delitti che più hanno scosso Napoli: l’omicidio di Giacomo Frattini, alius “Bambulella”, soldato della Nco, torturato, ucciso e fatto a pezzi nel gennaio dell’82 (un delitto efferato per vendicare l’omicidio in carcere di un fedelissimo dell’allora boss di Secondigliano, Aniello La Monica. Il corpo di Bambulella fu trovato avvolto in un lenzuolo nel bagagliaio di un’auto, mentre la testa, le mani e il cuore furono trovati chiusi in due sacchetti di plastica all’interno dell’auto) e il massacro del capo della Mobile Antonio Ammaturo e del suo autista, Pasquale Paola, ‘firmato’ nel luglio dello stesso anno dalle Brigate Rosse cui Cinquegranella diede supporto logistico. L’episodio confermò l’esistenza di un ‘patto scellerato’ tra le Br e i capi-zona della camorra del centro di Napoli. Dal dicembre 2018 sono state diramate le ricerche in campo internazionale, finora senza esito. “Fu già arrestato una volta ma approfittò di un permesso per evadere e da allora è irreperibile” ha sottolineato nel dicembre 2020 il procuratore di Napoli Giovanni Melillo.

Attilio Cubeddu e l’ipotesi che sia morto

Attilio Cubeddu, nome storico dell’Anonima sequestri sarda, nasce ad Arzana, in provincia di Nuoro, nel 1947 e dopo diversi reati commessi da giovanissimo si scopre una vocazione per i rapimenti: partecipa tra gli altri a quelli Rangoni Machiavelli, Bauer e Peruzzi, fino all’arresto del 1984 a Riccione. La condanna a 30 anni sembra l’inizio della fine, ma lui che è furbo e determinato si comporta da detenuto modello e riesce ad ottenere diversi permessi premio: da uno di questi, concessogli nel gennaio del 1997 a Badu ‘e Carros per vedere moglie e figlie, “dimentica” di rientrare. E’ da quei giorni che diventa praticamente un fantasma. Un fantasma che si materializza solo nei giorni del sequestro Soffiantini, di cui è implacabile carceriere (“il più cattivo di tutti”, secondo l’imprenditore bresciano) e che polizia e carabinieri cercano inutilmente ovunque: in Corsica, in Spagna, in Germania, in Sud America e, naturalmente, in Sardegna, dove secondo alcuni avrebbe trascorso gran parte della sua latitanza, protetto da un network di fiancheggiatori. Negli anni si è fatta strada l’ipotesi che in realtà sia morto, ucciso da un complice per una storia di soldi: ma nel dubbio, anche per lui la caccia resta aperta.

Graziano Mesina e l’ultima fuga

Altro sardo doc – di Orgosolo – è Graziano Mesina, per gli amici ‘Gratzianeddu‘, penultimo di undici figli e primatista di evasioni: ventidue, di cui 10 riuscite, alcune in modo romanzesco. Il suo ‘esordio’ criminale è precocissimo, denunciato a 14 anni per il possesso abusivo di un fucile, e il primo tentato omicidio arriva a 19 anni: ferisce a colpi di pistola, in un bar del suo paese – ma lui si dichiara estraneo – un pastore ‘rivale’ della sua famiglia guadagnandosi una condanna a 16 anni. Trasferito dal carcere di Nuoro a quello di Sassari per un altro processo, alla stazione di Macomer salta giù dal treno ma viene riacciuffato poco dopo. La fuga è solo rinviata: il 6 settembre scavalca una finestra e scende lungo un tubo dell’acqua dell’ospedale in cui era stato ricoverato e resta per tre mesi nascosto in montagna. E’ solo il primo di una lunga serie di dentro e fuori: gira le carceri di mezza Italia e da tutte o quasi in momenti diversi fugge o tenta la fuga. Nel ’92, durante il sequestro del piccolo Farouk Kassam, Gratzianeddu veste addirittura i panni del mediatore nel tentativo di trattare la liberazione. Nel 2004, ottenuta la grazia, lascia il carcere di Voghera e torna da uomo libero a Orgosolo dove si reinventa guida turistica ma meno di dieci anni dopo finisce di nuovo in manette, stavolta per droga. Il 2 luglio 2020 i carabinieri bussano alla sua porta per notificargli il verdetto con il quale la Cassazione ha respinto il suo ultimo ricorso ma non lo trovano: Mesina, a 79 anni, è di nuovo irreperibile.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Messina Denaro e gli altri super latitanti, chi sono i 6 imprendibili più ricercati d'Italia. Tra le primule rosse due camorristi, due mafiosi e due criminali dell'Anonima sequestri. Il loro identikit in un report del Viminale. La Repubblica il 17 agosto 2021. Sono sei. Pericolosi e probabilmente con i connotati completamente cambiati. Sono quelli “scomparsi nel nulla”, nonostante siano i più ricercati d’Italia. A braccarli da anni, polizia, carabinieri, antimafia, anticrimine, informatori, finanza, cani anti droga. Sui loro passi, a volte, persino gli agenti di pool internazionali. Ma nulla... Di due mafiosi, due camorristi e due criminali comuni, non c’è traccia. Volatilizzati da anni.  Chi sono?  Ce lo racconta il Viminale che ha reso pubblico il report, della direzione centrale della Polizia criminale, "Latitanti di massima pericolosità”. Si tratta di Matteo Messina Denaro, Giovanni Motisi, Renato Cinquegranella, Raffaele Imperiale, Attilio Cubeddu e Graziano Mesina.  Primule rosse inserite nella lista dei most wanted.

"U siccu", il super boss della Cupola. Senza dubbio, il più popolare, negativamente parlando, è Matteo Messina Denaro, conosciuto nel suo ambiente come "u siccu", "il magro", sparito nel nulla nel '93, quando scoppiarono le bombe a Milano, Firenze e Roma. Accusato di aver ucciso e sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, Messina Denaro, di cui è riapparsa da poco la voce in un vecchio nastro processuale, si è dato alla macchia dopo una vacanza a Forte dei Marmi con i fratelli Graviano. Lunghissima la lista dei suoi crimini: è ricercato anche all’estero per "associazione di tipo mafioso, omicidio, strage, devastazione, detenzione e porto di materie esplodenti, furto ed altro". Figlio di Francesco, capo della cosca di Castelvetrano e del relativo mandamento, nell'ultima tranche dei suoi 57 anni ha visto farsi "terra bruciata" intorno a colpi di arresti e sequestri di beni ma continua a restare imprendibile. La rivista "Forbes" lo ha incluso tra i dieci latitanti più pericolosi al mondo. Di lui si dice vivrebbe in Sicilia, beffando tutti. Ma anche che si sarebbe sottoposto in Bulgaria (o in Piemonte) a una plastica ai polpastrelli e al viso; che avrebbe seri problemi agli occhi e ai reni, tanto da aver bisogno della dialisi; che godrebbe della protezione dalla 'ndrangheta. Di volta in volta, c' è chi lo ha collocato sulle tribune del "Barbera" per un Palermo-Sampdoria, chi su una spiaggia greca, in vacanza con la compagna Maria, chi in una casa di Baden, in Germania.

"U pacchiuni", Il killer di Riina. Altro imprendibile (finora) è Giovanni Motisi, detto “u pacchiuni", "il grasso", 59 anni, palermitano doc, ricercato dal '98 per omicidio, dal 2001 per associazione di tipo mafioso e dal 2002 per strage. Ha l'ergastolo da scontare, il killer di fiducia di Toto' Riina, secondo un collaboratore di giustizia era presente anche quando si parlò per la prima volta di ammazzare il generale Dalla Chiesa. Nel '99, durante la perquisizione della sua villa di Palermo, spunta una fitta corrispondenza tra lui e la moglie Caterina, bigliettini recapitati da 'postini' fidati assieme a vestiti e regali. Ed è dello stesso anno l'ultima 'apparizione' certa in Sicilia di "u pacchiuni", alla festa di compleanno della figlia: nelle foto ritrovate diversi anni dopo risaltano le pareti coperte con lenzuola bianche per non far riconoscere il posto. Da allora, più niente o quasi tanto da alimentare il sospetto - ricorrente nelle grandi latitanze - che Motisi possa essere morto. Un'altra ipotesi è che abbia cercato, e trovato, riparo in Francia.

Il camorrista della Nuova famiglia. Boss della camorra, classe 1949, anche di Renato Cinquegranella si sono praticamente perse le tracce dal 2002. Ricercato per associazione a delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione ed altro, originariamente legato alla Nuova Famiglia, storica rivale della Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, di lui resta negli archivi una vecchia foto sgranata in bianco e nero, calvizie incipiente, occhiali, baffi neri e sguardo fisso nell'obiettivo. Un volto come tanti, eppure il suo nome compare nelle cronache giudiziarie di due dei delitti che piu' hanno scosso Napoli: l'omicidio di Giacomo Frattini, alius "Bambulella", soldato della Nco, torturato, ucciso e fatto a pezzi nel gennaio dell'82; e il massacro del capo della Mobile Antonio Ammaturo e del suo autista, Pasquale Paola, 'firmato' nel luglio dello stesso anno dalle Brigate Rosse. L'episodio confermò l'esistenza di un "patto scellerato" tra le Br e i capi-zona della camorra del centro di Napoli. Dal dicembre 2018 sono state diramate le ricerche in campo internazionale, finora senza esito.

Il broker della droga. Raffaele Imperiale, 46 anni, originario di Castellammare di Stabia, noto anche come "Rafael Empire", è invece ricercato per traffico internazionale di stupefacenti dal 2016 ed e' ritenuto uno dei piu' grandi broker mondiali della droga. Amante del lusso, cinque anni fa all'interno di una sua vecchia casa, in una intercapedine, vennero recuperati due van Gogh rubati in Olanda. Vittima da ragazzo di un tentativo di rapimento al quale riesce misteriosamente a sfuggire, eredita dal fratello maggiore un coffee shop ad Amsterdam e da qui inizia la sua carriera criminale, tessendo pazientemente contatti e alleanze con i narcos sudamericani e con il clan Amato-Pagano - destinato a diventare famoso come clan degli Scissionisti - che gli consentono di diventare uno dei maggiori fornitori di cocaina delle piazze di spaccio partenopee.

Il più cattivo dell'Anonima sequestri. Attilio Cubeddu, nome storico dell'Anonima sequestri sarda, nasce ad Arzana, in provincia di Nuoro, nel 1947 e dopo diversi reati commessi da giovanissimo si scopre una vocazione per i rapimenti: partecipa tra gli altri a quelli Rangoni Machiavelli, Bauer e Peruzzi, fino all'arresto del 1984 a Riccione. La condanna a 30 anni sembra l'inizio della fine, ma lui si comporta da detenuto modello e riesce ad ottenere diversi permessi premio: da uno di questi, nel gennaio del 1997 per vedere moglie e figlie, "dimentica" di rientrare. È da allora che si materializza solo nei giorni del sequestro Soffiantini, di cui è implacabile carceriere ("il più cattivo di tutti", secondo l'imprenditore bresciano) e che polizia e carabinieri cercano inutilmente ovunque: in Corsica, in Spagna, in Germania, in Sud America e, naturalmente, in Sardegna, dove secondo alcuni avrebbe trascorso gran parte della sua latitanza, protetto da un network di fiancheggiatori. Negli anni si è fatta strada l'ipotesi che in realtà sia morto, ucciso da un complice per una storia di soldi. Nel dubbio, anche per lui la caccia resta aperta.  

Le evasioni di "Gratzianeddu". Altro sardo doc - di Orgosolo - è Graziano Mesina, per gli amici "Gratzianeddu", penultimo di undici figli e primatista di evasioni: ventidue, di cui dieci riuscite, alcune in modo romanzesco. Il suo esordio criminale è precocissimo, denunciato a 14 anni per il possesso abusivo di un fucile, e il primo tentato omicidio arriva a 19 anni: ferisce a colpi di pistola, in un bar del suo paese - ma lui si dichiara estraneo - un pastore rivale della sua famiglia, guadagnandosi una condanna a 16 anni.

Trasferito dal carcere di Nuoro a quello di Sassari per un altro processo, alla stazione di Macomer salta giù dal treno ma viene riacciuffato poco dopo. La fuga è solo rinviata: il 6 settembre scavalca una finestra e scende lungo un tubo dell'acqua dell'ospedale in cui era stato ricoverato e resta per tre mesi nascosto in montagna. È solo il primo di una lunga serie di dentro e fuori: gira le carceri di mezza Italia e da tutte o quasi in momenti diversi fugge o tenta la fuga. Nel '92, durante il sequestro del piccolo Farouk Kassam, Gratzianeddu veste addirittura i panni del mediatore nel tentativo di trattare la liberazione. Nel 2004, ottenuta la grazia, lascia il carcere di Voghera e torna da uomo libero a Orgosolo dove si reiventa guida turistica ma meno di dieci anni dopo finisce di nuovo in manette, stavolta per droga. Il 2 luglio 2020 i carabinieri bussano alla sua porta per notificargli il verdetto con il quale la Cassazione ha respinto il suo ultimo ricorso ma non lo trovano: Mesina, a 79 anni, è di nuovo irreperibile

Il conto dei criminali arrestati. Dal 2010 al 2020 sono stati assicurati alla giustizia 22 latitanti di massima pericolosità (di cui 17 arrestati in Italia) e 110 latitanti pericolosi (di cui 69 in Italia). Tra i restanti, localizzati in Paesi europei ed extraeuropei, spiccano gli arresti nell'ultimo anno di due esponenti di rilievo della 'ndrangheta, Francesco Pelle e Rocco Morabito, entrambi inseriti nell'elenco dei latitanti di massima pericolosità.

Giovanni Motisi: l’altro super latitante mafioso è “invisibile” da 25 anni. Salvatore Maria Righi su L'Indipendente il 18 gennaio 2023.

Nella foto ricordo, ‘u pacchiuni ha un sorriso bonario e, come da soprannome, un bel faccione pieno. Alle spalle un mazzo di fiori recisi e lenzuola bianche appese ai muri, perché Giovanni Motisi “’u pacchiuni”, il grasso” nel dialetto siciliano, è proprio un fantasma. Aveva fatto mettere quei drappi alle pareti per renderle totalmente irriconoscibili, quando partecipò al compleanno della figlia in un villino di Palermo non lontano dal quartiere Uditore, dove è nato il primo gennaio 1959. Da allora, correva il 1998, nessuno l’ha più visto e ora che hanno preso il numero uno della lista, è proprio lui il secondo nome. Il pesce più grosso rimasto ancora libero, il latitante più pericoloso di Sicilia e probabilmente d’Italia. “Most wanted” da 25 anni, un quarto di secolo, ricercato dal 1999 anche in campo internazionale e segnalato da qualcuno in Francia, ad un certo punto, per l’amicizia con qualche boss siciliano esule da quelle parti. Dal 2016, l’Europol lo ha inserito tra i criminali più ricercati in Europa. Secondo Vincenzo Musacchio, criminologo forense e docente di strategie di lotta contro la criminalità organizzata al Riacs di Newark (Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies), oltre che amico e collaboratore di Antonino Caponnetto che guidò il pool antimafia con Falcone e Borsellino, potrebbe essere proprio lui a raccogliere l’eredità di Matteo Messina Denaro e diventare il nuovo boss dei boss.

Negli schedari del GIIRL, Gruppo integrato interforze per la ricerca dei latitanti più pericolosi, il suo fascicolo è in cima a tutti gli altri. Un curriculum di tutto rispetto, quello di Motisi che negli anni ’90 era un pezzo da novanta nella Palermo della guerra di mafia tra Corleonesi e il resto del mondo. Boss del mandamento di Pagliarelli che avrebbe tenuto in pugno fino a tempi molto recenti, secondo riscontri investigativi, dove ha preso il posto di Nino Rotolo, costretto ai domiciliari, ereditando il bastone del comando del clan dallo zio Matteo. Condannato nel 1998 per omicidio, tre anni dopo per associazione di stampo mafioso e nel 2002 per strage. Nel 1999, quando hanno perquisito la sua villa a Palermo, non lontana dal rifugio di Totò Riina e famiglia, hanno trovato dei “pizzini” scambiati con la moglie, Caterina Pecora, che riguardavano – evidentemente in codice – falegnami ed elettricisti impegnati in lavori nella loro abitazione. Secondo il pentito Calogero Ganci, Motisi faceva parte della “commissione” che ha discusso dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, poi ucciso con la moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta. Quel giorno, nel racconto dell’illustre collaboratore di giustizia, Giovanni Motisi era in compagnia di Antonino Madonia, Raffaele Ganci, Francesco Paolo Anzelmo, Giuseppe Giacomo Gambino, Pino Greco, Vincenzo Galatolo, Antonino Rotolo e Giuseppe Lucchese, un gotha di padrini e mafiosi di alto profilo.

Lui stesso è stato un killer di fama, il preferito da Totò Riina, secondo gli investigatori che poi lo hanno associato all’ala moderata di Cosa Nostra, quella guidata da Bernardo Provenzano. È stato condannato all’ergastolo per l’omicidio del commissario Beppe Montana, il 28 luglio 1985. Quando Palermo era diventata una specie di Beirut italiana, con una mattanza quasi quotidiana per le strade e nei bar. I corleonesi che sono scesi dalle montagne e hanno sterminato a colpi di canne mozze tutto il gotha dell’onorata società, la nobiltà mafiosa di Palermo compresi figli, nipoti e familiari. Quasi 1000 morti in poco più di due anni, fino al 1983, metà di loro ammazzati senza pietà e gli altri spariti per sempre, dopo sequestri finiti con torture e corpi sciolti nell’acido o fatti comunque sparire.

Motisi era già un giovane e promettente sicario agli ordini dei corleonesi, quando il giovane commissario Montana ebbe l’intuizione che ha cambiato la lotta alla mafia da parte dello Stato. Quella cioè di creare un gruppo di investigatori che a tempo pieno e non solo per riempire fogli e scartoffie, si dedicassero a dare la caccia ai mafiosi latitanti e a piede libero. Per togliergli la terra sotto ai piedi e levarli dal contesto in cui, pur se nascosti e irreperibili, continuavano indisturbati i propri affari, dettavano legge e impartivano ordini ai propri sottoposti, all’esercito di soldati sparsi sul territorio. La sezione “catturandi” che il commissario Montana ha costruito e guidato fino a quando non è stato crivellato di colpi, a spararli anche Giovanni Motisi, ha portato in carcere decine di mafiosi, scoprendo i loro covi e i loro arsenali. Montana ha lavorato al fianco di Ninni Cassarà, il vice questore massacrato qualche giorno dopo di lui (6 agosto 1985), e col pool di Falcone e Borsellino. Buona parte dei 475 imputati per il maxi processo all’Ucciardone furono catturati proprio da Montana e dai suoi uomini che hanno dato un grande contributo anche al famoso “rapporto dei 162”, una mappa minuziosa e accurata del potere mafioso aggiornato alla guerra che ha portato al trionfo dei corleonesi e alla presa di Palermo, cambiando gli assetti e la gerarchia di Cosa Nostra.  

Nonostante questo, la “catturandi” di Montana era una squadra messa in piedi con pochissimi mezzi e ancora meno riscontri nella struttura di polizia che lo Stato utilizzava per combattere la criminalità organizzata. Montana e Cassarà guidavano un pugno di uomini che doveva inventarsi di tutto per infiltrarsi nel territorio e dare la caccia ai latitanti. Si facevano prestare le auto da amici o dalle fidanzate, perché quelle di servizio erano sfasciate o già conosciute. Facevano collette tra di loro per pagarsi l’affitto degli appartamenti nei quali effettuare appostamenti o indagini, trovavano il necessario in modo fortunoso, come un cannocchiale prestato da un ottico o una parrucca rimediata da un’amica. Andavano alle feste di paese per rimorchiare ragazze e attraverso di loro cercare di avere informazioni sul territorio e sui padrini a cui davano la caccia.

Le immagini dell’arresto di Matteo Messina Denaro e del suo fiancheggiatore, inseguito dai telefonini cellulari delle persone, in un via vai di mezzi e uomini degno di un’operazione di guerra, con ampio spiegamento di risorse e tecnologia, misurano in modo netto i 40 anni che sono passati dai pionieri della lotta alla mafia: la “catturandi” del commissario Montana, nella pneumatica assenza dello Stato alla voce mezzi e risorse, si inventava ogni giorno il proprio mestiere di segugi antimafia e per questo, proprio per questo, la mafia decise di toglierlo di mezzo. Lo fecero un giorno d’estate, alla vigilia delle sue ferie, quando era al mare a Porticello in compagnia della fidanzata, del fratello e di amici. Un commando di sicari lo affrontò armi in pugno mentre era impegnato a sistemare la propria barca e lo freddarono senza pietà, avevano già pronti tre piani per ucciderlo perché Beppe Montana doveva essere tolto di mezzo a qualsiasi costo: uno dei killer era proprio Giovanni Motisi. Un giovane e spietato killer mandato dalla cupola dei corleonesi, di cui era già un fidato braccio armato destinato poi a diventare un potente boss. E poi, da 25 anni, un fantasma. Il nuovo padrino di Palermo, forse. [di Salvatore Maria Righi]

Il Dopo.

Come cambiano gli equilibri di Cosa Nostra dopo la morte di Messina Denaro. Stefano Baudino su L'Indipendente martedì 26 settembre 2023.

La notizia della morte di Matteo Messina Denaro è rimbalzata sui network televisivi e giornalistici di tutto il mondo. Il boss, reduce da trent’anni di latitanza e da un arresto facilitato dalle sue precarie condizioni di salute, è stato uno dei simboli indiscussi dello stragismo mafioso degli anni Novanta, che ha trovato nella fazione capeggiata da Totò Riina il suo fulcro. Ma c’è una grande bugia che continua ad essere proposta a caratteri cubitali sulle prime pagine dei giornali e nei servizi tv, forse per rendere ancora più altisonanti i continui aggiornamenti sulla dipartita di “Diabolik”: il fatto che il padrino di Castelvetrano fosse il capo indiscusso di Cosa Nostra. Un dato smentito dalla cronaca e dalle risultanze investigative degli ultimi anni, che delineano una mafia ben diversa da come viene mediaticamente rappresentata.

Quel che è certo è che Matteo Messina Denaro, anche in latitanza, ha regnato sulla provincia di Trapani grazie alla sua autorevolezza e intelligenza criminale, ma anche alla sua innata capacità di tessere relazioni strategiche con gli ambienti della politica, dell’alta imprenditoria e della massoneria coperta. È vero, “U Siccu” è stato il pupillo del capo di Cosa Nostra Totò Riina e un fiero sostenitore della campagna stragista del 1992-1993, curando peraltro in prima persona l’organizzazione delle stragi “continentali”, ed è stato fino alla fine dei suoi giorni uno dei principali custodi dei segreti su quella stagione, attraversata dalle ombre sulla complicità tra la mafia e apparati deviati dello Stato.

Eppure, dopo gli arresti dei capi corleonesi, Matteo Messina Denaro ha deciso di occuparsi precipuamente della sua area territoriale di competenza, gestendo la sua fiorente attività criminale nell’ottica della “sommersione” di marca provenzaniana. «Questo che fa il latitante che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce, ci farebbe più figura – lo attaccava Riina dal carcere milanese di Opera nel 2013, riferendosi agli enormi interessi di “MMD” nel business dell’eolico, in occasione di una chiacchiera con il suo compagno di ora d’aria – questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi ma non si interessa…». Proprio la parabola discendente di Riina e quella del suo successore Provenzano hanno di fatto sancito la fine del dominio dello schieramento corleonese, di cui Messina Denaro rappresentava uno dei principali elementi, sulla Commissione mafiosa.

La figura di “U Siccu”, infatti, è stata oltremodo mitizzata dai media, che continuano a dipingerlo come il numero uno di Cosa Nostra. Una vera e propria fake news. In seguito alla morte di Salvatore Riina, spirato nel carcere di Parma nel novembre 2017, la Cupola mafiosa si è infatti riorganizzata in ottica “palermocentrica”. Prova ne è il massiccio ritorno in Sicilia degli “scappati”, ovvero dei superstiti dei clan palermitani legati al duo Bontate-Inzerillo – distrutto dalla forza militare dei corleonesi nella Seconda guerra di mafia – avvenuto nell’ultimo decennio. Dopo la “mattanza” dei primi anni Ottanta, essi furono infatti messi al bando dalla Commissione provinciale di Cosa Nostra e cercarono protezione negli Stati Uniti, sotto l’ala della famiglia Gambino. Ma il diktat di Riina è ufficialmente scaduto da tempo.

Vi è però un indicatore ancora più pregnante della mancata salita al potere di “Diabolik” su tutta Cosa Nostra. Nel maggio 2018, dopo la dipartita di Totò Riina, i capimandamento avevano infatti ricostituito la Cupola ed eletto il nuovo capo dell’organizzazione: il gioielliere palermitano Settimo Mineo. Grazie alle intercettazioni ambientali, tra il dicembre 2018 e il gennaio 2019 le forze dell’ordine hanno provveduto ad arrestare i protagonisti di questo storico passaggio, assicurando alla giustizia una cinquantina di “uomini d’onore” tra vecchi boss e rampolli e decimando la Commissione. «I clan palermitani non accetterebbero mai di farsi guidare da un non palermitano, a cominciare da un trapanese», ha recentemente ribadito il Procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia.

E proprio qui sta l’essenza della mutazione della fisionomia di Cosa Nostra. Palermo e i palermitani ritornano, come da tradizione, al centro dello spaccato criminale della mafia, mentre la nuova frattura si concretizza tra il potere dei vecchi boss (anche e soprattutto quelli scarcerati dopo anni di galera, che spesso fanno le veci degli “stragisti” al 41-bis) e le nuove leve, che in tasca, oltre al revolver, tengono magari l’ultimo iPhone. “In Cosa Nostra palermitana, come in quelle attive nelle province occidentali e orientali della Sicilia, la prolungata assenza al vertice di una autorevole e riconosciuta leadership starebbe favorendo l’affermazione a capo di mandamenti e famiglie di nuovi esponenti che vantano un’origine familiare mafiosa – ha scritto la Dia all’interno della sua ultima relazione –. Non mancherebbero, tuttavia, i tentativi da parte di anziani uomini d’onore, recentemente ritornati in libertà, di riaccreditarsi all’interno dei sodalizi di appartenenza”.

Coesistendo sul territorio insieme ad “altre organizzazioni mafiose sia autoctone, sia straniere”, in ragione “di un’ampia varietà di rapporti e di mutevoli equilibri”, secondo gli inquirenti Cosa Nostra continua tener fede alla “strategia della sommersione” al fine di “evitare allarme sociale”, continuando a giocare un ruolo importante nel traffico di stupefacenti, nelle estorsioni, nell’infiltrazione della Pa e nell’economia legale, nonché nel gioco e nelle scommesse online. Insomma, Cosa Nostra “orizzontalizza” sempre di più i suoi rapporti, divenendo sempre più fluida e cercando nuove opportunità di crescita senza ricorrere allo scontro frontale con le autorità.

«Proprio la cattura di Matteo Messina Denaro dimostra che Cosa Nostra esiste ancora e, superata la frattura fra corleonesi e perdenti, prosegue nei suoi traffici attraverso la strategia della sommersione che ha consentito al latitante più ricercato dell’organizzazione di farsi curare in una clinica di Palermo per un lungo periodo, come negli anni Ottanta, allorché le reti di protezione e l’omertà, ben miscelate, consentivano ad altri mafiosi latitanti di girare indisturbati per le vie della città – ha spiegato il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Palermo, Lia Sava -. È stata clonata l’espressione: “camaleonte resiliente”, una mafia che sa mimetizzarsi. Preferisco un’altra espressione: mafia liquida, capace di passare attraverso i differenti stati della fisica. A volte è allo stato gassoso e la respiriamo in certi contesti ambigui, dove è difficile toccarla ma se ne avverte l’olezzo della compiacenza e dell’ammiccamento».

Nessun trionfalismo o respiro di sollievo, dunque, dopo la morte di Matteo Messina Denaro. La mafia siciliana, pur tra mille difficoltà, dopo due secoli di storia è ancora lì, pronta a rigenerarsi per l’ennesima volta. [di Stefano Baudino]

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” martedì 26 settembre 2023.

E adesso che succederà dentro Cosa nostra? Chi prenderà in mano lo scettro del capomafia più rappresentativo e carismatico? C’è qualcuno in grado di raccogliere l’eredità di Matteo Messina Denaro? E chi continuerà a gestirne il patrimonio ancora nascosto?

[…] 

Parliamo di due eredità — quella mafiosa e quella economica — non necessariamente coincidenti. Sulle quali i primi a interrogarsi sono inquirenti e investigatori, forti di conoscenze ancora confinate dal segreto di indagine tuttora in corso, chiamati a individuare e per quanto possibile prevenire il futuro dell’organizzazione criminale.

Di sicuro, nella successione conteranno i cognomi e gli intrecci nel nucleo familiare dei Messina Denaro; una «casata» mafiosa che proverà a sopravvivere all’ultimo padrino. 

Gran parte dei parenti sono stati o si trovano ancora in galera, tenuti sempre sotto controllo, ma ciò nonostante sempre coinvolti nei traffici legati prima al latitante e poi all’ergastolano di casa detenuto. Fra loro, uno che potrebbe vantare una sorta di ipoteca sulla successione è il «nipote prediletto» di Matteo: Francesco Guttadauro, figlio di Filippo Guttadauro (ancora detenuto per la sua «pericolosità sociale», nonostante abbia finito di scontare la sua pena) e di Rosalia Messina Denaro, arrestata a marzo scorso con l’accusa di aver gestito la cassa del fratello Matteo mentre era ricercato; decine di migliaia di euro spesi ogni mese in contanti, di cui è stata trovata solo una parte della contabilità, insieme a circa 200.000 euro pronti ad essere recapitati. 

Oltre alla parentela diretta con il boss di Castelvetrano, Francesco può vantare il cognome della famiglia paterna, lo stesso del clan che governa Cosa nostra a Bagheria in stretto contatto con i Graviano, a loro volta controllori del quartiere palermitano di Brancaccio. Un’alleanza tra cosche suggellata da un matrimonio e dal destino di un figlio che non ha ancora quarant’anni e si trova in carcere da dieci. Arrestato a dicembre 2013, è stato condannato a 16 anni di pena che sta scontando senza mostrare il minimo cedimento.  […]

La provenienza degli approvvigionamenti sempre garantiti al boss — e dunque la loro fonte: gli investimenti ancora nascosti che hanno rimpiazzato i beni e le imprese per decine di milioni sequestrati e confiscati ai prestanome scoperti in passato — sono l’altro lascito in cerca di eredi. Per il quale potrebbero rivendicare voce in capitolo gli stessi familiari, gli imprenditori collusi, possibili mediatori o altri mafiosi aspiranti capi.

Quelli che finora parlavano o agivano in nome di Messina Denaro, e ora non potranno più farlo. Serviranno nuovi equilibri criminali per gestire la successione. Resta da vedere se ci si arriverà in maniera incruenta, secondo le nuove regole del boss mutuate dalla «mafia silente» ripristinata da Bernardo Provenzano, o se in Sicilia si tornerà a sparare. O a sparire. 

Estratto dell’articolo di Lirio Abbate per “la Repubblica” martedì 26 settembre 2023.

La scomparsa di Matteo Messina Denaro dalla scena mafiosa provocata dalla sua malattia, toglie un macigno che ingombra la strada di Cosa nostra. La sua morte è accompagnata da sospiri di sollievo soprattutto dagli stessi mafiosi, anche dai trapanesi, ma pure da politici e imprenditori collusi che in questi anni sono stati assediati dalle forze dell’ordine, controllati in ogni loro mossa con indagini che hanno portato in carcere — per colpa sua — centinaia di persone con la confisca dei loro beni.

Tutto perché si dava la caccia a lui, u Siccu, e le indagini a setaccio non hanno tralasciato nulla sul territorio. 

Adesso che u Siccu non c’è più l’organizzazione si sente più libera di riorganizzarsi. La sua uscita di scena definitiva è come il coperchio di una pentola a pressione che salta. Ci sono i segnali di una Cosa nostra nuova che si basa su tradizionali principi ma guarda in prospettiva utilizzando vecchi cognomi e casate e giovani mafiosi rampanti. E un ponte con vecchi amici di oltre Oceano.

Difficile, per gli investigatori, capire ora chi verrà dopo Messina Denaro nel trapanese. In fondo lui, negli ultimi trent’anni, ha pensato solo a sé stesso e ad accumulare tesori per la sua famiglia, senza condividere o contribuire economicamente all’organizzazione post Riina. La centralità della mafia di Trapani nel sistema Cosa nostra, però, si è sempre rivelata al passo con i tempi, anzi, fin dagli anni Ottanta anticipandoli. I trapanesi sono stati precursori, hanno coniugato tradizione e modernità. Un connubio che è diventata la cifra caratteristica di Matteo Messina Denaro e la chiave del suo successo criminale.

Oggi la storia si ripete con nuovi personaggi che si ispirano a lui. 

C’è una vasta area di quel territorio che avrebbe potuto farlo scoprire prima e non l’ha fatto. […]

Spesso, a Trapani, è la stessa imprenditoria — non tutta — a essere mafiosa, ovvero socia in affari della mafia. Quindi la pratica di chiedere il pizzo non è particolarmente diffusa. È una mafia che ha regole solidaristiche precise, dirette all’acquisizione del potere economico e imprenditoriale, nonché del consenso tanto di affiliati e associati quanto della società civile.

Anche per questo gli imprenditori ricevono in molti casi l’aiuto finanziario e il sostegno mafioso, offrendo in cambio quote delle proprie imprese.

Il territorio in cui ha regnato u Siccu, tra l’altro, è l’impero della piovra. È qui che i boss hanno provato in passato a riorganizzarsi. Non solo quelli siciliani, ma anche gli americani. I picciotti d’oltreoceano, negli anni Novanta, sono andati a lezione di mafia in Sicilia, pronti a diventare gli uomini d’onore di domani. Vecchi e nuovi boss della provincia di Trapani si sono offerti come esperti docenti di regole e metodi di una organizzazione capace di attraversare indenne la storia, dall’unità d’Italia ai giorni nostri, per approdare nel terzo millennio più solida e forte che mai.

È in questa fetta di terra siciliana che sono ancora vivi i collegamenti con la Cosa nostra americana che in passato ha chiesto aiuto ai trapanesi che sono un punto d’incontro tra i Paesi arabi, l’America e diverse componenti che girano attorno alla mafia, per esempio la massoneria e pezzi dei servizi segreti deviati. 

Dunque, morto Messina Denaro, nel Trapanese è certo che ne stiano già nominando un altro, magari meno appariscente di lui, una persona capace di muoversi e proseguire gli affari come in passato I clan hanno sentito addosso l’ombra ingombrante e potente del latitante, pur non essendo mai stato lui il capo di Cosa nostra. 

Di fatto non ha mai governato l’organizzazione. Lui è stato il capo della provincia di Trapani e su tutta Cosa nostra ha svolto una funzione carismatica, nel senso che essendo l’ultimo stragista libero e un soggetto in qualche misura anche mitizzato, alcune decisioni importanti dell’organizzazione mafiosa hanno ottenuto il suo consenso o quantomeno il suo non dissenso. E le confidenze avute da Riina nel periodo delle stragi lo hanno fatto diventare un custode importante dell’eredità del Capo dei capi.

[…]

(ANSA martedì 26 settembre 2023) - "Cosa Nostra è viva e ancora forte, ma ha avvertito il colpo indubbiamente, sia riguardo alla provincia trapanese, della quale Messina Denaro era a capo, sia attraverso la altre province mafiose che guardavano a questa figura come un simbolo. 

Verranno avviati rapporti dialettici all'interno dell'organizzazione, nella provincia trapanese e nelle altre province, perché comunque andrà individuato un nuovo capo dell'organizzazione. Il lavoro va avanti per individuare compiutamente la rete di favoreggiamento e le ricchezze, ovvero i settori dell'economia che erano controllati da imprenditori vicini all'organizzazione". 

Così il comandante del Ros, Pasquale Angelosanto, a Cinque Minuti, in merito alla morte del boss Matteo Messina Denaro. "Un mafioso irriducibile come Matteo Messina Denaro può dire qualsiasi cosa - ha aggiunto Angelosanto - . Dopo l'arresto ha sostenuto di non essere mafioso, di non essere mai stato nell'organizzazione e che ha mantenuto rapporti con Provenzano solo perché entrambi latitanti e quindi per solidarietà con lui".

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per “la Repubblica” martedì 26 settembre 2023. 

[…] Dopo l’arresto di Messina Denaro, Cosa nostra è alla ricerca di un nuovo nome simbolo attorno a cui riorganizzarsi […] Di sicuro, un palermitano. Ma fra i clan ci sono varie anime. 

Da una parte i falchi, dall’altra le colombe. Da una parte i Corleonesi, dall’altra quelli di città: ovvero, i vincenti e i perdenti di un tempo. Questi ultimi scalpitano di più, perché dopo la morte di Totò Riina è caduta la fatwa contro di loro e sono tornati a Palermo dopo un lungo esilio. 

Il più autorevole degli ex perdenti si chiama Michele Micalizzi, ha 74 anni, è il genero dello storico capomafia Rosario Riccobono: è stato riarrestato dai carabinieri del nucleo investigativo il 12 luglio scorso. 

L’indagine coordinata dalla procura diretta da Maurizio de Lucia racconta di un vecchio mafioso, uno dei sopravvissuti allo sterminio voluto da Riina nella seconda guerra di mafia: dopo 20 anni di carcere è riapparso impegnato a gestire incontri riservati e lucrosi affari. Micalizzi ha un bel tesoro di famiglia da amministrare. Ed è tornato a investire nella sua specialità preferita, il traffico di droga […]

È invece in libertà Francolino Spadaro, 61 anni il 16 ottobre, è il figlio di don Masino, il “re” della Kalsa che era lo storico padrino del contrabbando e degli stupefacenti, condannato per l’omicidio del maresciallo dei carabinieri Vito Ievolella. 

Dopo la scarcerazione, avvenuta qualche anno fa, Francolino è andato a vivere in un lussuoso attico, nel palazzo accanto casa del giudice Falcone, in via Notarbartolo. […]

Francolino Spadaro è davvero esponente dell’aristocrazia mafiosa di Palermo, conoscitore dei segreti più profondi dell’organizzazione, da sempre un irriducibile

[…]

Faceva parte di Pagliarelli un altro anziano padrino a cui i clan avevano delegato la ricostituzione della Commissione provinciale, la Cupola, che non si riuniva ormai dal 1993: lui si chiamava Settimo Mineo, aveva messo in campo un progetto davvero ambizioso per provare a sanare la frattura fra vincenti e perdenti di un tempo. Ma non sospettava di essere intercettato dai carabinieri e alla fine del 2018 è stato arrestato con tutti gli altri padrini. 

Il successore di Mineo era invece un giovane rampante, che faceva pure lui la spola fra Palermo e il Brasile: Giuseppe Calvaruso, il capomafia che un noto ristoratore palermitano osannava al telefono: «Le persone perbene come te mancano». Il boss Calvaruso, “una persona educata, di certi principi”. È la mafia di Messina Denaro, che prova a mostrarsi “buona” per superare la stagione delle stragi.

Fra qualche tempo, a Pagliarelli, tornerà un altro reuccio, è Gianni Nicchi, il giovane mafioso su cui Cosa nostra puntava già un tempo: legato ai Corleonesi, ma con buone entrature anche fra le famiglie americane. L’antimafia non ha mai smesso di essere in allerta a Palermo.

Intanto, continua la caccia all’ultimo grande latitante di Cosa nostra, il killer Giovanni Motisi, imprendibile da 25 anni. Ma questa è un’altra storia: sembra che U pacchiuni, il “grasso” come lo chiamano, abbia deciso di andarsene da Cosa nostra e rifarsi una vita. I misteri di Palermo.

"Lui l'ultimo degli irriducibili. Ora è caccia al nuovo capo". Il colonnello del Ros che ha arrestato il latitante: "Non ha mai avuto un cedimento. C'è il suo erede in Cosa Nostra". Patricia Tagliaferri il 26 Settembre 2023 su Il Giornale.

«Un mafioso irriducibile fino alla fine». È così che descrive Matteo Messina Denaro uno degli investigatori che gli è stato alle calcagne per otto dei suo trent'anni di latitanza. Il colonnello Lucio Arcidiacono, comandante del I Reparto Investigativo del Ros, è uno che conosce bene il capomafia di Castelvetrano e che da quando Messina Denaro è stato catturato, a gennaio, lavora senza sosta con i suoi uomini per scoprire i suoi segreti. Segreti che si è portato nella tomba: dal presunto archivio di Totò Riina, all'uomo destinato a raccogliere la sua eredità nel panorama mafioso. È stato lui uno dei primi ad avvicinarlo nella clinica di Palermo dove era in cura per il cancro al colon e dove è stato arrestato.

Colonello Arcidiacono, cosa cambierà in Cosa Nostra con la scomparsa di Messina Denaro?

«Cambierà l'assetto provinciale dell'articolazione trapanese, perché Cosa Nostra è un'organizzazione che ha portata regionale ed è Palermo-centrica. Messina Denaro era capo della provincia mafiosa trapanese, che ora avrà bisogno di un nuovo capo».

Chi sarà il suo erede?

«Qualcuno dovrà prendere il suo posto, ma su questo ci sono indagini in corso di cui non posso parlare. È un fenomeno, quello della successione, guardato con estremo interesse investigativo».

Per il sindaco di Campobello Mazara la sua morte dà un senso di definitiva liberazione di questa parte della Sicilia. È così?

«Purtroppo la Sicilia non si è certamente liberata di Cosa Nostra, che continua ad essere una delle organizzazioni mafiose più insidiose e che operano non solo sull'isola. Per estirpare questo male dal territorio sono necessari altri tipi di intervento, dalle fondamenta. E un ruolo importante dovrebbero averlo la scuola e le famiglie, dove avviene la formazione dei giovani».

C'è il rischio che in certe zone delle Sicilia la figura di un capomafia come Messina Denaro venga mitizzata?

«Il fatto di essere sfuggito alla cattura per 30 anni ha contribuito ad esaltarne l'immagine agli occhi dei suoi accoliti, ma con la sua cattura lo Stato ha fatto capire che non smetterà mai di cercare chi deve essere assicurato alla giustizia».

In questi mesi di carcerazione Messina Denaro non ha mai avuto un cedimento?

«Mai. Nell'interrogatorio del 13 febbraio ha detto addirittura di conoscere Cosa Nostra solo dai giornali e ha fatto dichiarazioni che non corrispondono all'esito delle investigazioni: non ha ucciso il piccolo Di Matteo, non ha commesso gli omicidi e le stragi di cui è accusato e con Provenzano ha avuto solo una corrispondenza occasionale perché erano entrambi latitanti, non perché mafiosi. Del resto lui sosteneva di non essere mafioso, ma di sentirsi solo un uomo d'onore nel senso letterale del termine».

Si è parlato di una possibile «resa» di Messina Denaro, ormai piegato dalla malattia...

«Non c'è stata alcuna resa, Messina Denaro è stato un mafioso irriducibile fino alla fine. Prova è data dalle attività svolte dopo la cattura: nei covi abbiamo trovato documentazione importantissima che è servita per arrestare altri fiancheggiatori, oltre alla sorella Rosalia».

È indagando sulla sorella che siete arrivati a lui?

