Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2023

LA GIUSTIZIA

SETTIMA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una presa per il culo.

Gli altri Cucchi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un processo mediatico.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Senza Giustizia.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Qual è la Verità.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli incapaci.

Parliamo di Bibbiano.

Scomparsi.

Nelle more del divorzio.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Mai dire legalità. Uno Stato liberticida: La moltiplicazione dei reati.

Giustizia ingiusta.

L’Istituto dell’Insabbiamento.

L’UPP: l’Ufficio per il Processo.

Perito Fonico Trascrittore Dattilografo Stenotipista Forense e Tecnico dei Servizi Giudiziari.

Le indagini investigative difensive.

I Criminologi.

I Verbali riassuntivi.

Le False Confessioni estorte.

Il Patteggiamento.

La Prescrizione.

I Passacarte.

Figli di “Trojan”.

Le Mie Prigioni.

Il 41 bis.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Diffamazione.

Riservatezza e fughe di notizie.

Il tribunale dei media.

Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Il Caso Eni-Nigeria spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Giulio Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Biondo spiegato bene.

Piccoli casi d’Ingiustizia.

Casi d’ingiustizia: Enzo Tortora.

Casi d’ingiustizia: Mario Oliverio.

Casi d’ingiustizia: Marco Carrai.

Casi d’ingiustizia: Paola Navone.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Giustizialisti.

I Garantisti. 


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comandano loro.

Toghe Politiche.

Magistratopoli.

Palamaragate.

Gli Impuniti.


 

INDICE SESTA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di Marta Russo.

Il mistero di Luigi Tenco.

Il Caso di Marco Bergamo, il mostro di Bolzano.

Il caso di Gianfranco Stevanin. 

Il caso di Annamaria Franzoni 

Il caso Bebawi. 

Il delitto di Garlasco

Il Caso di Pietro Maso.

Il mistero di Melania Rea.

Il mistero Caprotti.

Il caso della strage di Novi Ligure.

Il caso di Donato «Denis» Bergamini.

Il caso Serena Mollicone.

Il Caso Unabomber.

Il caso Pantani.

Il Caso Emanuela Orlandi.

Il mistero di Simonetta Cesaroni.

Il caso della strage di Erba.

Il caso di Laura Ziliani.

Il caso Benno Neumair.

Il Caso di Denise Pipitone.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il caso della saponificatrice di Correggio.

Il caso di Augusto De Megni.

Il mistero di Isabella Noventa.

Il caso di Pier Paolo Minguzzi.

Il Caso di Daniel Radosavljevic.

Il mistero di Maria Cristina Janssen.

Il Caso di Sana Cheema.

Il Mistero di Saman Abbas.

Il caso di Cristina Mazzotti.

Il caso di Antonella Falcidia.

Il caso di Alessandra Matteuzzi.

Il caso di Andrea Mirabile.

Il caso di Giulia e Alessia Pisanu.

Il mistero di Gabriel Luiz Dias Da Silva.

Il caso di Paolo Stasi.

Il mistero di Giulio Giaccio.

Il mistero di Maria Basso.

Il mistero di Polina Kochelenko.

Il mistero di Alice Neri.

Il mistero di Augusta e Carmela.

Il mistero di Elena e Luana.

Il mistero di Yana Malayko.

Il caso di Luigia Borrelli.

Il caso di Francesca Di Dio e Nino Calabrò.

Il caso di Christian Zoda e Sandra Quarta.

Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.

Il mistero di Davide Piampiano.

Il mistero di Volpe 132.

Il mistero di Giuseppina Arena.

Il Caso di Teodosio Losito.

Il mistero di Michelle Baldassarre.

Il mistero di Danilo Salvatore Lucente Pipitone.

Il Caso Gucci.

Il mistero di «Gigi Bici».

Il caso di Elena Ceste.

Il caso di Libero De Rienzo.

La storia di Livio Giordano.

Il Caso di Alice Schembri.

Il caso di Rosa Alfieri.

Il mistero di Marina Di Modica.

Il Caso di Maurizio Minghella.

Il caso di Luca Delfino.

Il caso di Donato Bilancia.

Il caso di Michele Profeta.

Il caso di Roberto Succo.

Il caso di Pamela Mastropietro.

Il caso di Luca Attanasio.

Il giallo di Ciccio e Tore.

Il giallo di Natale Naser Bathijari.

Il giallo di Francesco Vitale.

Il mistero di Antonio Calò e Caterina Martucci.

Il caso di Luca Varani.

Il caso Panzeri.

Il mistero di Stefano Gonella.

Il caso di Tiziana Cantone.

Il mistero di Gilda Ammendola.

Il caso di Enrico Zenatti.

Il mistero di Simona Pozzi.

Il caso di Paolo Calissano.

Il caso di Michele Coscia.

Il caso di Ponticelli.

Il caso di Alfonso De Martino, infermiere satanico.

Il caso di Sonya Caleffi, la serial killer di Lecco.

Il caso di Rosa Bronzo, la serial killer di Vallo della Lucania.

Il mistero di Marcello Vinci.

Il mistero di Ivan Ciullo.

Il mistero di Francesco D'Alessio.

Il caso di Davide Cesare «Dax».

Il caso di Tranquillo Allevi, detto Tino.

Il caso Shalabayeva.

Il Caso di Giuseppe Pedrazzini.

Il Caso di Massimo Bochicchio.

Il giallo di Grazia Prisco.

Il caso di Diletta Miatello.

Il Caso Percoco.

Il Caso di Ferdinando Carretta.

Il mistero del “collezionista di ossa” della Magliana.

Il Milena Quaglini.

Il giallo di Lorenzo Pucillo.

Il Giallo di Vincenzo Scupola.

Il caso di Vincenzo Mosa.

Il Caso di Alessandro Leon Asoli.

Il caso di Santa Scorese.

Il mistero di Greta Spreafico.

Il Caso di Stefano Dal Corso.

Il mistero di Rkia Hannaoui.

Il mistero di Stefania Rota.

Il Mistero di Andrea La Rosa.

Il Caso Valentina Tarallo.

Il caso di Vittoria Nicolotti e Rosa Vercesi.

Il caso di Terry Broome.

Il caso di Giampaolo Turazza e Vilma Vezzaro.

Il Mistero di Giada Calanchini.

Il Caso di Cinzia Santulli.

Il Mistero di Marzia Capezzuti.

Il Mistero di Davide Calvia.

Il caso di Manuel De Palo.

Il caso di Michele Bonetto.  

Il mistero di Liliana Resinovich.

Il Mistero del Cinema Eros.

Il mistero di Sissy Trovato Mazza.

I delitti di Alleghe.

Il massacro del Circeo.

Il mistero del mostro di Bargagli.

Il mistero del Mostro di Firenze.

Il Caso di Alberica Filo della Torre.

Il mistero di Marco Sconforti.

Il mistero di Giulia Tramontano.

Il mistero di Alvise Nicolis Di Robilant.

Il mistero di Maria Donata e Antonio. 

Il caso di Sibora Gagani.

Il mistero di Franca Demichela.

Il mistero di Luca Orioli Marirosa Andreotta.

Il mistero di Stefano Masala.

Il caso di Emanuele Scieri.

Il caso di Carol Maltesi.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il mistero di Pierina Paganelli.

L’omicidio Donegani.

Il mistero di Mario Bozzoli.

Il mistero di Fabio Friggi.

Il giallo della morte di Patrizia Nettis.

La vicenda di Gianmarco “Gimmy” Pozzi.

La vicenda di Elisa Claps.

Il mistero delle Stragi.

Il Mistero di Ustica.

Il caso di Piazza della Loggia.

Il Mistero di piazza Fontana.

Il mistero Mattei.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

I nomi dimenticati.


 

LA GIUSTIZIA

SETTIMA PARTE



 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA SAPONIFICATRICE DI CORREGGIO

Naomi Campagna il 17 Dicembre 2022 su nxwss.com

La storia di colei che viene definita “La Saponificatrice di Correggio” non è facile da raccontare. E’ una storia di perdite, povertà, magia e maledizioni, che contribuiscono a trasformare una semplice donna di campagna in una malvagia assassina a sangue freddo.

Questo è un caso assai particolare per l’epoca: sono gli inizi del 900 e nessuno mai, indagando su un assassino, punterebbe il dito contro una donna. 

L’Italia è scossa dalle mostruose vicende che si consumano sotto il naso di tutti, in un’umile casa di Correggio. Le prime pagine dei giornali ritraggono il macabro quadro della “Casalinga di Correggio” , la madre di famiglia che ha ucciso e disciolto nell’acido i corpi delle sue vittime. Il nome che le è stato dato alla nascita e con cui è conosciuta da tutti in paese, viene sostituito inevitabilmente dal tremendo soprannome che l’accompagna per il resto della sua vita.

E’ così che Leonarda Cianciulli diventa la prima Serial Killer donna in Italia, nota a tutto il mondo come la famigerata Saponificatrice di Correggio. Ovviamente, quella della saponificatrice, non è la sua professione.

La nascita di un’assassina

18 Aprile 1894. In un piccolo paesino di circa 8.000 abitanti, tale Montella, nasce Leonarda Cianciulli. Figlia di Serafina Marano e Mariano Cianciulli, allevatore di bestiame, cresce in una casa povera e affollata in cui poche sono le attenzioni a lei riservate. 

L’ultima di sei figli e la prima degli infelici, conduce una vita di miseria e privazioni, tra le tante, l’affetto della madre. Almeno questo è ciò che dichiara nel suo memoriale di oltre 700 pagine “Confessioni di un’anima amareggiata”, scritto dopo la condanna. Non tralascia alcun particolare: parla della vita a Montella, degli attacchi di epilessia avuti in giovane età e, specialmente, descrive con accuratezza i tentativi di suicidio falliti durante l’adolescenza e del dispiacere di rivederla viva della madre.

«Cercai due volte di impiccarmi; una volta arrivarono in tempo a salvarmi e l’altra si spezzò la fune. La mamma mi fece capire che le dispiaceva di rivedermi viva. Una volta ingoiai due stecche del suo busto, sempre con l’intenzione di morire, e mangiai dei cocci di vetro: non accadde nulla».

Ben presto, Leonarda deve fare i conti con le consuetudini della società, che le impone di adeguarsi ad un futuro a cui è predestinata in quanto donna, cioè quello d’essere: una povera casalinga di periferia, madre di una florida prole e sposa di un uomo che però le è stato imposto da un matrimonio combinato. Sebbene le prime due non siano costrizioni, ma combacino con i suoi stessi desideri, Leonarda non riesce ad accettare di dover legare la propria vita ad un uomo che non ama, che è stato scelto per lei e che, perdipiù, è suo cugino.

Contro il volere di tutti, ma soprattutto della madre Serafina, la Cianciulli convola a nozze con Raffaele Pansardi, l’uomo che ama. Corre l’anno 1917, Leonarda ha appena 23 anni, neanche un soldo in tasca, ma tanta speranza riposta nel futuro. La giovane Cianciulli è ignara che quel matrimonio è l’inizio del cammino che la porterà a diventare una folle assassina.

Magia e maledizione

Le nozze della Cianciulli coincidono con la morte della madre, che viene a mancare pochi giorni prima del matrimonio. In punto di morte, guardando negli occhi la figlia accostata al suo capezzale, la donna la punisce con le sue ultime e terribili parole d’odio, augurandole una vita di sofferenze. Leonarda ricorda di averne già udite di simili uscire dalla bocca di una zingara anni prima, che le profetizzò “Ti mariterai, avrai figliolanza, ma tutti moriranno i figli tuoi.” 

In effetti, la “maledizione” sembra averla colpita per davvero, facendole perdere quasi tutti i suoi figli. Dalle sue 17 gravidanze, sopravvivono solo 4 bambini. Leonarda deve far fronte a 3 aborti spontanei e 10 morti in culla. Interpreta questi eventi funesti come la reale manifestazione del potentissimo maleficio scagliatole contro dalla madre. Questa convinzione si radica così a fondo nel suo animo che inizia ad esercitare un grande potere su di lei. La donna cade nel tranello della sua stessa superstizione e questo la trascina verso la alla follia.

“Non potevo sopportare la perdita di un altro figlio. Quasi ogni notte sognavo le piccole bare bianche, inghiottite una dopo l’altra dalla terra nera…”  Scrive la Cianciulli nel proprio memoriale, dove si legge l’agonia di una madre che ha dovuto organizzare 13 funerali e che non riesce a scacciare la paura di dover assistere ad altre morti, almeno non a quelle dei propri figli.

Decide così di affidarsi alla “scienza”, o per meglio dire, a ciò che crede sia scienza. Si dedica allo studio della magia e dell’astrologia, impara l’arte della chiromanzia e a praticare scongiuri e sortilegi, solo così pensa che possa riuscire a “neutralizzarli”. Diventa piuttosto brava, a suo dire, da fare delle sue capacità divinatorie una vera professione a Correggio, offrendo le proprie “prestazioni” a chiunque le richieda.

La casa di Correggio

Dopo le nozze, la Cianciulli si trasferisce spesso. Prima a Lauria, nel Ponentino, poi a Lacedonia, in provincia di Avellino, dove nascono i suoi figli, perlomeno quelli che riescono a rimanere in vita. Si sposta successivamente a Vulture, ma se ne va dopo che il terremoto del 1930 distrugge il paese.

Decide in seguito di trasferirsi a Correggio, in Emilia Romagna, al terzo piano di “Corso Cavour n.11” Qui, Leonarda, sente di poter ricominciare finalmente daccapo: nessuno la conosce e nessuno sa cosa abbia fatto prima di trasferirsi. 

Ad onor del vero, non è affatto innocente come sembra o come vorrebbe far credere attraverso il memoriale. Ancor prima del suo trasferimento in Emilia, si macchia di diversi crimini per furto e truffa, per cui sconta una condanna a dieci mesi e 15 giorni di reclusione nelle carceri di Lauria. Paga inoltre una multa di 350 mila lire per aver sottratto denaro con l’inganno ad una modesta contadina di Montella. Leonarda non è quindi nuova a raggiri e sotterfugi. Il suo cuore è capace di amare solo i suoi figli, per lei il resto del mondo non contava.

Nella nuova dimora di Correggio, Leonarda si sente a casa. Non è più una “donna di facili costumi”, un’impulsiva, una bugiarda e una truffatrice, com’era conosciuta a Montella e a Lauria. Qui Leonarda è per tutti una brava persona, una madre modello e una “fervente fascista” il ché, considerando il momento storico, è un bel complimento.

Mette in moto un commercio di mobili e abiti, si circonda di nuovi amici che invita spesso e volentieri a casa, gli offre dolci, aneddoti e consigli. Aiuta le donne sole e insoddisfatte del paese con la chiromanzia, attraverso la quale riesce a predire per loro un amore futuro, tanta fortuna e una nuova vita ad attenderle, peccato che questa sia all’altro mondo. Invero, Leonarda approfitta dell’ottima reputazione che si è conquistata per compiere il suo ennesimo, e ultimo, piano malvagio: l’omicidio.

Gli omicidi e la saponificazione

A motivo della maledizione che aveva colpito la sua prole, durante il periodo in cui aveva vissuto a Lauria, Leonarda si era rivolta ad una fattucchiera per riuscire a portare a termine le gravidanze. Anche per merito dell’aiuto della maga che la Cianciulli comincia ad interessarsi alle arti occulte, da cui apprende il più possibile per “prendersi cura” dei propri figli, evitando che possa accadergli qualcosa di male.

Nel 1939 scoppia la seconda guerra mondiale e la vita di Leonarda rischia di cadere in pezzi: il marito Raffaele l’ha abbandonata da qualche tempo, uno dei suoi figli, Bernardo, si è arruolato nell’esercito e la sua unica figlia femmina, Norma, frequenta l’asilo presso le suore del paese. I soli rimasti accanto a lei sono il maschio più giovane, Biagio, che va al liceo e il più grande, Giuseppe, che studia lettere all’Università di Milano. 

Il suo timore più grande è quello di perdere il figlio adorato e il “prediletto tra tutti”, Giuseppe, che rischia di essere richiamato alle armi. Leonarda si rifugia nella magia, cercando un rimedio che possa salvare il figlio dalla guerra. Ancora una volta interviene la madre Serafina che, nonostante i passati scompigli dati dalla maledizione, appare a Leonarda come portatrice di un’ottima soluzione. La donna racconta ai giudici, durante il processo, che la madre le aveva parlato in sogno offrendole uno “scambio”: la vita di Giuseppe in cambio di alcuni sacrifici umani.

Tra il 1939 e il 1940, la Cianciulli uccide tre donne di sua conoscenza, sacrificandole per proteggere il figlio. Massacra le vittime colpendole con una scure, le fa a pezzi e scioglie i resti nella soda caustica per realizzare saponette o candele, ma ne conserva il sangue che mescola all’impasto per biscotti che fa mangiare ai figli e agli amici.

«Non ho ucciso per odio o per avidità, ma solo per amore di madre», Afferma in aula.

Ermelinda Faustina Setti, Francesca Clementina Soavi e Virginia Cacioppo sono le vittime sacrificali del rituale della folle Serial Killer di Correggio. Tutte abbindolate dalle promesse di Leonarda, che le convince di aver trovato per loro un marito, come fa con Ermelinda, o un nuovo lavoro per Francesca e Virginia. La Cianciulli le attira in casa sua, fa in modo che le intestino tutto ciò che le possiedono e, in ultimo, le assassina. Per coprire le proprie tracce, fa loro promettere di non proferire parola con amici o parenti, cosicché nessuno venga a conoscenza dei suoi sordidi inganni.

Ci vuole poco affinché la Megera di Correggio venga catturata. Lei è infatti molto amica delle proprie vittime e perciò tra i primi indiziati per le loro sparizioni. Allo stesso tempo, considerando il momento storico, è difficile per gli inquirenti immaginare che una piccola ed esile donna di campagna possa commettere quelle atrocità.

Riescono a risalire a lei grazie ad un Buono del Tesoro che le viene donato dalla Cacioppo prima di essere uccisa, ma che Leonarda da ad un amico, Abelardo Spinelli, per saldare un debito. Spinelli, a sua volta, lo dona alla chiesa e regala alla polizia un modo per risalire a lei.

Leonarda, che all’inizio si ostina a negare, confessa di essere l’autrice degli omicidi e viene condannata a 30 anni di reclusione in carcere e a 3 anni di ricovero in un ospedale psichiatrico, con l’accusa di omicidio, furto e vilipendio di cadavere. Tuttavia, anche il figlio Giuseppe deve scontare una parte della pena, poiché si crede abbia collaborato ai delitti della madre, con l’aiuto dell’amico Spinelli. Dopo 5 anni di carcere, Giuseppe viene rilasciato in mancanza di prove sufficientemente incriminanti per poterlo trattenere oltre

Il manicomio

Leonarda Cianciulli, o meglio conosciuta come “La Saponificatrice di Correggio”, passa il resto della propria vita nel manicomio criminale di Aversa. Muore all’età di 77 anni a causa di un ictus. Durante il soggiorno in Manicomio scrive un lungo memoriale per cercare di giustificare i propri crimini. A chi dice che lo ha fatto per denaro, invidia e odio, la risponde che lo ha fatto solo e unicamente per i figli.

Non sapremo mai quanto ci sia di vero nel memoriale e nelle parole pronunciate in tribunale, ma possiamo farci un’idea dalle sue azioni. Per gli abitanti di Correggio, Leonarda non è più la brava ed eccentrica casalinga della porta accanto, la madre esemplare che tutti pensavano fosse, ma ritorna ad essere la donna che è sempre stata prima di trasferirsi lì: una bugiarda, una truffatrice, una megera e, in aggiunta, una spaventosa Serial Killer.

Scritto da Naomi Campagna

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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I volti di Psyco. "Uccise per amore di madre", la serial killer che trasformava le donne in saponette. Tre donne uccise, smembrate e sciolte nella soda caustica: la saponificatrice di Correggio è considerata una delle più terribili serial killer della storia. Massimo Balsamo il 9 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'infanzia orribile

 La maledizione e la scaramanzia

 La nuova vita a Correggio

 Leonarda Cianciulli, la "saponificatrice di Correggio"

 L'arresto e il processo

 Il processo e la morte

1940, Correggio, cuore della Pianura Padana. Una piccola cittadina divisa tra fascisti e antifascisti, tra benessere e povertà, tra vita e morte. Ma la guerra non è l'unico pensiero degli abitanti. Tre donne intenzionate a cambiare vita svaniscono nel nulla, lasciando qualche lettera o cartolina ai pochi parenti o conoscenti rimasti in vita. Ma c'è chi vuole vederci chiaro, iniziando un'indagine personale. I risultati dell'investigazione privata saranno clamorosi, spingendo le autorità a individuare una delle più terribili serial killer della storia italiana: Leonarda Cianciulli, passata alla storia come la "saponificatrice di Correggio".

L'infanzia orribile

Leonarda Cianciulli nasce nel 1894 a Montella, provincia di Avellino. L'infanzia non è delle più semplici: ultima di sei figli, la madre la considera meno di niente, in quanto frutto di una violenza. Per lei nessuna carezza, nessun bacio, nessun segno d'affetto. La futura serial killer cresce respinta da tutti, sostenuta solo da amici immaginari.

Mascolina e simpatica, dal carattere gioviale, Leonarda Cianciulli conosce il riscatto nel pieno dell'adolescenza: allegra, socievole e soprattutto precoce, tanto da vantare relazioni con ragazzi più grandi. A metterle i bastoni tra le ruote ancora una volta la madre, pronta a darla in sposa a un cugino, una prassi di quei tempi. Lei però rifiuta la decisione materna e nel 1917, all'età di 23 anni, decide di sposare Raffaele Pansardi. La genitrice non partecipa al matrimonio, ma non solo: le augura ogni male possibile. Un episodio che condizionerà in maniera irreversibile la psiche della donna.

La maledizione e la scaramanzia

Suggestionata fin da bambina da maghe e chiromanti, Leonarda Cianciulli deve fare i conti con la maledizione della madre - una vita piena di sofferenze il suo augurio - e quello di una zingara: "Ti mariterai, avrai figliolanza, ma tutti moriranno i figli tuoi". Una predizione veritiera: la donna perde tredici figli tra aborti spontanei e parti prematuri. Originaria dell'Irpinia, la donna è molto scaramantica ed è pronta a tutto per scacciare il malocchio, dalle pozioni ai riti. E, dopo tanta fatica, riesce a rimanere incinta con successo, le nascono quattro figli: un bene da difendere a qualsiasi prezzo, in tutti i sensi. Sviluppa così un amore anormale, morboso, ossessivo.

La nuova vita a Correggio

Dopo aver vissuto a Lauria e a Lacedonia, nel 1930 il terremoto del Vulture spinge Leonarda Cianciulli e la sua famiglia al trasferimento a Correggio, in provincia di Reggio Emilia. Già condannata per truffa e furto, la donna tenta di guadagnare denaro un po' con ogni mezzo, lecito o illecito. Dà così il via a un'attività di compravendita di mobili e vestiti, senza accantonare la fama da fattucchiera, tra carte e amuleti. Lavori che fruttano, tanto da consentire alla famiglia di trasferirsi in una casa più grande e di assumere una domestica.

La vita di Leonarda Cianciulli cambia alla fine degli anni Trenta. Abbandonata dal marito, la donna deve fare i conti con lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Il figlio più grande e più amato, Giuseppe Pansardi, corre il rischio di essere richiamato al fronte, mentre un altro più giovane è militare di leva. Una situazione che getta la Cianciulli nello sconforto: lei, nonostante l'amore per il fascismo, non può permettersi il rischio di perdere i suoi figli. Anni dopo racconterà di un sogno con tanto di premonizione: avrebbe perso un figlio se non avesse compiuto dei sacrifici umani per aver salva la vita della prole.

Leonarda Cianciulli, la "saponificatrice di Correggio"

La Cianciulli individua tre donne sole, quasi senza amici e parenti, vogliose di cambiare vita: le vittime sacrificali perfette per salvare la vita dei figli, soprattutto quella del figlio maggiore. Le tre malcapitate sono Faustina Ermelinda Setti, Francesca Clementina Soavi e Virginia Cacioppo. Il modus operandi è lo stesso per tutti e tre gli efferati delitti, commessi tra il 1939 e il 1940: è lei a organizzare le false partenze, promettendo la realizzazione dei rispettivi sogni. La donna promette alla Setti un nuovo marito a Pola (Croazia), alla Soavi un nuovo lavoro a Piacenza, alla Cacioppo entrambe le cose a Firenze.

Un piano messo a punto con incredibile scaltrezza. Dopo aver sedotto le tre donne con impegni mirabolanti, le convince a vendere averi e proprietà per non presentarsi a mani vuote nella loro città. Il tutto senza dire una parola a nessuno. Il motivo? Non suscitare invidie, tenere lontano acrimonia e astio. Inoltre fa compilare alle tre donne cartoline e lettere da spedire ai pochi congiunti e conoscenti: i figli della Cianciulli le avrebbero poi spedite. Le donne diventano inconsapevolmente complici della propria morte.

Chi era Gary Ridgway, il Green River Killer che firmò (almeno) 49 omicidi

Poi il capitolo finale: con la scusa di un ultimo saluto, Leonarda Cianciulli invita le donne a casa sua e, in un momento di relativa tranquillità, le colpisce alla testa con un'ascia, ammazzandole sul colpo. È lei stessa a raccontarlo successivamente e il resto della narrazione mette i brividi: Cianciulli porta i corpi nel ripostiglio, lo smembra e mette le varie parti in un pentolone con chili di soda caustica. Ogni corpo bolle e, sciogliendosi, il grasso diventa sapone, stando alla testimonianza dell'assassina. Una strategia messa in atto per sbarazzarsi dei cadaveri in maniera più semplici e senza destare sospetti. "Sapone" ma non solo: il sangue delle tre donne sarebbe "riutilizzato" come ingrediente di biscotti con farina, zucchero, margarina, cacao e latte. "Ne uscivano ottimi pasticcini", confesserà in un interrogatorio.

L'arresto e il processo

Preoccupata per il silenzio della cognata Virginia Cacioppo - professione soprano d'opera - Albertina Fanti si presenta dai carabinieri e denuncia la sua scomparsa. A causa della mancanza di prove, il commissario decide di non aprire alcuna inchiesta. Non paga, la donna inizia a condurre indagini in solitaria, scoprendo una cosa importante: la scomparsa delle altre due donne, la Setti e la Soavi. Entrambe con poche amiche e poco conoscenti, entrambe in viaggio verso una nuova vita. Molte le somiglianze tra le scomparse: tutte con più di cinquant'anni, ma pronte ad abbracciare con entusiasmo i risvolti dell'esistenza.

Le voci arrivano al commissario Serrao, che inizia indagini meticolose e puntuali. La svolta arriva grazie a un buono del Tesoro appartenente alla Cacioppo ma presentato al Banco di San Prospero dal parroco Adelmo Frattini. Il religioso indica come precedente possessore Abelardo Spinabelli, che a sua volta punta il dito contro Leonarda Cianciulli, sua amica o forse qualcosa in più.

Le perquisizioni portano le autorità a individuare i vestiti di Virginia Cacioppo nella casa della Cianciulli. Lei nega tutto, fino alla prova schiacciante: nel solaio vengono pizzicate una dentiera e un mucchio di ossa. Il commissario mette nel mirino anche il figlio Giuseppe come possibile complice: l'uomo confessa infatti di essere stato lui a spedire le cartoline firmate dalla Setti ai suoi parenti.

Quando viene coinvolto il figlio prediletto, la "saponificatrice di Correggio" vuota il sacco, rivelando ogni minimo particolare delle atrocità commesse:"Le ho uccise io e ho fatto tutto da sola [...] Non ho ucciso per odio o per avidità, ma solo per amore di madre". Leonarda Cianciulli finisce al manicomio di Aversa, dove rimane per 19 mesi. È lì che scrive il suo memoriale di 700 pagine. Filippo Saporito, docente all’Università di Roma e direttore del manicomio criminale di Aversa, non ha dubbi: si tratta di totale infermità di mente al momento dei fatti compiuti. Ma a causa della guerra, il processo viene sospeso e rinviato alla fine del conflitto.

Il processo e la morte

Seguitissimo dai media, il processo prende corpo nel giugno del 1946. Leonarda Cianciulli si autoaccusa e chiede di lasciare in pace il figlio Giuseppe. La donna racconta non senza colpi di teatro i misfatti, mostrando addirittura come sezionare i cadaveri con professionalità. L'accusa chiede l'ergastolo per la serial killer e 24 anni di reclusione per il figlio, mentre la difesa ribadisce l'infermità mentale della donna e la mancanza di prove per condannare il primogenito. Dopo quasi tre ore di riunione, la sentenza: 30 anni di carcere alla Cianciulli e assoluzione per il figlio. La campana non passa la sua vita in carcere, ma in manicomi giudiziari, continuando a cucinare pasticcini e a leggere la mano. La morte avviene il 15 ottobre del 1970, nel manicomio di Pozzuoli, a causa di apoplessia cerebrale.

Gli sconosciuti, la prigionia, il riscatto: "L'Italia in piazza per quel bimbo". All'età di 10 anni, Augusto De Megni fu rapito dall'Anonima sarda. La prigionia durò 112 giorni: "Una vicenda che segnò la storia del nostro Paese". Francesca Bernasconi e Rosa Scognamiglio il 20 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Per mesi venne tenuto prigioniero da tre uomini incappucciati. Costretto a vivere in un tugurio di pochi metri quadrati, umido e buio, senza potersi nemmeno alzare. Una situazione insostenibile, che trasformò quei 112 giorni di prigionia in lunghi e terribili momenti, che cancellarono di colpo gli anni sereni precedenti. Era il 1990. L’Anonima sequestri era una minaccia in tutta Italia. E la sera di quel 3 ottobre, la vittima prescelta fu un bambino di soli dieci anni: Augusto De Megni.

Una vicenda dal grande impatto mediatico ed emotivo”, ha precisato a ilGiornale.it Alvaro Fiorucci, giornalista che seguì la vicenda all'epoca del sequestro e scrisse sul caso il libro Un bambino da fare a pezzi. Rapimento e liberazione di Augusto De Megni.

Il rapimento

Rapito sotto gli occhi del padre”. Così un articolo di Repubblica diede la notizia del sequestro di Augusto De Megni. Era il 3 ottobre del 1990. Quella sera il bambino si trovava in compagnia del padre Dino a casa del nonno, che possedeva una villa alle porte di Perugia, in via Assisana. Insieme stavano guardando una partita di Coppa Italia, ma al momento dell’intervallo, padre e figlio ne approfittarono per tornare nella propria abitazione, a pochi metri da quella del nonno. Una volta arrivati davanti alla porta, il piccolo Augusto e il padre Dino iniziarono a scaricare alcuni pacchi.

Fu in quel momento che i banditi entrarono in azione. “Ci hanno fatto mettere il viso rivolto a terra - raccontò Dino De Megni alle telecamere di Chi l’ha visto? - ci hanno immobilizzato e legato”. L'uomo sperò fosse una rapina, ma una semplice domanda confermò il suo timore. “Mi hanno domandato se si trattasse di mio figlio” e il sospetto di un rapimento divenne una certezza: “Lo portiamo via”.

Augusto De Megni venne trascinato lontano dalla propria casa e caricato su un’automobile, che sparì nel buio di una sera di ottobre. Dino De Megni impiegò circa mezz’ora per “stroncare a viva forza la corda che mi legava mani e piedi”, come raccontò all’Unità. Poi, una volta toltosi anche il bavaglio, diede l’allarme.

La famiglia De Megni

Nonostante il tempestivo intervento delle forze dell’ordine, i rapitori scomparvero nel nulla insieme al bambino. La villa infatti si trovava alla periferia di Perugia, a poche centinaia di metri dal raccordo autostradale Perugia-Betolle, che i malviventi potevano aver imboccato, con ogni probabilità per allontanarsi dall’abitazione il più velocemente possibile.

Nei giorni successivi, la famiglia De Megni non poté fare altro se non aspettare e sperare che i criminali si facessero vivi per chiedere un riscatto. Il padre Dino era in attesa nella villa di via Assisana, mentre la madre, Paola Rossetti, si era rifugiata nel suo appartamento in centro a Perugia, insieme alla figlia Vittoria. Ma perché quel gruppo di malviventi decise di rapire proprio Augusto De Megni?

Sulla risposta, gli inquirenti non ebbero molti dubbi. La famiglia De Megni era infatti molto in vista a Perugia. Il nonno del bambino, Augusto De Megni (da cui il nipote aveva preso il nome) era un avvocato e un personaggio di spicco della vita politica ed economica della città.

Titolare di un'avviata azienda di commercializzazione e trasformazione del legname ed è stato il fondatore della finanziaria che ora è amministrata dal figlio - raccontò dell'uomo Repubblica - Negli anni Sessanta era proprietario del Banco De Megni, una banca di famiglia che poi negli anni viene trasformata nel Banco di Perugia”.

Non Solo. Augusto De Megni senior era anche uno dei maggiori esponenti della Massoneria: per anni ne venne considerato il tesoriere e all’epoca del rapimento era il “Sovrano gran commendatore del rito scozzese, ossia il capo di uno dei riti della massoneria di Palazzo Giustiniani”.

Una famiglia influente e molto conosciuta a Perugia, presa di mira da una banda di criminali. Ma chi si celava dietro ai volti incappucciati che avevano portato via il piccolo Augusto? Il padre rivelò che uno dei banditi, l’unico che aveva parlato, poteva avere un accento sardo. Anche per questo gli inquirenti si concentrarono sull’Anonima sequestri, l’organizzazione criminale sarda dedita ai sequestri di persona.

La richiesta di riscatto

Dopo il rapimento i familiari rimasero in attesa di una richiesta di riscatto, ma per giorni i telefoni rimasero silenziosi. Nessuno dei sequestratori si fece vivo con i genitori del piccolo. Poi, una chiamata stabilì il primo contatto: “La vera richiesta di riscatto - ricorda il giornalista Alvaro Fiorucci - giunse dopo una lunga attesa. La famiglia aveva chiesto pubblicamente un segnale per avere notizie certe”. I rapitori dissero ai De Megni che avrebbero dovuto pagare 20 miliardi di lire: una richiesta da record, “la più alta mai formulata prima di quel momento per un rapimento”.

Per comunicare con la famiglia, i sequestratori escogitarono un modo per cercare di arginare i controlli delle forze dell’ordine: “Le richieste - spiega Fiorucci - venivano fatte ai sacerdoti di Perugia che poi riferivano i messaggi dei banditi alla famiglia De Megni. Dino, a volte, doveva rispondere ai sequestratori mediante alcune dichiarazioni 'criptate' rilasciate al Tg1 delle 20".

E la procura, per la prima volta in occasione di un rapimento, operò il sequestro dei beni della famiglia De Megni: “Al tempo, non c'era ancora la legge sul 'blocco dei beni' dei congiunti o affini del sequestrato - precisa Fiorucci - Per la prima volta furono congelati i beni appartenenti alla famiglia del rapito”. Le indagini intanto procedevano, grazie all’intervento dei “migliori poliziotti dell’epoca", ma la svolta arrivò “con le dichiarazioni di un pastore di Viterbo, che indicò agli investigatori la zona della prigione, tra Volterra e San Gimignano”.

Liberato Augusto”

Il 22 gennaio 1991, dopo 112 giorni di prigionia, Augusto De Megni venne liberato dalla polizia e dagli uomini del Nocs, il Nucleo operativo centrale di sicurezza della polizia di Stato. Le “teste di cuoio” riuscirono a scovare il nascondiglio dove veniva tenuto il bambino. “Lavorammo sulle intercettazioni, effettuammo diversi sopralluoghi – raccontò Pier Luigi Orlando, uno dei poliziotti del Pool investigativo che lavorava al caso - Alla fine la nostra attenzione si concentrò su una zona nei pressi di Volterra, dove vivevano dei pastori sardi”.

Arrivate sul posto, le forze dell’ordine perquisirono la zona: “Non trovammo nulla”, ricordò Orlando. Le speranze di trovare il nascondiglio dove veniva tenuto il piccolo Augusto sembrarono svanire. Ma, proprio mentre le squadre stavano ripiegando per tornare alla base, incontrarono un giovane sardo, che non fu in grado di spiegare il motivo della sua presenza in quel luogo.

Costui fornì spiegazioni poco credibili sul motivo per cui si trovasse nella selva (disse che stava andando a gettare l'immondizia) - ha spiegato il giornalista Fiorucci - A quel punto gli agenti si insospettirono e decisero di portarlo al commissariato per sentirlo in un interrogatorio lungo e approfondito. Venne caricato a bordo di un elicottero e, durante una perlustrazione, indicò l'area dove si trovava il nascondiglio con Augusto prigioniero”. Si trattava di una grotta, scavata nel terreno: impossibile vederne l’ingresso, costituito da un buco nel terreno, senza un’indicazione precisa.

Appena i Nocs entrarono nel luogo in cui veniva tenuto prigioniero Augusto, uno dei rapitori puntò un’arma contro la tempia del bambino. Inoltre, spiega Fiorucci, “quando i poliziotti raggiunsero la grotta, Augusto non volle uscire. Era spaventato e non si rendeva conto di quello che stava succedendo e quindi gli agenti che parteciparono al blitz finale dovettero attendere l'arrivo del papà per convincerlo a uscire”. Così, dopo mesi di prigionia, il bambino poté tornare finalmente a casa: l’incubo era finito.

Una volta liberato, ricorda il giornalista, “il bimbo raccontò di esser stato trattato bene durante quei 110 giorni di prigionia. In particolare, parlò del carceriere 'buono' che gli portava i fumetti da leggere, lo proteggeva e impedì che gli venisse tagliato un orecchio".

Per il rapimento di Augusto De Megni furono condannati tutti i membri dell'organizzazione sarda che parteciparono al sequestro, sia i basisti che gli esecutori materiali”, ha concluso Fiorucci. La vicenda che coinvolse il piccolo Augusto “ebbe un grande impatto emotivo, tanto che centinaia di persone, durante i giorni del sequestro, organizzarono cortei e manifestazioni chiedendo che il bimbo fosse liberato”. Il sequestro De Megni “fu una vicenda drammaticamente unica, che per certi aspetti, da quelli affettivi a quelli tecnici, ha segnato la storia del nostro Paese”.

Isabella Noventa, potrebbe essere suo il corpo senza vita trovato a Marghera. Antonella Gasparini su Il Corriere della Sera il 10 Febbraio 2023.

Affidate agli esperti anche le analisi sugli oggetti ritrovati vicino al cadavere. L'ex fidanzato Freddy Sorgato fu segnalato sul posto dai tabulati telefonici

Erano le 15.28 del 17 gennaio 2016 quando il telefono di Freddy Sorgato aggancia la cella telefonica di via Malcontenta. Alle 16.10 rimane collegato con quella di via Brunacci a Marghera per mezz’ora prima di tornare verso casa: via Bottenigo e più tardi il cellulare si collega con l’impianto di via Colombo a Noventa Padovana. L’altra sera la trasmissione televisiva «Chi l’ha visto?» ha diffuso i tabulati telefonici del camionista-ballerino 51enne di Noventa Padovana, ex fidanzato di Isabella Noventa, condannato assieme alla sorella Debora a 30 anni per omicidio volontario e soppressione di cadavere della donna. È stato l’incrocio tra i tabulati e il ritrovamento di uno scheletro a Marghera ha riaprire il mistero su quel corpo mai trovato nonostante siano passati sette anni. Grazie alle indagini della squadra mobile di Padova, all’epoca guidata da Giorgio Di Munno che oggi è a capo di quella di Venezia, è stato possibile vedere come il telefono di Sorgato il giorno successivo alla scomparsa della Noventa avesse agganciato i ripetitori a Marghera proprio in via Bottenigo, molto vicina alla rotonda di via della Chimica dove i resti sono stati scoperti da alcuni operai. C’è da dire però che l’uomo trasportava benzina e gasolio, e a Marghera c’è un deposito di carburante dove andava a rifornirsi.

L'orologio e le scarpe sportive

Nel punto del ritrovamento del teschio e di buona parte dello scheletro, il cui Dna verrà esaminato dal medico legale per risalire all’appartenenza, sono stati trovati altri resti che si trovano ancora sul posto: una maglietta nera e una scarpa di colore verde. La scoperta è stata fatta lunedì 30 gennaio da alcuni operai incaricati di sfalciare delle ramaglie che non venivano potate da tempo. Una zona periferica immersa tra capannoni e fabbriche, in cui si transita solo in auto. Del corpo sono stati trovati il cranio, un femore, il bacino, alcune ossa della cassa toracica e della spina dorsale. Poi ci sono gli oggetti: la procura di Venezia sta infatti lavorando su un orologio e un paio di scarpe sportive Dvs. L’obiettivo è risalire alla data di produzione degli oggetti che si presume siano appartenuti ai resti della persona ritrovata per stabilire da quanti anni quelle ossa fossero lì. Il medico ipotizza che possano essere sette anni, così come il tempo trascorso dall’omicidio di Isabella Noventa. Le scarpe trovate vicino al corpo sono però di numero 38, mentre la donna portava tra il 35 e il 36 a seconda del numero, ma quelle calzature potrebbero non essere le sue. «La speranza è chiaramente l’ultima a morire ma non mi faccio illusioni. Non credo che quello sia il corpo di mia sorella». Il fratello di Isabella Noventa, Paolo, è ben lontano dal rassegnarsi ma teme che non sia ancora giunto il momento di scrivere la parola fine su questa tragica vicenda. 

Già dieci corpi ritrovati negli anni

Eppure un barlume di speranza sembra essersi riacceso dopo il ritrovamento di quei resti e la presenza di Sorgato a Marghera il giorno dopo l’omicidio della donna. Il 17 gennaio del 2016 era solo un sospettato, l’ultima persona che aveva visto Isabella aveva detto, per poi scoprire che era tutta una messa in scena. Un mese dopo confessò l’assassinio dicendo di averla soffocata durante un gioco erotico e poi averla gettata nel fiume Brenta. Sono ormai quasi una decina i ritrovamenti di cadaveri non identificati che si è sperato potessero mettere la parola fine a questa vicenda. Come ad esempio nell’agosto 2019 ad sulla spiaggia di Albarella. Ma nessuno era di Isabella Noventa. «Ci abbiamo sperato tanto e non vogliamo arrenderci, anche se fino a oggi non abbiamo ancora trovato pace. È una sensazione indescrivibile, che non auguro a nessuno» conclude il fratello Paolo.

Il fantasma di Isabella Noventa: le ossa di Marghera, l’orologio e i tabulati telefonici. Roberta Polese su Il Corriere della Sera l’11 Febbraio 2023.

Tutti gli interrogativi su un delitto che sette anni dopo presenta ancora lati oscuri

Il destino di Isabella Noventa è quello di tornare. Come un fantasma che continua ad aggirarsi tra i vivi fino a quando il suo corpo non verrà  ritrovato e sepolto. Il cadavere scoperto a Marghera il 30 gennaio  potrebbe essere la risposta a molte domande.  In attesa del test del dna, che in due mesi dovrà dare l’unica risposta valida, non resta che mettere in fila domande, risposte e dubbi. Il cadavere trovato a Marghera è quello di Isabella? Alcuni elementi dicono di sì, altri dicono di no. Ad accendere tante domande ci sono quei 23 minuti di «buco» subito dopo l’omicidio, un enigma anche per gli investigatori, ma che alla luce di questo ritrovamento potrebbe trovare un senso. Poi ci sono tabulati telefonici, un orologio e una scarpa. Ma andiamo con ordine. Isabella Noventa viene uccisa a casa di Freddy Sorgato a Noventa Padovana la notte tra il 15 e il 16 gennaio del 2016. Inizialmente si sospetta un suo allontanamento volontario: ci sono le immagini di videosorveglianza della città che quella notte riprendono una donna con il suo giubbetto, le scarpe e il cappuccio in testa. Che fine ha fatto Isabella? Un mese dopo si scopre che Freddy e Debora Sorgato, i fratelli  condannati a 30 anni,  l’hanno uccisa. La tabaccaia veneziana Manuela Cacco ha finto di essere Isabella quella notte, per depistare le indagini. Cacco crolla e confessa, è il 15 febbraio 2016, scattano gli arresti. Nel giro di cinque anni le condanne ai tre complici diventano definitive. Freddy ha sempre detto di aver gettato il corpo della donna nel Brenta, ma il suo cadavere non è mai stato trovato, e nelle ricerche è morto un sommozzatore, Rosario Sanarico. Era il 19 febbraio del 2016.

I tabulati telefonici esaminati

 La ricostruzione fatta dal pm Giorgio Falcone regge fino alla Cassazione. I Sorgato sono gli assassini, Cacco la complice e il caso è chiuso. Ma non è così né per Paolo Noventa, fratello di Isabella, né per i giornali e le tv. Quel corpo che non si trova è una spina nel fianco. Per ogni cadavere che viene trovato tra Venezia, Padova e Rovigo, la domanda è sempre quella: e se fosse Isabella? Ma quei corpi o sono troppo recenti o hanno segni che Isabella non portava, come tatuaggi o piercing. Ma oggi non c’è solo un corpo ad accendere le speranze. Ci sono, per esempio, i tabulati dell’assassino il giorno dopo l’omicidio. Il cellulare di Freddy tra le 15 .13 e le 16.34 del 17 gennaio del 2016 aggancia tre celle telefoniche a Marghera, tra via Malcontenta, via Brunacci e via Bottenigo. Tre celle che al centro hanno via della Chimica, è qui che il 30 gennaio scorso vengono trovati i resti di un cadavere che dalle dimensioni delle ossa sembra quello di una donna. Il medico legale ne ha datato la morte a sette anni fa, ossia nel gennaio 2016, data della morte di Isabella. I tracciati telefonici di Sorgato dicono che lui era lì il giorno dopo l’omicidio, si tratta di un luogo che conosceva bene per lavoro, dato che ci sono depositi di carburante che lui vendeva. Non solo. I tracciati dicono che il 16 gennaio anche Debora Sorgato e Manuela Cacco erano a Marghera a fare colazione alla Nave de Vero. Può essere che le due donne avessero  fatto un sopralluogo per Freddy? Forse. Ma perchè non liberarsi subito del corpo? E soprattutto dove sarebbe stato il cadavere tra il 16 e il  17 gennaio 2016?

Quei 23 minuti dopo il delitto

Una risposta a questa domanda potrebbe trovarsi nei 23 minuti immediatamente dopo l’omicidio. Dopo la mezzanotte del 15 gennaio del 2016 Debora e Freddy Sorgato salgono nella Golf di Debora, dentro il bagagliaio c’è il cadavere di Isabella, uccisa a martellate in casa, infilata dentro a un sacco nero. I due si dirigono verso est, fanno un giro di 23 minuti, e poi tornano a casa. In quella direzione, in via Polati, a ridosso del Brenta, i Sorgato hanno una rimessa. Potrebbero aver messo lì Isabella prima di tornare a casa a prendere Manuela per dirigersi in centro a fare la sceneggiata sotto alle telecamere. In quel momento loro non sono sospettati, sanno di avere tutto il tempo per pensare al cadavere nelle ore successive. Resta sempre un punto di domanda: perchè rischiare di tenere un cadavere in un posto riconducibile a loro? Perchè spostare un corpo in pieno giorno, sebbene di domenica nella zona industriale di Marghera ci sia poca gente? «Non mi stupirei se l’avessero fatto davvero - spiega Paolo Noventa - hanno dimostrato di essere spietati». 

L'orologio e la scarpa: due indizi da esaminare

Tra le ossa ritrovate a Marghera c’era anche una scarpa verde di marca Dvs, taglia numero 38, dentro c’era un osso. Troppo grandi per essere quelle di Isabella, che portava un 35 e che la sera della sua morte indossava degli stivaletti. «Debora e Manuela avrebbero potuto mettere lì quella scarpa per sviare le indagini - spiega Paolo - anche se non si spiega perché abbiano dovuto farlo». Già, perchè mettere un indizio così fuori luogo? Sarebbe stato comunque chiaro a tutti, una volta ritrovata la scarpa, che non era quella di Isabella. O forse, semplicemente quella scarpa è del cadavere che la indossava, che a rigor di logica a questo punto non è Isabella. Ultimo capitolo riguarda l’orologio trovato tra le ossa, si tratta di un oggetto di poco valore. «Mia sorella aveva una cinquantina di orologi a casa, li prendeva dove capitava, ma per uscire indossava sempre e solo il suo Rolex, la sera in cui è scomparsa lo aveva lasciato a casa, non so se ne indossasse un altro». È di Isabella quell’orologio? Ancora non si sa. Le congetture continuano. «Potrei riconoscere Isabella dalla mandibola, ma dobbiamo aspettare, aspettiamo da 7 anni, non ho mai avuto grandi speranze e anche questa volta non mi faccio illusioni». Almeno due persone sanno la verità: sono Freddy e Debora Sorgato. Solo loro potrebbero dirimere il dubbio sul corpo. Ma il sospetto è che il fantasma di Isabella continuerà a tornare ancora, e ancora. (Ha collaborato Antonella Gasparini)

I misteri irrisolti e le novità sul caso. Isabella Noventa, storia della scomparsa e il mistero del corpo trovato a Marghera: “Il telefono di Freddy Sorgato era lì vicino”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 10 Febbraio 2023

La storia della scomparsa di Isabella Noventa è un mistero rimasto ancora irrisolto nonostante siano tre le persone accusate per il suo omicidio. Ma il corpo della segretaria 55enne di Albignasego, provincia di Padova, scomparsa tra il 15 e il 16 gennaio 2016 non è mai stato trovato. E negli anni successivi per almeno dieci altri ritrovamenti di cadaveri nella zona gli investigatori hanno pensato che si potesse trattare di lei. Ma alla fine il test del dna smentiva l’ipotesi. Il 30 gennaio nuovi resti umani sono stati ritrovati a Marghera e ad accendere la speranza che si possa trattare di lei sono i tabulati telefonici rivelati da “Chi l’Ha visto?”: il 17 gennaio il telefono di Freddy Sorgato, il camionista ballerino, 51 anni, ex fidanzato di Isabella Noventa , condannato a 30 anni per il suo omicidio, ha agganciato la cella della zona dove sono stati trovati quei resti.

Il ritrovamento dei resti

Il 30 gennaio scorso un gruppo di operai che stava tagliando l’erba alta hanno trovato in via della Chimica Marghera dei resti umani: si tratta di un teschio, femore, bacino e alcune ossa della cassa toracica e della spina dorsale. Bisognerà aspettare gli esiti delle analisi del per avere qualche certezza rispetto a quei resti trovati accanto a una maglietta nera e una scarpa verde, oltre a un orologio. Le scarpe pare che siano di numero 38 mentre Isabella portava tra il 35 e il 36. “La speranza è chiaramente l’ultima a morire ma non mi faccio illusioni. Non credo che quello sia il corpo di mia sorella”, ha detto il fratello di Isabella Noventa, Paolo. Fu proprio lui a lanciare l’allarme al momento della scomparsa della donna.

Gli investigatori hanno subito pensato che si potesse trattare di Isabella Noventa. Poi i tabulati telefonici hanno rivelato che alle 15.28 del 17 gennaio 2016 quando il telefono di Freddy Sorgato aggancia la cella telefonica di via Malcontenta. Alle 16.10 rimane collegato con quella di via Brunacci a Marghera per mezz’ora prima di tornare verso casa: via Bottenigo e più tardi il cellulare si collega con l’impianto di via Colombo a Noventa Padovana, come riportato dal Corriere della Sera. C’è da dire che in quella zona l’uomo si recava spesso a fare rifornimento con il suo camion.

La vicenda della scomparsa di Isabella Noventa

Il 17 gennaio 2016 quando iniziarono le indagini per la scomparsa di Isabella Noventa c’era un solo sospettato: Freddy Sorgato, che era stato l’ultimo ad averla incontrata viva. Un mese dopo l’uomo confessò di averla soffocata durante un gioco erotico finito male e poi di averla gettata nel fiume Brenta. Fu condannato in via definitiva a 30 anni insieme a sua sorella Debora Sorgato, accusata di aver materialmente colpito e ucciso Isabella. E infine anche Manuela Cacco, l’amica di Debora ed ex fidanzata di Freddy condannata a 16 anni accusata di essere complice dell’omicidio. Si sarebbe trattato di un omicidio di stampo passionale, ma non è mai stato trovato né il corpo né l’arma del delitto. E per questo tanti misteri e domande sono rimaste senza soluzione. Tanti i dubbi che attanagliano i familiari di Isabella Noventa tanto da tirare in ballo in passato un coinvolgimento della Mala del Brenta in quel terribile omicidio.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il carabiniere Minguzzi ucciso nel 1987 a Ravenna, la Corte dopo le assoluzioni: «Omicidio mafioso, ma resta il mistero». Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 9 Febbraio 2023.

Figlio di imprenditori al tempo in servizio militare, fu ammazzato e gettato nel Po. Un cold case sbloccato dall’imputazione di due ex carabinieri e un idraulico: ma sono stati giudicati innocenti. Le motivazioni parlano di segreto

L’omicidio di quel giovane imprenditore e carabiniere di leva «fu di stampo mafioso», cioè un «classico esempio di lupara bianca». È quanto ha scritto il presidente della Corte d’Assise di Ravenna Michele Leoni nelle motivazioni per le assoluzioni pronunciate in merito al delitto del 21enne Pier Paolo Minguzzi — oltre che carabiniere di leva nel Ferrarese, anche studente universitario e figlio di una famiglia di imprenditori ortofrutticoli di Alfonsine, nel Ravennate — sequestrato e ammazzato (incaprettato, legato a una grigia metallica e gettato nel Po) la notte tra 20 e 21 aprile 1987 mentre rincasava dopo avere riaccompagnato la fidanzata durante una breve licenza pasquale. Un «cold case» mai veramente risolto e che ora riaffiora tra le righe delle motivazioni della sentenza.

I precedenti del trio assolto

Il corpo del ragazzo era riaffiorato nel Po di Volano (Ferrara) il primo maggio 1987: i suoi rapitori lo avevano ucciso e zavorrato con una pesante grata metallica. E, pur sapendolo già morto, avevano continuato a chiedere alla famiglia un riscatto da 300 milioni di lire. L’inchiesta, aperta contro ignoti, era stata archiviata nel settembre 1996 e riaperta nel gennaio 2018 questa volta verso due ex carabinieri all’epoca in servizio alla caserma di Alfonsine: il 59enne Angelo del Dotto di Ascoli Piceno e il 58enne Orazio Tasca, originario di Gela (Caltanissetta) e da anni residente a Pavia. E contro l’idraulico del paese, il 66enne Alfredo Tarroni. I tre in passato erano stati condannati, e avevano espiato le relative pene, per un taglieggio sempre da 300 milioni di lire a un altro imprenditore del posto: durante un appostamento dei carabinieri nel luglio 1987, un giovane militare originario di Caserta era stato ucciso da una pallottola sparata da uno dei tre. Precedenti che facevano riflettere.

«L’omicidio resta un mistero, anzi un segreto»

Per quanto riguarda Minguzzi invece, i tre «vanno assolti con formula piena per non avere commesso il fatto», si legge nelle motivazioni della sentenza pronunciata il 22 giugno scorso a fronte della richiesta di altrettanti ergastoli. E così «purtroppo l’omicidio del 21enne resta tutt’ora un mistero. Anzi, un segreto», affermano le motivazioni rese note in questi giorni. Per la Corte «non fu una morte per annegamento o un incidente. Si trattò di sequestro per omicidio per ragioni tutt’ora sconosciute», di «un’esecuzione in piena regola». In quanto «alle congetture del Pm sullo svolgimento degli eventi, si sono sprecate» ma sono «prive di qualsiasi riscontro». Evidentemente la Corte ha ritenuto l’impianto dell’accusa non sufficientemente solido in termini di prove. In un’intera sezione dedicata ai «lati oscuri», la Corte ha infine indicato nuovi spunti di verifica, a partire dal cameriere stagionale che nei giorni successivi al sequestro, si era inserito nella vicenda con chiamate e lettere all’allora fidanzata del defunto. Nel processo per l’uccisione di Pier Paolo la famiglia Minguzzi — assistita dagli avvocati Luca Canella, Luisa Fabbri e Paolo Cristofori — si era costituita parte civile. Decisiva, nel rinvio a giudizio, era stata la perizia fonica, richiesta del procuratore Alessandro Mancini, sulla voce che chiamò casa Minguzzi: «Pier Paolo è con noi, preparate 300 milioni». Secondo l’accusa era quella di Tasca.

Daniel Radosavljevic, la perizia smonta la tesi del suicidio: «Si esclude possibilità di istinti autolesionistici». Simone Alliva su La Repubblica il 14 Febbraio 2023.

L’italiano morto nel carcere francese di Grasse era stato visitato alcuni giorni prima della morte nell’istituto. «Non presenta un pericolo comportamentale immediato legato a un disturbo psichiatrico per sé o per gli altri»

Anche i lettori dell’Espresso, insieme con la famiglia, chiedono verità sulla morte di Daniel Radosavljevic, l’italiano suicidatosi in circostanze misteriose nel carcere di Grasse in Costa Azzurra. Aveva 20 anni. Dopo l’inchiesta pubblicata sul numero del 5 febbraio scorso, è stato assegnato dalla Procura di Milano l’incarico per l’esame autoptico in Italia.

Daniel Radosavljevic era stato trovato impiccato nel penitenziario francese il 18 gennaio. Pochi giorni prima, il 15 gennaio, l’ultimo contatto con i parenti: era sereno, raccontano. La speranza nell’imminente rientro in Italia e nel futuro che sarebbe stato certamente migliore per lui, che sognava di diventare educatore minorile.

L’Espresso ha potuto visionare in anteprima la perizia psichiatrica effettuata a Grasse il 12 novembre 2022, dove si esclude la possibilità di istinti suicidi o autolesionistici. Si legge: «Non vi è alcuna indicazione per il ricovero in un istituto psichiatrico specializzato. Non ha una patologia psichiatrica che possa rappresentare un rischio imminente di disturbo dell’ordine pubblico. Non presenta un pericolo comportamentale immediato legato a un disturbo psichiatrico per sé o per gli altri».

Sul nostro sito tra i documenti pubblicati in esclusiva, la telefonata di un detenuto che invita i familiari a investigare: potrebbero esserci delle responsabilità a carico della polizia penitenziaria. L’irruzione di una squadra antisommossa nella cella del giovane proprio nel giorno della morte. Prima ancora, i pestaggi. Il caso è arrivato anche sui banchi del Parlamento italiano: la dem Laura Boldrini ha presentato un’interrogazione al ministro degli Esteri, Antonio Tajani. In Francia, invece, nessun dibattito pubblico, nessuna protesta o promessa: silenzio assoluto.

La morte di Daniel Radosavljevic finisce in Parlamento. Boldrini: «Il governo ora agisca per fare luce». Simone Alliva su La Repubblica l’8 Febbraio 2023.

Il caso del ragazzo italiano ufficialmente “suicida” in un carcere francese, rivelato dall’Espresso, nell’interrogazione della deputata del Pd. Sulla sua morte il sospetto delle violenze delle guardie dell’istituto di pena

Arriva anche in Parlamento il caso, denunciato da L’Espresso, di Daniel Radosavljevic, il cittadino italiano di 20 anni, misteriosamente trovato impiccato nel carcere di Grasse in Costa Azzurra.

È l’onorevole Laura Boldrini del Partito Democratico ad aver presentato un'interrogazione al Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale Antonio Tajani e al Ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Nel riassumere la storia, denunciata in esclusiva da L’Espresso, la deputata chiede ai ministri: «Quali notizie abbia il Governo in merito alla morte di Daniel Radosavljevic e come intenda attivarsi per ottenere dalle autorità francesi il massimo di collaborazione nell’accertamento della verità».

Daniel è stato trovato impiccato nel penitenziario francese il 18 gennaio. Pochi giorni prima, il 15 gennaio, si era messo in contatto con la famiglia: era sereno, raccontano i parenti che con lui avevano discusso dell’imminente rientro in Italia e del futuro che sarebbe stato certamente migliore per Daniel che sognava di diventare educatore minorile. Il 18 gennaio il cellulare della madre ha squillato di nuovo. Dall’altro lato del telefono la direzione del carcere. «Il detenuto Daniel Radosavljevic si è suicidato per impiccagione durante il regime dell’isolamento, applicato più volte dal 16 gennaio, seppur in diverse sezioni». Ma fonti e circostanze, analizzate da L’Espresso, mettono in dubbio l’ipotesi di suicidio.

"Daniel è stato ammazzato: chiedi le telecamere nel corridoio.” La videochiamata dal carcere

«Chiedo al governo italiano di agire per fare piena luce sulle cause della morte di Daniel in un carcere francese – commenta Boldrini all’Espresso - Se i sospetti dei familiari, che non hanno mai creduto all’ipotesi suicidio, dovessero trovare conferma, saremmo di fronte a un grave caso di violenza in carcere».

Daniel è morto mentre era nelle strutture di uno Stato straniero. Picchiato dalle guardie, hanno raccontato i detenuti ai parenti durante una serie di telefonate clandestine tra loro e la famiglia del ragazzo. «Non ha appeso un lenzuolo alla finestra. A tre metri d’altezza? Impossibile», ripetono nel video de L'Espresso che da giorni rimbalza in rete.

E poi le ferite che la signora Branka Milenkovic, il 24 gennaio ha intravisto sul corpo di Daniel, nell’obitorio del carcere di Grasse: una sul retro del cranio, un’altra d’arma da taglio immediatamente sotto il costato, il mignolo rotto, delle scarificazioni tipiche da corda di diametro molto sottile impresse a ridosso della parte centrale del collo e nessun segno sulla porzione superiore del collo e nella zona mandibolare, come ci si aspetterebbe dall’azione abrasiva della corda a causa del peso del corpo impiccato e della sua gravità.

A creare il gran polverone che depista le indagini, nasconde intrighi e fa calare la nebbia sulla morte di Daniel concorrono molti elementi: le lettere scritte di suo pugno, le telefonate, il corpo martoriato ma anche il silenzio della Francia che aggrava il dolore della famiglia che chiede giustizia. Non sono soli.

«Diteci la verità sulla morte in carcere di Daniel Radosavljevic». Dai social la richiesta di #GiustiziaPerDany. Dopo l’inchiesta dell’Espresso sul “suicidio” del ragazzo italiano in una prigione francese, centinaia di reazioni e messaggi affinché si scopra come sono andate le cose. E si muove anche il Parlamento. Simone Alliva su L’Espresso il 06 Febbraio 2023

È un vento che sale la richiesta di verità sulla morte di Daniel Radosavljevic, il cittadino italiano di 20 anni, misteriosamente trovato impiccato nel carcere di Grasse in Costa Azzurra. A poche ore dalla pubblicazione della nostra inchiesta esclusiva sui misteri che circondano la morte del ragazzo, sono state centinaia le reazioni che sollevano una grande richiesta: #GiustiziaPerDany.

«Non ti preoccupare Dany ora ci pensiamo noi a fare giustizia. Non è possibile che un ragazzo di soli 20 anni muoia così». «Non se ne è parlato neanche sui media francesi», ci fanno sapere oltralpe. «Mi auguro che le autorità italiane facciano gli stessi sforzi fatti per Giulio Regeni per chiarire le circostanze del “suicidio” e perseguire gli eventuali responsabili. E che l’Espresso segua con la stessa attenzione la vicenda nei mesi e anni futuri. Giusto per dimostrare che non esistono cittadini di serie A e cittadini di serie B», ci scrive Franco da Milano.

Daniel è stato trovato impiccato nel penitenziario francese il 18 gennaio. Pochi giorni prima, il 15 gennaio, l’ultimo contatto con la famiglia: era sereno, raccontano i parenti che con lui avevano discusso dell’imminente rientro in Italia e del futuro che sarebbe stato certamente migliore per Daniel che sognava di diventare educatore minorile.

Il 18 gennaio il cellulare della madre ha squillato di nuovo. Dall’altro lato del telefono la direzione del carcere. «Il detenuto Daniel Radosavljevic si è suicidato per impiccagione durante il regime dell’isolamento, applicato più volte dal 16 gennaio, seppur in diverse sezioni». Una versione che non trova conferma nelle voci dei detenuti riprese da L’Espresso che, attraverso un cellulare clandestino, suggerito un finale diverso.

Daniel è morto mentre era nelle strutture di uno Stato straniero. Era stato picchiato dalle guardie. «Come? - chiedono i parenti – Normalmente», rispondono i detenuti, quasi a implicare che ci sia una “giusta quantità" di abusi che una persona possa subire da parte di esponenti di uno Stato democratico. «Non ha appeso un lenzuolo alla finestra. A tre metri d’altezza? Impossibile», ripetono nel video de L'Espresso che da giorni rimbalza in rete.

Il 24 gennaio quando la signora Branka Milenkovic arriva al carcere di Grasse per ritirare i beni personali del figlio, chiede di poter visionare la salma: nota una ferita sul retro del cranio, un’altra d’arma da taglio immediatamente sotto il costato, il mignolo rotto, delle scarificazioni tipiche da corda di diametro molto sottile impresse a ridosso della parte centrale del collo e nessun segno sulla porzione superiore del collo e nella zona mandibolare, come ci si aspetterebbe dall’azione abrasiva della corda a causa del peso del corpo impiccato e della sua gravità. Le mani non hanno le unghie, tagliate di netto anche in prossimità della parte superficiale del polpastrello. Chiede spiegazioni: è per l’autopsia o è successo altro? Silenzio.

Niente torna al suo posto dentro questa storia. Verità per Daniel, ripetono i parenti. #GiustiziaPerDany è l'hashtag ripetuto sotto gli articoli pubblicati da L'Espresso.