«Grazie alle investigazioni abbiamo compreso che aveva un canale di comunicazione con Rosalia e sospettavano avesse un problema di salute, ma l'indagine è cambiata quando entrando in casa della sorella per piazzare una microspia abbiamo trovato un documento relativo allo stato di salute di un soggetto, senza indicazioni sul nome. Da lì sono partite le riservate verifiche sui database del servizio sanitario nazionale e siamo arrivati ad individuare il suo prestanome, Andrea Bonafede».

Come ha potuto vivere per tanti anni da latitante alla luce del sole?

«Ha goduto di un sistema di protezione nel suo territorio, come tutti i grandi mafiosi. Molti favoreggiatori individuati a arrestati sono parte di una cerchia ristretta non coinvolti direttamente in attività criminali. All'apparenza persone normali, con lavori normali, insospettabili».

Mazara del Vallo dove, in silenzio, tutti parlano del prossimo Matteo Messina Denaro. Rosita Stella Brienza su Panorama il 19 Settembre 2023.

Tra le chiacchiere del paese dove il super latitante si è nascosto, dove tutti sanno che è molto malato e dove tutti parlano del prossimo Capo dei Capi

La Sicilia occidentale è una grande scoperta nel solco di avventure in bici, a cavallo e a piedi. Da Trapani a Mazara del Vallo, la via dei tramonti si perde nel mare sotto il segno delle isole Egadi. Ma nel bel mezzo di “cotanta bellezza” risalta la forza dei ragazzi, espressione del cambiamento, ma anche di una paura ancestrale: il grande ritorno della mafia. Tutti sanno che il capo dei capi, Matteo Messina Denaro, sta molto male. Le voci dei giovani sull’argomento sono incalzanti e appassionate, molto più di quelle degli adulti, che invece preferiscono parlare di altro, mentre le istituzioni portano avanti progetti per risollevare l’immagine dei luoghi siciliani duramente provati dai recenti incendi e dall’arresto del boss. I giovani in coro si preoccupano del loro futuro e di quello della bella Sicilia. Ci tengono a valorizzare il territorio anche perché è evidente l’esplosione del settore turistico. Sono colti, ma a volte sono costretti a fare lavori umili che non corrispondono esattamente alle loro competenze. E adesso che tutti sanno che Matteo Messina Denaro sta molto male, la preoccupazione aumenta. Abbiamo raccolto le voci di Francesco, Luigi, Stefano, Rosalia, Sofia affidate alla portavoce Olga per capire il loro stato d’animo e cosa realmente succede oltre la bellezza incontaminata dei paesaggi, delle saline, dei fenicotteri e dei mulini immutati nel tempo che una volta macinavano il sale. “Anche le pietre sanno che in questo periodo Mattia Messina Denaro sta molto male, ma tra noi non se ne parla, eppure lo sanno tutti. Ecco, ne parla soltanto chi si interessa di politica o di mafia. Quando Messina Denaro è stato arrestato, abbiamo pensato di esserci liberati un po’ della mafia. Diciamo, che abbiamo pensato subito di esserci liberati di lui. Però, contemporaneamente è nato il sospetto che Messina Denaro avesse deciso di farsi prendere (alla voce di Olga si sovrappone quella di Stefano per rinforzare la teoria). Probabilmente, in carcere sarebbe stato più al sicuro e curato meglio che a casa. Questo è paradossale, ma l’abbiamo pensato tutti e lo pensiamo ancora”. E adesso che il boss dei boss sta male cosa pensi? “Dispiace. Giustamente, ci dispiace perché è pur sempre una persona. Ma, se una persona è cattiva perché ha fatto brutte cose ed è dalla parte della mafia, non dico che siamo contenti, ma quasi”. Esiste già un successore di Messina Denaro? Sì. Lo penso. Mi hanno detto che, ma quello che sto per dire è ben raccontato nei film, di solito c’è sempre un vice boss. Certo, lui qui c’era. Diciamo che si conosceva il tipo, sapevamo com’era. Adesso, non sappiamo niente del successore. Ma tutti già sappiamo che ci sarà. Secondo te quando conoscerete il nome del successore di Matteo Messina Denaro? Dipende da “loro”. Può essere che sapremo tutto tra poco, come può essere che sapremo tutto dopo. Però si saprà. Hai paura? Sì. Quando non si conosce qualcosa si ha sempre paura. E’ esattamente come quando è scoppiata la guerra in Ucraina. Inizialmente, tutti avevamo paura. Poi la paura è diventata normalità e adesso non interessa quasi più a nessuno. La gente pensa che fino a quando l’Italia non viene toccata, pur sapendo che la guerra porta lutti e morte, l’argomento non è importante e interessa soltanto a chi studia il tema per politica o per passione. Stessa cosa vale per la mafia. Noi ragazzi vogliamo che la bellezza dei territori emerga perché qui si sta davvero bene. Se la gente arriva da noi, l’economia si rinforza e sarà più facile viverci e trovare lavoro. Puntiamo a questo”.

Estratto dell'articolo di leggo.it il 24 gennaio 2023.

L'inchiesta con il blitz antimafia che questa mattina ha colpito il mandamento di Cosa Nostra di Palermo , rivela [...] i boss che, al telefono, intercettati dagli inquirenti, parlavano male di Totò Riina e lo ritenevano responsabile della caduta della mafia e della sua perdita del potere. [...]

 I boss intercettati contro Totò Riina

«Io mi faccio il conto che eravamo i padroni del mondo perché tu andavi da una parte e trovavi il portone aperto». «No, tutte cose sono finite. Quando una persona ha il delirio di onnipotenza... Nella vita per far funzionare qualsiasi cosa ci vuole equilibrio. Tiri la corda e la rompi... perché si è mangiato tutto e ha portato alla distruzione. Ti dico una cosa, sarebbero cambiati lo stesso i tempi, ma però non saremmo combinati in questa maniera... non con tutti questi pentiti». «Perché tu pensi che se lui non si fosse comportato così, ci sarebbero stati tutti questi pentiti?».

Ragionavano così Antonino Anello e Gioacchino Badagliacca, arrestati dai carabinieri nell'ambito del blitz che ha colpito in particolare la famiglia di Rocca Mezzomonreale. Sette le misure cautelari emesse dal gip ed eseguite all'alba tra Palermo, Riesi e Rimini. 

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 «Quando tu metti mano con gli sbirri ma che senti fare (che vuoi fare, ndr)? - diceva Gioacchino Badagliacca - Ma poi non è nel dna di questa cosa. Le bombe là fuori, fare morire gente innocente... Queste cose onesto sono? Cose di un cristiano che ha onore? Ma perché se muori tu, muore tua figlia a te ti piacerebbe? Che è innocente».

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 «Non è che uno vuole giustificare - ragionava ancora il boss -, perché uno nella vita fa una scelta e da deve portare sempre avanti fino alla morte, però ha portato al punto le persone a non credere più in quello che fa». Una critica che investiva non solo la “gestione” Riina ma anche quei mafiosi che si erano alleati con lui, tra i quali lo storico capomandamento Antonino Rotolo, per il quale secondo Badagliacca e Anello, era già stata decretata la condanna a morte, scongiurata solo grazie alla carcerazione. «Nino Rotolo è vivo perché è stato arrestato...». I due interlocutori, annota il gip nell'ordinanza, interloquivano anche della “statura” mafiosa di Tommaso Buscetta. «Tuo nonno mi dice che era un cristiano con sette paia di cog...», tagliava corto Anello. 

Estratto dell’articolo di Marina Pupella per “Avvenire” il 24 gennaio 2023.

«La mia preoccupazione è che un'organizzazione povera abbia bisogno di tornare ad arricchirsi e di farlo rapidamente. E in questo momento, il solo strumento che lo consente, l'unica merce che ha un valore aggiunto tale per cui se investi 50 euro ne ricavi 50 mila con lo stesso chilo di sostanza, è la cocaina».

 È lo scenario che il procuratore capo di Palermo Maurizio De Lucia, ha delineato giovedì scorso, all’indomani della cattura di Matteo Messina Denaro […] «[…] produce una quantità di reddito tale che permette di rafforzare l'organizzazione[…]».

Il traffico di droga, soprattutto di cocaina, è […] un “business” che richiede alleanze e quella con la ‘ndrangheta è ben collaudata. […] le due organizzazioni hanno […] amicizie datate, come quella storica fra Totò Riina e Mico Tripodo, il riverito boss di ‘ndrangheta di Sambatello, in Calabria, ucciso nel 1976. […] Il magnete che tiene unite la “mala” siciliana e quella calabrese sono il lauti profitti derivanti dal traffico di stupefacenti.

L’”oro bianco” […] è il proficuo affare con cui il network di 155 famiglie calabresi fa da grossista per tutte le altre organizzazioni criminali, siciliane incluse. […] La stima per difetto del suo valore al dettaglio in Europa, 10,5 miliardi di euro nel 2020, […] un terzo del mercato illecito di tutte le droghe.

 «La ‘ndrangheta è storicamente presente in Sudamerica, dove organizza i carichi di polvere bianca da spedire in Europa e Nord Africa […] Negli anni ha acquisito affidabilità, prima con i cartelli della droga colombiani e ora con i diversi gruppi paramilitari. È l’unica ad acquistare la coca a 1.000 dollari al chilo, mentre tutte le altre la comprano a 1.800. In Colombia non vedi uomini di Cosa nostra contrattare con i narcos, questo compito spetta quasi esclusivamente alle ‘ndrine».

L’affidabilità […] è il loro punto di forza, peculiarità che neanche i malavitosi siciliani sono riusciti a costruire e mantenere. La domanda in Europa è talmente alta, da collocare il continente al secondo posto dopo gli Usa per numero di consumatori, 5,2 milioni […] Navi portacontainer partono da Colombia e Brasile, con destinazione gli approdi di Anversa, Rotterdam, ma anche Gioia Tauro e Genova. Corruzione di funzionari, complicità e intimidazione di lavoratori portuali […] finiscono per agevolare i traffici via mare.

[…] Numerosissimi i blitz antidroga […] Catania è la provincia col maggior numero di operazioni effettuate (159) e quantitativi di coca intercettati (127,226 chili), seguita da Palermo ( 132 blitz e 10,496 chili) e Messina (69 operazioni e 37,449 chili). Sequestri che rivelano come Cosa nostra dipenda dai “cugini” d’oltre Stretto […] «Cosa nostra non è subalterna ai calabresi […] ma è pur vero che sul traffico di cocaina le ‘ndrine possono considerarsi le sole ad aver maturato un’expertise, frutto di antiche collaborazioni con le grosse organizzazioni sudamericane. La mafia interviene nella filiera, distribuendola […]». […]

Estratto dell’articolo di Giampiero Calapà per il “Fatto quotidiano” il 18 gennaio 2023.

"Abbiamo mitizzato troppo Matteo Messina Denaro". Alfonso Sabella […]: “dobbiamo chiarire anche che il trapanese non è il capo di Cosa Nostra".

 Quindi ha goduto di stampa e letteratura, diciamo, immeritate?

Dopo l'arresto di Leoluca Bagarella era fisiologico fosse lui a prendere il posto di capo della componente stragista. Invece, il timone passa a Brusca. E dopo l'arresto dei Brusca sostanzialmente Messina Denaro sparisce dai miei radar. […] dopo l'arresto di Giovanni Brusca lo scettro del comando passa a Vito Vitale, 'u vaccaru, che mi voleva morto.

Cioè, l'ala Riina-Bagarella va a cercare questo personaggio di secondo piano, se vogliamo, come nuovo capo di fatto. Significa che […] Messina Denaro abbia tirato i remi in barca, ritirandosi nel suo feudo trapanese per continuare a fare affari […] credo che dopo l'arresto di Vito Vitale si metta […] d'accordo con Provenzano per una transizione indolore del potere verso i palermitani. […] si ritira […] per […] prolungare la sua latitanza: non comandare significa ridurre i contatti.

[…] Pensa che le condizioni di salute di Messina Denaro siano compatibili col regime di carcere duro?

Il 41-bis non è ostativo alle cure. Non aveva più senso per un Provenzano ridotto in stato vegetativo. Ma finché Messina Denaro resterà lucido è necessario, può ancora dare ordini al suo mandamento e non si sa mai se decidesse di alzare il livello ora che è spalle al muro: è pur sempre uno stragista.

 Le ha fatto effetto vederlo senza manette?

Evidentemente non c'erano pericoli. I poliziotti che arrestarono Giovanni Brusca persero la chiave, dovettero tagliargliele col frullino. Aprii un procedimento, ma Brusca escluse responsabilità e anche di aver subito violenza.

Le ipotesi sul nuovo 'Padrino'. Chi sarà l’erede di Messina Denaro al vertice di Cosa Nostra: dal super latitante Motisi al vecchio boss Mineo, le ‘nuove leve’ Auteri e Capizzi. Carmine Di Niro su Il Riformista il 17 Gennaio 2023

La cattura dopo 30 anni di latitanza di Matteo Messina Denaro non vuole dire che la partita contro la mafia sia vinta. Ne è convinto Maurizio de Lucia, il procuratore di Palermo che ha ‘firmato’ l’indagine che ha portato all’arresto dell’ex ‘Primula rossa’ di Cosa Nostra.

Da settembre al vertice della Procura che ha coordinatore le indagini, de Lucia sottolinea che Cosa Nostra “tende a ricostruire i suoi vertici. Adesso dovrà sostituire Matteo Messina Denaro come punto di riferimento per i grandi affari. C’è già chi è pronto a prendere il suo posto”.

Anche le indagini non sono finite, anzi. Ora si sposteranno “sulla caccia alla rete di protezioni e connivenze che hanno permesso a Messina Denaro di restare latitante per trent’anni”, dice il magistrato a Repubblica, in cui punta il dito contro “una fetta di borghesia che, negli anni, lo ha aiutato. Le nostre indagini puntano su questo”.

Ma chi prenderà il posto di MMD al vertice di Cosa Nostra? De Lucia ovviamente non può dirlo per due ragioni: “La prima perché appartiene alla sfera dell’imprevedibile, la seconda perché ci sono indagini che devono essere mantenute, doverosamente, riservate”.

In ogni caso, la scelta di un successore di Messina Denaro è ovvia, la mafia infatti, aggiunge ancora il magistrato, “a differenza delle camorre, la mafia ha una struttura con una testa sola. Un’organizzazione che, da sempre, si è data queste regole può continuare a vivere, nell’ordinaria amministrazione, senza una struttura centralizzata. Ma al tempo stesso, questa struttura centralizzata rimane fondamentale per poter continuare a prosperare e fare affari”.

Se il procuratore non si sbottona, si può però provare a ragionare sui nomi di importanti ‘big’ di Cosa Nostra, tra quelli a piede libero o chi è uscito di galera dopo aver scontato la pena, che potrebbero guidare l’organizzazione.

Il primo nome da appuntare è certamente quello di Giovanni Motisi, 64 anni, noto anche con lo pseudonimo di ‘U Pacchiuni (il grasso) e per essere il “killer di fiducia” dell’ex capo dei capi Totò Riina. Ricercato dal 1998 per diversi omicidi, per associazione di tipo mafioso e strage, deve scontare la pena dell’ergastolo per l’omicidio del commissario Giuseppe Montana, ucciso il 28 luglio 1985. Motisi è tra i quattro super latitanti ancora presenti nel “programma speciale di ricerca” del gruppo Interforze.

Tra i boss ‘storici’ c’è anche Stefano Fidanzati, 70 anni, della storica famiglia di narcotrafficanti dei Fidanzati dell’Arenella, che tra Milano e Palermo hanno costruito il loro impero economico.

Un terzo nome lo fa quindi Gaspare Mutolo, l’ex mafioso che sfidò Riina (era il suo autista) e che poi deciso di collaborare con Giovanni Falcone. Al settimanale Oggi, Mutolo cita l’85enne Settimo Mineo, attualmente recluso in carcere e storico capo del mandamento di Pagliarelli. “Io l’ho conosciuto, aveva una gioielleria in centro a Palermo, stimato da Riina, tanti anni fa scampò a un agguato in cui morì il fratello. Adesso è molto anziano. Di certo, i veri capi, i coordinatori, sono sempre stati di Palermo, anche all’estero per tradizione i capi erano palermitani. Messina Denaro è stato un’anomalia”, spiega Mutolo.

Quindi due nomi più “giovani”, tirati in ballo oggi dal Corriere della Sera. Si tratta di Giuseppe Auteri, latitante da un anno e detentore della ‘cassaforte’ del mandamento di Porta Nuova, tra i clan più ricchi di Palermo, e Sandro Capizzi, rampollo del boss Benedetto Capizzi, capomafia del clan di Santa Maria di Gesù, quello dello storico nemico di Totò Riina Stefano Bontate, morto poi nella guerra di mafia.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Saviano: come cambia la mafia dopo Messina Denaro? Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

La gerarchia di Cosa Nostra è vecchia, come la società italiana. E gli interessi economici hanno permeato tutto

E dopo la cattura di Matteo Messina Denaro cosa succederà? In realtà non ha importanza rispondere a questa domanda perché tutto il peggio, il grave, l’irrimediabile sta già accadendo ed accade. Non sto spendendo toni apocalittici o esagerati, tutt’altro. Nel 2021 Banca d’Italia evidenziò che il giro di affari dei cartelli mafiosi valeva circa 38 miliardi di euro all’anno. Questi 38 miliardi di euro sono ben più di 100 milioni al giorno. Cento milioni al giorno che vengono movimentati e investiti, ma se a questo dato si aggiunge ciò che aveva già dichiarato la Direzione nazionale antimafia nel 2020, tracciando un patrimonio derivante dal narcotraffico di 400 miliardi di euro solo in Italia, comprendiamo che stiamo parlando di un’economia in continua espansione e che alimenta e sostiene l’economia legale. In questo momento, il tema mafie è completamente ignorato dal dibattito politico e in campagna elettorale è stato affrontato solo in modo retorico.

Le mafie, quando ammazzano, sono visibili; quando fanno affari sono invisibili e quando fanno affari in realtà va bene a tutti perché non è distinguibile il loro comportamento da quello di qualsiasi altro imprenditore o fondo d’investimento. I grandi affari in gioco continueranno a crescere, come la legge 104 che ha dato, spesso senza controllo, valanghe di denaro a imprese edili in molti casi diretta emanazione dei cartelli mafiosi (ma di tutto questo avremo prove solo negli anni: ora abbiamo solo indizi). I partiti, come abbiamo visto nelle indagini antimafia degli ultimi 20 anni, non hanno neanche un sistema vero per proteggersi dalle infiltrazioni e dalle alleanze mafiose perché delegano tutto alla magistratura. Se ci sono indagini, i partiti iniziano ad avere (ma non sempre, anzi) cautela nel candidare alcune figure; se non ci sono indagini non fanno accertamenti propri e in molti casi ricercano i potentati elettorali mafiosi. Eppure la politica dovrebbe poter fare una selezione, con informazioni proprie e conoscenza territoriale, non dovrebbe aspettare le sentenze dei giudici per selezionare il proprio personale politico. Invece sembra cercare proprio quei mediatori politici in grado di portare i flussi di pacchetti di voti di scambio.

Se si vuole arrivare dritti alle cose da fare il primo comportamento antimafioso sarebbe la legalizzazione delle droghe leggere: questo toglierebbe alle organizzazioni una importante fonte di profitto e alleggerirebbe il sistema giudiziario di leggi proibizioniste che colpiscono duramente i consumatori senza riuscire a rintracciare i grandi narcotrafficanti. Secondo la relazione al Parlamento della Direzione Investigativa Antimafia, l’economia sotterranea della cannabis vale circa 6 miliardi e corrisponde al 40% circa degli introiti delle mafie. Questo stroncherebbe un segmento importantissimo dell’economia mafiosa, quello dei gruppi emergenti. Ma torniamo a Messina Denaro, ora cosa succederà dopo di lui? Beh diciamo che è rischioso nell’analisi considerarlo solo un capomandamento con molto carisma: nessun uomo d’onore «semplice» capomandamento di provincia potrebbe gestire la massa di capitale che gli è stato attribuito dalle procure antimafia nel corso dell’ultimo decennio (nel 2007 individuati 700 milioni di euro, nel 2010 sequestrati beni per 1,5 miliardi di euro, nel 2018 sequestrati 1,5 miliardi di euro).

Rischioso pensare che la commissione che riunisce le famiglie di Cosa Nostra — benché non strutturata come un tempo — non esista più. Tutte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia raccontano di Messina Denaro come di un capo che non mette bocca nelle decisioni delle famiglie lasciandole libere, «U Siccu» ha gestito i propri senza rendere conto a nessuno, proprio perché non chiedeva ad altri di rendere conto. Cosa Nostra così ha perso struttura, unitarietà dopo la cattura di Provenzano ultimo erede del verticismo corleonista; Messina Denaro non ha cercato di governare come avevano fatto i suoi padrini ma ha governato con l’ossessione di intervenire il meno possibile, cosa che spesso ha portato allo sbando l’organizzazione lasciando le famiglie palermitane e quelle della provincia senza piani condivisi.

Cosa Nostra ha pagato la sua visibilità, l’estrema riconoscibilità dei suoi capi dopo la scelta stragista. Le altre organizzazioni continuano a sfruttare la sostanziale minore attenzione mediatica che nell’ultimo decennio è comunque aumentata rispetto al passato. Eppure quando, nel 2008, viene arrestato Pasquale Condello , boss della ’ndrangheta che negli ultimi anni ha assunto un potere di influenza politico-industriale di gran lunga superiore alla mafia di Messina Denaro, non c’è stata la stessa attenzione mediatica perché la ’ndrangheta ha saputo inabissarsi, perché la ’ndrangheta non incorona sovrani. Pari tra pari. Stessa cosa per la camorra: quando vengono arrestati a Napoli importanti capi, come Michele e Ciro Mazzarella, fermati lo scorso dicembre, non c’è stata l’attenzione che un risultato del genere meritava. Anche la faida di Ponticelli — combattuta con bombe esplose nel quartiere nella primavera ed estate scorse — non ha mai raggiunto l’attenzione nazionale. Queste distrazioni, che spesso accadono per incompetenza, diventano poi omertà politica e sociale.

Ci si chiede adesso: chi sarà il successore di Matteo Messina Denaro? Ci sono diverse ipotesi. Chi riuscirà a ricostruire la piramide dell’organizzazione? Seguendo la visione sclerotizzata dell’ultima Cosa nostra sarebbe designato Giovanni Motisi,«’U Pacchiuni», il chiattone, perché — benché faccia parte del mandamento Pagliarelli che non ha alcun peso in questa fase — la sua storia criminale potrebbe garantirgli i gradi per diventare capo. È stato in uno dei «gruppi di fuoco» di Riina e, seppur dal 1998 non si abbiano sue notizie, l’essere stato un fedele del capo corleonese gli attribuisce la mitologia giusta per poter essere riconosciuto leader. L’altro nome che viene molto citato è quello di Stefano Fidanzati, ma la Cupola, o quello che ne rimane, non darebbe mai il vertice dell’organizzazione a un uomo d’onore che è stato un narcotrafficante senza capacità di mediazione e comando politico.

Stiamo parlando di uomini maturi, tutti sopra i settanta anni. Questo dimostra che Cosa nostra risente di una struttura organizzativa ricalcata sulle dinamiche del nostro Paese: i vertici affidati a persone anziane, lentezza decisionale, utilizzo solo di vecchi canali, incapacità di rinnovarsi e di vedere nuove possibilità di alleanze strategiche. E soffre ora mancanza di affiliazione, se paragonata alle altre organizzazioni, che dispongono di una quantità molto maggiore di soldati. Camorra, ’ndrangheta, società foggiana sono in grado di essere molto snelle e di strutturarsi in forma liquida.

Una delle forze della ’ndrangheta, per esempio, è stata quella di non avere una struttura centralizzata ma federale, attribuendo il «bastone del comando» a una figura consolare, esclusivamente quando c’era da dirimere faide che rischiavano di danneggiare tutte le famiglie. Cosa nostra, invece, appare come un pachiderma monolitico distrutto dalla burocrazia del controllo interno voluta dai corleonesi: si è progressivamente consumata, soprattutto negli ultimi anni. Ma siamo tutt’altro che vicini alla sua estinzione. Ad oggi, Cosa nostra sul piano del narcotraffico è sostenuta dagli storici alleati: in Campania i maranesi (Marano di Napoli) che sarebbero i Nuvoletta-Polverino, che pur essendo in Campania non sono camorristi ma mafiosi, e che continuano a essere i grandi fornitori di hashish e marijuana per diverse famiglie del territorio siciliano. E poi le famiglie calabresi, storicamente alleate ai corleonesi, i Commisso, i De Stefano-Tegano. Ma in realtà tutto (o quasi, se escludiamo le famiglie siciliane con base in Sudamerica) il narcotraffico che passa per le mani di Cosa nostra ormai è egemonizzato da un’OPA — si direbbe nel linguaggio finanziario — dei calabresi.

Ci sono prove che gli ’ndranghetisti scelsero di appoggiare la fazione corleonese contro i palermitani negli anni ’80 ma successivamente se ne allontanarono nella fase stragista e terroristica, consci che avrebbe portato all’impossibilità di fare affari ma soltanto di imporre le proprie ragioni alla politica; politica che la ’ndrangheta ha sempre preferito gestire in maniera diversa rispetto a Cosa Nostra.

Oggi le mafie sanno che decidere direttamente i ministri significa esporli a troppa luce, sospetti, condanne che comprometterebbero gli affari. In passato, al contrario, pretendevano che ci fossero direttamente uomini loro, esponenti di famiglie d’onore che si installassero nelle istituzioni. Oggi si preferisce governare i flussi di denaro che sostengono i politici e i partiti, avere uomini nella burocrazia di Stato che resta immobile al passare delle maggioranze, ci si installa nei luoghi della spesa e del controllo e che sono immuni alle maree ideologiche. Se si vuole davvero conoscere la risposta alla domanda «e ora ,dopo la cattura di Messina Denaro?», bisogna dirsi questo: «ora costringiamo il dibattito sulle mafie ad essere sempre più informato e presente, ma soprattutto il più lontano possibile dalla propaganda».

Senza capi né soldi (e divisa in bande). Il futuro della Cupola sempre più incerto. Chi comanda ora? La domanda è legittima, ma non ha una risposta. E mai ce l'avrà, forse. Felice Manti il 17 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Chi comanda ora? La domanda è legittima, ma non ha una risposta. E mai ce l'avrà, forse. «Con l'arresto di Matteo Messina Denaro cambia tutta la narrazione mainstream - ragiona con il Giornale uno sbirro che ha partecipato alla cattura clamorosa di un altro latitante - perché per la prima volta da 50 anni c'è una casella vuota che nessuno può riempire. Non si può più parlare di una cupola. E anche l'Antimafia, la Procura di Palermo e chi ha combattuto finora Cosa nostra dovrà farsene una ragione».

Già, perché è vero che Messina Denaro era l'erede di Totò Riina (arrestato - che coincidenza - esattamente trenta anni fa) era un picciotto che «gli era cresciuto sulle ginocchia», e storicamente le famiglie del quadrilatero Trapani, Alcamo, Mazara del Vallo e Castelvetrano - regno del boss arrestato ieri - erano le principali alleate dei Corleonesi almeno dal 1981. «Suo padre (Ciccio, ndr) era un bravo cristiano, lo ha messo nelle mie mani per farne quello che dovevo fare... e io l'ho fatto buono...», avrebbe confidato a Giovanni Brusca l'ex capo dei capi, per cui dopo un tirocinio di cinque anni era «la luce dei suoi occhi». Ma Messina Denaro, mal visto dalle altre famiglie, non era il capo di Cosa nostra dopo la morte di Totò 'U curtu. Un po' per l'insofferenza rispetto alla sua leadership anche dentro i 17 clan trapanesi, visti anche i costi di gestione della latitanza sempre più incompatibili con i volumi d'affari, indeboliti dagli arresti e dal costoso sostentamento delle famiglie dei detenuti. Lo stesso Riina lo aveva scaricato, definendolo «un ragazzino che si è messo a prendere soldi, si interessa di se stesso e non delle questioni...».

E adesso che cosa succede? «Per qualche settimana, forse due mesi direi nulla - dice l'investigatore al Giornale - poi qualcosa succederà. I nomi? E se ti dico Settimo Mineo? Salvatore Lo Piccolo? Giovanni Motisi? Che senso ha farli? Sceglietelo voi...». «Gli ultimi blitz hanno azzerato i vertici. E nessuno tra i nuovi boss vuole farsi comandare da qualcun altro», dice invece un ufficiale di un importante corpo di polizia antimafia che conosce le nuove dinamiche criminali in Sicilia: «A Catania non ci sono solo i Santapaola-Ercolano, ci sono le paranze. Ragazzini, ma anche 25enni, armati e fuori controllo, che vogliono scalzare gli uomini d'onore cresciuti sui banchi della vecchia scuola». A Milano negli anni Ottanta il famigerato clan dei Cursoti poteva contare su 800 «soldati», l'altro giorno il nipote incensurato proprio di un loro esponente storico è stato bastonato e ferito a pistolettate a Catania. «Un segnale da decifrare, la spia di tensioni mai sopite tra gruppi criminali di ragazzini o quasi che sanno sparare e non vedono l'ora di farlo, tanto che persino le rapine e altri reati predatori sono compiuti da affiliati, non più da criminali comuni, anche per dimostrare capacità e determinazioni criminali», dice l'ufficiale. Ci sono anche i «cavalli di ritorno», vecchi boss che dopo anni dietro le sbarre reclamano una forzata riconfigurazione organica, non sempre condivisa e non priva frizioni con chi ha dovuto gestire «in reggenza» i mandamenti, cambiando equilibri di potere in modo indigeribile per l'ancient regime e per chi reclama mani libere e pieni poteri.

I business sono sempre quelli: spaccio, frodi agricole, gioco d'azzardo, scommesse e corse clandestine di cavalli, sicurezza nei locali notturni ma anche corruzione elettorale ed estorsioni, grazie a imprenditori spregiudicati e funzionari corrotti, attratti dal facile arricchimento legato agli appalti pubblici. I proventi finiscono per lo più lontano dai riflettori locali e nell'economia legale attraverso alchimie contabili in mano a insospettabili professionisti del Nord, da Milano a Londra.

Ma il territorio conta ancora, eccome. Palermo resta suddivisa in otto mandamenti, composti da trentatrè famiglie (e la Provincia è ancora strutturata in 7 mandamenti governati da altre 49 famiglie. Nessuna però sembra avere voglia di dettare legge in tutta l'isola, vista anche la «costante inoperatività» della commissione provinciale di Palermo. Meglio la propria comfort zone, finché c'è. Cosa nostra infatti deve in qualche modo «condividere» il territorio del capoluogo con le spietate confraternite nigeriane che governano il mercato della droga. «La mafia non ha più tanti soldi che ha aperto anche a spacciatori extracomunitari, che se vanno in galera non vanno mantenuti», spiega ancora l'ufficiale. Alle famiglie resta il pizzo, ma chi paga pretende che il mafioso lo aiuti a scalzare i concorrenti. E anche i picciotti sono in condivisione tra le famiglie, un prestito di manovalanza per fare economia. Come a Messina, città al centro delle influenze incrociate delle famiglie palermitane, dei boss catanesi e della dirimpettaia ndrangheta, che all'uopo fornisce gli stupefacenti. Alcuni clan come Sciuto, gli stessi Cursoti, Piacenti e Nicotra «seppur fortemente organizzati e, per quanto regolati secondo schemi classici, evidenziano una maggiore flessibilità, non facendo parte organicamente della struttura di Cosa nostra», per tacere della Stidda che ad Agrigento, Vittoria e Comiso è padrona, scrive la Dia. Divide sed non impera. Non più.

«La Mafia stava già facendo a meno di Matteo Messina Denaro» Linda Di Benedetto su Panorama il 16 Gennaio 2023.

Giacomo Di Girolamo, giornalista da anni impegnato in prima linea contro la criminalità organizzata in Sicilia, ci spiega cosa nasconde e cosa succederà ora con l'arresto del latitante numero 1 d'Italia «La Mafia stava già facendo a meno di Matteo Messina Denaro»

«È un arresto importante per lo Stato, una ferita che si rimargina dopo 30 anni. Ho sempre sostenuto che Messina Denaro fosse qui in Sicilia perché i boss hanno potere nel loro territorio»- commenta il giornalista Giacomo Di Girolamo Direttore Tp24.

Con l’arresto di Matteo Messina Denaro si è chiusa l’era dei Corleonesi assicurando così alla giustizia uno dei boss mafiosi più spietati di Cosa Nostra. Un arresto storico attorno al quale si sono sviluppate diverse teorie una delle quali sostiene che la debolezza del boss ha fatto sì che fosse “consegnato” mentre per altri il suo arresto è frutto del trentennale lavoro delle forze dell’ordine. Chi è Messina Denaro? «Fino ad oggi non sapevano quale fosse il suo volto, ne avevamo le sue impronte digitali ma c’era solo il suo DNA grazie al quale le forze dell’ordine sono state in grado di stabilire la sua identità». Messina Denaro è stato arrestato in una clinica che si trova a 200 metri dalla sede della DIA. Era protetto? «Questa latitanza è ovvio che abbia avuto delle coperture eccellenti ma non stiamo arrestando un uomo in salute e viene il sospetto che sia stato consegnato. I segnali di di distacco e disaffezione dalla base c’erano stati e qualche pentito un pó di tempo detto fa ha detto che si sarebbe costituito. Ora è giusto pensare che è stata finalmente resa giustizia alle persone che sono morte. Una volta disse che con le persone che ha ucciso si potrebbe riempire un cimitero e non faccio fatica a crederlo» Com’è la mafia siciliana oggi? «Lo sbaglio è pensare che i mafiosi siano una banda di pastori mentre in realtà sono una classe dirigente. Provenzano era in un casale a mangiare ricotta ma era anche nei salotti buoni della Palermo bene e la sua forza era mimetizzarsi nell’alta borghesia. Il punto di forza della mafia è la capacità camaleontica. Pensare che siano coppole e pizzini è irresponsabile e accresce l’egemonia mafiosa». La gente in questa lotta da che parte sta? «In Sicilia ci sono 5 milioni di abitanti i di cui 5mila mafiosi che nonostante il numero esiguo godono di un potere relazionale importante. La dimostrazione di questa forza e di questo condizionamento si è avuta con il processo per le stragi iniziato solo 25 anni dopo. Così anche se la gente ha applaudito l’arresto di Messina Denaro l’impatto di questa notizia vista la forza relazionale della mafia non si conosce. Cosa Nostra è come se fosse un hub fatto da una rete in cui ci sono imprenditori, forze dell’ordine, politici, commercianti, normali cittadini che sostengono il sistema criminale di cui oggi è fatta la mafia. Ma c’è anche tanta gente comune che ha fatto il suo, lottando contro la criminalità organizzata anche se ancora oggi non c’è stato una forte risposta all’arresto perché è stata una notizia inattesa». Come cambia la Mafia senza il suo ex capo supremo? «Messina Denaro ha cambiato la mafia perché ha avuto un’intuizione nel 1992 ossia quella di partecipare alla guerra contro stato con la consapevolezza che Totò Riina sarebbe andato a sbattere e lui sarebbe rimasto l’unico capo. Mentre oggi la mafia siciliana non è più quella di un tempo ma è ridotta ai minimi termini e l’era dei corleonesi è finita. Dopo le stragi, il potere della Mafia oggi è nei colletti bianchi che contano, forse più di prima».

Da Oggi - oggi.it il 16 gennaio 2023.

Gaspare Mutolo, il pentito che sfidò Totò Riina scegliendo di collaborare con Giovanni Falcone, commenta in esclusiva con il settimanale OGGI la cattura di Matteo Messina Denaro e ciò che può significare negli assetti di Cosa Nostra.

 «La prima cosa che mi viene in mente sono le parole di un grande uomo come Giovanni Falcone: la mafia è un fattore umano, ha avuto un inizio e sicuramente avrà una fine. Speriamo che questo arresto sia l’inizio della fine», dice Mutolo.

 «Di sicuro, non gli mancavano le possibilità di curarsi all’estero, se avesse voluto», spiega ancora lo storico collaboratore di giustizia a OGGI. «Può darsi che abbia scelto di farsi prendere. Magari spera in un allentamento delle leggi, magari era troppo malato, magari si sta entrando in una nuova era».

E sul possibile successore del boss arrestato dopo trent’anni di latitanza: «Ciò che è importante non è l’arresto in sé, ma ciò che verrà dopo. È stato rotto un equilibrio. Non ho più rapporti con quell’ambiente, ma in base alle vecchie usanze potrebbe toccare a Settimo Mineo. Io l’ho conosciuto, aveva una gioielleria in centro a Palermo, era stimato da Riina, tanti anni fa scampò a un agguato in cui morì il fratello. Adesso è molto anziano. Di certo, i veri capi, i coordinatori, sono sempre stati di Palermo, anche all’estero per tradizione i capi erano palermitani. Messina Denaro, trapanese, è stato un’anomalia».

L’ex procuratore Caselli: «Un regalo alla democrazia, ma la mafia non finisce qui». Storia di Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2023.

Adesso si dice che è un Lei, dottor Caselli, è d’accordo? «Non dico domani, ma dopodomani, il rischio di rilassarci esiste. Purtroppo, una caratteristica ricorrente della nostra antimafia è una risposta spesso altalenante e ondivaga. Abbiamo una antimafia stop and go...».

L’ex procuratore Caselli: «Un regalo alla democrazia, ma la mafia non finisce qui»© Fornito da Corriere della Sera

A Palermo negli anni più difficili, a Palermo per sempre. Ancora oggi, alla sua bella età, l’ex procuratore Giancarlo Caselli è un simbolo. Della lotta ai boss, ma anche alla zona grigia, ai legami con la politica, una pratica che ogni tanto gli ha attirato critiche e inimicizie. «Ci svegliamo davanti a delitti orrendi o arresti clamorosi come quello di oggi, e allora se ne parla, si presta attenzione. Ma poi subentra subito l’indifferenza, il disinteresse, che è anticamera della sottovalutazione. Una specie di marcia del gambero, deleteria per il contrasto di una organizzazione che invece è strutturata nei secoli».

Cosa rappresenta la «Un regalo immenso alla nostra democrazia. Così diminuisce la presa della mafia sulla politica e sull’economia. Anche se non ci sembra, da oggi siamo più liberi. Un enorme grazie ai carabinieri del Ros di Palermo e ai suoi magistrati».

Come sono di latitanza? «E la persistenza di Cosa Nostra e delle mafie in generale da oltre due secoli, come si spiega? Stiamo parlando di un fenomeno strutturato, non certo di una congrega emergenziale che spunta all’improvviso come un fungo. Perciò va colpita in ogni modo ed è importante catturare i suoi esponenti di rilievo».

Lei sembra dire che però non basta. «Non voglio fare la Cassandra in un giorno di festa. Ma la risposta alla sua domanda precedente è legata all’esistenza di quella zona grigia fatta di relazioni esterne con pezzi del mondo legale, politica, amministrazione, istituzioni, società civile, che rappresenta la spina dorsale del potere mafioso. E spesso assicura ai suoi boss complicità e lunghe latitanze».

È anche il caso di «Io sono ormai un vecchio signore in pensione, quindi non sta a me dirlo. Quand’ero a Palermo ho visto da vicino l’enorme lavoro fatto dal pm Teresa Principato, alla quale avevo affidato la cattura di Messina Denaro. Con la collaborazione delle forze dell’ordine, con enorme tenacia e caparbietà, realizzarono un’operazione dopo l’altra di costante svuotamento dell’acqua. Furono vicini a prenderlo».

Cosa mancò allora? «La zona grigia non è la spiegazione di tutto, ma è una componente fondamentale della secolare persistenza mafiosa, la più difficile da contrastare. Mi piace pensare che ci sia stata una ideale staffetta tra coloro che oggi hanno realizzato l’arresto, e tutti quelli che li hanno preceduti e hanno provato ad asciugare queste pozze di connivenza».

È davvero «Messina Denaro è uno dei capi più potenti e pericolosi di Cosa Nostra, che ha saputo cambiare registro negli anni, adattandosi a una nuova realtà. Dopo l’arresto di Totò Riina, insieme a Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca fu il protagonista della stagione degli attentati. Non è certo l’ultimo boss, ma è l’ultimo degli stragisti. Il suo arresto è importante soprattutto per i familiari delle vittime degli attentati del 1993, che aspettano ancora verità e giustizia. È un segno di speranza».

Era da molto tempo che non si parlava più di mafia. «Questo è un punto nevralgico. Nessuna polemica, ci mancherebbe. Ma da qualche anno la politica non dedica più attenzione alla criminalità organizzata. Non è in agenda. Una priorità solo a parole. A mio avviso si tratta di una disattenzione pericolosa, che alimenta la zona grigia».

Torniamo alla domanda iniziale: esiste il rischio di considerare la mafia ormai sconfitta? «Assolutamente sì. Bisogna stare attenti. Non è perché manca la primula rossa, il nome famoso da catturare, che la mafia finisce oggi. La strada è ancora lunga. Dobbiamo perseverare».

Da L’Ansa.

Da Open.online.

Da Il Corriere della Sera

Da Il Corriere del Giorno.

Da La Gazzetta del Mezzogiorno.

Da Il Quotidiano del Sud.

Da La Repubblica.

Da La Stampa.

Da L’Espresso.

Da Il Domani.

Da Il Messaggero.

Da Blitzquotidiano.

Da Avvenire.

Da L’Identità.

Da L’Inkiesta.

Da Il Tempo.

Da Il Giornale.

Da Libero Quotidiano.

Da Il Dubbio.

Da il Riformista.

Da L’Unità.

Da L’Ansa.

(ANSA lunedì 25 settembre 2023) - Molto spazio sui siti internazionali per la notizia della morte del boss Matteo Messina Denaro, avvenuta nella notte all'ospedale dell'Aquila dove era ricoverato, in una stanza blindata, per l'aggravarsi della sua malattia. 

"Mafia boss 'Diabolik' dies in custody", titola la Cnn. "Matteo Messina Denaro, 'last godfather' of Sicilian mafia, dies after long illness", scrive The Guardian. Lo spagnolo El Pais: "Muere en prisión el capo de la Mafia Matteo Messina Denaro". E la Bbc: "Messina Denaro: Notorious Italian Mafia boss dies". La Reuters pubblica in homepage la foto dell'arresto lo scorso gennaio con il boss tra due carabinieri, "Jailed Italian Mafia boss Messina Denaro dies”

(AGI mercoledì 27 settembre 2023) - Il feretro di Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa nostra morto a L'Aquila, è arrivato per la tumulazione nel cimitero di Castelvetrano. L'auto con la bara ha varcato l'ingresso principale del cimitero, mentre a piedi alcuni parenti l'accompagnavano. Il boss sarà sepolto nella cappella di famiglia, dove si trova anche il padre, anche lui mafioso, Francesco Messina Denaro.

(ANSA mercoledì 27 settembre 2023) - Dalle 5 del mattino il cimitero di Castelvetrano è presidiato dalle forze dell'ordine. Tutte le entrate del camposanto, dove tra qualche ora arriverà il carro funebre con la salma di Matteo Messina Denaro, sono ancora chiuse e non si può accedere. L'arrivo del carro funebre è previsto da uno dei due ingressi di via Marsala dove si trovano già troupe televisive e giornalisti.