Il caso è arrivato anche sui tavoli del Parlamento italiano: a L'Espresso diversi esponenti politici hanno comunicato che non resteranno a guardare. Lo Stato tutela dalle ingiustizie e dai soprusi, non li esercita. Dovrebbe essere un fondamentale per qualsiasi Paese dell'Unione Europea.

Daniel, italiano “ufficialmente” suicida a 20 anni in cella. Ma i documenti raccontano un’altra storia. Zone d’ombra nelle carceri francesi. La morte sospetta di un giovane sotto custodia cautelare nella prigione di Grasse. Che viene trovato impiccato. Ma gli audio e le lettere in nostro possesso, che pubblichiamo, fanno emergere omissioni, segreti e silenzi. Simone Alliva su L’Espresso il 03 Febbraio 2023

«Non è possibile che Daniel si sia suicidato». Proprio partendo da questa convinzione Branka Mikenkovic madre di Daniel Radosavljevic cittadino italiano di 20 anni, trovato impiccato nel carcere di Grasse in Costa Azzurra, porta avanti la sua battaglia per «la verità». Non è la suggestione di una madre. Sono decine i carteggi, le telefonate clandestine, le videochat che L’Espresso ha esaminato e che raccontano una storia che sembra svelare un finale bugiardo. Ripercorriamo le tappe dell’arresto di Daniel fino alla morte-e anche dopo- seguendo i documenti, finora inediti.

L’8 ottobre Daniele viene arrestato a Grasse, dopo un inseguimento dovuto al mancato rispetto di un ordine di fermata a un posto di blocco della gendarmerie. Ha 20 anni, un’adolescenza con precedenti per reati contro il patrimonio ma nessuna condanna da maggiorenne. Viene messo in custodia cautelare. Le accuse: inottemperanza all’ordine di fermo e tentato omicidio, a causa delle manovre pericolose durante la forzatura del posto di blocco. Ricostruzione contestata sin da principio dall’indagato.

La scrittura per Daniel è terapia, da sempre. E quindi dalla cella scrive. Lunghissime missive alla famiglia, pensieri, annotazioni. «Uscito da qui voglio studiare per diventare educatore minorile». Una calligrafia chiara e rotonda. Il 15 gennaio chiama per l’ultima volta la madre. È sereno.

Il 18 gennaio il cellulare della madre squilla di nuovo. Dall’altro lato del telefono la direzione del carcere: Daniel è morto in mattinata. «Il detenuto Daniel Radosavljevic è suicidato per impiccagione durante il regime dell’isolamento, applicato più volte dal 16 gennaio, se pur in diverse sezioni». Fine della comunicazione.

"Daniel è stato ammazzato: chiedi le telecamere nel corridoio.” La videochiamata dal carcere

Poco dopo il telefono però squilla ancora. Daniel comunicava con la sua famiglia tramite un account Instagram “in comune” con i detenuti. È Daniel? Forse non è morto. Si sono sbagliati. Invece no, non è così: è un pensiero magico, questo. Daniel è morto. La conferma arriva da dietro le sbarre di Grasse: dall’altro lato del telefono un detenuto invita parenti a investigare: potrebbero esserci delle responsabilità in capo alla polizia penitenziaria. Ma non solo. Indica anche le telecamere che potrebbero aver ripreso la scena.

È il 24 gennaio quando la signora Branka Milenkovic arriva al carcere di Grasse e ritira i beni personali del figlio. Chiede di poter visionare la salma. Sul corpo i segni che rimandano a un pestaggio. Chiede spiegazioni. Nessuna risposta.

«Vogliamo la verità» dichiara la famiglia. Fonti e circostanze raccolte su L’Espresso in edicola, raccontano una storia di omissioni, segreti e silenzi. La famiglia ripete: l’indifferenza è un'offesa a chi crede nella Giustizia, a tutti i cittadini italiani che chiedono la verità sul caso di Giulio Regeni. Daniel Radosavljevic è un altro Giulio Regeni: morto in Francia.

Morto in quel paese condannato 18 volte dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, per le condizioni di detenzione degradante dei detenuti. Nel 2010, nello stesso carcere la morte un altro italiano, anche lui in circostanze mai del tutto chiarite e riconsegnato all’Italia senza organi. Si chiamava Daniele Franceschi. Daniele evoca Daniel. Nei nomi l’eco di un destino.

L'auto, il corpo sui sedili posteriori, poi la scoperta: chi è la donna morta nel lago. La vittima è la psicologa e scrittrice Maria Cristina Janssen, di 67 anni. Il cadavere era adagiato sui sedili posteriori di un'auto semisommersa nelle acque del lago di Garlate. Non si esclude nessuna pista investigativa. Rosa Scognamiglio il 6 Febbraio 2023 su Il Giornale.

È di Maria Cristina Janssen, 67 anni, psicologa e scrittrice, il cadavere di donna ritrovato sui sedili posteriori di una Fiat Panda ferma sulla spiaggia di Rivabella, vicino al lago di Garlate, nella provincia di Lecco. Sul caso sono state avviate delle indagini coordinate dal procuratore di Lecco Ezio Domenico Basso e affidate ai carabinieri. Gli investigatori hanno già sentito alcuni familiari della vittima. Al momento, non si esclude nessuna ipotesi.

Il ritrovamento del corpo

A lanciare l'allarme, questa mattina presto, sono stati alcuni operai che hanno notato la vettura semisommersa nel lago, a circa dieci metri dalla riva e con un vetro rotto, in località Rivabella, nelle vicinanze di un campeggio. La donna era distesa, senza vita, sui sedili posteriori della vettura. Sul posto sono intervenuti i sanitari di Areu, i volontari della Croce Verde di Bosisio Parini e i vigili del fuoco. I sommozzatori del 115 di Milano hanno scandagliato in largo e lungo lo specchio d'acqua per accertare che non vi fossero altri cadaveri e per trovare eventualmente elementi utili a ricostruire la dinamica dell'accaduto.

Chi è la vittima

L'identità della vittima è stata ufficializzata nel tardo pomeriggio di oggi. Si tratta della psicologa e scrittrice Maria Cristina Janssen. La donna, separata e con due figli, era originaria di Milano. Anni fa, si era trasferita in provincia di Livorno, ma era poi tornata a vivere nel Milanese. Stando a quanto apprende Il Giorno, in passato aveva lavorato in svariati istituti di salute mentale e per la riabilitazione dei soggetti svantaggiati. Il suo ultimo incarico professionale era stato quello di giudice onorario presso il Tribunale dei Minori di Firenze.

Le indagini

Dai primi riscontri medico legali non sono stati evidenziati segni di violenza sul corpo della 67enne. Ad ogni modo, sarà l'autopsia a rivelare ed accertare le cause del decesso. Sul fronte investigativo, invece, non ci sono ancora novità. In queste ore, i familiari e alcuni conoscenti della donna sono stati sentiti dai carabinieri. "Non possiamo escludere alcuna pista. - dicono gli investigatori -Possiamo solo aggiungere che al momento sono stiamo interrogando i parenti più prossimi della donna". Non è ancora chiaro perché Maria Cristina si trovasse a Lecco né tantomeno è possibile ipotizzare quale fosse il suo stato d'animo quando ieri, domenica 5 febbraio, è uscita di casa.

Donna morta in auto, il macabro ritrovamento sui sedili posteriori: “Non si esclude nessuna ipotesi”. Vito Califano su Il Riformista il 6 Febbraio 2023

Sul sedile posteriore di un’automobile, una Fiat Panda. Era scattato poco dopo le sette di mattina l’allarme, nel giro di poche ore l’intervento dei vigili del fuoco e il riconoscimento. È di una donna il cadavere ritrovato in località Rivabella, a Lecco, nei pressi di un campeggio, all’interno di una vettura che si trovava nelle acque del lago. Sul caso indagano i Carabinieri, al momento non si esclude nessuna ipotesi.

Il ritrovamento al termine di una pista ciclabile che costeggia il lago. Alcuni operai questa mattina hanno fatto scattare l’allarme per la presenza di un’automobile con la parte anteriore, secondo quanto scrive l’Ansa, sotto la superficie dell’acqua. Una Fiat Panda che i vigili del fuoco hanno recuperato nel loro intervento. A tirare fuori dal lago la vettura i sommozzatori che stanno scandagliando le acque del lago per escludere la presenza di altri corpi.

Sul posto anche il medico legale che ha effettuato una prima visita esterna del cadavere e i militari della scientifica che stanno compiendo i rilievi. Ancora nessun aggiornamento sulle cause di morte della donna. Secondo quanto scrive Il Corriere della Sera Milano il corpo è stato identificato, appartiene a una donna di 60 anni, milanese, sposata e con figli. I familiari della vittima sono arrivati a Lecco e sono stati ascoltati dagli inquirenti in caserma.

Le strade sono ancora tutte aperte perché al momento non è possibile escludere l’intervento di terze persone – le parole del procuratore capo di Lecco Ezio Domenico Basso riportate dal quotidiano -. È stata disposta l’autopsia: verrà eseguita nei prossimi giorni per acquisire ulteriori elementi che ci consentiranno di avere un quadro più preciso. L’auto è finita in acqua, è stata vista da alcune persone e poi estratta dai pompieri. Nulla si può dire al momento sulla presenza di eventuali segni di violenza”.

AGGIORNAMENTO: La donna trovata questa mattina morta nell’auto semisommersa nel lago a Lecco era una scrittrice, psicologa Maria Cristina Jansenn, 67 anni, madre di due figli, milanese d’origine ma residente da anni in Toscana. Dal 2006 abitava a Campiglia Marittima, in provincia di Livorno. Aveva lavorato nei settori della salute mentale e della riabilitazione di soggetti svantaggiati. La sua carriera di giudice onorario si era conclusa al tribunale dei minori di Firenze. Ancora sconosciute le cause della morte come i motivi per cui la donna si trovava a Lecco.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appa

Il caso dell'ex giudice onorario al tribunale dei minori di Firenze.

Il giallo di Maria Cristina Janssen, la scrittrice psicologa trovata morta in auto in riva al lago. Vito Califano su Il Riformista il 6 Febbraio 2023

A far scattare l’allarme alcuni muratori che questa mattina, intorno all’alba, si erano accorti di quell’automobile semisommersa nelle acque del lago di Garlate. Quel corpo rinvenuto sui sedili posteriori della vettura era di Maria Cristina Jansenn, scrittrice e psicologa, originaria di Milano ma che per tanti anni aveva vissuto in Toscana. Com’è morta? E perché il suo corpo è stato ritrovato nel territorio comunale di Lecco, in località Rivabella? È intorno a queste domande che indagano i carabinieri. Le prime risposte dovrebbero arrivare dall’autopsia disposta dal procuratore Ezio Domenico Basso.

Janssen aveva finito il suo incarico di giudice onorario al tribunale dei minori di Firenze nel 2019. Dal 2006 viveva con il marito a Campiglia Marittima, Livorno, ma secondo quanto riporta l’Ansa aveva deciso a fine 2022 di ritornare al nord “perché a quanto risulterebbe la coppia era in via di separazione”. Il marito sarebbe invece rimasto ad abitare a Campiglia. A lungo aveva lavorato nel settore della salute mentale e nella riabilitazione di soggetti svantaggiati, era stata anche formatrice.

65 anni, madre di due figli, milanese d’origine, è stata ritrovata questa mattina sui sedili posteriori di una Fiat Panda. La vettura era semisommersa nel lago di Garlate, ad alcune decine di metri dalla riva. Almeno uno dei vetri era rotto. All’interno dell’abitacolo la macabra scoperta, il corpo della donna. Secondo quanto emerso da un primo esame esterno del corpo, non sarebbero stati notati e rinvenuti segni di violenza, sempre stando alla ricostruzione dell’Ansa.

L’auto – che a quanto emerso dalle indagini sarebbe stata intestata alla stessa donna – è stata recuperata dai sommozzatori, ritrovata con i fari ancora accesi. La Procura della Repubblica di Lecco attraverso i carabinieri sta cercando di risalire alla causa e alla dinamica della morte della scrittrice psicologa. Sentiti dai militari i parenti della donna. Al momento gli inquirenti non escludono alcuna ipotesi, non scartano alcuna pista.

Janssen era nata a Milano nel 1957. La donna era molto conosciuta in Val di Cornia, come scrive Livornotoday. Aveva in diverse occasioni presentato i suoi libri, tra questi Nora, su una giovane operaia metallurgica che lavorava a Piombino alla Magona d’Italia, e I rami e le foglie, a proposito dell’incontro tra una giovane laureanda e una testimone legata alla sua tesi di ricerca.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Omicidio Sana Cheema: processati padre e fratello per omicidio politico. Il processo davanti alla Corte d'Assise di Brescia per l'omicidio di Sana Cheema può iniziare anche senza la presenza degli imputati che sono all'estero. Giuseppe Spatola il 20 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il processo davanti alla Corte d'Assise di Brescia per l'omicidio di Sana Cheema può iniziare anche senza la presenza degli imputati che sono all'estero

Il processo davanti alla Corte d'Assise di Brescia per l'omicidio di Sana Cheema è iniziato anche senza la presenza degli imputati, che sono all'estero. I giudici hanno infatti rigettato l'istanza di rinvio presentata dalla difesa. Il padre di Sana Cheema, ragazza uccisa in patria nel 2018 secondo le indagini per aver rifiutato il matrimonio combinato, risulta residente in Pakistan, mentre il fratello si sarebbe sposato in Malesia, ma la famiglia non ha un indirizzo e per questo di fatto si è reso irreperibile. È quanto emerge dagli accertamenti delle autorità italiane letti in aula dal procuratore generale di Brescia Guido Rispoli nel corso dell'udienza.

Il rigetto dell'istanza della difesa

"Chiedo il rigetto dell'istanza della difesa che ha chiesto il rinvio del processo perché gli assistiti non sarebbero a conoscenza del procedimento. Ma entrambi hanno nominato di fiducia il legale e quindi non possono non sapere" ha detto il pg Rispoli. La 25 enne cresciuta a Brescia secondo la Procura sarebbe stata uccisa in Pakistan dal padre e dal fratello il 18 aprile 2018 perché rifiutava un matrimonio combinato. I due, insieme alla madre e ad altri parenti, erano già stati processati in Pakistan ma assolti per insufficienza di prove. Secondo la procura Generale di Brescia, che aveva avocato l’inchiesta, la ragazza sarebbe stata strangolata con un turbante dai familiari e subito sepolta in un cimitero di campagna senza aspettare neppure i giorni di preghiera imposti dalla religione.

Padre e fratello irrintracciabili

È stata una disgrazia, Sana è morta per un malore: mangiava poco e il suo cuore non ha retto“, si erano difesi nell’immediatezza dei fatti i parenti che hanno protetto padre e fratello. Nella prima udienza Mustafa Cheema, 54 anni, e il primogenito Adnan, 34, sono stati rappresentati solo dagli avvocati italiani che hanno sollevato un'eccezione sottolineando che gli assistiti “non sono a conoscenza del processo a loro carico se non perché lo hanno letto o sentito“. Adesso la questione sarà trasmessa al ministero degli esteri e l’udienza riprenderà il 9 febbraio. La richiesta della difesa di non luogo a procedere per “ne bis in idem“, che garantisce non possa esserci per uno stesso fatto un nuovo procedimento nei confronti di un imputato già giudicato in via definitiva, è stata poi respinta dalla Corte secondo cui su questo punto non esiste un accordo con il Pakistan. A questo punto il ministero dovrà fare richiesta di rinnovamento del giudizio con la contestazione di omicidio politico per il quale non è prevista la presenza in aula degli imputati.

"Lasci Saman, altrimenti uccidiamo tutti". Le nuove dichiarazioni choc. Storia di Angela Leucci su Il Giornale il 4 marzo 2023.

Il caso giudiziario sull’omicidio di Saman Abbas continua a destare indignazione in Italia. La giovane scomparve la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021 da Novellara: gli inquirenti hanno ipotizzato che la giovane possa essere stata uccisa dalla famiglia, poiché si era opposta a un matrimonio forzato con un cugino più vecchio, mentre sognava le nozze con un coetaneo pakistano in Italia.

"Lasci Saman, altrimenti uccidiamo tutti". Le nuove dichiarazioni choc© Fornito da Il Giornale

Sono state rinviate a giudizio 5 persone appartenenti al nucleo famigliare allargato della 18enne: il padre Shabbar Abbas attualmente in carcere in Pakistan, la madre Nazia Shaheen ancora latitante, lo zio Danish Hasnain che ha condotto la polizia carceraria sul luogo dell’occultamento a novembre 2022, i cugini Ikram Ijaz e Noumanulaq Noumanulaq.

È proprio sulle dichiarazioni di Shabbar e Danish, tra loro fratelli, che probabilmente si concentrerà l’azione giudiziaria a fronte delle prove raccolte. In questi mesi sono stati effettuati diversi prelievi dai vestiti di Saman, e si potrà ricostruire chi l’ha uccisa e chi ne ha occultato il corpo. Danish ha affermato di essere infatti stato contattato in un secondo momento per l’occultamento, e che la morte sia avvenuta per mano di Nazia: i tabulati telefonici al momento sembrano raccontare una storia diversa, tanto che gli inquirenti italiani hanno ritenuto da sempre Danish autore materiale del delitto e Shabbar mandante.

Dal Pakistan il legale di Shabbar Akhtar Mahmood ha risposto a Quarto Grado affermando che il suo assistito “era un semplice bracciante, non un capo clan, altrimenti non sarebbe stato arrestato”. Mahmood sostiene infatti che quella della potenza degli Abbas sarebbe una leggenda inventata dal fidanzato, il pakistano in Italia Saqib, e dai media, accusati dal legale di “aver creato un mostro”. Mahmood ha chiarito inoltre di non credere nell’intercettazione in cui si sentirebbe dire il suo assistito: “L’ho uccisa io, l’ho fatto per il mio onore”. E ha commentato così i filmati delle telecamere di sorveglianza che hanno ripreso gli ultimi momenti in vita di Saman: “Non posso giudicare un video, bisogna capire se ci sono altre cose”.

Secondo Mahmood bisognerebbe indagare Saqib, ma il giovane aveva raccontato di aver ricevuto minacce da Shabbar, testimoniate da un video e da alcuni messaggi. Shabbar avrebbe inoltre detto al fratello di Saqib: “Deve lasciare Saman, altrimenti uccidiamo tutti”.

Presente in studio a Quarto Grado il legale di Saqib, Claudio Falleti, che sta cercando di portare in Italia i famigliari del giovane, così come è avvenuto per la moglie di Danish, che l’Italia ha ritenuto essere in pericolo in patria. Falleti ha liquidato l’atteggiamento di Shabbar: “Una persona che si ritiene innocente non prende un aereo il primo maggio alle 9 di mattina”. L'uomo aveva infatti lasciato l'Italia in fretta e furia dopo la scomparsa della figlia. Saqib dal canto suo sta lottando per la verità, per ottenere giustizia per il suo amore che gli scrisse: “Non ti dimenticare di me, mai, se no morirò veramente”.

Intanto ci sono due date importanti all’orizzonte: il 9 marzo 2023 il giudice di Islamabad dovrà decidere sull’eventuale rilascio su cauzione di Shabbar. Il successivo 17 marzo si saprà invece se il processo a Shabbar in Italia si possa svolgere in videoconferenza. A questo proposito il ministro della giustizia Carlo Nordio si è attivato firmando la rogatoria internazionale per l’assistenza giudiziaria dell’imputato.

L'unica latitante. Perché la madre di Saman è ancora a piede libero. Nazia Shaheen, la madre di Saman Abbas, è l'unica dei cinque imputati rimasta ancora a piede libero. Il messaggio al figlia, i video e le intercettazioni: cosa sappiamo della donna. Rosa Scognamiglio il 28 Novembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Cosa sappiamo della madre di Saman

 "Noi siamo morti sul posto"

 Dove si trova Nazia Shaheen

Per chiudere il cerchio attorno ai presunti assassini di Saman Abbas, la 18enne di nazionalità pachistana uccisa a Novellara nella notte tra il 30 aprile e il 1°maggio del 2021, manca solo la madre, Nazia Shaheen. Latitante - quasi certamente in Pakistan - della donna si sono perse le tracce da quando, meno di 24 ore dall’omicidio della figlia, le telecamere di sicurezza dell’aeroporto di Malpensa la inquadrarono all’imbarco di un volo diretto a Islamabad assieme al marito. Su di lei, l’unica assente al processo dei cinque imputati, grava la pesantissima accusa di aver consegnato la ragazza nelle mani degli aguzzini.

Cosa sappiamo della madre di Saman

Nazia Shaheen, 52 anni, è forse uno dei personaggi più ambigui di questa drammatica vicenda. Secondo gli inquirenti la donna avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella pianificazione del delitto, facendo da "esca" per la figlia. Stando a quanto emerso dagli accertamenti investigativi, nei giorni precedenti all’omicidio, inviò a Saman un sms con l’intento di farla tornare a casa (al tempo la ragazza era ospite in una struttura protetta). "Torna, ti prego. Fatti sentire, stiamo morendo. Faremo come dici tu", il testo del "messaggio trappola". Non solo. La sera del delitto, le telecamere di Novellara inquadrarono Nazia all’esterno dell’abitazione assieme alla figlia, vestita all’occidentale e con uno zainetto sulle spalle, per poi condurla con anche il marito Shabbar di là dai campi dove la giovane avrebbe trovato la morte.

"Noi siamo morti sul posto"

Ad aggravare la posizione di Nazia c’è una conversazione Whatsapp del 30 agosto 2021 in cui la donna, parlando con il figlio, avrebbe confermato l’uccisione della ragazza. "Tu non sai di lei?", dice la 52enne probabilmente riferendosi ai comportamenti di Saman. "Davanti a te, a casa… noi siamo morti sul posto, per questo tuo padre è a letto e anche la madre (si riferisce a se stessa parlando in terza persona ndr). Anche di lei non è che non sai, da costretti è successo quello che è successo, anche tu lo sai, figlio mio, non sei bambino, sei giovane e anche comprendi tutte le cose". E ancora, in un altro passaggio: "Pensa a tutte le cose, i messaggi che ci facevi ascoltare la mattina presto. Pensa a quei messaggi, pensa e poi dì se i tuoi genitori sono sbagliati".

Dove si trova Nazia Shaheen

Nazia Shaheen è latitante da 29 mesi. Su di lei spicca un mandato di cattura, emesso dal Pakistan lo scorso novembre, con anche una red notice dell’Interpol. La donna potrebbe trovarsi nella regione del Punjab, forse nello stesso villaggio in cui si era rifugiata insieme al marito, poi arrestato ed estradato in Italia. Interrogato sulla latitanza della moglie, inizialmente Shabbar Abbas aveva detto di non avere sue notizie ipotizzando che potesse trovarsi in Europa. Circostanza che, invece, è stata esclusa dagli investigatori dal momento che non vi è traccia della fuggitiva nei Paesi dell’area Schengen. Ai suoi legali, gli avvocati Enrico Della Capanna e Simone Servillo, l’uomo avrebbe detto che quando è stato arrestato “la moglie si trovava in casa”. Fatto sta che, al momento, Nazia Shaheen sembra svanita nel nulla.

Estratto dell’articolo di Federica Zamboni per “Il Messaggero” sabato 11 novembre 2023.

Un passo indietro nel processo sulla morte di Saman. La Corte d'assise di Reggio Emilia ha deciso che non possono essere utilizzate le dichiarazioni rese dallo zio della ragazza. Danish Hasnain, che è anche uno degli imputati. Gli interrogatori di un anno fa, e poi dello scorso marzo, non possono essere considerati validi per motivi esclusivamente tecnici e non di merito: secondo i giudici, i verbali delle dichiarazioni sono state inseriti nel fascicolo sbagliato. quello aperto per il ritrovamento del corpo di Saman, invece che in quello principale.

Una questione formale, ma che complicare il percorso per arrivare alla condanna dello zio, dei genitori e dei cugini della giovane pakistana. Nell'interrogatorio Hasnain si dichiarava innocente e accusava i genitori della vittima: «Volevano uccidere anche me». 

Nei giorni scorsi il fratello di Saman ha ripercorso davanti ai giudici i momenti più terrificanti della sua vita, dalle riunioni dei parenti che si accordavano su come ammazzare la sorella, alla lite furibonda avvenuta subito prima dell'omicidio. Ora però il ragazzo può finalmente organizzare i funerali della 18enne. La Corte ha dato il nullaosta alla sepoltura del corpo.

A quasi un anno dal ritrovamento del cadavere, ammazzata il 30 aprile del 2021 e nascosta in una buca scavata a poche centinaia di metri dall'abitazione della famiglia a Novellara, la salma sarà restituita all'unico parente che le è rimasto. La Procura per i minori di Bologna, intanto, ha fatto sapere che il fratello, appena maggiorenne, non sarà indagato. […]

Estratto dell’articolo di Angela Leucci per ilgiornale.it sabato 28 ottobre 2023.

Dopo il colpo di scena di ieri al processo per l’omicidio di Saman Abbas, per cui la testimonianza del fratello è stata ritenuta non utilizzabile, ci si interroga su ciò che potrebbe accadere ora. Certo è che le intercettazioni a carico del ragazzo e le dichiarazioni potrebbero avere un peso differente se venisse indagato, tanto più che potrebbe appellarsi al suo diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere. 

Un mese dopo la scomparsa di Saman, avvenuta la notte dopo il 30 aprile 2021 a Novellara, il fratello aveva detto al telefono con Quarto Grado, dopo un lungo interrogatorio: “Perché mio zio ha ucciso mia sorella, perché l’ha presa e l’ha uccisa. Io mi ricordo benissimo, perché ho guardato davanti ai miei occhi che la strangolava e l’ha portata via poi dalle serre”. In altre parole aveva puntato il dito contro Danish Hasnain, rinviato a giudizio insieme al padre di Saman Shabbar Abbas, la madre Nazia Shaheen (ancora latitante), i cugini Ikram Ijaz e Noumanoulaq Noumanoulaq.

Principale testimone dell’accusa finora, il fratello della 18enne pare sia stato oggetto di numerose presunte pressioni dal Pakistan, tanto che la procura di Reggio Emilia ha aperto un nuovo fascicolo di inchiesta per intralcio alla giustizia. “Vi sono due opzioni. Una è morire prima dell’8. Due tutta la vita in carcere. Scegli un’opzione e fammi sapere”, ha scritto al ragazzino una cugina pakistana l’1 settembre 2023 […] 

Appena un mese e mezzo dopo la scomparsa, il 18 giugno 2021, Shabbar Abbas, al telefono con il figlio, gli diceva: “Non c’è alcun colpevole”. E alla domanda del figlio (“Quanti ne posso salvare?”), parlando del fratello e dei cugini rinviati a giudizio, rispondeva: “Loro tre non hanno nessuna colpa, tu devi dire chiaramente che è colpa di tuo padre”. E quando il figlio gli chiedeva di un’eventuale estradizione: “Non mi succederà nulla”.

[…] Il 15 luglio 2021 il fratello di Saman ha parlato al telefono prima con il padre Shabbar e poi con la madre Nazia Shaheen. Il padre cerca di placare l’animo del giovane, che piange e parla di suicidio, di essere rimasto solo, senza la sorella: “Era tua sorella, mica è morta, sta bene. Non sei solo, ci sono io, tuo padre. Quando dici queste cose mi viene voglia di farmi arrestare e farmi portare lì”.

Le parole di Nazia colpiscono allo stesso modo: “Non ci pensare neanche […] Lei è pazza. Figlio mio non è che ha fatto poche stupidaggini. Siamo rovinati. Prima hanno rovinato mia figlia questi tiranni, adesso mio figlio è nelle loro mani. Io ogni momento piango perché tu non venga distrutto dopo che hanno già distrutto mia figlia”.

(...)

Omicidio Saman Abbas, parola al fratello: chiarirà se vorrà avvalersi della facoltà di non rispondere o se vorrà parlare. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 30 ottobre 2023

La presenza in aula di Alì Haider si innesta nel processo che vede imputati i genitori di Saman, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, considerati dall’accusa i mandanti dell'omicidio della giovane donna

Prosegue domani il processo a carico dei presunti assassini di Saman Habbas, la 18enne pakistana uccisa nel 2021 a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, per essersi opposta alle nozze imposte dai genitori. Davanti alla Corte d’Assise di Reggio Emilia comparirà il fratello minore di Saman, Alì Haider. La testimonianza è stata rinviata a domani (sarà chiamato a dire se vorrà avvalersi della facoltà di non rispondere o se invece vorrà rispondere con le garanzie riconosciute all’indagato in un procedimento connesso), dopo che tutte le sue dichiarazioni testimoniali, precedentemente rese, sono state definite inutilizzabili dalla Corte d’Assise. I giudici hanno rilevato che il giovane doveva essere indagato e non ascoltato come semplice testimone. Una situazione paradossale emersa a questo punto del processo, ma che doveva essere verificata già nel corso delle indagini. La presenza in aula di Alì Haider si innesta nel processo che vede imputati i genitori di Saman, Shabbar Abbas e Nazia Shaheen, considerati dall’accusa i mandanti dell'omicidio della giovane donna. Nel processo compaiono anche lo zio di Saman, Danish Hasnain, e i cugini Noumanoulaq Noumanoulaq e Ikram Ijaz, ritenuti invece gli esecutori materiali dell’omicidio.

A sollevare la questione relativa alla posizione processuale di Alì Haider sono stati i difensori di Hasnain e Noumanoulaq. La Corte d’Assise ha condiviso i rilievi mossi in merito alle «anomalie che hanno connotato la fase intercorsa tra il momento in cui, in seguito alla perquisizione del 5 maggio 2021, Alì Haider veniva iscritto nel registro degli indagati e quella dell’incidente probatorio», svoltosi davanti al Gip di Reggio Emilia il 18 giugno 2021. I giudici si soffermano su tre date, risalenti al maggio 2021, in cui Haider è stato sentito per sommarie informazioni. Per la precisione si tratta del 12 maggio, del 15 maggio e del 21 maggio. Haider venne ascoltato come persona informata sui fatti, «sebbene formalmente iscritto in relazione ad un’ipotesi di reato originata dal medesimo fatto storico», vale a dire la scomparsa della sorella, che è stato giuridicamente qualificato in maniera diversa, «mantenendo però carattere evidentemente connesso» a quello del 2021 – identificato con il numero r.g.n.r. 2318 -, all’interno del quale è stato escusso. L’ordinanza della Corte d’Assise evidenzia la violazione da parte della polizia giudiziaria del comma 1-bis dell’articolo 351 del codice di procedura penale sulle altre informazioni sommarie. Di qui «l’inutilizzabilità erga omnes dei verbali di sommarie informazioni del 12, 15 e 21 maggio 2021».

Gli avvocati Barbara Iannuccelli del Foro di Bologna e Claudio Falleti del Foro di Alessandria assistono come parte civile Saqib Ayub, fidanzato di Saman Habbas. «Vedremo - dice al Dubbio l'avvocata Iannuccelli – se il fratello di Saman manterrà fermo il suo proposito di dire la verità in qualunque veste sia a chiamato oppure se si avvarrà della facoltà di non rispondere. È cambiato lo scenario. Quello che era un testimone oculare importante nell’omicidio di Saman ora non lo è più. Spero vivamente che si arrivi a fare giustizia per la giovane Saman. Tutti i suoi familiari sono alla sbarra. Credo che mai come in questo momento sia utile parlare della storia della giovane pachistana, perché nessuno lo fa». Barbara Iannuccelli si sofferma anche sulla recente ordinanza della Corte d’Assise: «I giudici si esprimono in maniera chiara. Provo un grande dispiacere per come sono andate le cose, ma continuo ad avere tanta fiducia nella giustizia e nel grande lavoro fino ad oggi svolto. Spero che anche il fratello di Saman mantenga fermo il proposito di fare giustizia per la sorella».

Grave errore dei pm: più lontana la verità sull'omicidio di Saman. Il fratello della pakistana uccisa da papà e zio andava indagato. La corte: verbali inutilizzabili. Felice Manti il 28 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Un errore da matita blu della Procura di Reggio Emilia rischia di pregiudicare il processo sull'omicidio di Saman Abbas, la ragazza pakistana che sarebbe stata uccisa dal padre Shabbar, dallo zio Danish e da due cugini a Novellara il primo maggio del 2021 perché voleva vivere con un fidanzato inviso alla famiglia, rifiutare un matrimonio forzato in patria e liberarsi da un contesto che ne segregava desideri e ambizioni.

Colpa di una palese violazione dei diritti del fratello della ragazza, il testimone oculare dell'omicidio Ali Heider, che ai magistrati avrebbe rivelato l'orribile verità non da indagato ma da semplice persona informata sui fatti, senza dunque le garanzie riconosciute a chi è iscritto nel registro degli indagati (dal diritto al silenzio alla ragionevole durata delle indagini). E dire che proprio per evitare una prassi consolidata (ti interrogo e poi in caso ti indago se mi fa gioco) la riforma dell'ex Guardasigilli Marta Cartabia aveva ampliato l'articolo 335 del codice che regola l'iscrizione nel registro aggiungendo ulteriori garanzie procedurali, disattese dai pm.

È stata la Corte di Assise di Reggio Emilia a certificare che ciò che avrebbe confessato e messo a verbale il 12, 15 e 21 maggio del 2021 è inutilizzabile: l'interrogatorio avrebbe dovuto tenersi alla presenza di un avvocato, a maggior ragione perché il ragazzo all'epoca delle deposizioni era un minorenne. Nella complessa ordinanza pronunciata dalla presidente della Corte Cristina Beretti (già trasmessa alla Procura per i minorenni di Bologna) si legge che già dall'incidente probatorio a carico del ragazzo emergevano «precisi indizi di correità» (in alcune telefonate intercettate ammise di sapere cosa stavano pianificando padre e zio) «che avrebbero dovuto portare alla sua iscrizione nel registro degli indagati a titolo di garanzia». «È quello che avevamo chiesto noi», confermano Luigi Scarcella, Maria Grazia Petrella e Liborio Cataliotti, difensori dei parenti accusati dal ragazzo che hanno lsollevato la grave anomalia sottovalutata dai pm.

Dovrà dunque essere nuovamente interrogato l'unico custode della verità: fu lui a dire che lo zio Danish gli confessò di aver strangolato Saman e che c'era stata una riunione tra i parenti per pianificare il delitto, fu lui a rivelare ai genitori messaggi e foto sulla relazione sgradita, è lui che ha sfidato la famiglia pur di vendicare la sorella. Una sconfitta sonante per la Procura, una prima vittoria per il padre, lo zio e i cugini di Saman che ora potrebbero farla franca. Enrico Della Capanna, difensore del padre di Saman, è netto: «Senza di lui difficile che la verità adesso venga fuori».

La mancata iscrizione appare un'omissione figlia di un'inerzia ingiustificata e protrattasi nel tempo. In attesa che il Csm apra una pratica per capire i perché della plateale omissione dei magistrati, la vicenda assume il solito retrogusto amaro della malagiustizia. Martedì 31 ottobre sapremo se le sue dichiarazioni verranno ribadite nella loro interezza o peggio, come fa capire il suo legale Valeria Miari, se il ragazzo si avvarrà della facoltà di non rispondere, anche per le pressioni ricevute dai familiari (documentate da alcune intercettazioni), anche se così rischierebbe di finire indagato, alimentando ambiguità che farebbero il gioco di chi non vuole la verità. Barbara Iannuccelli, che assiste il fidanzato di Saman, incrocia le dita: «Spero che non si tiri indietro e ce la faccia a ripetere ciò che ha visto, lo zio mettere la mano sulla bocca di Saman eccetera... Lo faccia per tutte le Saman che ancora non conosciamo...».

(ANSA martedì 31 ottobre 2023) - Nella testimonianza davanti alla Corte di assise di Reggio Emilia il fratello di Saman ha parlato anche di altri due parenti, due figure già emerse negli atti dell'inchiesta e del processo e non imputate. Spiegando che questi due arrivavano nella casa di Novellara "a dare consigli brutti", ai genitori, quando la sorella era in comunità e anche dopo, prima che venisse uccisa. "Facevano queste conversazioni, ma mi mandavano subito via", ha detto parlando di uno zio e di un cugino.

 "Ho visto tutta la scena. Io ero alla porta. Mia sorella camminava, mio zio l'ha presa dal collo e l'ha porta dietro alla serra. Ho visto i cugini, solo la faccia". Lo ha detto in Corte di assise il fratello di Saman, raccontando gli istanti finali della vita della ragazza, uccisa a Novellara, la sera del 30 aprile 2021, accusando così nuovamente lo zio e i cugini del delitto organizzato, in ipotesi di accusa, dai cinque familiari. Il corpo è stato trovato un anno e mezzo dopo, in un casolare diroccato nelle vicinanze. (ANSA)

Estratto dell’articolo di ansa.it martedì 31 ottobre 2023. 

Il fratello di Saman Abbas "allo stato non è stato iscritto nel registro degli indagati" della Procura per i minorenni di Bologna. Lo si è appreso nel corso dell'udienza in Corte di assise a Reggio Emilia, dopo che la presidente Cristina Beretti aveva sollecitato la richiesta di informazioni all'ufficio minorile.

"Voglio parlare, voglio dire tutta la verità" ha detto il giovane, annunciando la decisione di rispondere alle domande. Questo, dopo l'ordinanza della Corte di assise reggiana che aveva dichiarato inutilizzabili le dichiarazioni del ragazzo in precedenza, tra maggio e giugno 2021, perché, secondo i giudici, doveva essere iscritto nel registro degli indagati. Imputati sono cinque familiari: i genitori (la madre latitante), lo zio e due cugini. E' stato fatto entrare prima dell'ingresso dei parenti e viene sentito dietro ad un doppio paravento. T-shirt nera, pantaloni grigi, è assistito dall'avvocato Valeria Miari.

Una serie di "non ricordo" alle domande dell'avvocato Luigi Scarcella, difensore del cugino imputato, Nomanhulaq Nomanhulaq, pronunciati in italiano. Le prime domande al fratello di Saman, sentito nell'udienza sull'omicidio della sorella, vertono sul telefono utilizzato all'epoca dei fatti, aprile e maggio 2021, e sulle date in cui venne sentito dai carabinieri e dal pm. In aula, mentre il ragazzo parla, è presente anche il padre, Shabbar Abbas, i cugini e lo zio Danish Hasnain. Nelle precedenti dichiarazioni, ritenute inutilizzabili, il ragazzo accusava i familiari. Il testimone, che ha da poco compiuto 18 anni, è coperto da un paravento, ma il suo volto è ripreso negli schermi a lato dell'aula dell'assise.

Quando in passato affermò che i suoi cugini non c'entravano nulla "ho detto una bugia perché mio padre mi disse di farlo, mi ha detto di non dire niente", ha risposto il ragazzo alle domande dell'avvocato del cugino. "Io da piccolo avevo paura di mio padre e di mio zio", ha aggiunto. "Quando sono andato dall'altro giudice - ha continuato - ho detto che non hanno fatto niente, ero costretto da mio padre". Quando avvenne? "Non lo ricordo. Ma prima e dopo mi hanno chiamato e detto di non dire niente dei cugini". 

Qualcuno ti aveva detto che Saman era stata seppellita, gli è stato chiesto. "Sì", ha risposto il giovane, sottolineando che la richiesta era arrivata da "Noman, gli avevo chiesto io, perché volevo abbracciare mia sorella. Ma l'ho chiesto anche allo zio, prima di partire per Imperia". Nei giorni successivi alla scomparsa della ragazza, maggio 2021, il giovane partì per la Liguria, insieme allo zio, ma venne fermato ad un controllo e portato in una comunità per i minorenni, all'epoca era sedicenne. Lo zio invece lasciò l'Italia e venne rintracciato in seguito, mesi dopo, in Francia. E perché di questo, ha domandato l'avvocato di Nomanhulaq, non parlasti negli interrogatori al pm e ai carabinieri? "Perché non mi dissero di preciso dov'era, solo che era sotto terra. E sempre per la questione di mio papà, avevo paura di lui".

"Mentre facevano i piani, io stavo sulle scale ad ascoltare, non tutto ma quasi. Ho sentito una volta mio padre che parlava di 'scavare'", ha raccontato ancora il fratello di Saman. Chi faceva i piani? "Noman, papà, mamma e altri due, Danish e Ikram". Il giovane ha indicato i cinque familiari imputati per l'omicidio della sorella come persone presenti in questa conversazione, in camera da letto, che lui ascoltò, nei giorni prima della scomparsa: il cugino Nomanhulaq Nomanhulaq, il padre Shabbar Abbas, la madre Nazia Shaheen, lo zio Danish Hasnain e l'altro cugino Ikram Ijaz. Dov'era Saman mentre sentivi queste cose? "Non ricordo, sono confuso". E, dopo una lunga pausa di silenzio, ha ribadito di non ricordarsi. La riunione durò "più o meno mezz'ora". Oltre a "scavare", il giovane ha detto che ricorda di aver sentito anche "passare dietro alle telecamere".

Nella scorsa udienza, venerdì, la Corte aveva emesso un'ordinanza dove si diceva che le dichiarazioni del giovane pachistano sono inutilizzabili, perché nel 2021 doveva essere indagato, anche a sua garanzia, nel procedimento per omicidio della sorella. La sua veste processuale era dunque mutata da testimone a quella di potenziale indagato in un procedimento connesso. L'ordinanza è stata inviata dalla Procura reggiana a quella per i minori, competente perché all'epoca il fratello di Saman aveva 16 anni. […]

Saman Abbas, il fratello parla in aula: «Mia sorella voleva fare la sua vita, papà mi minacciò». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera martedì 31 ottobre 2023.

Reggio Emilia, la deposizione in aula del 18enne che aveva accusato i familiari del delitto. Le sue dichiarazioni precedenti erano state considerate dai giudici inutilizzabili

«Ho deciso di parlare di dire tutta la verità». Comincia così la deposizione del fratello 18enne di Saman Abbas, la giovane di origini pakistane uccisa dalla famiglia islamica che non accettava le sue libertà. Il ragazzo parla protetto da un grosso cartello nero. Accanto a lui c’è l’avvocata che lo assiste, Valeria Mari. È visibilmente emozionato. Alle domande iniziali, che vertono tutte sull’uso dei cellulari a sua disposizione, sui numeri, sulla disponibilità, risponde sempre «non ricordo». Il padre Shabbar, ha raccontato, lo avrebbe minacciato, intimandogli di mostrare le chat tra lei e il fidanzato, che il sedicenne aveva registrato: «Mi disse fammi vedere questi messaggi, se no ti appendo a testa in giù nelle serre», ha detto il giovane. «Io ho sempre paura di mio papà», ha aggiunto poi. Poi Saman andò in bagno e quando uscì ci fu il litigio tra i familiari e la 18enne, che voleva andarsene. «Voleva fare la sua vita», ha detto il ragazzo. «Mentre lei era in bagno mio padre ha chiamato qualcuno, non so chi. Ho sentito qualcosa del tipo “state attenti alle telecamere”».

«Mio padre mi disse di non parlare, per questo dissi bugie»

In aula, mentre il ragazzo parla, è presente anche il padre, Shabbar Abbas, i cugini e lo zio Danish Hasnain. Nelle precedenti dichiarazioni, ritenute inutilizzabili, il ragazzo accusava i familiari. Il volto del testimone, che ha da poco compiuto 18 anni, è ripreso negli schermi a lato dell’aula dell’assise. Quando in passato affermò che i suoi cugini non c’entravano nulla «ho detto una bugia perché mio padre mi disse di farlo», «mi ha detto di non dire niente». Il fratello di Saman ha risposto così, nell’aula dell’assise di Reggio-Emilia, alle domande dell’avvocato dell’imputato Nomanhulaq Nomanhulaq, suo cugino. «Io da piccolo avevo paura di mio padre e di mio zio», ha aggiunto. «Quando sono andato dall’altro giudice — ha continuato — ho detto che non hanno fatto niente, ero costretto da mio padre». Quando avvenne? «Non lo ricordo. Ma prima e dopo mi hanno chiamato e detto di non dire niente dei cugini».

«Dissi ai carabinieri dove poteva essere seppellita»

E ancora: «Mentre facevano i piani, io stavo sulle scale ad ascoltare, non tutto ma quasi. Ho sentito una volta mio padre che parlava di “scavare”». Chi faceva i piani? «Noman, papà, mamma e altri due, Danish e Ikram». Dov’era Saman mentre sentivi queste cose? «Non ricordo, sono confuso». La riunione durò «più o meno mezz’ora». Oltre a «scavare», il giovane ha detto che ricorda di aver sentito anche «passare dietro alle telecamere. Dissi ai carabinieri dove poteva essere seppellita Saman quando andammo a Novellara per cercare il corpo. Me l’aveva detto Noman (Nomanulhaq Nomanulhaq, ndr)». «Chiesi a Noman dove fosse perché volevo abbracciarla l’ultima volta, lo chiesi anche allo zio Danish», ha proseguito. «Perché questa cosa non la dicesti ai carabinieri in precedenza?» domanda il legale. «Perché non sapevo di preciso dove fosse sottoterra e sempre per paura di mio padre». L’esame del ragazzo è caratterizzato da molti «non ricordo».

Le lacrime in aula

Durante l’udienza il fratello di Saman ha pianto in aula: «Sto troppo male» e dopo alcune ore di testimonianza era lacrime. «Questo è comprensibile, ma entra tutto in gioco nella tua testimonianza, ti abbiamo dato gli avvisi di legge», gli ha spiegato la presidente della Corte Cristina Beretti, chiedendo al ragazzo se intende andare avanti a rispondere. Dopo un’altra riflessione, il giovane ha acconsentito a proseguire nell’audizione.

«Noman mi disse che Saman era stata seppellita»

Qualcuno ti aveva detto che Saman era stata seppellita? «Sì». E chi te lo aveva detto? «Noman, gli avevo chiesto io, perché volevo abbracciare mia sorella. Ma l’ho chiesto anche allo zio, prima di partire per Imperia». È la risposta del fratello, che si è riferito al cugino, Nomanhulaq Nomanhulaq e allo zio Danish Hasnain. Nei giorni successivi alla scomparsa della ragazza, maggio 2021, il giovane partì per la Liguria, insieme allo zio, ma venne fermato ad un controllo e portato in una comunità per i minorenni, all’epoca era sedicenne. Lo zio invece lasciò l’Italia e venne rintracciato in seguito, mesi dopo, in Francia. E perché di questo, ha domandato l’avvocato di Nomanhulaq, non parlasti negli interrogatori al pm e ai carabinieri? «Perché non mi dissero di preciso dov’era, solo che era sotto terra. E sempre per la questione di mio papà, avevo paura di lui». L’audizione prosegue, con continue richieste sulle dichiarazioni fatte in precedenza dal giovane testimone, davanti agli investigatori e poi davanti al giudice in incidente probatorio, tra maggio e giugno 2021. Per facilitare la comprensione delle domande, le parti si rivolgono al giovane pachistano con il “tu”.

Saman, il fratello in aula. "Papà disse di scavare. Zio la prese per il collo". Patricia Tagliaferri l'1 Novembre 2023 su Il Giornale.

Il 18enne resta testimone e accusa la famiglia dell'omicidio della sorella: "Voleva fare la sua vita"

Parla da dietro un paravento, in perfetto italiano, il fratello di Saman, dopo essersi seduto nell'aula della Corte d'Assise di Reggio Emilia prima che entrassero i parenti, per evitare di incrociarne gli sguardi dopo le pressioni subite affinché cambiasse versione: «Voglio dire tutta la verità», esordisce confermando di voler parlare nonostante gli avvocati degli imputati, la scorsa udienza, avessero cercato di farlo uscire dal processo evidenziando una possibilità incompatibilità tra la sua veste di parte civile e quella di possibile indagato. Eccezione respinta dai giudici, per i quali la situazione di Ali Haidert è immutata, al momento non è indagato e può testimoniare.

Nell'aula della Corte d'Assise di Reggio Emilia è il giorno di questo ragazzo da poco maggiorenne che accusa la famiglia dell'omicidio della sorella, avvenuto a Novellara la notte del 30 aprile 2021. Uccisa a 16 anni perché aveva osato opporsi ad un matrimonio combinato e perché le piaceva fare la sua vita. «Temevo di fare la stesa fine», dice. Le parole di Ali sono ascoltate dal padre, Shabbar Abbas, recentemente estradato dal Pakistan - dove era fuggito con la moglie dopo la scomparsa di Saman - i cugini Ikram Ijaz e Nomanullaq Nomanullaq e e lo zio Danish Hasnain. L'altra imputata è la madre, l'unica ancora latitante in patria. Le sue precedenti dichiarazioni, rese tra maggio e giugno 2021, sono state poi ritenute poi inutilizzabili. Dunque è importante che ieri il testimone chiave, seppur tra qualche non ricordo, abbia ribadito le sue accuse contro i familiari, aggiungendo dettagli mai rivelati, come quando li sentì pianificare il delitto, e contraddicendosi su altri, come il fatto di averli visti con pale e secchio. «Mentre facevano i piani, io stavo sulle scale ad ascoltare, non tutto ma quasi. Ho sentito una volta mio padre che diceva di scavare. C'erano Noman, papà, mamma e altri due, Danish e Ikram», racconta Ali, che poi risponde alle domande sulla sera della scomparsa di Saman quando la sorella era in bagno a chattare con il fidanzato. «Mio padre mi disse di mostrargli le chat, altrimenti mi avrebbe appeso a testa in giù nelle serre. Quando è uscita, l'hanno incalzata, mia mamma l'ha rincorsa dicendole che l'avrebbero fatta sposare con chi voleva, ma lei voleva fare la sua vita. In bagno si è cambiata, si è messa i jeans ed è andata in strada. Mio padre ha chiamato qualcuno mentre Saman era in bagno e ha detto state attenti alle telecamere», racconta il 18enne.

In un primo momento Ali aveva detto che i cugini non c'entravano nulla: «Ho detto una bugia perché mio padre mi disse di farlo. Da piccolo avevo paura di lui e di mio zio». Ora invece spiega che fu il cugino Noman a dirgli dove era seppellita la sorella: «Lo chiesi a lui e allo zio Danish perché volevo abbracciarla un'ultima volta». Sarebbe stato lo zio a portare nella serra la sorella. «Ho visto tutta la scena, ero lì davanti alla porta. Mia sorella camminava, lo zio l'ha presa per il collo con un braccio e l'ha portata nella serra, mentre mia madre guardava. C'erano anche i cugini, di cui ho visto solo la faccia». Dettagli diversi da quelli raccontati nel corso dell'incidente probatorio. «Perché non hai detto prima queste cose?», gli chiede il legale di uno degli imputati. «Perché avevo paura di mio padre», risponde lui.

(ANSA venerdì 3 novembre 2023) "Io sono cresciuto in quella cultura, da piccolo i miei genitori mi hanno insegnato che non si poteva fare amicizia con le ragazze, era vietato, e per questo ho mandato la foto del bacio di Saman ai miei parenti. In quel momento avevo la loro stessa mentalità, per me era una cosa sbagliata. 

Ma ora è tutto cambiato, da quando sono in comunità. Mi sento anche di essere italiano. Per come penso ora, hanno fatto una cosa sbagliatissima". Lo ha detto il fratello di Saman Abbas, in un accorato momento della sua testimonianza rispondendo alla domanda sul perché inviò ai propri familiari la foto della sorella che baciava il fidanzato

(Adnkronos venerdì 3 novembre 2023) - ''Ho provato a farmi del male, in comunità ho bevuto del profumo, volevo uccidermi. Ero rimasto da solo''. Lo ha detto il fratello di SAMAN, rispondendo alle domande dell'avvocato Teresa Manente, dell'associazione 'Differenza donna', parte civile nel processo. ''Avevo paura di mio padre - ha poi aggiunto - ha provato anche a fare del male a SAMAN. Quando è tornata dal Belgio, lui l'ha aggredita con un coltello. Aveva bevuto. Mi sono messo in mezzo, ho preso il coltello per buttarlo via e nel farlo mi sono ferito tra il pollice e l'indice''.

(ANSA venerdì 3 novembre 2023) Perché hai deciso di dire tutta la verità? Risposta di Abbas,il fratello di Saman in aula: "Da quando è successa questa roba, ho tenuto tutto dentro di me, ogni giorno soffro e mi voglio liberare. La notte non riesco a dormire. In camera mia ho attaccato le foto di mia sorella e, quando le guardo sbatto la testa contro il muro. So che se adesso dico tutte le cose come stanno, mi libero un po'. Questa cosa me la porterò dietro tutta la vita, ma se c'è qualcosa che mi può aiutare è sfogarsi, parlando, dire le cose come sono andate e come è successo. E per la giustizia di mia sorella".

Quando gli è stato domandato del rapporto che c'era tra i genitori, il fratello di Saman ha avuto un piccolo crollo e ha chiesto di interrompere l'audizione. La presidente della Corte di assise di Reggio Emilia Cristina Beretti ha concesso la sospensione, anticipando la pausa pranzo. "Ho ancora paura di papà", ha detto il giovane prima di fermarsi, mentre rispondeva alle domande di un avvocato di parte civile. Gli era da poco stato chiesto se aveva avuto paura, anche nei mesi successivi all'omicidio della sorella?

"Sì, ho avuto paura che mio zio in qualche modo mi facesse male, anche se era in carcere". Hai avuto paura di tuo padre? "Sì, perché da piccolo mi picchiava, tante volte". Papà picchiava anche tua sorella? A quel punto il testimone ha raccontato una scena, già descritta in interrogatori precedenti, in cui si sarebbe ferito con un coltello, frapponendosi tra il padre e Saman. E qual era il rapporto tra i tuoi genitori, tuo padre picchiava anche tua madre? A quel punto il giovane ha chiesto la sospensione. ANSA

Il fratello di Saman: "Ecco perché l'ho denunciata ai miei parenti". L'audizione del fratello di Saman Abbas davanti alla Corte d'Assise di Reggio Emilia: "Prima ero come la mia famiglia, ora non più". E poi sulla fuga con lo zio Danish: "Mi disse che dovevamo scappare". Rosa Scognamiglio il 3 Novembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 "Mi vietavano di fare amicizia con le ragazze"

 "In casa riunioni per fare male a Saman"

 "Mio padre ci disse che non dovevamo muoverci"

 "Altri due parenti hanno colpe"

 "Voglio giustizia per mia sorella"

 "Ho provato a uccidermi"

 "Papà diceva a mamma di piangere per finta"

Articolo in aggiornamento...

"Io ora mi sento italiano, prima ragionavo in un altro modo perché ero cresciuto nella cultura della mia famiglia". Lo dice Ali Heider, il fratello di Saman Abbas, davanti alla Corte d'Assise di Reggio Emilia in occasione della nuova udienza al processo per l'omicidio della 18enne pachistana uccisa a Novellara nella notte tra il 30 aprile e il 1°maggio 2021 per essersi opposta al matrimonio combinato. "Da piccolo ero cresciuto in questa cultura e avevo lo stesso modo di pensare dei miei genitori", afferma il ragazzo rispondendo alle domande dell'avvocato Liborio Cataliotti, legale di Danish Hasnain. Poi muove delle accuse nei confronti di altri due parenti: "Anche loro hanno colpe".

"Mi vietavano di fare amicizia con le ragazze"

All'epoca dei fatti minorenne, il ragazzo spiega il motivo per cui mostrò ai genitori la foto del bacio tra Saman e il fidanzato Saqib. "Vedevo le foto di mia sorella su internet e mi arrabbiavo. - spiega Ali Heider - Perché la mia cultura è la stessa dei miei genitori. Sono cresciuto in quella cultura, da piccolo mi hanno insegnato che nemmeno potevo fare amicizia con le ragazze perché era vietato, per questo mandai ai miei parenti la foto del bacio tra Saman e Saqib, perché per me in quel momento era una cosa sbagliata. Per come sono ora, da quando sono in comunità, è tutto cambiato. Oggi mi sento italiano. Per me hanno fatto una cosa sbagliatissima".

"In casa riunioni per fare male a Saman"

Nell'udienza di martedì mattina, il giovane aveva lasciato intendere che l'omicidio di Saman sarebbe stato progettato a tavolino dai familiari nel corso di alcune riunioni: "Venivano parenti a casa che davano consigli brutti" erano state le sue parole. Circostanza che ribadisce anche quest'oggi: "In casa venivano fatte riunioni per far del male a Saman, non solo quando scappò in Belgio, ma anche quando era in comunità". Il 18enne parla anche di Irfan, un altro cugino la cui posizione è stata poi archiviata, dicendo che "guardava sempre male Saman e con l'altro fratello di mio padre dava consigli brutti ai miei genitori, invitandoli a fare del male a mia sorella. Ha detto che lui l'avrebbe uccisa".

"Mio padre ci disse che non dovevamo muoverci"

Il ragazzo racconta poi di una telefonata tra il padre e lo zio Danish a pochi giorni dall'omicidio di Saman, quando furono sequestrati i telefoni agli imputati (all'epoca non erano ancora indagati ndr). "Mio zio disse: 'adesso noi scappiamo, perché ci hanno preso i telefoni, si sono accorti. Ma papà - aggiunge il ragazzo - disse 'dovete stare lì, perché altrimenti penseranno che è davvero successo qualcosa. Ma mio zio rispose: "Non possiamo stare qui, tu sei scappato in Pakistan, non hai problemi. Se prendono qualcuno, prendono noi". A quel punto il fratello di Saman partì insieme allo zio: in bicicletta verso Gonzaga, poi in treno per Modena, quindi Como, dove passarono la notte a casa di un conoscente. Quindi in viaggio per Imperia poi si ritrovarono anche con i due cugini imputati dove furono controllati e il ragazzo fu portato in Questura e poi trasferito in una comunità.

"Altri due parenti hanno colpe"

Incalzato dalle domande dell'avvocato Liborio Cataliotti, Ali Heider assicura di aver detto "tutta la verità" sull'omicidio. Nella precedente udienza, 18enne aveva affermato di aver visto lo zio Danish "prendere Saman per il collo". Dichiarazioni che conferma anche oggi: "Ero sull'uscio della porta di casa e la luce che illuminava la scena era quella della casa gialla in fondo. - dice - Ho visto bene mio zio e i miei cugini. Sono sicuro". Il ragazzo non esita a puntare il dito con altri due parenti, che attualmente non sono imputati nel processo, sostenendo che "sono più colpevoli di Noman e Ikram, che hanno fatto questa cosa per rispetto, hanno aiutato lo zio".

"Voglio giustizia per mia sorella"

"Ho deciso di raccontare la verità perché soffro ogni giorno, sto male e la notte non dorme", dice ancora il 18enne. E poi: "Guardo le foto di Saman che ho appese in camera e sbatto la testa sul muro. E' una cosa che mi porterò dentro tutta la via e penso che se c'è una cosa che mi può aiutare è sfogarmi e dire la verità. E voglio dirla anche perché voglio che sia fatta giustizia per mia sorella".

"Ho provato a uccidermi"

Il fratello di Saman racconta di aver tentato il suicidio: "Ho provato a farmi del male, in comunità ho bevuto del profumo, volevo uccidermi. Ero rimasto da solo", dice rispondendo alle domande dell'avvocato Teresa Manente, dell'associazione "Differenza donna", parte civile nel processo. "Avevo paura di mio padre - aggiunge - ha provato anche a fare del male a Saman. Quando è tornata dal Belgio, lui l'ha aggredita con un coltello. Aveva bevuto. Mi sono messo in mezzo, ho preso il coltello per buttarlo via e nel farlo mi sono ferito tra il pollice e l'indice".

"Papà diceva a mamma di piangere per finta"

Al pm Laura Galli il 18enne racconta della fuga di Saman in Belgio e di quando il padre avrebbe suggerito alla moglie, attualmente latitante, di mettere "la saliva sugli occhi" in modo da simulare le lacrime "per convincere mia sorella a tornare a casa". "Quando è tornata, mio padre è andato a prenderla, l'ha portata a casa - aggiunge - Ero molto felice. Poi le hanno chiesto del tatuaggio, dicendole che non andava bene, che andava cancellato". Quanto al fidanzato della ragazza "dicevano che lo avrebbero ammazzato non appena sarebbe tornata in Italia".

Estratto dell’articolo di Silvia Mancinelli per adnkronos.com venerdì 3 novembre 2023

"Non ho ucciso mia figlia, non ho mai voluto ucciderla. Ma di una cosa sono sicuro, l'omicidio è avvenuto in ambito familiare". Sono le parole pronunciate da Shabbar Abbas in una pausa dell'udienza del processo a Reggio Emilia per l'omicidio della figlia Saman. 

Shabbar Abbas, ritratto abbracciato alla figlia nella foto esclusiva Adnkronos, è uno degli imputati: si è espresso con dichiarazioni rilasciate ai suoi avvocati difensori Enrico Della Capanna e Simone Servillo e riferite all'Adnkronos. 

"Sono convinto, ma certo non sono detentore della verità assoluta, che la morte di Saman sia stata un incidente - spiega ancora Della Capanna all'Adnkronos -. Le indagini, portate avanti in maniera pessima, hanno sempre insistito su una e una sola ipotesi, affievolendo le altre. Eppure sono diverse le alternative possibili nella dinamica dei fatti. Sappiamo che Saman quella sera uscì di casa vestita con jeans e scarpe ben allacciate per andare via, chissà dove. È probabile che si sia riparata in casa di qualcuno, un parente certo, che si sia messa comoda e lì, magari al culmine di una lite, sia stata uccisa. Vero è che, nella fossa nella quale è stata trovata, non aveva né le scarpe né i calzini che calzava la sera in cui è fuggita. Oppure, altra ipotesi, è che un parente l'abbia afferrata di forza per bloccarla, per non farla andar via, e nel farlo le abbia spezzato l'osso del collo".

E la fossa? Un'ipotesi investigativa vuole sia stata scavata in più giorni. "È stata scavata il primo maggio - risponde l'avvocato Servillo - Ci avranno messo un’ora, non di più". 

[…] 

Shabbar Abbas, presente in tutte le udienze, ascolta i racconti del figlio a testa bassa. Mai un sussulto, mai uno sguardo. "Ha paura per il ragazzo - dice l'avvocato -. Da subito non ha voluto coinvolgere il figlio. Nelle intercettazioni, quando diceva che avrebbe messo in mezzo lo zio, il cugino, lui gli diceva di non dire nulla, di restarne fuori. Quando poi è stato incalzato oltremodo, gli ha detto di dare la colpa a lui".

E poi, sul rapporto di Shabbar con la figlia: "Voleva bene a Saman - precisa Della Capanna -. Al di là di quanto si è detto, c’è una foto che più di tutto lo racconta. Shabbar e sua figlia abbracciati sul letto, è stata scattata il 20 aprile, dopo la comunità. Ma soprattutto 10 giorni prima che di lei si perdessero le tracce". 

"Quando Saman è andata in comunità i miei erano preoccupati per il loro onore, perché in Pakistan avrebbero pensato male di noi" ha detto poi il fratello in aula. "Mio papà ha cambiato più di 10 account su Instagram per contattarla e convincerla a tornare a casa. Un giorno Saman ha fatto una videochiamata e mia mamma, vedendo che si era fatta i capelli biondi, ha detto a bassa voce ‘prostituta'".

"Quando Saman fumava - conclude - mia madre le diceva di smettere, mentre mio papà, appena dietro, diceva che una volta tornata l’avrebbe sistemata lui, che la faceva fumare lui".

Saman Abbas, le pressioni della mamma latitante sul figlio testimone. Lui: «O mi uccido o mando tutti in cella a vita». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 24 ottobre 2023.

Sul fratello della ragazza uccisa, che vive sotto protezione, le pressioni della mamma latitante: «Non dire falsità ai giudici». Aperto un fascicolo contro ignoti per le minacce sul giovane. Il 18enne testimonierà venerdì

«Figlio mio, non dire nulla ai giudici, quali cose false dici... Non dire nulla a nessuno: la verità è la verità, le falsità sono falsità». Parole pressanti che rimbalzano dal Pakistan alla località emiliana in cui vive sotto protezione il 18enne fratello di Saman, la ragazza uccisa a Novellara — nel Reggiano — nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021 per essersi opposta alle nozze combinate dai genitori.

A parlare, rivolgendosi al figlio secondogenito, è proprio la madre, Nazia. A lei il ragazzo, che venerdì testimonierà in audizione protetta, replica così, laceratissimo: «O mi uccido o mando tutti in carcere a vita». Poi, orgoglioso, chiarisce: «non dico falsità».

La donna è l’unica ancora latitante dei 5 imputati accusati dell’omicidio, tra cui il marito Shabbar, consegnato dal Pakistan all’Italia, e Danish Hasnain, zio di Saman.

Nazia Shaheen, ricercata e che teme di essere localizzata, si rivolge al figlio tramite il cellulare di una parente — nelle carte giudiziarie con il nickname di «Maria Cugina» — che via WhatsApp e messenger gira audio e messaggi agli account del giovane. Questi: «cattivo ragazzo» e «grande boss».

Tono e insistenza di Nazia, ma anche di altri familiari, hanno indotto il procuratore di Reggio Emilia Gaetano Paci ad aprire un fascicolo contro ignoti riguardante pressioni e minacce sul ragazzo, maggiorenne da poco. Fu lui, dopo la sparizione della sorella, a indirizzare le indagini parlando, in incidente probatorio, di omicidio e incolpando la famiglia. Ma in aula i difensori degli imputati hanno ottenuto di ascoltarlo ancora.

Tra pianti e suppliche, Nazia ha le idee chiare su come debba regolarsi il figlio. Gli indica dei conoscenti in Italia e gli dice di andare a trovarli «almeno un’ora» dato che loro, oltre a trovargli un lavoretto, potrebbero aiutarlo con patente e passaporto. «Sistema i documenti» è l’insistente messaggio che perviene al giovane grazie al «ponte» fatto da «Maria Cugina». Poi «vieni a trovarmi almeno per una settimana. Da viva questo è il mio unico scopo: vedere mio figlio con i miei occhi».

Ma i carabinieri adombrano l’ipotesi che questo pressing — la madre gli suggerisce pure di raggiungere la Spagna — sia finalizzato soprattutto a evitare l’interrogatorio che potrebbe inguaiare il clan Abbas.

In un altro messaggio una zia è ancora più esplicita e lo invita a «ritrattare le dichiarazioni asserendo che tutti sono innocenti e nessuno ha colpe». Il ragazzo scrolla le spalle. Non cancella quei messaggi come sollecitano dal Pakistan e permette ai carabinieri di recuperarli.(ANSA venerdì 20 ottobre 2023) - In alcune telefonate intercettate tra fine maggio e inizio giugno 2021 il fratello di Saman Abbas, testimone chiave della Procura, accusava lo zio Danish di aver ucciso la sorella 18enne.

La conferma a quanto dichiarato negli interrogatori ai carabinieri arriva dalle trascrizioni delle conversazioni, depositate agli atti del processo in corso davanti alla Corte di assise reggiana, dove lo stesso ragazzo, nel frattempo divenuto maggiorenne, sarà chiamato a testimoniare in aula, probabilmente venerdì 27 ottobre.

Imputati sono il padre Shabbar Abbas, estradato dal Pakistan, la madre Nazia Shaheen, latitante, i due cugini Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz e lo zio Danish Hasnain.

Proprio Danish è indicato dal ragazzo come responsabile, in una telefonata del 28 maggio (quasi un mese dopo l'omicidio di Novellara) tra il fratello di Saman e una zia:

"Da oggi non parlerò più con tuo fratello Danish e non parlerò nemmeno con quel cane che ha i baffi e più nemmeno con Irfan, non parlerò più neanche con gli altri due che stanno con loro perché ha fatto tutto lo zio, ha fatto tutto lo zio".

La zia rispose: "Stai zitto". Ma il fratello di Saman: "Sì ma io a questi qui gli darò una lezione che si ricorderanno tutta la vita.

Se non è rimasta viva mia sorella, allora neanche loro hanno diritto di vivere. O mi ucciderò oppure farò qualcosa a questi".

In un'altra conversazione, del giorno prima, sempre il fratello parlava con una conoscente. "Mio zio ha ucciso una persona, capito?", disse. "In Pakistan?", domandò lei. Risposta: "Novellara".

Saman Abbas, si cerca la madre. "Considerata un'eroina che ha sacrificato la figlia". È in corso il processo sull'omicidio di Saman Abbas, la 18enne vittima di una congiura familiare per essersi opposta al matrimonio forzato. L'associazione "Senza Veli sulla Lingua" che tutela le donne: "Pene esemplari per gli imputati". Rosa Scognamiglio il 13 Ottobre 2023 su Il Giornale.

È in corso il processo per l'omicidio di Saman Abbas, la 18enne pachistana uccisa a Novellara nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 2021 per essersi opposta al matrimonio forzato col cugino nella terra di origine. All'ultima udienza era presente in aula il padre della ragazza, Shabbar Abbas, estradato in Italia dal Pakistan a fine agosto.

Tra gli imputati, oltre al papà, i due cugini e lo zio di Saman, c'è anche la madre, Nazia Shaheen, che è ancora latitante. "Bisogna trovarla perché è complice di questo terribile crimine. Fece da esca per attirare la figlia nella trappola mortale. Fu lei, come si vede dall'ultimo video, che consegnò Saman nelle mani dello zio Danish Hasnain", dice Ebla Ahmed, avvocato e presidente dell'associazione nazionale "Senza Veli sulla Lingua", che da 10 anni si occupa di offrire supporto legale e psicologico alle donne italiane e straniere vittime di violenza.

Omicidio Saman, adesso si cerca la madre: i sospetti degli inquirenti

Ebla Ahmed, come commenta l'estradizione di Shabbar Abbas?

"Anzitutto mi complimento con il governo per essere riuscito a riportare il padre di Saman in Italia. È la prima volta che una estradizione attiva viene concessa dal Pakistan. Dunque è un segnale di apertura importante, anche in previsione di un eventuale accordo bilaterale tra i due Paesi. Ora però è fondamentale che la giustizia faccia il suo corso e punisca come meritano i responsabili di questo terribile crimine".

Che intende dire?

"Servono pene esemplari per gli imputati. Non possono e non devono farla franca perché è inaccettabile che una giovane donna, quale era Saman, sia stata ammazzata per essersi opposta all'usanza tribale del matrimonio forzato".

A breve ci sarà l'audizione del fratello di Saman Abbas. Secondo lei, quanto potrà incidere sull'esito del processo la testimonianza del ragazzo?

"Il fratello di Saman è testimone oculare della tragedia e sicuramente la sua deposizione inciderà sul corso del processo. Sta di fatto che potrebbe avere qualche attimo di cedimento dinnanzi al padre, che non vede da due anni. Ora più che mai bisogna supportare emotivamente il ragazzo, la sua posizione è delicatissima".

"I miei genitori...". Cosa ha raccontato il fratello di Saman

E invece come pensa si comporteranno gli altri imputati?

"Sono certa che si accuseranno l'un l'altro nel tentativo di scaricarsi da ogni responsabilità del fatto. Ma sono tutti colpevoli, compresa la madre di Saman che non è stata ancora catturata".

Pensa che Nazia Shaheen, la madre di Saman, si trovi in Pakistan?

"Credo sia nascosta nel Punjab, dove vive il clan degli Abbas, e che attorno a lei ci sia una notevole rete di protezione".

Cosa glielo fa pensare?

"Perché lì, nel villaggio in cui vive, può contare sul sostegno dell'intera comunità. Anzi sarà considerata alla stregua di un'eroina per aver difeso l'onore della famiglia sacrificando la vita della figlia 'disobbediente'".

Saman, incrociati filmati e tabulati: le prove contro il padre e lo zio

Lei è presidente di un'associazione che tutela anche giovani donne straniere vittime di maltrattamenti familiari. Il matrimonio forzato è ancora diffuso?

"Certo che lo è. E le dirò di più: non solo nelle aree rurali del Pakistan, dove peraltro dal 2004 il delitto d'onore è considerato un reato, ma anche in altre regioni del mondo. Penso all'Albania, ad esempio, oppure alle comunità rom. Questa pratica ancestrale delle nozze forzate è più diffusa di quanto non ci si immagini".

Riceve molte segnalazioni?

"Tante. E purtroppo si tratta di casi similissimi a quelli di Saman. Ma non tutte, dopo aver denunciato i familiari, hanno la forza di andare fino in fondo".

C'è qualcuna che è ritornata sui propri passi?

"Sì. Ricordo il caso di una ragazza che ha fatto un passo indietro nonostante ci fosse in corso un procedimento penale a carico dei genitori. Il punto è che la giustizia deve punire con pene severe chi induce il proprio figlio o figlia al matrimonio forzato, anche in caso di ripensamenti da parte della vittima. Bisogna dare un segnale forte, altrimenti non riusciremo a evitare altre tragedie".

"Vi mostro come abbiamo sepolto Saman". Il video choc dello zio

E alle vittime che suggerimento può dare?

"Anzitutto di rivolgersi il prima possibile alle forze dell'ordine. E poi, una volta al sicuro in una struttura protetta, di stare in guardia da eventuali tentativi di riavvicinamento da parte della famiglia. Così come è successo nel caso di Saman, spesso le donne del clan fanno da esca per le figlie. Ed è molto importante che queste ragazze lo sappiano. Non si può e non si deve morire a 18 anni per questa atroce barbarie del matrimonio forzato".

Saman Abbas, sui resti della ragazza nessuna traccia del Dna di genitori, zio e cugini. Margherita Grassi su Il Corriere della Sera martedì 26 settembre 2023.

Lo hanno riferito in aula i periti del Tribunale. Presenti due profili genetici (uno maschile e uno femminile) ma che non risultano legati ai parenti della vittima 

Sugli indumenti di Saman Abbas, sui suoi accessori e sotto le unghie non è stata trovata traccia del dna dei cinque imputati per l’omicidio della ragazza. 

Il team di periti

Lo hanno riferito nell’aula di Corte d’Assise di Reggio Emilia i periti Cristina Cattaneo, Biagio Leone e Roberto Giuffrida, nominati dal Tribunale, che hanno composto il team di anatomopatologi impegnato in questi mesi nelle analisi sui resti umani trovati in viazza Reatino a Novellara, i resti della 18enne che la Procura ritiene sia stata uccisa da padre, madre, zio e due cugini perché ribellatasi a un matrimonio forzato. Erano presenti invece due profili genetici, uno maschile e uno femminile, che non presentano correlazioni parentali con la ragazza. Il padre della ragazza, Shabbar - estradato dal Pakistan dov’era fuggito il primo maggio 2021 – si è messo a piangere quando ha visto le immagini dei resti della figlia che man mano i periti proiettavano e analizzavano. «Non le aveva mai volute vedere prima, ha avuto una normale reazione», hanno commentato i suoi legali Simone Servillo ed Enrico Della Capanna. 

I tempi 

Un altro elemento importante emerso durante la deposizione dei periti riguarda i tempi: sia quelli di scavo della buca dentro la quale la ragazza è rimasta sepolta un anno e mezzo, sia quelli del decesso della giovane. «Il fatto che il terreno sia ben stratificato determina che questa parte del riempimento si sia in realtà costituita da una serie di sei eventi che si sono susseguiti nel tempo e che non possono assolutamente essersi depositati in un unico momento», così si legge in un passaggio delle 500 pagine della perizia medico legale. La fossa è quindi stata scavata, fino ad arrivare ad una profondità di 1,5 metri, in più momenti; ma anche dal punto di vista della larghezza è stata modificata dopo una prima realizzazione: 40 centimetri sono stati scavati successivamente. Aspetti, questi, che per l’avvocato Barbara Iannuccelli, legale del fidanzato di Saman,  «configurano la premeditazione». 

Gli accertamenti

Il corpo della 18enne è stato posto lì dopo la realizzazione della fossa. Dove, quindi, Saman è stata uccisa? Per l’avvocato dello zio Danish Hasnain, Liborio Cataliotti, il delitto sarebbe avvenuto ad opera della madre della ragazza alla fine del vialetto di casa, quando gli occhi elettronici delle telecamere che riprendono le due donne la sera del 30 aprile 2021 non le inquadrano più: «Spesso la soluzione è quella più semplice: la perizia dice che ad imprimere la forza che ha soffocato Saman può essere stato sia un uomo sia una donna – dice il legale – Sia una persona giovane sia una meno giovane. Un gesto che richiede pochi secondi». Gli accertamenti parlano infatti di 7 secondi per la rottura dell’osso ioide e di 11 secondi per provocare l’asfissia della ragazza, la cui agonia però «può essere durata fino a 8 minuti», ha detto Cattaneo. 

La perizia nel processo. Caso Saman Abbas, la fossa diventata sua “tomba” scavata per 6 volte: “Conferma premeditazione omicidio”. Redazione su L'Unità il 26 Settembre 2023 

La buca in cui è stata sepolta Saman Abbas, la 18enne di origini pachistane residente a Novellara, nel Reggiano, scomparsa nell’aprile del 2021 e ritrovata, senza vita, il 18 novembre scorso, era stata scavata per sei volte per “costruire” la tomba della ragazza. È questo quanto emerso dalla perizia medico-legale disposta dalla Procura di Reggio Emilia ed eseguita dal medico legale Cristina Cattaneo, l’archeologo forense Dominic Salsarola, il genetista forense Roberto Giuffrida e l’anatomopatologo Biagio Eugenio Leone.

“Il fatto che il terreno sia ben stratificato determina che questa parte del riempimento si sia in realtà costituita da una serie di 6 eventi che si sono susseguiti nel tempo e che non possono assolutamente essersi depositati in un unico momento“, è la considerazione fatta dagli autori della perizia, lunga 500 pagine e di cui riporta ampi stralci l’agenzia Agi.

Secondo i periti Saman “non è stata introdotta nella fossa nell’immediatezza della fine delle operazioni di scavo della fossa, ma in un, non meglio identificabile, momento successivo“. Nella loro ricostruzione “si ritiene che almeno due persone abbiano partecipato alla sistemazione del corpo della vittima all’interno della fossa” e che “come si evince dalla descrizione e dalle misure e forma del taglio, si può affermare con ragionevole certezza che il corpo della vittima è stato introdotto attentamente all’interno della sepolture e non buttato all’interno in maniera spiccia”. Difficile invece in quanto tempo sia stato preparato il “sepolcro” della ragazza: “Non è dato in maniera specifica in quanto tempo questa sequenza stratigrafica si sia formata”.

Della perizia si è discusso oggi durante l’udienza del processo per l’omicidio di Saman, uccisa perché rifiutò un matrimonio combinato dalla famiglia con un uomo, suo cugino, residente in Pakistan: gli imputati sono il padre Shabbar, estradato dal Pakistan poche settimane fa, lo zio Danish Hasnain, due cugini (tutti e tre detenuti nel carcere di Reggio Emilia) e la madre, attualmente l’unica familiare latitante.

Per Barbara Iannuccelli, assieme a Claudio Falleti avvocata di Saqib Ayub, il fidanzato di Saman Abbas, “l’elemento di novità incredibile è il risultato del lavoro dell’archeologo forense, il dottor Salsarola, che ci dice che la buca è stata scavata in due tempi, il che vuol dire che la prima volta è stata scavata in modo approssimativo e senza il corpo di Saman, a cui era possibile prendere le misure anche a occhio in quel momento, poi la buca è stata allargata. Quindi, la logica ci dice che questo tipo di doppio step prevede un primo step senza Saman, il secondo con Saman e che poi è stata collocata in quella buca non nell’immediatezza dello scavo. Questo fonda l’ipotesi di premeditazione che, in un processo per omicidio, fa la differenza tra i 30 anni e l’ergastolo”.

Nell’aula il padre di Saman, Shabbar Abbas, durante la spiegazione della documentazione fotografica esposta dal medico legale Cristina Cattaneo, tratta dalla perizia sul corpo della giovane dopo il ritrovamento, non ha guardato nessuna immagine del cadavere e si è mostrato commosso. Redazione - 26 Settembre 2023

Estratto dell'articolo di corriere.it venerdì 22 settembre 2023.

All'omicidio di Saman Abbas sarebbero stati presenti tutti e cinque i parenti imputati, i due cugini l'avrebbero tenuta ferma e lo zio le avrebbe spezzato il collo. La ricostruzione emerge dai racconti di due detenuti nordafricani, sentiti dagli investigatori a inizio settembre e che saranno chiamati a ripeterlo, testimoniando nel processo in corso a Reggio Emilia. Uno di loro ha riferito quanto gli avrebbe raccontato lo zio di Saman, Danish Hasnain, in carcere, mentre il secondo detenuto ha detto di aver avuto le informazioni dal primo.

I dubbi sui ruoli dei genitori

Le versioni non coincidono totalmente: secondo uno dei due Danish ha detto che anche il padre, Shabbar Abbas, avrebbe tenuto ferma la figlia a pancia in giù, mentre fumava, e la madre guardava. Secondo l'altro, quello che dice di aver avuto le confidenze dirette da Danish, la madre avrebbe contribuito a bloccare la 18enne, il padre avrebbe solo assistito. 

Sempre questo secondo detenuto ha riportato anche quelle che potrebbero essere state le ultime parole di Saman: quando si è trovata da sola coi familiari, probabilmente comprendendo le loro intenzioni, avrebbe detto di essere disponibile ad andare in Pakistan a sposare il parente nel matrimonio combinato dalla famiglia. 

L'ombra di un accordo economico

Un altro aspetto riguarda il movente. Dal racconto di Danish al compagno di cella, riferito agli investigatori (il procuratore Calogero Gaetano Paci, i carabinieri e la Penitenziaria) sembrerebbe che il padre di Saman avesse un accordo economico con il parente in patria, per 15mila euro [...] Hanno scavato la buca, dove è rimasta dalla notte del 30 aprile 2021 al 18 novembre 2022, quando è stato lo stesso Danish ad indicare dove si trovava il cadavere della nipote, in un casolare diroccato a Novellara vicino alla casa di famiglia.

Estratto dell’articolo di Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” sabato 23 settembre 2023.  

[…]  Sono ancora tutte da verificare le rivelazioni di due detenuti nordafricani che hanno raccontato dei particolari inediti sulla morte di Saman, la 18enne uccisa nel 2021 a Novellara. Hanno detto di averli appresi in carcere a Reggio Emilia da Danish Hasnain, lo zio di Saman, che si sarebbe sfogato «in un momento di particolare sconforto personale». 

Stando al loro racconto […]. Il cugino promesso sposo aveva infatti raggiunto un accordo economico con il padre di Saman per fargli sposare la 18enne in cambio di 15 mila euro. L’obiettivo non era tanto il matrimonio, ma la possibilità di poter poi arrivare in Italia grazie al ricongiungimento familiare. Uno schema di matrimoni combinati che, a quanto pare, non sarebbe un caso isolato ma farebbe parte di una sorta di catena di nozze di comodo tra Italia e Pakistan […]

Il capo della Procura di Reggio Emilia Gaetano Paci, il maggiore dei carabinieri Maurizio Pallante e gli agenti della Penitenziaria hanno verbalizzato il racconto dei due detenuti a inizio settembre e due giorni fa lo hanno depositato agli atti del processo in corso proprio a Reggio che vede imputati lo zio, il padre e i due cugini di Saman, mentre la madre è ancora latitante in Pakistan. Anche i nuovi testimoni saranno presto convocati e interrogati in Corte d’Assise. 

[…]Sarebbe stato lo zio Danish l’autore materiale del delitto di Saman. Le avrebbe spezzato il collo, mentre i due cugini la immobilizzavano a terra con la faccia in giù. Un film dell’orrore al quale avrebbero assistito la madre e il padre che, mentre la figlia moriva, fumava una sigaretta. Gli avvocati difensori non si sono opposti alla deposizione dei due nuovi testi, ma da subito hanno cominciato a metterne in discussione l’attendibilità. 

Innanzitutto, fanno notare, sarebbe stato solo uno dei due a raccogliere il presunto sfogo dello zio della 18enne, mentre l’altro lo avrebbe appreso de relato dal compagno di cella. […]. Per non dire che molti dei particolari che hanno riferito «erano in realtà già noti e riportati anche dagli organi di stampa». 

[…]

C’erano tutti parenti”. Le nuove rivelazioni sull’uccisione di Saman Abbas. Due detenuti hanno raccontato nuovi elementi relativi all'uccisione di Saman Abbas, rivelando alcune confessioni dello zio Hasnain. Francesca Galici il 21 Settembre 2023 su Il Giornale.

Emergono nuovi dettagli nell'indagine sulla morte di Saman Abbas. Sono stati due detenuti nordafricani nel carcere di Reggio Emilia a rivelare nuove informazioni, ottenute durante il periodo di reclusione dello zio della ragazza, Danish Hasnain. Al suo omicidio, hanno spiegato i due, sarebbero stati presenti tutti e cinque i parenti imputati, i due cugini l'avrebbero tenuta ferma e lo zio le avrebbe spezzato il collo.

Le due versioni non sono perfettamente collimanti, anche perché solo uno dei due avrebbe ricevuto le confessioni direttamente da Hasnain. Il secondo avrebbe ottenuto le informazioni di seconda mano dal primo detenuto, che gliele avrebbe raccontate in un secondo momento. Secondo uno dei due, infatti, lo zio avrebbe detto che anche il padre, Shabbar Abbas, avrebbe tenuto ferma la figlia a pancia in giù, mentre fumava, e la madre guardava. Secondo l'altro, quello che dice di aver avuto le confidenze dirette da Danish, la madre avrebbe contribuito a bloccare la 18enne, il padre avrebbe solo assistito.

Il detenuto che avrebbe parlato direttamente con lo zio della ragazza ha anche raccontato che Saman, quando è stata convocata nella stanza dalla famiglia, si è probabilmente resa conto di quanto stava per accadere. A quel punto, per cercare di sfuggire a quel destino che le si stava formando davanti agli occhi, avrebbe in extremis detto di essere disponibile ad andare in Pakistan a sposare il parente nel matrimonio combinato dalla famiglia. Un tentativo estremo per provare a salvarsi la vita, che non ha comunque funzionato.

Ma in quella conversazione col detenuto, Danish avrebbe anche esposto quello che sarebbe stato il movente. Pare che il padre di Saman avesse un accordo economico con il parente in patria per 15mila euro per fargli sposare la ragazza. L'obiettivo era di farlo venire in Italia, fare i documenti e dare il via a una catena che avrebbe coinvolto altre persone allo scopo di organizzare matrimoni combinati per soldi, al fine di avere i permessi di soggiorno. Tuttavia, la ribellione occidentale di Saman, che si era innamorata di un ragazzo italiano, ha fatto saltare completamente i piani economici. A scavare la buca sarebbe stato il padre e lì la ragazza sarebbe rimasta sepolta dalla notte del 30 aprile 2021 al 18 novembre 2022, quando è stato lo stesso Danish ad indicare dove si trovava il cadavere della nipote, in un casolare diroccato a Novellara vicino alla casa di famiglia.

Il caso della 18enne uccisa. “Non ho ucciso io Saman”: l’udienza di Shabbar Abbas tra colpi di scena e rivelazioni sulla moglie latitante. L'uomo estradato dal Pakistan. Ha detto che la moglie, ancora latitante, era in casa quando è stato arrestato. Nuove dichiarazioni di due detenuti depositate alla Corte di Assise, confessioni dello zio Danish Hasnain. Redazione Web su L'Unità l'8 Settembre 2023

Nuove confessioni, la moglie latitante, il rifiuto delle accuse per la morte della figlia 18enne, Saman Abbas, sparita a Novellara in provincia di Reggio Emilia nel nulla nell’aprile 2021, il cui corpo fu ritrovato lo scorso gennaio nei pressi di un casolare abbandonato in campagna. Shabbar Abbas, 47enne, tra gli imputati dell’omicidio, è stato estradato la settimana scorsa dal Pakistan. È accusato insieme con uno zio e la moglie. “Shabbar non sa da chi è stata uccisa la figlia e vuole saperlo. Sebbene sia stato dipinto come il mandante di questo vergognoso omicidio, è un uomo al quale hanno ammazzato la figlia e vuole giustizia”, ha detto l’avvocato Simone Servillo nell’aula della corte di Assise del tribunale di Reggio Emilia in occasione dell’udienza del processo.

L’uomo è entrato in aula poco dopo le dieci di questa mattina. “Non è uno show, è un processo: lui è detenuto ed è detenuto per l’omicidio della figlia, e considerata la situazione è molto concentrato. Chiaramente è una persona emotivamente molto provata, non solo dalla carcerazione, che ha un impatto molto secondario sul suo stato emotivo, ma dal fatto che gli hanno ammazzato la figlia”, ha dichiarato l’avvocato Servillo. Il legale ha anche rigettato il principale movente dell’omicidio finora ipotizzato: il matrimonio forzato con un cugino in Pakistan cui la ragazza si sarebbe opposta.

“Shabbar ha detto chiaramente che anche il dettame islamico non comporta la possibilità per il padre di obbligare la figlia, con la forza, a un matrimonio. Cioè loro danno un’indicazione, poi se i figli non vogliono, non vogliono”. Allo stesso tempo l’uomo si sarebbe accertato delle intenzioni – “non avrebbe mai sposato Saman perché lui doveva sposare un’altra donna” a detta dei legali – del fidanzato della figlia. Secondo l’avvocato ci sono “discrepanze importanti” nelle parole di Ali, fratello di Saman, e dello zio Danish. A questo proposito, nuove dichiarazioni spontanee di due detenuti sono state depositate alla Corte di Assise della Procura di Reggio Emilia. Si tratta delle parole di due reclusi a proposito di confessioni che Danish Hasnain avrebbe fatto loro che potrebbero chiarire quello che è successo nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio del 2021, quando la 18enne scomparve.

Gli avvocati Servillo ed Enrico Della Capanna hanno anche aggiunto un particolare sulla moglie del loro assistito, imputata e ancora latitante: “Shabbar era in un campo quando è stato raggiunto dalla polizia e si è messo a disposizione. Mentre la moglie si trovava in casa. C’era un mandato di arresto anche per lei? Questo non lo sappiamo, non eravamo in Pakistan”. I genitori della ragazza erano stati ripresi dalle telecamere dell’aeroporto di Malpensa nei giorni della scomparsa. Altre immagini girate dalle telecamere di sorveglianza mostravano invece lo zio e i cugini della ragazza dirigersi verso i campi con una pala e un piede di porco la notte del 29 aprile. I cugini vennero catturati in Francia, a Nimes, e in Spagna, a Barcellona. Lo zio Danish Hasnain in un comune nei pressi di Parigi. Sono stati tutti estradati in Italia.

Agli atti del processo era stata messa intanto una telefonata, riportata dall’Ansa, in cui il padre confessava l’omicidio della figlia e il movente del matrimonio combinato. A fine novembre, grazie anche alle indicazioni dello zio della ragazza, Hasnain, il ritrovamento di un corpo nei pressi di un casolare in campagna a Novellara. Lo zio ha detto di aver trovato la ragazza morta a casa degli Abbas e di esser stato chiamato per seppellire e nascondere il corpo. Secondo quanto rilevato nell’autopsia sul cadavere della 18enne, è stata riscontrata una frattura al collo compatibile con uno strangolamento

Redazione Web 8 Settembre 2023

La madre di Saman era in casa”. Ecco perché crolla la speranza dell'arresto. Il padre di Saman Abbas ha dichiarato che sua moglie era in casa quando lo arrestarono in Pakistan. Saranno riascoltati il fratello e il fidanzato della giovane. Angela Leucci l'8 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il racconto di Shabbar

 Le testimonianze

 La posizione di Shabbar

Quella di oggi è forse l’udienza finora più sorprendente in relazione all’omicidio di Saman Abbas. Non solo perché per la prima volta c’è in aula il padre, estradato da pochi giorni, ma soprattutto perché stanno emergendo nuovi dettagli e nuove prospettive. Una su tutte: dopo le dichiarazioni di Shabbar Abbas, è davvero molto remota la possibilità che la moglie di questi sia arrestata ed estradata per affrontare il processo in Italia.

Saman Abbas scomparve da Novellara la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021. Quella notte fu uccisa e il suo corpo fu occultato in un casolare abbandonato a poche centinaia di metri da casa. Per il suo sequestro, l’omicidio e l’occultamento di cadavere sono stati rinviati a giudizio il padre Shabbar Abbas, la madre Nazia Shaheen ufficialmente latitante, lo zio Danish Hasnain, i cugini Ikram Ijaz e Noumanoulaq Noumanoulaq.

Il racconto di Shabbar

Gli avvocati di Shabbar Abbas, Enrico Della Capanna e Simone Servillo, hanno riportato alla stampa le parole del loro assistito, oggi per la prima volta in tribunale a Reggio Emilia. L’uomo afferma che il viaggio in Pakistan, a ridosso della scomparsa della figlia, sarebbe stato programmato. Tuttavia questo non spiega come mai non sia tornato, come aveva affermato ai datori di lavoro, cui aveva promesso il rientro di lì a un mese, anche per spiegare la propria posizione ai carabinieri.

“Ero in Pakistan con mia moglie, siamo partiti insieme - avrebbe detto Shabbar - ma non è vero che non avevo programmato il ritorno in Italia. Quando si è presentata la polizia a casa, io ero fuori, in un campo, mia moglie all'interno. Sono stato arrestato, portato in carcere e da quel momento non ho più avuto alcun rapporto né con mia moglie, né con nessun altro familiare, non ho più potuto parlare con nessuno”.

Gli inquirenti italiani hanno ipotizzato un delitto d’onore, che da alcuni anni è un reato anche in Pakistan. Ma l’opinione pubblica è sempre stata orientata a ritenere poco probabile che il Pakistan avrebbe estradato una donna, una casalinga, per questo reato. E se il racconto di Shabbar Abbas fosse vero, significherebbe che Nazia Shaheen non sarà giudicata per i reati per cui è accusata in Italia, né lo sarà in Pakistan.

I detenuti e le confidenze in carcere: nuove indagini sulla morte di Saman Abbas

Le testimonianze

Nonostante le richieste di non riascoltare Saqib Ayub e Ali Haider, rispettivamente fidanzato e fratello di Saman Abbas, le loro testimonianze saranno risentite in tribunale. Barbara Iannuccelli, legale di Ayub, ha dichiarato: “Saqib è in attesa di raccontare la sua verità ma è un ragazzino di 20 anni che ha conosciuto Saman su TikTok. La sua vita è cambiata tantissimo, perché alla sua età si è ritrovato l'angoscia e il peso addosso di una ragazza che si voleva sposare con tutto l'ardore di un ventenne e che adesso non c'è più. Anzi, lui non credeva minimamente che fosse sotto due metri di terra. Lui fino all'ultimo sperava che fosse solo scomparsa”.

Per quanto riguarda il fratellino di Saman Abbas, è stata ascoltata l’assistente sociale che lo ha seguito nella comunità protetta: “Ali Haider era arrabbiato per la diffusione di notizie a suo dire non veritiere, che indicavano la madre come responsabile, secondo lui, al contrario, un'altra vittima”. E ancora: “Ali Haider continuava a messaggiare coi genitori, avevamo chiesto che questi ‘colloqui’ potessero avvenire attraverso mediatori perché il ragazzo ci aveva detto che questi contatti erano per lui negativi e insistenti. È stato fatto su di lui un lavoro sulla gestione della rabbia. Ma gli episodi di collera erano tutti collegati a notizie relative al processo”.

"Vi spiego perché i genitori di Saman non saranno estradati"

La posizione di Shabbar

Non solo Shabbar Abbas sostiene di aver programmato il viaggio in Pakistan ben prima della scomparsa della figlia, ma anche di essere completamente all’oscuro di cosa le sia accaduto. I suoi legali hanno chiarito: “Shabbar non si spiega come sia stata uccisa la figlia, non sa chi l'ha uccisa, non sa dove né quando, prende atto però di una circostanza di fatto inconfutabile: il corpo di sua figlia purtroppo è stato ritrovato in un casolare non distante dalla loro abitazione, e prende atto di quello che ha dichiarato il fratello, vale a dire che lui non solo sapeva dove si trovava il cadavere della povera Saman, ma sapeva anche chi aveva costruito il sepolcro e chi c'è l'aveva riposta. Sono circostanze indubbiamente oggettive rispetto alle quali chiunque si porrebbe dei dubbi. Ma ripeto, in questo momento, Shabbar Abbas non ha non solo certezze, ma neanche ipotesi e di questo poi parleremo nel corso di questo processo”.

Lapidaria la legale Iannuccelli, che ha parlato all’Adnkronos anche dell'auspicata perizia sui filmati di videsorveglianza per capire se Shabbar Abbas abbia in mano o no lo zainetto bianco della figlia: “Sono passati due anni e mezzo da quando Saman è stata uccisa il 30 aprile 2021. Un papà con la P maiuscola, come si definisce lui, così disperato, non sarebbe partito, oppure sarebbe tornato, i genitori avrebbero cercato la figlia. Nessuno ha fatto niente per due anni e mezzo. Oggi torna in Italia e per prima cosa si autoproclama depositario di una grande verità della quale poi ci renderà edotti. Due anni e mezzo dalla morte di una ragazzina di 18 anni ritrovata sotto due metri di terra dovrebbero far vergognare tutti e forse anche far tacere tante persone. L'unico elemento certo è che lo zio Danish ha fatto ritrovare il corpo di Saman, poi tutto il resto è storia ma a meno che non si consideri il territorio di Novellara un grande cimitero a cielo aperto, indicare dove fosse Saman vuol dire sapere. Oltretutto a mezzanotte e mezza di quella notte Shabbar viene visto rientrare in casa con qualcosa in mano: tutti sappiamo che è lo zaino di Saman, ci dicono adesso di no. Quindi, a questo punto, era aperta la Coop a quell'ora e lui era andato a fare la spesa?”.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Leonelli per Il Corriere della Sera mercoledì 6 settembre 2023.

Nega categoricamente non solo di avere ucciso la figlia, ma anche di averle negato il matrimonio con il fidanzato Saqib Ayub. Shabbar Abbas, il padre di Saman, la ragazza pakistana uccisa a Novellara, dopo l'estradizione dal Pakistan ha avuto tre colloqui con i suoi avvocati difensori, Enrico Della Capanna e Simone Servillo. 

«Abbiamo incontrato Shabbar per la prima volta sabato ma non dormiva da giorni e, a causa delle condizioni fisiche precarie, il colloquio è durato pochi minuti - spiega […] Servillo -. Lo abbiamo rivisto lunedì e martedì e […] abbiamo finalmente potuto fare il punto leggendo insieme gli atti del processo».

Nei colloqui il padre della ragazza ha negato ogni tipo di responsabilità nella morte della figlia smentendo le testimonianze rese sia da suo fratello Danish Hasnain, zio di Saman, sia dal fratello minorenne della vittima. 

«Non è vero che Danish venne a dormire a casa mia la notte dell'omicidio» , ha detto Shabbar, affermando altresì di non avere mai ostacolato le nozze di Saman. «Come fanno a dire mia figlia uccisa per motivi di religione. Se fosse così sarei una bestia. E io non sono una bestia […] Quando vidi le foto di Saman col ragazzo, decisi di incontrare i genitori di Saquib per chiedere se acconsentissero al matrimonio, ma furono proprio loro a non dare il proprio assenso affermando che il figlio doveva sposare un'altra donna».

[…] Sui possibili responsabili del delitto Shabbar Abbas non avrebbe puntato il dito contro nessuno, «semplicemente - spiega l'avvocato Servillo - avendo lo zio indicato il luogo dove venne ritrovato il corpo della ragazza, il padre per deduzione ritiene che il delitto sia avvenuto nell'ambito familiare». 

E lo stesso legale anticipa uno degli elementi che verranno usati dalla difesa in Aula. «Non posso ancora entrare nei dettagli, ma posso dire fin d'ora che nel famoso video nel quale si vede Shabbar rientrare in casa la notte tra il 30 aprile e il primo maggio, l'uomo non aveva con sé lo zaino della figlia, come si è ripetuto più volte in questi mesi».

Saman, il papà in Italia: "Giustizia più vicina". Atterrato nella notte. Nordio: "Un passo avanti". Meloni: "Vittoria diplomatica". Redazione l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.

È arrivato nelle prime ore di questa mattina all'aeroporto di Ciampino il padre di Saman, la ragazza uccisa a Novellara il primo maggio 2021. L'uomo, Shabbar Abbas, è stato arrestato in Pakistan (dove si era trasferito con la moglie) nel novembre 2022 per l'omicidio della figlia ed ora estradato. È stato preso in consegna dalla Polizia penitenziaria e trasferito temporaneamente nella casa circondariale di Roma in attesa che l'autorità giudiziaria di Reggio Emilia indichi il carcere definitivo.

«L'estradizione dal Pakistan del padre di Saman Abbas è un passo avanti importante per consentire alla giustizia di fare il suo corso - commenta la premier Giorgia Meloni - È il frutto della costante determinazione dimostrata in questo caso così delicato e complesso da tutte le autorità italiane».

L'uomo è ritenuto presunto responsabile (assieme alla moglie Nazia Shaeen, al fratello Hasnain Danish, ai nipoti Nomanulhaq Nomanulhaq e Ijaz Ikram) dell'omicidio della figlia Saman. Al termine di un lungo procedimento giudiziario l'Alta corte Pakistana all'inizio di luglio ha dato il via libera all'estradizione e, sulla scorta di questo giudizio, il governo pakistano il 29 agosto ha autorizzato il trasferimento. L'uomo verrà quindi processato e giudicato in base alle leggi italiane.

Le indagini del nucleo investigativo reggiano e del Nor della Compagnia di Guastalla hanno raccolto elementi sulle presunte responsabilità penali dei cinque parenti della ragazza (tutti attualmente a processo), a carico dei quali il 20 e il 28 maggio 2021 sono state emesse ordinanze di custodia cautelare in carcere dal Gip. Il 15 novembre 2022, l'arresto di Shabbar, pochi giorni prima che in Italia venisse trovato il corpo di Saman: le autorità di polizia pachistane, grazie all'attività dell'esperto per l'Immigrazione del dipartimento della pubblica sicurezza presso l'ambasciata d'Italia ad Islamabad, hanno dato esecuzione alla Red Notice-Interpol (la richiesta d'arresto ai fini estradizionali).

Il padre di Saman verrà consegnato all’Italia dal governo del Pakistan. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Agosto 2023

La notizia confermata da Mahmood Akhtar, il legale che ha dichiarato: "è stato emesso oggi l'avviso all'imputato". Per lui la Federal Investigation Agency ha spiccato un mandato di custodia ed estradizione.

Il governo pakistano ha disposto la consegna alle autorità italiane di Shabbar Abbas, il padre di Saman. La notizia, anticipata dalla ‘Gazzetta di Reggio Emilia’, è stata confermata all’AGI da Mahmood Akhtar, il suo legale contattato telefonicamente in Pakistan, che ha riferito che “è stato emesso oggi l’avviso all’imputato”. A luglio la corte distrettuale di Islamabad aveva espresso parere favorevole all’estradizione del padre della ragazza morta a 18 anni a Novellara. Fonti giornalistiche del Paese asiatico rendono noto che il ministero dell’Interno del Pakistan ha ordinato di prendere in custodia Shabbar Abbas nel carcere di Adiyala a Rawalpindi e consegnarlo alle autorità italiane. Per lui la Federal investigation agency ha spiccato un mandato di custodia ed estradizione.

Nel processo che si celebra in tribunale a Reggio Emilia, Shabbar è imputato assieme alla moglie e ad altri due familiari. Mancava il parere del governo pachistano che ora è arrivato. Resta, secondo quante riferisce il legale, un ulteriore tentativo di appello contro l’estradizione in un’udienza che si svolgerà oggi davanti all’Alta Corte di Islamabad. 

Per l’uccisione della 18enne sono a processo lo zio Danish Hasnain, assistito dall’avvocato Liborio Cataliotti; i cugini Ikram Ijaz (difeso dall’ avvocato Mariagrazia Petrelli) e Nomanulhaq Nomanulhaq (difeso dall’ avvocato Luigi Scarcella). Della mamma Nazia Shaheen invece si sono perse le tracce da quando, il 1° maggio 2021, è stata ripresa mentre varcava il gate dell’aeroporto di Malpensa, diretta in Pakistan con il marito, dopo aver abbandonato precipitosamente la casa di via Cristoforo Colombo a Novellara, dove la famiglia Abbas aveva vissuto per anni. La donna è tra gli imputati e viene processata in contumacia. Shabbar è stato catturato lo scorso 15 novembre, dopo una latitanza trascorsa nei pressi del suo villaggio, nel Punjab.

Ecco di cosa è accusato  

Shabbar Abbas, 47 anni, è arrivato a Novellara (Reggio Emilia) nel marzo del 2013 dal Pakistan dove ha vissuto da solo fino al dicembre del 2016 quando è stato raggiunto dalla moglie Nazia e dai figli Saman e Ali Haider. Nell’informativa dei carabinieri agli atti dell’indagine, viene definito, sulla base alle intercettazioni, come “un tipo litigioso, facile all’ira, dedito all’alcol”. Un ritratto analogo è stato fatto di lui all’indomani del ritrovamento del corpo senza vita di Saman anche dagli organi di informazione pakistani.

Nel capo d’accusa, la Procura lo descive come “determinatore” del delitto della figlia assieme alla moglie. Il movente sarebbe da ricercarsi nella volontà di punire la figlia “perché la ragazza non viveva secondo i dettami culturali musulmani e pakistani, era scappata di casa, si era rivolta ai servizi sociali che l’avevano collocata in una comunità protetta e aveva intrapreso una relazione con un ragazzo pakistano in Italia, rifiutandosi di sposare il fidanzato scelto dai genitori in Pakistan così disonorando la famiglia”.

I coniugi sono accusati di omicidio e sequestro di persona in concorso con altri 3 familiari, lo zio Danish Hasnain e i cugini Nomanulhaq e Ijaz Ikram), ritenuti gli esecutori dell’omicidio.

Nell’avviso di chiusura delle indagini si legge che “la notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021, dopo che Saman (allontanata dalla famiglia su disposizione del Tribunale per i Minorenni di Bologna il 12 novembre 2020) aveva fatto ritorno nella sua abitazione per recuperare i documenti e andarsene definitivamente di casa, i genitori, affidandola, e gli altri indagati, prendendola in consegna, con violenze e minacce la privavano della libertà personale” per poi ucciderla e seppellirla in una buca dove è stata ritrovata un anno e mezzo dopo. Secondo l’autopsia, la ragazza sarebbe stata “strangolata o strozzata”. La prossima udienza del processo, dedicato finora all’ascolto dei testimoni, è fissata per l’8 dicembre

Redazione CdG 1947

Picchiata perché rifiuta il matrimonio combinato. «È un’altra Saman». Ma la salva la preside della scuola. Protagonista una ragazza indiana nel bolognese, torturata dalla famiglia. Ma grazie alla segnalazione dell’istituto, si è attivata la Questura. Un anno fa il caso Abbas: un fenomeno che in Italia riguarda circa 2.000 bambine e ragazze ogni anno. Simone Alliva su L'Espresso il 27 Aprile 2023. 

Isolata, tenuta a digiuno due giorni dai familiari che le avrebbero dato da bere del latte dal sapore cattivo che l'ha fatta addormentare e poi risvegliare con un gran mal di testa.

Una storia di cronaca che rivela il mondo sommerso dei matrimoni forzati in Italia, quella denunciata ai suoi insegnanti da una ragazza indiana di 19 anni che accusa i familiari di maltrattamenti e di costrizione al matrimonio.

Il 13 aprile la scuola, un istituto superiore del Bolognese, ha segnalato i fatti alla Polizia. Il padre aveva scoperto che si era innamorata di un giovane connazionale e l'avrebbe picchiata: si sarebbe seduto davanti a lei dandole dei calci e avrebbe minacciato di tagliarle la gola.

La preside unica persona disposta a ospitarla

La prima segnalazione alla polizia è quindi stata fatta dalla scuola, mentre successivamente la ragazza è stata sentita e ha formalizzato la sua denuncia.

Nella notte è stata affidata e ospitata dalla preside della sua scuola: «L’unica persona disposta ad ospitarla dopo cinque ore passate in commissariato» ha dichiarato l'avvocata che la difende, Barbara Iannuccelli. «Un’altra Saman che si cerca di salvare, ma la burocrazia non riesce a farsene carico», dice sempre il legale citando la vicenda di Saman Abbas, ragazza uccisa nelle campagne attorno a Reggio Emilia per aver rifiutato un matrimonio combinato come pretendeva la sua famiglia pachistana. La Questura a si è attivata per la collocazione in una struttura protetta.

La denuncia di una parente

La scuola si è mossa a fine marzo dopo che una parente della giovane telefonò dicendo che la ragazza non stava bene e che aveva perso il cellulare. Ma il giorno dopo la ragazza raccontò a un insegnante che non aveva avuto malattie, che il telefono le era stato sottratto e mostrò i segni sul collo, che le sarebbero stati fatti dal padre dopo la scoperta della relazione con un ragazzo che, a suo dire, non avrebbe potuto avvicinare perché già promessa sposa. La giovane ha riferito anche di essersi svegliata, dopo aver bevuto il latte cattivo, e di aver trovato i suoi vestiti impacchettati. La scuola ha attivato anche volontari di un centro antiviolenza, a cui la ragazza ha ribadito i racconti.

La piaga dei matrimoni forzati in Italia

Una storia che ha come sfondo il tema complesso e sommerso dei matrimoni forzati tra le giovani di origine straniera che vivono nel nostro Paese. Sono soprattutto di fede islamica e sono costrette a matrimoni combinati e forzati con la violenza, e in alcuni casi pagano un prezzo altissimo, quello della propria vita.

Stando a quanto riporta Action Aid Italia, ogni anno sono 12 milioni le bambine e le adolescenti vittime di matrimonio precoce e forzato. Non abbiamo dati sufficienti e accurati che fotografino la situazione italiana, ma si stima che il rischio riguardi circa 2.000 bambine e ragazze ogni anno, in maggioranza delle comunità originarie di Bangladesh, Mali, Somalia, Nigeria, India, Egitto, Pakistan. Da quando il matrimonio forzato è stato inserito come reato all’interno del Codice Rosso, si sono registrati 35 reati di costrizione o induzione al matrimonio (agosto 2019 - dicembre 2021).

A mancare però sono le azioni concrete di contrasto. Infatti, il matrimonio precoce e forzato è stato citato anche nel piano antiviolenza 2021-2023, dove si parla anche di ricerca e mappatura delle pratiche. Ciò però non è accaduto perché non è stato realizzato un piano operativo e non sembra essere stato considerato una priorità.

«In Italia i matrimoni forzati sono vietati ma questo evidentemente non basta - spiegano da Amnesty International - poiché la norma può essere aggirata organizzando un matrimonio all’estero o perché si ritiene che la tradizione debba prevalere sulla legge, con esiti tragici come nel caso di Saman. Accanto alla massima vigilanza negli aeroporti, occorre investire in educazione, integrazione, protezione e rafforzamento dei diritti delle ragazze, anche attraverso provvedimenti come lo ius soli». 

La studentessa indiana salvata dalla preside: «Papà mi impone le nozze combinate, calci in pancia da mia madre». Alessandro Fulloni e Francesco Mazzanti su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023. 

La studentessa 19enne si rivolge alle insegnanti dopo essere stata picchiata dai genitori. L’avvocata: «È come Saman, va protetta». Le bugie della famiglia alla scuola: la ragazza «ha il Covid». Invece le avevano sequestrato il cellulare. Sonnifero per farla dormire

Una richiesta alla prof, la mattina di un mese fa. «Devo parlarle». Il volto provato, lacrime, lividi e graffi sul collo. «Mi hanno picchiata: mio padre, mio zio... mia madre mi ha dato un calcio in pancia. Va avanti così da mesi. Da quando mi hanno imposto un uomo da sposare ma io ho detto di no. Sono innamorata di un mio connazionale, indiano anche lui, è un 23enne, ha quattro anni più di me». Un caso che ricalca quello di Saman Abbas, la diciottenne pachistana uccisa nel Reggiano, secondo l’accusa,dai familiari — genitori, zio e due cugini —, la notte tra il 30 aprile e il 1 maggio 2021, per aver rifiutato un matrimonio combinato.

Anche stavolta siamo in Emilia-Romagna, nel Modenese, non lontano da Bologna. La ragazza ora si trova in un centro protetto, al sicuro. «Ma individuarlo non è stato semplice» scuote la testa l’avvocata Barbara Iannuccelli che l’assiste e che è anche parte civile, con il collega Claudio Falleti, al processo Saman dove tutela il fidanzato della pachistana trovata priva di vita a metà dello scorso novembre. La notte del 25 aprile la studentessa ha dovuto dormire a casa della dirigente dell’istituto professionale perché, dopo le telefonate fatte dagli agenti del commissariato nel Bolognese e dagli assistenti sociali che hanno seguito il caso, si scopre che non ci sono posti nelle strutture idonee all’accoglienza «a parte la soluzione del B&B». Al che l’avvocata s’inalbera: «Neanche a parlarne, rischia la vita». Poi la preside offre la soluzione che, per 24 ore, risolve l’impasse accordando l’ospitalità a casa sua.

Adesso la 19enne, dopo che la vicenda è stata presa in mano dalla questora di Bologna Isabella Fusiello, si trova in un centro protetto. Ci sarebbero avvisi di garanzia per maltrattamenti emessi dalla Procura di Modena che indaga. Una storia che, letta dalle carte giudiziarie, davvero, in molti passi, è simile a quella di Saman, a partire dai violenti comportamenti dei clan familiari. Il 28 marzo la giovane si confida con una sua tutor per dirle che non è vero quel che la zia ha raccontato alla scuola il giorno prima, il 27, ovvero che «mia nipote è malata: forse ha il Covid, e deve stare a casa». No, è una menzogna. La verità è che i genitori le hanno tolto il cellulare e la ragazza — uscita di nascosto per confidarsi — mostra i lividi. Segni delle percosse del padre: aveva scoperto che la figlia, promessa in sposa a un lontano familiare, è innamorata di un connazionale.

La dirigente e la tutor ascoltano, preoccupatissime, quella storia «difficile da seguire perché lei parla ancora male l’italiano». «Mi hanno messo a digiuno per due giorni — prosegue — e papà si è messo davanti a me dandomi dei calci». Segregata, in pratica. Poi le fanno bere del latte «dal sapore cattivo» che forse contiene del sonnifero. Al risveglio, con un gran mal di testa, la 19enne vede i suoi vestiti impacchettati, sembra tutto pronto per farla partire. Il padre ubriaco con la mano fa il segno della gola tagliata e sembra davvero che stia per ripetersi l’incubo di Saman. In casa non le parlano per giorni salvo dirle che dopo aver «preso la qualifica» — lei sta per finire il corso — lascerà l’Italia.

Dalla scuola avvertono subito un’associazione che si occupa di contrasto alla violenza di genere e viene contattata anche l’avvocata Iannuccelli. Il 13 aprile scatta la denuncia: c’è il «codice rosso» che prevede l’ascolto nelle 72 ore della vittima. Dopo aver confermato tutto alla polizia, la 19enne rientra a casa. Qui viene di nuovo percossa, persino la nonna le tira una scarpa. Il 25 aprile la ragazza trova la forza di lasciare la famiglia e si rifugia in commissariato.

Rifiuta il matrimonio combinato: "Vi spiego perché stava per fare la fine di Saman". Manuela Messina il 12 Maggio 2023 su Il Giornale.

Intervista a Barbara Iannuccelli, che assiste la giovane indiana picchiata e minacciata di morte dalla famiglia perché ha scelto di stare con un altro ragazzo. Il gip di Modena ha disposto il divieto di avvicinamento

Una storia che ricorda da vicino quella di Saman Abbas. Se non fosse che fortunatamente in questo caso, i segnali d'allarme sono stati raccolti in tempo e tutti hanno agito tempestivamente, evitando il peggio. È stato firmato nei giorni scorsi il provvedimento del gip di Modena con cui è stato disposto il divieto di avvicinamento per i genitori, la nonna e la zia di un'altra giovane indiana, picchiata e minacciata di morte dalla famiglia perché si è rifiutata di andare in sposa a un cugino, a cui era stata promessa quando era bambina. Barbara Iannuccelli, legale della ragazza, assiste già Ayub Saqib, il fidanzato di Saman, la giovane uccisa a Novellara nel 2021. 

Avvocato, quanto è simile questa storia a quella di Saman Abbas per cui in questo momento è in corso il processo ai familiari a Reggio Emilia?

“È del tutto identica, se non fosse che purtroppo la storia di Saman è finita in un modo diverso. Anche in questo caso la famiglia di una giovane donna rifiuta la scelta della ragazza, che vuole stare con un altro giovane e non con il cugino a cui è stata promessa, e cerca di convincerla a ritornare sui suoi passi con dei metodi terribili, dalle botte alle minacce di morte”. 

Che cosa è successo?

“La ragazza ha solo 19 anni. Aveva scelto di fidanzarsi con un ragazzo indiano di 23 anni, anche lui di religione sikh. Una scelta che non è in contrasto con il contesto culturale da cui proviene, ma i genitori non l'hanno accettata ugualmente. La ragazza ha iniziato a vivere un incubo: la picchiavano tutti, dalla nonna alla mamma, cercando di dissuaderla”. 

Chi è stato il primo ad accorgersi di questa situazione?

“È stata la preside della scuola professionale che lei frequentava, in provincia di Bologna, che l'ha anche ospitata a casa sua fino a quando non è stata al sicuro. Ora si trova in una comunità protetta, lo stesso è avvenuto per il suo fidanzato”. 

Il padre le aveva anche sottratto i documenti. Che cosa significa questo gesto?

“Per fortuna proprio ieri le sono stati restituiti tutti, dal permesso di soggiorno alla tessera sanitaria al passaporto. Questo è stato un gesto gravissimo da parte della famiglia perché senza documenti una persona immigrata non ha più nessuna libertà di decidere per se stessa. Glieli hanno tolti per farle paura: senza questi documenti tu su questo territorio non sei niente, hai bisogno di noi per qualsiasi cosa”. 

Quanto erano reali le minacce di morte?

“Questo non possiamo stabilirlo con certezza, certo il provvedimento del giudice ha messo in luce che il pericolo era concreto. Dobbiamo ringraziare il questore di Bologna, Isabella Fusiello, che ha agito prontamente per evitare il peggio. In questo caso lo Stato ha reagito subito”. 

Quali altri aspetti ha messo in luce il gip nel provvedimento?

“Ha spiegato che non è ammissibile nel nostro Paese un modello culturale in cui vige l'imposizione del matrimonio da parte della famiglia. Tutto il provvedimento del gip di Modena Andrea Scarpa si basa sul principio cardine dell'autodeterminazione dell'individuo, che è centrale nella nostra democrazia”.

Parlare meno di Fedez e Rovelli e più della preside che ha evitato un nuovo caso Saman Abbas. Matteo Renzi su Il Riformista il 4 Maggio 2023 

Due anni fa il concertone del Primo Maggio fu dominato dalle polemiche sulla presunta censura di Fedez. Una giornalista della RAI, Ilaria Capitani, fu sottoposta al massacro social dai fan del cantante, senza alcuna ragione. Per giorni i media si occuparono della vicenda e non vi fu politico che non sentì il bisogno di intervenire sul tema. Mentre la bolla si accapigliava sul niente, proprio nelle ore del concertone, una ragazza di origini pachistane residente in Emilia Romagna, di nome Saman Abbas,

spariva all’improvviso. Nel silenzio più totale.

La colpa di Saman era di amare un ragazzo, di baciarlo, di rifiutare il matrimonio forzato che la sua famiglia aveva scelto per lei. Per questo i suoi genitori insieme ad alcuni parenti decisero di ucciderla. È accaduto davvero, è accaduto in Italia, è accaduto due anni fa. Il corpo è stato ritrovato soltanto da poche settimane, il processo procede con lentezza, quei genitori che fatico a definire tali sono scappati in Pakistan e inseguiti dalla giustizia italiana.

Tutte le volte che ci penso mi domando cosa sia passato nel cuore di quella madre, in quei momenti. Due anni dopo, come ogni Primo Maggio, arriva il concertone. E puntuali eccoti le polemiche con il professor Rovelli, stimato fisico, che attacca il Ministro della Difesa, Crosetto. Ne parliamo anche noi, sul Riformista di oggi, difendendo Crosetto, uno dei migliori ministri di questo Governo. Nessuno immagina di spiegare a Rovelli la fisica, ma certo non andremo da lui a ripetizione di politica.

Ed è incredibile come quel palco trasformi anche una persona mite in un Catone arrogante. O, non è il caso di Rovelli ma di altri, in un cafone ignorante. Però il nodo non è questo. Il nodo è che nelle stesse ore, casualmente ancora a ridosso del Primo Maggio, poteva esserci un altro caso Saman Abbas. Ed è stata brava una preside, che ha ospitato e protetto una studentessa del suo istituto, diciannovenne di origine indiana, che rischiava di essere uccisa per le stesse ragioni. Non è un caso isolato, ne sono testimone diretto. Le professoresse, le dirigenti scolastiche, le educatrici (e gli educatori) ogni giorno salvano vite nel silenzio.

Non fanno notizia come Fedez o Rovelli ma sono le vere colonne di una società più giusta. Oggi i professori lottano contro il discredito sociale che si è abbattuto sulla loro categoria: mezzo secolo fa un maestro, un professore avevano il consenso dell’opinione pubblica e delle famiglie. Oggi chi insegna è preso di mira, quasi compatito e persino noi genitori tendiamo, sbagliando, a dare ragione ai figli più che agli educatori. Bisognerebbe parlare meno di Fedez e di Rovelli e più di chi in prima linea ogni giorno educa, restituendo valore sociale a chi insegna. Ma iniziando a cambiare noi, guardando con occhi diversi gli educatori a cui abbiamo affidato i nostri ragazzi. E parlando di scuola, sul serio, non con gli slogan dei concertoni. Matteo Renzi

"Cinque minuti di agonia". Così è morta Saman Abbas. Rosa Scognamiglio il 14 Maggio 2023 su Il Giornale.

Due uomini le hanno immobilazzato gambe e braccia mentre un terzo la strangolava a mani nude. L'agonia della ragazza è durata "cinque o forse sei minuti". L'identificazione del cadavere è avvenuta grazie all'ultimo video-selfie.

L'agonia di Saman Abbas è durata "cinque, forse sei minuti". È quanto emerge dalla relazione firmata dall'anatomopatologa forense Cristina Cattaneo, incaricata dalla procura di Reggio Emilia di produrre accertamenti tecnici sulla salma della 18enne pachistana uccisa a Novellara nella notte tra il 30 aprile e l'1 maggio del 2021. Nella testimonianza resa al processo per l'omicidio della giovane, l'esperta ha spiegato anche che la vittima è stata strangolata a mani nude e poi sepolta quando già aveva smesso di respirare.

“Saman Abbas poteva essere salvata. E la madre non sarà mai cercata”

L'agonia di Saman

Una tragica e sofferta agonia quella della povera Saman, vittima di una congiura familiare per essersi opposta al matrimonio forzato con il cugino in Pakistan. Secondo la professoressa Cattaneo, co-firmataria del referto tecnico elaborato assieme al professor Biagio Leone, la frattura dell'osso ioide (una cartilagine del collo), evidenziata in sede autoptica, dimostra con buona approssimazione che la giovane è stata strangolata. "La frattura dell'osso ioide - scrive il quotidiano La Stampa rilanciando le dichiazioni testimoniali dell'esperta - è un trauma tipico nei casi di strangolamento". E ha aggiunto un particolare: Saman era giovane e le sue cartilagini molto flessibili. Ciò significa che chi l'ha strangolata ha esercitato una notevole pressione nella zona interessata dalla lesione mortale. Non solo. La presenza di "abbondante" sangue nei polmoni conferma che l'agonia è durata "cinque, forse sei minuti". Ed infine, l'assenza di terra nella bocca restituisce un altro dato importante: la sepoltura è avvenuta dopo il decesso.

Il riconoscimento del cadavere

Il corpo senza vita di Saman è stato ritrovato lo scorso 18 novembre in un casolare abbandonato distante appena poche centinaia di metri dalla casa di Novellara in cui viveva con i genitori e il fratello minore. I video in modalità autoritratto (selfie) che la giovane aveva registrato nei giorni precedenti al misfatto hanno consentito di indentificare "al di là di ogni ragionevole dubbio", scrive il quotidiano torinese, le sue spoglie. Venerdì mattina, in aula a Reggio Emilia, la professoressa Cattaneo ha illustrato "la perfetta corrispondenza tra tutti gli elementi dentali messi a confronto", ovvero, il filmato in cui la 18enne sorride e le risultanze emerse dall'autopsia. Ritornando alla durata dell'agonia, invece, l'esperta ha precisato che "se la vittima è stata stordita, i tempi sono più brevi. Se si è opposta più lunghi". Ma l'assenza di tracce relative a un eventuale colpo alla testa non lascia speranze: forse Saman è rimasta cosciente fino all'ultimo respiro.

Estratto dell’articolo di Filippo Fiorini per “La Stampa” il 14 maggio 2024. 

Il video in modalità autoritratto che Saman Abbas girò sorridendo con il proprio cellulare è servito a identificare al di là di ogni dubbio le sue spoglie, poiché le peculiarità dei denti coincidono. 

La frattura dell'osso ioide, una cartilagine del collo, invece, mostra che è stata strangolata e che per farlo sono state usate le mani, premendo con particolare forza. La mancanza di traumi al cranio, lascia supporre che sia sempre rimasta cosciente. 

L'assenza di terra all'interno della gola, fa capire che era già morta quando è stata sepolta. Il sangue trovato nei polmoni, infine, descrive «i cinque, forse sei», tragici minuti di agonia, in cui la 18enne pakistana tentava di respirare, mentre i suoi carnefici glielo impedivano.

Nella sua testimonianza al processo per omicidio dove sono imputati Shabbar Abbas (padre, mandante), Nazia Shaheen (madre, mandante), Noumanoulaq Noumanoulaq, Ikram Ijaz e Danish Hasnain (cugini e zio, esecutori materiali), l'anatomopatologa Cristina Cattaneo ha usato la scienza forense per riportare il tempo alla notte del 30 aprile 2021. 

Secondo quanto ricostruito dai carabinieri e dalla procura di Reggio Emilia, Saman, da mesi in scontro con la famiglia che voleva imporle uno stile di vita islamico e integralista, accetta di essere accompagnata in stazione a Novellara dai genitori con la promessa di essere libera. Manca poco alla mezzanotte e, lasciatasi alle spalle la casa in cui è cresciuta in un clima di segregazione, viene invece consegnata nelle mani dei due cugini e dello zio.

Mentre questi ultimi […] continuano a professarsi innocenti (la madre è latitante in Pakistan e il padre è in carcere in quello stesso Paese, che con motivazioni varie continua a rimandare la sua estradizione in Italia), la professoressa Cattaneo non ha potuto indicare chi abbia fatto cosa, ma ha stabilito con buona approssimazione come tutto è avvenuto.  […] ha illustrato «la perfetta corrispondenza tra tutti gli elementi dentali messi a confronto»: da un lato il video selfie in cui Saman sorride, dall'altro il cadavere da identificare. 

Poi, ha spiegato […] che «la frattura dell'osso ioide è un trauma tipico nei casi di strangolamento». E ha aggiunto un particolare: Saman era giovane, le sue cartilagini flessibili. Per arrivare a rompere lo ioide, è stata usata una forza fuori dal comune.

Con dichiarazioni testimoniali e intercettazioni che indicano nei cugini Ikram e Noumanoulaq coloro che la tenevano bloccata e nello zio Danish colui che l'ha strozzata, specialmente drammatica è stata la risposta che questa esperta […] ha dato in merito ai tempi della morte: «Secondo la letteratura, le morti per asfissia avvengono nell'arco di poco tempo. 5, forse 6 minuti. Se la vittima è stata stordita, i tempi sono più brevi. Se si oppone, più lunghi». […]

Saman Abbas poteva essere salvata. E la madre non sarà mai cercata”. Al processo per l'omicidio di Saman Abbas, il fidanzato Saqib Ayub è difeso come parte civile dall'avvocato Barbara Iannuccelli. "Si è ritrovato in mezzo a un incubo che mai avrebbe immaginato di vivere", racconta la legale. Angela Leucci il 28 Aprile 2023 su Il Giornale.

Il 30 aprile 2023 sono 2 anni dalla scomparsa - e dall’omicidio - di Saman Abbas. La 18enne, che viveva a Novellara, si era rivolta ai servizi sociali italiani ed era stata posta in una struttura protetta: la sua famiglia aveva scelto per lei il matrimonio forzato con un cugino più vecchio di 10 anni in Pakistan. Ma lei si era innamorato di un quasi coetaneo, un pakistano che vive in Italia, Saqib Ayub: lui appartiene a una casta più bassa rispetto agli Abbas, che avrebbero ostacolato il matrimonio, anche attraverso minacce.

Dopo quasi un anno e mezzo dalla scomparsa, a novembre 2022 il corpo di Saman Abbas è stato ritrovato a 700 metri dalla casa dei genitori, su indicazione di uno zio alla polizia penitenziaria. Anche se gli esperti sono ancora al lavoro sulla scena del crimine, il ritrovamento ha confermato per gli inquirenti alcune ipotesi, che hanno portato all’imputazione di 5 famigliari della giovane nel processo iniziato a febbraio 2023 per sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere.

Sono stati rinviati a giudizio il padre Shabbar Abbas, in carcere in Pakistan e in attesa di eventuale estradizione, la madre Nazia Shaheen ancora latitante, e tre parenti in carcere in Italia: Danish Hasnain, che ha rivelato il luogo dell’occultamento, Ikram Ijaz e Noumanoulaq Noumanoulaq. Principale testimone per l’accusa è il fratello di Saman Abbas, oggi maggiorenne, ma ancora in una struttura protetta in Italia.

Il fidanzato della giovane, Saqib Ayub, è parte civile nel processo ed è difeso da Claudio Falleti e da Barbara Iannuccelli dell’associazione Penelope. “Le difese degli imputati hanno chiesto che in aula vengano a deporre sia Saqib che il fratello di Saman”, ha spiegato Iannuccelli a IlGiornale.it.

Avvocato Iannuccelli, lei è una dei legali di Penelope e ora lei sta difendendo Saqib Ayub in quanto parte civile nel processo per l’omicidio di Saman Abbas.

“Penelope è stata ammessa come parte civile in udienza preliminare ed eravamo due associazioni soltanto, il 17 maggio 2022. Per questo motivo, dopo l’ammissione, io ho partecipato a tutte le operazioni successive, relativamente al ritrovamento del corpo di Saman e all’autopsia e così via. Invece in udienza in Corte d’Assise, visto che c’erano 30 associazioni che chiedevano l’ammissione, allora la presidente ha ammesso soltanto quelle nel cui statuto era previsto espressamente il femminicidio oppure la natura confessionale come nel caso delle associazioni islamiche”.