(ANSA mercoledì 27 settembre 2023) - Nel cimitero di Castelvetrano, dove è atteso a momenti l'arrivo del carro funebre con la salma di Matteo Messina Denaro, sono giunti anche i familiari del boss per assistere alle esequie che si svolgeranno in forma strettamente privata. Fotografi e giornalisti, assiepati davanti all'ingresso del camposanto, vengono tenuti a distanza dalle forze dell'ordine che presidiano l'ingresso. Le prime ad arrivare sono state le sorelle Bice e Giovanna, insieme alla nipote Lorenza Guttadauro, l'avvocato di famiglia che ha svolto la funzione di tutore mentre lo zio era in ospedale e che ha curato tutti gli aspetti burocratici legati al trasferimento della salma da L'Aquila. Tra i parenti anche il cognato del boss Vincenzo Panicola, marito della sorella Patrizia, che è in carcere così come l'altra sorella Rosalia. Presente anche il fratello Salvatore che vive a Campobello di Mazara, il paese dove il latitante aveva trovato rifugio prima della cattura avvenuta il 16 febbraio scorso a Palermo. Non è ancora arrivata la figlia Lorenza, che il il boss ha incontrato per la prima volta in carcere e che ha voluto riconoscere. (ANSA).

 (AGI mercoledì 27 settembre 2023) - Il boss Matteo Messina Denaro e' stato deposto in una bara di cedro e non in quella di frassino che la nipote, Lorenza Guttadauro, aveva "opzionato" in un'agenzia funebre aquilana. Il via libera al trasporto della cassa dalla Sicilia, sempre legato a questioni di sicurezza, e' arrivato prima che il carro funebre partisse. 

L'autopsia e la composizione della salma sono state effettuate nel piano interrato dell'ospedale, in locali attrezzati. Il feretro è poi stato fatto uscire da uno degli ingressi del deposito farmaci, sul retro dell'ospedale. Il viaggio sarà scortato dalle forze dell'ordine attraverso una "staffetta" lungo i mille e oltre chilometri fino a Castelvetrano.

Da Open.online.

Estratto da open.online martedì 26 settembre 2023.

«Siamo in lutto». È il commento che un giornalista Rai, in trasferta a Castelvetrano, raccoglie da un concittadino di Matteo Messina Denaro. Incredulo, il cronista domanda: «Lei sta scherzando?». Ma il giovane […] è convinto: «No, qui siamo tutti in lutto». 

E argomenta frettolosamente «Quando faceva comodo allo Stato era buono. E dopo no?». L’intervista, andata in onda al Tg1, si conclude così. Ovviamente, il «tutti» utilizzato dall’intervistato non è veritiero. E anche il primo cittadino del Comune […] ci tiene a ricordare che il 25 settembre «è una giornata normale».

Enzo Alfano, a LaPresse, spiega che nel Consiglio comunale odierno «si è parlato dei tanti problemi di cui è afflitta la città. Sappiamo che è morto Messina Denaro: abbiamo manifestato il rispetto umano che merita, perché noi siamo diversi, non siamo mafiosi e abbiamo rispetto per la vita e per il suo epilogo, ma vogliamo ricordare chi era, un criminale, un assassino, uno stragista e così va ricordato. Non ha neanche avuto il coraggio di redimersi, di consegnarci e consegnare alla giustizia nomi, cognomi, fatti e antefatti […]. 

[…] dobbiamo cominciare un percorso di attenzione massima perché qui non ci vuole tanto a riprodurre un’attività malavitosa. La società civile […] deve mantenere una vigile attenzione perché niente possa tornare come prima. Dobbiamo andare in un percorso di legalità e non fermarci mai più».

Da Il Corriere della Sera.

Estratto dell’articolo di Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” martedì 12 settembre 2023 

La figlia di Matteo Messina Denaro ha chiesto e ottenuto di portare il cognome del padre. All’anagrafe non si chiamerà più Lorenza Alagna (dal cognome della madre, Francesca detta Franca) com’era stata registrata alla nascita, il 17 dicembre 1996, ma Lorenza Messina Denaro; non più «di padre ignoto», bensì del capomafia di Castelvetrano arrestato lo scorso 16 gennaio dopo trent’anni di latitanza, adesso ricoverato in terapia intensiva all’ospedale dell’Aquila, dove l’8 agosto ha subito un altro intervento dopo il tumore al colon che l’ha colpito tre anni fa. Le sue condizioni di malato terminale vengono definite molto gravi, e negli ultimi giorni si sarebbero intensificate le visite dei familiari.

La donna ventisettenne, a sua volta diventata madre di un bambino di due anni, entra così ufficialmente nella stirpe del boss quasi in fin di vita. Il quale in qualche modo l’aveva ripudiata, a voler usare questo termine, quando scrisse agli altri familiari: «Solo Lorenza è degenerata nell’infimo, le altre di cui so sono cresciute onestamente». [...] 

Alla figlia il padre non poteva certo rimproverare l’abbandono, poiché semmai era avvenuto il contrario. Concepita e venuta al mondo quando Messina Denaro era già ricercato, Lorenza non l’aveva mai potuto incontrare per scelta dell’uomo; ovvio infatti che la figlia e sua madre (una delle tante conquiste femminili di Matteo Messina Denaro in quegli anni) rappresentavano una possibile esca per la sua cattura, e lui se n’è sempre tenuto lontano. Mai investigatori e inquirenti, che negli anni hanno cercato ogni possibile traccia per risalire all’ultimo stragista latitante, hanno avuto neppure il sentore di un contatto tra padre e figlia. 

Messina Denaro può essersi risentito del fatto che Lorenza abbia seguito la madre nel 2012, abbandonando l’abitazione della nonna materna [...]

È emersa la testimonianza di una professoressa di liceo di Lorenza che proprio al Corriere ha raccontato: «Lei stessa una volta mi disse: “Per voi può essere uno stragista, un criminale, un super boss, ma per me resta mio padre”. Ho capito tutto il suo dolore». Poi le dichiarazioni di un avvocato per smentire le voci sulla presunta volontà della ragazza di rinnegare il papà. E successivamente i ripetuti incontri in carcere tra Lorenza e Matteo Messina Denaro. È lì che probabilmente è maturata l’idea di riunirsi sotto lo stesso cognome, non sappiamo se espressa per prima da lei o da lui. 

[...] Il cognome Messina Denaro non si aggiungerà ad Alagna, come pure sarebbe stato possibile, ma lo sostituirà. Una decisione da cui non discende necessariamente l’adesione allo status mafioso della famiglia, o al passato e alla caratura criminale del padre da parte di una figlia. Che però ha scelto di smettere di chiamarsi in un altro modo.

Messina Denaro ormai in fin di vita. «Al capezzale anche la madre ultraottantenne». Storia di Fabrizio Caccia, inviato a L’Aquila su Il Corriere della Sera sabato 23 settembre 2023.

«La mamma è voluta andare a salutarlo per l’ultima volta, ora anche lei si troverebbe a L’Aquila al capezzale di suo figlio». L’indiscrezione arriva direttamente dalla Sicilia, da Castelvetrano, il paese natale dell’ultimo boss stragista di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, 61 anni, da due giorni in coma irreversibile all’ospedale San Salvatore del capoluogo abruzzese. È il sindaco di Castelvetrano, Enzo Alfano (M5S), ad averla raccolta ieri parlando con alcuni suoi concittadini: «Mi hanno detto che è partita con la figlia Giovanna».

Lorenza Santangelo, vecchia e malata, la moglie di “Don Ciccio” Messina Denaro, capomafia della provincia di Trapani alla fine degli anni 80, qui però nessuno l’ha vista. Impossibile avere conferme. Fuori dalla stanza dov’è ricoverato Matteo Messina Denaro, nell’edificio L4, a metà di un lungo corridoio tra il Centro vaccinazioni e la Neuropsichiatria infantile, ci sono cinque poliziotti, tra loro una donna.

È il Reparto detenuti, al primo piano. Molto cortesi ma inflessibili. La porta è chiusa, difesa anche da due paraventi e loro non fanno avvicinare nessuno. In strada, poi, ci sono uomini dell’Esercito dentro a una camionetta, proprio accanto all’ingresso e ancora agenti di polizia, carabinieri, guardia di finanza e polizia penitenziaria a presidiare lo slargo, davanti a questa palazzina alta due piani e con i mattoni gialli a vista. Nessuna traccia neppure della figlia, riconosciuta in extremis da suo padre. E della nipote avvocata, Lorenza Guttadauro, tutore legale del boss. Entrambe portano il nome della nonna.

«Il paziente è stabilmente grave e in esclusivo trattamento palliativo», è l’ultimo bollettino filtrato ieri sera. Il professor Luciano Mutti, oncologo che ha preso Messina Denaro sotto la sua responsabilità clinica dal giorno successivo all’arresto, il 17 gennaio, dice che adesso è in carico ai colleghi delle terapie di supporto. Il primario, qui, è Franco Marinangeli.

Nei giorni scorsi i medici avevano già interrotto la chemio perché il fisico di Messina Denaro, minato da un tumore al colon scoperto nel 2020, era troppo debilitato. Così l’hanno prima sottoposto alla terapia del dolore poi alla sedazione, secondo le sue ultime volontà indicate in un testamento biologico. Nessun accanimento terapeutico. I sanitari sono obbligati ancora a idratarlo, ma non a rianimarlo e ad alimentarlo. Espletate alla presenza del tutore legale le ultime procedure, poi sarà questione di tempo. Ore, giorni, impossibile prevederlo. A Castelvetrano, intanto, è arrivato già l’ordine di sistemare la tomba al cimitero: «U Siccu» riposerà vicino a suo padre Francesco, Don Ciccio Messina Denaro, per lungo tempo latitante anche lui e fatto ritrovare alla sua morte, colpito da infarto, in aperta campagna, già vestito e pronto per il funerale.

Asi, Maria, Franca, Sonia e la figlia Lorenza: tutte le donne nella vita di Messina Denaro. Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera il 25 settembre 2023.

La carriera criminale del capomafia si intreccia a quella di latin lover. Dalla fidanzata austriaca (che lo spinse a far uccidere il direttore d’albergo che la corteggiava) alla maestra di Campobello arrestata per averlo coperto 

La fama di latin lover s’incrocia con quella del viveur che amava auto veloci e costose, abiti griffati e lussuosi alberghi, frequentati anche nell’estate del 1993, dopo un anno di grandi stragi, da Capaci a Via D’Amelio, da Milano a Roma e Firenze. Innocenti dilaniati e orrori dimenticati in fretta, fra Venezia e Forte dei Marmi, brindando con le fidanzate dei suoi compagni di terrore, i fratelli Graviano. E lui, Matteo Messina Denaro (morto la notte del 25 settembre per un tumore), quella funesta estate, occhiali a specchio per celare un leggero strabismo, ostentava fiero una delle sue storiche amanti, Asi, l’avvenente austriaca allora ventenne, Andrea Haslener all’anagrafe, conosciuta in Sicilia al Paradise Beach di Selinunte, pronto ad eliminare qualsiasi ostacolo, anche le avance del direttore d’albergo invaghitosi della donna e per questo ucciso.

È una delle storie d’amore di questo sanguinario boss giunto agli sgoccioli della vita fra un carcere speciale e un blindato reparto ospedaliero dove deve avere ripercorso le tappe delle sue conquiste. Grato per esempio a Maria Mesi, la sventurata finita nei guai, arrestata per favoreggiamento. Le ha scritto. Quasi una risposta alla missiva che trent’anni fa lei provò a fargli recapitare, temendo un’operazione sgancio: «Ti prego non dirmi di no, desidero tanto farti un regalo. Ho letto sulla rivista dei videogiochi che è uscita la cassetta di Donkey Kong 3 e non vedo l’ora che sia in commercio per comprartela. Quella di Secret Maya 2 ancora non è arrivata. Sei la cosa più bella che ci sia...». Si rividero e fu seguendo lei che la polizia sfiorò la cattura del boss. Nel 1998. In un covo a Bagheria, in via Milwaukee 40. Quando gli agenti fecero irruzione, forse dopo una soffiata, il latitante era già fuggito lasciando sul tavolo un barattolo di Nutella, uno di caviale, un puzzle incompleto e una stecca di sigarette Merit.

Sono tante le donne della sua vita da latitante, ma una non l’aveva mai vista, si dice. La figlia, Lorenza Alagna, 27 anni, madre di un bimbo che non conosceva il nonno. Dopo essere stata descritta come una ragazza pronta a prendere le distanze dal padre, negli ultimi mesi è cambiato tutto. Perché Lorenza si è presentata col bebè davanti allo spesso vetro del «carcere duro» riappacificandosi con lui, firmando l’atto notarile per prenderne il cognome e rinunciare a quello della madre, imposto alla nascita. Scelta appagante per nonna Lorenza, la madre di Messina Denaro e per le sue quattro sorelle che lo hanno sempre protetto, Rosalia, Bice, Giovanna e soprattutto Patrizia, la più intraprendente della famiglia, finché non arrestarono pure lei. Famiglia matriarcale di vecchio stampo dove avrebbe vissuto male la mamma della ragazza, Franca Alagna, che partorì quando il boss era ormai braccato, cosciente di non doversi più avvicinare né alla compagna né alla piccola perché tenute sotto continua osservazione. Da allora, per madre e figlia, una vita da recluse. Decise, solo quando Lorenza stava per diventare maggiorenne, a lasciare quella casa, ad allontanarsi dal resto del clan. Di qui l’idea che la stessa Lorenza potesse determinare una sterzata nella mentalità di troppi giovani indifferenti o acquiescenti davanti ai boss.

Nulla di tutto questo, come deve aver appreso soddisfatto il padrino al cambio del cognome, mentre ripercorreva il film della sua vita pensando anche a Sonia, altra amante, negli anni Novanta destinataria di un «pizzino» d’amore per tutelarla chiudendo la storia: «Non voglio nemmeno pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò per il semplice fatto che non so come e quando ci sono entrato. Non pensare più a me, non ne vale la pena...». Ben diverso il disinvolto Matteo degli ultimi tempi che si faceva i selfie alla clinica Maddalena di Palermo e provava a sedurre le sue compagne di chemio terapia facendosi chiamare Andrea. Arrivando in corsia con doni e bottiglie d’olio come fossero preziosi profumi. Simpatico, estroverso, pronto a fare il cascamorto, un po’ dongiovanni un po’ rubacuori, come abbiamo ascoltato nelle intercettazioni finite in tv dopo l’arresto. Con una delle pazienti sconvolta: «Ci sono anche mie amiche che hanno il suo numero di telefono. Lui mandava messaggi a tutti. Ha scambiato messaggi con una mia amica fino al giorno della cattura...». Evidentemente il boss aveva mollato le cautele di un tempo lasciando aprire maglie utili ai carabinieri del Ros che hanno continuato a scoprire le «sue» donne anche dopo l’arresto.

E la figura che si impone su tutte è certo quella della maestra di Campobello di Mazara fotografata con lui al supermercato, Laura Bonafede, arrestata dopo avere taciuto i loro rapporti. Scoperta così non solo da una comunità ricca di complici, ma anche dal marito, il capomafia del paese, rinchiuso al 41 bis, vittima di una tresca che nel codice di Cosa nostra è peccato mortale. Come sa il padrino che ormai non rischia la vendetta per un tradimento.

Quanto ha influito il cancro sulla cattura di Matteo Messina Denaro: «Senza il tumore non mi avreste preso». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 23 settembre 2023.

Dalla diagnosi del 2020 alla fine in carcere. I medici, dopo l’arresto, gli avevano dato da un anno e mezzo a tre anni di vita, invece il peggioramento delle condizioni di salute del boss mafioso sono state repentine

Con le pazienti conosciute durante la chemioterapia chiamava il suo tumore lo «squallido». Una ironia rassegnata di chi sapeva che i suoi giorni erano contati. Forse, però, Matteo Messina Denaro non prevedeva che la sua fine sarebbe arrivata tanto presto. Dopo la cattura — il blitz del Ros scattò il 16 gennaio proprio prima di una seduta alla clinica Maddalena di Palermo — i medici parlarono di una aspettativa di vita che andava da un anno e mezzo a tre anni. E invece è morto la notte del 25 settembre. Le cure non sono state sufficienti a concedergli più tempo. Ruota tutta attorno al tumore al colon scoperto tre anni fa l’ultima parte della vita di Messina Denaro.

«Senza la malattia non mi avreste mai preso»

Dalla diagnosi, fatta a fine 2020, tutte le mosse del capomafia sono state condizionate dal cancro. Dalla decisione di spostarsi a Campobello di Mazara, paese a pochi metri dalla casa della sua famiglia a Castelvetrano in cui ha vissuto fino all’arresto, alla scelta della Maddalena, centro sanitario d’eccellenza di Palermo, alle visite dai tanti specialisti consultati. Un cambio di passo obbligato in una esistenza fino ad allora piena di cautele. Il padrino ha dovuto abbassare la guardia. Lo dice lui stesso ai pm nel primo interrogatorio dopo la cattura: «Se non fossi stato malato non mi avreste preso». E forse qualcosa di vero c’è, spocchia a parte. Perché se, mentre piazzavano microspie a casa della sorella Rosalia, i militari non avessero trovato gli appunti dettagliati sulla patologia del fratello, non sarebbero riusciti a risalire al suo alias — quell’Andrea Bonafede preso in prestito da un fedelissimo geometra di Campobello — e poi alla clinica in cui il boss si sottoponeva alla chemio e in cui è stato arrestato.

La diagnosi dell’autunno 2020

Nessuno può dire come sarebbe andata a finire, la mente va alla storia del padre, don Ciccio, fatto trovare morto alla polizia da latitante in campagna, ma certo Messina Denaro – e lo dice lui stesso – è stato costretto ad abbassare la guardia consentendo gli investigatori di completare un puzzle che in 30 anni nessuno aveva terminato. La prima diagnosi del cancro è dell’autunno del 2020 quando il padrino, dopo una occlusione intestinale, si sottopone a colonscopia da un medio di Castelvetrano. Tutto inizia da lì. Il cancro gli viene asportato a Mazara il 13 novembre 2020 e prima di entrare in sala operatoria il boss dice ai sanitari che al sacchetto intestinale avrebbe preferito la morte. L’intervento sembra andato bene ma dopo poco la malattia si rifà viva e il paziente si rivolge alla Maddalena. Dopo i 4 cicli di chemio e i farmaci prescritti dal medico mafioso Alfonso Tumbarello, finito in cella dopo l’arresto del capomafia, torna sotto ai ferri per la resezione delle metastasi al fegato. È il 4 maggio 2021. Il mafioso è ottimista, scherza coi chirurghi: «Forza che ce la facciamo. Mettetemi a posto che devo tornare in palestra».

La scelta della sedazione profonda

Non va così. La prognosi infausta – racconta il chirurgo che l’ha operato - è «accolta con grande dignità» dal paziente che in clinica conoscono come Andrea Bonafede. Al risveglio Messina Denaro chiede ai medici: «Avete tolto tutto?» e riprende la chemio. Cure che prosegue dopo il 16 gennaio in carcere. Nell’istituto di pena de L’Aquila gli viene allestita una cella con annessa una infermeria dove viene sottoposto a terapia con l’assistenza di un oncologo e una equipe di infermieri. Le condizioni del padrino, però, peggiorano rapidamente. Messina Denaro da gennaio è tornato in sala operatoria due volte per problemi legati al tumore. Dall’ultimo intervento non si è mai ripreso. I medici hanno deciso di trattenerlo nel reparto detenuti e non è mai tornato in carcere. Nei giorni scorsi, d’accordo col paziente, hanno scelto di sedarlo. Prima ha potuto salutare i familiari più stretti, autorizzati alle visite, e dare il cognome alla figlia Lorenza, avuta in latitanza e fino ad allora mai riconosciuta. Secondo indiscrezioni, poi smentite, la ragazza, che dopo l’arresto ha incontrato il padre in cella più volte, sarebbe al suo capezzale. «È questione di pochissimo», dicono i medici parlando dell’ex primula rossa di Cosa nostra che non si è mai pentita.

Dalla latitanza alla cattura dopo ricerche durate quasi 30 anni. CorriereTv su Il Corriere della Sera domenica 24 settembre 2023.

Boss di Cosa nostra, nel 1993 viene inserito nella lista dei dieci latitanti più ricercati al mondo. Uomo chiave del biennio stragista 1992-1993, ritenuto vicinissimo a Totò Riina. Matteo Messina Denaro, figlio del capo del mandamento di Castelvetrano, nel 1989 viene denunciato per associazione mafiosa Figlio di Francesco Messina Denaro, a capo della cosca di Castelvetrano, era soprannominato 'U siccu (il magro). Nel 1989 Messina Denaro venne denunciato per associazione mafiosa, ritenuto coinvolto nella faida tra i clan Accardo e Ingoglia di Partanna e a partire dal '92 fece parte di un gruppo di fuoco, composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani. Nel novembre del '93 'U siccu fu tra gli organizzatori del sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, il bimbo di 12 anni che dopo 779 giorni di prigionia venne brutalmente strangolato e il cadavere sciolto nell'acido. Le sue tracce si sono perse nel 1993, negli anni delle bombe a Roma, Milano e Firenze. Dal 1994 su di lui pendeva un mandato di cattura internazionale. L'ultimo dei capi di mafia viene arrestato il 16 gennaio 2023 nei pressi della clinica privata La Maddalena a Palermo. Dopo l'arresto viene trasferito nel carcere dell'Aquila al regime di 41 bis.

È morto Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa Nostra aveva 61 anni. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera domenica 24 settembre 2023.

Il capomafia di Castelvetrano era ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila 

Matteo Messina Denaro è morto oggi per le conseguenze legate a un tumore al colon al quarto stadio. Il capomafia di Castelvetrano era nel reparto per detenuti dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila. L’arresto, dopo 30 anni di latitanza, risale al gennaio di quest’anno. 

Il funerale di Matteo Messina Denaro non sarà religioso. Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera domenica 24 settembre 2023.

Il veto della chiesa siciliana. La cerimonia di tumulazione sarà veloce e discreta nel cimitero di Castelvetrano. È presumibile, comunque, che tutto sarà filmato per esigenze investigative Al secondo piano dell'edificio L4, un piano più su rispetto a dove si trova la stanza di Matteo Messina Denaro , morto dopo tre giorni di coma irreversibile nel Reparto Detenuti, la nipote dell'ultimo boss stragista di Cosa Nostra, Lorenza Guttadauro, sta curando nei minimi dettagli quella che sarà la procedura post mortem dello zio.  

La stanza che le hanno riservato all'ospedale San Salvatore ormai è diventata il suo ufficio: già da giorni è in contatto da lì con le questure dell'Aquila e di Trapani, con la Procura di Palermo, con i Comuni competenti per territorio (L'Aquila e Castelvetrano, il paese natale di 'u Siccu ) e tutte le Prefetture, allo scopo di ottenere le autorizzazioni necessarie per trasferire al più presto la salma in Sicilia.

Il paziente, che per giorni è stato in esclusivo trattamento palliativo, è stato sedato, idratato ma non più alimentato né rianimato, secondo le sue ultime volontà lasciate scritte in un testamento biologico. 

Un muro di riservatezza e silenzio ha accompagnato le sue ultime ore di vita e anzi sono perfino aumentate le misure di sicurezza: basta contare il numero di uomini (almeno 15, mai così tanti, tra poliziotti, carabinieri, finanzieri, militari dell'Esercito e agenti della penitenziaria) impiegati per blindare non solo il lungo corridoio al primo piano, tra il Centro vaccinazioni e la Neuropsichiatria infantile, dove a metà strada si trovava la stanza. Ma anche tutto il resto dell'edificio, con particolare attenzione agli ingressi secondari.

Tutti i misteri di Messina Denaro - e i segreti che restano, dopo la sua morte: da Borsellino all’attentato a Costanzo. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera domenica 24 settembre 2023. 

Sono molti i misteri destinati a rimanere tali con la sua morte: dall’assassinio «saltato» di Falcone alla strage di via dei Georgofili a Firenze, dal tentato omicidio di Maurizio Costanzo alla custodia dell’archivio del «capo dei capi», Totò Riina 

Il fatto di essere l’ultimo latitante della stagione stragista di Cosa nostra, rimasto in circolazione fino a otto mesi fa, aveva trasformato Matteo Messina Denaro in un forziere di segreti. Destinati a restare tali anche ora che è morto, dopo essere stati una dei punti di forza del suo potere. Autentico o virtuale che fosse. Un forziere che poteva aprire solo lui, cosa che s’è ben guardato dal fare quando s’è trovato faccia a faccia con i magistrati inquirenti dopo la sua cattura. «Io non mi farò mai pentito», ha subito avvisato il pm nel primo interrogatorio. E quel «se ho qualcosa non lo dico, sarebbe da stupidi» pronunciato davanti al giudice a proposito dei beni patrimoniali posseduti, si poteva tranquillamente estendere ai retroscena delle trame mafiose di cui è stato protagonista. Comprese quelle che hanno insanguinato, inquinato e persino deviato la storia del Paese.

L’omidicio di Falcone

Lui sapeva e avrebbe potuto spiegare, ad esempio, per quale motivo nel marzo del 1992 Totò Riina decise di cambiare idea sull’omicidio già programmato di Giovanni Falcone. Matteo faceva parte del commando inviato a Roma con l’intento di trovare e uccidere il magistrato durante la settimana, mentre era nella capitale per lavorare al ministero della Giustizia. Ma dopo qualche giorno in cui Messina Denaro e qualche altra «giovane leva» della mafia corleonese alternavano appostamenti andati a vuoto con lo shopping per le vie del centro, Riina decise di richiamare tutti in Sicilia perché aveva trovato un’altra soluzione: la strage di Capaci. In terra di Sicilia e con modalità terroristiche. Una scelta legata all’inconcludenza della «missione romana», ma che conteneva in sé anche un cambio di strategia: non solo vendetta mafiosa, bensì un attentato così clamoroso da innescare una nuova «strategia della tensione».

Le stragi

Il capomafia di Castelvetrano sa perché fu presa quella strada, e soprattutto perché si decise di continuare a percorrerla per tutto il 1993, prima e dopo la sua entrata in latitanza. Quando Messina Denaro si sottrasse al primo ordine di arresto, nel giugno del ‘93, Cosa nostra aveva già cominciato a uccidere nel continente, con la stragi di via dei Georgofili a Firenze e il tentato omicidio di Maurizio Costanzo a Roma. Subito dopo, a luglio, esplosero le bombe di Roma e Milano: altri morti ignari, e la minaccia di colpire di giorno anziché di notte, con la minaccia di fare molte più vittime. C’era anche lui, nella riunione di inizio aprile ‘93, dove tra i mafiosi che avrebbero dovuto portare e far esplodere gli ordigni nelle varie città circolavano le foto e i dépliant turistici con le immagini dei luoghi d’arte da colpire. Chi e perché fece quella scelta? Con quale prospettiva politico-strategica da parte della mafia?

L’archivio del «capo dei capi»

Nel frattempo Riina era stato arrestato, a gennaio di quell’anno spartiacque, nel famoso blitz rimasto orfano della perquisizione del covo da dove era uscito il latitante la mattina della cattura. E da lì è scaturito un altro mistero tramutatosi in possibile segreto di cui ancora Messina Denaro sarebbe stato l’ultimo custode: l’archivio del «capo dei capi» sopravvissuto al suo stesso proprietario. Leggenda o verità che sia, è quello che hanno raccontato pentiti considerati attendibili come Nino Giuffrè, l’ex braccio destro di Provenzano consegnatosi ai carabinieri nel 2002 e divenuto collaboratore di giustizia. «Credo che parte dei documenti presi (dai mafiosi, ndr) a casa di Totò Riina siano finiti a Messina Denaro», ha ripetuto più volte nei processi. Dopo l’arresto del 16 gennaio 2023 quel “tesoro” non è venuto fuori; gli inquirenti hanno trovate molte chiavi, ma senza scoprire quali porte possono aprire. Si cercano ancora uno o più covi segreti del boss, che non ha voluto parlarne: «Queste cose io, qualora ce le avessi, non le darei mai».

L’agenda di Borsellino

Altri – tra cui quel personaggio più che ambiguo di Salvatore Baiardo, già protettore dei fratelli mafiosi Giuseppe e Filippo Graviano, che intorno alla malattia e poi alla cattura di Messina Denaro ha imbastito le sue ultime pirotecniche dichiarazioni – hanno ipotizzato che allo stesso Matteo fosse arrivata persino la famosa agenda rossa di Paolo Borsellino, sparita da via D’Amelio subito dopo la strage. Ma a sottrarre quel documento dalla scena del crimine, se così andò, non furono uomini della mafia; e se fosse vero che gli appunti segreti di Borsellino sono finiti in mano all’ultimo latitante della Cosa nostra stragista, lui avrebbe dovuto sapere tramite chi, e che uso ne è stato fatto. Poi ci sono i passaggi ancora nascosti della transizione dalla mafia che attacca lo Stato a quella che torna a conviverci, sotto la guida di Bernardo Provenzano, senza più bombe né «delitti eccellenti», ma con nuovi accordi e referenti politici che hanno consentito a Cosa nostra di riprendere il suo andamento pre-stragi, insieme agli affari di sempre. Un cambio di strategia al quale Messina Denaro non solo s’è adeguato, ma che ha condiviso.

La «mafia silente»

La corrispondenza tra lui e lo «zio Binnu», sequestrata dalla polizia nel covo alle porte di Corleone dove fu preso Provenzano nel 2006, dimostra che lo stragista del ‘93 era divenuto un sostenitore della «mafia silente» degli anni Duemila. Adottando lui stesso quella modalità di azione dopo la cattura di Provenzano, intrecciando a sua volta alleanze e complicità nella pubblica amministrazione e nel modo delle professioni che l’hanno aiutato a sfuggire alla giustizia fino al gennaio scorso. Nonostante il suo status di super-latitante e, negli ultimi tre anni, di malato bisognoso di cure complicate. Collusioni infarcite di ulteriori segreti e misteri. Forse di qualcuno si riuscirà a vanire a capo nonostante la morte del Padrino, ma molte speranze (probabilmente malriposte) di trovare risposte alle domande più impegnative e imbarazzanti se ne sono andate con lui.

Messina Denaro, la figlia Lorenza e i codici del mondo mafioso nelle scelte del boss. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2023. 

Le critiche alla discendente che ora ha il suo cognome. Non sposandosi, il capo di Cosa Nostra ha mantenuto la credibilità verso le gerarchie superiori 

Matteo Messina Denaro con il padre Francesco e il consigliere Antonio Vaccarino (Photo Masi)

Essere figlie di un uomo d’onore comporta regole difficili da sopportare, comportamenti codificati, percorsi obbligati. Eppure anche in questo Matteo Messina Denaro sembrava fare eccezione. Non si era mai sposato per una scelta precisa, una scelta di carriera.

Mi spiego: Matteo Messina Denaro, uomo d’onore che ha scalato le posizioni gerarchiche dentro Cosa Nostra nella fazione corleonese, sapeva benissimo che l’affidabilità era data dal comportamento personale e privato. L’affidabilità, quindi, sarebbe stata compromessa — a lui, che non ha mai sopportato la monogamia e le relazioni esclusive — se avesse sposato una donna per poi mantenere relazioni che Cosa Nostra definisce ancora «adulterine». Sì, è esattamente quello che avete capito: se Matteo Messina Denaro si fosse sposato e avesse iniziato ad avere altre relazioni, avrebbe minato la considerazione di affidabilità che riceveva da Salvatore Riina, e poi da Bernardo Provenzano.

Non sposandosi, Matteo Messina Denaro ha mantenuto la credibilità verso le gerarchie superiori. Messina Denaro ha una figlia nata da una delle sue relazioni avute durante l’infinita latitanza. Le indagini ce la segnalano come unica (anche se indiscrezioni mai confermate parlano di altri figli). Nata da una donna che non ha sposato, è stata però chiamata come la madre del boss, Lorenza, e per tutta la sua vita, fino a pochi giorni fa, Lorenza Alagna, figlia di Franca Maria Alagna.

Matteo Messina Denaro prova negli anni a tenere fuori Lorenza Alagna dalle dinamiche di Cosa Nostra. Le scrive più volte «Stai lontana dai mondi che non conosci», intende consigliarle di non frequentare persone che le sono state indicate come sicure. Non vuole che lei possa diventare mezzo di scambio di potere, che qualcuno possa avvicinarla, fidanzarsi, per raggiungere una posizione economica, di potere, creare alleanze in seno a Cosa Nostra. Insomma, non vuole usare sua figlia, né che sia usata per codificare nuovi patti di mafia.

Di fatto, però, quello che succede è che col tempo Lorenza si allontana da suo padre e ne rifiuta i codici. Lui ne è molto infastidito al punto da scrivere parole molto pesanti nelle lettere che sono state sequestrate nella sua abitazione. Probabilmente ciò che lo infastidisce è l’indifferenza che Lorenza ha verso la sua famiglia paterna e che cambia fidanzati. Quindi il comportamento sentimentale libero che per sé stesso ha mantenuto non lo sopporta per la figlia. Molti fidanzati — in realtà non sappiamo quanti, le indagini non lo segnalano — ma per intenderci basta anche semplicemente frequentare un ragazzo non approvato dal padre o, banalmente, non sposare il primo fidanzato per essere indicata come «poco di buono». Matteo Messina Denaro, in queste lettere però lascia trasparire il suo senso di colpa di padre assente: «La mancanza del padre non è di per sé motivo di degenerazione educativa, è solo Lorenza che è degenerata nell’intimo, le altre di cui so sono cresciute onestamente». Probabilmente è arrabbiato proprio per il comportamento che definisce «libertino», tant’è vero che in una chat dirà: «Capisce solo il ca...o, forse solo quello capisce».

Si è parlato a lungo di una distanza tra lei e il padre quando invece, a pochi giorni dalla morte, Lorenza diventa Messina Denaro. Prende il cognome del padre. E come è possibile, dopo tutti questi insulti, dopo averla definita nel peggiore dei modi — «imbelle», «ebete» —? Beh, non c’è nessuna ragione nobile, nessun’altra ragione che quella di sempre, quella che muove ogni uomo e ogni donna, quella che muove quasi ogni essere umano. Il denaro. E sì, perché le Procure non riusciranno mai a identificare tutti i soldi di Matteo Messina Denaro. È sempre un segmento quello che viene scoperto, soprattutto riguardante i beni materiali in Italia, ma i conti esteri, i suoi soldi probabilmente in Albania — un territorio dove le indagini lo hanno tracciato spesso —, i soldi nei paradisi fiscali, quelli non si raggiungono mai. Ebbene, quel denaro a chi andrà? Soltanto a eredi riconosciuti dal boss stesso.

L’eredità in Cosa Nostra non risponde alla legge, l’eredità di un uomo d’onore non si ripartisce, non si regolamenta, ma va a chi dice lui. E, soprattutto, non può andare a nessun figlio che non abbia il cognome del padre. I soldi che Cosa Nostra deve alla famiglia di Messina Denaro possono andare solo a un Messina Denaro. O a una Messina Denaro. Ecco spiegato l’arcano. Lorenza, prendendo il cognome del padre, ne prende il titolo a gestirne i capitali. E soprattutto ne prende l’eredità spirituale. In breve: dal suo sangue discende un sangue riconosciuto da Cosa Nostra.

Lei non ha avuto, per quel che sappiamo, sino ad ora un ruolo in Cosa Nostra: con la scelta che ha fatto i nipoti di Messina Denaro porteranno il suo cognome e i suoi «titoli di nobiltà». E così, la figlia che era scappata dalla bolla mafiosa in cui era destinata a vivere, poco prima della scomparsa del padre decide di riceverne la benedizione, probabilmente per gestirne l’eredità, e di essere per sempre l’erede di Matteo Messina Denaro. Poteva interrompere — rifiutando il cognome e quindi ogni legittimità di successione — la stirpe, invece ha deciso di non farlo. 

L’ultimo viaggio di Messina Denaro: bara da 1.500 euro e maxi scorta. Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 26 settembre 2023.

L’Aquila, per la salma del padrino trasferimento blindato a Castelvetrano. La Chiesa: nessun funerale 

Matteo Messina Denaro il giorno dell’arresto, lo scorso 16 gennaio, mentre arriva alla clinica La Maddalena di Palermo, dove era in cura per un tumore al colon

C’era Lorenza Guttadauro, 45 anni, avvocato di Castelvetrano, vicino allo zio Matteo Messina Denaro quando è morto, all’1,57 di ieri notte, nella stanza del reparto detenuti dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila. Il suo letto chiuso all’interno di una gabbia. Dopo tre giorni di coma irreversibile , dalla porta rossa dei malati al 41 bis, al primo piano dell’edificio L4, è uscito «’u siccu» coperto da un lenzuolo. La nipote ha accompagnato la barella fino al livello -3 dell’obitorio, ha dato un’ultima carezza a suo zio e se n’è andata.

Ieri mattina alle 8.30 però, accompagnata da un uomo, dopo una notte passata al telefono con i parenti a Castelvetrano, era già davanti all’impresa di onoranze funebri «Pacini», in via Forcella, dove senza usare troppe parole ha prenotato una bara di legno chiaro, in frassino, del costo di 1.500 euro. Matteo Messina Denaro non sarà cremato: lo aspetta un loculo nella cappella di famiglia, dov’è sepolto suo padre Francesco, già capomafia della provincia di Trapani alla fine degli Ottanta, morto d’infarto durante la latitanza. Fuori dalla tomba qualcuno dei familiari ha sistemato un angelo di marmo, per accogliere il boss al suo arrivo domani.

La Procura dell’Aquila, assieme a quella di Palermo, ha disposto per oggi l’autopsia sul corpo dell’ultimo stragista di Cosa nostra. Una decisione presa per sgombrare subito il campo da future possibili contestazioni riguardo l’effetto del regime di 41 bis su un malato di tumore al colon al quarto stadio.

L’esame terminerà in giornata e già stasera la salma di Matteo Messina Denaro dovrebbe iniziare l’ultimo viaggio, blindatissimo per motivi di ordine pubblico. Un comitato permanente con i prefetti di tutte le province interessate dal tragitto — almeno 12 ore da L’Aquila a Castelvetrano — è al lavoro per organizzare le staffette di scorta di polizia e carabinieri al corteo funebre, che si daranno il cambio lungo l’autostrada (come per i pullman degli ultrà del calcio). Ma non è escluso neppure che, come accadde con la salma di Totò Riin a , morto nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma, si opti all’ultimo per un traghetto Napoli-Palermo.

La ditta aquilana «Pacini» era in contatto già da dieci giorni con i colleghi dell’agenzia funebre di Edoardo Vaiana, a Castelvetrano. Saranno questi ultimi infatti a inviare il carro (vuoto, appunto, per motivi di sicurezza) dalla Sicilia per caricare la bara e portarla in paese.

Non ci sarà un funerale religioso : «’u siccu» in un pizzino nel 2013 lasciò scritto che non l’avrebbe mai voluto, ma la Chiesa siciliana da sempre lo nega ai mafiosi. E poi la tumulazione: cerimonia veloce (domani notte o all’alba di giovedì) , con decine di agenti fuori e dentro il cimitero off-limits. «La sua morte per noi è una liberazione», dice Giuseppe Castiglione, sindaco dem del comune di Campobello di Mazara, dove negli ultimi due anni il boss si era rifugiato con la sua nuova «vita da albero piantato in mezzo alla foresta». Sospira anche il sindaco dell’Aquila, Pierluigi Biondi (FdI): «Non verseremo lacrime, visto il terrore che ha seminato. Ma proprio la sua morte dimostra che lo Stato è più forte, perché malgrado tutto l’ha curato. A parti invertite la mafia non si sarebbe mai presa cura d’un moribondo».

«Siamo in lutto», a Castelvetrano c’è chi commenta così la morte di Messina Denaro. Condoglianze anche sui social. Il Corriere della Sera il 26 settembre 2023.

Il servizio del Tg1 nel paese che ha dato i natali al boss. I messaggi su Facebook scatenano indignazione

Alcuni cittadini di Castelvetrano si dichiarano «in lutto» per la morte di Matteo Messina Denaro. E' quanto riportato nel servizio andato in onda al Tg1 lunedì sera, realizzato dall'inviato a Castelvetrano. A dichiararsi «sconvolto» è Giuseppe Cimarosa, figlio di una cugina di Messina Denaro, che mostra al Tg1 i messaggi di condoglianze sui social da parte di decine di persone. 

«Riposi in pace e in tranquillità», scrivono su Facebook. E ancora, «Condoglianze alla famiglia. Per me un amico d’infanzia poi ognuno di noi fa le sue scelte di vita, comunque non sta a noi giudicare». Anche la pagina di Castelvetramonews è stata riempita di messaggi di cordoglio ai quali sono seguiti, in tutta risposta, messaggi indignati di coloro che reputano assurde queste manifestazioni di solidarietà nei confronti di un uomo che si è macchiato di decine di efferati delitti. (Rai)

Messina Denaro, condoglianze e frasi choc sui social. La «sua» Castelvetrano si divide. Felice Cavallaro su Il Corriere della Sera lunedì 25 settembre 2023.

Il silenzio e l’imbarazzo tra le strade della cittadina. La rabbia della professoressa e del sindaco: «È stata una rovina per noi. Grande il danno che ha fatto al suo paese»

Sono un fastidio le domande sul boss che tornerà per la sepoltura nella «sua» Castelvetrano. Lo capisci in piazza, al bar. «La morte cancella», taglia ieratico e funereo un pensionato asciutto d’ossa e di parole, lo sguardo sbilenco, invito a non insistere. E a scuola? Che succede fra i ragazzi del liceo un tempo frequentato dalla figlia di Matteo Messina Denaro, la ventisettenne Lorenza che avrebbe conosciuto il padre solo negli ultimi mesi?

«Calma piatta, tutto tace», commenta amara Bia Cusumano, l’insegnante della ex alunna che tante speranze aveva acceso. Lei ne parlava agli studenti come un modello. Ma ieri mattina è stata la prima ad essere schiaffeggiata via social mentre su Castelvetrano piovevano chat zeppe di «condoglianze alla famiglia», anzi, «10 volte condoglianze», come scrive Anna, mentre le fanno eco Giovanni, «Solo Dio può giudicare», e Giusy, «Dio ti accolga, siamo tutti peccatori». Senza pudore anche Andrea, come tutti con cognomi scritti a chiare lettere: «Se fate le condoglianze e funerali di stato («s» minuscola) a presidenti e politici che hanno abusato dei loro poteri, perché non si dovrebbero fare per Matteo?».

Scorre con disgusto «questa esplosione di sub-cultura», la professoressa schiaffeggiata sul suo profilo dove mostra il commento di un sedicente «Cicciu U siccu». Nomignolo che miscela Francesco, il padre di Messina Denaro, e «il secco» soprannome del boss. Testo collegato a quanto sperava Bia Cusumano per la ex alunna. Ed è come se il padrino parlasse dall’al di là: «La vita mia, è vita che non sai. Tutti maestri di vita, con la vita degli altri. Comunque vada, ho sempre vinto io... Sono sempre Gentile e di buone maniere. Ho vinto sempre io!».

Adesso c’è pure questo messaggio fra le denunce presentate dall’insegnante sin da quando, in aprile, si trovò inserita sul web come sorella del boss. Provocazioni tecnologiche. Capaci di ammorbare l’atmosfera di un paese dove pochi parlano della notizia del giorno. Davanti al circolo e pure a scuola. Come constata lei tornando in classe per insistere su Lorenza: «Che delusione. Aveva il cognome della madre, non un incontro con il padre, la distanza da zie e nonna paterna, un bebè mai visto dal nonno, l’università, un lavoro... E noi a sperare, ad attendere che indicasse ai suoi coetanei la strada da non percorrere...».

Si sa com’è andata. Lorenza è stata dal padre concordando di prendere il suo cognome. Nel silenzio di un paese che inquieta una delle donne coraggio di quest’area dove Elena Ferraro, sotto scorta, si oppose alla richiesta del padrino di trasformare il suo Centro di radiologia in una «lavanderia» della mafia: «Mi mandò il cugino, Mario. “Entriamo in società. Tu metti da parte i fondi neri e noi pensiamo alle famiglie dei carcerati, a pagare avvocati e testimoni”. Fanno così con le imprese qui. Non con me che non ho mai avuto paura. Finora».

La morte del boss non smorza la paura? «Al contrario, quando lui era vivo a Trapani e dintorni non doveva accadere nulla. Adesso se i palermitani vogliono imporre il nuovo capo o se qui c’è un gruppo che deve mostrarsi forte qualcuno per emergere potrebbe tornare ad agguati e bombe. Magari contro i simboli. Come lo sono diventata io, senza volerlo». Non le mancherà un appoggio, assicura il sindaco Enzo Alfano, duro con il padrino: «È stata una rovina per noi. Grande il danno che ha fatto al suo paese». In sintonia con l’assessore al turismo, Giusy Cavarretta: «Una cappa si dirada, ma tanta rabbia per quelle condoglianze...».

La morte di Messina Denaro, il funerale senza inchini e l’indecenza evitata. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera lunedì 25 settembre 2023. 

Al capomafia di Castelvetrano, il feroce mandante di tanti omicidi, sono stati negati i funerali religiosi. Le cerimonie dei boss non possono essere passerelle, come è avvenuto troppo spesso in passato 

«Clogero Vizzini / con l’abilità di un genio / innalzò le sorti del distinto casato / sagace dinamico mai stanco / diede benessere agli operai della terra e delle zolfare / operando sempre il bene / e si fece un nome assai apprezzato / in Italia e fuori / grande nelle persecuzioni / assai più grande nelle disdette / rimase sempre sorridente / e oggi / con la pace di Cristo / ricomposto nella maestà della morte / da tutti gli amici dagli stessi avversari / riceve l’attestato più bello / fu un galantuomo».

Questo l’epitaffio affisso nel 1954 sul portale della chiesa di Villalba ai funerali del potentissimo capomafia Calogero Vizzini. Parole indecenti. Precedute e seguite da altre parole indecenti alle esequie (spesso solenni) di altri padrini fino a non molti anni fa. È davvero una buona notizia, quindi, sapere che a Matteo Messina Denaro saranno negati i funerali religiosi. Chi ha fede sa che all’ultimo istante prima di morire il feroce mandante di tanti omicidi potrebbe perfino essersi pentito e lassù si regolerà con Dio. Che i suoi funerali non possano essere una passerella con l’«inchino», però, è un sollievo. Ne avevamo visti troppi.

Nicola Di Matteo: «Mio fratello Giuseppe sciolto nell’acido. Messina Denaro doveva vivere ancora per capire quanto male ha fatto». Storia di Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera lunedì 25 settembre 2023.

« La morte non si augura neanche a una persona del genere. Gli auguravo invece di soffrire a lungo, come ha sofferto mio fratello. Con la sua malattia forse avrebbe compreso quali atrocità ha dovuto patire mio fratello e il male che hanno fatto lui e i suoi amici». Non ha esitazioni Nicola Di Matteo, 42 anni, fratello di Giuseppe, il bambino segregato per 779 giorni e poi sciolto nell’acido su ordine di Matteo Messina Denaro e dei vertici di Cosa nostra per spingere il padre, Santino, a ritrattare le sue rivelazioni sulla strage di Capaci.

Quindi avrebbe voluto che soffrisse più a lungo? «Era il minimo. La sofferenza è la cosa più brutta che possa esistere a questo mondo, mentre la morte ti libera dalla sofferenza».

Eppure lui ha continuato a ripetere che non c’entrava con la morte di Giuseppe. «Non è così. È vero che i pentiti hanno detto che fu Brusca a dare l’input di uccidere Giuseppe, ma Messina Denaro organizzò il sequestro e acconsentì che fosse tenuto prigioniero nella sua provincia. Non si poteva fare una cosa del genere senza l’assenso del capo della zona, che era lui, e per questo è stato condannato. Io sono convinto che diede anche il via libera per ucciderlo».

Messina Denaro sapeva di essere ormai alla fine dei suoi giorni. Ha mai pensato che potesse collaborare con la giustizia? «No. È impossibile che persone come lui si ravvedano. Anche in punto di morte. Nascono in un modo e non cambieranno mai. Sono capaci di tutto. Non hanno un’anima».

Che segreti si porta dietro? «Tantissimi. Ci sono molte cose strane sulla sua lunga latitanza e su chi lo ha aiutato. Si è parlato a lungo di Bonafede, ma è solo l’ultimo. Messina Denaro per anni ha viaggiato tanto, anche all’estero, e non poteva farlo senza coperture importanti».

Tanto che negli interrogatori ha detto: mi avete preso solo perché sono malato. «Infatti. Pure dopo la cattura ha continuato a sfidare lo Stato, anche perché sapeva perfettamente che con la sua malattia sarebbe finita abbastanza presto. Per questo era impossibile che collaborasse con la giustizia».

Secondo lei sulla vicenda di suo fratello è stata fatta pienamente giustizia? «Penso che i responsabili principali siano stati tutti individuati, a partire da Giovanni Brusca».

Cosa pensa del fatto che proprio Brusca goda dei benefici previsti per i collaboratori di giustizia? «La legge è così e ci dobbiamo attenere alle leggi, anche quelle sui collaboratori».

C’è spazio per il perdono di Messina Denaro e degli altri carnefici di suo fratello? «Il perdono di questa gente è impossibile. Lo è per me, ma anche per mia madre. Troppo grande il dolore».

Lei continua a vivere ad Altofonte. Ha paura? Ha mai pensato di andar via? «Nessuna paura. Ho la mia famiglia e vivo la mia vita senza farmi condizionare da niente e da nessuno».

Il luogo dove è stato tenuto segregato e poi ucciso Giuseppe è diventato «Il giardino della memoria», meta di tanti giovani. Cosa prova quando torna in quel luogo? «Ogni volta è un tumulto di emozioni. Il pensiero che in quel posto abbia vissuto gli ultimi giorni prima di essere ucciso non finisce di tormentarmi. Penso spesso ai miei figli che hanno 10 e 8 anni. Quasi la stessa età che aveva lui».

Ricorda ancora il giorno della scomparsa? «Era il 23 novembre 1993, il giorno prima avevo festeggiato il mio dodicesimo compleanno. Lui ne aveva 13. Ricordo che avevamo pranzato assieme dal nonno, poi lui è andato al maneggio. Da quel momento non ho saputo più nulla. Ero molto piccolo e i miei genitori non mi dicevano assolutamente nulla. Io però capivo che era successo qualcosa, ma non avrei mai immaginato che si potesse arrivare a un simile orrore».

Messina Denaro, vietato il corteo funebre. La figlia sarà al cimitero. Fabrizio Caccia, inviato a L’Aquila, e Lara Sirignano su Il Corriere della Sera martedì 26 settembre 2023.

Il feretro del boss scortato in Sicilia. La ragazza non era al capezzale del padre. Il vescovo di Mazara: stiamo dalla parte delle vittime. La cappella che ospiterà la bara era stata tappezzata di microspie 

La questura di Trapani non ha lasciato margini: il carro funebre non attraverserà Castelvetrano, il suo paese. La bara col corpo di Matteo Messina Denaro, partita ieri sera alle 19.15 dall’ospedale de L’Aquila, dopo l’autopsia durata quasi 5 ore (nessuna sorpresa: morte avvenuta per cause naturali, cioè il tumore al colon), sarà portata questa mattina, all’arrivo, direttamente al cimitero di Castelvetrano e dovrebbe essere subito tumulata, all’alba.

Una cerimonia blindata di pochi minuti a cui parteciperanno i familiari più stretti del boss, riuniti per dire addio all’ultimo stragista di Cosa nostra. Ci saranno due delle quattro sorelle, Giovanna e Bice — Patrizia e Rosalia sono in carcere — ci sarà il fratello Salvatore, la nipote che per qualche mese è stata anche il suo avvocato, Lorenza Guttadauro, l’unica a vedere lo zio dopo la morte. E ci sarà, soprattutto, la figlia Lorenza, avuta durante la latitanza e che solo da qualche settimana porta il cognome del padre.

«Sono contenta che non sappia come era ridotto», avrebbe detto, riferendosi a lei, la Guttadauro dopo aver visto, per il riconoscimento di legge, l’altra notte il corpo del capomafia all’ospedale. Parole piene di premura che confermano il ritorno ufficiale di Lorenza Alagna (questo è il cognome materno portato fino a un mese fa), 26 anni, anche lei di Castelvetrano, dove vive con il compagno e il loro bimbetto di 2 anni, nella famiglia Messina Denaro, con cui è stata in rotta per anni. Famiglia di sangue e famiglia di mafia.

Parenti stretti

La ragazza, costretta a vivere con la nonna paterna Lorenza (anche lei) e le zie durante la latitanza del boss, lasciò la casa dei Messina Denaro a 18 anni. Una decisione mai digerita dal padrino di Castelvetrano che, nei tanti pizzini scritti alle sorelle, non ha mai risparmiato alla figlia giudizi pesantissimi. La riconciliazione con Lorenza è avvenuta solo dopo l’arresto: lunghe lettere, poi i colloqui in carcere e il «dono» del cognome.

Al cimitero, dunque, solo i parenti stretti, e nessun sacerdote, neppure per una veloce benedizione. Il capomafia ha lasciato scritto in un pizzino sprezzante la sua contrarietà ai funerali religiosi che, comunque, la Chiesa non gli avrebbe concesso, avendoli sempre negati ai mafiosi. Una linea condivisa in pieno dal vescovo di Mazara del Vallo, Angelo Giurdanella: «In questo momento noi stiamo dalla parte delle vittime, dalla parte della giustizia».

Funerale privato e blindatissimo. Ieri sera, sull’autofunebre della ditta di Edoardo Vaiana, che ha riportato morto ’u Siccu a Castelvetrano, sono salite anche le forze dell’ordine, che hanno fatto il viaggio insieme al titolare dell’impresa e ai due autisti assoldati per la lunga percorrenza. Anche la bara all’ultimo minuto è stata cambiata: il frassino ha lasciato posto al cedro, comunque legno chiaro come richiesto dal boss. Solo il costo per la famiglia è rimasto identico: 1.500 euro.

La tumulazione

La nipote, Lorenza Guttadauro, accompagnata a L’Aquila da un cugino, ha vissuto per tutti questi giorni in un b&b e ieri sera loro due sono ripartiti insieme per la Sicilia su un’utilitaria bianca. Tutti i prefetti delle province attraversate dal corteo funebre per arrivare a destinazione, sono stati coinvolti nell’organizzazione delle staffette di scorta di polizia, carabinieri e agenti del Gom della penitenziaria.

La tumulazione di Matteo Messina Denaro è prevista nella cappella bianca in cui venne sepolto anche il padre, il boss Ciccio Messina Denaro, morto da latitante.

Negli anni in cui si dava la caccia al figlio Matteo, gli investigatori per vincere il silenzio e le cautele dei familiari che, temendo le intercettazioni, non parlavano più neppure tra le mura di casa, usarono proprio la cappella di famiglia per poter avere informazioni sul ricercato. E piazzarono all’interno una serie di «cimici».

Solo che la lapide usata per nasconderle non venne rimessa bene a posto e Rosalia Messina Denaro, la più fedele delle quattro sorelle arrestata nei mesi scorsi, andata sulla tomba del padre a pregare, vide pendere da dietro dei fili. Non impiegò molto a capire di cosa si trattasse e andò dritta alla polizia a denunciare la presenza delle microspie.

Estratto dell’articolo di Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” martedì 26 settembre 2023.

Dottor Gian Carlo Caselli, lei ha guidato la Procura di Palermo negli anni più duri della lotta alla mafia, cosa significa la morte di un super boss come Messina Denaro?

«Messina Denaro aveva un peso criminale paragonabile a quello di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. La sua morte crea indubbiamente problemi e apre nuovi scenari all'interno di Cosa nostra. Nello stesso tempo non bisogna dimenticare che purtroppo si tratta di un'organizzazione “storica”, ben strutturata e consolidata, capace quindi di sopravvivere anche a perdite molto gravi come quella di un boss del suo calibro».

Quali potrebbero essere i nuovi scenari?

«Si potrebbe affermare sempre più la mafia degli affari con la cosiddetta “zona grigia”. Il rischio è che si riproponga il limite culturale che da sempre ci affligge. Quello di considerare la mafia un pericolo solo quando scorre il sangue per effetto delle sue strategie “militari”; sottovalutandola invece, fino ad accettare il rischio di conviverci, quando adotta strategie “attendiste”, dimenticando la sua lunga storia di violenza e quella straordinaria capacità di condizionamento che ha fatto di un'associazione criminale un vero e proprio sistema di potere criminale». 

La mafia stragista della quale Messina Denaro era uno dei simboli e un capitolo chiuso?

«Quella mafia sembra finita. Sembra, perché potrebbe sempre tornare, se solo converrà ai boss e ai loro complici. Bisogna fare molta attenzione ai segnali indiretti che si lanciano».

Cioè?

«[…] Certe iniziative rischiano di costituire dei segnali che si prestano a essere fraintesi». 

Quali iniziative intendete?

«Sostenere che il concorso esterno non sia un reato previsto nel nostro ordinamento, per esempio; o tagliare dal Pnrr 300 milioni di euro destinati alla gestione dei beni confiscati alle mafie, lasciando che questi beni rimanevano improduttivi e alimentando così la bestemmia che… si stava meglio quando si stava peggio». 

Messina Denaro ha detto che non l'avrebbero mai catturato se non fosse stato malato. Cosa ne pensi?

«Penso che la ricostruzione risultante dalle dichiarazioni del procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia, sia più che convincente: la malattia di Messina Denaro ha costituito un tassello del grande mosaico che i carabinieri del Ros hanno costruito intorno a lui con indubbia abilità investigativa. Piuttosto va sottolineato come al boss, e prima di lui a Riina e Provenzano, sia stata assicurata in carcere un'assistenza sanitaria continua e di prim'ordine». 

Non bisognava?

«No no, non sto dicendo questo, tutt'altro. Si tratta di un diritto che lo Stato gli ha doverosamente riconosciuto e nel contemporaneo una dimostrazione di democrazia verso chi costituisce la negazione assoluta dei valori costituzionali. […] Uno Stato che garantisce la cura anche di costoro è uno Stato forte ed evoluto».

Castelvetrano, lapidi rotte e sporcizia: il cimitero è un disastro (ma la cappella dei Messina Denaro è perfetta). Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera mercoledì 27 settembre 2023.

Tra lapidi rotte e spazzatura le tombe di tante famiglie mafiose. E vicino al boss spunta quella dell’ex sindaco Vaccarino, presunto informatore del Sisdi che tentò di incastrarlo e consegnarlo allo Stato

L’incuria nel cimitero di Castelvetrano e a destra la cappella di famiglia Messina Denaro

Sembra reduce da una violenta scossa di terremoto. Lapidi rotte, statue votive abbattute, tombe scoperchiate. E poi spazzatura e fiori lasciati a marcire ad ogni angolo degli angusti viali. In mezzo a tanta desolazione solo un’isola di decoro e rispetto per i defunti. Proprio accanto alla monumentale cappella in marmo bianco con l’intestazione «Famiglia Francesco Messina Denaro». Probabilmente è solo il frutto del solerte intervento di qualche operaio comunale in vista della tumulazione in programma di buon mattino. E magari questo tipo di pulizie vengono fatte per qualsiasi defunto e per qualunque tumulazione in programma per la giornata. Resta il fatto che il degrado complessivo del cimitero è una delle prime che saltano all’occhio.

Fa veramente impressione vedere in che condizioni è ridotto questo cimitero. Qui da questa mattina è sepolto quello che fino a qualche mese fa era il padrino indiscusso di tutta la provincia di Trapani e non solo. È stato seppellito accanto al padre, don Ciccio Messina Denaro, che di Trapani fu boss per anni. A differenza del figlio il suo ingresso in cimitero don Ciccio lo fece da latitante, riuscendo a beffare fino alla fine le forze dell’ordine che gli davano la caccia. Matteo invece per otto mesi ha sperimentato il carcere duro, anche se lui ha rivendicato con sfrontatezza: «Mi avete preso solo per la malattia». 

Comunque sia da ieri è tornato nella sua città natale ed è seppellito in questo cimitero dove il degrado regna sovrano . Qua è là tra le lapide divelte si vedono quasi emergere le bare e a giudicare dalla spazzatura e dai fiori lasciati a marcire le pulizie qui non vengono fatte da mesi. «È uno schifo» dice un signore venuto a portare dei fiori sulla tomba dei propri cari. «Lo sappiamo che c’è qualche problema — tenta di giustificarsi il custode del cimitero— a giorni sarà tutto pulito».

In questo cimitero riposano i Matteo Messina Denaro, ma anche esponenti di altre famiglie importanti della mafia locale. Dai Calcara ai Filardo. A poca distanza dalla cappella del boss c’è anche la tomba del cugino Lorenzo Cimaroso che da pentito anni fa raccontò i segreti delle cosche di Trapani. E allora, in uno degli interrogatori, per spiegare quanto era cresciuto il potere di condizionamento del figlio di Don Ciccio Cimarosa disse: «Qui, in provincia di Trapani, tutto ruota attorno a Messina Denaro». 

E poi nella parte opposta del cimitero c’è seppellito anche l’ex sindaco democristiano di Castelvetrano Antonio Vaccarino (morto nel 2021 per Covid). Ufficialmente un insegnante di lettere che sulla propria lapide ha voluto ci fosse la scritta «Verità e Giustizia, valori imprescindibili della sua esistenza terrena per i quali ha immolato la propria vita». Uno dei personaggi più controversi della storia della mafia trapanesi e degli intrecci con politica e massoneria. Si tratta di quel misterioso «Svetonio» che intrattenne un lungo rapporto epistolare proprio con Matteo Messina Denaro. Un personaggio che indicato, a fasi alterne, prima come capo della mafia di Castelvetrano, poi come massone, poi come infiltrato e informatore del Sisde che l’avrebbe ingaggiato per stanare proprio il latitante più imprendibili d’Italia (Messina Denaro si legò la cosa al dito: «A me faceva schifo come uomo — disse al pm Maurizio De Lucia nel corso dell’interrogatorio dopo l’arresto —, sapevo che lavorava con i servizi segreti, voleva vendermi per denaro»). Un mistero mai chiarito quello di Svetonio-Vacarino in una terra di misteri sempre a cavallo tra mafia, politica e massoneria.

Estratto dell’articolo di Alfio Sciacca per il "Corriere della Sera" giovedì 28 settembre 2023.

I bei riccioli neri la rendono inconfondibile, anche quando cerca di nascondersi dietro la borsa. Da ieri mattina Lorenza non è più una «sciacqualattughe» e una «degenerata», come la definiva il padre. Ma una Messina Denaro. Il riconoscimento ufficiale era avvenuto prima del ricovero in ospedale per l’aggravarsi della sua malattia. Ma è stato solo ieri al cimitero di Castelvetrano che si è avuta netta le percezione di una sorta (allo stesso tempo) di investitura e accettazione del ruolo di erede di Matteo Messina Denaro.

La scena è tutta per Lorenza, la 26enne che fino a qualche anno fa diceva di volersi affrancare dal padre mafioso e che ora sembra convintamente la figlia dello stragista Messina Denaro. Lei siede sulla berlina scura al seguito del carro funebre arrivato a Castelvetrano dopo aver attraversato mezza Italia. 

[…] Una vera erede di un capomafia tornato mestamente nella sua città natale […] Nella geografia del cordoglio familiare defilate le due sorelle (libere) del boss, Bice e Giovanna, totalmente vestite di nero e il fratello Salvatore, ex bancario in pensione che cerca di nascondersi dietro la mascherina e un mazzo di fiori gialli, i preferiti dal boss. E poi il cognato Salvatore Panicola e due nipoti. Non c’è invece l’anziana madre, bloccata in casa con la badante.

Assenti di peso le due sorelle detenute, Rosalia e Patrizia, che non hanno avuto l’autorizzazione a lasciare il carcere nemmeno per qualche ora. 

Del resto le indagini hanno accertato la loro capacità di leadership durante la latitanza del boss. Per detta di tutti sono le sole in grado di raccoglierne l’eredità dal punto di vista della gestione degli affari illeciti. Quanto a Lorenza, che ieri appariva come una convinta Messina Denaro, si dovrà vedere se riuscirà a reggere il peso di quel cognome. 

E poi c’è la questione del tesoro di Messina Denaro del quale si parla da decenni, ma che nessuno è mai riuscito a individuare. Ufficialmente il boss risultava nullatenente, tanto che in alcuni processi ha chiesto il gratuito patrocinio. Gli inquirenti sono comunque certi che un tesoro esista, ma sia stato occultato attraverso una vasta rete di teste di legno. E dal giorno dell’arresto tengono le antenne alzate convinti che prima o poi qualcuno potrebbe reclamarlo.

Ma chi? La linea di successione potrebbe essere interna alla famiglia, e probabilmente al femminile, ma anche esterna. In tal senso aprono altri scenari le parole di qualche giorno fa del comandante dei Ros Pasquale Angelosanto secondo il quale dopo l’arresto di Messina Denaro «sarebbe stato designato un reggente del clan che noi non abbiamo ancora individuato». 

Sul tesoro ci sono inchieste in corso e più di questo dagli inquirenti non trapela. Chi disegna un possibile scenario è invece Massimo Russo, magistrato che per anni ha indagato sulle cosche trapanesi. «Io penso che da molto tempo Messina Denaro abbia preparato la successione, che probabilmente avverrà all’interno della sua stessa famiglia». Ma la questione è più complessa.

«Il più grande tesoro di Messina Denaro — aggiunge Russo — è un patrimonio innaturale ed era il suo potere di ricatto. Si dovrà vedere se ci sarà qualcuno in grado di ereditarlo. […]».

Da Il Corriere del Giorno.

Messina Denaro, si aggravano le condizioni di Messina Denaro: terapia del dolore in ospedale. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'11 Settembre 2023 

Il boss, affetto da un tumore al quarto stadio, è stato ricoverato nel reparto per detenuti dell'ospedale San Salvatore dell'Aquila

Si aggravano ulteriormente le condizioni di salute del boss mafioso Matteo Messina Denaro, affetto da un tumore al quarto stadio, secondo le ultime notizie di oggi, 11 settembre 2023. Da circa una settimana il capomafia di Castelvetrano, è ricoverato nel reparto per detenuti dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila. In questi giorni avrebbe ricevuto anche la visita di parenti e del suo legale, l’avvocata Lorenza Guattadauro, che è anche sua nipote. Messina Denaro viene sottoposto da tempo alla terapia del dolore e alla nutrizione parentelare. La situazione è sotto controllo anche se le condizioni sono ritenute “molto gravi”.

L’aggravarsi delle condizioni di salute rende molto complessa la gestione della vicenda da parte di sanitari, vertici e istituzioni competenti, che sono in continuo contatto. Messina Denaro è ricoverato da oltre un mese, in mezzo a ingenti misure di sicurezza, nella struttura ospedaliera dove era stato trasferito dal carcere di massima sicurezza dell’Aquila nel quale è recluso dal 17 gennaio scorso, il giorno dopo l’arresto in regime di 41 bis. 

Da una settimana il boss mafioso è nella cella del reparto per detenuti per l’occasione ristrutturata: fino ad allora era stato curato in terapia intensiva. È sottoposto alla terapia del dolore e alla nutrizione parentelare per il sostegno fisico. Il tumore al colon di cui è affetto Messina Denaro è il secondo tipo di tumore più frequente nel nostro Paese ed è anche il secondo fra i più letali: la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi oggi si aggira attorno al 65%. Il ricorso alla chirurgia è di solito il primo passo e può essere sufficiente per aspirare alla guarigione definitiva, se la neoplasia viene individuata in stadio iniziale.

Matteo Messina Denaro era stato operato già due anni fa e, dopo la comparsa di metastasi al fegato, era stato sottoposto a un nuovo intervento chirurgico. “In caso di metastasi epatiche la chemioterapia è un trattamento standard per prolungare la sopravvivenza e contrastare i sintomi della patologia — spiega Carmine Pinto, direttore dell’Oncologia medica all’ Ausl-Irccs di Reggio Emilia —. Viene di solito prescritta per diversi mesi e, in base allo specifico sottotipo di tumore presente in ciascun malato (se è presente una determinata mutazione genetica), si possono aggiungere o meno i cosiddetti farmaci a bersaglio molecolare per prolungare il tempo a disposizione dei pazienti”.

Matteo Messina Denaro in coma irreversibile. Ha chiesto di non subire accanimento terapeutico. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Settembre 2023 

0, il silenzio del padrino è diventato irreversibile come il suo coma con la figlia Lorenza al capezzale. Gli è stata sospesa l’alimentazione, il boss aveva chiesto di non subire accanimento terapeutico.

Il boss Matteo Messina Denaro è rimasto sempre un irriducibile. Il giorno in cui i Carabinieri del Ros l’arrestarono, il 16 gennaio scorso, disse al procuratore di Palermo Maurizio de Lucia: “Con voi parlo, ma non collaborerò mai”. Il boss Matteo Messina Denaro è rimasto irriducibile anche nei giorni più terribili del tumore che l’affliggeva, ricoverato da agosto nell’ospedale dell’Aquila, fra imponenti misure di sicurezza. Da ieri sera alle 20.30, il silenzio del padrino è diventato irreversibile come il suo coma con la figlia Lorenza al capezzale. Gli è stata sospesa l’alimentazione, il boss aveva chiesto di non subire accanimento terapeutico.

In questi mesi, i pm di Palermo gli hanno chiesto del suo computer e dell’archivio. “Se lo avessi non lo direi, non è nella mia mentalità”, ha risposto senza esitazioni. Un’altra sfida allo Stato. Il pentito Antonino Giuffrè ha raccontato che l’archivio di Totò Riina venne consegnato proprio a Messina Denaro . Ma non è stato trovato nell’abitazione di Campobello dove abitava l’ultimo latitante di Cosa nostra. Fra i mille biglietti sequestrati non c’erano neanche i pizzini sugli affari. Nel suo ultimo covo noto, sono state trovate invece tante chiavi, e da queste è ricominciata l’indagine su Messina Denaro e i suoi segreti. Quelle chiavi aprono forse altri covi, o qualche cassetta di sicurezza.

La malattia ha preso il sopravvento sull’ultimo padrino delle stragi che era riuscito a restare in latitanza per trent’anni, nonostante dovesse scontare ergastoli per le stragi Falcone, Borsellino, e per le bombe di Firenze, Milano e Roma. Era stato condannato anche per il rapimento e l’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del collaboratore che svelò i segreti della strage di Capaci. Ed anche per l’omicidio dell’agente della polizia penitenziaria Giuseppe Montalto. 

Matteo Messina Denaro non ha mai smesso di custodire tanti segreti sulla lunga stagione di morte e complicità della “Cosa nostra” corleonese, nonostante la malattia lo avesse costretto a modificare i piani della sua latitanza dorata.

Durante l’ interrogatorio con i magistrati che erano andati a interrogarlo un mese dopo l’arresto lui, sfidandoli aveva risposto: “Io, durante la latitanza, non ho mai avuto rapporti con appartenenti alle istituzioni, completamente” scomodando pure un antico proverbio per allontanare ancora una volta l’idea che abbia beneficiato di complicità : “Quando scoprii questo tumore e quindi mi restava poco da… però volevo andarmi a curare, dissi: “Vediamo”. E mi sono messo a pensare, ho seguito un vecchio adagio, un proverbio ebraico che dice: “Se vuoi nascondere un albero, piantalo nella foresta”. E l’ho seguito per davvero. Anche perché dicevo: “Ora che ho la malattia, non posso stare più fuori e debbo ritornare. Qua mi gestivo meglio, nel mio ambiente“.

Dopo tanto peregrinare in Italia , dopo tanti viaggi probabilmente anche in Europa, e forse anche più lontano, nel 2020 Messina Denaro aveva deciso di tornare nella sua terra, la Sicilia, abbassando e diminuendo tutte le sue precauzioni. A Campobello di Mazara dove si nascondeva si recava pure al ristorante o a giocare al videopoker. La malattia è stata il suo punto debole. I carabinieri del Ros all’inizio del dicembre scorso, hanno scoperto nella casa della sorella un pizzino che conteneva il diario clinico di un malato di tumore, fra interventi e ricoveri. 

Dopo una veloce indagine al ministero della Salute gli investigatori del ROS hanno ristretto il cerchio delle indagini su Andrea Bonafede un anonimo geometra di Campobello, , che la mattina del 16 gennaio doveva fare una seduta di chemioterapia nella clinica La Maddalena. Ma quel Bonafede in realtà era Messina Denaro e così è finita la latitanza dell’ultimo boss delle stragi. Adesso che il suo silenzio è ormaidiventato irreversibile, bisognerà riprendere a cercare i suoi segreti e bloccare la pressochè certa riorganizzazione della mafia siciliana.

Messina Denaro è stato tenuto in cura dagli oncologici guidati dal primario del reparto, Luciano Mutti, ma anche dagli esperti della terapia del dolore del reparto di rianimazione coordinati dal primario, Franco Marinangeli, reparto nel quale Messina Denaro è stato ricoverato fino ad una decina di giorni fa in seguito all’intervento chirurgico per una occlusione intestinale.

Negli ultimi tempi, l’unico momento di cedimento Messina Denaro l’ha avuto davanti alla figlia Lorenza Alagna, che non aveva mai visto. In lacrime, l’ha riconosciuta formalmente, dandole il suo cognome. Non ci sono stati, però, incontri tra i due perché il boss avrebbe preferito non farsi vedere dalla figlia nelle gravi condizioni in cui era.

il “padrino” che era il pupillo del capo dei capi, Totò Riina, è rimasto un irriducibile . E non ha mai smesso di lanciare le sue sfide alla magistratura, allo Stato: “Certo che ho dei beni, ma mica vengo a dirlo a voi“, ha detto ai magistrati di Palermo qualche mese fa. Aggiungendo “Io non faccio parte di niente, io sono me stesso — ha dichiarato a verbale — . Mi definisco un criminale onesto“. Messina Denaro nel suo primo interrogatorio, un mese dopo l’arresto, parlò da capomafia ancora in carica. “Io non sono uomo d’onore mi ci sento“. Negando, per poi rilanciare l’unica ammissione . “Io non sono un santo però non c’entro niente con la storia del bambino Di Matteo“. Redazione CdG 1947

Da La Gazzetta del Mezzogiorno.

Matteo Messina Denaro è in coma irreversibile. In serata i medici sospenderanno l'alimentazione. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Settembre 2023

Il boss Matteo Messina Denaro, ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale de L’Aquila, è in coma irreversibile. In serata i medici sospenderanno l'alimentazione.

«Prima o poi lo prenderemo». Nella promessa di mettere fine alla latitanza di Matteo Messina Denaro si sono esercitati in questi anni ministri dell’Interno, investigatori, magistrati. L’ultima «primula rossa» di Cosa Nostra, 60 anni, arrestata il 16 gennaio, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta proprio trent'anni fa. E mentre la polizia scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l’immagine giovanile del boss il suo impero miliardario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato. È così che è stata smantellata la sua catena di protezione e di finanziamento.

È così che è stato demolito il mito di un padrino che gestiva un potere infinito ma viveva come un fantasma, anche se la sua invisibilità non gli ha impedito di diventare padre due volte. Di una figlia si sa tutto: il nome, la madre, le scelte che l'hanno portata a separare la propria vita dall’ombra pesante di un padre che forse non ha mai visto. Ha trascorso l’infanzia e l'adolescenza in casa della nonna, poi con la madre ha cambiato residenza: non è facile convivere con lo stress delle perquisizioni, dei controlli e delle irruzioni della polizia. Dell’altro figlio si sa invece quel poco che è trapelato dalle intercettazioni: si chiama Francesco, come il vecchio patriarca della dinasty, ed è nato tra il 2004 e il 2005 in quel lembo della provincia di Trapani, fra Castelvetrano e Partanna, dove Matteo Messina Denaro ha costruito il suo potere economico e criminale.

Attento a gestire la sua latitanza, e a proteggerla con una schiera di fiancheggiatori, uno dei boss più ricercati del mondo ha lasciato di sè solo l’immagine di un implacabile playboy con i Ray Ban, le camicie griffate e un elegante casual. E dietro questa immagine ormai scolorita una scia di leggende: grande conquistatore di cuori femminili, patito delle Porsche e dei Rolex d’oro, maniaco dei videogiochi, appassionato consumatore di fumetti. Di uno soprattutto: Diabolik, da cui ha preso in prestito il soprannome insieme a quello con il quale lo chiamavano i suoi fedelissimi. Un altro ancora glielo hanno affibbiato i suoi biografi «'U siccu": testa dell’acqua, cioè fonte inesauribile di un fiume sotterraneo. Anche nei soprannomi Matteo Messina Denaro impersonava il doppio volto di un capo capace di coniugare la dimensione tradizionale e familiare della mafia con la sua versione più moderna.

Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismo politico. Per questo è stato considerato l'erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre don Ciccio altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998. Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. E da allora Diabolik era sempre riuscito, a volte con fortunose acrobazie degne dell’imprendibile personaggio del fumetto, a sfuggire ai blitz. Su di lui era stata posta una taglia da un milione e mezzo, ma per fargli attorno terra bruciata gli investigatori hanno stretto in una tenaglia micidiale la rete dei fiancheggiatori. Neanche i suoi familiari sono stati risparmiati: la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, un nipote. E tanta gente fidata, costituita da prestanome spesso insospettabili, che hanno subito ripetuti sequestri patrimoniali.

Il «fantasma» di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo. Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent'anni, a cominciare dalle stragi del '92 in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è stata riconosciuta la sua mano. Lui stesso, del resto, si vantava di avere «ucciso tante persone da riempire un cimitero».

Ma se la fama di uomo spietato gli viene riconosciuta qualche dubbio si è insinuato sulla sua reale capacità di ricostruire, dopo gli arresti di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, la struttura unitaria di Cosa nostra intaccata dagli arresti e da un processo di frammentazione. Un boss che ha traghettato Cosa Nostra nel secondo millennio, senza però riuscire ad evitare di fare la stessa fine dei vecchi padrini. 

LA FIGLIA AL CAPEZZALE

Le condizioni di Matteo Messina Denaro, malato terminale di tumore al colon, si sono aggravate ieri quando ha avuto un grave sanguinamento per poi essere colpito da un collasso con i parametri vitali compromessi. Secondo i medici difficilmente supererà la notte.

Il 61enne nel testamento biologico avrebbe manifestato la volontà di non subire l’accanimento terapeutico con l’utilizzo delle macchine per essere tenuto in vita. Per questo anche con l'assenso della famiglia da alcune settimane è stato sottoposto alla terapia del dolore con la interruzione della chemioterapia e con il paziente che è passato in carico al reparto di rianimazione competente nella terapia del dolore, diretto dal professore Franco Marinangeli, e non più all’equipe oncologica diretta dal professor Luciano Mutti.

Al capezzale la nipote e legale Lorenza Guttadauria e la giovane figlia Lorenza, riconosciuta recentemente ed incontrata per la prima volta nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila nello scorso mese di aprile.

Matteo Messina Denaro è stato richiuso, in regime di 41 bis, nell’istituto di pena del capoluogo regionale il 17 gennaio scorso, il giorno dopo l’arresto a Palermo.

Dall’8 agosto scorso è ricoverato all’ospedale San Salvatore dell’Aquila dove era arrivato dal carcere per un intervento chirurgico per una occlusione intestinale: per qualche settimana è stato degente nel reparto di rianimazione, poi nonostante le sue proteste e quelle dei familiari, è stato trasferito nella cella del reparto per detenuti e guardato a vista dellaeforze dell’ordine tra ingenti misure di sicurezza sia dentro sia fuori la struttura sanitaria.

Nelle ultime settimane le condizioni si sono aggravate ed i medici e le istituzioni preposte hanno deciso la permanenza in ospedale. I suoi legali avevano minacciato la presentazione di una istanza di scarcerazione perché lo stato di salute non era compatibile con la permanenza in carcere dove nei primi mesi di carcerazione era stato curato con la somministrazione della chemioterapia nell’ambulatorio ricavato ad hoc in una stanza di fronte alla sua cella. Per una sola volta era stato trasferito al San Salvatore per effettuare degli esami.

Mafia, è morto Matteo Messina Denaro: il killer spietato che ha vissuto per 30 anni da latitante. Morto questa notte, poco dopo le due. Gli era stata sospesa l’alimentazione due giorni fa. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Settembre 2023  

Un killer spietato, amante della bella vita, l'ultimo uomo della stagione stragista, riuscito a fare sparire le sue tracce per trent'anni, grazie alla rete di complicità che aveva creato. Eccolo, Matteo Messina Denaro, morto a 62 anni, nel reparto detenuti dell'ospedale San Salvatore dell'Aquila, dopo un'agonia durata diverse settimane per il tumore al colon al quarto stadio. Nelle ultime settimane all'ex primula rossa, dopo l'intervento d'urgenza per il blocco intestinale, era stata somministrata la terapia del dolore. Tra momenti di lucidità e altri di grande sofferenza, il boss mafioso, è stato curato dal team di medici che lo hanno preso in carico dal giorno del suo arrivo al carcere di sicurezza dell'Aquila. Lì gli hanno somministrato diversi cicli di chemioterapia, ma la malattia era ormai a uno stadio molto avanzato.

Ma chi era Matteo Messina Denaro? Ufficialmente il suo nome viene iscritto nella lista dei ricercati il 2 giugno del 1993. Perché ritenuto colpevole di 4 omicidi e di associazione mafiosa. A 31 anni è ritenuto leader indiscusso delle nuove leve di Cosa nostra. Colui che ha traghettato la mafia dalle stragi mafiose a quella degli affari. Di lui, fino a quel momento, non si hanno foto segnaletiche né impronte digitali. L'ordinanza viene firmata dal gip dopo le accuse del collaboratore di giustizia Balduccio Di Maggio, lo stesso che fece arrestare il boss Totò Riina il 15 gennaio del 1993. Anche se il giovane Messina Denaro, che gira con il Rolex al polso e con vestiti firmati, ha già fatto sparire le sue tracce già da qualche mese, prima ancora della misura cautelare perché intuisce l'aria che tira.

Nel 1993 Matteo Messina Denaro è un boss emergente ma molto in vista, proprio perché figlio di don Ciccio Messina Denaro, boss che verrà fatto ritrovare morto nel 1998, dieci anni dopo la sua latitanza. Il figlio Matteo è entrato nelle grazie del boss Totò Riina che lo aveva definito un 'picciotto in gamba', un ragazzo sveglio, insomma. Un enfant prodige di cosa nostra, un giovane leone rampante su cui Cosa nostra puntava molto. Riina lo apprezza molto. E fa affidamento su di lui. Diventa parte attiva dell'organizzazione mafiosa.

Matteo Messina Denari era accusato di decine di omicidi. E delle stragi mafiose del 1992 e del 1993, "al Continente". Proprio di recente la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta aveva confermato la sua condanna all'ergastolo. Prima ancora era stato condannato per le stragi del 1993. Firenze, Roma e Milano. Le cosiddette stragi continentali di Cosa nostra, che dopo aver eliminato nemici storici - Falcone e Borsellino - passa a colpire civili inermi, con l'obiettivo di destabilizzare il Paese e ottenere un alleggerimento delle condizioni carcerarie. Cosa nostra voleva creare “una sorta di stato di guerra contro l'Italia”, da attuare con il ricorso a una precisa strategia di tipo terroristico ed eversivo, che andasse oltre i metodi e le finalità della criminalità organizzata visti sino a quel momento. Cosa Nostra, con quelle bombe, voleva “costringere lo Stato alla resa davanti alla criminalità mafiosa”. Cosa nostra compie un altro salto.

Gli investigatori sono stati alla ricerca di Messina Denaro per quasi 30 anni. E più volte sarebbero stati vicino al boss mafioso. Ci sono stati dei momenti in cui gli investigatori erano convinti di essere molto vicini. Certamente l'unico vero covo trovato fu quello di Bagheria (Palermo). Quando venne arrestata Maria Mesi, che di recente è stata nuovamente indagata per favoreggiamento. Gli inquirenti erano certi che la donna incontrasse il boss in un appartamento di Aspra, nel palermitano. Nel nascondiglio vennero trovate tracce del capomafia: una consolle Nintendo, un foulard di Hermes. La casa venne tenuta sotto controllo per un mese, ma qualcuno avvertì il capomafia ricercato che smise di andarci. La Mesi venne condannata in primo e secondo grado per favoreggiamento aggravato alla mafia. Mettendo i suoi telefoni sotto controllo gli investigatori erano riusciti a scoprire che riceveva chiamate da cellulari in uso al boss. Interrogata dalla polizia, la donna affermò di conoscere il latitante esclusivamente per motivi professionali. Ma Matteo Messina Denaro è stato segnalato in questi anni in Sudamerica, a Dubai, nel Regno Unito, in Svezia, nei Paesi Bassi. Ma non c'è certezza. Lo dicono i collaboratori di giustizia. Tutto da verificare. L'unica certezza è che Messina Denaro è stato i Spagna a curarsi gli occhi prima della sua lattanza. Ci sono sospetti che fosse andato anche dopo.

Quando la polizia fece irruzione nell’appartamento che era stato individuato, trovò in frigorifero alcune confezioni di caviale e salse austriache. C’erano poi una stecca di Merit, un foulard e un bracciale prezioso acquistato in una gioielleria di Palermo. Su un tavolo c’erano giochi della Nintendo e un puzzle a cui mancava un pezzo. C’era anche una lettera scritta all’azienda produttrice e non ancora spedita in cui l’abitante della casa chiedeva che gli fosse spedito il pezzo mancante. La polizia è convinta che l’abitante di quella casa fosse Matteo Messina Denaro e che qualcuno l’abbia avvertito.

Matteo Messina Denaro in un così lungo periodo di tempo "ha goduto di una serie di protezioni a diversi livelli, da quello di chi gli procurava l’appartamento a quello che gli ha consentito di viaggiare in molte parti del mondo e su questo sono in corso le indagini”, come ha avuto modo di dire lo stesso procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, dopo l'arresto. E a quello che gli ha consentito di potersi curare con un nome e una carta di identità fittizi. A Campobello ha vissuto protetto in un circuito in cui era sicuro. Da parte della famiglia Bonafede che era stata lasciata fuori dalla conduzione criminale perché aveva il compito di tutelare la latitanza di Messina Denaro.

Un boss 'moderno', Messina Denaro. Non si è mai sposato, amava i bei vestiti, la bella vita, amava le donne, adorava circondarsi di oggetti, amava leggere. Ma non rispettava il Codice d'onore. Era l'evoluzione di Riina e Provenzano. Aveva voglia una voglia di affermarsi diversa, non solo la voglia dle potere mafioso ma il riconoscimento personale. Un salto in avanti. Leggeva e anche tanto. Sono stati diversi i libri, soprattutto di biografie, trovate nel covo.