Saqib Ayub ha deciso di non partecipare alle udienze, per paura e per dolore. Come sta vivendo queste fasi del processo?

“Saqib ha 20 anni e si è ritrovato in mezzo a un incubo che mai avrebbe immaginato di vivere. Ha perso nel modo peggiore la persona che amava e con la quale voleva sposarsi, tant’è che Saman e Saqib avevano organizzato il loro matrimonio, comprato anche l’abito da sposa, e si preparavano a vivere una vita insieme”.

E poi?

“Saman è tornata a casa (ad aprile 2021, ndr), perché la mamma l’ha convinta che sarebbero cessate le minacce ai danni dei parenti di Saqib. Shabbar Abbas a gennaio (2021, ndr) è andato in Pakistan e con altre persone aveva sparato in aria intorno alla casa dei genitori di Saqib, entrando anche dentro e minacciandoli di morte, perché Saqib doveva lasciar stare Saman, che era promessa sposa al cugino. Quindi sostanzialmente la povera Saman si motiva a ritornare a casa anche per questo, perché la mamma le aveva detto ‘Se torni accetteremo le tue decisioni’ e per riprendere i documenti, che sarebbero serviti a entrambi per sposarsi”.

Quindi?

“Quindi Saqib ha vissuto per un anno e mezzo il dolore di una scomparsa, che però metabolizzava dicendo ‘magari si sta nascondendo da qualche parte’. Ovviamente lui, come ogni famigliare di persona scomparsa, non pensava mai alla cosa peggiore: i famigliari si appigliano alla speranza che comunque non vedono il proprio caro per altri motivi diversi dall’evento tragico, dalla morte. E lui non ha fatto differenza. Quando è stato ritrovato il corpo, è precipitato in una condizione di maggiore paura e depressione semplicemente perché in parte si sentiva anche responsabile di tutto quello che era accaduto”.

Cos’è accaduto dopo?

“Successivamente la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha preso in carico le istanze che da sempre l’avvocato Falleti faceva per far entrare in Italia i genitori di Saqib, e questo avvenimento ha fatto arrivare in Italia i 4 famigliari di Saqib, i due genitori e due fratelli. E quindi diciamo che questa buona notizia, oltre che rasserenare un po’ il povero Saqib relativamente alla paura di perdere anche altri membri della sua famiglia, gli ha fatto vedere le cose in un modo completamente diverso. Per cui queste persone stanno cercando di rimettere insieme i pezzi della loro vita”.

È possibile che Saqib Ayub dovrà testimoniare?

“Saqib e il fratello di Saman hanno reso incidente probatorio. Questo vuol dire che nel 2021, nel corso delle indagini preliminari, è stata aperta una finestra dibattimentale. Sono già una prova, come se fossero date nel corso del dibattimento”.

Sono state cristallizzate.

“Lo si fa sempre quando si ha paura che la persona lasci il territorio italiano, anche perché sono verbali che vanno a finire direttamente nel fascicolo del dibattimento. Il giudice, la corte ne prende immediatamente visione senza la necessità di sentire direttamente la persona insieme a tutti gli altri testimoni del processo. Però le difese degli imputati hanno chiesto che in aula vengano a deporre sia Saqib che il fratello di Saman. Su questa richiesta la corte non ha ancora sciolto la sua riserva”.

In una passata udienza ha cercato di ricostruire possibili ed eventuali omissioni da parte dei servizi sociali. Si poteva fare di più con Saman Abbas?

“Saman sicuramente poteva essere salvata. Nel 2020, quando andò in Belgio e poi rientrò, denunciò il matrimonio forzato e tutta una serie di condotte da parte dei suoi famigliari che integravano sicuramente l’ipotesi di maltrattamenti. In Italia vige il Codice Rosso, che prevede che entro 3 giorni sia posta una sorta di distanza tra gli aguzzini e il maltrattato. Questo in Italia non è accaduto per Saman: i genitori sono risultati destinatari soltanto di un decreto penale di condanna per tentata induzione al matrimonio forzato, con l’applicazione di una multa”.

E invece?

“E invece noi riteniamo che, se fosse stato applicato il Codice Rosso non sarebbe stata Saman a dover essere portata via, ma normalmente accade che in capo agli aguzzini siano poste misure cautelari. Per quanto riguarda la gestione degli assistenti sociali, cosa che io ho teso a evidenziare in udienza, è che il 13 febbraio 2021 Saman veniva portata dai carabinieri a fare la denuncia di smarrimento del permesso di soggiorno, che però era scaduto a settembre 2020. Una denuncia del tutto inutile”.

Che significa?

“È stato un tentativo diciamo inutile dal punto di vista legale, perché invece la cosa che si sarebbe dovuta fare era quella di iniziare un percorso per far avere a Saman un legittimo titolo per farla rimanere in Italia. E questo probabilmente avrebbe disinnescato nella testa di Saman questa urgenza nell’avere i documenti. Con ogni probabilità, rasserenata su questo, avrebbe avuto il suo titolo per rimanere in Italia e magari a casa non ci sarebbe tornata più. Fermo restando la grande opera di investigazione che è stata effettuata, però è ovvio che quando si fa un processo si cercano di capire i presupposti dell’accaduto. Sicuramente Saman e Saqib erano molto innamorati, avevano questa spinta fortissima a volersi costruire un futuro insieme e non li reggeva nessuno. Saman, su questa onda propulsiva è tornata a casa, voleva i suoi documenti”.

Aristotele scrisse: “La legge è la ragione libera dalla passione”. Ha mai avuto cedimenti emotivi durante questo caso?

“Tantissimi, è l’unico motivo per cui tenacemente sono rimasta ancorata a questo processo. È stata appunto quell’immagine, quando ho visto il corpo di Saman sul lettino dell’obitorio milanese con i jeans strappati sulle ginocchia, che poi sono gli stessi jeans che indossava quella mattina mia figlia di 16 anni per andare a scuola. Ho affrontato tutto con una grande emotività ed empatia, prima di essere un avvocato sono una mamma e cerco, attraverso la mia professione, di cambiare nel mio piccolo la realtà per tutte le altre mamme che vivono una condizione simile. Davanti al corpo di Saman ho pianto, perché ho pensato che avrebbe meritato miglior fortuna. Anzi, le dirò di più”.

Dica.

“Proprio l’altro giorno abbiamo fatto un sopralluogo nei luoghi dell’omicidio di Saman, e quindi a casa sua, nel casolare dove è stato ritrovato il corpo, a casa degli imputati, e devo dire che dentro di me ho pensato: c’è tantissima gente oggi, il mondo intero si è accorto di Saman solo quando è morta. Quando era in vita?”.

Crede che Shabbar Abbas sarà estradato?

“Ho avuto sempre la netta sensazione che purtroppo non accadrà. Facendo l’avvocato e analizzando quello che è un sistema - soltanto dal 2016 il codice penale in Pakistan è cambiato e non considera più legittima la causa d’onore come motivo per un omicidio. Ci vogliono generazioni su generazioni affinché la mentalità cambi, sia per chi deve giudicare sia per l’intera popolazione di un Paese. Secondo me, si fa fatica a pensare di poter avere Shabbar, che ha ucciso la figlia per motivi di onore, perché magari per loro l’onore è ancora importante nonostante la recente modifica del codice penale”.

Ci sono speranze per l’arresto di Nazia Shaheen?

“No, assolutamente no. Ne ho parlato a lungo con un mediatore culturale che mi ha spiegato che la donna non la consegneranno mai, non la cercheranno mai. E non è vero che non sanno dove sia, sono convinta che Nazia sia a casa sua e basta. Quindi noi abbiamo a che fare con un Paese con il quale non esistono accordi di reciprocità, per cui dobbiamo stare alle loro valutazioni discrezionali, senza avere una forza cogente da parte di una legge”.

In che senso?

“Adesso Shabbar ha chiesto di partecipare in videocollegamento al processo. Che cosa dirà? Non si sa. Attraverso il suo avvocato diceva che la colpa per la morte di Saman è di Saqib. Addirittura Saqib avrebbe avuto un acconto su 20mila euro, consegnato direttamente in Pakistan alla sua famiglia, per riportare Saman, viva o morta, in Pakistan. A fronte di queste assurdità che vengono dette, che cosa ci possiamo aspettare?”.

Danish Hasnain è stato ritenuto da sempre, dagli inquirenti, l’esecutore materiale del delitto. Ora però testimonia che sia stata la cognata Nazia Shaheen a uccidere la figlia, e che lui non c’era affatto, dormiva. Crede che la posizione sostenuta da Danish sia legata a una strategia difensiva?

“Assolutamente sì. Durante il sopralluogo abbiamo visitato tre luoghi: la casa dove vivevano i 3 imputati, la casa di Saman dove lei viveva con Shabbar e Nazia e il casolare dove è stato trovato il corpo. Le garantisco che la distanza tra la casa degli imputati e la casa della famiglia Abbas non è così rilevante da giustificare ciò che si vuole far passare. Vengono messi in discussione orari delle telecamere, confrontandoli con gli orari dei tabulati e del resto ognuno fa il proprio mestiere, cerca in qualche modo di far superare un ragionevole dubbio, che è alla base del nostro sistema democratico”.

Cosa c’entrano i filmati?

“Si vuole, in buona sostanza, dimostrare che per quel video in cui si vede per l’ultima volta Saman coi genitori andare verso il viottolo, verso quell’oscurità che la inghiottirà per sempre, in quell’orario Danish non era lì. E quindi buttare la responsabilità sugli altri due, anche perché, con il ritrovamento del corpo, oggi possiamo dire che Saman non è morta di freddo, qualcuno l’ha uccisa. La difesa di Danish fa il suo mestiere, credo che sarà molto difficile individuare chi materialmente ha compiuto l’omicidio”.

Vi racconto la verità su Saman”: cosa ha detto il fratello a un carabiniere. Al processo per l'omicidio di Saman Abbas un carabiniere racconta cosa gli disse il fratellino della giovane, che accusa lo zio di essere esecutore materiale del delitto. Angela Leucci il 14 aprile 2023 su Il Giornale.

Le forze dell’ordine italiane sono state importantissime nel caso di Saman Abbas. E oggi al processo in corte d’assise a Reggio Emilia un carabiniere della stazione di Guastalla ha raccontato della testimonianza resa dal fratello della giovane: il ragazzino, oggi maggiorenne ma ancora in una struttura protetta per via del processo in corso, fu fermato mentre insieme con il cugino Ikram Ijaz, oggi tra i 5 imputati per sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere, cercava di riparare all’estero.

Il militare che ha parlato si chiama Antonio Matassa e raccolse le parole del ragazzino il 15 maggio 2021, un paio di settimane dopo l’omicidio. Matassa ha spiegato che il giovanissimo passò da un’iniziale scarsa loquacità al bisogno di raccontare ciò che diede inizio alle indagini.

Era provato ma abbastanza collaborativo con le domande - ha chiarito infatti Matassa - Non restio a rispondere ma non molto loquace. Quando abbiamo cominciato a parlare della scomparsa di Saman, si è accasciato, aveva gli occhi lucidi e gonfi con le lacrime, parlava con voce tremula. Dopo un'ora che parlavamo ha affermato: ‘Ok, ora vi dico tutta la verita’ e ha cominciato a parlare in modo molto libero, senza bisogno di fargli domande. Mi sembrava che si stesse liberando”.

Si tratta di una testimonianza cruciale, perché è stato grazie a quella che gli inquirenti hanno ipotizzato da subito che il presunto delitto d’onore fosse maturato in ambito famigliare, come “risposta” all’opposizione di Saman al matrimonio forzato con un cugino più vecchio di 10 anni. E fu sempre il ragazzino a puntare il dito contro lo zio Danish Hasnain, ritenuto dagli inquirenti l’esecutore materiale dell’omicidio.

"Non voleva essere musulmana". Chi era Saman secondo l'assistente sociale

Saman scomparve (e fu in realtà uccisa) la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021 a Novellara. Per il suo caso sono stati rinviati a giudizio il padre Shabbar Abbas, detenuto in Pakistan, la madre Nazia Shaheen ancora latitante, lo zio Danish, i cugini Ikram e Noumanoulaq Noumanoulaq. Questi ultimi tre sono detenuti in Italia e stanno partecipando al processo di Reggio Emilia.

Danish al momento ha reso una testimonianza in contrasto con il nipote: l’uomo ha raccontato alla polizia penitenziaria, portando i militari nel luogo di occultamento del corpo, a 700 metri dalla casa degli Abbas, che sarebbe stata Nazia a uccidere la figlia. Danish ha aggiunto più volte che avrebbe avuto un ottimo rapporto con la nipote e non risulta il suo nome nella denuncia presentata alla fine del 2020 da Saman contro i famigliari, come pure testimoniato dai servizi sociali che la presero in carico.

Daniele Petrone per ANSA l’8 aprile 2023.

 Tre rose bianche legate dal nastro biancorosso delle forze dell'ordine che delimitano l'accesso al casolare e, poco più lontano, pupazzetti, nastri, foto, letterine e fiori come una sorta di altare in suo ricordo. È ciò che resta della "tomba" di Saman Abbas, la 18enne pachistana uccisa nel Reggiano, nella notte tra il 30 aprile e l'1 maggio 2021, presumibilmente dalla sua stessa famiglia nel nome di un 'delitto d'onore' dopo aver rifiutato un matrimonio forzato con un cugino in patria.

A 140 giorni dal ritrovamento del suo cadavere - il 18 novembre scorso su indicazione dello zio Danish Hasnain, uno dei cinque imputati per l'omicidio - i carabinieri hanno completato gli accertamenti investigati nel rudere del casolare di Strada Reatino a Novellara di Reggio Emilia, a poche centinaia di metri dalla casa dove la ragazza viveva coi familiari che lavoravano come braccianti agricoli in un'azienda ortofrutticola. La raccolta degli ultimi reperti utili si è chiusa con un prelievo di circa due quintali di terra nell'area dove era stata seppellita Saman, stoccati all'interno di due grandi container e trasportati all'aeroporto milanese di Linate, a disposizione di Dominique Salsarola, uno degli archeologi forensi incaricati dal tribunale di Reggio Emilia di redigere una perizia tecnica.

Per questo presidio dei carabinieri, durato quasi cinque mesi, è stato ufficialmente sciolto seppur l'edificio diroccato resti sotto sequestro da parte della magistratura, con la sindaca di Novellara, Elena Carletti che ha emanato anche un'ordinanza con l'obiettivo di evitare pure fenomeni di turismo macabro. "Il casolare è inagibile e pericolante - ha detto - Tra due settimane sarà realizzata un'ulteriore recinzione, ancora più alta per evitare che qualcuno possa entrarvi".

Una tomba inaccessibile dunque, in attesa che Saman possa avere una degna sepoltura, anche solo simbolica (visto che i resti sono ancora sotto autopsia e saranno conservati per diversi anni nel caso dovessero servire per essere rianalizzati nei vari gradi di giudizio); sui funerali dovrà decidere per legge il fratello (essendo i genitori imputati), divenuto maggiorenne il 25 febbraio scorso, il quale è ancora in una struttura protetta e che a riguardo non si è però mai espresso.

 Intanto, il 14 aprile riprende il dibattimento al processo in corso davanti alla Corte d'Assise di Reggio Emilia, dove oltre allo zio sono alla sbarra i cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq (tutti e tre in carcere), la madre di Saman, Nazia Shaheen (ancora latitante) e il padre Shabbar Abbas, in cella in Pakistan dopo essere stato arrestato il 15 novembre scorso. Quest'ultimo comparirà davanti al giudice di Islamabad l'11 aprile, udienza nella quale si discuterà della fattibilità del videocollegamento col processo in Italia al quale ha acconsentito in attesa che venga presa una decisione sull'estradizione.

Resta da capire se i tempi tecnici consentiranno di vedere già, anche se a distanza, Shabbar comparire tre giorni dopo in tribunale a Reggio Emilia. Dove è atteso invece fisicamente per testimoniare un ragazzo afgano che vive in Belgio, dal quale Saman si rifugiò nel 2020 scappando di casa dopo aver rifiutato le nozze combinate: fu proprio il giovane amico (più grande di lei di sette anni) conosciuto in chat a denunciare per primo i genitori di Saman alle autorità belghe.

Ha conoscenze in tribunale”: Saqib teme il padre di Saman. Il fidanzato di Saman Abbas torna a parlare dopo molto tempo e dopo le accuse dei rinviati a giudizio: ha paura e chiede che i genitori vengano in Italia come rifugiati. Angela Leucci l’1 Aprile 2023 su Il Giornale.

Il fidanzato di Saman Abbas risponde per la prima volte alle accuse della famiglia e dei legali degli imputati. Lontano dai media da molto tempo - per lui ha parlato più volte il suo legale Claudio Falleti, che lo sta seguendo in quanto il giovane è parte civile nel processo - Saqib Ayub si è aperto alle telecamere di Quarto Grado.

Saman è scomparsa da Novellara la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021, ma il suo corpo è stato ritrovato solo a novembre 2022 su indicazione di uno degli imputati. Sono stati rinviati a giudizio il padre Shabbar Abbas in carcere in Pakistan, la madre latitante Nazia Shaheen, lo zio Danish Hasnain che ha indicato alla polizia giudiziaria il luogo dell’occultamento, i cugini Ikram Ijaz e Noumanoulaq Noumanoulaq.

Sia Shabbar che Danish hanno puntato il dito contro Saqib. Secondo Shabbar, il giovane avrebbe avuto un ruolo nell’omicidio della figlia e gli avrebbe chiesto l’equivalente di 20mila euro in rupie per portare la 18enne in Pakistan, mentre Danish afferma che Saqib non amasse Saman, ma non avrebbe potuto sposarla per questioni di casta.

L’avvocato di Shabbar dice solo bugie - ha commentato Saqib a Quarto Grado - Parlando si possono dire tante cose, è facile inventare. Ma se lui era innocente perché è scappato dopo un giorno?”. Saqib si riferisce al fatto che ieri in aula a Reggio Emilia il titolare di un’agenzia di viaggi ha raccontato dell’acquisto dei biglietti aerei per Shabbar e Nazia, 2-3 giorni prima dell’omicidio della 18enne, ma la partenza è avvenuta poche ore dopo il delitto.

Secondo Saqib il sintomo di qualcosa che non quadrerebbe è nel fatto che Shabbar “non si presenta mai in tribunale a Islamabad”, tanto che per 15 volte è stato rinviato il processo. Al giornalista che gli chiede: “Quindi ha conoscenze anche in tribunale?”, Saqib risponde di sì, e che, se Shabbar è innocente, dovrebbe tornare in Italia e farsi processare.

"Non voleva essere musulmana". Chi era Saman secondo l'assistente sociale

Il giovane pakistano di cui Saman era innamorata ha anche affermato di aver ancora paura, sebbene le ultime minacce di Shabbar risalgono a gennaio 2022. “È potente e pericoloso”, ha detto del padre di Saman, aggiungendo che l’uomo non dimentica. E ha anche rivolto un appello diretto al ministro degli Esteri Antonio Tajani per portare i genitori in Italia come rifugiati.

L’avvocato di Danish, Liborio Cataliotti, ha spiegato una frase resa nella testimonianza del suo assistito: “Saqib ha usato Saman”. Secondo il legale, Danish avrebbe inteso che Saqib faccia parte di una casta superiore, ma il giovane smentisce: “La mia famiglia è povera e i miei genitori sono malati”. E poi rincara: “Volevo sposare Saman. È nel mio cuore e ci sarà sempre”.

(ANSA il 28 marzo 2023) Il magistrato di Islamabad ha respinto l'istanza di rilascio su cauzione di Shabbar Abbas, il padre di Saman arrestato in Pakistan a novembre e per cui l'Italia ha chiesto l'estradizione. Procura e Carabinieri di Reggio Emilia lo accusano dell'omicidio della figlia 18enne, morta a Novellara nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021, in concorso con altri quattro parenti tra cui la moglie Nazia Shaheen, unica ancora latitante. Saman sarebbe stata assassinata per aver rifiutato un matrimonio combinato dalla famiglia. Il procedimento sull'estradizione di Abbas prosegue.

"Saman temeva di essere registrata". Lo zio Danish punta il dito sul nipote. Danish Hasnain aggiunge alla sua versione molti dettagli, anche su quella notte a Novellara. Cosa si dovrà stabilire al processo per l'omicidio di Saman Abbas. Angela Leucci il 25 Marzo 2023 su Il Giornale

Tabella dei contenuti

 La nuova versione di Danish

 Le riprese inedite

 Un visto per i parenti di Saqib

Non c’è pace per Saman Abbas: i genitori del fidanzato Saqib potrebbero essere in pericolo a causa delle minacce subite e intanto lo zio della 18enne aggiugne nuovi dettagli sulla notte dell’omicidio. Saman scomparve da Novellara la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021. Il suo corpo è stato ritrovato a metà novembre 2022 su indicazione dello zio Danish Hasnain, attualmente detenuto in Italia e sotto processo. Nel procedimento giudiziario italiano per sequestro di persona, omicidio volontario e occultamento di cadavere sono stati rinviati a giudizio il padre di Saman Shabbar Abbas, attualmente imputato in Pakistan per lo stesso crimine, la madre Nazia Shaheen ancora latitante, lo zio Danish, i cugini Ikram Ijaz e Noumanoulaq Noumanoulaq.

La nuova versione di Danish

Ora Danish, dopo aver portato la polizia giudiziaria sul luogo dell’occultamento del corpo della nipote e aver fornito una versione personale dei fatti, che in parte si sospetta non riscontrata dai tabulati telefonici, aggiunge nuovi dettagli, puntando anche il dito verso il fratellino di Saman, ora diventato maggiorenne ma ancora in una comunità protetta in Italia.

Il 29 aprile Saman è venuta a casa mia e mi ha detto che mi voleva parlare - ha raccontato Danish all'interrogatorio col pm, il verbale delle dichiarazioni è stato depositato in udienza - C’era anche il fratello ma Saman non voleva che sentisse. Mi ha detto che era sicura che lui stava registrando le sue telefonate. Saman utilizzava spesso il telefono del fratello e il mio. Quel giorno aveva in mano un altro telefono, che era quello di Nazia, proprio perché aveva paura che lui registrasse le sue telefonate”. Al contrario di quanto afferma Danish, il fratello di Saman avrebbe parlato inizialmente di un ruolo chiave dello zio nell’omicidio, tanto che gli inquirenti l’hanno ritenuto finora esecutore materiale.

Il 30 aprile alle 22.30 ho spento il telefono e ho dormito - ha continuato Danish nella sua narrazione - Ikram e Noumanoulaq (i cugini, ndr) mi hanno svegliato e mi hanno detto che gli avevano telefonato e che c’era stato un litigio e c’era scappato il morto. Abbiamo fatto il percorso che vi ho fatto vedere quando abbiamo fatto il sopralluogo. Io ho chiesto: ‘Come mai?’. E loro mi hanno detto: ‘Per non essere visti dalle telecamere’. Siamo arrivati davanti a casa e ho visto Saman morta sdraiata, con il collo strano, stretto. Ho cominciato a urlare forte e a maledire tutti, a piangere e ho perso i sensi. Quando mi sono risvegliato, i due mi hanno sorretto e mi hanno dato dell’acqua. Ho visto che avevano i guanti in mano e ho sentito che dicevano che era stata la madre”.

Dopo questa narrazione, la cui dinamica aggiunge molto rispetto a quella fatta nei pressi delle serre alla polizia giudiziaria, Danish ha spiegato di aver voluto rivolgersi alle forze dell’ordine italiane: “Ho detto che volevo chiamare i carabinieri ma non avevo il telefono e nemmeno gli altri due lo avevano. Mi hanno detto che, se volevo chiamare, dovevo tornare a casa e prenderlo oppure di andare a bussare alla porta della famiglia e farmi dare un telefono, così diremo che sei stato tu a ucciderla. Io penso che mi abbiano chiamato perché volevano uccidermi per il mio buon rapporto con Saman ed ero d’accordo sulla sua relazione con Saqib. Poi non so perché non mi hanno ucciso. A pensarci bene, la buca era troppo grande per una sola persona”.

Danish è stato latitante per circa 6 mesi, prima di essere estradato dalla Francia. Ikram Ijaz è stato invece catturato ed estradato mentre cercava di fuggire in Spagna con il fratello di Saman. Noumanoulaq Noumanoulaq è stato invece l’ultimo di loro a essere tradotto in Italia, grazie anche a un mandato di cattura europeo. “Siamo scappati - ha chiarito Danish - perché avevamo paura di essere messi in prigione. Gli altri mi hanno incastrato perché sapevano che io avrei parlato. Io non so di altre persone che abbiano partecipato ai fatti, ma lo escludo. Saqib ha usato Saman”. Naturalmente in aula si dovrà stabilire l’attendibilità di queste versioni rese dall’uomo.

Le riprese inedite

Quarto Grado ha mostrato diversi video e foto finora inediti rispetto al caso: dalle immagini dello zio e dei cugini fuori dall'Italia - tra cui ne spicca anche una dallo stile “turistico” all’ombra della Tour Eiffel - fino alle immagini di convivialità, molti mesi prima dell’omicidio.

Ma ci sono anche delle riprese delle telecamere di videosorveglianza nell’azienda agricola di Novellara relative all’1 maggio. In queste appare il fratello di Saman scosso, mentre Danish e i cugini sono in loco. Nei video il fratello compie alcune telefonate, che, stando ai tabulati telefonici, potrebbero essere state indirizzate al padre Shabbar, in attesa a Malpensa per il volo alla volta del Pakistan e della latitanza. Ma il contenuto di quelle conversazioni è attualmente sconosciuto.

"Mi hai disonorato". I nuovi messaggi sul padre di Saman

Un visto per i parenti di Saqib

Sebbene Saqib Ayub, il ragazzo amato da Saman e che la giovane aveva intenzione di sposare, stia chiedendo a gran voce che anche i suoi genitori possano venire in Italia - dato che la moglie di Danish ha avuto questa possibilità - non ci sono ancora novità su questo fronte. Il problema, ha spiegato Quarto Grado, è nei documenti dei genitori di Saqib, che hanno solo un passaporto pakistano, per cui l’unica possibilità per loro è un soggiorno temporaneo in via straordinaria per ragioni umanitarie richiesto dalla Farnesina.

Saqib e i suoi parenti lamentano di aver ricevuto diverse minacce da parte di Shabbar quando Saman era ancora in vita, ma il presunto potere del capofamiglia Abbas potrebbe non essersi esaurito in carcere. Nei mesi scorsi, quando le telecamere di Quarto Grado lo hanno ripreso all’uscita del tribunale di Islamabad, l’uomo aveva infatti tentato di colpire l’operatore, sebbene limitato dalle manette. Successivamente l’auto della producer del servizio è stata raggiunta da 5 colpi di pistola esplosi da ignoti.

Estratto da leggo.it il 23 marzo 2023.

«Volevano uccidere anche me, avevo un buon rapporto con lei». Si è difeso così Danish Hasnain, lo zio di Saman Abbas, la 18enne morta a Novellara tra il 30 aprile e il primo maggio 2021: l'uomo, interrogato lo scorso 10 marzo (su sua richiesta) dai pm e dai carabinieri di Reggio Emilia, ribadisce di non essere stato lui ad uccidere la nipote Saman e di avere solo accompagnato i cugini a seppellirla.

 Danish ha specificato ulteriormente la versione dei fatti di quella notte, sostenendo che i parenti volevano assassinare anche lui. «Io penso che mi abbiano chiamato perché volevano uccidermi per il mio buon rapporto con Saman, io ero d'accordo sulla sua relazione con Saqib. Poi non so perché non mi hanno ucciso», ha detto il 32enne, sotto processo a Reggio Emilia per il delitto insieme ai due cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq e ai genitori di Saman. «A pensarci bene la buca era troppo grande per una sola persona e gli altri mi hanno incastrato perché sapevano che parlavo», ha messo a verbale l'imputato, difeso dall'avvocato Liborio Cataliotti.

[…] I due cugini lo svegliarono «e mi hanno detto che c'era stato un litigio e che ci era scappato il morto». Arrivati davanti a casa, «ho visto Saman morta, sdraiata con il collo strano, stretto. Io ho cominciato ad urlare forte, a maledire tutti, a piangere e ho perso i sensi. Quando mi sono risvegliato i due mi hanno sorretto e mi hanno dato dell'acqua».

 Secondo Danish […] «i due l'hanno presa, uno dalle gambe e uno dalle braccia». Poi «hanno appoggiato il corpo davanti al casolare, dove vi avevo già fatto vedere e sono andati a prendere le pale lì vicino alle serre. Mi hanno chiesto una mano ma non me la sentivo, ho spostato a mani nude solo la terra a lato della buca. Poi sono tornato da Saman e ho continuato a piangere e parlarle». Danish ha ribadito anche che i cugini gli avevano detto che era stata la madre a uccidere la ragazza.

"Prendo i documenti". Le foto inedite di Saman e l'ultimo sms al fidanzato. Le foto inedite di Saman Abbas sono state estratte dal cellulare del fidanzato Saqib. Nelle immagini, diffuse dal programma "Quarto Grado", si vede la ragazza vestita all'occidentale. Rosa Scognamiglio il 19 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Le foto inedite di Saman

 "Prendo i documenti e vengo da te"

Un felpa blu con la scritta fighter - "guerriero" - e le labbra tinte di rosso. E poi un'altra foto che ritrae Saman Abbas sui banchi di scuola, mentre legge e scrive. Sono alcuni scatti inediti della 18enne pachistana diffusi dal programma televisivo "Quarto Grado" nel corso della puntata andata in onda venerdì sera. Le immagini sono state estrapolate dal cellulare di Saqib Ayub, il fidanzato di Saman, al quale la giovane aveva confidato di voler lasciare Novellara. Seppur giovanissimi, i due avevano progettato di sposarsi: non hanno fatto in tempo a coronare il loro sogno d'amore. Lo scorso 18 novembre, il corpo senza vita della ragazza è stato ritrovato in un casolare diroccato della cittana reggiana, sepolto sotto tre metri di terra. E ora i genitori, Nazia Shaheen (ancora latitante) e Shabbar Abbas, lo zio e due cugini sono a processo con l'accusa di omicidio e occultamento di cadavere.

Saman, la testimonianza del maresciallo: "mi disse che era tranquilla"

Le foto inedite di Saman

Saman voleva "vivere all'occidentale". Un desiderio che le è stato negato proprio da chi l'ha messa al mondo, i suoi genitori. Avevano deciso che la figlia dovesse sposare un cugino nella terra d'origine per una mera questione di profitto economico. Un matrimonio forzato a cui la giovane si era opposta con tutte le forze, arrivando persino a denunciare il padre per maltrattamenti ai carabinieri di Novellara. E proprio sulla scorta di quella denuncia, mesi prima della tragedia, la 18enne era stata collocata presso una struttura protetta di Bologna. Lì, nel capoluogo emiliano, aveva ripreso a studiare e prepararsi per l'esame della patente. Lo dimostrano le foto inviate al fidanzato quando, ancora ignara dell'atroce destino a cui sarebbe andanta incontro, si mostrava felice e sorridente. Una ragazza allegra, gioiosa e sprizzante vitalità da tutti i pori della pelle. In un video inedito, Saman volteggia come una ballerina étoile sotto i portici del centro di Bologna. Sono immagini che spezzano il cuore.

"Mi hai disonorato". I nuovi messaggi sul padre di Saman

"Prendo i documenti e vengo da te"

Saqib e Saman si erano conosciuti sui social, proprio come accade a tantissimi giovani dei nostri tempi. Ma il ragazzo, seppur anche lui pachistano, non era visto di buon occhio da Shabbar. Al punto che, quando la figlia aveva pubblicato su Instagram uno scatto insieme al fidanzato, era andato su tutte le furie: "prendo i documenti e il 4 maggio vengo da te, prima passo il weekend qui con loro", aveva ordinato alla primogenita. "Dimmi cosa devi dirgli", era stata la replica della 18enne. Nonostante fosse poco più che un'adolescente, Saman voleva riprendersi la libertà che le era stata negata, a qualunque costo. Ne è l'ennesima riprova uno degli ultimi messaggi inviati a Saqib, la sera di quel maledetto 30 aprile 2021: "Prendo i documenti e il 4 maggio vengo da te, prima passo il weekend qui con loro". Le sue ultime parole.

Saman, la testimonianza del maresciallo: "mi disse che era tranquilla". Alla terza udienza del processo in Corte d'Assise a Reggio Emila per l'omicidio di Saman Abbas la testimonianza del carabiniere: "Le domandai per 3 volte se fosse tranquilla a tornare a casa". Rosa Scognamiglio il 18 Marzo 2023 su Il Giornale.

"Domandai per tre volte a Saman se fosse tranquilla a tornare a casa perché vista l'ostilità del padre, poteva forse essere un rientro troppo veloce: ma lei rispose sempre sì". Lo ha raccontato ieri, venerdì 17 marzo, alla terza udienza del processo per l'omicidio di Saman Abbas, che vede imputati i genitori, uno zio e due cugini della ragazza, il maresciallo Pasqualino Lufrano davanti ai giudici della Corte d'Assise di Reggio Emilia. Il carabiniere, che all'epoca comandava la stazione dell'Arma di Novellara, incontrò la 18enne pakistana una settimana prima del delitto: "L'ultima volta, uscendo dalla caserma, mi disse: 'Sono tranquilla perché i miei genitori non hanno in programma di rientrare in Pakistan, dove c'è l'uomo che vogliono obbligarmi a sposare'".

"Mi hai disonorato". I nuovi messaggi sul padre di Saman

La testimonianza del carabiniere

Come spiega il Corriere della Sera, il maresciallo aveva seguito la turbolenta vicenda di Saman Abbas fin dall'estate del 2020 quando, di rientro in Italia da una fuga in Belgio, la ragazza gli confidò del matrimonio combinato col cugino in Pakistan e delle ostilità con il padre Shabbar. Una settimana prima che si consumasse l'omicidio, nella notte tra il 30 aprile e il primo 2021, Pasqualino Lufrano si recò a casa degli Abbas dopo aver saputo dell'ennesimo allontanamento della 18enne dalla comunità protetta in cui era stata collocata a seguito della denuncia per maltrattamenti nei confronti dei genitori. "Bussai alla porta. - ha raccontato ieri il carabiniere - La madre, che parlava molto male l'italiano, sostenne che la figlia non c'era. Mi affaccia sulla soglia e la chiamai ad alta voce. Sentii dei rumori al piano inferiore e richiesi se fosse lì. Poi la vidi arrivare. La madre avvisò il marito". Il maresciallo spiegò che aveva bisogno di parlare con Saman e lui replicò che "c'erano delle differenze culturali tra Italia e Pakistan, manifestando una certa ostilità. Al che osservai che la ragazza era maggiorenne e poteva venire in caserma, se lo avesse voluto".

"Vi mostro come abbiamo sepolto Saman". Il video choc dello zio

L'ultimo incontro Saman

Quando Saman arrivò in caserma, il carabiniere si sincerò che la ragazza fosse tranquilla. "Glielo chiesi per tre volte - ha raccontato Lufrano -Lei mi rispose sempre di sì". Il maresciallo le chiese anche se "avrebbe accettato una nuova sistemazione se noi avessimo trovato i documenti che cercava (carta di identità e passaporto ndr), carte che lei pensava fossero in casa dove era tornata a prenderli". La perquisizione a casa dei coniugi Abbas, autorizzata il 28 aprile, era prevista per il 3 maggio. "Erano necessari gli assistenti sociali", ha precisato infine il teste. Ma Saman era già morta. Il corpo senza vita della 18enne pakistana è stato ritrovato lo scorso 18 novembre in un casolare diroccato di Novellara, sepolto in una buca scavata sotto terra.

Estratto dell’articolo di Alessandro Fulloni per il "Corriere della Sera" il 22 febbraio 2023.

Una videoconferenza per portare Shabbar Abbas – il padre della 18enne Saman – alla sbarra «obbligandolo» ad assistere alle udienze del processo. È quella che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha richiesto ufficialmente ieri al suo omologo pakistano. […]

Shabbar, arrestato in Pakistan a metà dello scorso novembre, è accusato di concorso in omicidio con la moglie Nazia, latitante, il fratello Danish Hasnain e i cugini Nomanulhaq Nomanulhaq e Ikram Ijaz, questi tre detenuti in carcere a Reggio. Il clan degli Abbas avrebbe ucciso Saman perché contraria al matrimonio combinato con un cugino più grande di lei di dieci anni.

Nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio 2021, sono l’ennesima lite e l’ennesima fuga della giovane italiangirl — questo il suo account sui social — dalla casa a Novellara, nelle campagne della Bassa, a far precipitare la situazione. Esasperato, forse sollecitato da altri componenti dello zat (il clan), Shabbar avrebbe telefonato a Hasnain — è la testimonianza in incidente probatorio dal fratellino di Saman, parte civile al processo e tutelato da Valeria Miari — per dare luogo al caro cari , come chiamano nel Punbjab l’uccisione delle donne ribelli. Mentre i due cugini la immobilizzavano, lo zio l’avrebbe strozzata.

[…] E Shabbar? Per un motivo o per l’altro — giudici assenti, carte mancanti — le udienze previste per la sua estradizione a Islamabad sono state sempre rinviate. Quella fissata per domani è addirittura la dodicesima.

Nel frattempo, con il processo già istruito a Reggio e partito il 10 febbraio, l’obiettivo della Procura diretta da Gaetano Paci è diventato quello di processarlo in videocollegamento evitando così che la sua posizione resti «stralciata» in attesa della decisione sull’estradizione. Che dipende molto dagli equilibri politici in Pakistan, la cui popolazione, 238 milioni di abitanti che poco sanno di Saman, in gran parte tollera i matrimoni combinati.

Nei giorni scorsi l’istanza per il collegamento a distanza è stata accolta dalla presidente della Corte d’Assise Cristina Beretti che ha girato gli atti al Guardasigilli. Ora che Nordio ha notificato la rogatoria a Islamabad, la posizione di Shabbar (è indifferente che accetti o meno il collegamento) si riunisce agli altri accusati. Se lui invece dovesse pagare la cauzione, per tornare libero, la Corte lo processerebbe lo stesso come latitante. […]

Il fratello di Saman: "Temo di fare la stessa fine". Il minore è il teste chiave. Il padre della vittima sarà ascoltato in videoconferenza. Redazione il 18 febbraio 2023 su Il Giornale.

La Corte di assise di Reggio Emilia invierà gli atti per far predisporre il processo in videoconferenza di Shabbar Abbas, padre di Saman, la 18enne uccisa a Novellara la notte del 30 aprile 2021.

Lo ha comunicato ieri la presidente della Corte in apertura dell'udienza separata per il Shabbar, arrestato in Pakistan a metà novembre e per cui è in corso una procedura di estradizione chiesta dall'Italia. Ora gli atti andranno notificati a Islamabad per chiedere ad Abbas il consenso ad essere processato in video, a distanza. «I tempi non li possiamo governare noi, la richiesta è stata predisposta, fatta tradurre in inglese, punjab e urdu» ha spiegato la presidente della Corte d'Assise, Cristina Beretti.

Ieri in aula, alla seconda udienza del processo, erano presenti lo zio e i due cugini di Saman, mentre la madre resta latitante. Intanto la corte ha deciso sulle costituzioni delle parti civili: su 23 che ne avevano fatto richiesta, ne sono state escluse 13.

Durante il processo si è percepita la paura del fratellino di Saman, 16 anni all'epoca del fatto. È lui il principale accusatore dello zio Danish Hasnain e vive ancora in una situazione protetta. «È tuttora certo che per aver parlato subirà la stessa sorte della sorella - spiega in aula il suo legale, Valeria Miari - ha subito pressioni in ambito familiare e vive una forte situazione di stress, legata proprio all'inizio del dibattimento». «Mi ha chiesto di vedere il corpo, perché quel corpo è sua sorella», ha riferito infine ai giudici il legale, opponendosi alla richiesta delle difese a che il giovane venga risentito in aula. Stessa opposizione presenterà l'avvocato Cludio Falleti, legale del fidanzato Saqib, in quanto «provato per la morte della fidanzata e per aver subito minacce». Potrebbe essere invece ascoltata (la corte si è riservata la decisione, il processo è stato rinviato al prossimo 17 marzo) la compagna di Danish Hasnain, che è «a sorpresa» in Italia e disponibile ad essere sentita. «C'è un colloquio con Danish - ha spiegato l'avvocato di Danish, Liborio Cataliotti - quello che ho chiesto di tradurre nuovamente, di 16/17 ore dopo il fatto dove la donna chiede notizie di Saman. Quindi mi chiedo, gli inquirenti dicono è già trapelato qualcosa, bene glielo chiediamo. Sono riuscito a farla venire in Italia».

"Vi mostro come abbiamo sepolto Saman". Il video choc dello zio. La testimonianza di Danish Hasnain è stata raccolta in un video della polizia penitenziaria: così l'uomo ha portato gli inquirenti al cadavere di Saman Abbas. Angela Leucci il 16 Febbraio 2023 su Il Giornale.

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 Il video esclusivo

 La difesa di Shabbar

Un filmato duro, difficile da guardare. È quello che la polizia penitenziaria ha realizzato a partire dalla testimonianza di Danish Hasnain, nel giorno in cui l’uomo ha portato gli inquirenti nel luogo in cui era stato nascosto il corpo della nipote, Saman Abbas, a novembre 2022.

È un momento molto particolare, che potrebbe segnare uno iato nel caso giudiziario appena partito, perché pare quasi che la coesione granitica del “clan” si stia sgretolando. Il 10 febbraio in Italia è partito il processo per sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere. Saman, scomparve la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021 da Novellara, nei pressi della casa dei genitori.

La 18enne si era recata da loro per riavere i documenti che i famigliari le avevano sottratto: voleva volare in Pakistan per sposare Saqib Ayub, un coetaneo e connazionale appartenente a una casta più bassa, dopo essersi opposta al matrimonio forzato con un cugino più vecchio. Per questo Saman si sarebbe rivolta ai servizi sociali italiani, che le avevano dato rifugio fino alla maggiore età.

Però quella notte Saman sarebbe stata uccisa. Gli inquirenti puntano sull’ipotesi del delitto d’onore, ma ci sono diversi tasselli che mancano. Tra essi la fine delle analisi forensi sul corpo, analisi che diranno con precisione come Saman sia stata uccisa. Ci sono due dei rinviati a giudizio ancora mancanti: il padre Shabbar Abbas, in carcere in Pakistan per questa stessa accusa ma che si teme non sarà estradato, e la madre Nazia Shaheen, latitante.

C’è il fratellino di Saman, minorenne e in una comunità protetta, che avrebbe puntato il dito contro lo zio Danish, indicandolo come esecutore materiale, eventualità che Danish e la moglie smentiscono. Anche Danish è rinviato a giudizio, insieme ai cugini Ikram Ijaz e Noumanoulaq Noumanoulaq: l’uomo li ha indicati come le persone che avrebbe aiutato a occultare il corpo della nipote.

Il video esclusivo

A “Chi l’ha visto?” è stato mostrato il filmato esclusivo realizzato appunto dalla polizia penitenziaria che ha raccolto la testimonianza di Danish. In una manciata di minuti l’imputato percorre la strada tra il punto in cui dice di aver trovato Saman per terra e il casolare abbandonato dove è stata seppellita: ci sono 700 metri in questo percorso, prima lungo un filare di serre, poi in uno sterrato.

Danish, nel video, afferma di essersi allontanato durante la sepoltura vera e propria, sebbene si vedesse ben poco perché era notte. L'allontanamento sarebbe stato legato, a suo dire, al dolore emotivo. Quando i cugini avrebbero finito, tutti e tre avrebbero fatto ritorno a casa. Naturalmente ora la giustizia dovrà valutare le testimonianze incrociate.

La difesa di Shabbar

Non è Shabbar Abbas a doversi difendere. Lo Stato italiano, con le leggi locali, ha recluso una ragazza in una comunità per gli studi delle scuole superiori. La famiglia di Saman non voleva che lei andasse in questa comunità e non lo voleva neanche lei, perché è scappata diverse volte per incontrare la sua famiglia. Lo Stato italiano racconta di uno scontro tra Saman e la sua famiglia, ma in verità lo scontro era tra Saman e le autorità locali che l’avevano messa nella comunità”.

A parlare è Akthar Mahmood, il legale di Shabbar in Pakistan. Nel racconto dell’avvocato non si prende in considerazione il fatto che Saman si sia rivolta volontariamente ai servizi sociali, prima di partire in Pakistan per quel fidanzamento cui si era opposta.

"È ostaggio del governo". Slitta ancora la decisione sul papà di Saman

Mahmood dice anche che i servizi sociali avrebbero impedito a Saman di incontrare la famiglia e di pregare: il quadro che emerge dalle testimonianze oggettive però è un po’ differente. Saman appare tutt’altro che reclusa nei video che in quel periodo ha pubblicato sui social, e in più si spostava per incontrare Saqib.

Dal canto suo Shabbar ha fatto sapere attraverso il suo avvocato di non credere che il corpo trovato sia della figlia - ma l’esame del Dna al momento lo prova - e chiede di trovare il vero assassino. Aggiunge inoltre che quella notte Saman fosse tornata dalla famiglia con l’intenzione di lasciare l’Italia per sempre, con la promessa di ricongiungersi a loro, perché la comunità italiana le avrebbe impedito spostamenti interni in Pakistan. Shabbar accusa inoltre lo Stato italiano di aver creato uno scontro con l’Islam.

Ci sono però dei fatti incontrovertibili. Una porzione dell’Islam è sicuramente dalla parte di Saman, tanto che l’Unione delle Comunità Islamiche in Italia (Ucoii) si è costituita parte civile nel processo avviato dall’autorità italiana: nessuno scontro quindi. Inoltre Saman era maggiorenne al tempo della scomparsa, quindi nessun autorità in Italia avrebbe potuto metterle dei paletti di qualunque tipo, con l’eccezione naturalmente di ciò che non è consentito dalla legge, ovvero di compiere reati. In più ci sono dei filmati della videosorveglianza dell’azienda agricola di Novellara, in cui gli Abbas vivevano e lavoravano, che mostrano come la giovane si sia allontanata con i genitori. Shabbar e Nazia a un certo punto di quella notte hanno fatto poi rientro a casa. Saman è stata trovata, un anno e mezzo più tardi, in una buca nella nuda terra.

Estratto dell’articolo di Martina Castigliani per ilfattoquotidiano.it l’11 dicembre 2023.

Lo zio e i due cugini presenti in Aula, la madre latitante e il padre nelle mani delle autorità del Pakistan. Il processo per il femminicidio della giovane Saman Abbas è iniziato davanti alla Corte d’assise di Reggio Emilia alla presenza di solo tre dei cinque imputati. Danish Hasnain, Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq […] A quasi due anni di distanza dalla uccisione della ragazza che si era opposta a un matrimonio forzato e chiedeva di poter decidere per la sua vita, è partito il procedimento che dovrà stabilire che cosa è successo la notte della sua scomparsa. 

[…] Oltre sessanta le testate giornalistiche accreditate tra stampa e tv, diciotto le associazioni che hanno chiesto di costituirsi parte civile per far sentire la loro vicinanza. Nel merito i giudici hanno rinviato la decisione al 17 febbraio, quando sarà valutata anche la richiesta che riguarda il papà Shabbar Abbas: la sua posizione è stata stralciata, ma la procura, guidata da Gaetano Calogero Paci, ha chiesto alla Corte che sia consentito il collegamento in videoconferenza. 

 Una mossa determinante che potrebbe sbloccare la situazione: se lui decidesse di accettare salterebbe il legittimo impedimento alla partecipazione; se rifiutasse sarebbe processato in contumacia. Nel caso, infine, che fosse liberato su cauzione, sarebbe considerato latitante e quindi assente. Tutte eventualità che permetterebbero di far andare avanti il processo. […] fuori dall’Aula, c’è stato un presidio di attiviste che hanno chiesto una presa di posizione della politica. […]

[…] Tra chi ha fatto richiesta ci sono poi anche altre associazioni impegnate per i diritti delle donne a livello nazionale e alle quali, la difesa, ha contestata la competenza territoriale. […] Tra le personalità singole invece, si è presentato, tramite l’avvocato, il fidanzato di Saman Abbas Saqib Ayub. Tra le parti civili già ammesse ci sono il fratello di Saman Abbas, il Comune di Novellara, l’Unione delle comunità islamiche italiane, l’Unione bassa reggiana. In Aula era presente anche la deputata M5s Stefania Ascari, […] la senatrice Pd Enza Rando e la consigliera comunale dem a Reggio Emilia e attivista del movimento Italiani senza cittadinanza Marwa Mahmoud.

Il femminicidio e i punti ancora da chiarire – Se i due cugini, Ijaz e Nomanhulaq, sono entrati e usciti dall’Aula come fantasmi, non è passato inosservato l’ingresso dello zio Danish Hasnain. […] è considerato dagli investigatori l’esecutore materiale del femminicidio. Lui però, nega di aver ammazzato la cugina. E anzi, subito dopo l’arresto di Shabbar Abbas in Pakistan, ha iniziato a dire di voler collaborare: il 16 novembre scorso è stato lui ad accompagnare gli investigatori nel luogo dove era sepolta la cugina, in un’area molto vicina al casolare dove vivevano. 

Poi, ha insistito per dare un’altra versione dei fatti: ha sostenuto che sarebbero stati i cugini a chiamarlo per chiedere di nascondere il corpo. E ha fatto sapere di aver aspettato a parlare perché, finché Shabbar Abbas era libero, temeva per l’incolumità sua e quella dei suoi familiari. Ad accusare lo zio però, è il fratello minorenne di Saman che lo ha accusato di averla strangolata.

 Su come sia avvenuta l’uccisione di Saman Abbas si sa ancora molto poco. […] Non ha mai ammesso le violenze neppure il padre. Che dopo l’arresto è arrivato ad affermare che la figlia è ancora viva. Ma agli atti ci sono le sue parole pronunciate al telefono con il fratello, un mese dopo la scomparsa della ragazza: “Io sono già morto, l’ho uccisa io, l’ho uccisa per la mia dignità e per il mio onore. Noi l’abbiamo uccisa”. E ancora: “Per me la dignità degli altri non è più importante della mia”. 

Agli atti è finita anche una fotografia postata su Instagram da Saman Abbas, nella quale si bacia con il fidanzato mai accettato dalla famiglia: quello scatto, dicono gli investigatori, ha fatto scattare l’ultima punizione. Resta infine un enigma il ruolo della madre Nazia Shaheen. Latitante, dal primo maggio 2021 non si hanno sue notizie. Si è parlato di una sua parentela con fonti investigative pachistane che le garantirebbero una protezione, ma non tale da renderla irraggiungibile se si sbloccasse la situazione che riguarda il padre. Il punto è riuscire a convincere le autorità pachistane che si tratta di un processo per un delitto di sangue e non un processo al Pakistan. […]

Saman Abbas, il processo per l’omicidio: lo zio in aula con i due cugini. Alessandro Fulloni, inviato a Reggio Emilia, su Il Corriere della Sera l’11 Febbraio 2023.

Postura sicura, il volto indifferente ai flash dei fotografi che scattano a raffica quando lui entra nell’aula del tribunale di Reggio Emilia, quella più grande. Danish Hasnain è l’uomo che, per le accuse, avrebbe materialmente ucciso, strozzandola, nella notte fra il 30 aprile e il 1 maggio 2021, Saman Abbas, la diciottenne pachistana che non voleva saperne del matrimonio combinato con un uomo più grande di lei di dieci anni.

Con quel piumino rosso che non si leva mai, Hasnain dà l’impressione di sovrastare i due cugini, Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq, i quali, stando alle carte e alla testimonianza del fratello 16enne della giovane, la tenevano immobile mentre smetteva di respirare. Siedono lontani i tre, ma Hasnain spesso li guarda, sfidandoli apertamente. Permettendo il 18 novembre ai carabinieri il ritrovamento del cadavere, sotterrato in una cascina diroccata nei pressi della dimora degli Abbas a Novellara, Danish ha detto di non averla uccisa lui, incolpando i cugini dall’aria più dimessa. Ijaz indossa una tuta nera e l’altro una felpa grigia, non rispondono mai alle occhiatacce dell’altro. Stanno spesso chini senza badare, nel corso dell’udienza, alle schermaglie tra i loro avvocati e quelli delle 23 parti civili.

Cinque in tutto gli accusati per concorso in omicidio. Ma due persone (Shabbar e Nazia, i genitori) non ci sono. I l padre di Saman è agli arresti in Pakistan da metà novembre. L’obiettivo della Procura diretta da Gaetano Paci è processarlo in videocollegamento, portandolo così alla sbarra ed evitando che la sua posizione resti «stralciata» — si è appreso ieri in aula — in attesa della decisione sull’estradizione. Che dipende molto dagli equilibri politici in Pakistan, la cui popolazione, 238 milioni di abitanti che poco sanno di Saman, in gran parte tollera i matrimoni combinati.

Se l’istanza per il collegamento a distanza sarà accolta dalla presidente della Corte d’Assise Cristina Beretti, allora si notificheranno gli atti a Islamabad e a quel punto, la posizione di Shabbar (sarà indifferente che accetti o meno il collegamento) si riunirà agli altri. Se lui invece dovesse pagare la cauzione, per tornare libero, la Corte lo processerebbe lo stesso come latitante dato che non potrebbe nemmeno più invocare il «legittimo impedimento». Ma è latitante nel suo Paese anche la madre Nazia che secondo alcune voci sarebbe sparita abbandonando il marito al suo destino. Fu lei, a febbraio del 2021, a ricevere la telefonata del fratello, un poliziotto. Che insisteva: «bisogna uccidere» quella ragazza che pretende l’iscrizione alle superiori, posta foto su Instagram (l'account italiangirl) in jeans e sneakers e scappa da casa per stare con il suo fidanzato. È un bravo ragazzo, il connazionale Sayub — parte civile al processo, assistito dall’avvocato Claudio Falleti — uno studente conosciuto in chat che vive a Roma; ma è un mochi, la casta inferiore dei calzolai che non può frequentare una ragazza degli Abbas, tutti gujjar, gente che possiede la terra.

Per questo dallo zat (il clan) di Shabbar è partito l’ordine del caro cari, l’uccisione delle donne che si oppongono ai matrimoni combinati. «Lo scopo? difendere l’izzat, l’onore» spiega Ahmad Ejaz, mediatore culturale di «Differenza Donna», parte civile al processo. Intanto la sindaca di Novellara Elena Carletti pensa ai funerali di Saman e alla cittadinanza onoraria «ma lo faremo solo dopo che la Procura invierà il certificato di morte». Commossa, racconta delle «250 lettere giunte da tutta Italia. Soprattutto donne che ripetono le stesse parole: “Eri un simbolo di libertà».

"Ha squarciato il velo dell'omertà". Via al processo su Saman. Secondo la procura di Reggio Emilia la 18enne pachistana sarebbe stata uccisa dopo essersi opposta al matrimonio forzato con il cugino. A processo per omicidio i genitori, lo zio e due cugini. Rosa Scognamiglio su Il Giornale il 10 febbraio 2023.

Tabella dei contenuti

 Il fratello di Saman parte civile nel processo

 Separata nel processo la posizione del padre

 I fatti

 I video, la fuga e le intercettazioni

 L'autopsia di Saman

È cominciato oggi in Corte d'assise a Reggio Emilia il processo per omicidio e occultamento di cadavere a carico dei cinque familiari di Saman Abbas, la 18enne pachistana uccisa a Novellara nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio del 2021. Il fratello della ragazza, parte civile nel processo tramite un tutore, non è presente in aula. All'esterno del tribunale, già da questa mattina all'alba, sono stati esposti striscioni e cartelli: "Saman nel cuore e nelle lotte", si legge in quello dell'associazione "Non una di meno". Altri intonano cori chiedendo giustizia per la giovane, il cui cadavere è stato trovato lo scorso 18 novembre in un casolare abbandonato.

Il fratello di Saman parte civile nel processo

Le dichiarazioni del fratello di Saman furono cristallizzate in un incidente probatorio. Il giovane accusò in particolar modo lo zio, Danish Hasnain. A margine dell'udienza, il legale del 17enne, l'avvocato Valeria Miari, ha rilasciato alcune dichiarazioni ai giornalisti. "Questo ragazzo, parlando, ha squarciato il velo dell'omertà e merita rispetto da parte di tutti. - sono state le sue parole - Non so quanti sedicenni (gli anni che aveva all'epoca dei fatti ndr) avrebbero avuto il coraggio di fare un passo contro, il cui prezzo è stato, è e sarà immane". Poi ha aggiunto: "Questo sarà l'inizio di un percorso molto doloroso per lui. perché inevitabilmente lo porterà a rivivere con maggiore intensità i traumi patiti. Sarà anche un momento importante e positivo perché rimanda alla possibilità di fare giustizia nell'unica sede che è deputata a farlo. Aspetta una risposta e la vuole dall'Italia delle istituzioni e da nessun altro. L'Italia gliela darà con la sentenza all'esito di un giusto processo che rispetterà le regole e i diritti di tutte le persone coinvolte".

Un altro "schiaffo" a Saman: rinviata l'estradizione del padre

Separata nel processo la posizione del padre

Il giudice della Corte d'Assise di Reggio Emilia, Cristina Beretti, su richiesta della procura reggiana, ha deciso per legittimo impedimento di stralciare la posizione di Shabbar Abbas, 46 anni, padre di Saman, al centro di un a complessa vicenda di estradizione dal Pakistan in cui si trova agli arresti. Se ne discuterà il prossimo 17 febbraio, data in cui verrà tentato un videocollegamento con Islamabad. Intanto la Corte ha deciso di rinviare l'udienza alle ore 15 in seguito alla richiesta dei legali di poter prendere visione degli atti di costituzione di parte civile, aumentati nelle ultime ore, e arrivati a oltre una ventina.

Le atrocità su Saman: "Strangolata e forse sepolta viva"

I fatti

Era stato il fidanzato di Saman, Saqib Ayud, a denuciare la scomparsa della ragazza a maggio del 2021. A seguito di una lunga e certosina attività d'indagine, gli investigatori avevano scoperto che, tempo addietro, la 18enne si era rivolta ai servizi sociali denunciando i genitori per maltrattamenti e induzione al matrimonio. Da qui, l'ipotesi di un delitto d'onore: secondo la procura di Reggio Emilia, la giovane sarebbe stata uccisa dopo essersi opposta alle nozze combinate con il cugino nel Paese d'origine. I genitori, Nazia Shaheen (ancora latitante) e Shabbar Abbas avrebbero ordito un piano criminale che sarebbe stato attuato con la complicità di uno zio (Danish Hasnain, considerato "l'esecutore materiale del delitto") e altri due cugini della ragazza (Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq). Tutte le persone coinvolte sono accusate, a vario titolo, di sequestro di persona, omicidio volontario e occultamento di cadavere.

"Ecco chi c'è nel video...": svolta sul caso Saman

I video, la fuga e le intercettazioni

Ad avvolarare l'ipotesi di un delitto maturato in ambito familiare, ci sono alcuni elementi finiti nella carte dell'inchiesta. Su tutti, due filmati: il primo immortala la ragazza "vestita all'occidentale" mentre si allontana nei campi, a Novellara, assieme alla madre, la notte della scomparsa. Il secondo video riprende "tre uomini incappucciati" - verosimilmente lo zio e i due cugini - muniti di pala, secchio e piede di porco, la sera precedente all'omicidio. Non solo. I genitori della 18enne si sarebbero dati alla fuga, ipotizzano gli inquirenti, nei giorni successivi al fatto: sono stati ripresi al gate dell'Aeroporto di Milano Malpensa mentre si imbarcavano per un volo diretto in Pakistan. Infine, ci sono le intercettazioni di Shabbar Abbas che, già in terra d'origine, avrebbe confidato al telefono con un cugino di averla uccisa: "L'ho fatto per il mio onore", sarebbero state le sue parole.

L'autopsia, il segno sul collo, i video: "Cosa c'entra la madre di Saman"

L'autopsia di Saman

Dopo un anno e mezzo di ricerche, il corpo di Saman è stato trovato in casolare abbandonato di Novellara, a pochi passi dall'abitazione degli Abbas. Il corpo, ancora integro, era stato seppellito sotto metri di terra. Era stato lo zio Danish a dare indacazioni agli inquirenti sul luogo di sepoltura. L'autopsia ha evidenziato una "frattura dell'osso ioide" compatibile, verosimilmente, con l'ipotesi di strangolamento. In sede di accertamenti medico legali era emerso anche "un segno" all'altezza gola. Probabilmente "uno scollamento dei tessuti post mortem", aveva spiegato alla nostra redazione l'avvocato Barbara Iannuccelli. Nelle prossime settimane si conoscerà l'esito di tutti gli esami autoptici.

Omicidio di Saman Abbas, il legale di parte civile: «Non vedremo mai il padre in Italia...». Shabbar Abbas è accusato in concorso di aver ucciso la figlia Saman. Il Dubbio il 10 febbraio 2023.

L’avvocato del giovane fidanzato della ragazza pakistana uccisa in provincia di Reggio Emilia solleva dubbi sull’estradizione del principale imputato ancora detenuto nel suo Paese d’origine

«L'idea che mi sono fatto, e spero di sbagliarmi, è che non credo che lo vedremo mai il signor Shabbar Abbas, visto come si sta mettendo la situazione, siamo all'undicesimo rinvio, ogni volta un rinvio per qualcosa di pretestuoso: una volta mancano gli atti, una volta non sono tradotti, una volta non c'è l'avvocato o il giudice». Lo ha detto, a LaPresse, Claudio Falleti, avvocato di Saqib Ayub, il fidanzato di Saman Abbas, la 18enne scomparsa a Novellara nella primavera del 2021 e per cui la procura di Reggio Emilia ha indagato i due genitori, due cugini e uno zio per il suo omicidio.

La giovane si sarebbe opposta a un matrimonio forzato e per un anno e mezzo non sono state trovate le sue tracce, fino all'autunno scorso, quando dei resti umani sono stati trovati in un casolare vicino alla sua abitazione. Il padre, Shabbar Abbas, è stato fermato in Pakistan, dove era stato arrestato nei mesi scorsi, ma l'udienza per la sua estradizione in Italia ha subito numerosi slittamenti. Ad oggi, Shabbar Abbas continua a trovarsi in Pakistan.

Oggi, a Reggio Emilia, è in programma la prima udienza del processo per la morte della 18enne. Sono 5 cinque gli imputati: lo zio Danish Hasnain, i cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq (tutti e tre in carcere), il padre Shabbar Abbas (arrestato un mese fa in Pakistan, dove si è in attesa dell'udienza che decida sull'estradizione) e la madre Nazia Shaheen (ancora latitante in patria). Devono tutti rispondere di omicidio premeditato in concorso, sequestro di persona e soppressione di cadavere.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Baldessarro per “la Repubblica” l’8 febbraio 2023.

«Lotterò con tutte le mie forze perché Saman abbia vera giustizia. Dopodomani inizierà il processo e questo è un bene, ma io voglio che, se ritenuti colpevoli, non siano solo lo zio e i cugini a pagare, ma anche il padre e la madre». Saqib Ayub, il fidanzato di Saman, non sarà in aula venerdì mattina.

 Ci sarà però il suo legale, l’avvocato Claudio Falleti, che si costituirà parte civile nella prima udienza del processo per l’omicidio della 18enne pachistana, assassinata per essersi opposta a un matrimonio combinato, la notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021, a Novellara (Reggio Emilia). […]

 Nel giorno in cui a Islamabad c’è stato l’ennesimo rinvio del procedimento per l’estradizione del padre di Saman, Shabbar Abbas, Falleti non fa mistero delle aspettative della difesa e del ragazzo: «Gli undici rinvii di udienza per la decisione sono scandalosi. Credo che la premier Giorgia Meloni e il ministro degli Esteri, Antonio Tajani debbano dare seguito a quanto detto in passato. Ossia che la vicenda di Saman non può lasciare indifferenti. Ora che sono al Governo, agiscano e convochi l’ambasciatore pachistano».

[…] Il Paese d’origine degli Abbas ha due responsabilità. La prima riguarda l’estradizione, la seconda è legata alla ricerca di Nazia Shaheen, ancora latitante e nascosta in Pakistan. […] Saqib Ayub, oggi vive in Piemonte, lontano da occhi indiscreti. È stato praticamente adottato dall’avvocato Falleti che lo ha seguito e ospitato per mesi. Oggi lo difende a proprie spese e rinunciando anche al gratuito patrocinio: «È un bravo ragazzo — spiega — ed è determinato a fare qualcosa contro un retaggio tribale arcaico e violento che ha visto Saman morire per mano della suoi stessi famigliari». […]

La sua versione dei fatti. Saman Abbas, lo zio Danish si difende: “Indicato il corpo ma non l’ho uccisa, mi hanno detto che è stata la madre”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 31 Gennaio 2023

Ha ammesso di aver accompagnato due cugini di Saman a seppellirne il corpo nel casolare a poche centinaia di metri dall’abitazione di famiglia, ma non di averla uccisa.

Sono state le parole pronunciate da Danish Hasnain, zio di Saman Abbas, la 18enne di origini pachistane scomparsa da Novellara (Reggio Emilia) il 30 aprile del 2021, il cui cadavere è stato poi indicato agli inquirenti dallo stesso zio il 18 novembre 2022, mostrando dove scavare per trovarne il corpo senza vita.

Due giorni prima di quella data, scrive l’Ansa, l’uomo aveva chiesto di parlare con la polizia penitenziaria del carcere di Reggio Emilia dove era già recluso: “Voglio dirvi che io non ho ucciso Saman e per questo io non voglio avere una condanna per colui che l’ha uccisa“.