La ricerca di Matteo Messina Denaro ha avuto una svolta il 6 dicembre 2022, quando alcuni carabinieri del Ros fecero un ritrovamento quasi fortuito. Da tempo gli investigatori monitoravano uno dei pochi parenti stretti del boss ancora in libertà, Rosalia Messina Denaro, detta Rosetta, la più grande delle quattro sorelle. In alcune stanze della sua casa erano state installate delle microspie, ma non bastavano. “Avevamo visto che lei, quando era in compagnia di altre persone, si spostava in altri locali – diversi da quelli monitorati – per parlare”, hanno spiegato i Ros. Il 6 dicembre, quindi, i militari sono entrati in casa, alla ricerca di un posto in cui nascondere la “cimice” in una delle stanze non sotto controllo. Pensavano di metterla nelle gambe cave di una sedia, ma all’interno trovarono un foglio scritto a mano che riportava informazioni sanitarie e date, con la progressione della malattia e le cure di una persona. Da qui si è arrivati al 16 gennaio del 2023. Quando è stata scritta la parola fine sulla latitanza. Poco dopo le due della notte il decesso. Matteo Messina Denaro è morto.

Da Il Quotidiano del Sud.

La scheda/ Messina Denaro, il boss che amava la bella vita. Il Quotidiano del Sud il 25 Settembre 2023

Un killer spietato, amante della bella vita, l’ultimo uomo della stagione stragista, riuscito a fare sparire le sue tracce per trent’anni, grazie alla rete di complicità che aveva creato: eccolo, Matteo Messina Denaro, morto a 62 anni, nel reparto detenuti dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila, dopo un’agonia durata diverse settimane per il tumore al colon al quarto stadio.

Nelle ultime settimane all’ex primula rossa, dopo l’intervento d’urgenza per il blocco intestinale, era stata somministrata la terapia del dolore. Tra momenti di lucidità e altri di grande sofferenza, il boss mafioso, è stato curato dal team di medici che lo hanno preso in carico dal giorno sel suo arrivo al carcere di sicurezza dell’Aquila. Lì gli hanno somministrato diversi cicli di chemioterapia, ma la malattia era ormai a uno stadio molto avanzato.

Ma chi era Matteo Messina Denaro? Ufficialmente il suo nome viene iscritto nella lista dei ricercati il 2 giugno del 1993. Perché ritenuto colpevole di 4 omicidi e di associazione mafiosa. A 31 anni è ritenuto leader indiscusso delle nuove leve di Cosa nostra. Colui che ha traghettato la mafia dalle stragi mafiose a quella degli affari. Di lui, fino a quel momento, non si hanno foto segnaletiche né impronte digitali. L’ordinanza viene firmata dal gip dopo le accuse del collaboratore di giustizia Balduccio Di Maggio, lo stesso che fece arrestare il boss Totò Riina il 15 gennaio del 1993. Anche se il giovane Messina Denaro, che gira con il Rolex al polso e con vestiti firmati, ha già fatto sparire le sue tracce già da qualche mese, prima ancora della misura cautelare perché intuisce l’aria che tira.

Nel 1993 Matteo Messina Denaro è un boss emergente ma molto in vista, proprio perché figlio di don Ciccio Messina Denaro, boss che verrà fatto ritrovare morto nel 1998, dieci anni dopo la sua latitanza. Il figlio Matteo è entrato nelle grazie del boss Totò Riina che lo aveva definito un “picciotto in gamba”, un ragazzo sveglio, insomma. Un enfant prodige di cosa nostra, un giovane leone rampante su cui Cosa nostra puntava molto. Riina lo apprezza molto. E fa affidamento su di lui. Diventa parte attiva dell’organizzazione mafiosa.

Un boss “moderno”, Messina Denaro. Non si è mai sposato, amava i bei vestiti, la bella vita, amava le donne, adorava circondarsi di oggetti, amava leggere. Ma non rispettava il Codice d’onore. Era l’evoluzione di Riina e Provenzano. Aveva una voglia di affermarsi diversa, non solo la voglia del potere mafioso ma il riconsocimento personale. Un salto in avanti. Leggeva e anche tanto. Sono stati diversi i libri, soprattutto di biografie, trovate nel covo.

La ricerca di Matteo Messina Denaro ha avuto una svolta il 6 dicembre 2022, quando alcuni carabinieri del Ros fecero un ritrovamento quasi fortuito. Da tempo gli investigatori monitoravano uno dei pochi parenti stretti del boss ancora in libertà, Rosalia Messina Denaro, detta Rosetta, la più grande delle quattro sorelle. In alcune stanze della sua casa erano state installate delle microspie, ma non bastavano. “Avevamo visto che lei, quando era in compagnia di altre persone, si spostava in altri locali – diversi da quelli monitorati – per parlare”, hanno spogato i Ros. Il 6 dicembre, quindi, i militari sono entrati in casa, alla ricerca di un posto in cui nascondere la “cimice” in una delle stanza non sotto controllo. Pensavano di metterla nelle gambe cave di una sedia, ma all’interno trovarono un foglio scritto a mano che riportava informazioni sanitarie e date, con la progressione della malattia e le cure di una persona. Da qui si è arrivati al 16 gennaio del 2023. Quando è stata scritta la parola fine sulla latitanza.

Matteo Messina Denaro era accusato di decine di omicidi. E delle stragi mafiose del 1992 e del 1993, “al Continente”. Proprio di recente la Corte d’assise d’appello di Caltanissetta aveva confermato la sua condanna all’ergastolo. Prima ancora era stato condannato per le stragi del 1993. Firenze, Roma e Milano. Le cosiddette stragi continentali di Cosa nostra, che dopo aver eliminato nemici storici – Falcone e Borsellino – passa a colpire civili inermi, con l’obiettivo di destabilizzare il Paese e ottenere un alleggerimento delle condizioni carcerarie. Cosa nostra voleva creare “una sorta di stato di guerra contro l’Italia”, da attuare con il ricorso a una precisa strategia di tipo terroristico ed eversivo, che andasse oltre i metodi e le finalità della criminalità organizzata visti sino a quel momento. Cosa Nostra, con quelle bombe, voleva “costringere lo Stato alla resa davanti alla criminalità mafiosa”. Cosa nostra compie un altro salto.

Gli investigatori sono stati alla ricerca di Messina Denaro per quasi 30 anni. E più volte sarebbero stati vicino al boss mafioso. Ci sono stati dei momenti in cui gli investigatori erano convinti di essere molto vicini. Certamente l’unico vero covo trovato fu quello di Bagheria (Palermo). Quando venne arrestata Maria Mesi, che di recente è stata nuovamente indagata per favoreggiamento. Gli inquirenti erano certi che la donna incontrasse il boss in un appartamento di Aspra, nel palermitano. Nel nascondiglio vennero trovate tracce del capomafia: una consolle Nintendo, un foulard di Hermes. La casa venne tenuta sotto controllo per un mese, ma qualcuno avvertì il capomafia ricercato che smise di andarci. La Mesi venne condannata in primo e secondo grado per favoreggiamento aggravato alla mafia. Mettendo i suoi telefoni sotto controllo gli investigatori erano riusciti a scoprire che riceveva chiamate da cellulari in uso al boss. Interrogata dalla polizia, la donna affermò di conoscere il latitante esclusivamente per motivi professionali.

Ma Matteo Messina Denaro è stato segnalato in questi anni in Sudamerica, a Dubai, nel Regno Unito, in Svezia, nei Paesi Bassi. Ma non c’è certezza. Lo dicono i collaboratori di giustizia. Tutto da verificare. L’unica certezza è che Messina Denaro è andato in Spagna a curarsi gli occhi prima della sua lattanza. Ci sono sospetti che fosse andato anche dopo.

Quando la polizia fece irruzione nell’appartamento che era stato individuato, trovò in frigorifero alcune confezioni di caviale e salse austriache. C’erano poi una stecca di Merit, un foulard e un bracciale prezioso acquistato in una gioielleria di Palermo. Su un tavolo c’erano giochi della Nintendo e un puzzle a cui mancava un pezzo. C’era anche una lettera scritta all’azienda produttrice e non ancora spedita in cui l’abitante della casa chiedeva che gli fosse spedito il pezzo mancante. La polizia è convinta che l’abitante di quella casa fosse Matteo Messina Denaro e che qualcuno l’abbia avvertito.

Matteo Messina Denaro in un così lungo periodo di tempo “ha goduto di una serie di protezioni a diversi livelli, da quello di chi gli procurava l’appartamento a quello che gli ha consentito di viaggiare in molte parti del mondo e su questo sono in corso le indagini”, come ha avuto modo di dire lo stesso procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, dopo l’arresto. E a quello che gli ha consentito di potersi curare con un nome e una carta di identità fittizi. A Campobello ha vissuto protetto in un circuito in cui era sicuro. Da parte della famiglia Bonafede che era stata lasciata fuori dalla conduzione criminale perché aveva il compito di tutelare la latitanza di Messina Denaro.

Da La Repubblica.

Messina Denaro, così il boss si è riavvicinato alla figlia Lorenza: “Mi deve la vita due volte”. Lirio Abbate su La Repubblica il 27 settembre 2023.

All’inizio della detenzione, “u Siccu” si chiedeva per quale motivo la figlia naturale avesse chiesto di incontrarlo: “Da 26 anni sono in attesa di vederla, e lei viene adesso che sono quasi morto? Ora non ha più senso” 

Nelle prime settimane in cui era detenuto, “u Siccu” si chiedeva per quale motivo la figlia naturale Lorenza avesse chiesto di incontrarlo. «Da 26 anni sono in attesa di vederla, di parlarle, e lei viene adesso che sono in carcere e sono quasi morto? Ora non ha più senso. Non mi interessa avere alcun rapporto con lei», così si sfogava Matteo Messina Denaro, che mai aveva incontrato la ragazza nata dalla relazione avuta con Franca, una giovane di Castelvetrano i cui genitori avevano sempre osteggiato il rapporto con i Messina Denaro e mal volentieri avevano accolto la notizia del “fidanzamento”. 

In particolare, la mamma di Franca ha sempre voluto tenersi lontana dalla famiglia del boss, perché sosteneva che nulla li accomunava, tranne la nipote alla quale è molto legata. Lorenza è cresciuta con il cognome della mamma, Alagna. Quando ha appreso dell’arresto del padre, la ragazza ha presentato ai magistrati, tramite il suo legale, un’istanza per essere autorizzata ad entrare in carcere e parlargli. Ma sulla carta Lorenza Alagna e Matteo Messina Denaro non erano parenti, non c’era alcuna dichiarazione dalla quale emergeva che era la figlia del boss e quindi i pm non hanno autorizzato l’incontro. Ma la ragazza non si è arresa e lui ha continuato a ripetere che se fosse tornato indietro nel tempo avrebbe rifatto tutto tranne che una figlia. La figlia proprio no. E ripeteva: «Mai e poi mai la vorrò ricevere». 

Secondo il capomafia «Lorenza non mi ha mai cercato soltanto per essere riconoscente a sua madre e a sua nonna» un modo per giustificare la figlia, sostenendo che le persone che circondano Lorenza lo odiano «senza che io le abbia fatto nulla». Arriva addirittura a supporre che forse è la nonna a spingerla ad andarlo a trovare in carcere «tanto io sono quasi morto». E fa ipotesi, fra cui quella di una presunta eredità. Ma ufficialmente il boss è nullatenente. Spiega in questi suoi sfoghi in carcere nelle prime settimane di detenzione che lui con questo atteggiamento negativo non vuole essere cattivo con la figlia, perché contro di lei «non ho nulla», e aggiunge che se lei vuole essere riconosciuta come figlia lui non si opporrà, «ma deve essere lei a chiederlo». «Non le ho fatto del male» dice u Siccu. E poi sbotta: «Lei mi deve la vita due volte: la prima perché l’ho concepita; la seconda perché la nonna materna ha fatto di tutto per fare abortire la figlia. Ma la figlia non ha ceduto. Non lo ha fatto perché sapeva che saremmo andati a “sbattere” tutti. Se avessero ucciso mia figlia saremmo andati a “sbattere” tutti».

È la rivendicazione di una minaccia. «Ripeto, se lei vuole un riconoscimento paterno glielo concedo, perché lei è mia figlia biologica. Ma da lei non voglio nulla. Ho avuto già tutto (fa riferimento alla vita). Il mostro però sono io». E spiega che questa non è una forma di vendetta «perché un genitore non si vendica sui figli». L’assenza di un rapporto padre-figlia durante la latitanza si evince pure da piccole cose, come gli oggetti trovati nel portafoglio che aveva addosso il giorno dell’arresto. Il boss teneva diverse foto dei componenti della sua famiglia, ma non vi era quella di Lorenza. I mafiosi si nutrono anche di questi gesti per inviare messaggi. E ripete «voglio morire in pace», e diceva che aveva pensato a dove voleva essere sistemato nella cappella di famiglia nel cimitero di Castelvetrano.

Tutto questo non ha fatto cedere Lorenza, fino a quando ha ottenuto il permesso per farsi ricevere. Lo ha fatto il 26 aprile scorso, nel giorno del compleanno del boss. Lui dietro il vetro della sala colloqui, quasi impassibile, lei invece emozionata. Lui non lasciava intravedere alcuna commozione, è stato freddo anche quando Lorenza lo ha chiamato per la prima volta papà. In meno di un'ora di colloquio “u Siccu” le ha rinfacciato comportamenti che secondo lui Lorenza ha avuto quando era adolescente. Il boss le ha fatto capire che la controllava a distanza. Lorenza non nasconde la gelosia di figlia per un'altra ragazza di Campobello di Mazara di cui ha parlato suo padre in messaggi e lettere da latitante che sono emersi dopo l’arresto. Parlano di una quasi coetanea cresciuta in una famiglia mafiosa, presa come esempio in lettere e messaggi scritti da Messina Denaro, il quale adesso prova con toni pacati ad aggirare la storia e si raccomanda di non dare retta a quello che legge sui giornali o sente in televisione.

La figlia lo ascolta e poi gli spiega che ha riallacciato i rapporti familiari con le zie, le tre sorelle di suo padre, con le quali aveva avuto forti discussioni in passato, dopo la sua decisione di lasciare la casa dei Messina Denaro, dove è stata costretta a vivere per diciotto anni con la mamma. Un modo per dirgli che è rientrata nella famiglia.

Alla fine dell'incontro il boss la guarda in faccia e le dice che se vorrà il cognome di Messina Denaro all'anagrafe, lui non si opporrà. Gli incontri si sono ripetuti mensilmente, Lorenza ha portato anche il figlio piccolo a far conoscere il nonno e lui ha cambiato espressione nel volto, più rilassato, anche nel rapporto con la figlia. Il 7 agosto, il giorno prima di essere ricoverato per l’aggravarsi della malattia, Matteo Messina Denaro firma davanti ad un ufficiale di stato civile il riconoscimento di Lorenza Messina Denaro. Adesso è una di famiglia e lui ha compiuto tutto quello che aveva programmato di fare. Compresa la sua collocazione nel cimitero.

Da “Posta e risposta” - “la Repubblica” mercoledì 27 settembre 2023.

Caro Merlo, ho letto che il padre di Matteo Messina Denaro, Francesco detto don Ciccio, latitante anch'egli, venne fatto trovare stecchito in campagna, già vestito e pronto per essere messo dentro una bara. Fosse vero, sarebbe da non credere.

Luca Cardinalini – Roma 

Risposta di Francesco Merlo:

È sicuramente letteratura diabolica quel cadavere appoggiato a un albero e vestito per il funerale. E raccontano che per anni, nell'anniversario della morte, la famiglia pubblicava sul Giornale di Sicilia uno straziante necrologio. Nando Dalla Chiesa, che ai disvalori della mafia e all'estetica dell'orrore ha dedicato i suoi studi migliori, ha dato ragione a Vincenzo De Luca e, in un articolo sul Fatto, ha condannato la deriva autocelebrativa del sistema Gomorra “non più denuncia , ma propagazione irresponsabile”. 

Anche a me pare che l'impianto narrativo delle serie tv chiamate Gomorra sia come inventato dall'ufficio stampa della camorra.

In un Paese dove non funziona quasi nulla e anche la grande imprenditoria non ha più la potenza e il fascino di un tempo, l'esistenza di un'organizzazione invincibile non può non affascinare i giovani disoccupati. È normale che i ragazzi di Scampia scambino la fiction con la realtà e si affidino alla camorra come a un destino. 

Il problema però è antico. Catilina non era un ometto rozzo e insignificante come i Messina Denaro o, peggio, come Provenzano e Riina. Il suo corpo fu trovato, tra i cadaveri dei nemici, “che ancora un poco respirava”. Ben prima degli sceneggiatori di Gomorra, non solo Cicerone, che eccelleva in retorica, ma anche Sallustio, maestro di Storia, nel denunciarne la congiura criminale riconosce che Catilina “fuit magni vi animi et corporis”. 

E allora bisogna chiedersi se negargli il funerale non finisca con il rafforzare quel che Sallustio chiama “ingenio malo pravoque”. In Italia non esiste nessun'altra cerimonia collettiva che, come il funerale, riveli i rapporti di forza. È letteratura diabolica anche il funerale negato? Indebolisce o rafforza il fascino perverso del maschio?

Salvo Palazzolo per “La Repubblica – ed Palermo” giovedì 28 settembre 2023. 

Quando il carro funebre sta per entrare nel cimitero, Salvatore Messina Denaro — il fratello del capomafia morto lunedì — si precipita a poggiare una mano sul finestrino, come ad accarezzare la bara, e intanto tiene in alto un mazzo di rose gialle. I poliziotti della squadra mobile di Trapani si scambiano uno sguardo. Le rose gialle “a stelo lungo” le aveva chieste il boss Matteo Messina Denaro nei pizzini ai suoi familiari, quando ancora non era ammalato ed era l’imprendibile signore di Cosa nostra.

«Portate rose gialle sulla mia tomba», scriveva. Il delirio di onnipotenza del padrino che non ha mai smesso di custodire i segreti delle stragi e delle complicità eccellenti. E, oggi, quel mazzo di rose gialle ostentato davanti a fotografi e cameraman è già diventato un segnale inquietante. Forse, addirittura, un messaggio per gli insospettabili complici. Questo: il fratello (scarcerato anni fa) e le due sorelle ancora in libertà, Bice e Giovanna, che restano accanto a Salvatore, sono gli esecutori delle volontà (e dell’eredità?) di Matteo Messina Denaro.

Al cimitero di Castelvetrano va in scena il rito di una famiglia clan. Mentre la figlia del boss, Lorenza, piange, i fratelli sono come impietriti. Non c’è un funerale pubblico, il questore di Trapani Salvatore La Rosa l’ha vietato. Non c’è la benedizione di un prete […] lo seppelliscono accanto al padre Francesco, il vecchio capomafia di Trapani che è stato il modello criminale per il figlio.

[…] la cappella dei Messina Denaro assomiglia sempre più a un mausoleo della famiglia clan.

L’angelo che stava dentro l’hanno però spostato fuori, al boss non è mai piaciuta quella statua, temeva che gli inquirenti potessero utilizzarla per piazzarci una microspia, come avevano fatto un tempo, dietro a una lapide. E così qualche giorno fa la statua dell’angelo l’hanno tolta, per evitare ulteriori problemi. Il mausoleo è sacro per i Messina Denaro, nessuno può violarlo. A differenza delle altre cappelle, ha pure i vetri opachi, non si può guardare dentro. Potrebbe essere un luogo perfetto per incontri riservati. Al cospetto dei padrini. 

D’Altro canto, è probabile che fra quei tredici partecipanti all’ultimo saluto del parente boss, ci siano anche i misteriosi complici che il boss citava nei pizzini.

Al cimitero c’è il cognato Vincenzo Panicola. E ci sono le figlie di Rosalia, Maria e Lorenza Guttadauro, l’avvocatessa. Stanno appena cinquanta minuti al cimitero. Poi la cappella viene richiusa a chiave. Mentre la polizia continua a vigilare ogni gesto. Fuori, ai due ingressi, sono arrivati dei blindati, con i poliziotti in tenuta antisommossa.

Oggi, Matteo Messina è davvero solo. 

Da La Stampa.

Estratto dell’articolo di Francesco La Licata per “La Stampa” mercoledì 13 settembre 2023.

Ora che ha potuto prendere il cognome del padre, Lorenza Messina Denaro è definitivamente entrata nel rango di una "nobile" famiglia di mafia custode delle "migliori" tradizioni di Cosa nostra. Così tutto "torna a posto" e si chiude una storia che era rimasta "atipica" per troppo tempo. La figlia del boss rivede le sue posizioni sui comportamenti paterni e chiede di poter prenderne il cognome fino a quel momento negato e rifiutato. Ma anche lui, Matteo "u siccu" (idolo delle folle trapanesi e capo più che "spensierato" della Cosa nostra occidentale) ha fatto un passo indietro, anzi una capriola, accettando il riavvicinamento di una figlia che per anni era stata non solo poco amata, ma addirittura considerata "degenerata nell’infimo".

Non poteva finire diversamente la storia fra la giovane Lorenza (27 anni) e Matteo, boss avviato alla fine della propria discutibile esistenza. Non era immaginabile che un padrino di Cosa nostra si congedasse dalla vita terrena lasciando irrisolto un nodo così importante come il rapporto alquanto malandato con l’unica figlia e, di conseguenza, con l’unico nipote maschio, figlio di Lorenza e di un giovane uomo estraneo alle logiche mafiose. Estranea com’era, quando nasceva il bimbo, anche Lorenza che - contro ogni tradizione mafiosa - si rifiutava di imporre al figlioletto il nome del nonno Matteo, preferendo chiamarlo Nicola come il padre del marito.

[…]

Ma qualcosa deve essere cambiato dopo l’arresto di Matteo e la certezza che la malattia se lo stava consumando irrimediabilmente. D’altra parte s’era già capito che il boss di Castelvetrano aveva, in qualche modo, "sistemato" ogni "cosa concreta" (soldi e tutto il resto), certo che non gli sarebbe rimasto molto da vivere. Rimaneva da sistemare il rapporto con la figlia, perché un boss di Cosa nostra non può andarsene lasciando una figlia riconosciuta solo in modo informale.

Sarebbe stato l’ennesimo strappo alle regole mafiose compiuto da "u siccu", che già aveva da farsi perdonare il disinvolto rapporto con le donne, il coinvolgimento nell’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, le relazioni sentimentali con le mogli di "picciotti" in galera e, soprattutto, la propria indisponibilità nel mettersi a disposizione delle "famiglie" nei momenti di crisi di Cosa nostra, dopo gli arresti di Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Senza contare che la mancata riappacificazione "col proprio sangue" poteva essere letta come il più grande dei fallimenti e la certificazione di una certa "debolezza" nell’imporre una scelta alla giovane figlia.

C’è chi ha visto nel riavvicinamento fra padre e figlia la conseguenza di una qualche pressione mediatrice esterna. Questa interpretazione è stata smentita dall’avv. Lorenza Guttadauro, legale e nipote del boss (figlia di una sorella di Matteo) che ha negato qualsiasi intervento di mediazione esterna e attribuendo il "rinnovato incontro" a motivazioni di carattere personale e sentimentale. 

Ovviamente non possiamo sapere nulla in proposito e sarebbe azzardato e fuori luogo cercare di indovinare. Sappiamo però che nella più che centenaria storia della mafia siciliana non si sono quasi mai verificati "distacchi" definitivi fra padri e figli. Nessun figlio ha rinnegato la propria famiglia di sangue, neppure di fronte ad avvenimenti tanto gravi (fratelli che uccidono fratelli o sorelle) da poter incrinare solidi e collaudati legami parentali. D’altra parte la famiglia, prima ancora di quella mafiosa, sta alla base del collante che rende inviolabile l’organizzazione criminale.

[…]  la famiglia è salva, la reputazione del boss morente pure. Per non parlare del risvolto "concreto" della vicenda: una figlia legalmente riconosciuta può entrare più facilmente nell’asse ereditario. Ma di questo aspetto, per forza di cose, si sa poco e non è consentito entrarvi.

Estratto dell’articolo di Rino Giacalone per lastampa.it lunedì 25 settembre 2023. 

[…]

Nel raccontare oggi la mafia trapanese dobbiamo partire dalla lezione che ci hanno lasciato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che con Cosa nostra trapanese avevano fatto bene i conti. […] I due magistrati, Falcone e Borsellino, segnavano una profonda differenza tra la mafia palermitana e quella trapanese: la prima, dicevano, era quella militare, la seconda quella economica.

La prima è stata più facile da colpire, ma non è sconfitta e non finisce nelle tombe come i boss; la seconda ancora primeggia nonostante arresti, condanne e decine di provvedimenti di confisca, che nel trapanese superano il cinque miliardi di euro. A Trapani la mafia economica è rimasta nelle mani di Matteo Messina Denaro, sin da prima di quel 1993, anno dell’inizio della sua latitanza […] mafia non violenta che, sotterrate le armi, usa la corruzione e vende i suoi voti. La mafia delle imprese e delle banche a Trapani ha trovato un humus perfettamente adatto al suo sviluppo.

Trapani la città di certe banche e banchieri. Sulla Banca Sicula della famiglia D’Alì, grandi latifondisti e datori di lavoro dei Messina Denaro, campieri nei loro terreni di contrada Zangara di Castelvetrano, il cui esponente più noto è l'ex senatore e sottosegretario all’Interno dal 2001 al 2006 Antonio D'Alì - in carcere ad Opera da dicembre scorso per scontare una condanna a sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa – indagò nel 1991 il vice questore Rino Germanà, due anni dopo scampato a un agguato organizzato da Bagarella, Graviano e Messina Denaro. Più recente il caso della Cassa rurale di Paceco, finita nel 2016 sotto amministrazione giudiziaria per l'ipotesi di collegamenti con la massoneria e alcuni soggetti pregiudicati per reati di mafia.

Trapani, città delle finanziarie dove si sarebbe raccolto denaro sporco che – ripulito – è servito come garanzia per i mafiosi presso le city finanziarie europee. Nei primi anni 2000 la mafia era pronta a lanciare una banca tutta sua, ma l’operazione è stata mandata all’aria da un’indagine della Squadra mobile guidata dall’odierno direttore del Servizio centrale anticrimine, Giuseppe Linares, e coordinata dal pm Andrea Tarondo, una di quelle intelligenze investigative più attente al fenomeno mafioso, di fatto spinto a occuparsi oggi di ben altro, all’estero, lontano dall’Italia. Qui la mafia non è la Cosa nostra dei viddani, ma la mafia dei borghesi. 

[…] Questa mafia ha sempre avuto una precisa capacità della sommersione che funziona ancora oggi. È tanto legata alla massoneria da averne assorbito anche le caratteristiche organizzative. Mafiosi affiliati alla massoneria ne esistono tanti, ma il più importante fu il mazarese Mariano Agate tra gli iscritti alla loggia segreta C creata all’interno del circolo culturale capeggiato da un professore di filosofia, Gianni Grimaudo.

Un circolo ben frequentato, anche da magistrati e giudici, pronti a colpire il lavoro onesto di loro colleghi, alcuni dei quali uccisi da Cosa nostra, come Gian Giacomo Ciaccio Montalto. 

Non c’è indagine ancora oggi condotta dalla procura di Trapani che non si imbatta in personaggi della massoneria. In Tribunale è in corso il processo denominato Artemisia, imputati di aver creato una loggia segreta un pugno di politici di Castelvetrano, capeggiati da un ex deputato Giovanni Lo Sciuto, amico di gioventù di Messina Denaro. E ci sono inchieste che oggi dimostrano come la magistratura continui ad avere un ventre molle che permette pericolose infiltrazioni: non si spara più, ma ancora oggi finiscono nell’occhio del ciclone i magistrati che lavorano correttamente e non i traditori o i corvi. 

[…] A Trapani ci sono i colletti bianchi che parlano di Messina Denaro come di una persona da adorare e venerare. Un boss da far sindaco o addirittura premier. Questa non è una terra normale. Sembra di essere dentro la sceneggiatura della Piovra televisiva , non a caso scritta da un trapanese, Nicola Badalucco.

[…] Gommopoli-Trapani resta il luogo ideale per coltivare equivoci che danno forza alla “nuova” mafia. La città si prospetta non sempre in modo lucido dinanzi a una mafia capace di invadere la politica, la pubblica amministrazione e l’economia. La lotta contro Cosa nostra più che a Palermo si combatte qui, dove si sequestrano e confiscano i beni, dove i politici continuano a non rispettare la "distanza di sicurezza dai mafiosi" e "dalla massoneria", sale della minestra preparata in stanze segrete, servita ai trapanesi come la migliore e invece la più avvelenata

Estratto dell’articolo di “la Stampa” martedì 26 settembre 2023.

Decine di messaggi di condoglianze alla famiglia sono comparse sui social per la morte di Matteo Messina Denaro. Tra i profili Facebook dove più si leggono commenti di cordoglio, in cui si augura al boss di «riposare in pace», c'è quello di Castelvetranonews.it, testata locale online di Castelvetrano, il paese roccaforte del boss. Uno spaccato di come l'omertà nonostante tutto persista, almeno dove il boss era nato, vissuto e ha trascorso parte della latitanza. «Spero che incontri il piccolo Giuseppe», scrive Mariella riferendosi a Giuseppe Di Matteo, il bambino strangolato e poi sciolto nell'acido su ordine […] In molti reagiscono con un «vergognatevi» […] Lo scrittore Roberto Saviano su X, ex Twitter, invece ha denunciato: «Il boss è morto, l'Italia continua a essere un paese a vocazione mafiosa». […]

Estratto dell’articolo di Francesco La Licata per “la Stampa” martedì 26 settembre 2023.

A dar credito al racconto di uno dei medici che hanno curato fino all'ultimo la dipartita del boss Matteo Messina Denaro – aneddoto riportato da Antonio Massari del Fatto Quotidiano – il boss di Castelvetrano è morto con la certezza di essere ricordato dai posteri, come si conviene a chi in vita ha lasciato il segno della sua presenza. E fin qui nulla di nuovo, tenuto conto del patologico egocentrismo che ha caratterizzato le fasi cruciali delle sue scelte esistenziali. Certo, potrebbe essere ricordato dal "suo" popolo, ma come il più "Narciso" dei capi della Cosa nostra trapanese, che pure può vantare una storia di tutto riguardo. Ma molto probabilmente nessun affiliato potrebbe accostare il suo nome a quelli della vecchia guardia, sia del capoluogo che della "nobile" periferia, per esempio Alcamo e Castellammare del Golfo coi suoi Bonanno, Buccellato e i Rimi, per citare solo alcune famiglie.

Ma Messina Denaro era fatto così: autoreferenziale e pieno di sé […] A nessun boss sano di mente verrebbe in mente di ammettere pubblicamente di aver ucciso tanta gente «da poter riempire più di un cimitero». Ma lui non riusciva a non incensarsi, anche accettando di entrare nel buco nero del grande ricatto allo Stato esercitato da una mafia che con le stragi di Capaci e via D'Amelio prima e con quelle in Continente del '93 dopo, ha tentato di condizionare la vita democratica del Paese. Di quella mattanza Matteo è diventato coprotagonista, insieme coi Graviano, coi Brusca e con Leoluca Bagarella. 

[…] È storia antica, il legame dei Messina Denaro con la mafia di Corleone. Il padre di Matteo fu l'uomo di Riina (fresco di comando dopo l'arresto di Luciano Liggio) nel mandamento trapanese. Si dice che don Ciccio non andasse mai a trovare gli amici a Corleone perché erano loro, i corleonesi, che venivano ad omaggiarlo a Castelvetrano.

E il grande capo Riina prese a cuore quel giovanissimo "picciotto", esile e persino un po' cagionevole per una malattia agli occhi. Sarà stato anche per le attenzioni di Riina che don Ciccio designa Matteo suo successore, venendo meno alla regola mafiosa che vuole il figlio maschio primogenito alla guida della "famiglia" dopo la morte del padre-capo. Così Salvatore, il fratello più grande, resta nelle retrovie a curare le amicizie importanti e diventa factotum dei nobili feudatari D'Alì (Antonino sarà condannato per mafia dopo una lunga militanza berlusconiana) entrando pure nella banca di loro proprietà.

Per Matteo si spalanca la via del comando, ma solo nel territorio trapanese. Così ha scelto il giovane erede di don Ciccio che non ha mai voluto la poltrona di capo della cupola perché «troppo faticosa» per lui che amava più la bella vita che la responsabilità del capo supremo. 

Già, la bella vita. Ancora giovanissimo "spazzolava" le strade di Castelvetrano con la sua Porsche e organizzava grandi mangiate nei ristoranti di Marinella di Selinunte dove si presentava sempre accompagnato da belle donne. Anche questa "passione" è da ascrivere alla sua insanabile voglia di apparire e primeggiare.

Lui le donne non le amava, le possedeva e se ne appropriava con l'ostentazione del potere e della ricchezza. Ne sa qualcosa la sua fidanzata storica, l'austriaca Andrea Haslehner, che ricorda ancora le sontuose vacanze con Matteo, quelle dei tempi remoti e quelle più recenti, quando in Versilia, nel 1992, insieme con i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano e le loro compagne trascorrevano spensierate e ricche ferie mentre i maschi preparavano l'attentato dove sarebbero morti Giovanni Falcone e la moglie, Francesca Morvillo, insieme con i tre agenti di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. È ricorrente la passione di Matteo per le spese pazze. Anche a Roma si fece conoscere. Era stato mandato a "monitorare" le giornate del giudice Falcone nell'ipotesi di un attentato "classico" (cioè senza bombe) da compiere a Roma. Ma Matteo spariva e andava per negozi a via Condotti a comprare indumenti alla moda. 

La sua leggerezza non sfuggì a Riina che fece rientrare in Sicilia il "gruppo di fuoco" che spendeva tanto e realizzava poco, tanto da «perdere di vista» Falcone che pranzava al ristorante La Carbonara di Campo dei Fiori mentre loro lo cercavano al Matriciano in Prati.

Un capo "malgré lui" : così probabilmente era visto dai suoi. […]

Matteo si è fatto sempre i fatti suoi, nel senso che ha sempre esaudito i propri desideri e badato ai propri interessi. Non sono, queste, malignità anonime. No, è Riina in persona che trancia giudizi impietosi su Matteo quando, parlando con un suo compagno di cella, viene intercettato dalle "cimici" di Stato. Riferendosi a Matteo, ammette: «Quello lì pensa solo ai fatti suoi, ai suoi affari, ai pali della luce». Il riferimento, chiaro, va all'interessamento di Matteo per il business del voltaico e delle pale eoliche.

Ecco, in questo campo Matteo è stato davvero un fuoriclasse riuscendo a perpetuare la tradizione economica e finanziaria dei cugini, grandi esattori, Ignazio e Nino Salvo, politici andreottiani, imprenditori e mafiosi di Salemi (ancora Trapani). Ha saputo creare un tessuto economico che ha dato ricchezza (a volte anche legale) al territorio ed ha vincolato molti imprenditori evitando loro il pagamento del "pizzo" sugli appalti. Per questo erano in molti ad amarlo, fino a dire: «U Siccu è tutto, da lui viene il bene». Cioè i soldi. E ora che lui "U Siccu" non c'è più quegli stessi ammiratori potranno persino tirare un sospiro di sollievo, perché venuto meno il grande latitante si attenuerà la pressione repressiva dello Stato e nessuno andrà più in carcere per "stringere il cerchio" attorno al ricercato. Ma gli affari e le ricchezze accumulate resteranno. Anche senza Matteo.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “la Stampa” martedì 26 settembre 2023.

«Lo hanno tradito il tumore e la bravura degli investigatori. Certo lui aveva allentato un po' le difese e se devo dirla tutta credo anche che non abbia, al momento, un erede che possa replicare il suo livello criminale. Qualcuno, nominalmente occuperà il suo posto, ma non a lui paragonabile». 

Se c'è un magistrato che conosce, più di altri, i Corleonesi stragisti, di cui Messina Denaro era l'ultimo e tra i più crudeli interpreti, quello è Alfonso Sabella. Già sostituto procuratore nel pool antimafia di Palermo all'epoca in cui l'ufficio giudiziario era guidato da Gian Carlo Caselli, si è guadagnato (honoris causa) il soprannome di "Cacciatore di latitanti". Giovanni Brusca, Pietro Aglieri, Leoluca Bagarella sono solo alcune delle "prede" delle sue indagini. Senza contare che la sorella Marzia, attuale Pg a Palermo, era nel gruppo di magistrati che arrestarono Provenzano.

Chi muore con la scomparsa di Messina Denaro?

«Sarò franco: muore uno degli ultimi tre soggetti in grado di rivelare a questo Paese che cosa sia realmente accaduto dalla strage di Capaci a quelle continentali di Firenze, Milano e Roma». 

Muore un capo?

«Non il Capo di Cosa nostra, da questo punto di vista mi permetta di dire che forse è stato un po' mitizzato. Peraltro è stata una sua scelta non diventare il numero uno dei Corleonesi». 

Avrebbe potuto farlo?

«Certo: dopo l'arresto di Bagarella ha lasciato il testimone a Giovanni Brusca».

Strategia?

«Ha ritenuto di mettersi in attesa, si è rintanato nel mandamento di Trapani, suo territorio di elezione dove si sentiva (ed era) realmente protetto, ha stretto un rapporto di non belligeranza con Bernardo Provenzano e allo stesso tempo un'opera di sommersione criminale».

Perché lo ha fatto?

«Come Capo dei capi sarebbe stato iper-esposto con tutte le conseguenze del caso». 

Quindi strategia giusta?

«Diciamo che aveva capito che l'approccio di attacco frontale allo Stato andava abbandonato e che sarebbe stato meglio lucrare sul potere criminale che certamente aveva acquisito per guadagnare economicamente».

C'è riuscito?

«Lui sì, ma con questa scelta, di fatto, ha impedito ai suoi luogotenenti di crescere». 

Messina Denaro, dicono alcuni, si è sostanzialmente consegnato...

«Cazzate, non mi vergogno a dirlo». 

Perché?

«Nella storia di Cosa nostra mi sono capitati pochissimi che si siano fatti trovare. Tendenzialmente erano coloro che sapevano che Cosa nostra li avrebbe ammazzati. […]. 

[…]

Che Cosa nostra è, quella orfana di Messina Denaro?

«La vedevo già boccheggiante prima. Ha saccheggiato la Sicilia fin troppo per quello che poteva prendere. E poi è fuori dal business più remunerativo delle mafie che è in mano alla ‘ndrangheta da tempo». 

La droga?

«Il narcotraffico internazionale». 

[…] C'è un erede del super boss?

«Al momento credo che nessuno possa replicare il suo livello criminale. Qualcuno nominalmente occuperà il suo posto, ma non a lui paragonabile. E poi l'asse centrale dell'organizzazione non è da tempo riconducibile al gruppo Corleonese».

E dove è virato?

«È di nuovo a Palermo».

Da L’Espresso.

È morto Matteo Messina Denaro, l'ultimo stragista mafioso. E si porta i segreti nella tomba. Il boss di Cosa Nostra, catturato a inizio anno dopo una latitanza dorata durata trent'anni, è spirato in ospedale dopo una lunga malattia. Lasciando dietro crudeltà, sangue e troppi misteri. Enrico Bellavia su L'Espresso il 25 Settembre 2023

Era già morto il 16 gennaio. Quando con aria più dimessa che incredula, pallido emulo del bad guy che era stato, Matteo Messina Denaro, si era lasciato quasi docilmente portare via dalla clinica dove si sottoponeva ai cicli di chemio. 

Qualche mese prima, i carabinieri, entrati nell’appartamento della sorella, coltivando una pista abbandonata dalla polizia, avevano rintracciato un pizzino che dava conto della sua malattia. Abbastanza per setacciare i registri dei malati oncologici della provincia, scremare una mole di dati, incrociare alcuni nomi e restringere il campo delle ricerche alla casa di cura Maddalena di Palermo, dove era poi scattato il blitz per porre fine alla sua trentennale latitanza. Appena il giorno dopo l’anniversario dei sei lustri dell’arresto di Totò Riina, andava a chiudersi il cerchio sugli stragisti corleonesi. E per Matteo si apriva la porta di un carcere come un mese prima era accaduto all’ex potentissimo sottosegretario all’Interno, Antonino D’Alì che si era giocato tutto fino a una condanna per mafia, pur di proteggere il figlio di quello che era stato il campiere dei possedimenti di famiglia. 

Per curare Matteo Messina Denaro, nel penitenziario de L’Aquila avevano allestito una sorta di mini-clinica. E così i giudici avevano potuto respingere fino all’inevitabile epilogo le richieste di scarcerazione presentate dalla nipote-avvocato Lorenza Guttadauro. La decisione di trasferirlo nell’ospedale della città, per sottoporlo a un nuovo intervento è coincisa con una fine annunciata data ormai per imminente. Il ricovero blindato, gli incontri più fitti con i familiari. La decisione della figlia Lorenza di assumere il cognome Messina Denaro rinunciando a quella della madre. 

Il boss, in questi mesi, aveva accettato il confronto con i magistrati andati a interrogarlo, aveva ammesso qualcosa, ma si era chiamato fuori dalle stragi e dall’uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito Santo, sequestrato e ucciso sul finire degli anni Novanta per indurre il padre a ritrattare. Ha accreditato l’idea di un uomo che ha sì vissuto pericolosamente ma attento a dirsi estraneo alle nefandezze provate da sentenze ormai definitive. 

Nei trent’anni di vita da fuggiasco, un esilio dorato, protetto da una rete estesa che solo negli ultimi tempi si era via via assottigliata, Matteo Messina Denaro è stato il rampollo arrogante del boss storico della sua Castelvetrano, don Ciccio Messina Denaro, poi lo stragista cresciuto ai precetti di Totò Riina, il fidato consigliere di Bernardo Provenzano, fattosi capo moderato quando lo scettro del comando gli era scivolato tra le mani. E Matteo aveva perfino deluso il suo mentore che gli rimproverava di aver pensato troppo agli affari: dai supermercati alle pale eoliche trascurando l’organizzazione. 

Fratello d’azione di Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio che ascrive al nonno materno il finanziamento degli esordi imprenditoriali di Silvio Berlusconi, aveva condiviso con lui l’estate del 1993. Mentre il Paese vacillava sotto le bombe di Roma, Milano e Firenze ad appena un anno dalle stragi in Sicilia, Matteo, Giuseppe e il fratello di sangue di quest’ultimo, Filippo, si spostavano dalla Versilia alla Sardegna, dal Piemonte a Milano, lasciando che uno squadrone di fedelissimi portasse a compimento gli attentati. 

Della sua biografia, ingigantitasi nella ricostruzione dei particolari della latitanza, restano le crudeltà consumate, le conquiste amorose che con ossessiva ripetitività hanno contrassegnato i suoi passaggi di covo in covo, di donna in donna. Le passioni per i videogiochi, i capi firmati, il lusso che non costa fatica, il tentativo di elevare il tono dei suoi pensieri allungandoli con il brodo di letture frettolose e a buon mercato. Nella doppia vita che era costretto a condurre utilizzava l’identità di un possidente in pensione e tra frasi carpite sui libri e vaghi accenni a un passato tumultuoso provava a sedurre pure le compagne di cure con le quali si intratteneva. 

A consumarlo, nella consapevolezza della fine imminente, forse una genuina voglia di instaurare un rapporto con la figlia, rea però ai suoi occhi di non onorarlo come si deve e invece capace di sottrarsi a un destino segnato per via di quell’ingombrante genitore. Non lo ha disconosciuto ma aveva preteso per sé un percorso diverso e libero. Sul finire dei giorni però Matteo è riuscito a trasferirle il cognome. Non un blasone ma un marchio. Starà a lei convivere con una memoria che ha voluto caricarsi, provando a restarne immune.

Da Il Domani.

È morto Matteo Messina Denaro, caccia ai nuovi padroni mafiosi. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 25 settembre 2023

Adesso che non c'è più si spera che qualcuno cominci a indagare sui nuovi boss della mafia di Trapani e forse della Sicilia intera. Tempo dietro a lui ne hanno perso tanto per prenderlo senza aggiornare le mappe criminali e scoprire chi comanda davvero nella provincia più misteriosa dell'isola

È morto Matteo Messina Denaro. Aveva 61 anni, le sue condizioni sono precipitate nella notte. 

Adesso che non c'è più, ora che è caduto per sempre quell'alibi che è stato a lungo Matteo Messina Denaro, finalmente qualcuno - si spera - comincerà a indagare su chi è il padrone della mafia di Trapani e forse della Sicilia intera.

Tempo dietro a lui ne hanno perso tanto per prenderlo (e anche soldi, moltissimi soldi per finanziare missioni infinite a schiere di investigatori a caccia perenne del latitante) ma di sicuro hanno perso tempo - sempre a causa sua - nell'aggiornare le mappe criminali e scoprire chi comanda veramente in quella che è la provincia più misteriosa dell'isola.

DAI TEMPI DEL PREFETTO MORI

Quando l'hanno catturato, il 16 gennaio scorso, abbiamo scritto che era «un quasi morto di una mafia già morta da vent'anni», ora che è morto per davvero questo mafioso ci lascia in eredità un bel po' di segreti che sono seppelliti chissà dove e probabilmente non solo nei covi mai trovati di Castelvetrano o di Campobello di Mazara.

Per avere fatto il ricercato di lusso per trent'anni, Matteo Messina Denaro - figlio di don Ciccio che era un capo mandamento e quindi lui, suo figlio, un predestinato - ha potuto contare su appoggi e coperture che gli hanno permesso di sfuggire a operazioni poliziesche e retate che non si vedevano in Sicilia dagli Anni Venti del secolo scorso, dai tempi del prefetto Cesare Mori.

Fortunato a scansare i blitz ma anche esageratamente difeso, tenuto al riparo permanentemente dal maggio del 1993, i giorni delle bombe ai Georgofili di Firenze. Matteo Messina Denaro ha potuto godere di grandi protezioni, orizzontali e verticali. Delle orizzontali, quelle basse, abbiamo sempre saputo tutto. Delle altre, quelle verticali, niente.

I NOTI FAVOREGGIATORI

Diciamo che uno degli elementi decisivi per capire chi è stato Messina Denaro, il peso che ha realmente avuto nell'organizzazione criminale (e come è dolcemente scivolato in trappola) è proprio questo: le sue protezioni. Delle prime, le orizzontali, conosciamo nomi, cognomi, indirizzi e perfino la misura del collo per la taglia della camicia e il gruppo sanguigno di ogni favoreggiatore a lui vicino o vicinissimo, di ogni paese intorno alla sua Castelvetrano, amici del padre e parenti della madre, messi comunali, nipoti, zie, sorelle, secondi e terzi cugini, benzinai, tabaccai, pescivendoli, carnezzieri e naturalmente anche medici che l'hanno avuto in cura in tutti i sensi. Da latitante, da malato e da malato latitante.

Non ci sono e non ci sono mai stati misteri sul cerchio magico locale di Matteo Messina Denaro, l'ultimo dei Corleonesi che se n'è andato a sessantuno anni dopo un cancro che di fatto l'ha portato alla resa.

Il problema è piuttosto l'altro: le sue protezioni verticali, quelle alte. Nulla abbiamo saputo dal 1993 in poi, nulla abbiamo saputo neanche dal 16 gennaio 2023 quando lui è finito in cattività dopo che i carabinieri del reparti speciali l'hanno circondato davanti a una clinica di Palermo.

Quello che ci era stato presentato troppo precipitosamente come l'erede del capo dei capi Totò Riina, troppo enfaticamente come il rappresentante unico della mafia 3.0 o 4.0, troppo retoricamente come il simbolo della guerra che lo stato ha combattuto e vinto contro la Cosa Nostra, alla fine si è rivelato un boss a scartamento ridotto piegato dalla malattia che l'ha costretto ad abbassare la guardia, un capoclan snobbato pure dai suoi compari che non l'invitavano più neanche ai summit, una caricatura rispetto al personaggio per certi versi leggendario che era stato dipinto dalle veline e dalle cronache.

Con addosso un montone da gigolò anni '70, il Viagra sul comodino della camera da letto, le calamite del Padrino sul frigorifero, i selfie con il chirurgo che l'aveva operato, i messaggini con le pazienti che aveva conosciuto in corsia e quegli altri con le amiche che aveva rimorchiato fra una seduta di chemioterapia e l'altra.

È tutto quello che abbiamo di lui, di Matteo Messina Denaro chiamato con trasporto dai suoi "Testa del'Acqua” per indicarlo come l'origine di ogni cosa. È un po' poco.

Ma c'è dell'altro, e di non irrilevante, sui fiancheggiatori di Matteo che non fanno tornare i conti. Questi favoreggiatori, sebbene molto noti agli investigatori di ogni forza di polizia,

sono stati presi tutti dopo di lui e non prima, ci riferiamo ai vari Tumbarello, Bonafede e Luppino, medici curanti, autisti, fornitori di identità.

CONTI CHE NON TORNANO

Cosa significa? Che i carabinieri non sono arrivati al latitante seguendo le tracce dei suoi fiancheggiatori storici (nessuno li controllava, nessuno aveva mai pensato di seguirli?) ma, al contrario, prima sono arrivati al superlatitante e poi a loro. Molto singolare per quelli che sono i protocolli investigativi. Ragionamento ci riporta a come Matteo Messina Denaro è scivolato nella rete del Ros, il raggruppamento operativo speciale dell'Arma.

Le polemiche non sono mancate, come nemmeno le tesi complottistiche su una possibile trattativa (a nostro avviso inesistente) fra mafia e stato con obiettivo la consegna del latitante. C'è stato uno scontro a distanza abbastanza incandescente fra i vecchi magistrati della procura di Palermo, Roberto Scarpinato e Antonio Ingroia fra gli altri, e il nuovo capo Maurizio De Lucia che ai suoi colleghi ha risposto stizzito: «C'è chi non fa indagini da dieci anni e ci vuole dire come si fanno».

E, a proposito della presunta resa di Matteo Messina Denaro: «Da noi è sempre così, se si vincono i campionati del mondo di calcio è perché qualcuno ha comprato la partita». Nervi tesi, forse anche un po' troppo.

E parole che comunque non spiegano l'arresto “facile” del latitante del quale siamo stati testimoni oculari davanti alla clinica La Maddalena nel quartiere palermitano di San Lorenzo, un arresto che abbiamo definito "senza stress”, morbido, quasi telecomandato. Le immagini amatoriali diffuse raccontano tanto, forse più di cento rapporti giudiziari.

Detto questo, lo ripetiamo: non abbiamo mai creduto a una trattativa stato-mafia quanto piuttosto a una trattativa mafia-mafia con qualcuno che ha “consigliato” a Matteo Messina Denaro di non provocare più disturbo con la sua fuga che tanto scompiglio stava portando dentro Cosa Nostra. Assai verosimile è lo stesso racconto che fornisce l'interessato, il latitante catturato: «Mi avete preso per la mia malattia». Ci sta.

E senza nulla togliere alle indagini dei carabinieri, che sono andate avanti per anni e anche negli ultimi mesi come dovevano andare. Le due versioni non sono in contrapposizione, ecco perché non si capisce la suscettibilità degli inquirenti ogni qualvolta si sostengono o scrivono delle ovvietà che non avrebbero bisogno di alcun commento. Semmai l'unico punto controverso è quello intorno al ritrovamento di un pizzino, nascosto nella gamba di una sedia in una stanza della casa di Rosetta Messina Denaro, la sorella del boss.

Un bigliettino sul quale sarebbero state annotate le condizioni di salute del fratello e le evoluzioni della sua malattia. La casa di Rosetta, nella divisione dei compiti, era sotto osservazione della polizia ma poi sono entrati in scena improvvisamente anche i carabinieri del Ros.

MAGHI E COINCIDENZE

Era il 6 dicembre del 2022, momento di svolta della caccia a Matteo Messina Denaro a sentire gli investigatori. Giusto una settimana dopo, il 14 dicembre, al carcere milanese di Opera si è presentato per scontare la pena l'ex sottosegretario all'Interno Antonino D'Alì, accusato di avere sostenuto in più riprese la mafia trapanese. Un altro momento di svolta, a sentire invece gli osservatori più maliziosi delle vicende siciliane.

Ma inseguendo suggestioni e ombre potremmo anche arrivare alle profezie di Salvatore Baiardo, il famoso gelataio di Omegna legatissimo ai fratelli Graviano di Brancaccio che già nel novembre scorso aveva annunciato a Massimo Giletti negli studi di Non è l'Arena l'imminente cattura di Matteo Messina Denaro.

Maghi legati a boss stragisti, ex sottosegretari amici di capicosca, pizzini che prima nessuno aveva visto e che poi vengono miracolosamente ritrovati, intorno a Matteo Messina Denaro ci sarà ancora tanto da scrivere. E magari qualcuno ci spiegherà un giorno come è rimasto libero per trent'anni. 

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

Messina Denaro si è arreso alla malattia, non allo stato. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 25 settembre 2023

«Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia», dichiarava Matteo Messina Denaro in un interrogatorio. Una frase che si è rilevata profetica, lo stragista è morto dopo 30 anni di latitanza e otto mesi divisi tra il carcere duro e il ricovero in attesa della morte certa

Sono passati otto mesi dal 16 gennaio 2023 quando i carabinieri dei Ros hanno arrestato Matteo Messina Denaro, il boss morto in queste ore per un tumore al colon. I numeri e la cronaca riscrivono la narrazione sulla sua cattura. L’ultimo stragista dei corleonesi ha trascorso trent’anni da uomo libero, in grado di pianificare stragi e ammazzamenti, di diventare padre, di fare la bella vita, di viaggiare, di «fottere e comandare». Trent’anni contro otto mesi divisi tra il carcere duro e il ricovero in attesa della morte certa, sottoposto a cure mediche, terapia del dolore e ogni genere di conforto per affrontare il fine vita. Giusto in tempo per mettere a verbale, una verità disarmante e amara: «Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia». Una frase che, senza nulla togliere all’impegno profuso dagli apparati investigativi, smontano il giubilo, mettono in dubbio il racconto solito sugli eserciti contrapposti e sulla sconfitta della mafia. 

IL GIUBILO DELLA POLITICA

Il giorno del blitz i politici si erano scatenati in una pioggia di dichiarazioni, tutte dello stesso tenore: «Vittoria dello stato», «colpo durissimo a Cosa nostra», «il mondo è più sicuro». La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni aveva deciso di andare a Palermo per celebrare l’evento. «Mi piace immaginare che questo possa essere il giorno nel quale viene celebrato il lavoro degli uomini e delle donne che hanno portato avanti la guerra contro la mafia. Ed è una proposta che farò», dichiarava. A rovinare i festeggiamenti si era messa la cronaca di quelle ore con il ritrovamento di due cellulari nella disponibilità del latitante appena catturato, la notizia rendeva mendaci le prese di posizione del ministro della Giustizia, Carlo Nordio. «I boss non parlano al telefono», aveva detto qualche settimana prima l’inquilino di via Arenula. Proprio in quel periodo il ministro si intestava una guerra senza quartiere contro i pubblici ministeri antimafia e le intercettazioni: «Se siamo di fronte a una mafia che si è infiltrata dappertutto, allora la domanda è questa: dov’era l’Antimafia se siamo arrivati a questo risultato?... Non credo affatto che l’Antimafia abbia lavorato male, al contrario credo che Italia non sia così infiltrata da articolazioni mafiose che si sono insediate nei meandri più intimi della nostra vita individuale», diceva in aula. Frasi che hanno preceduto la presa di posizione sul reato di concorso esterno in associazione mafiosa definito «fumoso», opinione condivisa anche dallo stesso Messina Denaro che, negli interrogatori rilasciati, aveva trovato il tempo di definirlo un reato «farlocco».

Strali, quelli del ministro, che hanno avuto l’unico effetto di rovinare la luna di miele tra governo e magistratura, ma Meloni e Fdi hanno continuato a intestarsi quell’arresto, a celebrarlo come una vittoria per rinnovare l’immagine dell’esecutivo. «Il governo ha garantito la permanenza di istituti essenziali per la lotta alla criminalità organizzata: grazie anche alle forze dell’ordine e alla magistratura sono stati arrestati negli ultimi mesi più di mille mafiosi, tra cui il boss Matteo Messina Denaro», si legge sulla brochure propagandistica diffusa per celebrare il primo anno di governo Meloni. Non solo le divisioni nel governo, ma anche nella magistratura. Due i partiti contrapposti, chi ha rivendicato il risultato e chi ha messo in guardia dal facile giubilo, visto che senza le rivelazioni sulle stragi e i mandanti esterni, quella di Messina Denaro è stata una cattura trasformatasi in un fine vita nelle mani dello stato. 

La composta e comprensibile soddisfazione della procura di Palermo, il cui capo, Maurizio De Lucia, ha da poco vergato un libro sulla cattura, si contrappone alle dichiarazioni di diversi pubblici ministeri che avevano, fin dal primo momento, chiarito che senza un contributo sui misteri irrisolti l’arresto di Messina Denaro sarebbe stata una vittoria di Pirro. Tirando le somme, il boss stragista non solo non si è pentito, ma ha goduto, ed è la differenza tra democrazia e barbarie, delle migliori cure sanitarie avendo la possibilità, impensabile da latitante, di riconciliarsi con la figlia che ha preso anche il suo cognome. Resta una domanda che lo stesso stragista ha messo nero su bianco in un interrogatorio: «Era giusto che io andassi in carcere, se mi prendevate. E ci siamo arrivati. Ma una domanda così, che lascia il tempo che trova: ma cosa è cambiato secondo lei?». Rispetto alla verità sulle stragi, niente. 

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Da Il Messaggero.

Estratto dell’articolo di Marco Ventura per “il Messaggero” mercoledì 27 settembre 2023.

«Matteo Messina Denaro era l'ultimo boss, ma non è mai stato il capo della mafia. E non ha eredi, perché lui stesso era soltanto l'erede del padre, don Ciccio di Castelvetrano. La mafia come la conosciamo noi, con vertici e famiglie, è morta, come è morto il terrorismo degli "Anni di piombo". Ma non è morta la mafia come cultura mafiosa, ed è peggio». 

L'ex capo del Ros e poi direttore del Sisde, generale Mario Mori, è convinto che Messina Denaro non abbia «rappresentato di per sé nulla nella fase evolutiva della mafia, ma ha solo contrassegnato il declino e la fine della mafia militare. Le manifestazioni concrete e documentate della sua operatività mafiosa non vanno oltre il 2010. Da quando ha capito di avere un tumore si è ritirato e ha cercato di gestire la malattia risparmiando dal raggio delle investigazioni». 

Chi gli è subentrato?

«Nessuno. Leggo molte sciocchezze. […] Adesso leggo di questa ricerca spasmodica sui media di un nuovo capo di Cosa Nostra che potrebbe essere Giovanni Motisi, u Pacchiuni, che però è scomparso nel 1999 e neanche sappiamo se sia vivo o morto. O Stefano Fidanzati, che nel nostro gergo era un "droghiere", cioè banalmente trafficava di droga. La mafia militare con tanto di commissione, famiglie, strutture verticistiche e di sostegno, non c'è più. […] Come la mafia, che è morta ed è diventata una cultura e un modo per stravolgere l'economia».

È proprio sicuro che quella mafia non esiste più?

«Mi indichino le strutture, le famiglie, le correlazioni tra famiglie, Catania rispetto a Palermo. Per chi fa le indagini è peggio. La mafia si è inserita come un tumore nella società. […] La gestione mafiosa del sistema economico degli appalti è in piedi […] ».

E le altre organizzazioni criminali?

«La ndrangheta è in piedi. La camorra, che mai è stata un'organizzazione strutturata ma pulviscolare, è sparsa sul territorio senza vertici riconosciuti, ma anche quella è una forma di cultura. Giovanni Falcone diceva che la mafia è umana: nasce, cresce e finisce. La mafia muore perché non ha più le basi sub-culturali del piccolo centro, e più che dai carabinieri, dalla polizia e dai magistrati, è stata travolta dai media, dalla tv, dal cinema. Quella mafia è stata cancellata, è venuta fuori invece una nuova mafia dalle dimensioni ancora da capire, più difficile da combattere perché è come la nebbia, quella di Totò che non si vede ma c'è».

Come ha fatto Messina Denaro a nascondersi per trent'anni?

«Da molto tempo non faceva più il mafioso. Si nascondeva dove aveva appoggi diretti e indiretti, per quel residuo di cultura mafiosa per cui non dava noia a nessuno, tentava solo di mascherare il suo declino fisico, e chi non lo conosceva intuiva chi fosse ma si guardava bene dal denunciarlo». 

[…]  La mafia è morta, ma si è diffusa. Forse proprio la malattia di Messina Denaro è il simbolo della mafia che si è trasformata in un cancro che ti lima dentro e permea tutto

Da Blitzquotidiano.

Estratto da blitzquotidiano.it mercoledì 27 settembre 2023.

Raggiungono l’obitorio dell’ospedale dell’Aquila per pregare davanti alla salma di Matteo Messina Denaro, ma la polizia non le fa entrare. Protagonista della vicenda, avvenuta ieri mattina, sono tre suore benedettine, monache di clausura del monastero dei Santi Cosma e Damiano di Tagliacozzo (L’Aquila). 

[…] Madre Donatella, suor Emanuela e suor Teresa Benedetta sono arrivate intorno alle 11 all’ospedale San Salvatore dell’Aquila per una visita oculistica a cui doveva sottoporsi la più anziana, superiora del convento. Dopo la visita[…]  hanno raggiunto l’obitorio: “Sapevamo che c’era la salma di Matteo Messina Denaro e volevamo pregare per lui, malgrado tutto. La polizia però non ci ha fatto entrare”, raccontano[…]

“Sappiamo benissimo chi è stato e i reati che ha commesso, ma è pur sempre un figlio di Dio. Gli è stato negato il funerale religioso, va bene. Ma ricordatevi che ogni anima ha diritto ad essere salvata”, hanno concluso parlando con il quotidiano digitale.

Estratto da blitzquotidiano.it mercoledì 27 settembre 2023. 

Un parroco [Don Tommaso Izzo] decide di celebrare una messa in suffragio del boss Matteo Messina Denaro, ma poi ci ripensa e l’annulla per “prudenza pastorale”. È quanto accaduto a Casalnuovo di Napoli, dove il parroco […] ha pubblicizzato sul profilo Facebook della parrocchia, la celebrazione della Santa Messa in suffragio dello scomparso boss. Suscitando, come era prevedibile, indignazione tra i fedeli che si sono rivolti al deputato Francesco Emilio Borrelli per segnalare l’insolita decisione.

[…]  Dopo appena un’ora dalla pubblicazione del post di annuncio della messa, il parroco […] ha annullato, sulla stessa pagina, la celebrazione “per prudenza pastorale”. […] 

“E’ stato un fedele a chiedermi di celebrare una messa in suffragio di Matteo Messina Denaro, gliel’avevo segnata, ma l’abbiamo annullata per prudenza pastorale”. Lo ha detto all’ANSA il parroco che stamattina sulla pagina Fb della Parrocchia, aveva annunciato una messa in suffragio del defunto boss di Cosa Nostra. “Non sono stato io a pubblicizzare la messa su Fb – ha aggiunto il parroco – ma un collaboratore. Però la messa è stata annullata”.

Alla domanda se non gli sia sembrato singolare che un fedele chiedesse una messa in ricordo di un boss, il parroco ha sottolineato che “chiunque può chiedere di pregare per qualche defunto“. “Se mi chiedono una messa – ha concluso – io la segno e la celebro. Ma questa, ripeto, è stata annullata per prudenza pastorale”.

Da Avvenire.

Messina Denaro, chi ha saputo dire “no”. Storia di Antonio Maria Mira su Avvenire mercoledì 27 settembre 2023.

Trapani non è solo la “borghesia mafiosa” che ha fatto affari grazie a Matteo Messina Denaro e ne ha garantito la latitanza. Non solo imprenditori conniventi, ma anche quelli che hanno detto “no” ai tentativi di infiltrazione. Come due donne imprenditrici, storie molto diverse dalle donne della famiglia di “U Siccu”, che molto probabilmente ne raccoglieranno l’eredità. Silvia Bongiorno ha invece raccolto l’eredità del fratello Gregory, presidente di Sicindustria (Confindustria della Sicilia occidentale), imprenditore di Castellammare del Golfo nel settore dei rifiuti, con centinaia di dipendenti, che nel 2013 aveva denunciato i suoi estorsori e fatti condannare. Ad appena 47 anni, è morto improvvisamente sei giorni dopo l’arresto del superlatitante che aveva commentato in modo entusiasta. «È un giorno di festa, è la vittoria di tutti coloro che hanno sempre creduto nello Stato». Silvia Bongiorno ha le stesse convinzioni. «La morte di Messina Denaro è la fine di un’epoca storica che ha visto uno stragista atroce dominare i nostri bellissimi territori. Ma è anche un nuovo inizio che vede gli imprenditori impegnati per la legalità e lo sviluppo locale, che devono andare di pari passo. E si può fare perché oggi abbiamo lo Stato che ci sostiene». È ottimista l’imprenditrice. «Gli imprenditori sono stanchi e hanno voglia del cambiamento, di creare imprese sane». Certo non tutti. «Ci può essere ancora qualcuno che si fa condizionare però sono ottimista. Se ognuno di noi pone le basi per il cambiamento, potremo vedere una rinascita nel nostro territorio. Iniziando dai più piccoli. Per toglierli dalla strada. Facendo capire che si può lavorare e in maniera onesta». Anche quegli imprenditori che in questi anni hanno fatto affari con Messina Denaro, ai quali Silvia lancia un appello. «È possibile staccarsi da questo sistema marcio. Bisogna schierarsi dalla parte del giusto, non piegarsi, ribellarsi. Io vedo un futuro migliore». Anche perché «chi si è ribellato al “regno” di Messina Denaro continuerà a farlo con gli eventuali suoi eredi. Non torna indietro. E poi penso che oggi lo Stato osserva molto più questo mondo che è dietro a Messina Denaro, a tutela degli imprenditori. Bisogna essere positivi, mai pensare al peggio». Meno ottimista, ma altrettanto convinta delle sue scelte è Elena Ferraro proprietaria della clinica Hermes a Castelvetrano, il paese di Messina Denaro. Un’attività che ha difeso con coraggio, denunciando nel 2013 il cugino del boss. La sua clinica doveva diventare una “lavatrice” di denaro sporco. Era la perdita della libertà. Ma lei andò subito a denunciare, ottenendo arresti e condanne. L’imprenditrice ricorda che «nella provincia di Trapani nessuno pagava il pizzo perché quella di Messina Denaro era una mafia imprenditoriale. Faceva affari infiltrandosi nelle aziende. Quello che volevano fare con la mia». Una strategia precisa quella del boss che “aveva capito che la strategia stragista era sbagliata e avrebbe portato quasi la fine di Cosa nostra». Così evita azioni eclatanti come attentati agli imprenditori. «Anzi voleva far crescere le aziende, si avvicinava a quelle in difficoltà mettendo capitali e facendole emergere attraverso la concorrenza sleale. Non faceva leva sulla paura». Lei stessa ne è testimone. «Ho potuto dire di no, mandare persone in galera e non è accaduto nulla. Hanno provato a intimidirmi ma sono viva. Faceva leva sulla lusinga. E purtroppo gli imprenditori cedono perché si prospettano guadagni facili». Sul futuro ha un timore. «Si è rotto un equilibrio perché tutti facevano riferimento a lui. Dobbiamo cominciare a temere perché non sappiamo quali saranno i nuovi equilibri. Non so se ci saranno violenze, se vorranno colpire simboli dell’antimafia per accreditarsi agli occhi dei nuovi capi. Dovremmo sentirci liberi, ma io non lo percepisco». A partire dal suo paese. «Ho fatto un giro e mi ha colpito il silenzio. Era deserto. Mi ha angosciato. Come se la città fosse a lutto, perché con lui si è chiusa un’epoca. Una situazione di tristezza generale. Anche io ho una tristezza ma perché non ha chiesto perdono ai familiari delle vittime, non si è pentito». Ma non tutto è finito con la morte del boss. «Sicuramente prima di morire ha avuto il tempo di designare l’erede o gli eredi, ha sistemato i suoi affari. E l’economia trapanese potrebbe ancora essere condizionata». Per questo lancia l’ennesimo appello. «Ho sempre invitato gli imprenditori a denunciare e lo faccio ancor più oggi. Perché se è vero che la mafia non ammazza più, accettare questo tipo di infiltrazione, alimenta un sistema corrotto e sporco di sangue».

Da L’Identità.

Iddu (quasi fu): Messina Denaro sta per saldare i conti con la giustizia (divina). Rita Cavallaro su L'Identità il 24 Settembre 2023  

Iddu (quasi) fu: Matteo Messina Denaro sta per saldare una volta per tutte i suoi conti con la giustizia, quella divina, davanti alla quale a nulla servirà avvalersi della facoltà di non rispondere. Con la sua morte, però, il capo dei capi porta via con sé i terribili segreti di Cosa nostra, di quelle stragi che hanno insanguinato i primi anni Novanta, delle possibili connivenze tra politica e criminalità che, ancora oggi, alimentano il mistero sulla trattativa Stato-mafia. Iddu, così lo chiamavano senza mai fare il suo nome i fiancheggiatori che per trent’anni gli hanno garantito una latitanza dorata, era l’ultimo degli stragisti dei Corleonesi, l’erede del padrino Bernardo Provenzano prima e del boss Totò Riina poi, al quale i suoi predecessori avevano non solo affidato la guida dell’Onorata società, ma gli avevano consegnato i libri mastri, le chiavi delle cassette di sicurezza, i rapporti di potere grazie ai quali la mafia ha tenuto sotto scacco pezzi delle Istituzioni e si è garantita copertura.

Di quegli affari, Matteo Messina Denaro, non ha voluto dire una parola agli inquirenti che lo scorso 16 gennaio lo hanno interrogato subito dopo la cattura, avvenuta alla clinica La Maddalena di Palermo dove il boss si sottoponeva alle cure contro il male incurabile che non gli ha dato scampo. “Se vuoi nascondere un albero, piantalo in una foresta”, aveva detto ai magistrati, citando un proverbio ebraico, “ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua… allora mi sono messo a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta”. Iddu aveva dovuto cambiare strategia, smettere di girare il mondo giocando al gatto e al topo con la polizia, per sistemarsi in pianta stabile a Campobello di Mazara, il paesino dove tutti sapevano ma nessuno ha parlato. Lì, a vicolo San Vito, il capo mafia viveva sotto le mentite spoglie di Andrea Bonafede, il geometra che gli aveva fornito i documenti d’identità con i quali il latitante si faceva prescrivere i farmaci antitumorali e godeva delle agevolazioni dei sistema sanitario nazionale. È grazie a quella malattia, che lo costringeva a regolari cicli di chemioterapia, che il Ros ha stretto il cerchio attorno al capo dei capi.

Il 6 settembre 2022 i carabinieri avevano assestato il primo duro colpo, arrestando tutti i suoi fedelissimi che, nelle intercettazioni, parlavano di Messina Denaro chiamandolo non più con i soprannomi “Iddu”, “U siccu”, “U signurinu”, “Diabolik” e “Testa dell’Acqua”, ma con il nuovo alias “Ignazieddu”. La certezza era arrivata quando, in una conversazione, un uomo, parlando di “Ignazieddu” aveva assicurato che il superlatitante di Cosa Nostra “è vivo e vegeto”, per smentire le voci che ormai circolavado negli ambienti mafiosi sulla possibile morte. Quella telefonata tra fedelissimi ha fornito la certezza investigativa che non solo il boss di Castelvetrano non fosse morto o fuggito all’estero, come Totò Riina aveva fatto credere in una conversazione intercettata anni fa in carcere, ma indicava che il capo mafia era ancora in quel territorio, da dove impartiva gli ordini ai suoi. Da lì, le serrate indagini del Ros hanno condotto a quella clinica di Palermo, dove Messina Denaro è stato catturato. Che non avrebbe rivelato alcun segreto era emerso fin da subito. A nulla erano valse le domande degli inquirenti, che gli avevano chiesto conto della strage di Capaci, in cui, Il 23 maggio 1992, furono fatti saltare in aria con 400 chili di tritolo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta.

Stessi silenzi sull’attentato al giudice Paolo Borsellino, ucciso quasi due mesi dopo, il 19 luglio 1992, da un’autobomba piazzata sotto casa della madre, in via D’Amelio. Nessuna indicazione neppure sul depistaggio messo in atto quando qualcuno portò via dalla scena del crimine l’agenda rossa su cui Borsellino aveva appuntato i segreti della sua inchiesta contro la mafia. L’unica ammissione del capo dei capi agli inquirenti, prima di essere trasferito nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila, fu stata quella di smentire con forza che fosse lui il mandante dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il 12enne figlio del collaboratore di giustizia Santino, rapito su ordine di Messina Denaro e di Brusca il 23 marzo 1993, con l’obiettivo di persuadere il genitore a non rivelare gli affari di Cosa Nostra ai magistrati. Ma dopo 799 giorni di prigionia, l’11 gennaio 1996, fu ammazzato, perché Brusca apprese dal telegiornale della sera di essere stato condannato all’ergastolo per l’assassinio di Ignazio Salvo. Il piccolo Giuseppe venne strangolato e il suo corpo sciolto nell’acido. Per il delitto furono condannati sia Brusca che Denaro, il quale, in contumacia, ha collezionato venti condanne per altrettanti delitti, tra cui le stragi di Roma, Firenze e Milano. Nel carcere dell’Aquila, dove stava ormai scontando le pene, le sue condizioni di salute sono precipitate in un coma irreversibile, di fronte al quale il mito della mafia è definitivamente caduto e l’uomo ha dovuto fare i conti con la morte.

Morte Messina Denaro, Ingroia: “Addio alle verità, le colpe della sinistra. La nuova Trattativa si fa sui migranti”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 25 Settembre 2023

“La mafia c’è, ha più capi e non si combatte con le riforme come quella voluta da Nordio. Lo Stato, da anni, non combatte più. Si è ritirato dal 1996, da quando il governo Prodi, quello in cui era ministro Napolitano, ha deciso di ritirarsi”. A dirlo Antonio Ingroia, ex procuratore, noto per aver lavorato a stretto con contatto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

La morte di Messina Denaro, secondo alcuni, è una beffa allo Stato, a nostre spese. È d’accordo?

A mio parere, è l’ultima beffa alla verità, a quella chiesta a gran voce da cittadini e familiari delle vittime delle stragi. Alcuni colpevoli hanno pagato il prezzo dei loro atti, ma altri sono rimasti impuniti.

Qualcuno si aspettava che in questi mesi sarebbe venuta fuori l’agenda rossa…

Con questa dipartita, nei fatti, si mette una pietra tombale sia sull’agenda rossa che su tanti altri documenti preziosi. Esiste più di una semplice convinzione che Messina Denaro avesse avuto il famoso “papello” di Reina, quello della Trattativa Stato-Mafia. È stato così abile e accorto da non far trovare le carte più scottanti. Prevedeva di essere arrestato, dopo essere uscito allo scoperto e prima di farlo ha ben costudito le cose importanti. Ha fatto parlare solo delle cavolate.

Possiamo dire, quindi, che “U Siccu” si è fatto arrestare?

“Se non avessi avuto il tumore, non mi avreste mai arrestato. Sono venuto qui perché stavo male”. Con queste parole, nei fatti, ha spiegato chiaramente che non sarebbe mai stato preso se fosse stato in salute.

In un’intervista su queste colonne aveva dichiarato che con la cattura dell’ultimo grande mandante dell’era stragista sarebbe iniziata una “nuova Trattativa”. Non è uscito, intanto, nulla…

Era un’ipotesi che ho avanzato, evidenziando le anomalie di un arresto, che mi sembrava una consegna. Vedendo gli eventi come sono andati, però, ritengo non ci sia stata alcuna trattativa mediante questo boss. Detto ciò, ce ne sono state altre, ben celate sotto la superficie.

Come portarle alla luce?

La mafia non esiste senza trattative. Sono nel suo Dna e non vengono mai scoperte. La poca attenzione sul tema, poi, le favorisce. È più facile tramare al buio.

Dopo Messina Denaro, c’è un nuovo capo?

La mafia ha dovuto necessariamente cambiare pelle. Se prima c’era una sorta di monarchia, ora c’è un’oligarchia, una federazione. Non c’è più un capo dei capi.

Ciò è sinonimo di sconfitta?

Assolutamente no! Cosa Nostra è più impermeabile, inafferrabile. Lo Stato s’interessa di Mafia solo quando c’è sangue per le strade. Gli affari, però, ci sono quando non ci sono le stragi. Quelli non intende fermarli nessuno. Fanno comodo a tutti.

Le cosche, intanto, non uccidono più. Può considerarsi un risultato?

La mafia 2.0 è invisibile, si mimetizza. In parte non si fa vedere, in parte non la si vuole vedere. Tira a campare. Chi è nei palazzi vuole solo che non faccia omicidi, delitti eclatanti. In realtà continua a uccidere, seppure in modo diverso. Basti pensare alla droga, alle armi e al traffico di esseri umani. Queste stragi fanno rumore, ma non tanto da fermare la cultura della tolleranza, il vero ossigeno per la criminalità organizzata.

Ha parlato di immigrazione. Può essere questa l’epicentro di una nuova Trattativa?

Probabilmente sì! Lo Stato, da una parte, con la parola solidarietà, dice di accogliere. Dall’altra parte, però, non vuole andare a fondo. Le mafie, quindi, ne approfittano e si arricchiscono.

La maggioranza Meloni è davvero in prima linea contro ogni forma di criminalità organizzata?

Tanti sono i proclami, di cui diversi condivisibili. La presa di posizione per cui si è dato uno stop alla modifica del 41 bis, ad esempio, è tra questi. Per dirla in breve, chiacchiere e distintivo. La malavita, intanto, si evolve. Cosa Nostra, adesso, è soprattutto finanza.

Come fermare la mutazione?

Sarebbe necessario un adeguamento della legislazione, aumentare gli organici specializzati e la formazione sui temi economici. A riguardo, lo Stato ne capisce poco o nulla. Brancola nel buio.

Qualche tentativo di riforma, come quello voluto da Nordio, intanto, c’è stato…

Le uscite del ministro Nordio, che parla addirittura di abolire il concorso esterno ad associazione mafiosa, sono tutte proposte di riforma che non vanno nel senso auspicato. Non servono a contrastare una mafia, sempre più invisibile.

Chi c’era prima a Palazzo Chigi ha fatto meglio?

Il centrosinistra è stato il vero responsabile dell’inizio della ritirata sul fronte della lotta alle mafie. Non dimentichiamolo mai. Ne sono stato testimone. L’esecutivo Prodi, nel 1996, quando a Palermo stavamo portando avanti tante indagini e processi, ci ha fermati. Lì è arrivato il primo stop. Stiamo parlando dello stesso governo in cui Napolitano era a capo del Viminale. Non è stato un ministro degli Interni che ha brillato per il suo impegno antimafia. Tutt’altro!

Da L’Inkiesta.

«Non mi pentirò mai». È morto il boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro. Linkiesta il 25 Settembre 2023

Il capomafia di Castelvetrano aveva 61 anni. Stroncato da un tumore, era ricoverato nel reparto detenuti dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila dopo l’arresto avvenuto lo scorso 16 gennaio 

Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss delle stragi arrestato dai carabinieri del Ros il 16 gennaio scorso a Palermo, è morto nel reparto detenuti dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila. Stroncato da un tumore al colon retto che nel 2020 lo aveva portato a modificare la sua latitanza trentennale. Il 61enne capomafia di Castelvetrano era stato ricoverato l’8 agosto per un intervento. A inizio settembre era stato trasferito dalla terapia intensiva al reparto detenuti, fra imponenti misure di sicurezza, dove era iniziata la somministrazione di una cura del dolore, per far fronte ai pesanti effetti del tumore. Venerdì scorso il capomafia condannato all’ergastolo è entrato in coma, ritenuto ormai irreversibile. Come aveva stabilito nel testamento biologico, gli è stata staccata l’alimentazione, ma non l’idratazione.

Matteo Messina Denaro era riuscito a restare latitante per trent’anni, nonostante dovesse scontare diversi ergastoli. Era fra i mandanti delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, delle bombe di Firenze, Roma e Milano. All’ergastolo era stato condannato anche per il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del collaboratore che per primo svelò i segreti della strage di Capaci, e per il delitto dell’agente della polizia penitenziaria Giuseppe Montalto. Era uno dei fedelissimi di Salvatore Riina, insieme a Giuseppe Graviano.

Il boss arrestato il 16 gennaio conosceva i segreti della stagione delle stragi. Dopo la cattura, disse al procuratore de Lucia nel corso del primo faccia a faccia: «Non mi pentirò mai». Cosa che ha ribadito anche nei due interrogatori successivi fatti nel carcere dell’Aquila.

Durante il primo interrogatorio, il 13 febbraio scorso, Messina Denaro aveva detto: «Non voglio fare né il superuomo e nemmeno l’arrogante: voi mi avete preso per la malattia, senza la malattia non mi prendevate». Il procuratore de Lucia rispose: «Ma intanto l’abbiamo presa». Poi, lo stesso boss aveva spiegato che la malattia, scoperta nel 2020, aveva cambiato le abitudini della latitanza. «Quando scoprii questo tumore e quindi mi restava poco da… però volevo andarmi a curare… Ho seguito un vecchio adagio, un proverbio ebraico che dice: “Se vuoi nascondere un albero, piantalo nella foresta”. E l’ho seguito per davvero. Anche perché dicevo: “Ora che ho la malattia, non posso stare più fuori e debbo ritornare”. Qua mi gestivo meglio, nel mio ambiente». E ancora: «Non potevo fare alla Provenzano, dentro una casupola in campagna, con la ricotta e la cicoria, con tutto il rispetto per la ricotta e la cicoria, ma io devo uscire, dovevo mettermi in mezzo».

Tornò dunque in Sicilia dopo aver scoperto la malattia. A Campobello di Mazara, doveva fissato il suo covo, andava anche al ristorante e di tanto in tanto pure a giocare ai videopoker. Fino all’arresto.

La svolta nell’indagine è avvenuta il 6 dicembre, quando i carabinieri del Ros sono entrati nell’abitazione di Rosalia Messina Denaro, a Castelvetrano, e nel piede cavo di una sedia, dove volevano installare una microspia, hanno trovato un biglietto con il diario clinico di un malato di tumore. Le ricerche nella banca dati del ministero della Salute hanno portato a una persona in particolare, Andrea Bonafede, geometra di Campobello, nipote dello storico boss del paese, fedelissimo dei Messina Denaro. Il 16 gennaio, il geometra Bonafede aveva una seduta di chemioterapia alla clinica La Maddalena di Palermo. Ma non si presentò lui, si presentò il padrino latitante, che venne arrestato. Nella borsa aveva due telefonini, in un appartamento di Campobello sono stati trovati più di mille pizzini, con tanti nomi in codice, che magistrati e investigatori stanno cercando di decifrare.

Cosa accadrà nell’organizzazione mafiosa dopo la morte di Matteo Messina Denaro? Come spiega Repubblica, il boss trapanese non era formalmente il capo di Cosa nostra, ma solo il capo della provincia mafiosa di Trapani. Era però l’ultimo boss delle stragi, il fidato di Salvatore Riina, dunque un personaggio carismatico che molti mafiosi e clan cercavano e avevano come punto di riferimento. Attualmente, Cosa nostra palermitana non ha un organismo di vertice. L’ultimo tentativo di riorganizzazione della Cupola è stato bloccato dai carabinieri e dalla procura distrettuale di Palermo, alla fine del 2018. I boss però mostrano una grande capacità di resilienza, dovuta anche a una nuova liquidità, ottenuta con rinnovati traffici internazionali di droga. Messina Denaro ha lasciato un metodo al popolo di Cosa nostra, quello della mafia imprenditrice, che non chiede il pizzo agli operatori economici, ma offre denaro, per cercare di conquistare altre aziende.

Colonna dei gesti perduti. La foto sulla lapide di Messina Denaro e la dannazione di un ricordo senza volto. Giacomo Di Girolamo su L'Inkiesta il 26 Settembre 2023

Dopo la morte, l’ultimo grande boss di Cosa nostra sarà cancellato dalla storia. L’unica immagine che resta di lui è quella scattata dai Carabinieri

Mia nonna, una volta, mi chiese di accompagnarla dalla parrucchiera. All’ora concordata andai a prenderla a casa, aspettando poi che finisse, facendo un giro in centro. Uscendo mi disse: «Non portarmi subito a casa. Devo farmi una fotografia …». «Hai la tessera che sta scadendo?» le chiesi. La tessera, nel nostro linguaggio, era la carta di identità. «No – rispose, mentre già eravamo arrivati davanti la cabina in piazza dove si facevano le foto a gettone – mi voglio fare la foto per quando muoio, oggi che sono sistemata».

Le foto dei morti, una volta, erano roba delicata. Soprattutto per chi lavorava nei giornali. Nel mio breve periodo di garzone di bottega in un quotidiano palermitano, durante gli anni universitari, avevo il compito di trovare le foto delle vittime degli incidenti stradali. Non era facile, ma c’era chi, in passato, aveva dovuto fare di peggio: trovare le foto delle vittime della guerra di mafia. Ogni tanto mi fermavo a guardare le foto, le foto dei morti, le foto delle lapidi. Quegli sguardi solenni, intensi, perché è l’immagine che resta per sempre, e deve essere buona. Gli uomini avevano un vestito elegante (solitamente era uno scatto di quando avevano accompagnato la figlia all’altare, per i più fortunati), certe donne, invece, a guardarle da vicino, quasi odoravano di messa in piega appena fatta.

Oggi non c’è bisogno di cercare le foto dei morti, per gli incidenti, come per i delitti. Sono tutte sui social. E la prima cosa che si fa, pigramente e pruriginosamente, è scavare sulla bacheca del defunto per cercare un primo piano buono da pubblicare. Solitamente le immagini che si prendono, per gli articoli o per le lapidi, sono quelle migliori, e sono quelle che facciamo in vacanza. Chissà perché. Magari perché siamo più luminosi, o più rilassati, oppure è il contesto – il mare, il paesaggio – che fa la sua parte. Fatto sta che, vedendo gli avvisi funebri, scorrendo le lapidi, oggi, sembra che ci sia stata una strage in un villaggio turistico. Non ci sono più i morti di una volta.

***

Chissà quale foto metteranno nella tua lapide, adesso, Matteo. Tanto per cambiare, in queste ore frenetiche in cui tutti mi fanno le stesse domande (cosa succede adesso? chi dopo Messina Denaro? quali segreti porta con se? come cambia la mafia?) io mi faccio la domanda più stupida: ma che foto metteranno nella tomba di Matteo Messina Denaro?

Quando ti hanno preso, il 16 gennaio scorso, successe una cosa simile. Tutti si chiedevano dov’eri stato in questi dannati trenta anni di latitanza, cosa facevi, chi ti aveva protetto, se eri proprio tu. Io passai la mattinata a cercare informazioni sulla tua salute, e chiedevo in giro: sì, ma quanto campa ancora? E tutti mi dicevano: ma che ti importa? Invece secondo me era importante. Perché prendere un boss nel pieno della sua salute e della sua forza è un conto. Prendere un dead man walking, è un altro.