In realtà allo stato, dalle indagini dei carabinieri e dalla Procura di Reggio Emilia, proprio Danish Hasnain è considerato l’esecutore materiale del delitto, avvenuto per la contrarietà di Saman alla decisione dei genitori di disporre per lei un matrimonio combinato con uno sconosciuto in Pakistan.

Secondo la ricostruzione fornita dallo zio, la sera di venerdì 30 aprile (quando vi fu l’omicidio di Saman) venne prima chiamato da Shabbar, il padre di Saman, senza però rispondergli. Quindi di esser stato raggiunto dai cugini della ragazza, Nomanhulaq Nomanhulaq e Ikram Ijaz, mentre dormiva, seguendoli verso casa degli Abbas.

Lì avrebbe visto a terra, tra le serre che circondano l’abitazione, il cadavere della 18enne. Danish Hasnain ha quindi aggiunto che i cugini avrebbero incolpato la madre di Saman, Nazia Shaheen, anche se secondo lui non era andata veramente così. Quindi i tre avrebbero portato il corpo nel casolare diroccato in Strada Reatino, dove c’era una pala già pronta per scavare. Il 18 novembre, insieme agli investigatori, ha quindi ricostruito il percorso fatto quella notte.

Il processo per l’omicidio di Saban è previsto il prossimo 10 febbraio. Cinque gli imputati: lo zio Danish Hasnain, che ha indicato agli inquirenti dove era stato sepolto il cadavere, i cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq (tutti e tre in carcere), il padre Shabbar Abbas (arrestato lo scorso 12 novembre in Pakistan, dove si è in attesa dell’udienza che decida sull’estradizione in Italia) e la madre Nazia Shaheen, ancora latitante in patria. I cinque rispondono a vario titolo di omicidio premeditato in concorso, sequestro di persona e soppressione di cadavere.

Proprio oggi si è tenuta a Islamabad, in Pakistan, una breve udienza per il padre di Saman, Shabbar Abbas. L’avvocato pachistano dell’uomo e il pubblico ministero hanno discusso sulla correttezza dei documenti forniti dal governo italiano. Il giudice ha rinviato il procedimento al 7 febbraio. La richiesta di libertà provvisoria su cauzione di Shabbar Abbas sarà esaminata durante la prossima udienza.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

(ANSA il 4 gennaio 2023) - Il cadavere ritrovato il 18 novembre 2022 a Novellara è Saman Abbas. È stata identificata da un'anomalia dentaria, grazie a foto e video", riferisce l'avvocato Barbara Iannucelli, che assiste l'associazione 'Penelope' ed è parte civile nel processo che a febbraio inizierà a carico di cinque familiari della giovane pachistana uccisa la notte del 30 aprile 2021.

 "L'osso ioide è fratturato nella parte sinistra e sono necessari accertamenti istologici per stabilire se pre o post portem", continua l'avvocato. La frattura dell'osso, nella parte anteriore del collo, avvalorerebbe l'ipotesi di strangolamento.

Le analisi confermano le prime ipotesi. Saman Abbas, suo il corpo ritrovato a Novellara: identificata dai denti, trovata una frattura al collo. Redazione su Il Riformista il 4 Gennaio 2023

Il cadavere trovato il 18 novembre scorso in un casolare abbandonato di Novellara, in provincia di Reggio Emila, è quelllo di Saman Abbas. La conferma ufficiale arrivata dall’avvocato Barbara Iannucelli, che assiste l’associazione ‘Penelope’ ed è parte civile nel processo che a febbraio inizierà a carico di cinque familiari della giovane pachistana uccisa la notte del 30 aprile 2021.

La ragazza, che si presume sia stata uccisa dai familiari perché contraria al matrimonio combinato con una persona in Pakistan, “è stata identificata da un’anomalia dentaria, grazie a foto e video”, ha spiegato Iannucelli.

Non solo. “L’osso ioide è fratturato nella parte sinistra e sono necessari accertamenti istologici per stabilire se pre o post portem“, continua l’avvocato. La frattura dell’osso, nella parte anteriore del collo, avvalorerebbe l’ipotesi di strangolamento della 18enne.

Quanto al processo per la morte di Saman, il cui cadavere è stato rinvenuto a circa 500 metri dal casolare della famiglia, l’inizio è previsto il 10 febbraio prossimo a Reggio Emilia. Cinque gli imputati: lo zio Danish Hasnain, che ha indicato agli inquirenti dove era stato sepolto il cadavere, i cugini Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq (tutti e tre in carcere), il padre Shabbar Abbas (arrestato lo scorso 12 novembre in Pakistan, dove si è in attesa dell’udienza che decida sull’estradizione in Italia) e la madre Nazia Shaheen (ancora latitante in patria). Devono tutti rispondere di omicidio premeditato in concorso, sequestro di persona e soppressione di cadavere.

Saman, ricorda l’Agi facendo il punto sulla vicenda processuale, era arrivata in Italia dal Pakistan nel 2016: a dare l’allarme della sua scomparsa era stato il fidanzato ‘italiano’ Saquib, che non ha mai voluto crederla morta. Già un anno prima della sua scomparsa, la 18enne si era rivolta ai servizi sociali per denunciare i genitori per maltrattamenti e induzione al matrimonio. Poi era rientrata a casa, tentando di riavere i suoi documenti. Tra gli atti del processo, anche il filmato della telecamera di sicurezza che ha registrato gli ultimi istanti di vita di Saman, che esce di casa accompagnata dai genitori la notte della scomparsa.

Sulle ultime novità nelle indagini è intervenuta anche la sindaca di Novellara, Elena Carletti, che ha sottolineato a LaPresse come “le nostre speranze un po’ sono crollate nel momento in cui è stato rinvenuto questo corpo, perché chiaramente, in una cittadina come Novellara, era impensabile che si trattasse di un altro mistero”.

L'autopsia, il segno sul collo, i video: "Cosa c'entra la madre di Saman". L'autopsia sul cadavere di Saman Abbas ha evidenziato una frattura sull'osso ioide. L'avvocato Barbara Iannuccelli a ilGiornale.it: "Serviranno altri accertamenti per capire come è morta". Rosa Scognamiglio il 6 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Il corpo ritrovato a Novellara, lo scorso 18 novembre, è quello di Saman Abbas. L'autopsia, eseguita mercoledì mattina, ha fugato i pochi dubbi rimasti sull'identità del cadavere. Gli accertamenti autoptici, affidati dalla Corte d'Assise a due periti d'eccezione - l'anatomopatologa Cristina Cattaneo e l'archeologo forense Dominic Salsarola - non sono ancora conclusi. Sarà necessaria la nomina di altri esperti: un genetista, per i riscontri sul Dna, e un tossicologo.

"La frattura dell'osso ioide è un dettaglio che desta particolare attenzione perché potrebbe fornire qualche dettaglio in più sulla dinamica del decesso", spiega alla nostra redazione l'avvocato Barbara Iannuccelli, l'avvocato dell'associazione Penelope, costituitasi parte civile nel processo per omicidio e occultamento di cadavere a carico dei 5 familiari della 18enne pakistana. Poi sulla madre di Saman: "Il suo ruolo nella vicenda è stato fondamentale".

"Vi spiego perché i genitori di Saman non saranno estradati"

Dottoressa Iannuccelli, può confermare che il cadavere trovato a Novellara, lo scorso 18 novembre, è quello di Saman?

"Assolutamente sì. In realtà vi erano pochi dubbi che si trattasse di Saman sin da quando il cadavere è stato dissotterrato. Anche perché il corpo è stato ritrovato su segnalazione di uno dei cinque imputati - parlo di Danish Hasnain - che ha indicato il luogo esatto della sepoltura. Poi, chiaramente, sono stati necessari tutti gli accertamenti cadaverici per formalizzare e confermare l'identità".

Come è avvenuto il riconoscimento?

"Da un'anomalia dentaria emersa durante gli esami autoptici. E quindi attraverso la comparazione di video e foto che ritraevano Saman abbiamo avuto la conferma definitiva".

L'autopsia ha evidenziato una frattura dell'osso ioide. Può dirci qualcosa in più al riguardo?

"La frattura dell'osso ioide è un dettaglio che desta particolare attenzione perché potrebbe fornire qualche dettaglio in più sulla dinamica del decesso. Tale circostanza avvalora l'ipotesi che quella zona del collo sia stata interessata da una dinamica".

E il segno individuato sul collo?

"Serviranno ulteriori accertamenti per capire se si tratti di uno scollamento dei tessuti post mortem oppure di un segno riconducibile a un evento accaduto quando Saman era ancora in vita".

"Non li vedremo mai più". Saman e l'estradizione impossibile

Sul fronte giudiziario, invece, c'è una questione ancora aperta: l'estradizione di Shabbar Abbas.

"Purtroppo non esiste un accordo bilaterale tra Italia e Pakistan, quindi la faccenda è complessa. Sappiamo che il 10 gennaio ci sarà l'udienza per l'estradizione di Shabbar Abbas, la decisione è rimessa alle autorità giudiziarie pakistane. Speriamo ci sia una reazione da parte del Pakistan ma, per quanto mi riguarda, sono pessimista: dubito che rivedremo il papà di Saman in Italia".

Perché?

"Perché, in realtà, non sappiamo neanche per quale motivo Shabbar sia stato arrestato".

In che senso?

"Non è chiaro se sia stato arrestato in esecuzione del mandato di cattura internazionale oppure per qualche altro reato che gli è stato contestato. Lo scopriremo solo quando avremo la possibilità di leggere gli atti".

Dei 5 imputati, resta ancora a piede libero la mamma di Saman. Secondo lei, che ruolo ha avuto secondo nella vicenda Nazia Shaheen?

"Il ruolo della madre Nazia Shaheen è stato fondamentale. È lei che ha convinto Saman a tornare a casa ed è lei che ha accompagnato la figlia nel suo 'ultimo miglio'. Ci sono messaggi e video che lo confermano. Ma credo che goda di protezione in Pakistan ed è il motivo per cui non è stata ancora individuata".

"Anche altri hanno partecipato". Il detenuto accusa il fratello di Saman

Del fratello di Saman, invece, cosa ne pensa?

"Penso che si sia trovato in una situazione non facile da gestire ed è il motivo per cui le sue dichiarazioni - mi riferisco a quando fu ascoltato in audizione protetta - sono state contraddittorie. Fatto sta che a febbraio compirà 18 anni e quindi potrà decidere anche sulla salma di Saman, se riportarla in Pakistan o seppellirla in Italia"

Crede che parteciperà al processo in qualità di teste?

"Qualora i legali degli imputati dovessero decidere di interpellarlo, sarà lui a decidere cosa fare. Del resto si trova in mezzo a due fuochi incrociati".

L'associazione Penelope è parte civile nel processo a carico dei 5 familiari di Saman imputati per l'omicidio. Cosa chiedete?

"Nessuno dei familiari chiede giustizia e verità per Saman, quindi è nostro dovere farlo. Non solo. È nostro dovere anche raccontare la storia di Saman affinché sia da esempio per tutte le 'altre Saman' che, in Italia, si trovano nella sua stessa condizione. Possono e devono salvarsi".

"Vai all'inferno". La violenza del padre di Saman contro il giornalista italiano. Il padre di Saman avrebbe cercato di colpire un giornalista italiano fuori dal tribunale di Islamabad: le prospettive se dovesse essere giudicato in Pakistan. Angela Leucci il 17 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La speranza dell’estradizione del padre di Saman Abbas appare sempre più una chimera in assenza di accordi bilaterali Italia-Pakistan. C’è stato un nuovo rinvio per il processo che vede protagonista Shabbar Abbas a Islamabad: è tutto rinviato al 10 gennaio 2023, esattamente un mese prima che inizi il processo in Italia.

Solo tre degli imputati si trovano nelle carceri italiane: lo zio di Saman Danish Hasnain, i cugini Ikram Ijaz e Noumanoulaq Noumanulaq. Shabbar è invece imputato attualmente in Pakistan e, sebbene sia stata chiesta l’estradizione, non ci sono notizie in merito. La madre di Saman Nazia Shaheen è invece latitante e probabilmente rifugiata all’interno della sua famiglia d’origine.

La violenza di Shabbar

Intanto Shabbar, all’uscita dal tribunale di Islamabad, avrebbe cercato di colpire il cameraman di Quarto Grado. Mentre gli veniva chiesta una dichiarazione, si è trincerato nel proprio silenzio, esclamando a gran voce una sola frase all’indirizzo dei giornalisti italiani: “Vai all’inferno”.

Alle domande dei giornalisti, un agente della Fia, la polizia federale pakistana, cerca di nasconderne il volto, comunque quasi completamente coperto da berretto e mascherina.

Il Pakistan e il delitto d’onore

Parte dell’opinione pubblica italiana si chiede se non sia meglio che Shabbar sia processato in Pakistan o in Italia, al fine di ottenere giustizia per Saman. Ma al tempo stesso si chiede se il Pakistan sia culturalmente pronto a fare giustizia sul delitto d’onore. Va ricordato infatti che Saman sarebbe stata uccisa nella notte tra il 30 aprile e l’1 maggio a Novellara, perché si era opposta al matrimonio forzato con un cugino.

"Vi spiego perché i genitori di Saman non saranno estradati"

In Pakistan il delitto d’onore è regolato dall’articolo 311, che descrive l’eventuale pena massima e la pena minima, nel caso un imputato sia trovato colpevole. Alle telecamere di Quarto Grado l’avvocato di Rovereto Humera Khan, pakistana italiana, ha spiegato: “L’articolo 311 prevede che il delitto consumato in nome o col pretesto dell’onore è punito col carcere a vita e la pena non può essere inferiore a 10 anni”.

L’avvocato ha specificato che il carcere a vita in Pakistan si traduce in 25 anni in cella, ma si è domandata anche quale possano essere i risvolti nel suo Paese d’origine per l’omicidio di Saman, che non ha avuto grande eco come invece è accaduto in Italia. “Consideriamo che in Pakistan i delitti d’onore sono molto comuni”, ha aggiunto, chiosando che ogni anno si stima che centinaia di donne vengano uccise in nome dell’onore.

La conduttrice Alessandra Viero ha detto anche che l’avvocato, al telefono con lei prima della messa in onda, abbia percepito il nuovo rinvio nel tribunale di Islamabad come un “segnale di incertezza”.

"Vi spiego perché i genitori di Saman non saranno estradati". Parla il giornalista Ahmad Ejaz che ha curato le traduzioni in urdu e punjabi per "Chi l'ha visto?": "La voce di Saman al telefono con Saqib mi ha commosso". Angela Leucci il 16 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Sembrava una data così lontana, eppure quella del 10 febbraio 2023 è molto vicina. È allora che avrà inizio il processo per l’omicidio di Saman Abbas, la 18enne pakistana residente a Novellara scomparsa nella notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021, uccisa perché si era opposta al matrimonio forzato con un cugino più vecchio.

Sono stati rinviati a giudizio con l’accusa di sequestro di persona, omicidio in concorso e occultamento di cadavere il padre Shabbar Abbas, la madre Nazia Shaheen, lo zio Danish Hasnain e i cugini Ikram Ijaz e Noumanoulaq Noumanulaq. Shabbar è stato arrestato e si trova a Islamabad, mentre in Italia in molti sperano sia estradato. Nazia è ancora latitante. Gli altri tre accusati sono in carcere in Italia.

E mentre finora le ipotesi di difesa hanno puntato sul corpo di Saman che non si trovava - ma che a fine novembre è stato fatto ritrovare da Danish in un casolare abbandonato a 700 metri da casa Abbas - e sulle traduzioni delle intercettazioni - che però corrispondono tra le diverse trasmissioni televisive e con i brogliacci delle forze dell’ordine, c’è ancora il nodo di Nazia, sulla quale pare non ci sia nessuna speranza di arresto ed estradizione.

Non credo che il Pakistan consegnerà all’Italia una donna”, commenta a IlGiornale.it il giornalista pakistano in Italia Ahmad Ejaz, mediatore culturale e cooperante internazionale che si è occupato delle traduzioni per una celeberrima trasmissione tv.

Ejaz, secondo l’associazione Penelope, i genitori di Saman non verranno estradati in Italia. Cosa ne pensa?

Non c’è una reciprocità tra Italia e Pakistan. Sembrava quasi fatta, poi c’è stata la sostituzione del giudice all’udienza fissata a Islamabad, anche se potrebbe trattarsi semplicemente di una questione burocratica, come tante volte accade in Italia. Senza reciprocità però l’estradizione non è certa. Tuttavia un’estradizione di cortesia sembrava realizzabile”.

Perché Nazia non è stata ancora arrestata?

Non credo che il Pakistan consegnerà all’Italia una donna, per di più una donna casalinga. Mentre per Shabbar, culturalmente parlando, l’estradizione resta probabile, qualche speranza c’è. Altrettanto probabile è che Nazia si sia rifugiata presso la sua famiglia d’origine, dai suoi fratelli, da qualche parte. Il Pakistan non ha mai assicurato che avrebbe restituito anche lei”.

Cosa ne pensa del presunto ruolo di Nazia?

Quando ho tradotto i documenti, c’era un messaggio inviato dal Pakistan: ‘Uccidete questa ragazza’. Era stato mandato dal fratello di Nazia (il poliziotto che ha minacciato la famiglia di Saqib, il ragazzo amato da Saman ndr). La famiglia della madre di Saman è coinvolta a mio avviso. Il ruolo della madre è evidente anche nell’ultimo video che ritrae Saman la notte della scomparsa”.

È stata aperta un’inchiesta bis. Crede che altre persone possano essere coinvolte in questo caso in qualità di fiancheggiatori?

Credo che l’eventuale coinvolgimento di altre persone, come per esempio il cugino che ha dato uno schiaffo a Saman e ora ha perso il permesso di soggiorno, sia estraneo alla grande organizzazione, sia solo precedente al delitto. La famiglia di Shabbar e quella di Nazia sono molto forti. Sono in tutto 28 famiglie a Charanwala e loro fanno parte di una casta potente. Il sistema delle caste diventa forte quando ci sono diversi nuclei della stessa famiglia in un villaggio: tanti nuclei famigliari tanto onore. Ecco il perché del matrimonio forzato con un parente”.

L’avvocato dei genitori di Saman Simone Servillo ha sollevato il problema della giustezza delle traduzioni, in particolare nell’intercettazione in cui Shabbar dice: “Ho ucciso mia figlia, l’ho fatto per il mio onore”. Lei ha tradotto intercettazioni e altro per “Chi l’ha visto?”.

Le frasi che Shabbar pronuncia sono tutte in dialetto del Punjab, lo stesso dialetto delle mie origini. Certo, ci sono alcune traduzioni letterali che devono essere rese in italiano per essere comprensibili, ma parliamo solo delle numerose parolacce che Shabbar pronuncia. In questa intercettazione Shabbar si assume la responsabilità, dice di aver ucciso Saman e aver lasciato l’altro figlio in Italia”.

Ha affermato in trasmissione di aver pianto nel tradurre le testimonianze in lingua originale. Cosa l’ha colpita di più?

Mi ha fatto molto male pensare al momento in cui Saman chiede alla madre di cosa stessero parlando nella chat al telefono, perché aveva sentito di una ragazza che doveva essere uccisa, ma la madre le dice che non stavano parlando di lei. Mi ha fatto piangere, così come quel momento in cui Saman parla al telefono con Saqib: lui era pieno di speranza, di luce, erano appena arrivati i vestiti per le nozze, mentre lei, con la sua dolce voce in un urdu raffinato, attenta a non farsi ascoltare da altri, preannuncia in un certo senso la sua morte”.

Perché è importante per tutta la comunità pakistana in Italia ottenere giustizia per Saman?

La maggior parte della comunità pakistana in Italia è integrata. Per le prime generazioni, l’Italia è il loro secondo Paese, per le seconde generazioni è invece il primo Paese. Questi avvenimenti fanno arretrare il processo di integrazione”.

Saman avrà la cittadinanza postuma, le verrà fatto un funerale e sarà sepolta a Novellara. Crede che questo sia un segno importante?

Mi sembra che la grande attenzione dell’opinione pubblica stia restituendo qualcosa a Saman. In Italia Saman aveva la sua famiglia, ma era composta da nemici, non da amici. Penso che la società civile può dare un segnale forte, per dire no ai matrimoni forzati e non calpestare i diritti della seconda generazione. Vedo una grande luce in questi ragazzi, che hanno un’identità molto forte: pakistana e italiana insieme, qualcosa di completamente diverso e nuovo. Sognano l’emancipazione e le leggi potrebbero aiutarli. Ho raccolto 17mila firme per la cittadinanza onoraria postuma per Saman su Change. Sarebbe bello che a Novellara si svolgessero i funerali di Stato nella forma minima prevista, con 7 carabinieri e un rappresentante del governo. Saman è la sesta ragazza che viene uccisa in questo modo in Italia”.

Omicidio di Cristina Mazzotti, la svolta dopo 48 anni: chiesto il processo per i quattro presunti autori del sequestro. Redazione di Milano il 9 Gennaio 2023 su La Repubblica.

I quattro imputati sono il boss della 'ndrangheta Giuseppe Morabito, 78 anni, Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò e Antonio Talia. Secondo la procura sarebbero gli esecutori materiali del sequestro. Per la morte della figlia di un industriale erano state condannate già 13 persone

La procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro persone accusate del sequestro e della morte di Cristina Mazzotti, avvenuti 48 anni fa, in quello che fu il primo caso di una donna rapita dall'Anonima sequestri al Nord. Mazzotti nel 1975 aveva 18 anni quando fu portata via nel giorno della sua festa per il diploma e costretta a vivere in un buco sotto terra, morendo poi per i tranquillanti che le vennero somministrati dai sequestratori.

Il cold case. Omicidio Cristina Mazzotti, dopo 48 anni spuntano i 4 presunti autori del sequestro: c’è anche il boss Morabito. Fabio Calcagni su Il Riformista il 10 Gennaio 2023

Fu la prima donna, solo 18enne all’epoca, ad essere rapita dall’Anonima sequestri nel Nord Italia. La Procura di Milano ha riaperto le indagini sull’omicidio di Cristina Mazzotti ed ha chiesto il rinvio a giudizio di quattro imputati, tra cui il boss della ‘ndrangheta Giuseppe Morabito, 78 anni e residente nel Varesotto.

A scriverne è l’Ansa, che sottolinea come a seguiti dell’esposto presentato nel 2021 dall’avvocato Fabio Repici le nuove indagini sono state condotte dalla Squadra mobile e coordinate dal pm Stefano Civardi, che ha chiuso il fascicolo a novembre ed ha quindi chiesto il processo per quattro imputati. “Ho trovato il nome di Latella nell’indagine sull’omicidio del giudice Bruno Caccia – aveva detto il legale della famiglia di Caccia -. La posizione fu poi archiviata, ma scoprì il suo ruolo nel sequestro Mazzotti”.

Oltre a Morabito, ritenuto uno dei presunti “ideatori” del sequestro, sono imputati Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò e Antonio Talia, pure loro considerati vicini alla ‘ndrangheta ed esecutori materiali del sequestro.

Per l’omicidio della 18enne Cristina Mazzotti furono già condannate 13 persone in passato. I quattro nuovi indagati, secondo la Procura milanese, in concorso con quei tredici “presero parte attiva e portarono a compimento la fase esecutiva del sequestro”, che avvenne la sera del primo luglio 1975 a Eupilio (Como), portata via nel giorno della sua festa per il diploma, e che finì con la morte della ragazza, segregata in una “buca” a Castelletto Ticino (Novara) e a cui vennero somministrate dosi massicce “di tranquillanti”.

I processi già terminati sulla vicenda, ricorda l’Ansa, avevano permesso di ricostruire come al padre della 18enne Cristina Mazzotti, importante industriale del settore dei cereali, furono chiesti 5 miliardi di lire di riscatto.

In un mese l’uomo riuscì a racimolare un miliardo e 50 milione di lire e pagò gli uomini che rapirono la figlia. Il primo settembre del 1975 una telefonata anonima indicò ai carabinieri di scavare in una discarica di Galliate (Novara) dove fu trovato il cadavere.

Secondo la Procura di Milano il boss Morabito avrebbe fornito anche un’auto che servì da ‘civetta’ per segnalare l’arrivo della Mini Minor con cui stava rincasando la giovane e per “fare da staffetta verso il luogo” della prigionia. La posizione di un quinto indagato, Antonio Romeo, è stata stralciata in vista di una richiesta di archiviazione.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket

I depistaggi, le orme, la scritta col sangue: "Antonella conosceva il killer". Il 4 dicembre del 1993 qualcuno entrò in casa di Antonella Falcidia e la uccise con oltre venti coltellate. Dopo indagini, sospetti e depistaggi, a distanza di quasi 30 anni, il caso resta ancora senza un colpevole. Francesca Bernasconi e Rosa Scognamiglio il 10 Gennaio 2023 su Il Giornale

Era la sera del 4 dicembre 1993, un sabato. In via Rosso di San Secondo, a Catania, una donna poco più che quarantenne stava guardando la televisione, in attesa del ritorno del marito dal lavoro. Una calma apparente che, in breve tempo, venne sconvolta da 23 coltellate, che lasciarono un corpo senza vita a terra e un omicida a piede libero. La vittima era Antonella Falcidia e, a distanza di 29 anni, il suo resta ancora un caso irrisolto, senza un colpevole.

L'omicidio di Antonella

Antonella Falcidia, 43 anni, era una professoressa al dipartimento di Igiene dell’Università di Catania. Sposata con Vincenzo Morici, un cardiochirurgo. La donna apparteneva “a una famiglia dell’alta borghesia - ha spiegato a ilGiornale.it la criminologa Francesca Capozza - suo zio Enrico era un facoltoso medico catanese e proprietario della clinica dove lavorava suo marito”.

Quel sabato di dicembre, come venne ricostruito da Mistero in Blu, tutto si era svolto come sempre. La mattina la donna si era recata all’Università, mentre il marito era uscito prima di pranzo per andare a Nicosia, dove aveva un ambulatorio. Dopo aver cenato, Antonella si era seduta sul divano davanti alla televisione, in attesa del ritorno del marito. L’ultimo a sentire la sua voce era stato il figlio 17enne, che alle 21.45 le aveva citofonato prima di andare a una festa. Poi, nel buio di quella sera di dicembre, un’ombra era entrata nell’appartamento, aggredendo la donna con un’arma da punta e taglio. Una dopo l’altra, oltre venti coltellate avevano colpito Antonella.

Alle 23.30 il marito era rientrato dal lavoro. Aveva parcheggiato l’automobile, poi era salito dalle scale, gradino dopo gradino, fino all’appartamento in cui viveva con la moglie e il figlio e aveva aperto la porta. Nulla faceva presagire ciò che trovò al suo ritorno a casa: la moglie era riversa sul pavimento in una pozza di sangue, morta. Qualcuno la aveva uccisa. Ma chi?

L’accanimento dei colpi inferti - ha spiegato a ilGiornale.it Capozza - grida a gran voce l'esistenza di un legame affettivo molto forte con la vittima, il desiderio di sbarazzarsi di essa attraverso un’azione carica di intenzionalità liberatoria, esito apicale di sentimenti ed emozioni contrastanti in cui frustrazione e rancore hanno la meglio”. Un comportamento, questo, che avrebbe potuto circoscrivere “la cerchia dei sospettati a un ambito molto intimo di conoscenze della vittima”. Il killer, in effetti, “non poteva che essere una persona molto conosciuta dalla donna che l'ha accolta in casa in vestaglia e si è intrattenuta con essa sul divano. L'appartamento non rivela alcun segno di effrazione e la porta di casa non era stata chiusa a doppia mandata, come sempre”.

I capelli, le impronte e una lettera anonima

A un primo sguardo sembrò che il killer avesse lasciato sulla scena del crimine numerosi indizi che avrebbero potuto condurre gli investigatori sulle sue tracce. Errori grossolani, che avrebbero potuto rivelarsi fondamentali per individuare l’omicida di Antonella. Sembrò infatti che, camminando intorno al corpo della donna, dopo il delitto, l’assassino avesse lasciato delle impronte insanguinate. Gli uomini dei reparti scientifici infatti individuarono una serie di orme di scarpa, ben impresse sul pavimento della stanza: un primo indizio potenzialmente utile a smascherare il killer. Le impronte corrispondevano a quelle di una scarpa numero 36.

Un altro elemento su cui fecero affidamento gli inquirenti furono alcuni capelli ritrovati dal medico legale incastrati nel pugno chiuso della vittima. A strapparli, pensarono al tempo, poteva essere stata la stessa Antonella, nel tentativo di difendersi dal suo aggressore. I capelli, di colore biondo, vennero quindi affidati al reparto scientifico dei carabinieri, il Cis, che effettuò una perizia, scoprendo che la ciocca apparteneva a una persona di sesso femminile.

Le impronte e i capelli fecero pensare che l’assassino potesse essere una donna ma, come spiegato anche dalla dottoressa Capozza, “dalla comparazione del Dna con 19 donne, tra cui quella con cui il marito aveva una relazione, non si trovò alcuna corrispondenza” e successivamente un’ulteriore perizia stabilì che i capelli appartenevano alla vittima stessa.

In ogni caso, a far pensare a una donna ci sarebbero le impronte della scarpa numero 36. Ma, in realtà, “si tratterebbe di un tentativo di depistaggio - ha sottolineato Francesca Capozza - in quanto sono presenti solo 3 impronte e solo di scapa sinistra impresse probabilmente poggiando un pugno all'interno, proprio per cercare di fare intendere che quelle fossero testimonianza inequivocabile di una presenza femminile”.

Al tempo, un’altra possibile pista sembrò provenire da una lettera anonima, recapitata alla vittima appena una settimana prima del delitto. Indirizzata ad Antonella, la lettera conteneva però degli avvertimenti riguardanti il figlio: “Attenta a tuo figlio - recitavano i ritagli di lettere di giornale incollate le une vicino alle altre -conosco tutti gli orari motorino scuola palestra. Il ritorno del sabato sera”. Inoltre quell'avvertimento era stato preceduto da una serie di telefonate mute. Ma anche questo indizio si rivelò privo di utilità per arrivare all’assassino.

Quella scritta col sangue

Per oltre 13 anni, l’omicidio di Antonella restò senza un colpevole e sembrava destinato ad arenarsi, dato che ogni pista battuta si era conclusa con un nulla di fatto. Fino al 2006, quando un pm lesse un libro di Carlo Lucarelli, e ne prese spunto per indagare nuovamente e lo indusse a chiedere la riapertura del caso.

La nuova inchiesta si avvalse di tecnologie moderne, in particolare di un potentissimo scanner, che permise di evidenziare un indizio apparentemente decisivo. Secondo queste nuove analisi, infatti, si scoprì che qualcuno aveva scritto sul divano del soggiorno su cui sedeva la donna alcune lettere, utilizzando il sangue della scena del crimine.

Sarebbe stata la vittima, rivelò all’epoca il procuratore aggiunto, parlando con La Repubblica, che “scrisse il nome di suo marito con il sangue alla base del divano”. Lo scanner infatti aveva svelato cosa si celava dietro una delle macchie di sangue presenti sul luogo del delitto: si trattava delle lettere E, N e Z, che scritte di seguito formavano "Enz", interpretato come l’inizio del nome Enzo, diminutivo di Vincenzo. “Abbiamo fatto delle verifiche su quella macchia di sangue - spiegò allora il procuratore - e secondo due perizie agli atti dell’inchiesta ci sarebbero le prime tre lettere scritte a stampatello del nome del marito della vittima”.

Gli inquirenti interpretarono questa nuova scoperta come un indizio lasciato dalla vittima, a indicazione del nome del suo omicida. Per questo il marito della donna, Vincenzo Morici, venne ritenuto il possibile killer di Antonella Falcidia e venne arrestato. Inoltre, spiega la dottoressa Capozza, “l’improvvisa morte del padre di Antonella, senza che venisse disposta un’autopsia, e il decesso per complicazioni post-operatorie dello zio, padrone della clinica e operato proprio dal Morici, gettarono luci inquietanti su un movente liberatorio del killer”, a cui avrebbe contribuito anche “la presenza di una solida relazione extraconiugale del marito”.

Già nel 2007 Vincenzo Morici venne scarcerato e i giudici di primo grado, nel 2011, lo assolsero “per non aver commesso il fatto”. A quel punto, la procura fece ricorso in appello, chiedendo una condanna a 30 anni di reclusione. Nel 2013 però la Corte di Assise di Appello confermò la sentenza di primo grado, che divenne definitiva data l'assenza di un ricorso, scagionando il marito. E, ancora una volta, il caso venne archiviato senza un colpevole.

Un caso che resta irrisolto

Ora, a distanza di quasi trent’anni, la morte di Antonella Falcidia resta ancora un caso irrisolto. Molti degli indizi raccolti si rivelarono probabili depistaggi. Le impronte di scarpa e le ciocche di capelli infatti sembrarono create ad arte per far ricadere i sospetti su una donna, mentre la lettera anonima recapitata alla vittima recava scritto a macchina un indirizzo, poi cancellato in malo modo, così da renderlo comunque visibile e permettere di identificarne la provenienza.

Secondo la dottoressa Capozza, il caso rimane ad oggi irrisolto anche per alcuni errori e ritardi compiuti nel corso delle indagini: “L’appartamento - ha spiegato - dopo il sopralluogo di carabinieri e medico legale, non venne sigillato e anzi, poche ore dopo l'omicidio, la scena del delitto venne pulita con uno straccio e il lavoro definitivo completato l'indomani dalla donna di servizio dei Morici. In sede di ispezione medico legale del corpo, non venne rilevata la temperatura interna né quella esterna, elementi cruciali per stabilire l'ora del delitto”.

Un possibile profilo dell’omicida, stilato dalla criminologa, è quello di una “persona affettivamente intima, dato l’accanimento 'passionale' del gesto, ricco di carica emotiva”. Non solo. “Analizzando tutti gli elementi a disposizione, il killer sembra essere un individuo calcolatore e meticoloso, attesa la premeditazione dei tentativi di depistaggio”.

Ipotesi, sopralluoghi, ricerche e indizi non sono riusciti a condurre gli inquirenti su una pista risolutiva. Dopo i sospetti su un ex domestico di casa Falcidia, su una donna e sul marito, il caso è stato chiuso e la morte di Antonella resta, ancora oggi, un mistero irrisolto, uno dei tanti cold case che restano sospesi nel tempo, ma che, da un momento all’altro, potrebbero riemergere e riprendere a parlare.

La foto sui social e l'sms del killer di Alessandra: "Ho preso la decisione". Giovanni Padovani, il calciatore che uccise a martellate l'ex fidanzata, avrebbe inviato un messaggio vocale ai compagni di squadra due mesi prima del delitto: "Mi sto convincendo sempre di più. Alla gente dite che ho sofferto". Rosa Scognamiglio il 28 Aprile 2023 su Il Giornale.

"Ragazzi penso che ho preso la mia decisione... Mi sto convincendo sempre di più". Sono le parole che emergono da un messaggio vocale che l'ex calciatore dilettantistico Giovanni Padovani, il killer di Alessandra Matteuzzi, inviò ai compagni di squadra circa due mesi prima del delitto. La trascrizione è agli atti del fascicolo di inchiesta per omicidio aggravato da premeditazione, futili motivi, stalking e legame affettivo. Il 27enne di Senigallia, recluso da mesi nel carcere della Dozza, sarà a processato davanti alla Corte d'Assise di Bologna il prossimo 3 maggio. Il legale dell'imputato, l'avvocato Gabriele Bordoni, ha chiesto ai giudici di chiamare a testimoniare la conduttrice televisiva Maria De Filippi. A quanto risulta, il pomeriggio del 23 agosto 2022 (il giorno dell'agguato mortale) Padovani avrebbe contattato la redazione di "Uomini e donne", noto programma d'intrattenimento di Canale 5, per partecipare ai casting. Secondo la difesa tale circostanza escluderebbe l'aggravante della premeditazione contestata all'assistito.

Il messaggio vocale

A pochi giorni dal processo, emergono nuovi dettagli sull'omicidio di Alessandra Matteuzzi. Si tratta di una chat acquisita agli atti dalla Squadra Mobile che si occupò delle indagini. Stando a quanto trapela all'Ansa, il 15 giugno del 2022, Padovani inviò un messaggio vocale ai compagni di squadra: "Ragazzi penso che ho preso la mia decisione...Mi sto convincendo sempre di più... Qualsiasi cosa succeda dovete promettermi che spiegherete alla gente che è successa perché ho sofferto molto e spiegargli che sono stato manipolato e non sono più capace di intendere e di volere in modo lucido". Nei messaggi successivi, il 27enne aggiungeva che "non aveva più niente da perdere" e che lei "avrebbe pagato". La chat termina con Padovani che rassicurò i colleghi: "Ragazzi mi sono tranquillizzato per ora, vi aggiornerò".

La foto sui social

Agli atti dell'inchiesta c'è anche una foto postata sui social da Alessandra il 20 agosto 2022, tre giorni prima del delitto. L'immagine ritraeva la mano tatuata di un giovane uomo, simile a quella di Padovani, mentre si trovava al tavolo di un locale. Secondo gli inquirenti, la 56enne l'avrebbe pubblicata per lasciare intendere all'ex che era in compagnia di una persona. Tale circostanza avrebbe mandato su tutte le furie il 27enne, al punto da decidere di abbandonare il ritiro alla vigilia di una partita importante. "Questa foto - ha raccontato un compagno dell'imputato a verbale -è stata sicuramente determinante per la sua partenza, appena vista l'immagine ho notato in Giovanni un immediato cambiamento di espressione e d'umore, l'aver visto quella mano maschile lo aveva sicuramente turbato".

"Voleva un video ogni 10 minuti": l'ossessione del killer di Alessandra

La difesa chiede di sentire Maria De Filippi

Il reato contestato a Padovani è di omicidio aggravato da premeditazione, futili motivi, stalking e legame affettivo. Secondo l'avvocato Gabriele Bordoni, il pomeriggio del 23 agosto 2022 (il giorno del delitto), il 27enne aveva contattato la redazione di "Uomini e donne" per partecipare alle preselezioni ed è il motivo per cui ha chiesto ai giudici di convocare Maria De Filippi come teste. Secondo il legale questo dimostrebbe che l'assistito "stava facendo altri programmi per i giorni successivi - ha dichiarato il legale dell'imputato - e non aveva un intento predefinito di uccidere Alessandra quella sera".

L'omicidio di Alessandra Matteuzzi

Alessandra Matteuzzi e Giovanni Padovani si erano conosciuti sui social. Tra loro era nata una relazione che, tra alti e bassi, era andata avanti per quasi un anno. Qualche mese prima di essere uccisa, la 56enne aveva denunciato l'ex compagno per stalking ottenendo un provvedimento restrittivo. Pare, infatti, che il 27enne la tampinasse, controllasse i suoi profili social chiedendole di inviarle dei video, da inviare su Whatsapp, per monitorare i suoi spostamenti. Stando a quanto emerso dalle indagini, Padovani sarebbe stato ossessionato dall'idea di un possibile tradimento. Al punto da molestare la ex con messaggi, telefonate e appostamenti sotto casa. La sera del 23 agosto 2022 avrebbe raggiunto Alessandra sotto casa, un appartamento in via Corticella, a Bologna. Qui l'avrebbe colpita con un martello, almeno 20 volte alla testa, lasciandola esanime in cortile.

Alessandra Matteuzzi, la donna uccisa a Bologna si confidò in chat con un poliziotto: "Il mio ex ha seri problemi". Storia di Redazione Tgcom24 l’11 gennaio 2023.  

Una decina di giorni prima di essere uccisa, Alessandra Matteuzzi si confidò in chat con un poliziotto, conosciuto su un'app di incontri, raccontandogli quello che stava vivendo a causa delle persecuzioni dell'ex fidanzato Giovanni Padovani. Avveniva tra il 12 e il 13 agosto 2022: il 23 Padovani avrebbe assassinato Matteuzzi, attendendola sotto casa in via dell'Arcoveggio a Bologna e colpendola a martellate. Venne quindi arrestato per omicidio aggravato dallo stalking. Dall'analisi dei dispositivi informatici, disposta dalla Procura, è emerso che, scrivendo in chat, Matteuzzi parlava così dell'ex: "È un ragazzo con dei seri problemi ed è una cosa molto delicata... Si era impossessato di tutti i miei social, ho dovuto cambiare tutte le mail e la password".

La conversazione - "Bisogna stare attenti a quelle persone. Ma ora lo hai mollato?", le chiedeva il poliziotto. "Certo, e non solo... ma non ti posso raccontare ora". "Spero tu stia serena ora", le diceva lui. "Ancora no, è presto", continuava Alessandra, "ti dico solo che si è arrampicato al secondo piano del palazzo dove abito... una mattina poco tempo fa apro la finestra della terrazza e me lo sono visto entrare". "Un folle", commentava il poliziotto, che poi domandava: "Hai fatto denuncia?". Risposta di Alessandra: "Non posso dirti nulla, ti ripeto è una situazione molto delicata. Deduci". E lui: "Sono poliziotto, quindi posso immaginare. Ti auguro solo di aver risolto".

Matteuzzi, che qualche giorno prima si era rivolta ai carabinieri per denunciare Padovani, gli parlò dell'ansia in cui viveva per "tutta questa situazione che al momento mi fa vivere segregata". Il poliziotto, che non risulta abbia fatto una relazione sulla vicenda, è stato sentito dalla squadra mobile che segue le indagini sul delitto.

Matteuzzi alla madre dell'ex: "Non voglio morire!" - "Io non voglio morire!". Il grido di terrore di Matteuzzi è anche in una chat con la madre del suo ex fidanzato Padovani. Un mese prima, il 23 luglio, le due donne hanno chattato e i messaggi sono agli atti dell'inchiesta della Procura di Bologna: "Tuo figlio va aiutato perché ha dei grossi problemi", diceva Alessandra. Risposta: "Lui è rimasto convinto che tu lo tradivi continuamente dicendomi che hai rovinato tutto... comunque poi ci sentiamo al telefono". Ma Alessandra insiste: "Questa è la sua follia e la sua patologia che lo porta a essere violento. Io non voglio morire!!!!". La madre di Padovani a quel punto difende il figlio: "Guarda, Giovanni non è mai stato come dici con nessuno. Su queste cose ti sbagli". Un mese dopo Matteuzzi sarebbe stata assassinata.

L'ex cercava "Come uccidere a sprangate"... - "Uccide ex a sprangate", "Come stordire una persona con una mazza", "Pena omicidio volontario". Sono alcune delle centinaia di ricerche, fatte da inizio giugno 2022 fino poco prima del delitto e trovate nella cronologia web di Padovani. Le ricerche fatte dall'indagato sono elencate nella consulenza tecnica informatica depositata da Angelo Musella, nominato dalla Procura di Bologna nell'ambito del fascicolo per omicidio aggravato. Padovani attese l'ex sotto casa effettivamente la percosse a morte con un martello e con una panchina.

Nelle oltre 300 pagine di elaborato sono segnalate tutte le ricerche digitate da Padovani, molte delle quali di interesse investigativo: "stalking e violenza sulle donne quanti anni di reclusione", "pagare delle persone per picchiare", "che condanna c'è per rapimento", "dove colpire una persona in testa per farla svenire", "posto migliore per nascondersi con una persona morta", "dove è più difficile rintracciare un cadavere", "con un colpo alla testa forte con una spranga riesce poi a urlare", "accoltellamento pena" e altre sul genere. Padovani cercava anche informazioni sul carcere: "Si può usare il cellulare in carcere", "quante volte si può andare a trovare un detenuto" e "stati dove non valgono le leggi italiane". E due giorni prima del delitto: "per andare in Albania serve il passaporto" o "Stati dove non conta la pena di morte".

... e appuntava: "Martello, corda" - "Nastro isolante, martello, corda (meglio manette), fai chat inventata tra te e lei dove ti dice di venire a casa sua e portare manette". Lo scriveva Giovanni Padovani nelle note del suo cellulare, il 20 agosto 2022. È quanto emerge dall'analisi del cellulare eseguita dal consulente tecnico nominato dal procuratore aggiunto Lucia Russo e dal pm Domenico Ambrosino, che indagano per omicidio volontario. Padovani è in carcere dal giorno dell'arresto, subito dopo il delitto.

Estratto dell'articolo di Claudia Guasco per “il Messaggero” il 12 gennaio 2023.

[…] «Cosa fa un detenuto tutto il giorno?», è una delle ricerche trovate nella cronologia web del telefono di Giovanni Padovani da inizio giugno 2022. […] «Nastro isolante, martello, corda (meglio manette), fai chat inventata tra te e lei dove ti dice di venire a casa sua e portare manette. Domenica 21 agosto inizio chat». Lo scrive nelle note del cellulare la sera del 20 agosto 2022, tre giorni dopo Padovani aspetta sotto casa a Bologna l'ex fidanzata Alessandra Matteuzzi, 56 anni, e la massacra a colpi di martello, calci e usando anche una panchina.

Il consulente tecnico nominato dal procuratore aggiunto Lucia Russo e dal pm Domenico Ambrosino ha depositato i risultati della consulenza sullo smartphone del calciatore ventisettenne, […] «riteniamo che la contestazione dell'aggravante della premeditazione sarà inevitabile», affermano gli avvocati Chiara Rinaldi e Antonio Petroncini, legali della famiglia di Alessandra.

 L'app delle note di Padovani sono una sorta di diario. Il 2 luglio il giocatore si sfoga e al contempo prepara il terreno per quella che nella sua mente rappresenta una giustificazione: «La uccido perché lei mi ha ucciso moralmente. Mi ha manipolato è usato, facendomi passare per pazzo, ma la pazza è lei. Direte: lui l'ha uccisa, non sta meglio, anzi è lui il pazzo, ma non è così. Lei mi ha tradito, lo scrivo perché andrò in galera e così la polizia capirà il male che lei mi ha fatto».

Prima però ci sono mesi di stalking, soprusi, vessazioni. Il 23 aprile Padovani invia uno screenshot alla madre: «Sono le telecamere di casa sua e ha il suo cellulare in mano. Sono riuscito a entrare», facendo capire di poter disporre delle immagini del sistema di videosorveglianza di Alessandra. Che, nella sua disperazione, chiede aiuto anche alla donna. […] La madre lo difende: «Guarda, Giovanni non è mai stato come dici con nessuno. Su queste cose ti sbagli». […]

 Dall'11 giugno fino a poche ore dal delitto architetta il metodo più efficace per uccidere la sua ex, vagheggia la fuga, si prepara a un possibile arresto. Digita a ripetizione: «Quanto ci vuole per morire per strangolamento», «con un colpo alla testa forte con una spranga riesce poi a urlare?», «dove perde meno sangue una persona con un coltello». Quindi pensa al «posto migliore per nascondersi con una persona morta» e «dove è più difficile rintracciare un cadavere».

Il 23 agosto Padovani abbandona il ritiro con la squadra, prende un aereo e va a Bologna per mettere in atto il suo piano. Alle sei di sera ha un dubbio […] Prima di massacrare la ex esplora altre possibilità, si informa su «tariffe per uccidere», «il rapimento perfetto», «pagare una persona per picchiare».

 A due giorni dall'agguato prova a immaginare una via di fuga: «Per andare in Albania serve il passaporto», «Stati dove non valgono le leggi italiane» o «dove non conta la pena di morte». […]

Padovani sapeva già cosa avrebbe fatto e le conseguenze: […]«si può usare il cellulare in prigione», «quante volte si può andare a trovare un detenuto». Il calciatore ora è nel carcere di Bologna, è rilassato e impassibile, il giorno dopo l'omicidio si è seduto a pranzo con gli altri detenuti e ha mangiato di gusto. […]

La scoperta nelle indagini. Omicidio Alessandra Matteuzzi, la nota sul cellulare del killer Padovani un mese prima del femminicidio: “La uccido”. Redazione su Il Riformista il 9 Gennaio 2023

Quello di Alessandra Matteuzzi, la 56enne uccisa a martellate dall’ex fidanzato 27enne Giovanni Padovani, potrebbe essere un omicidio premeditato da oltre un mese.

Nella mente dell’ex calciatore della formazione siciliana della Sancataldese già dal 2 luglio 2022 vi era il proposito di “vendetta” nei confronti dell’ex compagna.

A scoprire i piani di Padovani è stato il consulente tecnico nominato dalla Procura, Angelo Musella. Quest’ultimo ha trovato nello smartphone di Padovani un appunto agghiacciante perché annuncia ciò che il 27enne realizzerà la sera del 27 agosto a Bologna.

La uccido perché lei mi ha ucciso moralmente”, è il messaggio trovato dal consulente sul telefono di Padovani, attualmente in carcere con l’accusa di omicidio aggravato dallo stalking, ripotato oggi dal Corriere della Sera.

Il giovane, ex modello, era già stato denunciato dall’ex compagna, che aveva segnalato ai carabinieri le condotte persecutorie messe in atto dal 27enne. “Tutte le volte in cui io ho accondisceso alle richieste di Padovani è stato per paura di scatenare la sua rabbia”, scriveva Matteuzzi nella denuncia presentata il 29 luglio ai carabinieri. “Alla luce di tutte le occasioni in cui è riuscito ad accedere al condominio dove abito, ho sempre timore di ritrovarmelo davanti ogni volta che torno a casa, o quando apro le finestre”, aggiungeva la donna nella deposizione ai militari.

Secondo quanto denunciato da Alessandra, l’ex compagno era spinto da una gelosia incontrollabile: ‘sentimento di possesso’ che lo portava a chiederle di inviargli un video ogni 10 minuti se i due non erano insieme, per assicurarsi così che la fidanzata gli fosse fedele.

L’epilogo drammatico di questa persecuzione arriverà la sera del 23 agosto, quando Padovani aspetta Alessandra sotto la sua abitazione e la colpisce a suon di calci, pugni e soprattutto martellate, che risulteranno fatali. Troppo gravi le ferite inferte alla testa, ma anche al torace: la 57enne morirà poche ore dopo il ricovero all’ospedale Maggiore di Bologna.

Giuseppe Baldessarro per bologna.repubblica.it il 14 ottobre 2022.

L’ha uccisa con almeno venti colpi al volto e al capo, provocandole una dozzina di fratture. Sono queste le conclusioni a cui è arrivato il medico legale Guido Pelletti, incaricato dalla Procura di far luce sulle cause e la dinamica della morte di Alessandra Matteuzzi, assassinata sotto casa la sera del 23 agosto dall’ex compagno Giovanni Padovani, calciatore dilettante. 

L’uomo, accusato di omicidio aggravato e stalking, attese la donna nel cortile di casa e la colpì con calci, pugni e martellate. Poi le scaraventò contro anche una panchina di ferro che stava nel giardinetto del condominio. Colpi feroci, non solo alla testa ma anche a torace, braccia e gambe. Alessandra morì all’ospedale Maggiore poco prima di mezzanotte. Padovani, secondo le indagini, la uccise quando Alessandra decise di interrompere la relazione tra di loro, denunciandolo per i suoi comportamenti persecutori. 

L’indagine della squadra Mobile è coordinata dalla procuratrice aggiunta Lucia Russo e dal pm Domenico Ambrosino che, nei giorni scorsi, hanno deciso di sviluppare ulteriori approfondimenti tecnici con l’analisi di altri due telefoni sequestrati dopo l’omicidio.

Apparecchi che vanno ad aggiungersi a quelli trovati e consegnati ai periti il giorno del delitto. Tutto questo per tentare di avere un quadro più completo possibile dei trascorsi tra i due e verificare la presenza di chat e messaggi dello stesso tenore di quelli già scoperti. 

Da questi “dialoghi” traspare la morbosa, ossessiva gelosia di Padovani e gli inutili tentativi di lei di allontanarlo dalla sua vita. L’indagato, in carcere dal giorno dell’omicidio, è difeso dagli avvocati Denise Mondin ed Enrico Buono, mentre i familiari della vittima sono seguiti dagli avvocati Chiara Rinaldi e Antonio Petroncini.

Omicidio Alessandra Matteuzzi, la sorella: “La vidi il giorno che Giovanni l’ha uccisa, era disperata”. Chiara Nava il 12/09/2022 su Notizie.it.

La sorella di Alessandra Matteuzzi, la 56enne uccisa a coltellate a fine agosto dall’ex compagno, ha raccontato cosa è successo quel giorno. 

Stefania Matteuzzi, sorella di Alessandra, 56enne uccisa a coltellate dall’ex compagno, Giovanni Padovani, è stata ospite di Mara Venier a Domenica In e ha parlato di quello che è accaduto quel giorno.

Omicidio Alessandra Matteuzzi, la sorella: “Ero al telefono con lei quando l’ha uccisa”

Stefania Matteuzzi, sorella di Alessandra, uccisa a martellate a 56 anni dall’ex compagno, il calciatore 27enne Giovanni Padovani, è stata ospite di Mara Venier a Domenica In e ha raccontato cosa è accaduto quel giorno. “Ero a telefono con lei quando è stata uccisa. Sentivo le sue urla e quelle dell’assassino. L’avevo anche vista quel giorno, era disperata per Giovanni” ha dichiarato la donna. “Era molto bella, ma anche una persona semplice al di là di quello che si può pensare vedendo i social.

Condividevamo molto, come se avessimo vissuto nella stessa casa. Tutti i giorni ci raccontavamo quello che ci succedeva. L’avevo spinta io a cercare di conoscere un uomo, a lei non interessava dopo i problemi di salute dei nostri genitori” ha spiegato Stefania. “Alessandra mi ha parlato di Giovanni sin da subito. L’aveva trovato su Facebook. All’inizio lei è rimasta colpita perché lui gli aveva raccontato di un problema di salute che aveva avuto in passato.

Le era dispiaciuto. Mi ricordo che spesso mi diceva he lo apprezzava perché cercava di andare avanti nonostante le difficoltà. Fino a Ferragosto dello scorso si è comportato bene, era molto amorevole anche con la mia mamma” ha aggiunto la donna. 

Omicidio Alessandra Matteuzzi, la sorella: “La vidi il giorno che Giovanni l’ha uccisa, era disperata”

Dopo Natale l’atteggiamento di Giovanni è cambiato. “Ha cominciato a comportarsi in maniera strana.

Mi contattava continuamente, lui era convinto che mia sorella lo tradisse e voleva che io lo appoggiassi. Poi è diventato aggressivo, urlava e ho detto basta. Alessandra mi dava ragione ma a fatica ne ha preso le distanze anche se lui provava a riavvicinarsi. Poi pian piano ha trovato la forza, si è resa conto che faceva cose sempre più gravi” ha raccontato Stefania Matteuzzi. “Quella sera sono andata a casa sua con una scusa. Noi ci eravamo allontanate in quel periodo, io avevo paura del comportamento di questa persona, lei però continuava a dargli una possibilità. Lei ha confessato che era disperata. Il 29 luglio è andata a fare la denuncia. Ha fatto finta finta di andare in vacanza per far vedere che non era a casa” ha spiegato la donna. “Quel giorno lì io l’ho vista. Voleva parlarmi. Mi disse che era disperata per Giovanni, che il giorno prima si era presentato di nuovo sotto casa e le aveva staccato la luce. Lei era convinta che lui non ci fosse quella sera, che fosse in Sicilia con la squadra. Volevo che restasse da me ma lei doveva dare da mangiare al cane. Eravamo a telefono insieme, prima ancora che entrasse dal condominio. Poi a un certo punto ho sentito solo urla di lei e di lui incomprensibili. Non c’è stato dialogo. Ho chiamato subito i carabinieri con il telefono del mio compagno e intanto al telefono sentivo ancora le urla. Mi sono precipitata da lei, ma quando sono era arrivata era già troppo tardi” ha concluso. 

(ANSA il 24 agosto 2022) - Una donna di 56 anni è stata uccisa ieri sera a Bologna, colpita con una mazza e altri oggetti contundenti, in via dell'Arcoveggio, periferia della città. Si sarebbe trattato di un femminicidio. 

Secondo le prime informazioni raccolte i sospetti si concentrerebbero su un uomo che da tempo la importunava e che sarebbe stato preso in consegna dalla Polizia. Il sospettato è un italiano di 27 anni che aveva già una misura cautelare. Ieri sera avrebbe atteso la vittima per almeno due ore sotto casa, dove poi l'ha aggredita, appena fuori dalla porta della palazzina dove viveva.

(ANSA il 24 agosto 2022) - È stato arrestato un giovane di 27 anni, Giovanni Padovani, che ieri sera ha aggredito e ucciso una donna a Bologna, Alessandra Matteuzzi, in via dell'Arcoveggio, nel cortile condominiale. Secondo quanto riferito dalla Polizia si tratta del compagno, che avrebbe utilizzato anche un martello. L'intervento delle volanti è delle 21.30, per la segnalazione di una violenta lite. La donna era riversa a terra e ferita alla testa in stato di incoscienza. Trasportata in ospedale, è morta poco dopo. Sul posto era presente anche l'aggressore, arrestato per omicidio aggravato su disposizione della Procura.

Da leggo.it il 24 agosto 2022.

Quando Alessandra Matteuzzi, la donna di 56 anni uccisa ieri sera a Bologna, è stata aggredita a morte dall'ex compagno, il calciatore Giovanni Padovani, in quel momento era la telefono con la sorella. «È scesa dalla macchina e ha cominciato a urlare: no Giovanni, no, ti prego, aiuto. Io ero al telefono, ho chiamato immediatamente i carabinieri che sono arrivati subito. Io abito a 30 chilometri. Alla fine l'ha massacrata di botte», ha detto la donna in lacrime al Tgr Rai Emilia Romagna.

«C'era stata una denuncia e anche delle integrazioni, erano stati sentiti dei testimoni e nominato un pm», spiega ancora la sorella in un video pubblicato dal quotidiano Il Resto del Carlino. 

«Hanno avuto una frequentazione a distanza, perché lui faceva il calciatore in Sicilia, quindi si sono visti poche volte - ha aggiunto la sorella della vittima - era poco più di un anno che si conoscevano, però è dallo scorso gennaio che ha cominciato ad avere delle ossessioni verso di lei». 

«Si vedevano una volta al mese, poi hanno passato qualche giorno insieme, durante il periodo di pausa calcistica, lui è stato qua con lei - ha detto ancora - A quel punto però le sono successe delle brutte cose, lui aveva rotto piatti e bicchieri, si era arrampicato dalla terrazza, staccava la luce generale del suo appartamento, e le faceva degli agguati sulle scale», ha spiegato la donna. 

Il club: «Lo avevamo già allontanato»

Intanto la Sancataldese, squadra che milita nel campionato di Serie D, precisa che Padovani era già stato allontanato dalla squadra. «Condanniamo senza se e senza ma ogni violenza e femminicidio. Non riusciamo a trovare le parole per commentare i fatti che si sono verificati ieri sera a Bologna, per la furia e la ferocia subita da Alessandra Matteuzzi.

Ciò che proviamo in questo momento è shock e sgomento», fa sapere in una nota il club di San Cataldo (Caltanissetta). «La Società Sancataldese Calcio - continua la nota - tiene a puntualizzare che il calciatore Giovanni Padovani già lo scorso sabato 20 agosto era stato messo fuori rosa a causa del suo ingiustificato allontanamento. La dirigenza verde amaranto si stringe al dolore della famiglia della vittima, certi che la legge faccia il suo corso».

Omicidio di Bologna, Alessandra assassinata dal suo stalker. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno su il 24 Agosto 2022

La sorella della vittima: “Era al telefono con me e urlava ‘no Giovanni, ti prego’” Arrestato il killer che la vittima aveva già denunciato e che aveva il divieto di avvicinarsi: è un calciatore ed ex modello di Senigallia

A nulla sono servite le denunce, il divieto di avvicinamento imposto dal giudice, le raccomandazioni con i vicini e le urla: Alessandra Matteuzzi, 56 anni, detta Sandra, è stata uccisa ieri sera a martellate dal suo stalker ed ex fidanzato Giovanni Padovani. Si erano frequentati per lo più a distanza per un annetto, visto che lui faceva il calciatore in Sicilia. Da gennaio era scattata l’ossessione per Alessandra e lei lo aveva denunciato per stalking. Lui 26 anni, di Senigallia è un calciatore dilettante ed aspirante fotomodello: l’ha attesa sotto casa in via dell’Arcoveggio, nella prima periferia di Bologna. È arrivato alle 19, è rimasto appostato sino alle 21 quando la donna è rincasata: prima l’ha strattonata urlando, poi l’ha colpita a martellate nella notte tra martedì e mercoledì, fino a renderla in fin di vita, accasciata sul marciapiede dopo averla colpita senza pietà e senza lasciarle scampo. 

Era al telefono con me. E’ scesa dalla macchina e ha cominciato a urlare: no Giovanni, no, ti prego, aiuto. Io ero al telefono, ho chiamato immediatamente i carabinieri che sono arrivati subito. Io abito a 30 chilometri. Alla fine l’ha massacrata di botte” ha raccontato al Tg3 Emilia-Romagna la sorella della vittima.

L’uomo si è costituito all’arrivo delle forze dell’ordine, ed è stato fermato con l’accusa di omicidio volontario. Alessandra Matteuzzi è stata soccorsa, ma è morta poco dopo l’arrivo in ospedale. Nel pomeriggio Padovani verrà sottoposto all’interrogatorio di garanzia. 

Il calciatore e modello diventato assassino

Nato a Cesano di Senigallia (Ancona) Padovani ha alle spalle una breve e mediocre carriera calcistica in Serie D, dove ha giocato per il Troina Calcio, il Giarre, e ora la siciliana Sancataldese. L’approdo per la prossima stagione alla Santacataldese è durato poco, visto che 8 giorni fa è stato messo “fuori rosa a causa del suo ingiustificato allontanamento”.

A descrivere il comportamento degli ultimi giorni di Padovani  è l’avvocato Salvatore Pirrello, dirigente e legale della Sancataldese, squadra di calcio di Serie D: “Giovanni Padovani era arrivato alla Sancataldese circa 10 giorni fa. Sebbene nei giorni trascorsi in albergo per il ritiro con i compagni avesse avuto un comportamento normale, e con loro aveva anche instaurato un buon rapporto, sembrava un ragazzo un po’ solitario. Avevamo intuito – aggiunge – che avesse dei problemi e che non era sereno. Spesso si isolava, tant’è che sabato aveva lasciato improvvisamente il ritiro dicendo all’allenatore che per problemi personali doveva andare via. Lunedì ci aveva ricontattato per chiedere di rientrare in squadra. Ma il fatto che fosse andato via senza nessuna spiegazione la sera prima della partita di domenica, contro il Catania – ricostruisce l’avvocato Pirrello – per noi era un fatto grave e quindi non lo abbiamo più reintegrato in squadra comunicandogli che per quanto ci riguardava poteva cercare una nuova società. Certo nessuno poteva aspettarsi fatti simili. La notizia ci ha sconvolti”. 

Circa un anno fa era iniziata la relazione con la Matteuzzi, ma i due si vedevano poco, proprio a causa del fatto che il giovane giocava in Sicilia. La breve convivenza non era andata bene. «Lui aveva rotto piatti, staccato la luce dell’appartamento dal quadro generale», ha spiegato al Resto del Carlino la sorella della vittima. A gennaio erano iniziati gli atti persecutori e Alessandra l’aveva denunciato per stalking ai carabinieri. Padovani era arrivato ieri a Bologna in aereo dalla Sicilia, per poi andare ad attendere la donna sotto casa.

La donna per lui era diventata una vera ossessione. “Non vedo mai la mia fidanzata Alessandra e questo un po’ mi dà fastidio”, aveva sottolineato persino in un’intervista rilasciata il 14 dicembre scorso a Mondocalcionews.it, uno dei siti di riferimento per gli appassionati di calcio. 

A dare l’allarme, ieri sera, è stato un residente nella stessa palazzina, che ha sentito le urla disperate della donna. Sarebbe arrivato in aereo dalla Sicilia per aggredire la ex. “Sandra mi aveva detto: se suona quel ragazzo, per favore non gli apra – racconta la vicina di casa – Quando ieri sera l’ho visto qui sotto sono entrata e ho chiuso la porta perché non entrasse. Ultimamente era diventato molto insistente“. Quando sono arrivati i soccorsi la donna era riversa a terra, ferita alla testa, incosciente. Trasportata in ospedale, è morta poco dopo.

Da gennaio 77 femminicidi

Sono 77 i femminicidi, di cui 67 donne uccise in ambito familiare o affettivo. Di queste, 40 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex. Rispetto allo scorso anno, l’incremento è del 5% circa. E’ quanto emerge dal confronto con il report settimanale del Viminale (22 agosto), in relazione all’ultimo femminicidio avvenuto ieri a Bologna. “I dati diffusi dal Viminale riportano un aumento dei femminicidi. Non pochi commessi da soggetti gravati dal divieto di avvicinamento alla vittima. Questa blanda misura non funziona da anni. Non serve a frenare chi è accecato da sentimenti di possesso, rancore o rivalsa. Da sempre penso che la misura minima da applicare dovrebbero essere gli arresti domiciliari con automatica conversione in custodia carceraria al primo accenno di ulteriori attenzioni verso la vittima” dice Valter Giovannini, magistrato in pensione, ex coordinatore reati a sfondo sessuale della Procura di Bologna.

L’allarme dei vicini di casa

Questa mattina, i vicini di casa di Sandra hanno raccontato, al diffondersi della notizia e di fronte a un selciato che ancora portava le tracce del delitto, che Padovani aveva avuto una relazione con la Matteuzzi: una volta terminata, ripetutamente respinto da lei, aveva cominciato a perseguitarla, al punto che Alessandra lo aveva denunciato, ottenendo un decreto di restrizione nei suoi confronti. 

La vittima e il suo profilo social

L’ultima foto di Alessandra postata tre giorni fa su Instagram è quella di uno specchio in cui si legge “Fuck normal, I want magic”. La 57enne, piuttosto attiva sul social network dedicato alla fotografia, contava su Instagram oltre mille follower: sul suo profilo, a poche ore dalla morte, ora compaiono tanti messaggi di cordoglio e incredulità per la sua scomparsa. La stessa cosa accade sul suo profilo Facebook, dove l’ultimo post della 57enne, pubblicato il 20 agosto, la ritrae in costume. Diverse le immagini di vita quotidiana pubblicate dalla donna, nel tempo, insieme alla madre. Tra gli amici, compare anche Padovani.

Alessandra Matteuzzi, massacrata a martellate dall’ex: l’agguato avvenuto mentre era al telefono con la sorella. Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera su il 25 Agosto 2022

Il femminicidio è avvenuto a Bologna. La sorella: «Gridava disperata. Non è stata protetta: da parte delle forze dell’ordine non era arrivato alcun provvedimento»». Un mese fa aveva denunciato il suo ex. 

«Gridava, disperata: “No Giovanni, no Giovanni…”, poi le urla strazianti...». Le trema la voce e non trattiene le lacrime. Stefania è la sorella di Alessandra Matteuzzi, la donna di 56 anni uccisa dal suo ex. Era proprio con lei al telefono mentre lui la colpiva ripetutamente con un martello che gli si è spezzato tra le mani mentre la uccideva. Un delitto vissuto in diretta al telefono, dopo settimane di angoscia e denunce rimaste inascoltate. «Da quando lui aveva preso a molestarla avevamo l’abitudine di stare al telefono mentre rientrava — spiega Stefania —, mi raccontava tutto passo passo: “Sono scesa dall’auto”, “ho aperto il portone”, “sono a casa”».

Una sequenza che martedì sera si è interrotta in anticipo. Per la paura Alessandra evitava anche di andare nel garage condominiale. Lasciava l’auto nello spiazzo davanti all’ingresso. E qui il suo ex, nascosto tra le aiuole, l’ha attesa per oltre due ore. Appena l’auto ha varcato il cancelletto che si affaccia su via dell’Arcoveggio, alla periferia di Bologna, le ha lasciato il tempo di aprire la portiera. Quindi ha cominciato a colpirla a calci e pugni. Ha infierito con il martello che si era portato dietro e poi le ha lanciato contro anche una panchina in ferro. Una furia bestiale. Quindi si è rivolto a un ragazzo richiamato in cortile dalle urla: «Tranquillo, non ce l’ho con voi. Ora mi arrestano e finisce tutto».

Alessandra ha avuto la forza di trascinarsi fino al portico all’ingresso del palazzo. Qui è stramazzata a terra. La polizia è arrivata immediatamente, allertata dalla sorella e dai vicini. Lui ha atteso che lo arrestassero, mentre Alessandra moriva in ospedale. Ieri mattina la sua auto e la grossa chiazza di sangue erano ancora lì, a testimonianza di una notte di ferocia.

Stando ai vicini una morte annunciata: «Aveva paura e ci aveva raccomandato: se vedete quell’uomo non dovete farlo entrare». Lo conferma la sorella. «Da gennaio era ormai fuori di testa» e aveva reso la vita di Alessandra un inferno. «Voleva sempre conoscere la sua posizione, la tempestava di messaggi». E poi c’erano gli atti di vera e propria persecuzione. «Spesso staccava la luce dal contatore. Entrava dalla terrazza, oppure se lo trovava sulle scale. Per mia sorella era un incubo». Da qui le denunce.

Le prime segnalazioni a giugno. «Poi, il 29 luglio abbiamo presentato formale denuncia ai carabinieri, ma non è stato fatto nulla». Perché? Stando a fonti della Procura il primo agosto era stato aperto un fascicolo a carico di Padovani, indagato per stalking. Dieci giorni dopo i carabinieri avevano inviato una prima informativa, riservandosi di presentare un rapporto completo entro fine mese, dovendo ancora interrogare altri testimoni. Nel frattempo non è scattata alcuna misura a tutela della donna. E viene da pensare che il clima di ferie abbia fatto la differenza nel tragico esito di questa storia.

E così Padovani, 26 anni, ha messo in atto l’agguato contro quella donna, di 30 anni più grande, che a quanto pare voleva troncare la relazione. L’uomo ha abbandonato il ritiro della squadra forse sperando in una riconciliazione. Qui le ricostruzioni divergono. Lui racconta di averla incontrata lunedì e di essere tornato l’indomani sotto casa, perché lei non gli rispondeva più ai continui messaggi.

Diversa la versione della sorella che racconta che la sera prima lui era entrato nel palazzo staccando la luce. Tanto che il suo legale le aveva detto di integrare con questo particolare le precedenti denunce. «Era ossessionato che lei lo tradisse. La sera prima mia sorella mi aveva chiamato demoralizzata. Oltre alla paura c’era anche lo stupore perché da parte delle forze dell’ordine non arrivava alcun provvedimento». E ora anche Stefania vive nell’angoscia: «Ho paura. Se lo lasciano libero sono sicura che verrà ad ammazzarmi o ucciderà qualcuna delle persone vicine a me».

Giovanni Padovani e il femminicidio di Alessandra Matteuzzi a Bologna: le loro vite parallele sui social (e i pochi incontri). Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera su il 25 Agosto 2022

La relazione tra Giovanni Padovani e la donna che ha assassinato risale al 2021. Dalla società di calcio dove giocava lui: «Non era sereno. Spesso si isolava e sabato ha lasciato improvvisamente il ritiro»

«Vivo di gesti, non di chiacchiere... solo quelli apprezzo veramente», per lui era questo il vangelo da duro, tutto muscoli e tatuaggi. Mentre lei preferiva citare Coco Chanel: «Si può essere splendidi a trent’anni, affascinanti a quarant’anni e irresistibili per il resto della tua vita». Due vite, quelle di Alessandra Matteuzzi, detta Sandra, e del suo assassino Giovanni Padovani , ampiamente declinate sui social con centinaia di foto, anche se nessuna di loro due insieme. E proprio sui social si erano conosciuti nell’estate di un anno fa.

Una relazione «molto aperta», raccontano gli amici e anche la sorella. Di quelle in cui non ci dovrebbe essere spazio per manie di possesso. Lui di mestiere faceva il calciatore. Attualmente militava con la Sancataldese, nel campionato di serie D. Sempre in Sicilia aveva giocato con il Giarre e il Troina. E dal semiprofessionismo pare fosse già pronto per il salto in serie C. Sul suo talento da difensore aveva già messo gli occhi anche il Carpi. Ma oltre al calcio ha sempre avuto la fissa per il mondo dello spettacolo e della moda.

Alessandra invece nella moda ci lavorava da anni, come rappresentante di vendita di uno showroom con sede anche a Milano. Lo confermano le tante foto di lei in posa davanti allo specchio, mentre prova scarpe e vestiti. Si vedevano nei momenti liberi, tra un impegno calcistico e l’altro. Lui faceva la spola tra la Sicilia, Senigallia (la sua città d’origine) e Bologna. Solo per un breve periodo avevano vissuto insieme. Del resto Alessandra era stata duramente segnata dalla malattia della madre, affetta da Alzheimer, che ha accudito in casa fino all’ultimo. Un anno fa aveva perso anche il padre.

La differenza di età pare non fosse un problema nella loro relazione. «Del resto lei era una donna solare e piena di vita» afferma la sorella. «La cattiveria mi stupisce sempre. Quando la subisco, rimango lì a fissarla come fosse una bestia dalla quale non mi so difendere». Uno dei suoi tanti post che oggi sembra una premonizione. Padovani invece sembrava inquieto e alla ricerca di qualcosa oltre al calcio. Si muoveva come chi sognava una vita da influencer, nonostante i pochi follower a seguire i suoi profili, gravidi di foto in mille pose da macho. In mezzo anche i link di società di casting e persino le sequenze di quello che sembra uno spot pubblicitario, con lui in costume da bagno. Un culto del fisico maniacale, ma nessun segnale che lasciasse prevedere la tragedia. Tutt’altro. Nel novembre 2021 aveva postato: «Stop alla violenza sulle donne» e, sempre lui, che sferra un calcio al pallone.

Nessun apparente segnale di allarme. Fino all’ultimo post muto di due giorni fa: un’auto lungo l’autostrada. Proprio il giorno del suo rientro dalla Sicilia. Sabato era letteralmente scappato da San Cataldo, abbandonando la squadra e rinunciando al match con il Catania. «Avevamo intuito che non era sereno — dicono dalla società —. Spesso si isolava e sabato ha lasciato improvvisamente il ritiro. Lunedì ci ha contattato chiedendo di rientrare in squadra. Ma è grave che sia andato via senza spiegazioni. Non lo abbiamo più reintegrato, comunicandogli che poteva cercarsi una nuova società».

Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” il 26 agosto 2022.

Procuratore Giuseppe Amato, una donna uccisa nonostante la denuncia. Avete qualcosa da rimproverarvi?

«Penso di no. Ovviamente l'esito infausto nessuno lo poteva, ragionevolmente, prevedere. I fatti ci lasciano sconcertati, ma noi abbiamo fatto tutto con impegno e celerità.

La denuncia è stata immediatamente iscritta e assegnata a una collega che, pur essendo in ferie, ha fatto partire gli accertamenti per i riscontri. La denuncia, va chiarito, evocava episodi di stalking semplicemente molesto». 

La denuncia è stata presentata il 29 luglio. Perché attendere il 30 agosto per il rapporto dei carabinieri?

«Era il tempo necessario per ulteriori accertamenti. È stato fissato fine agosto perché alcune delle persone da interrogare erano in ferie. Noi abbiamo aperto subito il fascicolo e attendevamo il lavoro dei carabinieri. In ogni caso la collega aveva specificato, in caso di accadimenti urgenti, di avvertirci per procedere di conseguenza. Questo risulta per iscritto. In questi casi il nostro ufficio segue una procedura molto rigorosa e documentata». 

Nessun ritardo?

«Noi abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. L'episodio che poi si è verificato è stato qualcosa di diverso e imprevedibile rispetto al contenuto della denuncia che, ripeto, rappresentava episodi di molestie, spesso via social. Non di violenza». 

Ma ritrovarsi un ex nelle scale di casa, dopo che ha staccato la luce, non era motivo di allarme?

«Guardi, la Procura si muove con richieste di misure cautelare che vanno al Gip. Le nostre richieste devono essere riscontrate. Se poi ci sono situazioni emergenziali è la polizia giudiziaria che deve intervenire e, nel caso, procedere all'arresto. L'ordinamento non si può stravolgere» 

Quindi non c'erano gli estremi per un divieto di avvicinamento o per far scattare una vigilanza sotto casa?

«Non c'erano. La denuncia era per fatti di molestie da riscontrare. I processi non si fanno sul sentito dire o solo sulle denunce. Non c'era la rappresentazione di una possibile violenza. 

Il fatto che si è verificato è totalmente sganciato dal fatto denunciato. Se vogliamo fare polemica la facciamo. Poi il giorno che un arrestato viene assolto comincia la polemica di segno opposto. Molti parlano solo, ma noi dobbiamo cercare i riscontri.

Se poi nelle more si fossero verificati fatti pericolosi allora era la polizia giudiziaria che doveva intervenire. Molti Soloni dimenticano che i giudizi vanno rapportati alla situazione ex ante. Dopo un omicidio sono tutti bravi a fare i professori». 

È stato rispettato il codice rosso? Alessandra è stata ascoltata entro tre giorni?

«I termini sono stati sicuramente rispettati, anche se il fascicolo non lo conosco nel dettaglio... presumo di si» 

È possibile che il periodo di ferie abbia influito nell'esito di questa storia?

«Ripeto, abbiamo dato corso alla denuncia dopo un solo giorno e aspettavamo i carabinieri che dovevano ascoltare dei testi. Quelli sì in ferie». 

La sorella dice che Alessandra era amareggiata perché dopo un mese non aveva saputo nulla della denuncia...

«Mi dispiace ma non funziona così. Non è che quando si presenta una denuncia si viene informati sul suo iter». 

C'è chi dice che servono più risorse per essere più celeri. È d'accordo?

«Se valuto questo caso specifico dico di no. Non penso ci sia un problema di forze. Forse sarebbe utile lavorare sulla prevenzione. Non si risolve tutto con polizia e magistratura. Bisogna intervenire anche in campo culturale, partendo da scuola e famiglie» 

Gli strumenti giuridici a disposizione sono sufficienti?

«Credo di si. Se vogliamo un elemento in più si potrebbe prevedere il braccialetto elettronico come misura autonoma, mentre oggi è una misura accessoria agli arresti domiciliari. Ciò permetterebbe di monitorare meglio soggetti pericolosi. Ma poi servirebbe che lo Stato si impegnasse a trovarli questi benedetti braccialetti elettronici».

Francesco Mazzanti per il “Corriere della Sera” il 26 agosto 2022.  

«Non credo ci sia bisogno della violenza fisica per attivare una protezione maggiore. In questo caso nella denuncia ci sono delle molestie gravi: l’uomo le aveva messo lo zucchero nella serbatoio dell’auto, aveva tagliato le gomme della macchina di Alessandra e le aveva sottratto le chiavi di casa». 

Parole di Sonia Bartolini, avvocata del foro di Modena, esponente dell’associazione «Donna e giustizia» e cugina di Alessandra Matteuzzi, la 56enne uccisa a martellate martedì sera di fronte al portone della sua casa in via dell’Arcoveggio. «Il problema — aggiunge l’avvocata — è nelle falle normative. Se viene sporta una denuncia per atti persecutori e nel contempo non c’è una protezione, continueranno i femminicidi». 

Fiori davanti al portone di casa

Ieri, di fronte al portone dove Sandra è stata ammazzata, vicini e conoscenti hanno portato dei mazzi di fiori e lasciato lettere di condoglianze per la famiglia. Lì, mercoledì mattina, era ancora presente la scia di sangue della donna colpita con calci, pugni e colpi di martello dal suo ex Giovanni Padovani, calciatore 26enne originario di Senigallia. 

La gravità delle molestie

A sottolineare la gravità delle molestie subite dalla donna prima di essere uccisa è lo stesso legale della famiglia Matteuzzi, Giampiero Barile, che spiega come quello di Padovani «era un atteggiamento persecutorio che riguardava tutta la vita della donna». 

Nella denuncia presentata ai carabinieri lo scorso 29 luglio, «integrata per due volte — spiega il legale riferendosi alle parole di Bartolini — tutti i fatti sono stati precisati e la fattispecie di stalking era molto grave». La convinzione della famiglia, quindi, è che si poteva fare qualcosa in più per tutelarla. 

Il lavoro nello showroom

Sandra lavorava in uno showroom di moda a Castel San Pietro Terme. Era appassionata di abbigliamento e viaggi e condivideva le sue passioni anche sul suo profilo Facebook. Tra i due, conosciutisi nella primavera del 2021, c’è una differenza di 30 anni. 

Una relazione a distanza, la loro, durata fino al Natale dello scorso anno, quando il calciatore si trasferisce per pochi giorni a Bologna. La decisione della donna di interrompere la relazione non viene accettata da Padovani, che inizia così a molestarla con messaggi e appostamenti, fino a scrivere anche alla sorella di lei. Dopo alcuni mesi, Sandra non ci sta più. E decide di denunciare.

L’ispezione della Guardasigilli

Ieri, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha chiesto agli uffici dell’Ispettorato di «svolgere con urgenza i necessari accertamenti preliminari, formulando, all’esito, valutazioni e proposte». Come da prassi è stata richiesta una relazione alla Procura generale. Padovani, arrestato con l’accusa di omicidio aggravato dallo stalking, si trova alla Dozza. Questa mattina, alle 11, si terrà l’udienza di convalida dell’arresto.

A richiederla il pm Domenico Ambrosino, che oltre alla convalida ha chiesto la custodia cautelare in carcere per il calciatore di origini marchigiane, difeso dall’avvocato Enrico Buono. L’udienza è stata fissata davanti al gip Andrea Salvatore Romito. Il medico legale Guido Pelletti ha ricevuto invece l’incarico per l’autopsia. 

L’esame inizierà oggi pomeriggio e la difesa ha nominato come consulente di parte Giuseppe Fortuni. Anche Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, esprime vicinanza alla famiglia di Sandra. «Questo dramma — sostiene il cardinale — ripropone urgentemente la necessità di un’azione etica, culturale e pure di prevenzione, che coinvolge certamente le forze dell’ordine, ma anche tutta la comunità».

Alessandra Matteuzzi denunciò: «Lo assecondo sempre perché ho paura di scatenare la sua ira». Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 28 agosto 2022.

La donna uccisa dal suo ex, Giovanni Padovani, lo aveva raccontato ai carabinieri nella denuncia presentata a luglio. 

«Lo assecondo sempre perché ho paura di scatenare la sua rabbia». Alessandra Matteuzzi era letteralmente terrorizzata dal suo ex. Lo racconta ai carabinieri nella denuncia presentata il 29 luglio. «Riesce sempre a entrare di nascosto nel condominio dove abito e io ho il timore di ritrovarmelo davanti ogni volta che torno a casa o apro le finestre».

Il video

Poi racconta dei video che Giovanni Padovani la costringeva a mandargli per controllarla e localizzarla. «Era ossessionato perché dubitava della mia fedeltà. Anche un semplice post sui social con la foto delle mie scarpe sul cruscotto dell’auto era per lui motivo per fare scenate». Un atteggiamento maniacale che, come scrive il Gip nell’ordinanza di convalida del fermo, è all’origine dell’agguato, la sera del 23 agosto. Nonostante la loro fosse una storia finita da un mese, Padovani ha atteso Alessandra sotto casa e l’ha uccisa perché lei non rispondeva più ai suoi messaggi. E questo dopo che il giorno prima avevano trascorso il pomeriggio insieme. Ma perché Alessandra aveva accettato di vederlo? Probabile, e lo dice pure la sorella Stefania, ancora una volta per assecondarlo. Perché era terrorizzata da quell’uomo che la vessava sabotandole l’auto, oppure staccandole la luce in casa, per poi farsi trovare sulle scale del condominio.

La denuncia

Ha cercato di tranquillizzarlo dando risposte evasive anche quando lui ha chiesto della denuncia nei suoi confronti. Denuncia che non aveva prodotto il risultato che sperava, allontanandolo da lei. La bestiale ritorsione di Padovani al tentativo di Alessandra di riprendersi la propria vita è arrivata prima della risposta degli inquirenti. Il medico legale ha accertato che è morta per i «colpi al cranio e al torace» sferrati con un martello, ma anche con calci, pugni e persino una grossa panchina in ferro.

A. Sc. per il "Corriere della Sera" il 27 agosto 2022.

«Sin dall'inizio della relazione ha adottato comportamenti frutto di incontenibile desiderio di manipolazione e controllo (su Alessandra, ndr ), tradottisi nella progressiva privazione di margini di libertà». Questo il profilo di Giovanni Padovani, secondo il gip Andrea Salvatore Romito. 

Nelle 9 pagine di ordinanza con le quali ieri ne ha convalidato il fermo, il magistrato ricostruisce l'ossessione di controllo sulla compagna. «Fino a controllarne i movimenti e le frequentazioni... ma anche manipolando il cellulare e i suoi profili social». «Pretendeva che lei gli mandasse un video ogni 10 minuti, in cui comparissero l'ora e il luogo in cui si trovava, facendo scenate in caso di violazioni di tali prescrizioni». Gli aveva «persino carpito le password di posta elettronica e di messaggistica per controllarne le conversazioni con terzi».

Le ossessioni di «un soggetto animato da irrefrenabile delirio di possesso e incapace di accettare le normali dinamiche relazionali... sia di attivare l'ordinario sistema di freni inibitori delle proprie pulsioni aggressive».

Nell'ordinanza vengono riportate anche le deliranti «giustificazioni» fornite dall'assassino alla polizia, subito dopo l'arresto: «Sospettavo che lei mi tradisse». Ieri mattina, invece, nel corso dell'udienza di convalida si è avvalso della facoltà di non rispondere. Scortato dalla polizia penitenziaria si è presentato davanti al gip in pantaloncini e maglietta. 

Stando alla ricostruzione della polizia, riportata nell'ordinanza, il 22 agosto (il giorno prima di uccidere Alessandra) lui l'aveva attirata in una trappola, con il solito espediente di staccarle la luce di casa. «Di mattina la donna era stata costretta a scendere nell'atrio per riattivare il contatore» e lì si è ritrovata davanti il suo ex, con il quale aveva interrotto la relazione a fine luglio. In quel modo Padovani «voleva convincerla a riprendere la relazione». Nonostante la loro fosse una storia ormai finita lui continuava, in modo maniacale, a controllarla sui social.

«E nel periodo della separazione - si legge ancora nell'ordinanza - si sarebbe accorto che lei aveva aggiunto sui suoi profili anche suoi ex compagni di squadra. Per questo pretendeva dei chiarimenti». Da qui la decisione di abbandonare in fretta e furia la squadra dove giocava, per precipitarsi a Bologna per quello che, nella sua ossessione, doveva essere un incontro per avere spiegazioni.

La trappola della luce staccata la mattina del 22 agosto uno stratagemma che si aggiungeva alle altre vessazioni che aveva consumato nel tempo ai danni della donna, come «tagliargli i pneumatici o mettere lo zucchero nel serbatoio». Nel pomeriggio dello stesso giorno Alessandra, magari per paura o non riuscendo a immaginare altre vie d'uscita alla sua insistenza aveva asseconda la sua richiesta «e trascorrono assieme l'intero pomeriggio». Lui le chiede anche della denuncia nei suoi confronti.

«Ma mia sorella era stata evasiva - ha detto Stefania - e lui, a garanzia della sua fedeltà, aveva anche preteso un giuramento sulla tomba di nostro padre, dove si erano recati insieme». Tutto sarebbe precipitato l'indomani mattina perché, ha raccontato Padovani, «lei non rispondeva più ai miei messaggi e mi sono sentito usato e manipolato». Così è ripartito da casa della madre, a Senigallia, «armato di martello». Perché lo ha portato con sé? Questa la sua spiegazione che gli ha evitato, forse inspiegabilmente, l'aggravante della premeditazione dell'omicidio: «Era per difendermi dal compagno della sorella con il quale in passato aveva avuto dei diverbi».

E siamo alla sera del delitto, le 21.35. Lui la affronta appena scesa dall'auto, mentre è al telefono con la sorella. Il medico legale, nell'autopsia, ha accertato che è stata raggiunta da un solo colpo di martello e poi finita a calci e pugni, dopo averle scagliato contro una grossa panchina in ferro. 

Filippo Fiorini per “la Stampa” il 25 agosto 2022. 

Stefania Matteuzzi ha appena lasciato l'appartamento che la sorella Alessandra divideva con Maria, la loro madre, e scende le scale fino a tornare sul posto in cui nelle ultime ventiquattrore sono accadute alcune cose per lei sconvolgenti. 

Dal portico del palazzo, ha sentito Sandra gridare nel vivavoce del telefono sotto i colpi di martello sferrati dall'ex fidanzato. Poi, uno di questi colpi ha rotto il cellulare e la linea è caduta. 

Ha chiamato la polizia, si è precipitata, ma quando martedì notte è arrivata in quello stesso posto in cui si trova ora, ha avuto la certezza che ormai era tardi. E all'indomani, è stata lei a dover usare uno spazzolone da pavimento per pulire i segni del delitto insieme agli altri parenti. Finito il lavoro, sospira e parla della sorella: «Lei aveva denunciato e voglio dire che anche se questo non l'ha salvata, se ci sono donne che si sentono minacciate e hanno paura di un uomo, devono trovare la forza di cercare aiuto, devono fare la stessa cosa». 

Anche Alessandra aveva paura di Giovanni Padovani. «Io stessa ne avevo e ne ho ancora adesso, perché se penso che potrebbe uscire di galera, so che mi verrebbe a cercare», dice. Poi, la moglie di suo cugino le chiede se ha piacere di passare la notte a casa loro. «Non ce n'è bisogno, ce la faccio», risponde. Deve andare in Questura a ratificare la sua testimonianza, e ci resterà fino a tarda sera. 

Stefania, lei era al telefono con Alessandra quando è stata uccisa?

«Mi ha chiamato mentre entrava con la macchina, per stare più tranquilla. Aveva paura che Giovanni la stesse aspettando sotto casa, come infatti è stato. All'improvviso ha smesso di parlarmi e l'ho sentita gridare, chiedere aiuto. Sentivo i colpi, poi lui ha spaccato il telefono e non ho sentito più nulla. È morta qui dove mi trovo adesso». 

Lei è stata subito sicura che ad aggredirla fosse Giovanni Padovani?

«Certo. L'ho sentita supplicarlo: "No, Giovanni, no, ti prego". Poi, chi poteva essere altrimenti? Lei parcheggiava qui davanti proprio per evitare di essere sorpresa da lui nel parcheggio sul retro». 

Cos' ha fatto dopo che è caduta la linea?

«Ho chiamato la polizia e ho detto loro di correre qui. Io abito in provincia di Ferrara, sono una trentina di chilometri da qui. Mi sono messa in strada subito. Quando sono arrivata, ormai era tardi. Un ragazzo mi ha detto di essere corso giù per fermarlo, ma di non aver fatto in tempo». 

Lei conosce personalmente Giovanni Padovani?

«Lui e mia sorella si sono frequentati a partire dall'estate scorsa, ma si vedevano sì e no una volta al mese, con il fatto che lui giocava a calcio in Sicilia. Lo scorso Natale è venuto a passare le feste con noi e abbiamo avuto modo di conoscerlo meglio. E lì ha iniziato a mostrare quanto fosse geloso e prepotente».

Cosa faceva?

«Chiamava continuamente mia sorella, me, mia madre, accusando Sandra di tradirlo e di mentire. Voleva che lei gli mostrasse delle prove, voleva fare delle videochiamate per vedere dove si trovava. Pretendeva che gli inviasse gli screenshot dei messaggi.

Una volta, Sandra era impegnata con degli ordinativi di lavoro nel negozio di abbigliamento in cui lavorava e non gli ha risposto subito. Lui ha chiamato le colleghe, che non conosceva per niente, e ha iniziato a fare domande anche a loro».

È stato per questo che lei ha interrotto la relazione?

«Sì. Ha tentato di interromperla, ma lui si è messo a perseguitarla ancora di più. Staccava il contatore della luce dell'appartamento per obbligarla a scendere e si appostava nell'androne delle scale per sorprenderla. Una volta, si è arrampicato sulla palazzina ed è entrato in casa dalla finestra». 

Era violento anche fisicamente?

«Io non l'ho mai visto alzare le mani su mia sorella e lei non mi ha mai detto niente. Per quanto ne so, la violenza era solo verbale e c'erano questi comportamenti di abuso, come quello di buttare per terra piatti e bicchieri durante le liti. Era accecato dalla gelosia. Questo però mi ha sempre spaventata molto e così era anche per mia sorella». 

Alessandra aveva firmato una denuncia per stalking e ha aveva ottenuto un divieto di avvicinamento contro di lui?

«Sandra era esasperata, disperata e lo aveva denunciato, ma questa cosa che ci fosse una restrizione nei suoi confronti, noi non la sapevamo. 

Non la sapevo io, non la sapeva Sandra, non la sapeva neanche il suo avvocato. Certo, c'è poco da fare se uno ti assale e ti massacra di botte in un attimo, ma a quanto pare lui è rimasto qui ad aspettarla a lungo e poteva essere allontanato».

Gli inquirenti le hanno detto qualcosa in merito alla posizione di Padovani?

«No, non so nulla. Io devo andare in Questura per ratificare la mia testimonianza e ci sono altri testimoni. Spero solo che non lo lascino uscire, perché se accadesse, sono sicura che verrebbe a cercarmi» 

Uccisa a Bologna, il procuratore: "Denuncia non riguardava episodi violenti". Mancato rapporto dei Cc "perché in ferie alcuni testimoni". Redazione Tgcom24 il 26 agosto 2022. 

"Ciò che è accaduto ci lascia sconcertati, ma noi abbiamo fatto tutto con impegno e celerità". A ribadirlo è il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, in merito all'omicidio di Alessandra Matteuzzi, la 56enne uccisa dall'ex fidanzato che lei a luglio aveva denunciato per stalking. "Noi abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. L'episodio che poi si è verificato è stato qualcosa di diverso e imprevedibile rispetto al contenuto della denuncia che rappresentava episodi di molestie, spesso via social. Non di violenza".

La questione sul mancato divieto di avvicinamento

- Il fatto che il rapporto dei carabinieri fosse atteso per fine agosto, un mese dopo la denuncia, è "perché alcune delle persone da interrogare erano in ferie", spiega. Oltretutto, a suo dire, non c'erano gli estremi per un divieto di avvicinamento o per far scattare una vigilanza sotto casa: "La denuncia era per fatti di molestie da riscontrare. I processi non si fanno sul sentito dire o solo sulle denunce. Non c'era la rappresentazione di una possibile violenza". "Molti Soloni dimenticano che i giudizi vanno rapportati alla situazione ex ante - conclude -. Dopo un omicidio sono tutti bravi a fare i professori".

Femminicidio Alessandra Matteuzzi, Cartabia chiede accertamenti. La Repubblica il 25 Agosto 2022

Il ministro della Giustizia ha chiesto agli uffici dell'Ispettorato di svolgere verifiche. Il procuratore di Bologna: "In questa vicenda non si può parlare di malagiustizia". Il dolore dei familiari. Zuppi: "Vicenda che scuote le coscienze"

La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, attraverso il suo Gabinetto, ha chiesto agli uffici dell'Ispettorato di "svolgere con urgenza i necessari accertamenti preliminari, formulando, all'esito, valutazioni e proposte". Un'iniziativa presa a fronte delle ricostruzioni di stampa sul femminicidio di Alessandra Matteuzzi a Bologna, uccisa dall'ex compagno Giovanni Padovani. E' quanto si apprende da fonti di via Arenula.

"Non è malagiustizia"

"In questa vicenda non si può affatto parlare di malagiustizia", dice intanto al Gr1 il procuratore di Bologna Giuseppe Amato. "La denuncia è stata raccolta a fine luglio, il primo agosto è stata iscritta e subito sono state attivate le indagini che non potevano concludersi prima del 29 agosto perché alcune persone da sentire erano in ferie. Quello che potevamo fare lo abbiamo fatto". Dalla denuncia, secondo Amato, "non emergevano situazioni di rischio concreto di violenza, era la tipica condotta di stalkeraggio molesto". E in merito all'utilizzo del braccialetto elettronico per contrastare i casi di violenza di genere, Amato ha aggiunto: "Il problema è quello dei costi. Già oggi potremmo utilizzarli per alcuni reati, ma quando li vai a richiedere non si trovano. Quindi ci vuole la norma, ma poi anche la forza di poter creare dal punto di vista economico gli strumenti che quella norma la fanno funzionare".

Il pm chiede il carcere

Il pm Domenico Ambrosino ha chiesto la convalida dell'arresto e la custodia cautelare in carcere per Padovani, accusato di omicidio aggravato dallo stalking. L'udienza è stata fissata davanti al Gip Andrea Salvatore Romito per domani mattina, l'indagato è difeso dall'avvocato Enrico Buono. In mattinata è stato conferito al medico legale Guido Pelletti l'incarico per l'autopsia, esame che comincerà domani pomeriggio. La difesa ha nominato come consulente di parte Giuseppe Fortuni.

Il dolore dei familiari

"Quello che è successo non è stato affatto un fulmine a ciel sereno perché c'erano stati segnali precedenti, tanto è vero che c'era stata una denuncia. Il problema è nelle falle normative. Se viene sporta una denuncia per atti persecutori e nel contempo non c'è una protezione, continueranno i femminicidi", ha detto la cugina di Alessandra Matteuzzi, l'avvocato modenese Sonia Bartolini. Con lei c'era anche il nipote della donna uccisa, Matteo Perini: "Mia zia era una persona di cuore e non si meritava tutto questo, spero che questo episodio serva a cambiare le cose. Mi aspetto che lui marcisca in galera, ma che non paghi una persona sola, altrimenti succederà di nuovo".

Mazzi di fiori sono stati portati in mattinata da vicini e conoscenti all'ingresso del palazzo di via dell'Arcoveggio, periferia di Bologna, dove abitava Alessandra. "Per la famiglia Matteuzzi" si leggeva nel biglietto che accompagnava uno dei mazzi. Il piccolo portico dove, martedì sera, è avvenuto l'omicidio è stato nel frattempo ripulito dalle macchie di sangue, rimaste a terra fino a ieri. Manca ancora la panchina sulla quale la donna è stata massacrata, a botte e martellate, e che era stata rimossa dalla polizia subito dopo il fatto.

Quel messaggio contro la violenza

Padovani, 27 anni, a novembre 2021 aveva condiviso sui social una campagna contro la violenza sulle donne della squadra di calcio in cui giocava all'epoca. Il 25 novembre 2021, giornata internazionale sul tema, aveva rilanciato su Instagram un messaggio del Troina Calcio, dove appariva lui, con la fascia da capitano, davanti al messaggio "Stop violenza sulle donne. Il Troina Calcio dice no alla violenza di genere e in genere!"

Il cordoglio di Zuppi

"È un tragico evento che scuote Bologna, l'Italia e le nostre coscienze e ci chiede di non restare indifferenti davanti ai casi di femminicidio e alle varie forme di violenza di cui molte donne sono quotidianamente vittime, spesso in maniera silenziosa. Questo dramma ripropone urgentemente la necessità di un'azione etica, culturale e pure di prevenzione, che coinvolge certamente le Forze dell'Ordine ma anche tutta la comunità". Lo ha detto  l'arcivescovo di Bologna e presidente della Cei Matteo Zuppi, intervenendo con una nota di cordoglio per la morte di Alessandra Matteuzzi. Per il cardinale "occorre comprendere e ritrovare il vero significato del legame uomo-donna, fatto di reciprocità, dono di sé, progettualità condivisa, mutuo sostegno, rispetto. L'amore è vita e non può mai diventare violenza, persecuzione e morte". L'Arcivescovo riprende anche le parole di Papa Francesco che recentemente "ha esortato a impegnarsi ancor più per far crescere la cultura del rispetto di ogni persona e la cura delle relazioni nei vari ambiti della società, per promuovere la famiglia e proteggere le donne, sottolineando che 'ferire una donna è oltraggiare Dio, che da una donna ha preso l'umanità'".

(ANSA il 26 agosto 2022) - Polemica per un commento sui social da parte del direttore della Croce bianca dell'Emilia-Romagna sul femminicidio di Alessandra Matteuzzi, assassinata martedì sera a Bologna dall'ex compagno. 

"Comunque anche lei come andava conciata, ovvio che il ragazzo era geloso", ha scritto Donatello Alberti. "Non esiste giustificazione alcuna per un atto così efferato e aberrante, che ha spento un'altra vita, piegato nel dolore un'altra famiglia e tutta la comunità cittadina", ha scritto l'assessore regionale alla Sanità Raffaele Donini. 

"Per questo - aggiunge - sono sdegnato dalle parole di Donatello Alberti. Parole avvilenti, inaccettabili, prive di ogni rispetto nei confronti della donna, vittima dell'ennesimo femminicidio. In molti me lo state chiedendo. Croce Bianca non ha alcun rapporto con il Servizio Sanitario dell'Emilia-Romagna. 

Ma ad avere proferito quel commento, sprezzante e privo di umanità, non è un'associazione, ma una persona. Un uomo che spero possa avere un sussulto di coscienza e dignità e chiedere scusa ad Alessandra, alla sua famiglia, alla nostra comunità cittadina".

Giuseppe Baldessarro per repubblica.it il 26 agosto 2022.  

A luglio lo aveva denunciato per stalking perché viveva con l'incubo di trovarselo sotto casa. E così purtroppo è stato. Martedì sera Giovanni Padovani, 27 anni, ha aspettato all'ingresso del civico 42 di via dell'Arcoveggio (periferia di Bologna), la sua ex Alessandra Matteuzzi, 56 anni, e l'ha uccisa a martellate. "L'ho sentita urlare Aiuto, Giovanni ti prego, no!", ha detto la sorella Stefania che era con lei al telefono al momento dell'omicidio. 

Quando i poliziotti sono arrivati, chiamati dai vicini che hanno sentito le grida, l'assassino era ancora lì, con il martello in mano.Il primo a intervenire dopo l'aggressione è stato un ragazzo, figlio di un altro vicino di casa, al quale Padovani non avrebbe opposto la minima resistenza: "Non ce l'ho con voi, ce l'ho con lei - avrebbe detto a chi lo ha bloccato - non vedo l'ora che arrivi la polizia che voglio finire tutto". Padovani, originario di Senigallia (Ancona), calciatore di serie C e D, che giocava in Sicilia con la Sancataldese, è ora accusato di omicidio aggravato.

Lei lo aveva lasciato dopo alcuni episodi di violenza. Non era stata mai aggredita fisicamente, ma in più occasioni lui aveva rotto piatti, lanciato bicchieri. […] Il 29 luglio, ormai esasperata, Alessandra Matteuzzi lo ha denunciato. La procura ha aperto un fascicolo, ma nei confronti dell'uomo non sono mai stati adottati provvedimenti restrittivi. I carabinieri stavano preparando un'informativa per i magistrati, ma aspettavano di completarla interrogando testimoni che erano in ferie. 

I fatti dicono che c'è stata una sottovalutazione. La vittima, agente di commercio per alcune case di moda, però aveva chiesto spiegazioni.  […] Che la 56enne avesse paura lo dicono in tanti. Ad alcune vicine aveva raccomandato di non aprire il portone al suo ex. A un ragazzo che abita nello stesso palazzo aveva chiesto il numero di telefono "per chiamarlo in aiuto in caso di necessità".

Iacob, che vive a due passi, spiega: "Inizialmente, a dispetto della differenza d'età, sembravano stare bene assieme. Poi lei mi ha detto delle incursioni che gli faceva, chiedendomi in caso lo vedessi sotto casa di chiamare subito la polizia". Una coppia da copertina, molto presente sui social (le foto assieme sono state però tutte cancellate nelle ultime settimane). Sabato Padovani ha lasciato la squadra di calcio all'improvviso ed è partito per Bologna. Lunedì dalla Sicilia gli hanno detto di cercarsi un altro team: licenziato. Il pm Domenico Ambrosino ha ordinato l'autopsia e a breve Padovani, assistito dall'avvocato Enrico Buono, andrà davanti al giudice per l'udienza di convalida.

Uccisa a martellate dall'ex denunciato. L'uomo l'ha attesa e colpita sotto casa. I vicini: "Aveva paura". La sorella: "Gridava aiuto". Antonio Borrelli il 25 Agosto 2022 su Il Giornale.

L'ultima storia su Instagram Giovanni Padovani la pubblica alle 21 di martedì: una foto in bianco e nero che mostra l'autostrada dal parabrezza di un'auto. Forse stava raggiungendo l'abitazione della 56enne Alessandra Matteuzzi a Bologna: proprio lì dopo pochi minuti avrebbe massacrato l'ex compagna a colpi di mazza e martello. Secondo la ricostruzione degli inquirenti il 27enne sarebbe arrivato in aereo dalla Sicilia, dove giocava in serie D per la Sancataldese, e poi avrebbe atteso la donna sotto casa per almeno due ore. Sono le 21.30 quando una volante arriva in via dell'Arcoveggio, alla prima periferia di Bologna, per la segnalazione di una violenta lite. A chiamare i carabinieri è proprio la sorella di Alessandra, che in quel momento era al telefono con la donna.

«È scesa dalla macchina e ha cominciato a urlare ha raccontato lei in lacrime -. Diceva: No Giovanni, no, ti prego, aiuto. Io ho chiamato i carabinieri che sono arrivati subito. Io abito a 30 chilometri. Alla fine l'ha massacrata di botte». Pugni, colpi di mazza e di martello, anche sulla testa. Una brutale aggressione epilogo di un climax di violenza, sfociata nell'ennesimo femminicidio. Sotto casa di Alessandra sono momenti drammatici, urla e rumori vengono sentiti dai vicini, che lanciano un secondo allarme dopo pochi secondi. Un'anziana residente assiste a tutta la scena e racconta la sua testimonianza: «Lui era già qui sotto casa alle 19.15 quando sono arrivata. Sono entrata, lui voleva entrare anche se io chiudevo la porta. Alle 21 è arrivata Alessandra, ripeteva che lui se ne doveva andare. Ma lui rispondeva sì e non andava via. Le è andato sempre più vicino, l'ha fatta cadere nel cortile, poi l'ha trascinata sotto il portico».

Il primo a intervenire dopo l'aggressione è un ragazzo, ma Padovani non oppone la minima resistenza e anzi sussurra: «Non ce l'ho con voi, ce l'ho con lei, non vedo l'ora che arrivi la polizia che voglio finire tutto». Quando gli agenti arrivano sul luogo del massacro trovano la donna agonizzante e riversa a terra nel cortile condominiale, appena fuori dalla porta della sua palazzina. Morirà pochi minuti dopo, prima dell'arrivo dell'ambulanza. All'arrivo degli agenti c'è anche l'assassino, Giovanni Padovani, subito fermato e arrestato per omicidio aggravato su disposizione della Procura. Una vicina di Alessandra ha raccontato che pochi giorni fa la 56enne le avrebbe chiesto di non aprire nel caso in cui «quel ragazzo» avesse suonato: «Quando ieri sera l'ho visto qui sotto casa, sono entrata e ho chiuso la porta perché non entrasse. Ultimamente era diventato molto insistente». Ma le testimonianze sull'incubo vissuto da Alessandra si susseguono: «Lui le aveva staccato il contatore e si era appostato all'ultimo piano - rivela un altro vicino -, una volta si era anche arrampicato fino al suo terrazzo, lei mi chiese di scambiarci i numeri per sicurezza, si vedeva che era una donna preoccupata».

D'altronde proprio a fine luglio la donna aveva presentato denuncia contro l'ex compagno, dal quale si era lasciata da qualche mese, e il ragazzo aveva ricevuto il divieto di avvicinamento dal giudice. Una misura cautelare che non è servita, perché dopo gli appostamenti, le insistenze e le minacce, lo stalking è ben presto diventato violenza. Si consuma alla fine di questa successione di eventi il 77esimo femminicidio dall'inizio dell'anno, 40 dei quali per mano di partner o ex. Un'emorragia senza fine.

Estratto dall'articolo di Antonio Borrelli per “il Giornale” il 25 Agosto 2022

L'ultimo post scattato dall'auto, poco prima di andare ad ammazzare Alessandra. Predicava bene Giovanni Padovani, ma razzolava male. Qualche tempo fa aveva persino pubblicato anche un post come testimonial di una campagna contro la violenza sulle donne, scrivendo: «No alla violenza, Respect». Sotto alle sue foto da modello e da atleta numerosi i commenti delle fan: donne e ragazze che gli riservano complimenti per il suo aspetto e per le doti sportive.

 Evidentemente in pochi tra i suoi follower sapevano che era stato denunciato per stalking da Alessandra Matteuzzi e che era soggetto a un divieto di avvicinamento disposto dal giudice. Ancora un post, con una massima che a rileggerla fa orrore a cui si ispirava: «Vivo di azioni non di chiacchiere». […]

Il successo sportivo da giocatore professionista in serie D l'aveva raggiunto militando in varie squadre tra cui il Foligno, il Troina, Giarre e ora la Sancataldese, squadra siciliana. E proprio dalla Sicilia martedì è partito per arrivare a Bologna a tendere un agguato alla ex compagna. Molto attivo sui social, sul suo profilo Instagram pubblicava decine di scatti al mare o durante gli allenamenti, sempre con frasi motivazionali: «L'eleganza non è essere notati, ma essere ricordati», «Vivi la vita che ami, ama la vita che vivi».

E poi quel post per la campagna del Troina Calcio contro la violenza sulle donne che sa di beffa. La società della Sancataldese, che milita in serie D, ha intanto fatto sapere che Padovani «già il 20 agosto era stato messo fuori rosa a causa del suo ingiustificato allontanamento. La dirigenza si stringe al dolore della famiglia della vittima. Condanniamo senza se e senza ma ogni violenza e femminicidio».

Anche l'avvocato del club, Salvatore Pirrello, rivela le tensioni nei giorni scorsi a testimoniare che qualcosa il calciatore stava già covando dentro sé: «Dopo che sabato aveva abbandonato il ritiro senza dire niente e domenica non si era fatto sentire, lunedì abbiamo provato a contattarlo. Poi ci ha chiamato lui, al pomeriggio: gli abbiamo detto che non c'era bisogno che ritornasse e che doveva cercarsi un'altra squadra». 

Della relazione tra il 27enne e la 56enne, invece, non c'è traccia sui social. Quel che è certo è che Giovanni e Alessandra avevano avuto una relazione e da qualche mese si erano lasciati. Da quel momento era cominciato l'incubo della donna, alle prese con agguati, aggressioni verbali, litigi violenti. Comportamenti sempre più allarmanti che l'avevano spinta a ricorrere ad un provvedimento restrittivo.

Soltanto lo scorso dicembre, in un'intervista rilasciata a «Mondocalcionews», il difensore diceva del suo trasferimento in Sicilia: «Mi trovo bene, l'unica cosa un po' brutta è la distanza dalle mie zone. Non vedo mai la mia fidanzata e questo un po' mi dà fastidio». Una frase normale, che però oggi assume tutt'altro valore. 

Dalla cronologia delle sue pubblicazioni social, unico suo libro aperto, non sembrano emergere gli strascichi velenosi di una relazione ormai finita né la frustrazione della sua effettiva condizione di stalker. A dominare sono tatuaggi, calcio e bella vita. Quella vera era invece nascosta sotto i filtri di Instagram.

"Voleva un video ogni 10 minuti": l'ossessione del killer di Alessandra. Convalidato l'arresto di Giovanni Padovani con l'accusa di omicidio aggravato dal reato di stalking. L'ordinanza del gip: "Nutriva desiderio ossessivo per la vittima". Rosa Scognamiglio il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.

Giovanni Padovani, l'ex fidanzato di Alessandra Matteuzzi, resta il carcere. Il gip del tribunale di Bologna Andrea Salvatore Romito ha confermato l'arresto del 27enne, calciatore e modello di Senigallia, con l'accusa di omicidio aggravato dal reato di stalking nei confronti della 56enne. "La gravità dei fatti è attestata dalla ampia estensione temporale della condotta persecutoria, - si legge nel testo dell'ordinanza - posta in essere a fronte di un rapporto sentimentale di modesta durata e ridotta frequentazione e, dunque, indicativa del desiderio ossessivo nutrito dal detenuto e della sua incapacità di accettare la cessazione della relazione, dalla quotidianità ed intensità delle molestie e dalla multiformità delle condotte assunte".

La convalida del fermo

Durante l'interrogatorio di convalida del fermo Giovanni Padovani, assistito dall'avvocato Enrico Buono, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il pm Domenico Ambrosino aveva chiesto la convalida del fermo dell'indagato con l'ipotesi di reato per omicidio aggravato. L'istanza è stata accolta dal gip di Bologna che, questa mattina, ha convalidato l'arresto del 27enne spiegando che il carcere "è l'unico presidio in grado di tutelare la collettività (e, in particolare, i familiari della Matteuzzi, esposti al rischio di ritorsioni o gesti connotati da pari carica aggressiva) dal ripetersi di gesti analoghi". A margine dell'udienza, il legale del 27enne non ha voluto rilasciare dichiarazioni: "Non è il momento, è molto provato", ha detto riferendosi al suo assistito.

I video

A pochi giorni dal delitto, emergono dettagli sempre più inquietati sulla relazione tra Giovanni Padovani e la ex fidanzata. Lo scorso 29 luglio, Alessandra Matteuzzi aveva denunciato il 27enne per stalking. Pare, infatti, che il ragazzo fosse solito chiedere alla compagna "un video ogni 10 minuti", da inviare su Whatsapp, per verificare i suoi spostamenti. L'indagato, così come ha confermato anche la sorella della vittima, era ossessionato dall'idea di un possibile tradimento. Al punto da molestare la donna con messaggi, telefonate e appostamenti sotto casa.

L'omicidio

Nel corso dell'interrogatorio di oggi, il gip ha ricostruito la dinamica del truce omicidio. Secondo gli inquirenti, prima di partire da Senigallia per arrivare a Bologna, Giovanni Padovani avrebbe preparato uno zainetto "all'interno del quale metteva un martello, - scrive il giudice nel testo dell'ordinanza -trovato sulle scale di casa, giustificando tale condotta con una presunta eventuale necessità di difesa. Entrato nel giardino condominiale toglieva il martello dallo zaino e lo appoggiava ad un albero". Proprio con quel martello, il 27enne ha massacrato la ex compagna.

«Hanno lasciato Alessandra sola fino alla tragedia». Le accuse dell’avvocata Sonia Bartolini, cugina di Alessandra Matteuzzi, la donna uccisa martedì scorso a martellate dal suo ex prima di rientrare in casa a Bologna. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 28 agosto 2022.

«Una donna che presenta una denuncia per atti persecutori nei confronti del suo compagno, non può poi essere lasciata sola in attesa dei provvedimenti della magistratura: servono strutture di supporto, luoghi protetti». A dirlo è l’avvocata Sonia Bartolini, cugina di Alessandra Matteuzzi, la donna uccisa martedì scorso a martellate dal suo ex prima di rientrare in casa a Bologna. Ieri il gip di Bologna Andrea Salvatore Romito ha convalidato l’arresto e disposto la custodia cautelare in carcere per Giovanni Padovani, il calciatore e modello, che si è presentato in udienza accompagnato dal suo legale, Enrico Buono. Di fronte alle richieste di chiarimento del gip, ha preferito restare in silenzio e avvalersi della facoltà di non rispondere. Per lui il pm Domenico Ambrosino, titolare delle indagini, ha ipotizzato i reati di omicidio aggravato dallo stalking. Padovani si è presentato in Tribunale in tenuta sportiva e con il volto tirato. Ad attenderlo fuori dall’aula c’era anche la madre. Dettagli utili alle indagini emergeranno anche dall’autopsia, eseguita nel pomeriggio di ieri sul corpo della 56enne.

L’avvocata Bartolini per un triste gioco del destino, fa parte dell’associazione modenese “Donne e giustizia” che si occupa proprio di fornire assistenza alle donne in condizioni di disagio familiare e personale. «Mia cugina non mi aveva avvertito della decisione di voler denunciare il suo ex. Si era rivolta ad un altro legale, forse perché si sentiva in imbarazzo per questa storia», precisa l’avvocata Bartolini. Alessandra Matteuzzi, dopo essersi consultata con il suo legale, lo scorso 29 luglio si era recata presso il comando dei carabinieri per formalizzare la denuncia contro Giovanni Padovani. Dopo la denuncia era scattato il Codice rosso ed il primo agosto la donna era stata risentita dai militari dell’Arma. Alessandra, in particolare, aveva raccontato le terribili persecuzioni subita da Padovani: una infinità di telefonate, messaggi, appostamenti, danneggiamenti, come lo zucchero versato nel serbatoio dell’auto. I carabinieri avevano quindi ascoltato parenti ed amici. Prima di Ferragosto, poi, Alessandra era tornata nuovamente dai carabinieri e questa settimana era previsto che dovesse integrare la denuncia.

I vicini di casa e gli amici più stretti erano tutti a conoscenza della situazione. Una vicina, ad esempio, aveva sorpreso nelle scorse settimane Padovani lungo le scale e gli aveva intimato di allontanarsi.

Per capire come sia stato possibile che in tre settimane non sia però stato emesso alcun provvedimento restrittivo nei confronti di Padovani, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha deciso di inviare gli ispettori.

Il procuratore di Bologna, Gimmi Amato, in una serie di interviste, ha affermato che la querela della donna “evocava un tema di molestie più che di violenze” e che prima di emettere un provvedimento restrittivo serviva acquisire altri elementi ed erano in corso accertamenti, ad esempio sentire delle persone che però in questi giorni erano “in ferie”.

Una affermazione che ha provocato la reazione stizzita da parte di chi conosceva Alessandra. «La Procura di Bologna poteva delegare i carabinieri del luogo dove costoro si trovavano in vacanza, senza perdere giorni preziosi”, ha affermato un amico di Alessandra.

«Siamo sconcertate dalle dichiarazioni del procuratore Amato: il terribile femminicidio accaduto è la palese rappresentazione che il sistema giudiziario non è ancora in grado di proteggere le soggettività femminili dalla violenza di genere», ha commentato la consigliera comunale bolognese Simona Larghetti. «Amato dovrebbe chiedere scusa a nome del sistema che rappresenta anziché affannarsi a dire che è stato fatto tutto il possibile, ammettendo, di fatto, che una donna che denuncia comunque non può essere al sicuro dal suo persecutore. Chi sta nelle istituzioni deve continuare a interrogarsi sul da farsi anziché autoassolversi», ha quindi aggiunto la consigliera.

Il sindaco di Bologna, comunque, ha già fatto sapere che il Comune si costituirà parte civile nel processo.

«Serve garantire la scorta, come si fa ai pentiti di mafia, alle donne che denunciano», ha dichiarato invece Gessica Notaro, sfregiata con l’acido nel 2017 dal suo ex.

«Comunque anche lei come andava conciata, ovvio che il ragazzo era geloso», il commento totalmente fuori luogo, prima di fare marcia indietro, di Donatello Alberti, dg della Croce Bianca Emilia Romagna.

«Mia cugina era una donna seria. Aveva avuto poche storie e si era sempre dedicata ai suoi anziani genitori. Se aveva postato delle foto con abiti particolari era solo per motivi di lavoro», la replica dell’avvocata Bartolini. 

Il femminicidio di Bologna. Sandra massacrata mentre era al telefono con la sorella, il calciatore scappato dal ritiro: “Non vederla mi dà fastidio”. Redazione su Il Riformista il 24 Agosto 2022 

Uccisa mentre era al telefono con la sorella. Aggredita a mani nude prima e poi con un martello che le ha provocato un trauma cranico risultato alla fine fatale. E’ la cronaca dell’ennesimo femminicidio. E’ morta così Alessandra Matteuzzi, la 56enne che lavorava nel settore della moda. E’ morta nel cortile della sua abitazione a Bologna dove ha trovato ad aspettarla, da circa due ore, il suo ex compagno, il calciatore dilettantistico Giovanni Padovani, 26enne originario di Senigallia (Ancona), fuggito nei giorni scorsi dal ritiro della propria squadra in Sicilia e arrivato ieri sera, 23 agosto, in auto nel capoluogo emiliano (così come emerge dalle storie Instagram) dove si è poi consumata la tragedia.

A raccontare gli ultimi istanti di vita di Sandra è la sorella Stefania, intervistata dal Tgr Emilia Romagna: “E’ scesa dalla macchina e ha cominciato a urlare: no Giovanni, no, ti prego, aiuto. Io ero al telefono, ho chiamato immediatamente i carabinieri che sono arrivati subito. Io abito a 30 chilometri. Alla fine l’ha massacrata di botte perché non è riuscita neanche a entrare qua, dentro al portone” ha detto la donna in lacrime mentre a poca distanza i poliziotti raccoglievano orecchini e preziosi che la donna ha perso durante l’aggressione. Il calciatore era stato denunciato alla fine del mese di luglio per stalking ma nei suoi confronti, rispetto a quanto emerso inizialmente, non erano stati adottati provvedimenti restrittivi.

C’era stata una denuncia e anche delle integrazioni, erano stati sentiti dei testimoni e nominato un pm” spiega in un video pubblicato da Il Resto del Carlino la sorella di Alessandra. I due “hanno avuto una frequentazione a distanza, perché lui faceva il calciatore in Sicilia, quindi si sono visti poche volte, era poco più di un anno che si conoscevano” ma “è dallo scorso gennaio che ha cominciato ad avere delle ossessioni verso di lei. Si vedevano una volta al mese, poi hanno passato qualche giorno insieme, durante il periodo di pausa calcistica, lui è stato qua con lei. A quel punto però le sono successe delle brutte cose, lui aveva rotto piatti e bicchieri, si era arrampicato dalla terrazza, staccava la luce generale del suo appartamento, e le faceva degli agguati sulle scale“, ha spiegato la sorella.

Nella denuncia presentata a fine luglio da Sandra venivano riferiti atteggiamenti molesti, telefonate continue e appostamenti ma non era stata menzionata alcuna violenza fisica. I carabinieri, coordinati dalla Procura, avevano avviato le indagini a inizio agosto, sottolineando poi di dover ancora ascoltare altre persone che però visto il periodo festivo al momento erano lontano da Bologna. La 56enne aveva contattato poi i carabinieri per sapere se c’erano stati sviluppi nella vicenda e nei giorni scorsi aveva anche chiamato il legale che la assisteva per dirgli che Padovani si era presentato nuovamente sotto casa sua. L’avvocato le aveva consigliato di integrare quindi la denuncia e la donna avrebbe dovuto farlo in questi giorni.

Intanto il pm Domenico Ambrosino, che si occupa dell’omicidio della 56enne, conferirà domani mattina l’incarico per l’autopsia, affidata al medico legale Guido Pelletti. Alessandra Matteuzzi è morta in seguito al grave trauma cranico riportato per i colpi ricevuti da Padovani che i vicini di casa avevano sorpreso sotto l’abitazione già a partire dalle 19, due ore prima dell’omicidio.

Sandra mi aveva detto: se suona quel ragazzo, per favore non gli apra. Lui – ha raccontato la vicina sempre a Il Resto del Carlino – la stava già aspettando davanti al portone dalle 19.15, voleva entrare ma abbiamo chiuso quando siamo rientrati in casa. Da tempo era diventato insistente, lei provava a calmarlo, a parlargli, ma in casa non lo faceva mai salire. Ieri sera abbiamo poi sentito le grida della donna che gli urlava di andarsene e abbiamo visto che lui la trascinava sotto al portico”.

La fuga dalla squadra in Sicilia – Padovani, di ruolo difensore e aspirante modello, era arrivato alla Sancataldese (squadra in provincia di Caltanissetta e che milita in serie D) circa 10 giorni fa. A descrivere il comportamento degli ultimi giorni del calciatore è l’avvocato Salvatore Pirrello, dirigente e legale del club: “Avevamo intuito che avesse dei problemi e che non era sereno. Spesso si isolava, tant’è che sabato aveva lasciato improvvisamente il ritiro dicendo all’allenatore che per problemi personali doveva andare via. Lunedì ci aveva ricontattato per chiedere di rientrare in squadra. Ma il fatto che fosse andato via senza nessuna spiegazione la sera prima della partita di domenica, contro il Catania – ricostruisce l’avvocato Pirrello – per noi era un fatto grave e quindi non lo abbiamo più reintegrato in squadra comunicandogli che per quanto ci riguardava poteva cercare una nuova società. Certo nessuno poteva aspettarsi fatti simili. La notizia ci ha sconvolti”.

Padovani ha giocato sia in Lega Pro che, soprattutto in serie D in numerose quadre italiane, con una parentesi di un anno (nel 2011-12) nel settore giovanile del Napoli (in Campania ha poi militato nel Pomigliano). In una intervista rilasciata nel dicembre 2021 a Mondocalcionews.it lamentava la distanza dalla “mia fidanzata Alessandra”. “Mi trovo bene. L’unica cosa un po’ brutta è la distanza dalle mie zone. Io ero a Rieti, poi sono andato a Foligno, poi alla Correggese. Adesso sono arrivato al Troina in Sicilia. Non vedo mai la mia fidanzata Alessandra e questo un po’ mi dà fastidio“.

Era già stato denunciato. Sandra uccisa a martellate dal suo stalker calciatore, vicini di casa passivi: “La stava aspettando da due ore”. Redazione su Il Riformista il 24 Agosto 2022 

L’ha attesa per ore sotto casa, uccidendola a colpi di martello e con altri oggetti contundenti appena fuori il portone d’ingresso della palazzina dove viveva. Orrore a Bologna dove martedì sera, 23 agosto, una donna di 56 anni, Alessandra Matteuzzi, è stata ammazzata intorno alle 21 in via dell’Arcoveggio, zona periferica del capoluogo emiliano. A nulla è valso l’intervento dell’ambulanza e della polizia, chiamata da alcuni vicini preoccupati dalle urla che venivano dalla strada.

Secondo una prima ricostruzione, a compiere l’omicidio sarebbe stato un giovane di 26 anni, già fermato dalla polizia, che da tempo importunava la vittima. Il suo nome, scrive il Corriere della Sera, è Giovanni Padovani: il 26enne calciatore e modello, ha militato in varie squadre di serie D tra cui il Giarre e il Troina Calcio, era già stato sottoposto in passato a una misura cautelare (divieto di avvicinamento) dopo la denuncia presentata dalla vittima per stalking.

Quando la polizia è intervenuta in via dell’Arcoveggio, intorno alle 21.30, ha trovato la donna agonizzante e l’aggressore ancora sul posto. Per la 56enne non c’è stato nulla da fare, è deceduta poco dopo l’arrivo dei sanitari del 118: troppo gravi le lesioni riportate alla testa.

Stando a quanto raccontato da una vicina di casa al “Resto del Carlino“, Sandra, così come veniva chiamata, nei giorni scorsi aveva avvisato la donna di non aprire mai a quel ragazzo che da tempo la perseguitava.

Sandra mi aveva detto: se suona quel ragazzo, per favore non gli apra. Lui – ha raccontato la vicina – la stava già aspettando davanti al portone dalle 19.15, voleva entrare ma abbiamo chiuso quando siamo rientrati in casa. Da tempo era diventato insistente, lei provava a calmarlo, a parlargli, ma in casa non lo faceva mai salire. Ieri sera abbiamo poi sentito le grida della donna che gli urlava di andarsene e abbiamo visto che lui la trascinava sotto al portico”.

Resta da capire se è stata avvisata la 56enne della presenza dell’uomo sotto casa e, soprattutto, perché non è stato sollecitato l’intervento delle forze dell’ordine. Un femminicidio, l’ennesimo, che forse poteva essere evitato.

Le polemiche sul femminicidio di Bologna. Omicidio di Alessandra Matteuzzi, la Procura si assolve: “Non c’era rischio di violenza”, ma Cartabia invia gli ispettori. Fabio Calcagni su Il Riformista il 25 Agosto 2022 

Il sistema giudiziario italiano poteva salvare Alessandra Matteuzzi ed evitare il suo omicidio, avvenuto martedì sera per mano del suo ex fidanzato, il calciatore e modello Giovanni Padovani?

Per la Procura di Bologna sulla denuncia presentata dalla 56enne vittima di stalking proprio dell’ex non vi sarebbe stata alcuna sottovalutazione del pericolo, poi manifestatosi nell’agguato mortale a colpi di martello avvenuto sotto l’abitazione della donna.

“In questa vicenda non si può parlare di mala giustizia. La denuncia è stata accolta a fine luglio, il primo agosto è stato immediatamente aperto il fascicolo e subito sono state delegate le indagini. Si attendeva un rapporto completo entro fine 29 agosto semplicemente perché alcune delle persone da interrogare erano in ferie. Noi quello che potevamo fare lo abbiamo fatto”, ha spiegato Giuseppe Amato, procuratore capo di Bologna, rispondendo di fatto anche ai dubbi della sorella della vittima, Stefania, che aveva sottolineato come ad un mese dalla denuncia non fosse stato preso alcun provvedimento nei confronti di Padovani.

Al Corriere della Sera Stefania ha raccontato che il 29 luglio sua sorella aveva sporto denuncia ai carabinieri. “Lei diceva che questo uomo la perseguitava – le parole di Stefania – Ricordo anche che, pochi giorni prima della denuncia, Alessandra aveva chiamato la polizia dicendo che quest’uomo la minacciava e aveva mostrato anche gli screenshot delle conversazioni ai carabinieri”.

Il procuratore bolognese ha ricordato infatti che “dalla denuncia della vittima non emergevano situazioni di rischio concreto di violenza, era piuttosto la tipica condotta di stalkeraggio molesto”, e che in molti casi “si trattava anche di molestie via social, che andavano riscontrate e per le quali ci siamo mossi tempestivamente”.

Parole che evidentemente non sono bastate per evitare una ‘reazione’ da parte del Ministero della Giustizia. La Guardasigilli Marta Cartabia, attraverso il suo Gabinetto, ha chiesto agli uffici dell’Ispettorato di “svolgere con urgenza i necessari accertamenti preliminari, formulando, all’esito, valutazioni e proposte”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Per i pm Giovanni Padovani era ossessionato dalla mania di controllo. Chat spiate e il delirio di possesso, le paure di Alessandra: “Temo di scatenare la sua rabbia”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 27 Agosto 2022. 

Tutte le volte in cui io ho accondisceso alle richieste di Padovani è stato per paura di scatenare la sua rabbia”. Sono queste le parole di Alessandra Matteuzzi, 56enne uccisa a Bologna, massacrata con un martello dall’ ex compagno Giovanni Padovani, 26enne originario di Senigallia, in una denuncia fatta ai carabinieri. Dopo le tremende liti avute con l’uomo a giugno aveva avuto paura, tanto da decidere di sporgere denuncia il 29 luglio. Il 23 agosto Padovani era ancora una volta sotto casa sua, l’ha aggredita e uccisa mentre era al telefono con la sorella.