Ma adesso è l’ultima volta che ti scrivo, Matteo, io che ho parlato con te dalla mia radio per quasi vent’anni, e non sono abituato a parlare con i morti (se no parlerei con mia nonna per chiederle scusa che poi quella foto non l’abbiamo messa, nella sua lapide, ne abbiamo preferita un’altra). E quindi, Matteo, io ti parlo da vivo, e ti immagino ancora nel limbo, anzi, mentre stai attraversando il bardo, e ti chiedo, l’ultima inutile domanda: che foto ci mettiamo nella lapide?

Perché una tua foto, vera, non c’è. L’unica che abbiamo è quella fatta dai Carabinieri dopo il tuo arresto. E nessuno vorrebbe nella lapide una foto segnaletica. E allora una foto da ragazzo, penso. Ce ne sono un paio, di tue, che girano, immagino qualcun’altra in famiglia. Ma quel ragazzo alto, con gli occhiali da sole, i capelli lunghi e l’aspetto un po’ da Scarface alla siciliana, non sei tu. Lo sei stato per poco.

E allora? Ah, c’è il tuo identikit. Quanto lo abbiamo utilizzato. Era l’immagine ricostruita al computer durante la tua latitanza, con un effetto di «age progression», così detto. In pratica, ogni due o tre anni, la polizia diffondeva il tuo presunto volto aggiornato, secondo l’età che passa, per tutti, anche per gli invisibili come eri tu.

Ma sarebbe una cosa un po’ dadaista mettere nella lapide una ricostruzione al computer del tuo volto (quando poi abbiamo scoperto che, chi lo doveva dire, il tuo volto era quello di tuo fratello e della tua famiglia, e che ogni tanto l’intelligenza artificiale dovrebbe lasciare il passo al normale corso, sinuoso, delle cose). Insomma, una tua foto per la lapide non c’è. Una foto fatta per restare non ce l’abbiamo.

A meno che, beffa delle beffe, anche tu hai fatto come mia nonna, qualche tempo fa, uscendo dal barbiere e con il vestito buono, ti sei fatto una foto, lasciando detto che, chissà, un giorno, magari, sarebbe potuta servire.

Sarebbe il tuo ultimo gioco di prestigio. Il penultimo è stato farti prendere quando tutto era finito. Un po’ come tuo padre, che si è consegnato allo Stato, che lo cercava, solo da morto e già vestito per il funerale. Tu hai sublimato la cosa. Ti sei consegnato da morto, sì, ma con congruo anticipo per goderti il gusto della sorpresa, come in quella canzone di Jannacci: «Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale / e vedere di nascosto l’effetto che fa». Ecco, tra le tante cose che hai combinato in vita, ci puoi mettere anche questa. In un certo senso, davvero, tu sei andato al tuo funerale. Ecco perché adesso altre cerimonie non ti interessano più.

Ti sei consegnato che andavi a morire, ti sei goduto lo spettacolo – noi a scannarci su quanto fosse giusto curarti – e hai continuato a nasconderti: il super carcere era quello che volevi, per tornare ad essere invisibile. Di te rimangono quelle quattro o cinque foto scattate nella concitata giornata del 16 gennaio 2023 e nulla più. Nessuno ti ha più visto, nemmeno in un’aula di tribunale. Per noi sei sempre con il giubbotto di pelle e quell’imbottitura bianca e calda. Ti ricorderemo così.

Già, ricordare. La morte divide, soprattutto la morte di un criminale. C’è chi prova pena, chi ricorre alla pietas, chi invoca dannazione eterna e si dispera perché, anzi, dice, un criminale come te avrebbe dovuto soffrire di più. La morte non è nulla, Matteo. Te lo scrivo mentre sei nel bardo, ma so che non hai paura: la morte non è nulla. Devi avere paura di un’altra dannazione. Che è appunto il ricordo. La memoria. La tua dannazione è proprio questo, non avere un’immagine da esporre.

La tua dannazione è quella che Italo Calvino chiamava la colonna dei gesti perduti, il lato morto della storia. Tra qualche anno nessuno si ricorderà di te (e te lo dico io, che faccio parte in qualche modo dell’indotto, dato che sulla tua vita ho scritto pure dei libri), mentre ancora oggi parliamo di Peppino Impastato, per fare un nome, di Mauro Rostagno – oggi è il suo anniversario – di tante altre vittime tue e della mafia. Perché loro sono vivi, e restano. Tu sei nella colonna dei gesti perduti.

Tutto quello che tu hai fatto e pensato è perduto, cancellato dalla storia. Noi invece continuiamo a camminare in questo bosco di larici che è la vita, e cerchiamo di mantenere vive quella promessa: ogni mio passo è storia.

Giacomo Di Girolamo ha scritto “L’invisibile: Matteo Messina Denaro”.

Da Il Tempo.

La mafia è finita? I numeri di Porro dopo la morte di Messina Denaro. "Mio padre ucciso due giorni dopo". Il sospetto di Rita Dalla Chiesa. Il Tempo il 25 settembre 2023

L'ex magistrato Antonio Ingroia rivela la presenza di qualcuno che negli anni ha protetto la latitanza di Matteo Messina Denaro. Si trattava di qualcuno molto ben informato sui risultati delle inchieste che si stavano portando avanti. Per questo le soffiate non potevano non arrivare direttamente dal circuito di inquirenti e investigatori. Se n'è parlato durante la puntata di "Stasera Italia" in onda il 25 settembre su Rete4. L'ex magistrato ha espresso la sua opinione senza peli sulla lingua, lasciando presagire una grave realtà di compromessi ad altissimi livelli. 

"Spessissimo si è arrivati vicini, si è arrivati a un millimetro dall'arresto di Matteo Messina Denaro. Dopo di che c'era sempre una soffiata dell'ultimo minuto (che non poteva non venire dall'interno del circuito inquirenti, investigatori, non so quali organismi fossero a conoscenza delle operazioni) che lo metteva in fuga. Il motivo è semplice: Messina Denaro è l'ultimo assieme a Giuseppe Graviano a custodire i segreti di quella terribile stagione di cui parliamo. La stagione in cui vennero uccisi magistrati, generali dei carabinieri, ufficiali di polizia giudiziaria, politici e giornalisti".  

Stasera Italia, la mafia è ormai in declino? I numeri di Porro dopo la morte di Messina Denaro. Il Tempo il 25 settembre 2023

Si apre con la notizia della morte di Matteo Messina Denaro, numero uno di Cosa Nostra, la puntata del 25 settembre di Stasera Italia, il talk show di Rete4 che vede Nicola Porro alla conduzione. Il giornalista ha presentato così l’argomento sulla mafia, condendo il discorso con alcuni numeri: “Si può iniziare questa trasmissione sulla morte di Matteo Messina Denaro dicendo la cosa che dice il bravo conduttore, ovvero con la morte del boss dei boss si chiude un’epoca, con la morte di Messina Denaro finisce l’epoca delle stragi, l’epoca dei grandi mafiosi. E’ sicuramente così, quelle immagini che tutti ricordano dell’arresto di Messina Denaro hanno fatto girare le teste e il mondo, perché è e si ritiene una grande vittoria dello Stato e così è stata evidentemente. Dopo 9 mesi muore e qualcuno dice che si è fatto pizzicare perché era malatissimo ed ha preferito morire in carcere che da latitante, tutte illazioni, però ci sono dei numeri, a cui siamo affezionati, che danno il senso su quello che è avvenuto in realtà in questi anni. Gli omicidi per mafia nel 1991 erano 718, nel 2021, un paio d’anni prima della cattura del boss dei boss, erano scesi a 23. Questo forse vi dà la dimensione di che cosa abbia voluto dire la mafia e di cosa ha rappresentato oggi la mafia che uccide. Il 7,3% degli omicidi, quei 23 del totale degli omicidi, prima il 40% degli omicidi in Italia erano per mafia, ora sono scesi. Ciò vuol dire – chiude così la sua analisi Porro - che in Italia non solo si muore di meno per omicidio, ma anche che è ridicolo il numero dei morti per omicidi di mafia”.

Messina Denaro, manifesti funebri choc ad Orgosolo. Scoppia il caso. Il Tempo il 28 settembre 2023

«Gli amici di Orgosolo sono profondamente scossi per la tragica scomparsa di Matteo Messina Denaro». È questo il testo dei manifesti choc apparsi nel paesino in provincia di Nuoro dove proprio ieri i carabinieri del Ros hanno fatto una retata nell’ambito dell’inchiesta «Mondo Nuovo». «Mi hanno chiamato in modalità anonima per propormi i manifesti - spiega all’Adnkronos il titolare dell’agenzia funebre Goddi di Orgosolo - ho espresso il mio disappunto, ma poi ho voluto farlo lo stesso. Ero indeciso, ma non si trattava di insulti a un presidente o elogi a un mafioso, era un manifesto di cordoglio». A quel punto il testo è andato in stampa e i manifesti per Matteo Messina Denaro sono comparsi nelle nove postazioni presenti nella cittadina della Sardegna.  

«È capitato proprio nel giorno della retata - continuano dall’Agenzia Goddi - e ci hanno subito chiamato le forze dell’ordine per avere chiarimenti. Noi abbiamo solo fatto il nostro lavoro, ma spero proprio che fosse un messaggio ironico». I precedenti nel paese dei murales non mancano: «Qui hanno fatto un manifesto anche per la morte della Regina Elisabetta», la spiegazione di Goddi.

Da Il Giornale.

È morto il boss di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. Francesco Curridori il 25 Settembre 2023 su Il Giornale.

Matteo Messina Denaro, soprannominato anche con gli pseudonomi di "U Siccu" o anche "Diabolik", l’ultimo boss della mafia siciliana, è morto all’età di 61 anni

Tabella dei contenuti

 "Potrei fare un cimitero"

 Gli anni delle stragi

 La fuga e la condanna

 La latitanza e la cattura

U Siccu oppure Diabolik. Matteo Messina Denaro, l’ultimo boss della mafia siciliana, è morto questa notte all’età di 61 anni. Nella serata di venerdì 22 settembre il boss era entrato in coma irreversibile e gli era stata sospesa l'alimentazione. Il boss era stato arrestato il 16 gennaio 2023 dopo 30 anni di latitanza, in una clinica di Palermo dove si sottoponeva alla chemioterapia per il cancro al colon. Dopo l'arresto il capomafia di Castelvetrano è stato portato nel supercarcere de L'Aquila, seguito dall'equipe dell'Oncologia dell'ospedale cittadino. Un mese fa, dopo due interventi, è stato ricoverato nel reparto detenuti dell'ospedale. Negli ultimi giorni, visto il peggiorare delle condizioni il capomafia è stato prima sottoposto alla terapia del dolore, poi sedato. Le visite dei pochi familiari ammessi le scorse settimane sono state sospese. Messina Denaro, però, ha potuto riconoscere la figlia Lorenza Alagna.

"Potrei fare un cimitero"

L’erede di Bernardo Provenzano, nativo di Castelvetrano, in provincia di Trapani, era figlio di Francesco Messina Denaro con cui lavorava come fattore nelle campagne della famiglia D'Alì Staiti, proprietari della Banca Sicula di Trapani. Matteo Messina Denaro era l’uomo di fiducia di Salvatore Riina nel trapanese, molto vicino al clan di Brancaccio di Giuseppe Graviano. A 14 anni sa già usare le armi, a 18 commette il primo omicidio e, nel 1989, viene denunciato per associazione mafiosa perché coinvolto nella faida tra i clan di Partanna ed è proprio Paolo Borsellino a inserire il suo nome in un fascicolo d’indagine. Nel 1991 uccide Nicola Consales, proprietario di un albergo di Triscina, che aveva osato parlar male con la sua impiegata austriaca, amante dello stesso Messina Denaro di lui che all’epoca era già a capo del mandamento di Castelvetrano ed era alleato dei corleonesi.“Con le persone che ho ammazzato io, potrei fare un cimitero”, dirà a un amico.

Gli anni delle stragi

Nell’ottobre del 1991 avrebbe, persino, partecipato al summit in cui Riina e gli boss mafiosi decisero di uccidere Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. A 21 anni partecipa alle stragi del 1992, ma solo nel 2020 verrà condannato all’ergastolo per i due attentati. Nel novembre 1993 Messina sequestra, insieme ad altri mafiosi, Giuseppe Di Matteo, figlio di Santino che lo aveva indicato tra i mandanti della strage di Capaci. Dopo una lunga prigionia, il piccolo Di Matteo viene ucciso e il suo corpo viene sciolto nell'acido. Nel maggio dello stesso anno è tra i mandanti della tentata strage nei confronti del conduttore Maurizio Costanzo. Dopo le rivelazioni del pentito Baldassare Di Maggio, viene emesso un mandato di cattura nei confronti di Massimo Denaro che, ritenuto colpevole di un quadruplice omicidio commesso, inizia la sua vita da latitante. Fino a quel momento aveva vissuto a Castelvetrano ostentando la sua ricchezza e la sua fama di ‘sciupafemmine’, girando su una Mercedes o su una Bmw e con il Rolex al polso.

Trent'anni di indagini instancabili: così hanno trovato Messina Denaro

La fuga e la condanna

Nel 1994 Messina Denaro vola in Spagna, a Barcellona, per farsi curare lo strabismo di cui soffriva, mentre due anni dopo, dalla relazione con Francesca Alagna, nasce sua figlia Lorenza. Il boss avrebbe avuto anche un maschio nel 2004, ma di questo secondo genito si sa poco. Nel 1998, dopo la morte del padre Francesco, diventa capomandamento di Castelvetrano e rappresentante della provincia di Trapani all’interno di Cosa nostra. Sempre in quell’anno, le forze dell’ordine, seguendo la fidanzata dell’epoca, Maria Mesi, trovano il covo in cui ‘U Siccu’ si nascondeva, ma arrivano il latitante riesce a scappare prima del loro arrivo. Mesi verrà, poi, arrestata per favoreggiamento, mentre nel 2018 la sorella del boss, Patrizia, viene condannata a 14 anni di carcere per associazione mafiosa. Nel 2000, al termine del maxi-processo "Omega", Messina Denaro viene condannato in contumacia alla pena dell'ergastolo.

La latitanza e la cattura

Nel 2010 il boss rientra nella lista dei dieci latitanti più pericolosi del mondo stilata da Forbes e le rivelazioni di un pentito confermano che il boss, sempre in quello stesso, avrebbe incontrato alcuni mafiosi allo stadio Renzo Barbera durante la partita di calcio Palermo-Sampdoria. Solo il 16 gennaio 2023 Matteo Messina Denaro, dopo 30 anni di latitanza, viene arrestato mentre si trovava nella clinica privata La Maddalena di Palermo dove, sotto il falso nome di Andrea Bonafede, veniva regolarmente sottoposto a sedute di chemioterapia per curare il tumore al colon. L'8 agosto dello stesso anno viene ricoverato all'ospedale de L'Aquila e, poco dopo, viene operato per un'occlusione intestinale. I suoi legali chiedono la revoca del regime di 41bis. Francesco Curridori

Saviano: "Italia a vocazione mafiosa". Valentina Raffa il 26 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tweet dello scrittore. Dalla Chiesa: "Vergognoso". Il fratello di Di Matteo: "Mai il perdono"

«Cu è ca morsi?» («Chi è che è morto?»). C'è ancora chi finge di non sapere. Matteo Messina Denaro anche da morto continua a essere temuto. E per la legge non scritta del «nenti sacciu e nenti vuogghiu sapiri» (niente so e niente voglio sapere, ndr) ha potuto trascorrere 30 anni di latitanza, vivendo, tra viaggi e bella vita, pure nel suo territorio, non lontano dalla famiglia e circondato da fedeli sodali che lo hanno coperto così come hanno fatto quelli che sapevano fingendo di non sapere.

Ma in tanti, oggi, prendono le distanze. Alla sua terra «ha fatto tanto male» dice il sindaco di Castelvetrano, Enzo Alfano, per il quale è iniziato un «capitolo nuovo, parte di un percorso già avviato, che deve continuare a condurre alla piena consapevolezza di chi era Matteo Messina Denaro: un assassino, uno stragista, e deve potarci a essere antimafiosi per eccellenza». Anche Giuseppe Castiglione, sindaco di Campobello di Mazara, la città in cui l'ex primula rossa ha vissuto gli ultimi anni di latitanza, parla di «ferite profondissime e mortali» inflitte al territorio.

Giuseppe Cimarosa, figlio di un cugino acquisito del padrino, oggi come ieri palesa il suo dissenso alla mafia. Fu lui a convincere il papà Lorenzo, arrestato per mafia nel 2016, a collaborare con i magistrati. «Ecco la fine che fanno i mafiosi: muoiono in carcere dice - Avrebbe dovuto scontare più a lungo la pena, sperando che, facendosi un esame di coscienza, iniziasse a collaborare con la giustizia». E su Lorenza, la figlia biologica del capomafia che, all'ultimo, si è avvicinata al padre, dice: «Ha perso un'occasione per dissociarsi». Cimarosa è «sgomento» per le centinaia di messaggi di cordoglio sui social. «Sono tanti, troppi dice - Messaggi terribili, ancora di più perché non si tratta di coetanei del boss, tanti sono ragazzi. È atroce». Atroce come il male che il boss ha seminato. Tra gli altri, resterà indelebile il racconto della fine del piccolo Giuseppe Di Matteo, tenuto prigioniero, strangolato e sciolto nell'acido. «Da credente non avrei potuto augurargli la morte commenta Nicola Di Matteo, fratello della piccola vittima - Ma se fosse rimasto in vita sofferente avrebbe forse capito il dolore enorme che ci ha inflitto. Il perdono è impossibile». Eppure c'è chi è riuscito a scrivere sui social: «A me dispiace tanto perché io non giudico nessuno se non vedo» e si dice «dispiaciuta per la tua morte perché il bene c'è sempre».

Per Roberto Saviano «l'Italia continua a essere un Paese a vocazione mafiosa». «Quello che ha detto è una cosa vergognosa gli risponde Rita Dalla Chiesa, vicepresidente dei deputati di Fi - Siamo un Paese che ama la legalità, che vuole vivere nella legalità, che lotta per la legalità. Lottasse anche lui». «È morto sotto la custodia dello Stato. E questo è un potente simbolo di una grande vittoria dello Stato sulla Mafia dice la senatrice Raffaella Paita, coordinatrice nazionale di Italia Viva - Saviano ha insultato il popolo italiano e quei servitori dello Stato che hanno rischiato e perso la vita». Sui social diversi commentano il cordoglio con un: «Vergognatevi» e un utente scrive: «Rinnovo le mie condoglianze a tutte le vittime».

«Se fossi credente, visto che non c'è stata una giustizia in terra, potrei confidare in una divina, purtroppo da laico non posso sperare neppure in quella - dice Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo - L'arresto di Matteo Messina Denaro non è stata una vera e propria cattura, sapeva di essere malato e ha pensato di farsi curare dallo Stato invece che in latitanza. Oggi si porta i suoi terribili segreti nella tomba». E ancora: «La mafia non è stata sconfitta, anzi. Si è insinuata nell'economia, nelle amministrazioni, si è resa invisibile e, per questo, è più pericolosa». Anche Giuseppe Costanza, autista del giudice Giovanni Falcone, «Cosa nostra non si esaurisce con la sua morte. Occorre continuare a indagare per arrivare alla verità sulle stragi e i mandanti». La salma arriverà a Castelvetrano dopo l'autopsia, disposta dalla procura de L'Aquila, di concerto con quella di Palermo. Sarà sistemata nella cappella di famiglia accanto al padre, il boss don Ciccio. Niente funerali religiosi ma una veloce cerimonia di tumulazione.

Il boss "contemporaneo" che archiviò i Corleonesi (provando a beffare lo Stato). Gli sarebbe piaciuto morire come suo padre Ciccio: da latitante, con la soddisfazione di avere beffato lo Stato fino all'ultimo. Luca Fazzo il 26 Settembre 2023 su Il Giornale.

Gli sarebbe piaciuto morire come suo padre Ciccio: da latitante, con la soddisfazione di avere beffato lo Stato fino all'ultimo, e farsi ritrovare come suo padre vestito di tutto punto, in un campo, già pronto per essere infilato nella bara. Il destino ha deciso diversamente, Matteo Messina Denaro chiude gli occhi per sempre in una stanza di ospedale circondata da secondini. La trappola non gliel'hanno allestita nè le Procure né le migliaia di sbirri che gli davano invano la caccia, ma un fetido, banale, tumore al colon: era stato il tumore a costringerlo ad arrendersi, è stato il tumore ad ammazzarlo, a nove mesi di distanza dal giorno in cui, in una Palermo schiaffeggiata dalla pioggia, un capitano dei Gis lo aveva prima chiamato per nome e poi preso sottobraccio, davanti alla clinica La Maddalena. Suo padre, don Ciccio Messina Denaro, morì da latitante nel 1998. Invece per Matteo il «fine pena» arriva in un reparto ospedaliero di massima sicurezza, quello dell'ospedale San Salvatore dell'Aquila. Come Salvatore Riina a Parma, come Bernardo Provenzano a Milano.

Le simiglianze si fermano qui. Riina tra l'arresto e la morte restò sepolto ventiquattro anni al 41 bis. Il suo successore, Provenzano, dieci anni, ridotto a una larva demente. A Messina Denaro il conto finale che la legge e la sorte presentano è di soli nove mesi. Il tempo di una gravidanza, tanto è durato il carcere dell'ultimo padrino. Certo è stato ergastolo, è stato carcere a vita. Ma un ergastolo assai corto, una sanzione modesta a fronte dei reati tremendi e delle sentenze piovute, una dopo l'altra, sul padrino di Castelvetrano. Gli avevano inflitto ergastoli su ergastoli, come se avesse da spendere in gabbia chissà quante vite, e non una manciata di settimane.

Lui lo sapeva, che alla fine se la sarebbe cavata con poco. Il 16 gennaio aveva accettato le manette, il rito delle foto segnaletiche, la sfilata in favore di telecamere, quasi col sorriso sulle labbra, come a dire: ho altri problemi, io, che le vostre manette. Un sorriso beffardo se l'è portato addosso fin dentro le celle di massima sicurezza dell'Aquila, dove ogni tanto i giudici lo raggiungevano per interrogarlo. Lui non si sottraeva, sempre gentile, sempre disponibile, spesso spiritoso. Anche il 41 bis può essere più facile da sopportare, se sai che non sarà una faccenda lunga. E se puoi fare lo sbruffone con quelli che ti hanno dato la caccia: «Senza il tumore non mi avreste mai preso». Precedenti penali? «Credo di sì». Come si è nascosto? «Se vuoi nascondere un albero piantalo nella foresta». E poi, spiegava, era facile non farsi prendere: «Il maresciallo che metteva le telecamere era sempre lo stesso».

Solo dopo la sua cattura ci hanno spiegato che non era il Capo dei Capi, non era l'erede di Riina e Provenzano, di cui pure era stato indicato come il successore naturale. Non poteva esserlo per l'ovvio motivo che non era di Palermo né di Corleone, e finché esisterà Cosa Nostra non si darà mai che a dirigere la Cupola sia uno venuto da una provincia dell'impero. Non poteva essere lui anche perché troppo diverso nella testa, lontano anni luce dai cavernicoli che per trent'anni hanno tenuto in scacco una nazione, dalle belve sanguinarie che - strage dopo strage - hanno trascinato nel baratro la stessa Cosa Nostra. Assassino e criminale anche lui, la ferocia come ferro del mestiere. Ma separato da un abisso di letture e di ironia dai viddani di Corleone. Più che rispettarli li temeva, ne conosceva da vicino la passione per il sangue, l'astuzia, la rozzezza. «Quello che Vossia decide», scrisse un giorno a Provenzano, che doveva mediare in una faida tra clan: una reverenza sarcastica, un omaggio ipocrita ad un potente che per Matteo apparteneva irremediabilmente al passato.

Basti pensare alle latitanze. Riina sempre lì, travet del crimine tra Palermo e Corleone, con la moglie brutta e i figli un po' criminali e un po' sfigati, impresentabili come candidati al trono. Provenzano ancora peggio, ridotto a comunicare a pizzini, lo sguardo torvo, opaco. E intanto lui, Messina Denaro, chi sa dove in giro per la Sicilia e per il mondo, tra affari e poker, tra belle donne e buone letture: come sia accaduto non si sa, il buco nero della sua biografia sono i vent'anni che trasformano un picciotto in un viveur. Aveva un rimpianto, non avere studiato abbastanza: «Se potessi ritornare indietro conseguirei la laurea senza margine di dubbio. Non dico ciò perché avrei voluto avere un altro tipo di vita, no, io sono soddisfatto della vita che ho avuto, la rifarei, vorrei la laurea solo per me stesso e non per altro».

E quindi chi era davvero, il sessantenne che ieri si spegne al San Salvatore? Un «criminale onesto», come dice lui? No: un criminale sveglio ed efficace, dannatamente contemporaneo, intelligente, che legge Svetonio e Pennac, uno che forse non ha ordinato di strangolare e sciogliere nell'acido un ragazzino, ma non si è opposto alla decisione di Riina. Uno che forse capiva che le bombe avrebbero segnato la fine di Cosa Nostra, ma non si è messo di traverso alle follie dei Corleonesi. Uno che è rimasto libero per trent'anni, di cui gli ultimi tre a due passi da casa: «Albero nella foresta», certo, ma anche custode di affari e di segreti della eterna zona grigia tra lo Stato e l'Antistato. Ieri Messina Denaro muore, e quei segreti muoiono con lui. Gli affari no.

Gli archivi mai trovati e i miliardi all'estero. Tutti i segreti sepolti dell'Italia stragista. Messina Denaro porta con sé molti dei misteri di Cosa Nostra: poche le carte fin qui rinvenute sulla stagione di sangue, il suo tesoro forse negli Usa e la rete occulta dei fiancheggiatori. Stefano Zurlo il 26 Settembre 2023 su Il Giornale.

Il primo di troppi misteri è la sproporzione fra le carte trovate e quelle che potrebbero e dovrebbero essere da qualche parte. «Non possiamo certo pensare - spiega Antonio Ingroia, ex pm e oggi avvocato - che i pizzini rinvenuti siano l'archivio di Matteo Messina Denaro». E allora? «Dobbiamo immaginare - aggiunge Ingroia - che nel momento in cui il boss ha capito di essere vulnerabile per via del tumore, ha deciso di affidare le carte a mani meritevoli».

Misteri & segreti. Messina Denaro, seguendo la tradizione dei capi di Cosa Nostra, ha messo in salvo il suo patrimonio di conoscenze e il suo tesoro. Certo, non possiamo accettare che la ricchezza del boss fosse la somma di qualche modestissimo appartamento a Campobello di Mazara, dove ha trascorso gli ultimi tempi con un tenore di vita ordinario e perfino le puntate al supermercato come qualunque massaia. «Sappiamo che spesso andava all'estero e le sue tracce arrivano fino a New York - racconta Ingroia, a lungo pm in prima linea alla procura di Palermo -, possiamo ritenere che per un certo periodo Messina Denaro sia stato l'ambasciatore di Cosa nostra, anche perché rispetto alla media dei mafiosi aveva un'intelligenza superiore e una cultura meno modesta. Io sono convinto che in Italia siano rimaste solo le briciole, il resto, del valore di alcuni miliardi, dovrebbe essere all'estero».

Salterà fuori la rete dei fiancheggiatori con il colletto bianco? È uno degli interrogativi che questa morte pone. Messina Denaro non era certo nella posizione strategica di Provenzano e Riina ma sicuramente aveva i codici per decifrare alcune delle grandi questioni rimaste senza soluzione negli ultimi anni. Tanto per cominciare, è fra gli organizzatori delle stragi del '93 e proprio in quell'estate inizia la sua interminabile latitanza, andata avanti per un trentennio circa. Perché Riina decise quel bagno di sangue? C'era qualche mandante oltre il perimetro invalicabile di Cosa nostra? Se si, è lecito pensare che Messina Denaro abbia avuto un'interlocuzione diretta o indiretta con questi soggetti, anche perché l'uomo era più presentabile, più evoluto di Riina.

Ancora prima, nel '92, c'è un episodio che non si è mai chiarito. Riina stabilisce di far fuori Giovanni Falcone e spedisce a Roma una squadra di fedelissimi fra cui Messina Denaro. Poi, all'improvviso comunica che l'attentato verrà realizzato in Sicilia. Perchè quel cambio di rotta? Ora anche Messina Denaro se n'è andato e le domande restano punti interrogativi che turbano le nostre coscienze. Il 15 gennaio 1993, mentre tutto questo è in corso, ecco che Riina viene catturato a Palermo. Il covo però non viene setacciato e i soldati di Cosa nostra fanno sparire tutto. Dove finiscono i documenti? L'ipotesi, avanzata anche da un pentito come Nino Giuffré, è che gli incartamenti siano stati consegnati proprio a Messina Denaro. Ci sta. Le stagioni si susseguono e la politica sanguinaria del capo dei capi' cede il passo a quella meno eclatante è più mimetizzata di Provenzano. Sembra di raccontare le diverse fasi nella vita di uno stato e in effetti Cosa nostra è un'organizzazione strutturata e organizzata. Troppo spesso si è fantasticato di terzi livelli, ma resta il fatto che per una breve stagione Cosa nostra ha dichiarato guerra all'Italia e alle sue istituzioni. E certo non si può scolorire la biografia di un leader criminale, togliendogli spessore e profondità. Le zone d'ombra sono la controprova di un potere occulto e feroce e di relazioni che, complici pure le logge massoniche deviate di Trapani, arrivano fin dentro la società civile.

Semmai, si può prendere con le pinze la testimonianza di Salvatore Baiardo, in generale figura poco credibile: per lui arriva a Messina Denaro anche l'agenda rossa di Paolo Borsellino. Ma la parola di Baiardo è sempre stata scivolosa. Potrebbe essere una fake. In mezzo a storie vere, scolpite nel silenzio. Stefano Zurlo

Tutte le donne del boss. Senza tradimenti. La compagna con cui visse a lungo e l'amante. Il rapporto ritrovato con la figlia in punto di morte. Valeria Braghieri il 26 Settembre 2023 su Il Giornale.

Donne e Denaro. Ci sono andati a nozze tutti, tranne lui. Per quanto la vita del boss sia stata determinata dalle donne almeno quanto dall'orrore, non si è mai sposato. Ha avuto relazioni, «amicizie», complici, persino una figlia, ma mai una moglie vera e propria. Non una «riconosciuta» dallo Stato o dalla Chiesa, com'era forse coerente che fosse. Profondamente diverso anche in questo dai suoi «colleghi» Bernardo Provenzano o Totò Riina, più «ordinari»: matrimoni, figli, meno strutturati per il gusto, e con troppo poco estro per i vizi. Il mondo di Matteo Messina Denaro si è invece scoperchiato grazie all'inchiesta sui fiancheggiatori del capomafia arrestato lo scorso 16 gennaio alla clinica La Maddalena di Palermo, dove andava a sottoporsi alla chemioterapia per curare il tumore al colon che lo ha ucciso. Le donne sono state la prima evidenza del lato sconosciuto del boss ed è anche grazie a loro che la sua latitanza è stata possibile. Donne rivali, gelose, innamoratissime ma che non si sono mai «tradite» e non hanno mai tradito il boss. Si parte dalle signore della latitanza, quelle che hanno svelato un boss insospettabile quanto irredimibile, e si va a ritroso. Attento, romantico, gratificante, ricolmo di citazioni letterarie e piaceri raffinati: sono loro a raccontare un incongruente Messina Denaro. La maestra di matematica soprannominata «Sbrighisi» da Laura Bonafede è stata l'ultima in termini di tempo. Figlia del boss di Campobello, avrebbe avuto per anni una relazione con il capomafia, pur sapendo che lui aveva altre frequentazioni femminili. Subito dopo l'arresto del padrino era corsa dai carabinieri per raccontare la sua storia con il boss. Lo aveva conosciuto al supermercato. «Sapeva ascoltarmi, mi faceva sentire importante», aveva detto ai carabinieri. Ma non sapeva che quell'uomo fosse il più ricercato d'Italia. A lei si era presentato come il medico in pensione Francesco Salsi.

E c'era Laura Bonafede: era con lei che il boss aveva creato una lingua segreta, fatta dei titoli dei libri o dei loro personaggi. Come Macondo, di Cent'anni di Solitudine con il quale si riferiva a Campobello di Mazara, o Tania di Bukovski per chiamare la figlia di Laura Bonafede. Oppure Maria Mesi, la donna con la quale aveva avuto una lunga relazione negli anni 2000 che fu poi condannata per favoreggiamento, e che in codice era diventata «Tecla». Un'altra femmina del boss era Lorena Lanceri «la vivandiera del boss», sposata, lo ha ospitato a casa sua per mesi.

E naturalmente c'era la prima donna di cui Messina Denaro si era innamorato: una giovane austriaca di nome Andrea. Solo dopo arrivò Francesca Alagna, la madre della sua unica figlia, Lorenza (che si chiama come la nonna e la cugina, l'avvocato del boss). Rapporto travagliato quello di Matteo con l'unica figlia che si è rifiutava di avere contatti con lui e di chiamarsi come lui, con quell'ingombrante marchio-onta: Messina Denaro. E poi, in pochissimo tempo, tra loro due è cambiato tutto, Lorenza, oggi giovane madre, nei mesi scorsi ha chiesto di potere avere il cognome del padre. E sembra si siano anche visti. Nelle ultime ore di coma irreversibile nel reparto per detenuti dell'ospedale San Salvatore dell'Aquila, si è precipitata al suo capezzale la madre Lorenza Santangelo, ormai anziana e malata. Ha oltrepassato gli imponenti schieramenti di poliziotti e soldati, si è fatta largo, curva e prostrata, tra tutta la gente in assetto di guerra per andare a toccare la mano immobile e gelida di quel figlio che per tutta la vita le ha dato dannazioni bollenti. Con lei la figlia Giovanna (le altre due, Rosalia e Patrizia, sono in carcere per mafia), lì accartocciate assieme, entrambe a soffrire avendo vergogna di farlo.

"Lui l'ultimo degli irriducibili. Ora è caccia al nuovo capo". Il colonnello del Ros che ha arrestato il latitante: "Non ha mai avuto un cedimento. C'è il suo erede in Cosa Nostra". Patricia Tagliaferri il 26 Settembre 2023 su Il Giornale.

«Un mafioso irriducibile fino alla fine». È così che descrive Matteo Messina Denaro uno degli investigatori che gli è stato alle calcagne per otto dei suo trent'anni di latitanza. Il colonnello Lucio Arcidiacono, comandante del I Reparto Investigativo del Ros, è uno che conosce bene il capomafia di Castelvetrano e che da quando Messina Denaro è stato catturato, a gennaio, lavora senza sosta con i suoi uomini per scoprire i suoi segreti. Segreti che si è portato nella tomba: dal presunto archivio di Totò Riina, all'uomo destinato a raccogliere la sua eredità nel panorama mafioso. È stato lui uno dei primi ad avvicinarlo nella clinica di Palermo dove era in cura per il cancro al colon e dove è stato arrestato.

Colonello Arcidiacono, cosa cambierà in Cosa Nostra con la scomparsa di Messina Denaro?

«Cambierà l'assetto provinciale dell'articolazione trapanese, perché Cosa Nostra è un'organizzazione che ha portata regionale ed è Palermo-centrica. Messina Denaro era capo della provincia mafiosa trapanese, che ora avrà bisogno di un nuovo capo».

Chi sarà il suo erede?

«Qualcuno dovrà prendere il suo posto, ma su questo ci sono indagini in corso di cui non posso parlare. È un fenomeno, quello della successione, guardato con estremo interesse investigativo».

Per il sindaco di Campobello Mazara la sua morte dà un senso di definitiva liberazione di questa parte della Sicilia. È così?

«Purtroppo la Sicilia non si è certamente liberata di Cosa Nostra, che continua ad essere una delle organizzazioni mafiose più insidiose e che operano non solo sull'isola. Per estirpare questo male dal territorio sono necessari altri tipi di intervento, dalle fondamenta. E un ruolo importante dovrebbero averlo la scuola e le famiglie, dove avviene la formazione dei giovani».

C'è il rischio che in certe zone delle Sicilia la figura di un capomafia come Messina Denaro venga mitizzata?

«Il fatto di essere sfuggito alla cattura per 30 anni ha contribuito ad esaltarne l'immagine agli occhi dei suoi accoliti, ma con la sua cattura lo Stato ha fatto capire che non smetterà mai di cercare chi deve essere assicurato alla giustizia».

In questi mesi di carcerazione Messina Denaro non ha mai avuto un cedimento?

«Mai. Nell'interrogatorio del 13 febbraio ha detto addirittura di conoscere Cosa Nostra solo dai giornali e ha fatto dichiarazioni che non corrispondono all'esito delle investigazioni: non ha ucciso il piccolo Di Matteo, non ha commesso gli omicidi e le stragi di cui è accusato e con Provenzano ha avuto solo una corrispondenza occasionale perché erano entrambi latitanti, non perché mafiosi. Del resto lui sosteneva di non essere mafioso, ma di sentirsi solo un uomo d'onore nel senso letterale del termine».

Si è parlato di una possibile «resa» di Messina Denaro, ormai piegato dalla malattia...

«Non c'è stata alcuna resa, Messina Denaro è stato un mafioso irriducibile fino alla fine. Prova è data dalle attività svolte dopo la cattura: nei covi abbiamo trovato documentazione importantissima che è servita per arrestare altri fiancheggiatori, oltre alla sorella Rosalia».

È indagando sulla sorella che siete arrivati a lui?

«Grazie alle investigazioni abbiamo compreso che aveva un canale di comunicazione con Rosalia e sospettavano avesse un problema di salute, ma l'indagine è cambiata quando entrando in casa della sorella per piazzare una microspia abbiamo trovato un documento relativo allo stato di salute di un soggetto, senza indicazioni sul nome. Da lì sono partite le riservate verifiche sui database del servizio sanitario nazionale e siamo arrivati ad individuare il suo prestanome, Andrea Bonafede».

Come ha potuto vivere per tanti anni da latitante alla luce del sole?

«Ha goduto di un sistema di protezione nel suo territorio, come tutti i grandi mafiosi. Molti favoreggiatori individuati a arrestati sono parte di una cerchia ristretta non coinvolti direttamente in attività criminali. All'apparenza persone normali, con lavori normali, insospettabili».

 Il tumore al colon con metastasi che ha ucciso Matteo Messina Denaro: caratteristiche e sintomi. Il boss è morto a causa di un tumore al colon-retto: ecco di cosa si tratta, quali sono i campanelli d'allarme, come si cura e l'aspettativa di vita. Alessandro Ferro il 25 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Caratteristiche del tumore al colon

 Quali sono i sintomi

 Diagnosi e cure

 Studi e sopravvivenza

L'ultimo padrino, Matteo Messina Denaro, è morto a causa di una grave forma di tumore al colon di cui soffriva da anni, dalla diagnosi nel 2020, fin quando le sue condizioni di salute non si sono aggravate irreversibilmente nelle ultime settimane. Durante i mesi della sua cattura che ha trascorso in regime di 41 bis nel carcere de L'Aquila è stato sottoposto ad alcuni interventi chirurgici direttamente collegati al cancro fin quando è arrivato al coma irreversibile negli ultimissimi giorni e i medici hanno optato per la sospensione dell'alimentazione secondo le volontà di Messina Denaro.

Caratteristiche del tumore al colon

Il tumore del colon si sviluppa quando avviene una crescita fuori controllo delle cellule epiteliali della mucosa che riveste la parte interna dell’intestino crasso (il cui nome è, appunto, colon) che si manifesta soprattutto nella sua parte finale (chiamata sigma), nel colon ascendente e più raramente anche nel colon trasverso e discendente, la parte più vicina al retto.

Allarme tumore al colon negli under 50: scoperte le cause

Quali sono i sintomi

Alcuni segnali non vanno sottovalutati, e riguardano soprattutto la perdirta di peso e la comparsa di sangue nelle feci. Altre volte, però, può essere più complicato identificare il tumore del colon retto che può presentarsi in maniera più subdola inizialmente con stitichezza o diarrea. Gli esperti dell'Irccs Ospedale San Raffaele del Gruppo San Donato spiegano che in altri casi "i sintomi possono essere talmente sfumati tanto da non essere riconosciuti dal paziente. La sola anemizzazione ne è un esempio: il paziente si accorge tramite gli esami del sangue di avere dei valori alterati, causati dal sanguinamento spontaneo del tumore".

Diagnosi e cure

Prima di capire quali sono le terapie disponibili, bisogna sottolineare che per scovare il tumore del colon-retto si utilizzano i seguenti strumenti come affermano dall'Istituto Humanitas:

Ecografia addominale e pelvica;

Colonscopia con biopsia per esame istologico;

Tomografia computerizzata torace-addome-pelvi;

Anoscopia;

Rettoscopia.

Per provare a rimuovere il tumore si utilizza l'intervento chirurgico, normalmente il primo step della terapia. Nelle fasi più avanzate, invece, si procede con radio o chiemioterapia. In alcuni casi, ad alcuni pazienti vengono somministrati nuovi farmaci biologici quando non c'è la risposta desiderata con i farmaci antitumorali mirati.

Studi e sopravvivenza

ll tumore al colon-retto è tra i più diffusi nei Paesi occidentali, Italia compresa dove soltanto nel 2022 sono state fatte quasi 50mila nuove diagnosi con una leggera prevalenza della malattia negli uomini (26mila) rispetto alle donne (22mila). Nel nostro Paese convivono con questa malattia oltre mezzo milione di persone tra cui, anche in questo caso, 280mila uomini e circa 230mila donne. "La buona notizia è che oggi disponiamo di uno strumento formidabile per identificare questi tumori ben prima della comparsa dei sintomi per intervenire tempestivamente, ossia lo screening precoce. Mi piace pensare che in un mondo ideale e non troppo futuro il tumore del colon-retto sarà in gran parte curabile proprio grazie all'identificazione precoce tramite gli appuntamenti con la prevenzione", ha spiegato il prof. Silvio Danese, direttore dell'Unità di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva dell'Irccs Ospedale San Raffaele.

Come abbiamo visto sul Giornale.it, i ricercatori stanno mettendo a punto una nuova cura con l'immunoterapia. Ma qual è la speranza di vita? "A oggi la sopravvivenza di un paziente con cancro al colon retto metastatico può raggiungere anche i 24-36 mesi", ha spiegato al Corriere il prof. Carmine Pinto, direttore dell’Oncologia medica all’Ausl-Irccs di Reggio Emilia ma in molti casi si possono raggiungere anche i cinque anni di vita. Tutto dipende dalla tolleranza del malato alle cure, se è in grado di tollerare le terapie e se il singolo paziente riesce a superare, "quanto si è diffuso il tumore, quanto è aggressivo, se e quanto le cure fanno effetto".

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Tumore al colon: 4 segnali da non sottovalutare. Alessandro Ferro il 18 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il tumore al colon-retto si diffonde sempre di più anche nella popolazione più giovane. Ecco i sintomi a cui prestare la massima attenzione e l'importanza della prevenzione

Tabella dei contenuti

 Ecco i 4 campanelli d'allarme

 Cosa dice lo studio

 L'importanza della prevenzione

Sebbene il tumore al colon-retto possa colpire tutte le età, dai giovani agli adulti, negli ultimi tempi alcuni ricercatori hanno riscontrato un preoccupante aumento dei casi tra i soggetti che hanno meno di 50 anni tanto da parlare di "esordio precoce" della malattia. Un importante studio condotto dalla Washington University School of Medicine di St. Louis e pubblicato sul Journal of the National Cancer Institute ha messo in risalto quali sono i campanelli d'allarme che devono far subito richiedere il parere di un medico specialista.