Alla luce di tutte le occasioni in cui è riuscito ad accedere al condominio dove abito, ho sempre timore di ritrovarmelo davanti ogni volta che torno a casa, o quando apro le finestre”, aggiungeva la donna, come riportato dall’Ansa. Il dramma di Alessandra è stato ricostruito nelle 9 pagine di ordinanza con cui il gip Andrea Salvatore Romito stabilisce la convalida del fermo per Padovani, bloccato sul luogo del delitto mentre aveva ancora in mano il martello con cui si è scagliato sulla donna. “Sin dall’inizio della relazione ha adottato comportamenti frutto di incontenibile desiderio di manipolazione e controllo (su Alessandra, ndr), tradottisi nella progressiva privazione di margini di libertà”, si legge, come riportato dal Corriere della Sera.

Questa mania del controllo Alessandra l’aveva raccontata anche ai carabinieri a cui aveva denunciato di essere controllata costantemente sui social dal compagno. Oltre alle richieste continue di inviargli foto e video per dimostrare dove si trovava. A febbraio aveva anche scoperto che le password dei suoi profili erano state modificate. “Ho potuto constatare – raccontava – che erano state modificate sia le email che le password abbinate ai miei profili, sostituite con indirizzi di posta elettronica e password riconducibili a Padovani”. Inoltre “ho rilevato anche che il mio profilo Whatsapp era collegato a un servizio che consente di visualizzare da un altro dispositivo tutti i messaggi da me inviati. Ne ho quindi dedotto che che nei giorni in cui era stato da me ospitato era riuscito a reperire tutte le mie email e le mie password che avevo memorizzato nel telefono”.

Padovani, calciatore che da giovane ha giocato nelle giovanili del Napoli e in serie D con il Pomigliano, era geloso e convinto che la donna avesse un altro. Raccontava ancora Alessandra ai carabinieri: “Il nostro rapporto si basava sempre sull’invio da parte mia dei video che lui mi aveva chiesto e di videochiamate, ma questo non è bastato a frenare la sua gelosia, perchè i dubbi sulla mia fedeltà non sono mai passati. Anche una semplice foto da me postata sui social e che inquadrava le mie scarpe appoggiate sul cruscotto dell’auto al rientro da una trasferta di lavoro era stata motivo di una sua scenata”.

Nei confronti dell’uomo non erano state disposte misure cautelari. Nella denuncia Alessandra ha riferito dei controlli a cui era sottoposta, delle volte in cui lui si è presentato sotto casa. A parte una volta, in Sicilia, in cui l’aveva spintonata facendola cadere su un letto, non c’erano state mai aggressioni fisiche. Anche a metà luglio, quando i due avevano avuto un riavvicinamento dopo un periodo di crisi: tra il 14 e il 22, metteva a verbale la vittima “è stato più volte aggressivo nei miei confronti, non ha mai usato violenza fisica, sfogando la sua rabbia, sempre dovuta alla gelosia, con pugni sulla porta”.

Nell’ordinanza del gip le ossessioni di Padovani: “un soggetto animato da irrefrenabile delirio di possesso e incapace di accettare le normali dinamiche relazionali… sia di attivare l’ordinario sistema di freni inibitori delle proprie pulsioni aggressive”. Tra le ‘giustificazioni’ fornite dopo l’arresto: “Sospettavo che mi tradisse”. Durante l’udienza si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Stando alla ricostruzione della polizia, riportata nell’ordinanza, il 22 agosto (il giorno prima di uccidere Alessandra) lui le aveva staccato il contatore della luce come aveva già fatto in passato. Una trappola per costringerla a uscire di casa per andare a riattivarlo. Lui era lì, nelle scale, ad attenderla. La loro storia era finita a fine luglio ma lui non si dava pace: voleva convincerla a riprendere la relazione. E intanto continuava a controllare i suoi social.

E nel periodo della separazione — si legge ancora nell’ordinanza — si sarebbe accorto che lei aveva aggiunto sui suoi profili anche suoi ex compagni di squadra. Per questo pretendeva dei chiarimenti”. Da qui la decisione di abbandonare in fretta e furia la squadra dove giocava in Sicilia, per precipitarsi a Bologna per quello che, nella sua ossessione, doveva essere un incontro per avere spiegazioni. Nelle settimane prima di essere uccisa brutalmente, Alessandra aveva subito numerose vessazioni come “tagliargli i pneumatici o mettere lo zucchero nel serbatoio”.

Nel pomeriggio dello stesso giorno Alessandra, magari per paura o non riuscendo a immaginare altre vie d’uscita alla sua insistenza aveva assecondato la sua richiesta “e trascorrono assieme l’intero pomeriggio”. Lui le chiede anche della denuncia nei suoi confronti. E qui la sorella Stefania rivela forse uno dei dettagli più agghiaccianti: “Mia sorella era stata evasiva – ha detto , come riportato dal Corriere – e lui, a garanzia della sua fedeltà, aveva anche preteso un giuramento sulla tomba di nostro padre, dove si erano recati insieme”.

Tutto sarebbe precipitato l’indomani mattina perché, ha raccontato Padovani, “lei non rispondeva più ai miei messaggi e mi sono sentito usato e manipolato”. Così è ripartito da casa della madre, a Senigallia, “armato di martello”. Perché lo ha portato con sé? “Era per difendermi dal compagno della sorella con il quale in passato aveva avuto dei diverbi”. La sera del delitto, verso le 21.35, lui la affronta appena scesa dall’auto, mentre è al telefono con la sorella. Il medico legale, nell’autopsia, ha accertato che è stata raggiunta da un solo colpo di martello e poi finita a calci e pugni, dopo averle scagliato contro una grossa panchina in ferro.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Gessica Notaro dopo il femminicidio Matteuzzi: “Scorta alle donne”.  Fabrizia Volponi il 26/08/2022 su Notizie.it. 

Gessica Notaro dopo il femminicidio di Alessandra Matteuzzi: lo sfogo contro le istituzioni.

Alessandra Matteuzzi è l’ennesima donna uccisa per mano di un uomo che non accettava la fine della loro relazione. I casi di femminicidio, al pari della violenza per mano delle baby gang, sono all’ordine del giorno. E’ per questo che Gessica Notaro, che porta sulla sua pelle i segni della follia dell’ex fidanzato, ha postato un lungo sfogo sui social, sottolineando che le donne hanno bisogno della scorta come i pentiti di mafia.

Gessica Notaro dopo il femminicidio Matteuzzi

Tramite il suo profilo Instagram, Gessica Notaro ha detto la sua sull’ennesimo femminicidio che ha sconvolto l’Italia. Stiamo parlando di Alessandra Matteuzzi, uccisa da Giovanni Padovani a colpi di martello. L’uomo, di professione calciatore, non accettava la fine della loro relazione e, nonostante la denuncia, continuava a perseguitare la donna. La Notaro ha esordito:

“È morta un’altra donna che aveva denunciato. E voi (alle istituzioni, ndr) che continuate a imporre misure cautelari come il divieto di avvicinamento mi fate ridere. Siete ridicoli“.

Gessica Notaro: scorta alle donne come ai pentiti

La Notaro, che da anni si batte contro il femminicidio, sa benissimo cosa significa vivere con l’incubo di un ex che non si rassegna alla fine di un rapporto. Anni fa, Gessica è stata sfregiata con l’acido dall’ex compagno, attualmente in carcere per scontare una pena di quindici anni. Ha proseguito:

“Sono 5 anni che ve lo ripeto, garantite a queste donne la scorta come fate coi pentiti di mafia, e allora sì che cambieranno le cose. E smettetela di chiamarmi ogni volta che muore una donna per chiedermi cosa ne penso e cosa bisogna fare. Tutta fuffa. Questa che vi ripeto da anni è l’unica soluzione”.

L’affondo di Gessica Notaro alle istituzioni

Gessica ha concluso:

“E siccome nonostante io abbia smosso il mondo siete ancora lì a chiacchierare, non chiedetemi più niente perché non mi mescolo con chi promette e non mantiene. Se capitasse a vostra figlia diventereste certamente più efficienti”.

La conclusione della Notaro è chiara: le istituzioni continuano a promettere, ma non muovono un passo contro il femminicidio. La situazione, forse, cambierebbe se la vittima fosse una “figlia” di qualcuno dei piani alti.

Marcio Vigarani per corriere.it il 3 dicembre 2022.

Gli era costata già una diffida, adesso è arrivata una condanna per Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e presentatore televisivo, accusato di diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nativo di Loreto (Ancona). 

La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa. La sentenza è arrivata mercoledì 30 novembre. Trattandosi di un giudice parte offesa, costituito parte civile con l’avvocato Nazzareno Ciucciomei, il processo è stato tenuto in un tribunale diverso da quello dove esercita; per Rimini ha competenza Ancona.

In una puntata del Maurizio Costanzo show, trasmessa il 20 aprile del 2017, Costanzo si era lasciato andare a commenti ritenuti offensivi dell’operato del giudice per una misura cautelare emessa nei confronti diEdson Tavares, ex fidanzato di Gessica Notaro, riminese sfregiata con l’acido il 10 gennaio del 2017. La misura cautelare riguardava episodi di stalking precedenti al fatto dell’acido, il gip aveva disposto il divieto di avvicinamento alla donna mentre la procura aveva chiesto gli arresti domiciliari. «Mi voglio complimentare col gip.

Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo», aveva affermato il giornalista. La difesa di Costanzo ha sostenuto che non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello. 

Il riferimento al gip

Quel giorno, in trasmissione, c’era anche Gessica Notaro che per la prima volta, dopo tre mesi dai fatti, parlava in pubblico. Costanzo aveva detto «complimenti a questo gip, vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Diamo il nome. Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo». Il nome di Cantarini non era stato fatto ma il riferimento era stato chiaro. Costanzo si era rivolto anche al ministro della Giustizia di allora, Orlando, incalzando «faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?».

Secondo la difesa di Costanzo non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello. Per l’accusa avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda.

Da corriere.it il 4 dicembre 2022.

«Non commento le sentenze, parlano da sole. Io so solo di avere difeso una giovane donna che è stata sfregiata e che in conseguenza di ciò ha perso un occhio». Così Maurizio Costanzo, 84 anni, al «Corriere della Sera» in merito alla condanna inflittagli dal tribunale di Ancona a un anno di reclusione con la sospensione della pena, subordinata al pagamento di 40 mila euro come risarcimento danni per diffamazione nei confronti del gip che si era occupato di Gessica Notaro, sfregiata con l’acido dall’ex fidanzato Edson Tavares.

Durante la puntata del suo «Maurizio Costanzo Show» andata in onda il 20 aprile 2017, il conduttore aveva ospitato Gessica Notaro, che rispondendo alle domande di Costanzo aveva ripercorso le tappe della sua drammatica vicenda, ricordando come il gip avesse chiesto per Tavares, che Notaro aveva già denunciato per stalking, il solo divieto di avvicinamento e non, come richiesto dal pm, gli arresti domiciliari. «L’ho denunciato sperando che la facesse finita — aveva raccontato Gessica —. Vorrei sapere perché il pm ha deciso che andava arrestato e invece il gip gli ha dato solo gli obblighi domiciliari».

Costanzo aveva preso le difese della giovane, «complimentandosi» ironicamente con il giudice: «Complimenti a questo gip — aveva commentato il conduttore —, vogliamo fare il nome del gip che ha fatto questo? Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm (il Consiglio Superiore della Magistratura, ndr): fate i complimenti da parte mia al gip che ha deciso questo». Il nome del togato — Vinicio Cantarini, in servizio al tribunale di Rimini — non era in realtà mai stato fatto da Costanzo, ma il riferimento era inequivocabile. Tanto che il giudice aveva prima diffidato Costanzo (che lo aveva invitato in trasmissione offrendogli il diritto di replica) e poi lo aveva querelato.

Una denuncia accolta, che ha portato alla condanna di Costanzo, benché i legali del conduttore avessero sottolineato che non c’era stata alcuna volontà diffamatoria nelle parole del loro assistito e che comunque, hanno fatto sapere, ricorreranno in appello. Nelle poche parole riferite da Costanzo al« Corriere», c’è anche l’invito a prendere nota di una ricerca pubblicata dal quotidiano «Libero» oggi in edicola. Secondo quanto riportato dal giornale, gli autori dell’indagine, i professori Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich, hanno preso in esame tutte le sentenze, circa 700, emesse dal Tribunale di Roma negli anni 2015-2020 in materia di diffamazione.

Le sentenze di accoglimento erano state solo il 36%, con un importo complessivo a titolo di risarcimento di circa 20 mila euro. Quando la denuncia era stata presentata da un magistrato, le sentenze di accoglimento salivano però a quasi l’80%, con un quantum risarcitorio attestato su circa 40 mila euro, superiore alla media degli importi riconosciuti a qualsiasi altra categoria (politici, professionisti, imprenditori, medici, docenti universitari, giornalisti).

Magistratura solidale…vietato dire “complimenti al gip”? Maurizio Costanzo condannato a 1 anno di carcere. Una vergogna! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Dicembre 2022.

La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto al giornalista un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa

Clamoroso, ma vero. E’ vietato dire “complimenti al gip”. A finire nel tritacarne giustizialista è Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e simbolo della televisione italiana, condannato per diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nato a Loreto, in provincia di Ancona. A condannare Costanzo la giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona: un anno di reclusione, con sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa.

Andiamo indietro nel tempo fino al 20 aprile del 2017 per capire cosa è accaduto. Maurizio Costanzo ospitava nel suo noto programma “Maurizio Costanzo show”  per la prima volta Gessica Notaro, che appariva in pubblico dopo essere stata sfregiata con l’acido dal suo ex fidanzato. Costanzo criticò (secondo noi e praticamente tutt’ Italia, quella sana…) il gip Cantarini per una misura cautelare emessa nei confronti dello sfregiatore, Edson Tavares, misura che riguardava precedenti episodi di stalking. La procura di Rimini aveva chiesto gli arresti domiciliari, mentre il gip dispose soltanto una misura cautelare, cioè un provvedimento meno restrittivo. E subito dopo, Tavares lasciato libero di imperversare sfregiò la Notaro buttandole l’acido in faccia sfigurandola.

Nel corso della trasmissione incriminata, Costanzo aveva detto: “Mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo”. e senza mai fare il nome di Cantarini. Maurizio Costanzo si era rivolto direttamente all’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando: “Faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?“.

Il gip Vinicio Cantarini ha pensato di querelare Costanzo per diffamazione. Ed una sua collega, incredibile vero un “magistrato donna“, gliel’ha data vinta. Secondo la difesa del conduttore televisivo non vi era alcuna volontà diffamatoria in quelle parole, per l’accusa al contrario avrebbe offeso la reputazione della toga lasciando intendere che Gessica fosse stata sfregiata in seguito alle decisioni del gip. Costanzo ora potrà ricorrere in appello.  Per l’accusa Costanzo avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda. In realtà i fatti sembrano provare proprio questo.

Per fortuna esiste anche quella che noi definiamo la “buona Giustizia” con la “G” maiuscola. Edson Tavares 30enne originario di Capo Verde, aggressore di Gessica Notaro che era stato lasciato a piede libero dal Gip di Rimini, è stato condannato in secondo grado nel novembre del 2018 a 15 anni, 5 mesi e venti giorni. Pena lievemente calata, rispetto ai 18 anni del primo grado (10 anni nel processo per l’aggressione e 8 in quello per stalking), ma che sostanzialmente conferma la gravità dei fatti che qualcuno aveva valutato in maniera più superficiale .

L’ avvocata di parte civile Elena Fabbri, aveva commentato duramente: “Per Gessica è un fine pena mai, ogni giorno che si guarderà allo specchio non vedrà più se stessa, ha subìto un omicidio di identità”. Resta da chiedersi cosa avrebbero detto e fatto il Gip Cantarini ed il giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona se qualcuno avesse fatto la stessa cosa, cioè sfregiare con l’acido la faccia di una loro moglie, o di una loro figlia. Ce lo chiedono i lettori e noi ci associamo a loro. Chissà cosa ne pensano il ministro di Giustizia, ed il Csm. Chiedere un’opinione è forse diventato un reato ? Redazione CdG 1947

Vietato ironizzare sul gip in televisione. Condanna con risarcimento per Costanzo. Il conduttore si era "complimentato" con la toga che non aveva disposto gli arresti per l'uomo che sfregiò con l'acido Gessica Notaro. Massimo Malpica il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Guai a criticare i magistrati. Chiedere per conferma a Maurizio Costanzo, condannato a un anno di reclusione per sarcasmo. O, per essere precisi, condannato per diffamazione di un Gip, aggravata dal mezzo radiotelevisivo. Il giudice in questione è Vinicio Cantarini, in servizio al tribunale di Rimini. Il caso risale a cinque anni e mezzo fa, aprile 2017. Ospite del salotto tv di Costanzo era Gessica Notaro: la ragazza tre mesi prima, il 10 gennaio, era stata sfregiata con l'acido dal suo ex fidanzato, Edson Tavares, che già prima di quell'ultimo gesto aveva mostrato la sua indole violenta. Proprio Gessica, raccontando la sua terribile esperienza al presentatore, aveva ricordato come fosse stato proprio quel gip, in seguito a una precedente denuncia per stalking contro Tavares, a chiedere per l'uomo il solo divieto di avvicinamento e l'obbligo di dimora notturna e non, come richiesto dal pm, gli arresti domiciliari.

«L'ho denunciato sperando che la facesse finita. Vorrei sapere perché il pm ha deciso che andava arrestato e invece il gip gli ha dato solo gli obblighi domiciliari. Il giudice ha sentito solo la versione di Tavares, non la mia», s'era sfogata la ragazza. Costanzo aveva preso le sue parti attaccando il gip. «Complimenti a questo gip aveva detto vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm: fate i complimenti da parte mia al gip che ha deciso questo». E aggiungendo, in collegamento telefonico con l'allora Guardasigilli Andrea Orlando, il suggerimento di indagare sul giudice.

Il nome di Cantarini, in realtà, non era stato fatto, anche se il riferimento era inequivocabile. E nemmeno l'arresto almeno dal punto di vista cronologico, e senza considerare l'effetto dissuasorio di una misura più severa - avrebbe cambiato le cose, considerato che Tavares sarebbe tornato libero il 30 dicembre 2016, undici giorni prima del suo attacco con l'acido alla ragazza. Proprio il gip aveva rimarcato questo punto, sottolineato anche nell'alzata di scudi a sua difesa dell'avvocatura riminese e dell'Anm, che oltre a rimarcare la correttezza formale del provvedimento adottato dal gip (Tavares non aveva violato quel divieto di avvicinamento), avevano condannato la «gogna mediatica» contro il collega, risparmiando solo Gessica dalle critiche. Ma all'interessato non era bastata la difesa di casta. Cantarini aveva diffidato Costanzo, e quest'ultimo lo aveva invitato in trasmissione, a maggio 2017, suggerendo di chiudere la questione offrendogli il diritto di replica: «Sono disponibile ad ospitarla per ascoltare la sua versione», aveva spiegato il conduttore. Ma Cantarini aveva in mente una diversa soluzione. Il giudice riminese ha preferito querelare Costanzo per quei «complimenti» sarcastici, e il 30 novembre scorso un altro giudice, Maria Elena Cola del tribunale di Ancona, ha dato ragione al collega. Stabilendo che è stato vittima di diffamazione aggravata, condannando Costanzo - che ha 85 anni - a un anno di reclusione, e infine subordinando la sospensione della pena al pagamento di un risarcimento danni a Cantarini di 40mila euro.

Lara Sirignano per corriere.it il 26 luglio 2022.

C ‘è una rogatoria internazionale in Egitto nell’agenda dei pm di Palermo che indagano sulla morte di Andrea Mirabile, il bimbo palermitano di 6 anni che ha perso la vita a Sharm El Sheik il 2 luglio, mentre era in vacanza con i genitori in un resort. Un viaggio, quello della Procura, che indaga per omicidio colposo a carico di ignoti, che aiuterebbe gli inquirenti a ricostruire gli ultimi giorni di Andrea: dall’arrivo a Sharm, il 26 giugno, ai primi sintomi di quella che i medici egiziani hanno definito una intossicazione alimentare, fino al decesso. 

La Procura — l’inchiesta è coordinata dall’aggiunto Ennio Petrigni e dal pm Vittorio Coppola — avrebbe intenzione di acquisire tutta la documentazione medica rilasciata dall’ospedale di Sharm in cui Andrea è morto e in cui è stato ricoverato, fino al trasferimento a Palermo con un volo-ambulanza, il padre, Antonio Mirabile, che ha avuto gli stessi sintomi del figlio e ha riportato danni ai reni e al cuore.

Meno gravi le condizione della madre, Rosalia Manosperti, incinta di 5 mesi, guarita dopo due giorni. Ma distrutta dopo la perdita del bimbo. I magistrati italiani hanno, inoltre, intenzione di sentire una serie di testimoni: dai medici dell’ospedale di Sharm che hanno avuto in cura Mirabile e hanno cercato di soccorrere Andrea, arrivato in fin di vita, al personale del Sultan Garden, il resort di lusso in cui la famiglia alloggiava.

La coppia, sentita venerdì scorso dalla polizia delegata dai pm, ha ribadito di aver mangiato solo all’interno della struttura. Una circostanza che gli inquirenti vogliono verificare dal momento che nessun altro ospite dell’albergo ha avuto sintomi da intossicazione. Andrea e i suoi sarebbero stati gli unici a essersi sentiti male: dato che ha fatto sorgere dubbi sulla causa della morte del bambino. E a dipingere altri scenari e ipotizzare altre cause della tragedia sono anche i medici del Policlinico di Palermo che hanno avuto in cura Antonio Mirabile e che, per i sintomi denunciati e i danni riportati dal paziente, hanno parlato di intossicazione da contatto o ambientale. 

Il caso, già molto difficile, potrebbe ulteriormente complicarsi perché sulla vicenda, secondo quanto prevede il codice penale, potrebbe scattare la giurisdizione egiziana, determinata dal fatto che il presunto responsabile della morte di Andrea si trova in uno Stato estero, in Egitto cioè. In questo caso l’autorità giudiziaria italiana può comunque svolgere indagini — è già stata effettuata una autopsia sul corpo del bambino — e compiere la rogatoria, ma se il fascicolo non fosse più a carico di ignoti e si procedesse a una iscrizione nel registro degli indagati, il caso passerebbe all’Egitto.

«Per noi è comunque fondamentale aver ottenuto una nuova autopsia dopo quella eseguita a Sharm, che, quanto a osservanza dei parametri medico-legali, aveva sollevato non pochi dubbi» ha detto l’avvocato Filippo Polizzi, legale dei Mirabile. La coppia, dopo le dimissioni di Antonio, è tornata a casa. Ancora chiusi nel loro dolore i genitori di Andrea cercano di recuperare un po’ di serenità.

Bimbo morto a Sharm, la procura sentirà i genitori: «Dubbi sull'intossicazione alimentare». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 15 luglio 2022.

I magistrati pensano che le cause della morte del piccolo e del grave malore del padre possano essere altre. Gli elementi che non tornano: i sintomi e il fatto che nessun altro nel resort sia stato male. Domani i funerali del piccolo Andrea. 

Potrebbero essere sentiti dai magistrati palermitani già all’inizio della prossima settimana Rosalia Manosperti e Antonio Mirabile, i genitori del piccolo Andrea, morto a sette anni a Sharm el-Sheikh , il due luglio scorso, mentre era in vacanza in un resort con la famiglia. I pm del capoluogo siciliano che indagano sul decesso — una inchiesta è stata aperta anche dalla Procura egiziana — attendono, prima di sentire la coppia, che siano celebrati i funerali di Andrea, fissati per domani alle 10 nella chiesa di San Basilio.

Una testimonianza essenziale quella dei due genitori che dovranno ricostruire tutto ciò che hanno fatto dall’arrivo a Sharm, il 26 giugno: luoghi ed eventuali locali frequentati e persone incontrate. L’esigenza della Procura, coordinata dall’aggiunto Ennio Petrigni, è avere un quadro chiaro soprattutto alla luce del sospetto che la causa del decesso del bambino possa non essere stata un’intossicazione alimentare.

La tesi, sostenuta anche dai medici egiziani che hanno tentato di curare Andrea, non convince molto gli inquirenti per diversi motivi. Innanzitutto: i sintomi denunciati. Né il piccolo né i suoi familiari, che pure sono stati male, avrebbero avuto dissenteria, tipica manifestazione dell’intossicazione. Al padre, poi, al ricovero a Palermo dopo il trasferimento dall’Egitto con un volo ambulanza, sono state diagnosticate una insufficienza renale e una infezione alle vie urinarie e non problemi intestinali. «Il paziente — dicono dal policlinico di Palermo — ha avuto i sintomi di una intossicazione che potrebbe essere ambientale o da contatto».

Nessuno poi nel resort in cui la famiglia alloggiava, il Sultan Garden, avrebbe avuto disturbi legati al cibo. Solo Andrea e i genitori — in particolare il padre che verrà dimesso oggi — hanno avuto problemi di salute. I Mirabile avrebbero raccontato ai familiari di aver mangiato nel ristorante à la carte dell’albergo e non al buffet. I legali della coppia — gli avvocati dello studio Giambrone & partners — chiederanno al resort le immagini delle telecamere interne, che dovrebbero chiarire cosa hanno cenato e il loro stato di salute, fugando i dubbi sollevati da fonti egiziane che hanno riferito che la coppia avrebbe avuto sintomi ben prima del momento in cui si è recata alla guardia medica. Ma, dicono gli inquirenti, i genitori di Andrea non sono stati certamente i soli a cenare à la carte, ed è comunque strano che nessun altro si sia sentito male. Interrogativi che non sono stati sciolti ancora dalle due autopsie eseguite sul corpo del bambino. Né quella fatta a Sharm, i cui esiti non saranno noti prima di uno-due mesi, anche se le autorità locali hanno fatto sapere che accelereranno i tempi, né quella fatta a Palermo. Per conoscerne i risultati si dovrà aspettare infatti i risultati degli esami sui campioni degli organi prelevati.

Laura Anello per “La Stampa” il 16 luglio 2022.

Per giorni hanno cercato di capire che cosa abbia mai mangiato il piccolo Andrea Mirabile, sei anni, per morire a Sharm el-Sheik nell'arco di trentasei ore, in preda a dolori allo stomaco e sempre più debole. 

Adesso gli inquirenti della procura di Palermo - che indagano parallelamente a quelli egiziani - ipotizzano che non di intossicazione alimentare si sia trattato, ma di una forma di avvelenamento, forse «da contatto». 

Il cuore del giallo non sarebbe più che cosa ha mangiato Andrea (e con lui suo padre Antonio, finito in rianimazione e adesso fuori pericolo, e limitatamente la madre Rosalia Manosperti, che ha avuto lievi sintomi) ma che cosa abbia potuto toccare o inalare. E dove lo abbia potuto fare, in una vacanza organizzata, dove i tempi sono contingentati e le esperienze comunque standardizzate a misura di famiglia.

Ancora solo ipotesi, nell'attesa di ascoltare i genitori lunedì e di passare in rassegna con loro tutti gli spostamenti che hanno fatto durante la vacanza nel resort cinque stelle «Sultan Garden», una vacanza cominciata il 26 giugno in salute e conclusa il 2 luglio con la morte di Andrea e il ricovero del padre. 

Sono ancora solo supposizioni, perché le prime vere risposte arriveranno con l'autopsia, fatta sia in Egitto che a Palermo, i cui risultati arriveranno non prima di un mese, probabilmente due. Supposizioni che si basano su alcuni elementi. Primo: padre e figlio non avrebbero avuto dissenteria (tipica manifestazione di intossicazione alimentare), come si era detto nei primi giorni. Il padre, al momento del ricovero, non aveva danni a carico dell'intestino, ma insufficienza renale e un'infezione alle vie urinarie.

Secondo: nessun altro ospite del resort ha avuto sintomi di alcun tipo, pur avendo mangiato negli stessi ristoranti dove ha mangiato la famigliola palermitana. I Mirabile hanno raccontato di avere mangiato à la carte e non al buffet, ma non sarebbero stati i soli. 

Dall'Egitto trapelano dubbi sul fatto che la famiglia sia stata male ben prima di rivolgersi alla guardia medica, contro cui i legali hanno sporto denuncia. Sono state 36 le ore di malessere o sono stati tre lunghi giorni? E su questo probabilmente sarà battaglia. Per questo gli avvocati dello studio Giambrone & partners, incaricati di seguire il caso in tutti i suoi aspetti penali e civili, chiederanno di acquisire le immagini delle telecamere interne del resort per acquisire - oltre che prova di ogni spostamento - indicazioni sulle condizioni di salute di Andrea e dei genitori.

Ma anche uno stato di apparente benessere potrebbe essere opinabile: ci sono infezioni, intossicazioni, avvelenamenti che scatenano i loro effetti in modo non immediato. Solo gli esami tossicologici sul cadavere potranno parlare. Mentre è da chiarire anche la voce di una gita in barca che la famiglia avrebbe fatto allontanandosi dal resort, ma si tratterebbe sempre di gite organizzate e strettamente controllate. 

Che cosa avrà mai potuto incontrare Andrea sul suo cammino o nelle acque del Mar Rosso? Gli inquirenti si aspettano di dipanare molti dubbi ascoltando i genitori, nonostante i legali abbiano fatto sapere che la madre - incinta al quarto mese di una bambina - non riesce neanche a parlare con i familiari.

La donna è passata in pochi giorni dalla gioia di una vacanza, con il suo bambino che si divertiva tra le piscine dell'albergo e i giochi, al peggiore dei lutti e all'angoscia per il marito, anche lui nei primi giorni in pericolo di vita. 

È stata lei a lanciare un appello alle autorità italiane perché consentissero il rientro in Italia del coniuge con un aereo-ambulanza attrezzata per il trasporto di malati gravi. Il cadavere di Andrea è tornato invece con un aereo di linea da solo, tragico contrappasso a quel gioioso decollo fatto in tre alla volta dell'Egitto.

Lara Sirignano per corriere.it il 12 gennaio 2023.

Avvelenamento da contatto con sostanze tossiche: potrebbe essere questa la causa della morte di Andrea, il bimbo palermitano di sei anni che ha perso la vita a Sharm el-Sheikh a luglio scorso, mentre si trovava in vacanza in un resort sul mare con i suoi genitori, Antonio Mirabile e Rosalia Manosperti, allora incinta di 5 mesi. È questa l’ipotesi investigativa più accreditata dopo i primi accertamenti medico-legali che avrebbero, dunque, accantonato la pista dell’intossicazione alimentare avanzata, subito dopo la tragedia, dai sanitari egiziani che visitarono il bambino e i genitori.

 In quei giorni anche il padre e la madre della piccola vittima, infatti, si sentirono male e, allarmati, l’1 luglio, si rivolsero alla guardia medica che si trovava vicino al resort. Vennero dimessi poco dopo con la prescrizione di un farmaco per le intossicazioni alimentari. Ma le condizioni di Andrea e del padre non migliorarono e il giorno successivo. Rosalia, che rispetto al resto della famiglia aveva sintomi più lievi, chiamò l’ambulanza. I l figlio morì prima di arrivare all’ospedale internazionale di Sharm nonostante vari tentativi di rianimazione. Il padre fu ricoverato in Rianimazione e tenuto per giorni in coma farmacologico. Trasportato con un aereo ambulanza in Italia, finì al Policlinico di Palermo con gravi problemi renali e una infezione alle vie urinarie, ma si salvò.

 Dopo l’esposto dei Mirabile sulla vicenda ha aperto una inchiesta la Procura di Palermo. Sulla salma del piccolo era stata eseguita una prima autopsia in Egitto, ma i pm del capoluogo hanno incaricato i medici legali italiani di ripetere l’esame. Nel corso delle operazioni però il consulente dei magistrati, la dottoressa Stefania Zerbo, ha chiesto di poter visionare le conclusioni dei colleghi egiziani, che avevano avuto a disposizione elementi maggiori, a cominciare dal contenuto dello stomaco bambino, per poter arrivare a una soluzione del giallo. Solo dopo mesi la relazione dei sanitari egiziani è stata fatta avere al pm Vittorio Coppola che ha incaricato un interprete di tradurla dall’arabo. Una volta tradotto, il documento — 200 pagine in tutto — verrà consegnata al medico-legale palermitano.

Per avere una risposta definitiva, dunque, si dovranno aspettare ancora mesi , ma i primi accertamenti medico-legali un punto l’avrebbero già messo escludendo l’ipotesi egiziana dell’intossicazione alimentare. D’altronde alla tesi che a uccidere Andrea fosse stato il cibo gli inquirenti italiani non hanno mai davvero creduto. Intanto per i sintomi avvertiti dai genitori e dal piccolo: vomito e nausea, ma non dissenteria. La coppia, sentita dalla polizia, inoltre, ha sempre sostenuto di aver mangiato soltanto all’interno del resort, il Sultan Garden, e di aver prevalentemente scelto il ristorante a la carte invece del buffet.

Come è possibile dunque che nessun altro turista ospite della struttura nello stesso periodo si sia sentito male? Ma allora con quale sostanza letale possono essere venuti a contatto Andrea e i suoi genitori? La coppia ha fatto solo un’escursione in barca durante la vacanza, trascorsa prevalentemente all’interno del resort. Le indagini dunque dovrebbero concentrarsi sui luoghi dell’albergo frequentati dai tre italiani. A cominciare dalla stanza in cui alloggiavano i Mirabile. Sotto sequestro solo per pochi giorni, la camera è stata nuovamente occupata dai clienti del Sultan Garden: trovare indizi lì, insomma, è ormai praticamente impossibile. «Vogliamo sapere cosa è accaduto ad Andrea — dice lo zio Roberto Manosperti —. Abbiamo atteso mesi, attenderemo tutto il tempo necessario. Nessuno ci riporterà mio nipote, che è nei nostri pensieri ogni istante, ma alla verità abbiamo diritto».

"Il veleno per un contatto" la tesi sulla fine di Andrea. Non si è trattato di intossicazione alimentare Il pm aspetta la traduzione del referto egiziano. Valentina Raffa il 13 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Avvelenamento da contatto. Potrebbe essere questa la causa della morte del piccolo Andrea Mirabile, 6 anni, di Palermo, avvenuta lo scorso 2 luglio mentre era in vacanza con i genitori al Sultan Garden resort, struttura a 5 stelle a Sharm El Sheik, in Egitto. È la nuova pista seguita dalla procura di Palermo.

È venuta meno l'ipotesi che a causare il decesso del bimbo possa essere stata un'intossicazione alimentare e ora gli sforzi di chi indaga si concentrano a scoprire con cosa sia venuto a contatto il cibo servito ad Andrea e ai suoi genitori, anche loro finiti in ospedale, o, ipotesi più remota, cosa abbiano toccato. La risoluzione del giallo, però, chiede tempi lunghi, perché bisognerà attendere la traduzione della corposa relazione redatta dal medico egiziano che ha effettuato i primi accertamenti sul corpicino. Si tratta di 200 pagine, che riveleranno, tra le altre cose, il contenuto dello stomaco del bambino. Senza questa informazione fondamentale, non si potrà chiudere il caso e consegnare ai familiari la verità che chiedono di conoscere da luglio, dopo che quella che doveva essere una vacanza da sogno si è trasformata in tragedia cambiando per sempre le loro vite.

Era il 2 luglio quando il piccolo Andrea, papà Antonio, 46 anni, operaio dell'Anas, e mamma Rosalia, 35 anni e in dolce attesa da 5 mesi (oggi mamma di una bimba), già ospiti del resort dal 26 giugno, hanno accusato i primi malori vomitando incessantemente. Dapprima sono stati accompagnati alla guardia medica dell'hotel, dove è stata fatta loro una flebo con soluzione fisiologica e sono state somministrate tre pillole per le intossicazioni alimentari, ma, visto che continuavano a vomitare, il giorno dopo i tre sono tornati in «clinica» ed è lì che, pochi minuti dopo, è morto Andrea. Anche il papà stava malissimo ed è finito in Rianimazione, con sintomi di inizio blocco renale, rene ingrossato, problemi respiratori e un'ossigenazione bassissima e, una volta rientrato in Italia, è stato ricoverato al Policlinico di Palermo.

La prima a fare rientro in Italia fuori pericolo è stata Rosalia, che ha denunciato i medici egiziani per negligenza e, referti in mano, con la famiglia si è rivolta alla procura. Non li hanno tranquillizzati, infatti, gli esami tossicologici effettuati in Egitto e la rassicurazione del ministero della Salute egiziano che, stando a quanto ha riferito lo zio, «esclude l'avvelenamento». La procura di Palermo ha incaricato un anatomopatologo, un pediatra e un infettivologo per l'autopsia sul corpicino di Andrea, che è stata effettuata il 13 luglio all'Istituto di Medicina legale del Policlinico di Palermo, ma non ha chiarito le cause del decesso. Per questo è stata chiesta la relazione del medico legale egiziano che ha svolto l'autopsia in Egitto, e solo da pochi giorni questa è giunta al pm Vittorio Coppola, che coordina l'inchiesta e ha incaricato un interprete per la traduzione. Si ipotizza un avvelenamento da contatto. «Vogliamo sapere cosa è accaduto ad Andrea dice lo zio Roberto Manosperti - Attenderemo tutto il tempo necessario. Nessuno ce lo riporterà indietro, ma alla verità abbiamo diritto».

Enea Conti per corrieredibologna.corriere.it il 12 gennaio 2023.

A poco più di cinque mesi dalla tragedia di Giulia e Alessia Pisanu, le due sorelle originarie di Castenaso morte a Riccione dopo essere state investite da un treno Frecciarossa la mattina del 31 luglio scorso, il pubblico ministero Giulia Bradanini della Procura di Rimini ha chiesto l’archiviazione del fascicolo aperto per omicidio colposo nelle ore successive al dramma.

 Stando alle indagini svolte in questi mesi, le due ragazze di 15 e 17 anni non avevano assunto né droga né alcool e l’investimento non sarebbe riconducibile ad un gesto estremo di entrambe o una delle due. L’avvocato della famiglia Pisanu, Roberto Senis del foro di Cagliari ha comunicato la volontà dei congiunti delle due ragazze di non opporsi alla richiesta di archiviazione, ora al vaglio del Gip.

Il dramma: scagionato il macchinista del treno

Erano le sette del mattino del 31 luglio quando Giulia e Alessia Pisanu furono travolte da un treno Frecciarossa alla stazione di Riccione. Avevano passato la serata a Riccione dopo essere arrivate in Riviera da Castenaso, come tanti giovani, anche adolescenti. Il drammatico incidente era parso sin da subito come il tragico esito di una fatalità: già all’inizio di settembre le analisi della «scatola nera» installata a bordo del treno ad alta velocità che viaggiava in direzione Bologna hanno di fatto scagionato il macchinista da ogni responsabilità.

 Le polemiche sui social

Eppure, ben prima delle indagini, nelle ore successive al dramma, il comune di Riccione fu costretto persino a interdire gli utenti dei social network che seguono le pagine ufficiali dell’amministrazione, dallo scrivere commenti. Alcuni, feroci, erano al padre delle due ragazze con cui viveva a Castenaso.

 «Non provo rabbia – aveva spiegato il padre Vittorio Pisanu – è un capitolo chiuso. Io so bene quello che ho fatto per le mie figlie. Ho la coscienza pulita e quando in cuor tuo sai di aver fatto tutto quello che un cuore di padre può fare per le proprie figlie, si può provare fastidio per la banalizzazione del male contenuto in certe frasi e certe accuse, ma non rabbia, perlomeno per me è così. Giulia e Alessia erano due bellissime ragazze e piene di vita, avrebbero avuto un futuro radioso davanti».

 «Ora è ufficiale quel che già era noto. Giulia e Alessia non erano né sotto effetto di alcool né di droga. Io e la famiglia teniamo a sottolineare quello che è un dato di fatto alla luce delle tante illazioni riferite nelle ore drammatiche successive alla tragedia» è la considerazione amara dell’avvocato Roberto Senis.

Chiesta l'archiviazione. Giulia e Alessia investite e uccise da un treno a Riccione, zittiti gli hater: “Niente alcol, droga o gesto estremo”. Redazione su Il Riformista il 12 Gennaio 2023

Giulia e Alessia Pisano, le due sorelle di 15 e 17 anni originarie di Castenaso morte a Riccione dopo essere state investite da un treno Frecciarossa la mattina del 31 luglio, non avevano assunto né droga né alcol e l’investimento non sarebbe riconducibile ad un gesto estremo. A quasi sei mesi dalla tragedia avvenuta la mattina del 31 luglio scorso, il pubblico ministero Giulia Bradanini della Procura di Rimini ha chiesto l’archiviazione del fascicolo aperto per omicidio colposo nelle ore successive al dramma.

Le due sorelle furono travolte e uccise alle sette del mattino dal Frecciarossa alla stazione di Riccione. Avevano passato la serata come tanti giovani adolescenti e non nella località marittima, una delle capitali del divertimento estivo, dopo essere arrivate in Riviera da Castenaso, comune della provincia di Bologna.

Le indagini sulla tragedia, partite all’inizio di settembre con le analisi della scatola nera installata a bordo del treno ad alta velocità che viaggiava in direzione Bologna, hanno scagionato il macchinista da ogni responsabilità. Ma nelle ore successive al dramma, il comune di Riccione fu costretto a interdire gli utenti dei social network che seguono le pagine ufficiali dell’amministrazione, dallo scrivere commenti.

Sui social si erano scatenate feroci accuse ai familiari, alcune dirette al padre delle due ragazze con cui vivevano a Castenaso. “Non provo rabbia – aveva spiegato il genitore – è un capitolo chiuso. Io so bene quello che ho fatto per le mie figlie. Ho la coscienza pulita e quando in cuor tuo sai di aver fatto tutto quello che un cuore di padre può fare per le proprie figlie, si può provare fastidio per la banalizzazione del male contenuto in certe frasi e certe accuse, ma non rabbia, perlomeno per me è così. Giulia e Alessia erano due bellissime ragazze e piene di vita, avrebbero avuto un futuro radioso davanti”.

Oggi che è ufficiale quel che già era noto al padre Vittorio Pisano, “Giulia e Alessia non erano né sotto effetto di alcool né di droga. Io e la famiglia teniamo a sottolineare quello che è un dato di fatto alla luce delle tante illazioni riferite nelle ore drammatiche successive alla tragedia” conferma l’avvocato Roberto Senis.

Incidente a Riccione, l’ultima telefonata di Giulia e Alessia Pisanu al padre: «Tranquillo, ora torniamo». Riccardo Bruno su Il Corriere della Sera il 2 Agosto 2022.

Giulia e Alessia portate in stazione da un 24enne: «Erano stanche». Le indagini della Polizia ferroviaria propendono per un tragico incidente mentre attraversavano i binari. La Procura apre un fascicolo senza ipotizzare reati

Alessia alle sei del mattino di domenica ha chiamato il padre. Lui ha visto un numero sconosciuto e si è preoccupato. «Tranquillo papà. Il mio cellulare è scarico, a Giulia lo hanno rubato. Va tutto bene, stiamo andando in stazione e torniamo a casa». Vittorio Pisanu si è rincuorato, ignaro della tragedia che stava per devastare la sua famiglia, le sue due figlie adolescenti, Giulia che avrebbe compiuto 17 anni il 30 settembre, e Alessia che ne avrebbe fatti 15 a Ferragosto, da sempre unite, stavano per essere spazzate via da un treno.

Sono arrivate alla stazione di Riccione poco prima delle 7, accompagnate da un ragazzo toscano di 24 anni e da un suo amico che avevano conosciuto poco prima in discoteca, che gli avevano prestato il cellulare per chiamare casa. Quello che è successo dopo, gli agenti della Polizia ferroviaria lo stanno ancora ricostruendo grazie a una decina di testimonianze, perché le telecamere della stazione, cinque di cui tre puntate sui binari, non le avrebbero mai inquadrate.

I racconti sembrano concordi: una delle due, quasi sicuramente Giulia, la più grande, si toglie gli stivaletti e scende sui binari. Poco prima aveva scambiato una battuta con il titolare del bar che ora ricorda: «Mi ha detto che le avevano rubato il telefonino, che non aveva soldi. L’ho vista raggiungere l’altra ragazza e poi le ho viste giù sui binari».

In quel momento, fermo nella banchina opposta, c’è un regionale diretto verso sud. Il binario 1 è invece vuoto, ma sta per arrivare un Frecciarossa che non prevede fermate ed è lanciato a piena velocità. I due macchinisti hanno testimoniato di aver visto la sagoma di una ragazza ferma davanti a loro e di aver azionato subito la tromba d’allarme. Questione di attimi. Giulia rimane lì in mezzo, qualcuno testimonia di averla vista guardare il treno che le viene addosso, altri che è rivolta dall’altro lato. Intanto anche Alessia è scesa sui binari, forse per avvertire la sorella del pericolo, forse capisce che ormai è troppo tardi e tenta di tornare indietro. Tutto inutile. È stato un lavoro straziante recuperare i resti delle due sorelle sparsi per centinaia di metri, domenica ci sono volute ore per capire chi fossero le vittime.

Perché Giulia e Alessia erano sui binari? Gli uomini della Polfer, coordinati dalla pm Giulia Bradanini della Procura di Rimini, tendono a escludere l’ipotesi di un suicidio, e propendono per una «condotta incauta». Forse non volevano perdere il treno che le avrebbe riportate a casa, ma quello diretto a Bologna era partito già da una decina di minuti. Forse non lo hanno capito, è possibile che si siano confuse, di sicuro erano stanche.

Erano arrivate da Castenaso nel pomeriggio di sabato. Un giro a Riccione, poi tutta la notte in discoteca, al Peter Pan sulle colline. Il ragazzo che le ha accompagnate in stazione ha riferito di averle notate mentre ballavano e poi le ha riviste all’uscita. «Giulia era distesa a terra, esausta». Non c’erano taxi a quell’ora, così si è offerto lui. «Erano distrutte ma mi sembravano lucide, normali» ha detto agli agenti.

La Procura ha aperto un fascicolo, senza ipotizzare reati e senza indagati. Visto lo stato in cui sono ridotti i corpi, trapela che non sarà effettuato alcun esame tossicologico mentre sarà fatto quello del Dna. Non tutto è stato ancora chiarito e probabilmente non lo sarà mai. E forse non conta neanche tanto saperlo.

Incidente a Riccione, i punti oscuri e le parole della mamma di Giulia e Alessia Pisanu: «Non me lo spiego, erano ragazze responsabili». Alessandro Fulloni, inviato a Castenaso, su Il Corriere della Sera il 3 Agosto 2022.

La donna tornata dalla Romania. Il padre: «Non volevo che andassero in discoteca, poi ho ceduto». I funerali aperti a tutti. 

«Io non volevo che andassero in discoteca sabato sera. Ma loro hanno insistito, insistito... Mi hanno preso per sfinimento. E alla fine ho ceduto, ho detto sì...». Sono le parole che Vittorio Pisanu, il papà di Giulia e Alessia, le due sorelle di 16 e 14 anni travolte e uccise domenica mattina da un Frecciarossa sul binario 1 della stazione di Riccione, ha confidato a uno dei suoi più cari amici andato ieri ad abbracciarlo a casa, nella sua villa a Castenaso, a 10 minuti da Bologna. Prima di salire sull’auto e andare via assieme alla moglie, proprio questo amico — sui sessant’anni, gli occhi arrossati per le lacrime  — scambia qualche breve parola con i giornalisti che sostano fuori dal cancello. «Vittorio è un uomo distrutto, non si dà pace — racconta —. Ha detto solo che sabato sera si sentiva molto stanco... Forse anche per questo le ragazze sono riuscite a convincerlo». Il papà però avrebbe posto una condizione tassativa: «Giulia, Alessia, vi vengo io a prendere a Riccione. E su questo non si discute».

È andata purtroppo diversamente, come hanno ricostruito gli agenti della Polfer dell’Emilia-Romagna. È Alessia, verso le sei del mattino, a telefonare al genitore (originario di Senorbì, Sud Sardegna, dove a giugno era stato in vacanza con le figlie). La secondogenita usa il cellulare di un ventiquattrenne conosciuto poco prima fuori dal Peter Pan, una delle discoteche più celebri della Riviera, e che alle due sorelle dà un passaggio sino alla stazione. Vittorio vede il numero che non ha in memoria e si preoccupa. Ma la figlia lo rassicura subito: «Tranquillo papà. Il mio cellulare è scarico, a Giulia lo hanno rubato. Va tutto bene, stiamo andando in stazione e torniamo a casa». Clic. Poi c’è il treno che travolge Giulia e Alessia. I macchinisti vedono le ragazze tra le rotaie. Frenano, lampeggiano, suonano la sirena. La scena dura 12 secondi, devastanti. La sedicenne rimane lì in mezzo, qualcuno testimonia di averla vista guardare il Frecciarossa che le viene addosso, altri che è rivolta dall’altro lato. Intanto anche Alessia è scesa sui binari, forse per avvertire la sorella del pericolo, forse capisce che ormai è troppo tardi e tenta di tornare indietro senza gli stivali che si è tolta poco prima, chissà perché.

«Tante domande che rimarranno senza risposta. Erano due ragazze molto responsabili, non mi spiego» questa tragedia dice piangendo la mamma delle sorelle, Tatiana, rumena, separata da Vittorio da circa un anno, e rientrata ieri mattina, assieme a sua madre, da Bacau, dopo aver preso il primo volo disponibile. La donna, che parla per bocca del sindaco Carlo Gubellini, si è detta devastata da un «dolore immenso». Poi, prima di congedarsi, aggiunge: «Credo che le parole non possano descrivere ciò che provo dentro al cuore». Il primo cittadino intanto, «per volontà della famiglia», ha disposto che la cerimonia dei funerali sia aperta. «Vittorio e Tatiana ci tengono, sanno bene quanto Giulia e Alessia fossero benvolute, sanno bene che l’intera Castenaso è attonita, sgomenta e in lacrime per la loro perdita». La data delle esequie è ancora da stabilire: «Sono in contatto con la Procura: quando riconsegneranno le salme fisseremo il giorno al più presto».

Pierpaolo Lio per corriere.it il 17 gennaio 2022.

«Dalle 11.30 di mercoledì», il giorno successivo al festino, «Gabriel non si è più collegato a WhatsApp: è scomparso». A parlare è l’ultimo compagno del 27enne brasiliano trovato misteriosamente morto poche ore dopo, all’alba di giovedì, nell’appartamento di un condominio di via Marinetti, alle spalle di via Padova.

 È un ragazzo italiano, che preferisce restare anonimo, con cui Gabriel Luiz Dias Da Silva ha avuto una relazione durata diversi mesi e terminata prima delle vacanze di Natale. «L’ultimo messaggio che mi ha scritto mercoledì mattina diceva: “Ieri sono tornato da Claudio”», quel Gianclaudio D.B., pensionato 71enne, proprietario della casa, ex bancario e consulente finanziario, che ha poi scoperto il cadavere del giovane brasiliano nel letto matrimoniale e ora è indagato per omicidio colposo e omissione di soccorso. «Ancora sesso e droga — prosegue il messaggino —. Sto perdendo un sacco di chili, ma non riesco a smettere».

Poco dopo le 8 di mattina di giovedì scorso, Gabriel viene trovato steso a pancia in giù, a torso nudo, semicoperto da un lenzuolo, con il volto appoggiato su un sacchetto di plastica bianco vicino al cuscino. «Ti posso garantire che Claudio non era il suo compagno: era solo un cliente che si era invaghito di Gabriel. E lui accettava di andarci sempre perché pagava bene. I soldi, le cene fuori, la bella vita, erano il modo con cui Claudio lo teneva legato a sé».

Ci sono anche le droghe, da cui il 27enne — dopo un tentativo di disintossicarsi durante la sua relazione con il ragazzo italiano — era dipendente. «L’ultima volta che l’ho visto è stato il giorno prima di quel festino. Mi aveva confessato che dal 26 dicembre, quindi dopo che ci eravamo lasciati, era tornato a fare l’escort e a drogarsi. Gli serviva farsi anche per reggere quella vita lì, a cui si sentiva costretto per guadagnare, visto che non era in regola e i lavoretti, come l’istruttore di fitness, non erano sufficienti».

[…]

Gabriel Dias Da Silva morto a 27 anni, la «super coke» e l’ultimo sms all’ex fidanzato. Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2023.

Il racconto dell'ex compagno, un giovane italiano: «Ci siamo lasciati il 26 dicembre e subito dopo lui ha ricominciato a fare l'escort e a drogarsi. Stava con il 70enne per fare la bella vita»

«Dalle 23.30 di mercoledì», il giorno successivo al festino, «Gabriel non si è più collegato a WhatsApp: è scomparso». A parlare è l’ultimo compagno del 27enne brasiliano trovato misteriosamente morto poche ore dopo, all’alba di giovedì, nell’appartamento di un condominio di via Marinetti, alle spalle di via Padova. È un ragazzo italiano, che preferisce restare anonimo, con cui Gabriel Luiz Dias Da Silva ha avuto una relazione durata diversi mesi e terminata prima delle vacanze di Natale. «L’ultimo messaggio che mi ha scritto quella sera diceva: “Ieri sono tornato da Claudio”», quel Gianclaudio D.B., pensionato 71enne, proprietario della casa, ex bancario e consulente finanziario, che ha poi scoperto il cadavere del giovane brasiliano nel letto matrimoniale e ora è indagato per omicidio colposo e omissione di soccorso. «Ancora sesso e droga — prosegue il messaggino —. Sto perdendo un sacco di chili, ma non riesco a smettere».

Poco dopo le 8 di mattina di giovedì scorso, Gabriel viene trovato steso a pancia in giù, a torso nudo, semicoperto da un lenzuolo, con il volto appoggiato su un sacchetto di plastica bianco vicino al cuscino. «Ti posso garantire che Claudio non era il suo compagno: era solo un cliente che si era invaghito di Gabriel. E lui accettava di andarci sempre perché pagava bene. I soldi, le cene fuori, la bella vita, erano il modo con cui Claudio lo teneva legato a sé». Ci sono anche le droghe, da cui il 27enne — dopo un tentativo di disintossicarsi durante la sua relazione con il ragazzo italiano — era dipendente. «L’ultima volta che l’ho visto è stato il giorno prima di quel festino. Mi aveva confessato che dal 26 dicembre, quindi dopo che ci eravamo lasciati, era tornato a fare l’escort e a drogarsi. Gli serviva farsi anche per reggere quella vita lì, a cui si sentiva costretto per guadagnare, visto che non era in regola e i lavoretti, come l’istruttore di fitness, non erano sufficienti».

La chiamano «PV», «super coke», la «droga degli zombie». E sembra che Gabriel ne facesse uso fin dai suoi primi tempi in Italia. È una droga sintetica che crea in poco tempo una forte dipendenza: è parente delle più conosciute metanfetamine, e si presenta sotto forma di polvere giallastra, che inalata e soprattutto fumata (cosa che garantisce una «botta» immediata) provoca euforia, eccitazione sessuale, assenza di sonno, mancanza di appetito, ma anche attacchi di panico, tachicardia, vertigini, forte ipertensione, brividi.

In quel festino nell’appartamento al quarto piano di via Marinetti, pare ne girasse parecchia. Nella casa del 71enne, la sezione Rilievi dei carabinieri ha rinvenuto tracce di droga in polvere e alcuni «bong» (pipe ad acqua) artigianali realizzati con bottigliette di plastica e cannucce. E lo stesso pensionato, giovedì, nel suo interrogatorio davanti al pm Simona Ferraiuolo e ai militari della compagnia Porta Monforte, aveva ammesso che le persone presenti a quella festa a base di sesso e droga ne avevano «fumata» molta. Gli investigatori sono in attesa dei risultati degli esami sulle tracce repertate e dei tossicologici a cui sono stati sottoposti sia il cadavere, sia il 71enne, oltre agli esiti dell’autopsia sul corpo in programma giovedì.

«Ci sentivamo ancora, anche dopo aver rotto — riprende il racconto l’ex compagno —. E ci eravamo rivisti casualmente domenica, a una serata con amici in comune. E poi di nuovo il giorno dopo. Era un ragazzo solare, divertente, ambizioso. Aveva i suoi progetti. Ora voglio che venga fuori la verità».

Intanto i genitori del 27enne, originario della regione di Porto Alegre e arrivato a Milano a marzo del 2019, hanno lanciato una raccolta fondi (a questo link) per coprire le spese «per riportare indietro Gabriel, il nostro ragazzo, e dargli una sepoltura degna dell’amore e dell’affetto che merita, perché Gabriel sulla terra era Luce e ora in cielo è ancora più Luce». «Abbiamo perso una delle persone più importanti della nostra vita», scrivono i genitori — che hanno già preso contatto con il consolato a Milano — nella petizione lanciata su un sito brasiliano per raccogliere 40mila reais (poco più di 7mila euro) per trasferire il corpo del giovane nel Paese d’origine «e potergli dire addio con l’amore e la dignità che merita».

Estratto dell'articolo di P. Lio per il “Corriere della Sera” il 14 gennaio 2023.

 […]Il suo «sogno» italiano era iniziato quattro anni fa. La sua «nuova casa»: Milano. Era qua che Gabriel Luiz Dias Da Silva aveva scelto di vivere […] È morto però giovedì, 27enne, in circostanze ancora tutte da chiarire. 

 A trovarlo al mattino cadavere, steso a pancia in giù sul letto matrimoniale, a torso nudo, semicoperto da un lenzuolo, con il volto appoggiato su un sacchetto di plastica bianco vicino al cuscino, è il padrone di casa, l'uomo che l'ha visto vivo per l'ultima volta, Gianclaudio D.B., un pensionato 71enne, ex bancario e consulente finanziario, ora indagato per omicidio colposo e omissione di soccorso. 

È con lui che il giovane brasiliano sarebbe stato in casa nei suoi ultimi due giorni di vita, dopo una serata, quella di martedì, di sesso e droga, «parecchia» droga, passata insieme a diversi amici  […].

 Dei partecipanti di quel festino - non il primo organizzato in quell'appartamento - al momento non si sa nulla. Il pensionato […] non ha saputo farne i nomi. Per questo gli investigatori sono impegnati a identificare e rintracciare chi ha passato quella serata con la coppia: stanno setacciando i due telefonini sequestrati in casa (oltre a un computer portatile) e analizzeranno il traffico telefonico registrato in quelle ore in quel quadrante.

[…]l'indagato non ha saputo indicare quali sostanze girassero per casa. Servirà perciò attendere l'esito degli esami tossicologici a cui sono stati sottoposti sia il corpo dell'istruttore di fitness, sia il 71enne, per questo accompagnato in ospedale dopo l'interrogatorio. L'autopsia, invece, è stata programmata giovedì prossimo. I due si erano conosciuti nel 2019, fin dal primo anno italiano di Gabriel. L'iniziale frequentazione  […]s' era fatta sempre più assidua, soprattutto negli ultimi mesi, dopo la rottura del rapporto tra il 71enne e il suo compagno. 

Gabriel «era da me da alcuni giorni», ha detto il pensionato. In quella torre il giovane era ormai di casa: i vicini lo vedevano regolarmente (e in un paio di occasioni avevano sentito i due litigare sul pianerottolo) e il giovane brasiliano aveva le chiavi dell'alloggio al quarto piano. È là che i due sarebbero rimasti nei due giorni successivi al festino, con Gabriel che mercoledì, dopo la colazione, «è stato male, ha preso dei farmaci ed è tornato a letto», è la versione dell'indagato, e avrebbe passato poi quasi 24 ore da solo a letto. 

 «Pensavo stesse dormendo», s' è giustificato il padrone di casa che avrebbe dormito sul divano e solo al risveglio, giovedì, scoprirà il cadavere e avviserà i soccorsi. […]

Gabriel, il modello 27enne trovato morto dopo un festino a base di sesso e droghe: indagato il compagno.  Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 13 gennaio 2023.

Da poco il giovane brasiliano era andato a convivere con un 71enne italiano, Gianclaudio D.B., incensurato, che conosceva dal 2019. Il corpo trovato sul letto, il viso su un sacchetto di plastica. Si indaga per omicidio colposo

Il corpo è steso sul letto, a torso nudo, con i tatuaggi sulla schiena coperti da un lenzuolo. Il volto è su un sacchetto di plastica appoggiato sul cuscino. Sul corpo non ci sono segni evidenti di violenza. Il cadavere di Gabriel Luiz Dias Da Silva, 27enne, origini brasiliane, viene trovato in una stanza che non è la sua. È nella camera di un palazzo di via Marinetti, alle spalle di via Padova, nell’appartamento dell’uomo con cui negli ultimi mesi il giovane avrebbe instaurato una relazione, seppur non fissa. È un 71enne italiano, Gianclaudio D.B., incensurato, che il giovane conosceva dal 2019 e con cui la frequentazione era diventata sempre più stretta dopo che il pensionato, prima dell’estate, aveva chiuso una lunga storia con il precedente convivente.

È il pensionato a chiamare i soccorsi ieri mattina. Ed è lui, a fine giornata, a risultare indagato a piede libero per omicidio colposo e omissione di soccorso. Due ipotesi per una morte ancora da chiarire (qui gli sviluppi dell'inchiesta), che le parole del sospettato, a lungo interrogato nel pomeriggio dal pm di turno Simona Ferraiuolo e dai carabinieri della compagnia Porta Monforte e del Nucleo investigativo, non hanno aiutato a ricostruire. Davanti agli investigatori, in modo ancora confuso, il 71enne, con un passato in banca prima di aprire un suo studio di consulenza finanziaria, ha raccontato quelli che sono stati gli ultimi giorni passati con il 27enne. Due giorni prima, martedì, la coppia si era infatti ritrovata nell’appartamento al quarto piano con alcuni amici, al momento non ancora identificati. Quella serata in casa è un festino a base di sesso e droghe. Non è la prima volta: i due avrebbero organizzato altre occasioni con amici durante le quali fare ampio uso di stupefacenti.

In quella torre negli ultimi tempi il giovane era di casa: «Convivevamo da alcuni giorni», spiegherà il pensionato. Gabriel aveva infatti un suo mazzo di chiavi, i vicini lo vedevano sempre più spesso. «E un paio di volte negli ultimi mesi, alla sera li avevo sentiti litigare sul pianerottolo», ricorda uno dei residenti. Anche il custode ha presente il suo volto: aveva ricevuto dal condomino disposizione di ritirare anche i pacchi indirizzati a Gabriel. Per l’indagato, da martedì i due resteranno sempre insieme nell’appartamento, anche se il custode sostiene di aver visto il ragazzo il giorno successivo mentre rientrava a casa. Comunque sia il mattino dopo Gabriel — che in precedenza viveva in un alloggio condiviso con alcuni amici, qualche piccolo precedente per reati in materia d’immigrazione e una vita che i social mostrano divisa tra la palestra, dove si allenava e lavorava come istruttore di fitness, e qualche shooting fotografico come modello — dopo la colazione con il compagno «è stato male, ha preso dei farmaci ed è tornato a letto», è ancora la versione fornita dal pensionato. Sarebbe l’ultimo momento passato nella stessa stanza.

Nei ricordi del 71enne, infatti, quella notte la coppia non avrebbe dormito insieme. Lui preferisce lasciare il giovane a riposare da solo. E per ore non varcherebbe la soglia della camera, non andrebbe mai a controllarlo. «Pensavo stesse dormendo», si giustifica davanti al magistrato. In realtà ammetterà poi di essere entrato fugacemente nella stanza solo nella tarda serata di mercoledì, «per spegnere la stufetta elettrica» e decidere di tornare in sala per il troppo caldo e finire per addormentarsi sul divano. Ieri mattina, al risveglio scopre il cadavere steso sul letto, e avvisa i soccorsi.

Per capire cosa sia davvero accaduto e chiarire se sia stato un malore, un incidente durante un gioco erotico o un omicidio saranno decisivi gli esiti degli esami tecnici disposti sul materiale sequestrato nell’alloggio (a partire dai cellulari e dal computer portatile), i risultati dei test tossicologici, che dovranno verificare quali sostanze tra droghe e farmaci abbia assunto il 27enne brasiliano nelle ore precedenti, e soprattutto l’autopsia.  

Come è morto Gabriel Da Silva? Il 27enne istruttore di fitness trovato nel letto del suo amico dopo la festa a base di sesso e droga. Massimo Pisa su La Repubblica il 13 gennaio 2023.

Indagato il padrone di casa, un 71enne di Milano che aveva invitato alcuni giovani amici gay a casa sua. E' stato lui a telefonare alla polizia. Sul corpo del ragazzo nessun segno apparente di violenza

Faceva l'istruttore di fitness, aveva 27 anni e su Instagram mostrava il suo fisico palestrato, i tatuaggi e l'orgoglio del suo coming out. Di lui restano i pensieri postati il giorno del suo ultimo compleanno: "Voglio vivere tutto. Fa parte di me. Ho sempre scelto di vivere il rimpianto delle mie scelte piuttosto che vivere una vita che non era più mia. Sempre. Sono cose che appartengono a me e alla mia storia. Io, il mio migliore amico. Incapace di nascondere ogni singola emozione che provo. Impossibile essere insensibili. Il mio intuito dice che i 27 anni saranno migliori. Grazie al mio Dio per tutto. E possa la mia strada essere lunga e felice". Non è andata così purtroppo per Gabriel Luiz Dias Da Silva, origini brasiliane e una vita ormai a Milano: i suoi 27 anni sono finiti nel letto di casa di un 71enne, amico e amante - come si è definito il pensionato davanti ai carabinieri - che aveva dato una festa, invitando alcuni giovani amici gay. Sesso e droga, poi il ritrovamento - questa è la sua versione - del corpo di Gabriel Da Silva. Morto, sul letto, con il viso appoggiato su un sacchetto di plastica e senza altri segni di violenza sul corpo nudo dalla vita in su.