Ecco i 4 campanelli d'allarme

I quattro segnali che possono indicare l'esordio della malattia sono i seguenti:

Dolore addominale: soprattutto se è persistente, può essere un sintomo importante. "È consigliabile prestare attenzione a eventuali crampi, sensazioni di gonfiore o disagio che si protraggono nel tempo", spiegano gli esperti di MicrobiologiaItalia

Sanguinamento: la presenza di sangue nelle feci o nel tratto anale può indicare un problema del colon. Anche con tracce minime bisognerebbe richiedere l'attento parere di un esperto

Diarrea: se gli episodi si fanno frequenti e persistenti ci può essere un legame con il tumore del colon così come quando si verificano lunghe alterazioni del ritmo intestinale

Bassi livelli di ferro: bassi livelli di ferro nel sangue, ossia l'anemia da carenza di ferro, può essere un altro dei sintomi del tumore al colon-retto. "La carenza di ferro può causare affaticamento, debolezza e pallore, tra gli altri sintomi. È importante sottoporsi a un esame del sangue per valutare i livelli di ferro e discutere i risultati con un medico", spiegano i microbiologi

Cosa dice lo studio

La ricerca in questione ha analizzato circa 5mila casi già diagnosticati di cancro al colon-retto negli under 50 per capire quale fosse l'andamento della malattia ma soprattutto i campanelli d'allarme a partire dai due anni precedenti fino a tre mesi prima dalla diagnosi definitiva. "Il cancro del colon-retto non è semplicemente una malattia che colpisce le persone anziane; vogliamo che i giovani adulti siano consapevoli e agiscano in base a questi segni e sintomi potenzialmente molto significativi", ha dichiarato il coordinatore dello studio, Yin Cao.

Tumore al colon: possibile cura senza chemioterapia

I ricercatori hanno spiegato che la sola presenza di uno dei quattro sintomi sopra menzionati raddoppia la possibilità che il tumore al colon sia presente: se poi i segnali negativi fossero due il rischio sarebbe di 3,59 volte che aumenta a 6,52 volte con tre sintomi su quattro. "In questa analisi abbiamo scoperto che alcuni giovani adulti avevano sintomi fino a due anni prima della loro diagnosi. Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui molti di questi pazienti più giovani avevano una malattia più avanzata al momento della diagnosi rispetto a quella che normalmente vediamo nelle persone anziane che vengono sottoposte a screening regolarmente", ha sottolineato la prima firma di questa ricerca, Cassandra D. L. Fritz.

L'importanza della prevenzione

Come abbiamo visto su ilGiornale.it, è di fondamentale importanza aderire alle campagne di prevenzione come quella chiamata "Step Up" che durerà tutto l'anno. Il 2022 ha fatto registrare, soltanto in Italia, 48mila nuovi casi di tumore previsti in aumento quest'anno ma si cerca, in tutti i modi, di arginare questa importante problematica. Quando non concorrono fattori genetici, massima attenzione va riservata al regime alimentare, evitando abuso di alcol e fumo che aumentano esponenzialmente il rischio di veder insorgere questo tumore.

Per Messina Denaro l'ultimo viaggio blindato e la sepoltura all'alba. Patricia Tagliaferri il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

Dopo l'autopsia, salma trasportata sul carro funebre verso Castelvetrano. La cerimonia solo coi familiari

L'autopsia per fugare ogni dubbio sulle cause della morte ed evitare che un giorno qualcuno possa dire che non è stato il cancro al colon a uccidere il boss della mafia trapanese Matteo Messina Denaro, ma che sia stato eliminato da chissà chi. Poi il lungo viaggio fino alla sua terra, Castelvetrano, dove è nato e dove ha trascorso come un fantasma parte della sua trentennale latitanza, protetto da una schiera di fidati fiancheggiatori, continuando a gestire il suo impero criminale.

«U' Siccu» è morto quasi nove mesi dopo la sua cattura e il suo paese si prepara ad accoglierne la salma, che sarà tumulata nella cappella di famiglia. Un paese diviso tra chi si sente in lutto per la scomparsa del boss e sussurra a mezza bocca parole di cordoglio, in un mix di paura e rispetto, e chi invece la vive come un sollievo, una liberazione da un concittadino ingombrante che ha condizionato la vita del territorio per troppi anni. Mentre anche sui social c'è chi lo rimpiange: «grande parrino», «uomo d'onore vero», «esempio di coraggio». Uno schiaffo per la stragrande dei cittadini onesti che domenica si ritroveranno in un sit-in organizzato nella villa comunale intitolata a Falcone e Borsellino dall'avvocato John Li Causi, che si è indignato dopo aver letto alcuni messaggi di condoglianze alla famiglia e di mitizzazione del padrino: «La maggioranza di noi e dei siciliani tutti non era e non è con la mafia». Per Massimo Russo, ex pm che ha lavorato al fianco di Borsellino alla Procura di Marsala e che conosce bene il territorio avendo coordinato le indagini sulla mafia trapanese da sostituto della Dda di Palermo, «con la morte di Messina Denaro è saltato il tappo»: «I cittadini non hanno più ragione d'avere paura. Ora, per l'intera provincia, è il tempo del riscatto». Al termine dell'autopsia, svolta tra misure di sicurezza rigidissime nell'obitorio dell'ospedale San Salvatore dell'Aquila, dove il capomafia era detenuto e ricoverato dall'inizio di agosto e dove è morto nella notte tra domenica e lunedì dopo aver scelto di essere solo idratato, la salma è stata dissequestrata ed è partita in serata per la Sicilia. Un lungo viaggio di oltre 11 ore via terra con il carro funebre scortato dal Gom, il gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria, per motivi di ordine pubblico. All'alba è in programma la tumulazione, in un camposanto blindato, alla presenza di pochi familiari, le sorelle Giovanna e Bice, il fratello Giovanni e la figlia da poco riconosciuta Lorenza. Non dovrebbe invece esserci la madre, invalida da anni. La questura di Trapani ha vietato i funerali pubblici (come è già avvenuto per Riina e Provenzano) e non ci sarà la benedizione della salma perché la Chiesa nega i funerali religiosi ai mafiosi.

Messina Denaro riposerà accanto al padre, Don Ciccio - morto da latitante e ricomparso solo per il suo funerale - dal quale aveva ereditato il ruolo di capomafia indiscusso del Trapanese, nella cappella di famiglia con la statua di un angelo in marmo bianco a fare da guardia. La stessa cappella che negli anni della latitanza gli investigatori avevano imbottito di microspie per aggirare le mille precauzioni dei familiari che evitavano di parlare in casa temendo di essere intercettati. Gli inquirenti avevano messo gli apparecchi elettronici al cimitero sperando che, sentendosi al sicuro, i parenti di Messina Denaro avrebbero parlato liberamente, dando loro indicazioni utili sul nascondiglio del capomafia. E invece, pare a seguito di un violento temporale, la lapide, che evidentemente non era stata rimessa perfettamente al suo posto, attirò l'attenzione dei familiari del boss i quali notarono una serie di fili pendere da dietro. Furono proprio loro a denunciare alla polizia la presenza delle «cimici».

Vittorio Feltri contro Roberto Saviano: perché la sinistra è ipocrita. Il Tempo il 27 settembre 2023

Per la sinistra persino la figlia del boss Messina Denaro diventa un campo di battaglia politico. Per questo Roberto Savino attacca la giovane, rea soltanto di essere la figlia del boss appena scomparso. Dalle colonne de "Il Giornale" lo smaschera il direttore editoriale Vittorio Feltri che sottolinea come le colpe dei padri non possono e non devono ricadere sui figli. "Ritengo che sia ingiusto pubblicare sui giornali la foto di Lorenza Alagna - ha scritto Feltri - figlia di Franca Maria Alagna e di Matteo Messina Denaro, che non l’ha mai riconosciuta, forse per tenerla al riparo dal destino segnato di coloro che recano un certo nome, fino al momento del trapasso, quando il boss ha dato il suo cognome alla figlia e quest’ultima lo ha accolto, probabilmente per rientrare in quell’asse ereditario dal quale altrimenti sarebbe rimasta fuori".

Così Feltri inchioda il finto-femminista Saviano: "Con la pretesa di spiegarci la mafia - prosegue Feltri nel suo editoriale - Saviano ci narra l’esistenza privatissima di una giovane che non ha alcuna colpa, che non ha fatto nulla di male ma che evidentemente è colpevole, per Saviano, di essere figlia di Matteo Messina Denaro. Però di tutto ciò il femminista Roberto Saviano non ha tenuto conto. Per questi era più importante sbattere sul giornale l’intimo di una donna che è rea di avere accettato di farsi chiamare Lorenza Messina Denaro. Con quale diritto Saviano ci consegna i particolari sessuali della vita di Lorenza? Con quale diritto ci dice che persino il babbo la reputava leggera, una che «capisce solo il c...», Con quale diritto la sporca pubblicamente in questa maniera, dipingendola alla stregua di una donnaccia. Inorridisco davanti al doppiopesismo e all’ipocrisia della sinistra, per la quale «non tutte le donne sono uguali», come dichiarò qualche mese addietro Laura Boldrini, bocciando la candidatura di Maria Elisabetta Alberti Casellati al Colle. Se il finto-femminista Saviano ha voglia di scrivere di sesso, scriva un romanzo erotico e non violi la privacy di una donna che per di più non ha compiuto alcun delitto". 

L'ipocrisia di Saviano sulla figlia del boss. Vittorio Feltri il 27 Settembre 2023 su Il Giornale.

No, non è sufficiente essere figli di e portare un cognome per essere ritenuti mafiosi

Direttore Feltri,

le scrive una sua affezionata lettrice. Ho appena letto la lettera di oggi su Matteo Messina Denaro e le sue parole mi hanno fatto molto riflettere. Ora che il boss è morto non si fa altro che parlare di una giovane, mai comparsa prima, che sarebbe figlia del mafioso, tanto da avere preso il cognome del padre pochi giorni prima del suo decesso. Secondo lei, basta essere figli di e portare un cognome per essere considerati mafiosi?

Teresa Schiavone

Gentile Teresa,

le rispondo subito: no, non è sufficiente essere figli di e portare un cognome per essere ritenuti mafiosi. Si dice che il frutto non cada mai troppo lontano dall'albero, ma questo è un pericoloso pregiudizio che rischia di segnare l'esistenza di coloro i quali subiscono l'etichetta familiare e vengono per questo giudicati non sulla base di quello che sono e tenendo conto delle loro proprie azioni, bensì valutando i comportamenti di genitori e avi. Anche per il diritto la responsabilità penale è personale, non è trasmissibile e non viene ereditata, dunque perché ora sbattiamo sui giornali e in televisione questa ragazza di 27 anni insinuando che sia destinata e abbia voglia di prendere in mano le redini del potere mafioso, di portare avanti l'impresa criminale guidata fino a ieri dal babbo mai conosciuto, di ereditare ogni cosa, non soltanto quattrini ma anche doveri, responsabilità, codici, attività paterni? Trovo che questa sia una ingiustizia. Sì, ritengo che sia ingiusto pubblicare sui giornali la foto di Lorenza Alagna, figlia di Franca Maria Alagna e di Matteo Messina Denaro, che non l'ha mai riconosciuta, forse per tenerla al riparo dal destino segnato di coloro che recano un certo nome, fino al momento del trapasso, quando il boss ha dato il suo cognome alla figlia e quest'ultima lo ha accolto, probabilmente per rientrare in quell'asse ereditario dal quale altrimenti sarebbe rimasta fuori. Noi non conosciamo le motivazioni che abbiano spinto la ventisettenne a compiere questa scelta, che magari potrebbe essere dettata da cause strettamente personali e non meramente materiali, eppure ho letto proprio questa mattina un pezzo di Roberto Saviano, pubblicato sul Corriere della Sera, in cui l'autore ci racconta, con tanto di fotografia, la vita intima di Lorenza, corredata di dettagli sessuali. Nell'articolo, con la pretesa di spiegarci la mafia, Saviano ci narra l'esistenza privatissima di una giovane che non ha alcuna colpa, che non ha fatto nulla di male, ma che evidentemente è colpevole, per Saviano, di essere figlia di Matteo Messina Denaro. Penso che questa ragazza abbia un bagaglio gigantesco di dolore. Non ha mai conosciuto il padre, che pure ne giudicava la condotta pretendendo di imporle come campare, ha dovuto attenersi a regole severe, rigide, quelle proprie di una famiglia mafiosa, pur non facendone formalmente parte, di suo papà avrà saputo che era un super-ricercato, un criminale, uno stragista, un assassino, si sarà vergognata crescendo, in particolare nella fisiologica fase di ribellione dei figli ai genitori, di quel cognome che pure non portava ma che in qualche maniera la macchiava. Però di tutto ciò il femminista Roberto Saviano non ha tenuto conto. Per questi era più importante sbattere sul giornale l'intimo di una donna che è rea di avere accettato di farsi chiamare Lorenza Messina Denaro. Con quale diritto Saviano ci consegna i particolari sessuali della vita di Lorenza? Con quale diritto ci dice che persino il babbo la reputava leggera, una che «capisce solo il c...», con quale diritto la sporca pubblicamente in questa maniera, dipingendola alla stregua di una donnaccia. Inorridisco davanti al doppiopesismo e all'ipocrisia della sinistra, per la quale «non tutte le donne sono uguali», come dichiarò qualche mese addietro Laura Boldrini, bocciando la candidatura di Maria Elisabetta Alberti Casellati al Colle.

Se il finto-femminista Saviano ha voglia di scrivere di sesso, scriva un romanzo erotico e non violi la privacy di una donna che per di più non ha compiuto alcun delitto.

Da Libero Quotidiano.

Estratto dell’articolo di Filippo Facci per “Libero Quotidiano” mercoledì 27 settembre 2023.

Facciamolo dire ad altri, che Matteo Messina Denaro non era nessuno, e che la mafia (Cosa Nostra) è morta da almeno vent'anni. Prendete il librone «Mani pulite» di Barbacetto-Gomez-Travaglio che in 733 pagine cerca di riassumere l'Italia dal 1992 al 2002: Matteo Messina Denaro non è nominato neppure una volta. Mai. Prendiamo poi «gli intoccabili» di Travaglio-Lodato, che cercava di riassumere la storia della mafia dagli albori al 2005: Messina Denaro è nominato due sole volte, senza spiegare chi fosse (se non un generico «boss latitante») mentre Silvio Berlusconi è stato nominato 187 volte.

Ora prendete i Ros dei carabinieri (Raggruppamento operativo speciale) sotto la cui egida Messina Denaro è stato arrestato nel gennaio scorso: il fondatore dei Ros è stato quel generale Mario Mori che è stato recentemente assolto anche dal processo -fanfaluca sulla «trattativa» (dopo essersene stato processato e assolto, paradossalmente, anche per le modalità di come a suo tempo arrestò i supercapi Riina e Provenzano) il quale disse, quel Mario Mori, sempre nel gennaio scorso, che «la mafia di Matteo Messina Denaro è finita, non c' è un capo». Poi, l'altro giorno, dopo la morte di Denaro, ha aggiunto: «All'epoca era un colonnello, un operativo. È diventato un mito quando sono venuti meno gli altri... La mafia è morta».

Poi facciamolo dire alla Relazione del 2013 della Dna (Direzione nazionale antimafia) che parlava di Messina Denaro in «termini simbolici», e lo limitava un «capo delle famiglie mafiose del trapanese». Facciamolo ripetere ad Alessandro Pansa, capo della Polizia sino al 2016, ascoltato dalla Commissione Antimafia: disse che Messina Denaro non era il capo di Cosa Nostra e che era interessato solo al suo arricchimento personale. A dirlo fu persino Totò Riina, intercettato in carcere: ne parlò male, e disse che si faceva i fatti suoi. Scrisse allora Repubblica del 27 marzo 2014: «È la verità o il vecchio Riina vuole mischiare ancora una volta le carte?».

E allora facciamolo dire al più noto storico della mafia, Salvatore Lupo, intervistato da Ermes Antonacci sul Foglio: «La stagione stragista della mafia si è chiusa trent'anni fa, e quasi tutti i suoi artefici erano già stati presi molto prima della cattura di Messina Denaro... 

La mafia non esiste più da decenni. Molti osservatori pensano: «È impossibile che sia successo ciò che è successo, non è stata solo mafia». E invece era solo mafia. Riina aveva quel potere perché poteva far uccidere chiunque. Questo non si verifica più da trent'anni».

[…] L'esistenza del latitante Matteo Messina Denaro serviva a giustificare in ultimissima istanza l'esistenza delle strutture antimafia e l'antimafia in generale, che oggi, per come è disegnata, non serve più a niente ed è solo un poltronificio. Vale anche per certi giornalisti mafiologi di tanti importanti quotidiani. Vale soprattutto per la commissione parlamentare antimafia, che dal 1962 macina carta ed è ancora ufficialmente un organo della Procura generale presso la Cassazione, ma non serve, al pari delle associazioni antimafia che vengono sovvenzionate dai ministeri dell'Interno e dell'Istruzione: servono solo a tenere occupati dei nullafacenti.

E a proposito di nulla, ecco il titolo – uno solo, tra altri giornali – del Fatto Quotidiano di ieri: «L'archivio di Riina e la Trattativa: i segreti che Matteo Messina Denaro portava con sé». E nulla è più segreto di un segreto che non è mai esistito.

Da Il Dubbio.

Il testamento di Messina Denaro: «No funerali religiosi. Chiesa corrotta». Matteo Messina Denaro, boss di Cosa Nostra. Il Dubbio il 24 settembre 2023

Le ultime volontà del boss ritrovate su un pizzino del 2013. Non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esanime, non saranno questi a rifiutare le mie esequie»

«Rifiuto ogni celebrazione religiosa perché fatta di uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato». Sarebbero queste le ultime volontà di Matteo Messina Denaro, secondo quanto scrive Repubblica, trascritte in un pizzino ritrovato  dai carabinieri del Ros nel covo del boss di Campobello di Mazara dopo l’arresto, il 16 gennaio scorso. «Non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esanime, non saranno questi a rifiutare le mie esequie», è il messaggio ritrovato di Messina risalente a 10 anni fa, al maggio 2023, ben prima di scoprire di essere affetto da tumore.

Da qui la sua dichiarazione che adesso, col boss in fin di vita, suona come una sorta di volontà testamentaria:

«Sono io in piena coscienza e scienza che rifiuto tutto ciò perché ritengo che il mio rapporto con la fede è puro, spirituale e autentico, non contaminato e politicizzato. Dio sarà la mia giustizia, il mio perdono, la mia spiritualità».

E ancora: «Chi come oggi osa cacciare e ritenere indegna la mia persona non sa che non avrà mai la possibilità di farlo perché io non lo consento, non ne darò la possibilità».

Messina Denaro, gli orfani della Trattativa già cercano il successore. Ma quella Mafia ha perso. Cosa Nostra è Stata sconfitta dalla forza dello Stato. Giornalisti, magistrati e politici si rassegnino...Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 25 settembre 2023

Anche l’ultimo dei “figli cattivi” dello Stato non c’è più. Dopo Bernardo Provenzano e Totò Riina, e poi anche Raffaele Cutolo, ex capo della Nuova Camorra organizzata, anche Matteo Messina Denaro se ne è andato. Anche lui per morte “naturale”, per quanto normale possa essere sopravvivere per anni nel regime speciale previsto dall’articolo 41-bis dell’Ordinamento penitenziario.

Vite vissute pericolosamente con gravi responsabilità di omicidi e stragi. Poi morti con le manette al polso, sia pure in reparti ospedalieri, protetti e isolati. A Messina Denaro è stato consentito di morire con dignità, di stendere un testamento biologico, di chiedere e ottenere che non si infierisse sul suo corpo con accanimento terapeutico e di poter passare dalla vita alla morte con una sedazione e cure palliative che lo accompagnassero. Ha avuto vicina la figlia, cui non ha voluto mostrarsi nel degrado fisico delle ultime settimane, e anche altri familiari. Ha avuto maggior fortuna dei suoi “colleghi” e dei loro parenti, costretti a vedere corpi ormai in stato vegetativo trattati come fossero ancora pericolosi e quindi trattenuti in isolamento totale da una sorveglianza assurda e crudele. Ma, se lo Stato e la sanità hanno avuto un comportamento misericordioso nei confronti di chi non lo fu con le proprie vittime, l’accanimento dell’antimafia militante non dorme mai. E pare ora riversarsi sul contorno, sulle vere o presunte complicità che avrebbero consentito al capo (ammesso che lo fosse davvero) di Cosa Nostra di sfuggire alla giustizia per trent’anni.

Lui stesso ha contribuito con un po’ di vanteria alla costruzione del mito della primula rossa. Se non mi fossi ammalato, ha detto ai magistrati, non mi avreste preso mai. Così dando l’occasione di una sorta di gogna collettiva di paese, quella che in queste ore sta calando sulla città di Castelvetrano quasi fosse abitata solo da mafiosi con le porte aperte ad accogliere il boss. Capofila si mostra una volta di più il quotidianoLa Repubblica che, nella sua edizione di Palermo, mette “tra i complici anche l’ex senatore D’Alì”.

Ma complice di che cosa? Delle stragi? Alla vergogna non c’è mai limite. L’ex parlamentare di Forza Italia Tonino D’Alì sta scontando da quasi un anno con molta dignità nel carcere di Opera una pena ingiusta per l’evanescenza di un “concorso esterno” radicato solo dal suo luogo di nascita e dalle proprietà terriere della sua famiglia. Così, con la logica dell’arrendersi mai, gli orfani del processo “trattativa Stato-mafia”, ovunque siano oggi collocati, nelle redazioni, nei tribunali o in Parlamento, paiono aver bisogno della sopravvivenza di qualche mafia per poter continuare a militare nel partito dell’antimafia.

Non si rassegnano al fatto che lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. E si stanno già arrovellando a capire chi sarà il “successore” di Messina Denaro, che prenderà il suo posto a capo di Cosa Nostra. Peccato però che quella Cosa Nostra, quella di Riina e Provenzano non esista più. E lo stesso Messina Denaro probabilmente non ne era più associato da tempo.

Ma c’è un altro elemento, per quanto esile, che pare tenere ancora insieme quella che Sciascia chiamava “la mafia dell’antimafia”. Ed è l’angosciosa domanda: quali segreti ha portato con sé nella tomba l’ex capo dei corleonesi?

Come se, in tutti questi anni, non ci fossero stati inchieste e processi, e schiere di “pentiti” pronti a sciorinare le loro verità, non sempre credibili, ma spesso utili a ricostruire i fatti più tremendi come le stragi. O vogliamo riaprire il processo “trattativa” sotto le mentite spoglie dei “segreti” di Matteo Messina Denaro? Certo, l’aggancio giudiziario c’è, anche se ultimamente pare essere in sonno il traffico di veline e spifferi ai cronisti di riferimento. Parliamo dell’inchiesta-fisarmonica della procura di Firenze, quel fascicolo che si apre e chiude come se non avesse termini di scadenza. Quello che con molta fantasia ancora tiene inchiodato Marcello Dell’Utri, ma anche Silvio Berlusconi, almeno nelle citazioni giornalistiche, anche dopo che non c’è più. Quello che abbiamo lasciato con la procura che chiedeva di arrestare il gelataio giocoliere Salvatore Baiardo e i giudici che si opponevano e i pm che insistevano fino alla cassazione.

Non dimentichiamo che questo personaggio aveva esordito nella trasmissione di Massimo Giletti “Non è l’arena” proprio indovinando, con due mesi di anticipo, che Messina Denaro, di cui da un po’ di tempo si diceva fosse malato, sarebbe stato arrestato. O meglio, che avesse interesse a lasciarsi prendere. Intuizione?

O più probabilmente millanteria di un millantatore di professione? Ora non ci resta che attendere i segugi di Repubblica, del Fatto e di Domani. E di tutti quelli che hanno bisogno che ci sia la mafia perché possa sopravvivere una certa antimafia. E che non vogliono seppellire Matteo Messina Denaro, tenendolo in vita artificialmente con i suoi “segreti”.

Da Il Riformista.

L’ultimo testimone e protagonista di una verità mai emersa. Messina Denaro e i segreti nella tomba di una guerra e di una trattativa mai esistite: Cosa Nostra non era l’Ira o l’Eta. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 26 Settembre 2023 

È morto e si è portato nella tomba i segreti della mai esistita guerra della mafia e della altrettanto mai esistita “trattativa” fra Stato e mafia (sentenza definitiva della Corte di Cassazione). Lui era ritenuto responsabile della bomba in via dei Georgofili, quando con una campagna dinamitarda senza né capo né coda, fu fatto credere allora che Cosa Nostra fosse sbarcata sul continente come un esercito insurrezionale, come una Olp palestinese, o l’Ira irlandese, o l’Eta basca.

Matteo Messina Denaro non viveva in una caverna attrezzata come Totò Riina, ma in appartamenti normali, dove tutti lo vedevano e moltissimi lo riconoscevano anche dalle videocamere del supermercato che frequentava vivendo una vita borghese comune e tranquilla, usando i documenti sanitari autentici per la terapia contro il cancro al colon di cui è morto. Fu arrestato a gennaio da un colonnello dei carabinieri il quale per strada lo fermò chiedendogli: “Come vi chiamate?”. E lui: “Non facciamo domande inutili. Sto arrivando! Sai benissimo chi sono”. Matteo Messina Denaro ha accettato di trascorrere gli ultimi mesi della sua malattia in ospedale, fino al coma irreversibile per cui aveva lasciato istruzioni di non insistere con le terapie. E si è spento così senza mai dire nulla sulla finta benché sanguinaria guerra che sacrificò molte vittime innocenti pur di dare l’impressione che una vera guerra fosse in atto e che poi una indecente e segreta trattativa l’avesse chiusa.

La sua agonia è stata straordinariamente inserita fra le primissime notizie dalle News come se si trattasse di una banale fine di una banale canaglia, astutamente catturata al termine di laboriose indagini. L’ultimo testimone e protagonista di una verità mai emersa scende nella tomba con i suoi segreti.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Da L’Unità.

Figlia prende il suo cognome. Messina Denaro gravissimo, potrebbe non tornare più in carcere: il boss finito in coma per i farmaci per la terapia del dolore. Redazione su L'Unità il 12 Settembre 2023

Per il boss mafioso Matteo Messina Denaro le porte del carcere di L’Aquila, dove era stato recluso fino all’8 agosto scorso in regime di 41bis, potrebbero non riaprirsi più. Per sanitari e istituzioni che stanno gestendo la complessa vicenda dell’ex capomafia di Castelvetrano, arrestato lo scorso 16 gennaio 2023 in un blitz nei pressi di una clinica privata di Palermo dopo oltre 30 anni di latitanza, alla luce dell’aggravamento delle sue condizioni di salute non sarebbe più in agenda il ritorno alla detenzione in un carcere di massima sicurezza.

Messina Denaro, come noto, è affetto da anni da un tumore al colon al quarto stadio: lo scorso 8 agosto il boss era stato invece sottoposto ad un intervento chirurgico presso l’ospedale San Salvatore, per l’occasione trasformato in una sorta di bunker con misure di sicurezza straordinarie, per una occlusione intestinale.

Da quel momento la terapia attiva per Messina Denaro era stata sospesa, venendo sostituita dalla sola terapia del dolore che è stata riadattata: il boss viene sottoposto alla nutrizione parenterale per il sostegno fisico ed è sotto monitoraggio costante da parte di medici e infermieri. Il 62enne ancora oggi è ricoverato al San Salvatore, in un reparto dedicato ai detenuti con 3 pazienti.

Secondo quanto riferisce l’Ansa “u siccu” sarebbe andato in coma per la reazione a farmaci somministrati per la terapia del dolore: una volta rimodulate dosi e medicine, il boss si è ripreso ed ora alterna momenti di lucidità e persino buonumore a stati di prolungata debolezza, con le sue condizioni di salute che rimangono stazionarie ma gravi.

Alla luce delle condizioni di salute aggravate si sono trasferite all’Aquila e sono presenti fisicamente fuori dalla struttura sanitaria la nipote e legale Lorenza Guttadauro e la figlia Lorenza. Quest’ultima ha recentemente chiesto e ottenuto di portare il cognome del padre: Lorenza Alagna sarà dunque Lorenza Messina Denaro. Il boss ha infatti firmato davanti a un ufficiale di stato civile il riconoscimento della figlia, nata il 17 dicembre 1996 e registrata all’epoca con il cognome della madre Francesca detta “Franca” Alagna. La decisione della donna che si era allontanata dal padre, senza però mai prenderne le distanze, è stata riportata dal Corriere della Sera. La donna ventisettenne, a sua volta diventata madre di un bambino di due anni, entra così ufficialmente nella famiglia Messina Denaro.

Figlia che il boss non avrebbe però voluto vedere, al contrario della nipote-legale: incontrata per la prima volta ad aprile nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila, Messina Denaro avrebbe preferito non incontrarla di nuovo in ospedale per non mostrarsi fisicamente e mentalmente provato dalle conseguenze della malattia.

Mentre le condizioni dell’ex “primula rossa” di mafia si fanno sempre più complicate, contro MMD arrivano le parole al veleno di Nicola Di Matteo, fratello del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino Di Matteo, ucciso e sciolto nell’acido per ordine di Matteo Messina Denaro nel 1996. “Dicono che le sue condizioni stanno precipitando sempre di più? Vedremo. Aspettiamo di capirlo nei prossimi giorni. Sicuramente da parte della mia famiglia c’è ancora molta rabbia. Noi cosa gli auguriamo? che possa vivere un altro po’ e soffrire ancora di più e riflettere, ma tanto lui non riflette, sappiamo che queste persone non riflettono. Lo dico perché per noi il dolore non si è mai placato, per lui il dolore finisce con la morte ma per noi resta e resterà un dolore a vita“, le dichiarazioni a LaPresse di Di Matteo. Redazione - 12 Settembre 2023

Al capezzale del boss. Chi è la figlia di Matteo Messina Denaro, la decisione di Lorenza Alagna di prendere il cognome del padre. Nata nel 1996 da una relazione del capo mafia con Francesca Alagna. Non aveva mai conosciuto il padre prima dell'arresto. Aveva smentito dopo la cattura di averlo rinnegato e di non volerlo incontrare. Redazione Web su L'Unità il 25 Settembre 2023

Lorenza Alagna è rimasta fino all’ultimo al capezzale di Matteo Messina Denaro, suo padre, il boss di Cosa Nostra latitante per trent’anni e arrestato lo scorso gennaio in una clinica a Palermo, l’ultimo capo stragista della mafia siciliana morto la scorsa notte all’Aquila. Alagna era nata da una relazione che la “primula rossa” aveva avuto durante gli anni di latitanza. Era stata riconosciuta nei mesi scorsi dal boss e aveva voluto prendere il cognome del padre. Il funerale non sarà religioso. Lorenza Guttadauro, nipote del boss e avvocato, sta curando la procedura post mortem. La salma sarà trasferita a Castelvetrano, in provincia di Trapani.

Per giorni Messina Denaro è stato in trattamento palliativo. Non era più alimentato, è stato sedato, idratato, secondo le sue volontà scritte nel testamento biologico. Era malato ormai da tempo di una forma avanzata di tumore al colon al quarto stadio. Era stato operato già due anni fa, dopo che aveva scoperto la malattia a fine 2020. Era stato sottoposto a chemioterapia. È morto poco prima delle 2:00 della scorsa notte all’ospedale dell’Aquila dov’era stato ricoverato e operato due volte nei mesi scorsi e da dove non era più tornato in carcere.

Franca Maria Alagna era sorella di un commercialista. Erano passati ormai tre anni dall’inizio della latitanza di Messina Denaro quando ebbe la figlia, l’unica ufficiale del capo mafia. La piccola ebbe il nome della nonna e crebbe con la famiglia del padre. “Stai lontana da mondi che non conosci, io sono entrato in altri mondi al prezzo della sofferenza, ma tu non osare mai, ti prego. È il solo augurio che oggi posso farti”, le aveva scritto il padre in un messaggio quando aveva compiuto 17 anni. Quando nel 2012 aveva compiuto 18 anni, la ragazza con la madre aveva abbandonato la casa della nonna materna dov’era cresciuta. Messina Denaro in alcuni pizzini mandati alla sorella Rosalia, detta Rosetta, si era lamentato di non aver mai incontrato la figlia.

Lorenza Alagna oggi ha 27 anni e un bimbo di due anni che non conosceva il nonno. Dopo l’arresto era stata descritta come pronta a prendere le distanze dal padre. “Non ho mai rinnegato mio padre e non ho mai detto che non andrò a trovarlo in carcere”, aveva fatto sapere in una nota diffusa dal suo avvocato. “A seguito dell’arresto di Matteo Messina Denaro, il bailamme massmediatico innescatosi non ha risparmiato la figlia, Lorenza Alagna. Sono state diffuse attraverso i mezzi di informazione a tiratura nazionale e di divulgazione online, sin dai giorni immediatamente successivi all’arresto e con ritmo sempre più incessante ed insistente, notizie destituite di ogni fondamento, riguardanti una presunta manifestazione di volontà da parte di Lorenza Alagna atta a rinnegare ogni contatto con il padre”. La nota confermava che “mai e poi mai sono intervenuti contatti con il padre fin dalla nascita” e smentiva seccamente le dichiarazioni dei media.

La ragazza ad aprile aveva conosciuto il padre, lo aveva incontrato al carcere di massima sicurezza e lui l’aveva riconosciuta. Ha finito per firmare l’atto notarile per prendere il cognome del padre e rinunciare a quello della madre. A mediare tra i due la nipote e cugina Lorenza Guttadauro, avvocato del boss. Secondo le ricostruzioni in un primo momento il capo mafia aveva respinto le richieste della figlia di incontrarlo. Ad aprile la ragazza aveva varcato le soglie del carcere e aveva presentato al boss anche il nipote. Il cognome di Messina Denaro non si aggiungerà ma sostituirà quello della madre della ragazza. Redazione Web 25 Settembre 2023

La morte del capomafia. Come è morto Matteo Messina Denaro, la malattia e il rifiuto delle cure. Il capomafia si è spento nel reparto detentivo dell’ospedale dell’Aquila, stroncato dal tumore al colon. Era in coma irreversibile da tre giorni, aveva rifiutato l’accanimento terapeutico. Il questore di Trapani vieterà le esequie pubbliche, al cimitero solo i familiari. Angela Stella su L'Unità il 26 Settembre 2023 

Dopo Provenzano e Riina a morire dietro le sbarre è toccato ieri notte a Matteo Messina Denaro, nel reparto detenuti dell’ospedale San Salvatore dell’Aquila. Il capomafia era da tre giorni in coma irreversibile per le conseguenze del tumore al colon al quarto stadio. Assistito fino all’ultimo dagli specialisti della terapia del dolore che lo hanno preso in carico dopo la sospensione di qualsiasi terapia oncologica. È stato lo stesso boss, arrestato lo scorso 16 gennaio dopo 30 anni di latitanza, a chiedere di evitare l’accanimento terapeutico. Ecco perché è stata sospesa nella notte l’alimentazione parenterale per endovena.

“Quello con Matteo Messina Denaro, è stato un rapporto normalissimo, tra medico e paziente, è stato interessato e partecipe, sereno come può esserlo un malato incurabile, ha sempre accettato la malattia con dignità” ha detto Luciano Mutti, primario del reparto di Oncologia presso l’ospedale San Salvatore de L’Aquila. Al capezzale dello stragista anche sua figlia, Lorenza Alagna, che nei mesi scorsi ha chiesto e ottenuto il riconoscimento del cognome del padre, una delle sorelle, Giovanna, oltre a sua nipote Lorenza Guttadauro che da giorni sta curando la burocrazia per il ritorno del boss in Sicilia. La procura dell’Aquila ha deciso di effettuare l’autopsia sul corpo del boss, poi la salma verrà restituita alla famiglia e trasferita, sotto scorta, a Castelvetrano per la tumulazione nella tomba di famiglia. Il questore di Trapani vieterà i funerali pubblici, al cimitero saranno presenti solo i familiari.

“Condoglianze alla famiglia”, “Riposi in pace e tranquillità”, “Che il Signore lo tenga in gloria e lo perdoni, pace all’anima sua”. Non c’è da meravigliarsi che siano decine i messaggi shock di questo tenore comparsi su Facebook sotto un articolo che racconta della morte di Matteo Messina Denaro. “Per me è un amico d’infanzia poi ognuno di noi fa le sue scelte di vita, comunque non sta a noi giudicare”, scrive Gaspare. “Condoglianze alla famiglia, a me dispiace tanto perché io non giudico nessuno se non vedo – dice Gessica -. A me dispiace tanto sia che è stato preso sia che è morto. Riposa in pace zio Matteo, tranquillo che quasi tutto Castelvetrano è dispiaciuta per la tua morte perché il bene c’è sempre e la morte non si augura a nessuno”. Diverse le reazioni dal mondo della politica.

“È morto Matteo Messina Denaro. Davanti alla morte è giusto mantenersi umani, sempre. Ma non provo commozione”. Lo ha scritto Matteo Renzi in un post su Twitter in cui aggiunge: “Ho nel cuore le immagini dei Georgofili, le storie di due bambine che si chiamavano Nadia e Caterina, gli uomini e la donna della scorta di quei martiri della Patria che sono stati Falcone e Borsellino, il piccolo Giuseppe Di Matteo e tante vittime innocenti della mattanza mafiosa. Conservo per loro il ricordo più doloroso e più bello”. “La preghiera non si nega a nessuno. Ma non riesco a dire che mi dispiace” ha scritto invece su Instagram il vicepremier e ministro Matteo Salvini.

“Ancora devo metabolizzare la notizia. Con sé si porta dietro tanti segreti. Ero certo che non avrebbe collaborato”. A dirlo all’Adnkronos è Nicola Di Matteo, fratello di Giuseppe, il bambino strangolato e poi sciolto nell’acido, su ordine, tra gli altri, di Giovanni Brusca, allora latitante e boss di San Giuseppe Jato, e Matteo Messina Denaro, nel giorno della morte dell’ex primula rossa, per la cui morte il boss si è proclamato però innocente.

“Cosa Nostra tende a ricostruire i suoi vertici. Adesso dovrà sostituire Matteo Messina Denaro come punto di riferimento per i grandi affari. C’è già chi è pronto a prendere il suo posto’’. Era il 16 gennaio scorso, quando il Procuratore di Palermo Maurizio de Lucia, pronunciò queste parole. Poche ore prima era stato arrestato il boss mafioso più ricercato al mondo, Matteo Messina Denaro. Ora la ricerca del successore continua.

Angela Stella 26 Settembre 2023

La morte del boss. Con la morte di Matteo Messina Denaro seppelliamo anche la peggiore antimafia. Ha ragione il presidente Grasso quando commenta che la morte del boss di Castelvetrano chiude un’era, ma non chiude la lotta a “cosa nostra”. Alberto Cisterna su L'Unità il 26 Settembre 2023

E ora? La morte di Messina Denaro chiude per sempre le porte di guerra del tempio di Giano spalancate da “cosa nostra” con le stragi del 1992 e 1993 e si porta – dovrebbe portarsi – con sé negli abissi anche un pezzo sostanzioso della peggiore antimafia. Quella retorica, chiacchierona, complottista, con le mani in pasta in rivoli di denaro pubblico sperperati, in buona parte, in celebrazioni, musei, pubblicazioni, festival, osservatori, commissioni e centri studi di varia natura.

Messina Denaro, quanto meno sotto il profilo della legittimazione storica, politica e anche morale si trascina nella tomba una postura, un linguaggio e, in fin dei conti, un’ideologia che grandi danni ha cagionato alla lotta alla mafia quanto meno negli ultimi 15 anni. Se e vero, come è vero, che al di là di ipotesi, dietrologie, azzardi vari, nessuno è da tempo in grado di dire con una certa serietà dove siano le mafie – quelle importanti – di cosa si stiano occupando, dove davvero siano custoditi (se esistono) i miliardi di euro delle sue spettacolari ricchezze.

Calata si spera la cortina fumogena che, per troppo tempo, ha inquinato la comprensione dei fenomeni, messe da parte ipotesi di complotti e di inconfessabili trattative, lasciati i morti a seppellire i morti, si può guardare un po’ più fiduciosi a un cambio di passo, a un reset delle analisi finora andate in voga e a un approccio finalmente serio, documentato, attendibile sull’evoluzione della criminalità mafiosa in Italia. Per molto tempo ha avuto ragione chi, in assoluta solitudine (a esempio Aldo Varano. Quell’inutile Commissione antimafia che serve solo per “sistemare” qualche parlamentare, su Il Dubbio del 31.5.2023) ha puntato il dito contro la sostanziale inutilità della Commissione parlamentare antimafia che, per legislature e legislature, si è spesso limitata a operare da cassa di risonanza mediatica e carrieristica di alcune indagini e di alcuni pubblici ministeri, rinunciando al ruolo che le compete di commissione d’inchiesta, proiettata non verso la rimasticatura di informative di polizia, ma a orientare il Parlamento nella sua insostituibile attività di propulsore dell’attività di prevenzione e repressione dei fenomeni mafiosi.

Se, del caso, anche ascoltando le proposizioni di quanti, in contrapposizione alla main stream mediatica, ritengono che ci siano responsabilità enormi della lotta alla mafia in questo paese da imputare, in parte ragguardevole, a chi volgendo lo sguardo perennemente al passato ha trascurato di comprendere quale fosse l’evoluzione futura dei potentati mafiosi. Ecco la morte di Messina Denaro – come un tragico Commentatore che trascina con sé nelle fiamme il don Giovanni di Mozart – potrebbe consentire il lento, ma indispensabile affrancarsi della vera antimafia da un fardello tanto pesante quanto inutile perché inadeguato, stantio, ammuffito da celebrazioni, decorazioni, pubblicazioni in gran parte autocelebrative. Ha ragione il presidente Grasso quando commenta che la morte del boss di Castelvetrano chiude un’era, ma non chiude la lotta a “cosa nostra”.

Il punto è, però, da dove partire. Ossia come riannodare le fila di strategie investigative troppe volte finite – almeno dal 2008 all’epoca della rilevante collaborazione di Gaspare Spatuzza – nelle mani di pentiti di terza e quarta fila, di opachi rigattieri di informazioni orecchiate, di fumisterie complottistiche. Il tutto aggravato dal grido d’allarme lanciato dal procuratore nazionale Melillo a proposito dell’inefficacia degli strumenti d’intercettazione, dell’inadeguatezza delle tecnologie a disposizione delle forze di polizia rispetto ai mezzi di comunicazione dei clan, della perdita di un prezioso canale di acquisizione delle prove.

Con una stagione delle collaborazioni di giustizia quasi alla bancarotta (quanto meno per le più rilevanti e strategiche penetrazioni investigative) e con le intercettazioni al capolinea dell’obsolescenza tecnica, nessuno dice quali debbano essere le nuove modalità d’approccio, quali i protocolli da reinventare, quanto spazio possa avere, a esempio, lo strumento degli agenti sotto copertura che pochissimi uffici giudiziari utilizzano e che pur ha dato (si veda la recente indagine della procura di Trento sul riciclaggio dei narcodollari) risultati di assoluto rilievo.

Insomma, il male incurabile che ha stroncato anzitempo la vita dell’appena sessantenne Messina Denaro, potrebbe rivelarsi un bene di inestimabile valore per quanti ritengono che le mafie e le loro propaggini istituzionali, politiche e soprattutto economiche si siano troppo avvantaggiate delle “prediche inutili” degli officianti di una certa antimafia e che sia giunto il momento di volgere lo sguardo a un ignoto presente e a un futuro gravido di troppa materia oscura e poche stelle. Alberto Cisterna 26 Settembre 2023