Sarà solo l'autopsia a dire come è morto il 27enne, se stroncato da un mix letale di alcol e droghe, o se morto dopo un gioco erotico o ucciso da uno dei presenti. Intanto è stato indagato per omicidio colposo e omissione di soccorso il padrone di casa, il 71enne Gianclaudio Dalla Benetta, ex bancario e consulente finanziario in pensione. E' stato lui, ieri mattina, a chiamare i carabinieri dicendo di aver trovato il cadavere del suo amico nel letto dell'appartamento al quarto piano di una delle torri di via Marinetti. Ma ai carabinieri della compagnia Monforte e del Nucleo investigativo, che ieri lo hanno sentito a lungo assieme alla pm Simona Ferraiuolo, l'uomo ha raccontato una versione che al momento è tutta da verificare.

La festa è iniziata martedì sera, tra gli ospiti il 27enne: "Ci conoscevamo dal 2019, eravamo un po' amici e un po' amanti, ogni tanto veniva da me per qualche giorno ma non eravamo fidanzati", ha raccontato l'uomo, e la conferma arriva dal portinaio, "Quel ragazzo lo vedevo da almeno due anni, ormai ritiravo la posta che arrivava qui, anche i pacchi di Amazon: così mi aveva dato istruzioni il signor Dalla Benetta". Il 71enne aveva a lungo vissuto con un altro compagno, tanto che il suo nome è rimasto sul citofono, ma Gabriel era di sicuro un viso conosciuto anche ai vicini. Ai carabinieri ha spiegato che mercoledì mattina gli altri sono andati via e Gabriel ha chiesto di potersi riposare sul letto. Dalla Benetta sostiene di essersi addormentato anche lui, ma sul divano, risvegliandosi con i ricordi offuscati dalla droga e scoprendo solo allora il cadavere.

Gabriel, morto nel letto di un pensionato. "Era già senza vita". Il 27enne aveva da qualche mese una relazione con il pensionato 71enne, l'unico indagato, con cui viveva all'interno dell'appartamento dove è stato trovato privo di vita. Un festino a base di sesso e droga poco prima del decesso. Valentina Dardari il 13 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Il cadavere del 27enne brasiliano Gabriel Luiz Diaz da Silva è stato trovato morto nel letto di un pensionato. Era a torso nudo e i tatuaggi sulla schiena erano coperti da un lenzuolo. Il suo viso era appoggiato sul cuscino, sopra a un sacchetto di plastica. A un primo esame il medico legale non avrebbe riscontrato segni di violenza sul corpo. Particolare degno di nota: la stanza in cui è stato rinvenuto il cadavere non era quella della vittima, bensì è situata all'interno di un condominio sito in via Marinetti, nei pressi di via Padova, in cui risiede un uomo, un pensionato incensurato di 71 anni, con cui la vittima avrebbe instaurato una relazione da qualche mese, seppur non continuativa.

La relazione tra i due uomini

Secondo quanto ricostruito, i due uomini si conoscevano dal 2019 e nel tempo, in particolare da quando il 71enne aveva chiuso una relazione importante, la loro frequentazione era diventata più assidua. Nella mattinata di ieri era stato proprio l'anziano ad allarmare i soccorsi. L'uomo, attualmente a piede libero, adesso risulta essere indagato per omicidio colposo e omissione di soccorso. Le indagini sono ancora in corso per riuscire a ricostruire cosa è avvenuto in quella stanza e negli ultimi momenti di vita della giovane vittima. L'unica persona al momento sospettata è stata ascoltata a lungo dal pubblico ministero di turno Simona Ferraiolo e dai militari della compagnia Porta Monforte e del Nucleo investigativo. Da quanto emerso, il pensionato, anche se in modo confuso, avrebbe raccontato gli ultimi giorni trascorsi con il 27enne.

Cosa è successo le sera di martedì

Martedì scorso, due giorni prima della tragedia, la coppia avrebbe passato la serata in compagnia di alcuni amici non ancora identificati. Secondo quanto riportato dal Corriere, nell'appartamento situato al quarto piano sarebbe andato in scena un festino a basa di alcol, droga e sesso. Non sarebbe comunque stata la prima volta. Da quando l'anziano aveva messo fine alla sua precedente convivenza, poco prima della scorsa estate, il giovane aveva iniziato a frequentare sempre più spesso l'abitazione. Anzi, il pensionato avrebbe proprio parlato di convivenza da alcuni giorni, tanto che il 27enne era in possesso di un mazzo di chiavi. Uno dei condomini avrebbe raccontato: "Un paio di volte negli ultimi mesi, alla sera li avevo sentiti litigare sul pianerottolo". Il custode del condominio sembra avesse avuto indicazioni di ritirare anche la posta indirizzata al ragazzo. L'indagato ha affermato di essere rimasto da martedì nell'appartamento con la vittima. Il portinaio ha detto però di aver notato il 27enne rientrare in casa il giorno dopo.

L'ultima notte di vita del giovane

In ogni caso il mattino seguente il ragazzo, che aveva alcuni piccoli precedenti per reati in materia d'immigrazione e la passione per il fitness, avrebbe assunto dei farmaci perché non si sentiva bene, per poi tornare a letto a dormire. O almeno questa sarebbe la versione del pensionato. La notte stessa i due non avrebbero condiviso lo stesso letto. L'anziano ha ammesso di avere fatto solo una visita veloce notturna, "per spegnere la stufetta elettrica". Subito dopo sarebbe tornato in soggiorno e si sarebbe addormentato sul divano. Il mattino seguente avrebbe trovato il compagno a letto, ormai privo di vita. Gli investigatori stanno seguendo diverse piste, dal gioco erotico finito in tragedia al malore improvviso, ma solo l'esame autoptico potrà aiutare ad avere delle risposte. I cellulari e il computer portatile trovati nell'abitazione sono stati posti sotto sequestro. Importanti saranno anche gli esiti degli esami tossicologici che verranno effettuati sulla salma.

Paolo Stasi ucciso a 19 anni per 5 mila euro: chiusa l’inchiesta, la madre indagata per spaccio di stupefacenti. Cinzia Semeraro su Il Corriere della Sera venerdì 6 ottobre 2023. 

La procura di Brindisi ha notificato otto avvisi di conclusione delle indagini, dei quali due per concorso in omicidio: l'accusa contestata a due ragazzi di 18 e 22 anni. Il movente sarebbe un debito di droga di 5 mila euro 

La Procura di Brindisi ha emesso un avviso di conclusione delle indagini preliminari al termine dell'inchiesta per l'omicidio del 19enne Paolo Stasi, ucciso sull'uscio di casa a colpi di pistola il 9 novembre del 2022 a Francavilla Fontana, e per la presunta rete di spacciatori di sostanze stupefacenti scoperta durante le indagini avviate dopo il delitto. Sono otto le persone destinatarie del provvedimento firmato dal pubblico ministero Giuseppe De Nozza. 

I presunti assassini e lo spaccio

Accusati di concorso nell'omicidio di Stasi sono il 18enne Luigi Borracino (all'epoca dei fatti minorenne, per il quale procede la Procura per i minori di Lecce) ed il 22enne Cristian Candita. Entrambi, attualmente in carcere per il delitto, sono accusati anche di detenzione illegale di armi ed esplosione di colpi da arma da fuoco in luogo pubblico. Nell'inchiesta per spaccio di droga è indagata anche la madre della vittima, Annunziata D'Errico, di 53 anni. È accusata in concorso di detenzione ai fini di spaccio di sostanza stupefacente con Borracino, Candita e altre cinque persone: Pasquale Moldavio di 31 anni, Giovanni Di Cesaria di 25, Marirosa Mascia di 25, Sara Canovari di 21 e il 40enne Cosimo Candita. Nell'atto della Procura viene evidenziato che l'omicidio sarebbe stato commesso «per un futile motivo, un debito di 5mila euro contratto con Borracino» da Stasi e dalla madre «per il consumo di sostanza stupefacente» del tipo hascisc e marijuana. Gli stupefacenti venivano confezionati ai fini di spaccio nell'abitazione della famiglia Stasi, a seguito di un accordo tra Borraccino e D'Errico. Sia Stasi sia la mamma - secondo l'accusa - consumavano la sostanza stupefacente e l'avrebbero pagata solo in parte. 

Nell'atto, che solitamente precede la richiesta di rinvio a giudizio, vengono ricostruite oltre alle fasi dell'omicidio, anche la presunta fitta rete legata all'attività di spaccio, con una serie di spostamenti per l'acquisto di droga che alcuni degli indagati avrebbero compiuto tra le provincie di Brindisi, Taranto e Bari. La famiglia di Stasi (padre, madre e sorella del 19enne) è assistita, come parte offesa, dall'avvocato Domenico Attanasi. 

Omicidio Stasi a Francavilla F.na: avviso fine indagine, 8 indagati. Sono otto le persone destinatarie del provvedimento firmato dal pubblico ministero Giuseppe De Nozza. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 Ottobre 2023

La Procura di Brindisi ha emesso un avviso di conclusione delle indagini preliminari al termine dell’inchiesta per l’omicidio del 19enne Paolo Stasi, compiuto con colpi di pistola il 9 novembre del 2022 a Francavilla Fontana, e per la presunta rete di spacciatori di sostanze stupefacenti scoperta durante le indagini avviate dopo il delitto. Sono otto le persone destinatarie del provvedimento firmato dal pubblico ministero Giuseppe De Nozza.

Accusati di concorso nell’omicidio di Stasi sono il 18enne Luigi Borracino (all’epoca dei fatti minorenne, per il quale procede la Procura per i minori di Lecce) ed il 22enne Cristian Candita. Entrambi, attualmente in carcere per il delitto, sono accusati anche di detenzione illegale di armi ed esplosione di colpi da arma da fuoco in luogo pubblico. Nell’inchiesta per spaccio di droga è indagata anche la madre della vittima, Annunziata D’Errico, di 53 anni.

E’ accusata in concorso di detenzione ai fini di spaccio di sostanza stupefacente con Borracino, Candita e altre cinque persone: Pasquale Moldavio di 31 anni, Giovanni Di Cesaria di 25, Marirosa Mascia di 25, Sara Canovari di 21 ed il 40enne Cosimo Candita. Nell’atto della Procura viene evidenziato che l’omicidio sarebbe stato commesso "per un futile motivo, un debito di 5mila euro contratto con Borracino» da Stasi e dalla madre «per il consumo di sostanza stupefacente» del tipo hascisc e marijuana che venivano confezionati ai fini di spaccio nell’abitazione della famiglia Stasi a seguito di un accordo tra Borraccino e la D’Errico. Sia Stasi sia la mamma - secondo l’accusa - consumavano la sostanza stupefacente e l’avrebbero pagata solo in parte.

Nell’atto, che solitamente precede la richiesta di rinvio a giudizio, vengono ricostruite oltre alle fasi dell’omicidio, anche la presunta fitta rete legata all’attività di spaccio, con una serie di spostamenti per l’acquisto di droga che alcuni degli indagati avrebbero compiuto tra le provincie di Brindisi, Taranto e Bari. La famiglia di Stasi (padre, madre e sorella del 19enne) è assistita, come parte offesa, dall’avvocato Domenico Attanasi. 

Francavilla, 18enne confessa l'omicidio di Paolo Stasi: «Non volevo ucciderlo». L'avvocato Maurizio Campanino ha dichiarato all'uscita del carcere di Brindisi dopo l'interrogatorio: “Il mio assistito ha preso consapevolezza di ciò che ha fatto”. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 3 Ottobre 2023.

Un nuovo tassello si aggiunge nell'indagine sull'omicidio di Paolo Stasi, il 19enne ucciso a colpi di pistola a Francavilla Fontana nel Brindisino lo scorso 9 novembre: il 18enne, L.B. ha confessato di avere sparato i due colpi di pistola di piccolo calibro che hanno tolto la vita al 19enne. Ma «non volevo uccidere» Paolo Stasi ha aggiunto il giovane reoconfesso.

E’ quanto emerge dall’interrogatorio che si è svolto oggi con il 18enne in carcere dal 22 maggio scorso, perché accusato del delitto Stasi. 

L.B., all’epoca del delitto minorenne, è stato interrogato dal procuratore del tribunale dei minorenni Simona Filoni e dal sostituto Paola Guglielmi.

«Ha chiarito la sua posizione tra cui la circostanza che i colpi esplosi dall’arma che aveva in pugno sono i suoi. Ma non era sua intenzione uccidere». Lo dichiara Maurizio Campanino, legale del 18enne. 

«Il mio assistito non era infatti a conoscenza del fatto che lo avesse attinto dai due colpi di pistola, e - aggiunge - lo ha saputo solo la sera. Si tratta voglio precisare di un interrogatorio che ha sollecitato lui alla Procura». «Dopo un pò di mesi - prosegue il legale - ha fatto un percorso suo personale ed ha chiesto di essere interrogato per chiarire alcuni aspetti di cui gli inquirenti non potevano avere conoscenza». 

Francavilla, caso Stasi: 18enne indagato era stato a casa della vittima poche ore prima dell'omicidio. Si continua a indagare seguendo la pista della droga: a casa del giovane trovati anche bilancini di precisione. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Gennaio 2023

Paolo Stasi ha ricevuto l’ultima telefonata alle ore 17.29 prima di essere ucciso, il 9 novembre scorso sotto casa sua a Francavilla Fontana (Brindisi), da un’utenza che avrebbe chiamato da poco meno di un chilometro. L'utenza è intestata a un cittadino straniero, risultato estraneo ai fatti, ma Stasi aveva memorizzato quel numero sotto il nome del 18enne indagato per omicidio. Lo stesso 18enne che - secondo quanto emerso dalle indagini - era a casa di Stasi poche ore prima che fosse ucciso. Sono questi alcuni dei nuovi dettagli dell’inchiesta sulla morte del 19enne Paolo Stasi, per il quale, oltre al 18enne, è indagato anche un ragazzo di 19 anni.

Tra gli altri elementi emersi c'è il ritrovamento di almeno tre bilancini di precisione a casa di Stasi. La pista investigativa dello spaccio di droga, infatti, è quella su cui ormai da settimane si sta concentrando il lavoro dei carabinieri che hanno ascoltato più volte, come persona informata sui fatti, la madre del 19enne assassinato, Annunziata D’Errico.

Gli investigatori lo hanno scoperto dai messaggi telefonici tra il 19enne ucciso la sera del 9 novembre a Francavilla Fontana, e la madre Nunzia D’Errico, la quale davanti agli inquirenti ha ammesso che nella loro casa circolava droga

Omicidio 19enne a Brindisi: tracce di droga nella borsa vicino il corpo di Stasi. All'interno vi era anche del materiale per confezionare le dosi. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Gennaio 2023

Materiale per il confezionamento di sostanze stupefacenti e tracce di droga: sarebbe questo il contenuto di una borsa che fu ritrovata dai carabinieri a poca distanza dal corpo del 19enne Paolo Stasi, la sera del suo omicidio, il 9 novembre scorso a Francavilla Fontana (Brindisi). Prende sempre più forma l’ipotesi investigativa secondo la quale il movente del delitto sarebbe da ricercare in un regolamento di conti nel mondo dello spaccio, forse per una somma non pagata.

Nei giorni scorsi è emerso che il 18enne (aveva 17 anni il giorno del delitto) indagato per l’omicidio di Paolo forniva «da oltre un anno» e «con cadenza pressoché quotidiana» la droga «custodita e confezionata a casa Stasi, evidentemente in vista della cessione a terzi». Gli sviluppi dell’indagine erano contenuti nell’ordinanza con cui il Tribunale del Riesame di Brindisi ha confermato il sequestro all’indagato della somma di 8.960 euro, ritenuta provento dello spaccio di droga, e di una pistola scacciacani a gas sulla quale la pubblica accusa ha disposto una perizia balistica. Negli atti si leggeva inoltre che il giovane indagato ha ceduto in modo continuativo sostanze stupefacenti a diverse persone, «nella specie a D’Errico Annunziata», di 52 anni, ovvero alla mamma di Stasi, «nonché al figlio di quest’ultima».

Omicidio Stasi, dal Tribunale del Riesame: «In casa della vittima si confezionava droga». Mentre l'indagato la forniva da un anno al 19enne, con cadenza quasi quotidiana. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Gennaio 2023.

Il diciassettenne indagato per l'omicidio di Paolo Stasi forniva «da oltre un anno» e «con cadenza pressoché quotidiana» la droga «custodita e confezionata a casa Stasi, evidentemente in vista della cessione a terzi». Lo scrive il Tribunale del Riesame di Brindisi annotando che il giovane ha ceduto in modo continuativo sostanze stupefacenti a diverse persone, «nella specie a D’Errico Annunziata», di 52 anni, «nonché al figlio di quest’ultima Stasi Paolo», il 19enne ucciso in un agguato compiuto con colpi di pistola il 9 novembre 2022 a Francavilla Fontana (Brindisi). Questa ricostruzione confermerebbe che il movente del delitto sarebbe da ricercare in un regolamento di conti nel mondo dello spaccio, forse per una somma non pagata.

La ricostruzione dei fatti è riportata nell’ordinanza di 5 pagine con cui il Riesame ha confermato il sequestro all’indagato (diventato maggiorenne nove giorni dopo il delitto) della somma di 8.960 euro, ritenuta provento dello spaccio di droga, e di una pistola scacciacani a gas sulla quale la pubblica accusa ha disposto una perizia balistica.

Brindisi, omicidio 19enne, la famiglia Stasi: «Stop a spettacolarizzazione». Lo dichiara il legale della famiglia Stasi, avv. Domenico Attanasi, dopo le decisioni della magistratura a carico di un 18enne indagato per l’omicidio del 19enne Paolo Stasi. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Gennaio 2023.

«La famiglia Stasi stigmatizza la spettacolarizzazione della vicenda giudiziaria riguardante l'omicidio del giovane Paolo, ed in particolare le indiscrezioni e i resoconti parziali di atti giudiziari veicolati tramite interviste rilasciate all’indomani del provvedimento del Tribunale del Riesame di Brindisi» che ha respinto l’istanza della difesa di un indagato di revocare il sequestro di una pistola e di una somma in danaro. Lo dichiara il legale della famiglia Stasi, avv. Domenico Attanasi, dopo le decisioni della magistratura a carico di un 18enne indagato per l’omicidio del 19enne Paolo Stasi, compiuto a Francavilla Fontana (Brindisi) il 9 novembre scorso.

«Ad oggi - aggiunge - gli unici elementi certi sono costituiti dal fatto che vi è per lo meno un indagato per il reato di omicidio volontario, che le indagini sono ancora in corso e che il Tribunale di Brindisi ha respinto l’istanza di riesame proposta da un indagato avverso il sequestro di un’arma e di una considerevole somma di denaro contante. Nell’attesa degli eventuali sviluppi di un procedimento che deve avere la sua sede naturale nelle aule di giustizia, e nell’ambito del quale anche il diritto di difesa delle persone indagate potrà essere pienamente esercitato, appare davvero intollerabile l’accensione di un riflettore mediatico e i toni allusivi adoperati per commentare aspetti della vita privata della vittima di un così efferato delitto, soprattutto in ragione del fatto che gli stessi non stati evidentemente ritenuti rilevanti in chiave difensiva dal Tribunale del Riesame di Brindisi». 

Il giallo sull'orario dell'agguato mortale. La droga dietro il delitto Stasi con le dichiarazioni choc della madre. La Redazione de La Voce di Manduria il 13 gennaio 2023.

Ci sarebbe un traffico di droga e forse una partita non pagata dietro l’omicidio di Paolo Stasi, il diciannovenne di Francavilla Fontana ucciso il 9 novembre scorso davanti casa. Di questa circostanza sarebbe stata a conoscenza anche la famiglia, in particolare la madre del ragazzo che quotidianamente, secondo quanto da lei stessa dichiarato, avrebbe ricevuto la sostanza stupefacente per il confezionamento e la detenzione, ma anche per farne uso.

Sarebbero queste le sconcertanti novità che emergono da quello che sembrava essere un giallo inspiegabile: l’uccisione a sangue freddo di un giovane apparentemente pulito, dalla vita senza ombre e di famiglia altrettanto integerrima. Da quello che emerge dagli atti investigativi, in questo caso l’ordinanza del tribunale del Riesame di Brindisi che ha respinto la richiesta di dissequestro dei soldi e della pistola trovata in casa di uno dei due indagati, la storia sarebbe tutt'altra.   

Il giovane indagato, scrivono i giudici, avrebbe ceduto in modo continuativo sostanze stupefacenti a diverse persone «nella specie a D'Errico Annunziata», di 52 anni, madre della vittima, «nonché al figlio di quest'ultima Stasi Paolo». Questa ricostruzione confermerebbe che il movente del delitto sarebbe da ricercare in un regolamento di conti nel mondo dello spaccio, forse per una somma non pagata.  

Le cessioni di droga a Stasi e a sua madre, si legge sempre nell’ordinanza, si sono «protratte per oltre un anno» ed hanno «avuto luogo con cadenza pressoché quotidiana, come emerso dal contenuto del verbale di sommarie informazioni rese al pubblico ministero da Annunziata D'Errico (la mamma della vittima, ndr) il 24 novembre 2022». Dagli atti emerge anche che a casa di Stasi «era stato custodito e confezionato, per la successiva cessione a terzi, lo stupefacente».

È di queste ore un altro particolare che getterebbe ancora ombre sulla famiglia del diciannovenne. Si tratta dell’orario dell’uccisone avvenuta per strada davanti la casa Stasi. De alcune indiscrezioni, per ora non confermate ma nemmeno smentite da chi indaga, l’attentato mortale sarebbe avvenuto circa 20 minuti prima che i genitori chiamassero il 118. E forse il ferito si sarebbe potuto salvare.

Omicidio Stasi, la pista della droga. La madre della vittima: «Custodita a casa nostra». Erasmo MARINAZZO su Il Quotidiano di Puglia Mercoledì 11 Gennaio 2023

Punito con la morte per lo “sgarro” che avrebbe commesso negli ambienti degli spacciatori di droga? Cerca risposte a questa domanda l’inchiesta sull’omicidio di Paolo Stasi, il ragazzo centrato con due colpi di pistola ed ucciso a 19 anni attorno alle 18 del 9 novembre a Francavilla Fontana davanti alla sua casa di via Occhibianchi. La pista è quella indicata dai giudici del Tribunale del Riesame di Brindisi nell’ordinanza con cui è stata respinta la richiesta di restituire gli 8.960 euro e la pistola a gas sequestrati nella prima mattinata del 3 dicembre scorso al ragazzo di 18 anni indagato con un 19enne per stabilire se è vero che abbiano pianificato ed eseguito l’omicidio di Paolo Stasi.

Una ipotesi investigativa da accertare, nulla di più al momento, quella della droga e del coinvolgimento della vittima. Della vittima con la madre. L’inchiesta condotta dai pubblici ministeri Giuseppe De Nozza e Paola Guglielmi per la Procura di Brindisi e la Procura per i minorenni di Lecce (il più giovane dei due indagati non era ancora diventato maggiorenne il giorno dell’omicidio) con i carabinieri del Nucleo investigativo e della compagnia di Francavilla, sostiene che risponda dell’ipotesi di reato di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti il 18enne indagato per omicidio volontario in concorso, aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi, nonché di spari in luogo pubblico e porto di arma in luogo pubblico.

Il denaro, diviso in mazzette da circa 1.000 euro ciascuna, sarebbe stato accumulato con la vendita delle dosi di droga? Perché? Come sono arrivati gli inquirenti a questa conclusione? Lo spiegano i giudici del Riesame (presidente Federico Sergi, estensore Adriano Zullo, a latere Leonardo Convertini) nelle sei pagine dell’ordinanza che ha rigettato la richiesta di restituzione dell’arma presentata dall’avvocato Leonardo Andriulo per conto del 18enne: di questo ragazzo e della sua attività di spacciatore c’è traccia nei messaggi scambiati da Paolo Stasi con la madre Annunziata D’Errico. Le affermazioni della stessa madre quando il 24 novembre è stata sentita a sommarie informazioni dai carabinieri in cui ha aggiunto che - riporta l’ordinanza del Riesame - la droga del 18enne sarebbe stata confezionata e custodita nella loro casa. E ancora, si parla di continui contatti telefonici fra Paolo Stasi e l’indagato poco prima dell’omicidio.

Dunque il contenuto dell’ordinanza indica la scelta della madre di rompere gli indugi e riferire circostanze che potrebbero avere per lei anche delle conseguenze, pur di fornire un contributo per venire a capo di chi le ha portato via la vita del figlio. La famiglia Stasi intanto si è affidata all’avvocato Domenico Attanasi per seguire gli esiti dell’inchiesta. 

L’inchiesta che dovrà accertare, fra le altre cose, se è vero che il 18enne si prestò a trarre in inganno Paolo Stasi, dandogli appuntamento davanti l’ingresso della sua casa dove poi si presentò il sicario che sparò due colpi di pistola di piccolo calibro centrandolo prima al petto (il colpo mortale) e poi ad una spalla mentre il ragazza cercava di fuggire. 

La giovane età dell’indagato, le modalità di suddivisione di quei quasi 9.000 euro e lo scarso credito dato alle dichiarazioni dei parenti hanno contribuito a rafforzare l’ipotesi di spaccio a carico del 18enne. Ipotesi avallata dai giudici del Riesame che, riguardo alla prospettiva che l’indagato avesse messo da parte i guadagni accumulati lavorando come dipendente nell’azienda edile dello zio ed altro denaro lo avesse ricevuto in regalo al 18esimo compleanno, hanno ritenuto che fossero dichiarazioni di parte perché arrivate da chi ha interesse all’esito positivo di questa vicenda. E che alle dichiarazioni mancassero i riscontri oggettivi.

La droga resta, dunque, al centro dell’inchiesta. Droga correlata all’omicidio, dopo due mesi di indagini. Troppo presto per potere parlare di certezze.

Delitto Stasi, si apre la pista della droga per uno degli indagati. La Redazione de La Voce di Manduria il 13 gennaio 2023.

Il Tribunale del Riesame di Brindisi che ha respinto la richiesta di dissequestro di 8.960 euro in contanti trovati in casa di uno dei due giovani del posto indagati per l’omicidio in concorso e di spaccio di sostanze stupefacenti di Paolo Stasi, il diciannovenne di Francavilla Fontana ucciso con due colpi di pistola davanti alla sua casa la sera del 9 novembre scorso.

Secondo gli inquirenti, la somma trovata dai carabinieri del Nucleo investigativo e della compagnia di Francavilla la mattina del 3 dicembre scorso sarebbe provento della vendita di droga e non, come sostiene la difesa del diciottenne indagato, frutto di risparmi e di regali del recente compleanno.  

Oltre al denaro, i carabinieri avevano trovato e sequestrato anche una pistola a gas. Anche l'arma resterà a disposizione della Procura che la sottoporrà ad una perizia per valutare il potenziale offensivo della stessa e dire se possa o meno avere esploso i due colpi che centrarono Paolo Stasi.

Il diciottenne indagato risponde insieme ad un diciannovenne dell’ipotesi di concorso in omicidio volontario aggravato dalla premeditazione dai futili motivi, di porto e detenzione in luogo pubblico di arma e di esplosione in luogo pubblico.

Omicidio Stasi, trovati 10mila euro in casa dell’indagato. Si difende: “Sono frutto del mio lavoro”. Il 18enne, indagato per l'omicidio di Paolo Stasi freddato sotto casa sua il 9 novembre scorso, ha fatto sapere tramite il suo legale che quei soldi sarebbero in buona parte frutto del suo lavoro nell'azienda di un parente e regali di compleanno. Atteso il Riesame nei prossimi giorni.  La Redazione di bari.ilquotidianoitaliano.it il 3 gennaio 2023.

Nella giornata di ieri, 2 gennaio, i Carabinieri hanno sequestrato una pistola a gas Glock 17 e 10mila euro in contanti trovati nell’abitazione del 18enne indagato per l’omicidio di Paolo Stasi, il giovane di 19 anni freddato con due colpi di pistola la sera del 9 novembre scorso sotto casa sua, in via Occhibianchi a Francavilla Fontana. Il ragazzo, tramite il suo legale, si è difeso, spiegando che quei soldi sarebbero in buona parte frutto del suo lavoro nell’azienda di un parente e regali di compleanno. Il suo avvocato ha presentato un’istanza per il dissequestro sia della somma che dell’arma “giocattolo”. È atteso il Riesame nei prossimi giorni.

Da corriere.it il 10 dicembre 2022.

Paolo Stasi, il 19enne ucciso lo scorso 9 novembre sulla soglia della sua abitazione a Francavilla Fontana, potrebbe essere stato attirato con l’inganno sull’uscio di casa. Era sicuro di trovarvi una persona conosciuta e di cui si fidava, invece di fronte a lui c’era il killer che gli ha sparato due colpi di pistola di piccolo calibro, di cui uno mortale. Sull’ipotesi stanno indagando gli inquirenti della Procura di Brindisi, che nei giorni scorsi hanno sottoposto uno dei due indagati sospettati di essere implicati nell’omicidio a test antropometrici.  

Gli esperti hanno comparato, secondo una tecnica molto diffusa di informatica forense, le misure del corpo del sospettato con le figure registrate nelle immagini delle telecamere di videosorveglianza diffuse attorno a via Occhibianchi, la strada dove si trova l’abitazione della famiglia Stasi. 

L’obiettivo è verificare la possibile sovrapposizione tra corpo e immagine a conferma o meno dell’identità dell’indagato. L’esito è nelle mani di Procura e carabinieri. Le telecamere stradali hanno rimandato agli inquirenti molte immagini del 9 novembre scorso riferite al transito di persone e mezzi vari nelle vicinanze di via Occhibianchi, ma nessuna era posizionata in modo tale da riprendere il momento in cui la pistola s’è rivolta contro Paolo Stasi.

La mamma della vittima, in ogni caso, conosceva il maggiore dei due indagati per omicidio volontario aggravato da futili motivi e da premeditazione, perché frequentava la casa della famiglia Stasi. Anzi, dopo la morte avvenuta due anni fa per un incidente stradale del migliore amico di Paolo, era forse l’unico a frequentarlo.  

Nunzia D’Errico, la madre della vittima, l’ha però bollato come «feccia umana» in un post scritto sotto la fotografia sulla pagina Facebook ancor prima che i due venissero iscritti nel registro degli indagati. Ieri ricorreva il trigesimo della morte di Paolo e, alla stessa ora nella quale ha perso la vita, la famiglia ha fatto celebrare una messa di suffragio nella chiesa dell’Immacolata.

 Omicidio Stasi, la mamma all'indagato su Facebook: «Ehi, feccia umana». Eliseo ZANZARELLI su Il Quotidiano di Puglia Giovedì 8 Dicembre 2022

Al vaglio il commento lasciato, una decina di giorni fa, da uno stretto congiunto di Paolo Stasi, il ragazzo di 19 anni ammazzato con due colpi di pistola la sera del 9 novembre a Francavilla Fontana davanti all'ingresso della sua casa di via Occhibianchi. Il commento lasciato

Omicidio Paolo Stasi, ci sono due indagati: uno è minorenne. L'ipotesi di uno sgarbo dietro l'esecuzione del 19enne. Paolo Stasi aveva 19 anni. Lucia Portolano su La Repubblica il 3 Dicembre 2022

La svolta a poco meno di un mese dal delitto avvenuto a Francavilla Fontana (Brindisi). Sembra confermata l'ipotesi che il 19enne conoscesse i suoi assassini. Le indagini dei carabinieri coordinate dalla procura di Brindisi e da quelli dei minorenni di Lecce

Potrebbe essere arrivata la svolta nell'indagine dell'omicidio di Paolo Stasi, il 19enne ammazzato il 9 novembre scorso a Francavilla Fontana. Ci sarebbero due persone indagate: un maggiorenne e un minorenne, entrambi di Francavilla Fontana. Rispondono in concorso di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi.

Paolo sarebbe stato ammazzato per uno sgarbo. E qualcuno avrebbe così pensato di regolare i conti. Una reazione esagerata rispetto a quello che avrebbe fatto il 19enne. Le indagini dei carabinieri vanno avanti da tre settimane, coordinate dal pm della Procura di Brindisi Giuseppe De Nozza, e dal pubblico ministero della Procura dei minori di Lecce Paola Guglielmi. Non si hanno dubbi che si sia trattato di una vera e propria esecuzione. Paolo conosceva chi lo ha ucciso.

L'arma utilizza, una pistola di piccolo calibro, forse a tamburo, fa pensare che non si tratta di criminalità organizzata, ma di gente comunque pericolosa. Il 19enne è stato raggiunto da due colpi: il primo frontale al petto, e un secondo che lo ha ferito di striscio alla spalla. In base agli accertamenti autoptici sembrerebbe che il primo colpo esploso sia stato proprio quello mortale, e successivamente  quello alla spalla, mentre il ragazzo tentava di fuggire salendo qualche scalino della sua abitazione in via Occhibianchi. L'omicidio è avvenuto sull'uscio della sua casa. Paolo era sceso in ciabatte, e sarebbe stato colpito dopo aver aperto la porta.

Ancora non è chiaro se qualcuno abbia citofonato. Sua madre riposava e il padre guardava la tv e non ricorda di aver sentito suonare. Il padre lo ha poi trovato in fin di vita sulle scale di casa. Per il 19enne non c'è stato nulla da fare, è morto pochi minuti dopo. Chi gli ha sparato è riuscito a fuggire lungo via Occhibianchi, una strada stretta e lunga, ma piena di telecamere private. E una di queste avrebbe ripreso un uomo che scappava. Un uomo che indossava delle scarpe di ginnastica, ma nel fermo immagine non c'è traccia della pistola. Le immagini non sono totalmente nitide. Le indagini avrebbero però portato a queste due persone ora indagate, una delle quali non è neanche maggiorenne.

Omicidio Stasi, droga in casa della vittima. Il giallo della telefonata di 20 secondi prima del delitto. La madre avrebbe ammesso la presenza di droga, presumibilmente hascisc, nell‘abitazione di via Occhibianchi, davanti a cui Paolo Stasi fu ucciso il 9 novembre. Poco prima di essere ucciso il 19enne ha avuto una breve telefonata. Cesare Bechis su Il Corriere della Sera il 12 Gennaio 2023.

Una telefonata di venti secondi poco prima del delitto. E una borsa accanto al corpo della vittima. Sono i nuovi elementi sui quali si stanno concentrando i carabinieri nelle indagini sull’omicidio di Paolo Stasi, il 19enne ucciso con due colpi di pistola lo scorso 9 novembre sulla soglia di casa a Francavilla Fontana. La telefonata risale a pochi minuti prima del delitto e si incrocia con l’utenza di un cittadino straniero: quest’ultimo è estraneo alla vicenda, il suo nome potrebbe essere stato utilizzato da persone legate al mondo della droga e dall’interlocutore che lo ha indotto a scendere il pomeriggio dell’omicidio. Proprio la pista degli stupefacenti e di un possibile “sgarro” è quella seguita dai carabinieri. Una linea che trova un rafforzamento nell’ordinanza dei giudici del Riesame del Tribunale di Brindisi, che hanno respinto nei giorni scorsi la richiesta di dissequestro dei circa 9.000 euro e della pistola a gas sequestrati al 18enne indagato, insieme con un ragazzo di 19 anni, per concorso in omicidio volontario e, in aggiunta, per detenzione di stupefacenti ai fini di 

 Estratto da rainews.it il 22 maggio 2023.

Svolta nelle indagini sull'omicidio di Paolo Stasi, il 18enne di Francavilla Fontana che la sera del 9 novembre 2022 fu ucciso davanti all'ingresso della sua abitazione in via Occhi Bianchi. I carabinieri alle prime luci di oggi, lunedì 22 maggio, hanno eseguito cinque misure cautelari a carico di altrettante persone. Due sono state condotte in carcere, una è ristretta ai domiciliari e le altre due sono state sottoposte a obbligo di dimora. Tra le persone arrestate c'è un18enne che all'epoca dei fatti era ancora minorenne.  

Dalle indagini era emerso che, a scatenare il delitto, commesso a sangue freddo a colpi d'arma da  fuoco, sarebbero state tensioni nel settore dello spaccio di droghe [...]. In totale otto le persone indagate per la morte del ragazzo: le accuse nei loro confronti sono a vario titolo di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e futili motivi.

Tra gli indagati figura anche la madre di Stasi, che deve difendersi dall'accusa di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. 

[...] nei messaggi ritrovati fra le chat intercorse con il figlio, i due parlavano della droga - marijuana- che ogni giorno il ragazzo avrebbe ceduto a cadenza quasi giornaliera. “Circostanza poi confermata dalla donna quando il 24 novembre fu ascoltata in caserma come persona informata sui fatti [...] aggiungendo anche un particolare che è stato approfondito nella parte delle indagini dedicate all’individuazione del movente dell’omicidio: nella loro casa madre e figlio avrebbero custodita della droga ceduta poi a terzi dal loro fornitore”, ricostruisce il giornale pugliese.

Francavilla Fontana, omicidio del 19enne Paolo Stasi: arrestati in tre. Il presunto killer all'epoca era minorenne. «Volevano uccidere anche la madre». Otto indagati, tra loro ci sarebbe anche la madre del giovane.  REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno

 Tre persone sono state arrestate dai carabinieri (due in carcere e 1 ai domiciliari) e altre due sono sottoposte ad obbligo di dimora nell’ambito delle indagini sull'omicidio del 19enne Paolo Stasi, compiuto a Francavilla Fontana il 9 novembre del 2022 davanti a casa del giovane. Tra le persone arrestate c'è un 18enne che all’epoca dei fatti aveva 17 anni. Le accuse nei loro confronti sono a vario titolo di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e futili motivi. Complessivamente sono otto le persone indagate, tra cui a quanto emerge figurerebbe anche la madre del giovane, indagata per reati relativi allo spaccio di sostanze stupefacenti. 

Tra gli otto indagati nell’inchiesta della Procura di Brindisi per l’omicidio del 19enne, c'è anche la madre di Paolo Stasi, Annunziata D’Errico che è accusata di detenzione ai fini di spaccio di droga, in particolare marijuana. La donna sarebbe coinvolta nell’attività di spaccio che, secondo quanto accertato nei mesi scorsi dagli investigatori, avveniva all’interno dell’abitazione dove viveva col figlio. L’omicidio di Stasi sarebbe maturato - ritengono gli inquirenti - nell’ambito di queste attività illecite di spaccio di sostanza stupefacente.

Gli arresti sono stati fatti dai carabinieri del comando provinciale di Brindisi e della compagnia di Francavilla Fontana in esecuzione di ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip del Tribunale di Brindisi e da quello presso il Tribunale dei minorenni di Lecce (uno degli arrestati aveva meno di 18 anni all’epoca dei fatti) su richiesta delle rispettive procure.

IL PRESUNTO ESECUTORE MATERIALE ERA MINORENNE

Sarebbe stato un giovane all’epoca dei fatti 17enne l’esecutore materiale dell’omicidio di Paolo Stasi, compiuto il 9 novembre del 2022 a Francavilla Fontana, in provincia di Brindisi. Sarebbe stato lui a far scendere di casa con una scusa Stasi e a sparargli a freddo dinanzi al portone, mentre un altro giovane di Francavilla Fontana, un 21enne, guidava l’auto su cui sono poi sono fuggiti. Entrambi sono stati arrestati e trasferiti in carcere. Il movente dell’uccisione di Stasi è riconducibile - secondo gli inquirenti - ad un debito di circa 5mila euro maturato a causa dell’attività di spaccio di sostanze stupefacenti.

I due giovani arrestati, secondo l'accusa, avrebbero proseguito l’attività di spaccio, per la quale anche la mamma di Stasi è indagata, anche dopo l’omicidio del giovane 19enne e venivano supportati in questo anche dalle loro due fidanzate: una 24enne che si trova ora ai domiciliari, ed una 20enne per la quale è stato disposto l’obbligo di dimora. Quest’ultima misura cautelare è stata disposta anche per un altro giovane di 20 anni di Francavilla Fontana, che secondo l'accusa, avrebbe preso il posto di Paolo Stasi, quale «custode della sostanza stupefacente».

L’omicidio del 19enne fu compiuto alle 17.20 del 9 novembre scorso: alla guida dell’auto, secondo l’accusa, c'era il 21enne, mentre seduto sul sedile posteriore per eludere i controlli delle telecamere della zona c'era il 17enne. Quest’ultimo avrebbe fatto scendere di casa Paolo Stasi con un pretesto per poi ucciderlo con due colpi di pistola che hanno raggiunto la vittima al torace.

VOLEVANO UCCIDERE ANCHE LA MADRE DI PAOLO

Luigi Borracino e Cristian Candita, i due giovani arrestati per l’omicidio di Paolo Stasi, hanno «palesato nel corso di alcune conversazioni l'intenzione di uccidere anche la madre» della giovane vittima, Annunziata D’Errico, «ritenendo nella loro ingenuità che la D’Errico fosse l’unica persona a conoscenza dei rapporti illeciti che coinvolgevano il Borracino ed il figlio defunto" nello spaccio di droga.

L’intercettazione, definita dal gip «emblematica», è riportata nell’ordinanza di custodia cautelare e risale al 14 gennaio 2013 mentre Borracino e Candida si trovano nella Fiat Grande Punto di quest’ultimo.

Secondo l’accusa, Borracino e Candita ritenevano che la donna "fosse l’unica che avrebbe potuto far emergere il coinvolgimento di Borracino nell’omicidio del figlio».

E’ Borracino - secondo il giudice - a sostenere che sia necessario eliminare la donna, mentre Candita cerca di dissuaderlo «solo - annota il gip - con riguardo alla tempistica».

Dice Borracino: «Hai capito! ... Iniziamo già a sparare qualcuno già da questa sera...» Candita: «Noooo ... non dobbiamo sparare più nessuno». Borracino: «Siiii». Candita: «Siii... Non adesso compà... adesso stanno brutte le cose... uè compà...tu compà...». Borracino: "Adesso quella dovevamo 'farè (sparare a quella intesa per Annunziata D’Errico», annota il gip). Candita: «io ti capisco.. che vuoi fare... che vuoi fare...». Borracino: «Quella dobbiamo 'farè ora... No?». Candita: «Che c... vuoi fare... Nooo..."; Borracino: «Lei proprio». Candida: «No, tu ora ti devi stare fermo... compà.. già è... già è così e stai vedendo.. salgono sempre di più (ndr riferito agli organi inquirenti). Se tu ora uccidi quella (ndr. Annunziata D’errico) pure tra un anno compà... siccome sanno che ti ha fatto il nome tuo... il primo da te vengono va! E ti chiudono in quel momento... No, non hanno ... la prova quella è che quella (ndr Annunziata D’erico) ha parlato e tu sei uscito avanti (ndr allo scoperto) come un pollo...».

Subito dopo Borracino abbassa la voce, ricorda che l’avvocato e gli amici gli hanno detto di non parlare al telefono perché è intercettato.

Il gip utilizza l’intenzione dei due di voler uccidere la mamma di Paolo Stasi motivando le esigenze cautelari. Il giudice, infatti, ipotizza che entrambi, se lasciati liberi, possano reiterare reati della stessa specie e inquinare le prove e li definisce come «portatori di una capacità a delinquere così spiccata da imporre la custodia in carcere».

(ANSA il 21 dicembre 2022) - Con la camorra non c'entrava proprio niente, Giulio Giaccio, 26 anni, di cui si sono perse le tracce il 30 luglio del 2000: fu ucciso per un errore da due esponenti di spicco del clan Polverino perché ritenuto l'amante "indesiderato" della sorella di uno dei due killer. E il suo corpo venne distrutto, con l'acido. Una fine orrenda che però ora ha dei responsabili: al termine di indagini coordinate dalla DDA, i carabinieri del Nucleo Investigativo di Napoli hanno notificato nuove accuse e due ordinanze di arresto ad altrettanti esponenti di spicco del clan Polverino.

Si tratta di Salvatore Cammarota, 55 anni, detenuto a L'Aquila, e di Carlo Nappi, 64 anni, in carcere a Livorno. Per fare luce sull'accaduto sono state necessarie anche le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Giuseppe Simioli, ex boss del clan Polverino, e Roberto Perrone. I successivi accertamenti degli inquirenti hanno consentito di scoprire che l'operaio napoletano (era del quartiere Pianura) Giulio Giaccio, venne scambiato per un certo Salvatore, un uomo che stava intrattenendo una relazione osteggiata con la sorella di Cammarota.

I due arrestati, fingendosi poliziotti, costrinsero la vittima - che era in compagnia di amico il quale poi diede avvertì i familiari - a salire a bordo della propria auto dove venne interrogato. Giaccio negò più volte di avere una relazione sentimentale con quella donna, ciononostante venne ucciso con un colpo d'arma da fuoco alla testa e il cadavere distrutto completamente, utilizzando dell'acido. La vicenda fu oggetto di diverse indagini, tutte archiviate. Subito dopo la sparizione vennero ascoltati diversi parenti di Giaccio e tutti confermarono agli investigatori che lui con la criminalità non aveva mai avuto rapporti.

Il caso di lupara bianca risolto dopo 22 anni. Giulio Giaccio, il giovane operaio ucciso e sciolto nell’acido per una donna: ma fu un errore di persona, corpo preso a calci dal boss. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 21 Dicembre 2022.

Ucciso con un colpo di pistola alla testa, con il cadavere preso prima a calci dal boss di turno e poi sciolto nell’acido. Il tutto perché sospettato di avere una relazione con la sorella di un elemento apicale del clan. Ma si è trattato di un drammatico scambio di persona. Ci sono voluti 22 anni per fare luce sulla scomparsa e l’efferato omicidio di Giulio Giaccio, un giovane operaio di 26 anni, sparito nel nulla la domenica sera del 30 luglio del 2000.

Quella sera Giulio stava parlando con un amico in una piazzetta vicino casa sua in contrada Romano, una zona compresa tra Pianura, periferia occidentale di Napoli, e Marano. Erano circa le 22 quando, all’altezza del sagrato della chiesa, dove aveva parcheggiato la sua moto di colore nero, Giulio venne prelevato da quattro persone che si presentarono come poliziotti in  borghese. “Salvatore devi venire con noi per accertamenti” disse uno dei finti agenti. Giulio chiarì subito che non si chiamava Salvatore ma seguì lo stesso i “poliziotti” dietro le insistenze e le minacce di quest’ultimi.

Salì così a bordo di una Fiat Punto di colore bordeaux e da allora mamma Rosa e papà Giuseppe, lei casalinga, lui agricoltore, non hanno mai saputo più nulla del figlio. Un caso di lupara bianca che, dopo indagini archiviate, ha avuto una sua svolta nel 2015 con le prime dichiarazioni di un collaboratore di giustizia che hanno portato, ben sette anni dopo e grazie anche a riscontri di altri pentiti, Procura e carabinieri a chiudere il cerchio e a chiedere e ottenere dal Gip una misura cautelare in carcere nei confronti di due uomini (al momento solo indagati) ritenuti gravemente indiziati di essere i mandati dell’omicidio e della distruzione del cadavere di Giulio Giaccio. Si tratta di Carlo Nappi, 64 anni, e Salvatore Camarota, 55 anni. Due storici affiliati (entrambi detenuti da tempo) del clan Polverino di Marano, guidato da Giuseppe Polverino, detto ‘o barone, in carcere da anni dopo l’arresto in Spagna avvenuto nel 2012.

Le indagini della Direzione Distrettuale Antimafia partenopea e del Nucleo Investigativo dei carabinieri hanno accertato che Giulio Giaccio era estraneo ai contesti di criminalità organizzata e che gli esecutori del delitto l’avevano erroneamente identificato per un soggetto che stava intrattenendo una relazione con la sorella di Camarota, una donna divorziata ma che il giovane non poteva frequentare.

Un omicidio brutale, efferato, raccapricciante, ricostruito grazie alle dichiarazioni dei pentiti, a partire dall’ex affiliato Roberto Perrone che ai magistrati ha raccontato di aver assistito quella sera “al capitolo più nero e angoscioso” della sua carriera criminale. Uno scambio di persona che inizialmente era stato ricondotto a un giovane, che aveva la moto dello stesso colore di Giulio, ricercato dal clan perché realizzava rapine nella zona senza alcuna autorizzazione. Poi le parole dei pentiti hanno portato gli investigatori verso quest’ultima pista: ucciso perché intratteneva una relazione con la persona sbagliata.

Quella sera Giulio venne condotto in un posto abbandonato di Marano dove, al cospetto dei ras del clan, provò a spiegare, chiamando i suoi interlocutori “comandante” (perché probabilmente davvero credeva di essere al cospetto di poliziotti) che lui non si chiamava Salvatore. Secondo la ricostruzione di Perrone, a uccidere l’operaio 26enne fu il killer del clan Raffaele D’Alterio (ma su questo, i pentiti si contraddicono così come sul resto dei componenti del commando).

Il corpo venne poi portato in un’altra zona appartata di Marano, preso a calci da Camarota e fatto poi sparire nell’acido. I resti vennero poi fatti sparire in una fenditura del terreno. Solo il giorno dopo il clan Polverino si sarebbe reso conto dell’imperdonabile errore del commando.

Un ragazzo di 26 anni sparito nel nulla 22 anni fa con la famiglia, di umili origini, che non ha mai smesso di credere in un suo ritorno. Lo diceva mamma Rosa dieci anni fa in una intervista al programma “Verità imperfette” in onda su Canale 8. “Io la speranza non l’ho ancora persa perché altrimenti me l’avrebbero fatto trovare, in un modo o in un altro” diceva la donna. Per papà Giuseppe le speranze di un ritorno del figlio erano invece nulle. “Se la nostra famiglia fosse stata possidente probabilmente le forze dell’ordine si sarebbero mosse di più” l’amara considerazione del genitore.

La scomparsa di Giulio Giaccio avvenne appena 11 giorni prima del duplice omicidio, avvenuto sempre a Pianura (10 agosto 2000), di due giovani che con la camorra non avevano nulla a che fare: Luigi Sequino e Paolo Castaldi, entrambi scambiati per guardaspalle di un boss della zona. Secondo la ricostruzione di Perrone,

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista

Da leggo.it il 21 dicembre 2022.

Sembra la trama di un giallo di Agatha Christie, la morte di Maria Basso, 80 anni, originaria di Bassano, provincia di Vicenza, che dopo una vita avventurosa in giro per il mondo, come dipendente del ministero degli Esteri era tornata ad Asiago per assistere i genitori anziani. Sola, e senza figli, mesi fa aveva conosciuto dei parenti siciliani, Paola Pepe, una cugina mai incontrata prima, che l'avrebbe portata via dalla struttura e convinta a lasciare la casa di riposo «Giovanna Maria Bonomo» sull’Altopiano, dove era ospite per trasferirsi in un'altra struttura a Catania. 

Proprio nel periodo del trasferimento, circa un anno fa, la donna è stata convinta a cambiare il testamento, del suo ingente patrimonio - circa mezzo milione di euro - che aveva destinato 15 anni prima a un istituto salesiano di Milano e depositato presso un notaio. Ma quel lascito benefico sarebbe stato modificato, presso un notaio di Catania, annullando la destinazione ai salesiani, e lasciando sconosciuto il nuovo destinatario che si conoscerà tra qualche settimana.

Si, perché nel frattempo l'ottantenne è morta, dopo un pranzo a base di spaghetti, offerto dalla sua nuova famiglia siciliana. Dopo quel piatto la morte improvvisa, motivo per cui la procura di Catania ha disposto l'autopsia sul corpo della donna per conoscere le cause del decesso, mentre quella di Vicenza ha aperto un fascicolo per circonvenzione di incapace, dopo che alcuni parenti di Asiago hanno saputo del trasferimento improvviso di Maria.

Il giallo è ancora più intricato, quando nelle prime settimane di dicembre, è arrivata una richiesta al notaio di Asiago di togliere a Clelia, una cara amica di Maria, la procura speciale per gestire i suoi conti, affidati a Paola, la cugina siciliana. Poi la morte improvvisa ma prevedibile dai parenti siciliani, provocata dagli spaghetti, proprio perché l'anziana era costretta a mangiare solo omogeneizzati.

Riaperto il caso della criminologa e ex modella russa. Il giallo della morte di Polina Kochelenko, l’addestratrice trovata nel canale: i cani mai trovati e i misteri irrisolti. Elena Del Mastro su Il Riformista il 6 Gennaio 2023

Omicidio o incidente? La morte di Polina Kochelenko è un vero e proprio mistero. L’educatrice cinofila di origini russe, ex modella e criminologa era stata trovata senza vita il 18 aprile 2021 nella roggia Malaspina di Valeggio, Pavia. Sin dal primo momento gli investigatori avevano seguito la pista dell’incidente, una tragica fatalità. Ma la mamma di Polina, Alla, non ha mai creduto a questa ipotesi, l’ha gridato in lungo e largo, finchè, grazie al suo avvocato, Tiziana Barrella e alle indagini condotte dall’ingegnere forense torinese Fabrizio Vinardi e dall’investigatore privato stradellino Claudio Ghini, hanno permesso che la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura della Repubblica venisse respinta dal Gip. Ora si indaga contro ignoti per omicidio volontario, con relativo fascicolo. Nuove importanti verità potranno venire alla luce per capire cosa sia successo alla giovane con la passione per i cani.

La vicenda della morte di Polina Kochelenko

Polina era nata a Mosca e cresciuta nella provincia di Torino. Laureata in giurisprudenza e specializzata in criminologia. Aveva anche partecipato al reality “L’Isola di Adamo ed Eva”, nel 2015. Poi la passione per i cani l’aveva portata a prendere casa da sola a Valeggio dove avrebbe potuto avere una casa grande e tutto lo spazio esterno per addestrare i suoi amati cani.

Il suo corpo senza vita era stato trovato in un piccolo canale nella mattinata del 18 aprile 2022. A far scattare l’allarme era stata sua madre che non vedendola arrivare all’appuntamento che avevano il 17 aprile, preoccupata, aveva dato il via alle ricerche. Secondo la ricostruzione fatta dal Corriere della Sera, il cellulare di Polina ha squillato a vuoto per decine di volte ed è stato trovato sul ciglio del fosso insieme a due guinzagli, riposti in modo ordinato. A terra anche dei fazzoletti che lei, convinta ambientalista, non avrebbe mai gettato a terra secondo chi la conosceva. E questo è uno dei dettagli che non quadrano.

I misteri irrisolti che non convincono la mamma di Polina

A convincere mamma Alla che non si sia trattato di un incidente è il fatto che Polina, abile nuotatrice, è stata trovata riversa nel canale profondo due metri. Possibile che sia annegata in uno specchio d’acqua così poco insidioso? Inoltre Polina aveva con se due cuccioli di pastore tedesco, presumibilmente liberi dal guinzaglio perché stavano passeggiando in aperta campagna, del valore di 15 mila euro. Non sono mai stati ritrovati, né morti né vivi. La madre crede che il movente del delitto possa essere proprio il furto dei due cuccioli. Ma al vaglio resta l’ipotesi del tragico incidente: Polina sarebbe scivolata giù nel fosso per cercare di salvare i cuccioli.

Ad aggiungere altri dettagli poco convincenti è mamma Alla che ai microfoni di Chi L’Ha visto ha raccontato che pochi minuti prima di perdere la vita la 35enne era al telefono con un amico a cui avrebbe detto che doveva riagganciare perché uno dei cuccioli si era allontanato. La madre Alla ha conservato tutti i suoi abiti di quando è stata trovata morta: “Era vestita a strati perché faceva freddo ma nei pantaloni e nel giubbotto ci sono strappi che non sono spiegabili con la caduta, come se avesse lottato”. Altro mistero da risolvere è l’identità di un uomo al volante di una monovolume grigia che frequentava Polina e casa sua. Questo non fa escludere nemmeno il delitto di matrice passionale. Infine accertamenti dovranno essere effettuati anche sulla segnalazione giunta in Procura e relativa alla cancellazione di post e geolocalizzazioni dal profilo social della vittima, avvenuta in tempi successivi alla sua morte effettuata da chi, evidentemente, disponeva delle credenziali di accesso. “Sono fiduciosa sugli sviluppi che potranno emergere da questo supplemento di indagine – ha commentato l’avvocato Barrella al settimanale L’Informatore Vigevanese – perché potranno permettere di identificare le persone vicine a Polina che, nonostante i ripetuti appelli della famiglia, non hanno ancora un volto”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Alice Neri, la verità delle morte in un fazzoletto. Lo straniero resta il principale indiziato. Un fazzoletto di carta sul quale sono state rinvenute tracce di dna maschile potrebbe fare definitivamente luce sulla morte di Alice Neri. Il principale indiziato resta però il tunisino Mohamed Gaaloul e anche l'avvocato della famiglia Neri punta il dito contro di lui. Giovanni Fiorentino il 29 Aprile 2023 su Il Giornale.

Sul luogo della tragedia è stato rinvenuto un fazzoletto di carta, incastrato fra uno degli pneumatici e il parafango dell'auto della vittima, sul quale i primi esami avrebbero accertato la presenza di DNA maschile. E potrebbe rappresentare la chiave per fare definitivamente chiarezza sulla morte di Alice Neri, per quanto il principale indiziato resti il ventinovenne tunisino Mohamed Gaaloul. Questi gli ultimissimi sviluppi relativi alla scomparsa della trentaduenne madre di famiglia trovata priva di vita lo scorso novembre a Concordia, un paese situato nella provincia di Modena. A seguito dell'incidente probatorio svoltosi ieri, 28 aprile, saranno effettuati degli accertamenti anche sugli anelli della defunta, su due mozziconi di sigaretta e sulle maniglie dell'autovettura. Oltre che sul fazzoletto sopracitato, che nella visione degli inquirenti potrebbe rivelarsi decisivo. Il cadavere della donna, carbonizzato, venne ritrovato com'è noto nelle campagne modenesi lo scorso autunno, all'interno dell'automobile sulla quale si era appena allontanata da un locale, nelle primissime ore del mattino.

La ricostruzione delle ultime ore

Qui, sulla base delle ricostruzioni degli investigatori, Alice avrebbe trascorso alcune ore in compagnia di un altro amico, chiacchierando davanti ad uno spritz. Le telecamere del sistema di videosorveglianza della zona avrebbero però ripreso anche Gaaloul, poi risultato peraltro destinatario di un provvedimento di espulsione. In particolare, sempre secondo l'accusa, si vedrebbe l'extracomunitario avvicinarsi al veicolo della donna intorno alle 3, dopo che quest'ultima era uscita dal bar. La fuga del magrebino, che subito dopo la tragedia lasciò l'Italia, insospettì subito le forze dell'ordine. Dopo la cattura si era detto estraneo alla vicenda: aveva confermato di aver accettato quella notte un passaggio da una "donna bionda", ma al tempo stesso aveva dichiarato di essere sceso dopo poche centinaia di metri (su richiesta della ragazza, a quanto pare). E di non avere alcuna idea di quel che sarebbe successo da lì a poco ad Alice Neri.

L'avvocato: "Gaaloul non ha fornito risposte convincenti"

Dichiarazioni che non hanno evidentemente convinto del tutto, visto che l'uomo risulterebbe ancora detenuto in carcere. Già la scorsa settimana, la difesa di Nicholas Negrini (marito di Alice Neri) aveva fatto presente come la procura ritenesse il caso vicino alla chiusura, alla luce delle prove che incastrerebbero Gaaloul. E anche l'avvocato della famiglia della vittima si è espresso in questi termini proprio nelle scorse ore, invitando gli investigatori ad approfondire gli elementi già emersi. "Gaaloul non ha fornito risposte convincenti nè sul motivo che lo aveva spinto ad allontanarsi all'estero nè sulla sua presenza nell'auto di Alice - le parole dell'avvocato Cosimo Zaccaria, riportate dal sito ModenaToday - mi sembra inoltre che sia stato trovato il dna di Alice sul portafoglio e sulla tracolla del signor Gaaloul. Sarebbe meglio concentrarsi su qualcosa di più significativo, che disquisire sul capello o su altro". Giovanni Fiorentino

Morte Alice Neri, il cerchio si stringe attorno allo straniero. Il tunisino Mohamed Gaaloul è stato arrestato in Francia il mese scorso a seguito della morte della trentaduenne Alice Neri. È stato estradato nelle scorse ore e si trova recluso nel carcere di Modena. Giovanni Fiorentino il 5 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Gli aspetti da chiarire sulla morte di Alice Neri restano comunque tanti. E anche il marito della vittima lo ha fatto presente nelle scorse settimane. A brevissimo però qualcosa potrebbe muoversi: il principale indiziato del delitto, il ventinovenne tunisino Mohamed Gaaloul, è stato arrestato in Francia lo scorso 14 dicembre, quando sulla sua testa pendeva già un mandato di cattura internazionale. A seguito dell'estradizione, ieri è stato condotto presso il carcere Sant'Anna di Modena: nelle prossime ore sarà quindi interrogato e il quadro generale potrebbe apparire più nitido. Questi gli ultimissimi sviluppi relativi alla scomparsa di Alice Neri, la trentaduenne trovata priva di vita lo scorso novembre a Concordia, paese situato nella provincia di Modena.

Il cadavere della donna, carbonizzato, si trovava nelle campagne modenesi all'interno dell'automobile sulla quale si era appena allontanata da un locale nelle primissime ore del mattino. Qui, secondo le prime ricostruzioni degli inquirenti, avrebbe trascorso alcune ore in compagnia di un amico, chiacchierando davanti ad uno spritz. Le telecamere del sistema di videosorveglianza della zona avrebbero però ripreso anche l'extracomunitario, risultato peraltro destinatario di un provvedimento di espulsione. In particolare, sempre secondo gli investigatori, si vedrebbe l'uomo avvicinarsi all'automobile della trentaduenne intorno alle 3, dopo che quest'ultima era uscita dall'esercizio commerciale. La fuga del magrebino, che subito dopo la tragedia lasciò l'Italia, insospettì subito le forze dell'ordine. Dopo la cattura, aveva dichiarato di essere estraneo alla vicenda e di aver accettato, la notte del delitto, un passaggio da una "donna bionda".

Sempre a detta della procura però, nei suoi confronti sarebbero stati raccolti chiari e gravi indizi di colpevolezza. Ci sono come detto le immagini che lo ritraggono all’esterno del locale la notte del dramma. C’è la bicicletta con la quale Mohamed era arrivato al bar, rimasta poi incustodita. C’è la parziale ammissione dell’indagato, che ha raccontato dello strappo in auto che Alice gli avrebbe offerto. Il magrebino continua insomma a dirsi innocente, ma a quanto pare il cerchio sembrerebbe stringersi sempre più attorno a lui: le accuse di omicidio e di distruzione di cadavere che gli vengono mosse da chi indaga sembrano farsi sempre più pressanti. "Ho trovato il mio assistito stanco, provato dal viaggio e dalla detenzione in carcere ma anche preoccupato per la situazione – ha dichiarato a Il Resto del Carlino il suo avvocato – l’incontro con il mio assistito è durato circa due ore e abbiamo iniziato ad affrontare le questioni di merito. Chiariremo tutto a tempo debito davanti alle autorità competenti".

La morte di Alice Neri, dubbi e misteri: è caccia al sospetto. Valentina Lanzilli su Il Corriere della Sera l’11 dicembre 2022.

Braccato in Francia il 29enne tunisino, principale indagato per il delitto. Il fratello della donna uccisa: «Non ho certezze». I punti oscuri del caso

Un uomo braccato dalle forze dell’ordine. E un giallo, quello della morte di Alice Neri, uccisa e bruciata all’interno della sua auto, che potrebbe essere alla svolta. Il sospettato è Mohamed G., un tunisino di 29 anni, indagato per omicidio e distruzione di cadavere. I carabinieri sanno dove si nasconde in Francia e presto potrebbero fermarlo. La sua deposizione sarà decisiva per chiudere il cerchio sul caso che vede indagati anche il marito della donna e un suo collega. Matteo Marzoli, il fratello di Alice, comunque non trae ancora facili conclusioni. «È cambiato tutto in un minuto — dice —, ma solo quando mi diranno con certezza chi è stato potrò puntare il dito su qualcuno».

L’ipotesi principale è che sia stato il tunisino a uccidere Alice, durante una tentata violenza. Secondo questa ricostruzione giovedì 17 novembre l’uomo sarebbe salito a bordo dell’auto della donna, ferma davanti allo Smart Cafè dopo la serata trascorsa con un collega di origini sarde. E poi si sarebbero spostati verso il luogo dove è stato rinvenuto il cadavere e l’auto carbonizzata. Un luogo poco distante dall’abitazione dove Mohamed risiedeva con la compagna, fino al 18 novembre, quando è scappato. Altro particolare, il tunisino era all’interno del bar durante il pomeriggio trascorso da Alice con il collega. Lo ha raccontato quest’ultimo, parlando di un uomo che la fissava in continuazione.

L’entrata in scena del tunisino alleggerisce la posizione del marito e del collega di Alice. L’auspicio del legale di Nicholas Negrini è che presto possa passare da «indagato a persona offesa». Restano comunque tanti i misteri attorno a questa storia. A cominciare dal lungo pomeriggio trascorso al bar con il collega. Stando alla ricostruzione degli inquirenti la donna esce di casa intorno alle 19. Dice al marito che ha un appuntamento, poi si trattiene a discutere con il collega fino alle due di notte, quando il titolare deve chiudere. Uscita dal locale Alice resta ferma in auto per oltre 10 minuti. Perché? Proprio in quest’arco temporale il tunisino si sarebbe avvicinato ad Alice. Alcune telecamere della zona, poco dopo, riprendono l’auto del collega che si dirige verso casa e quella di Alice verso il luogo in cui è stata uccisa, ma non si capisce chi ci sia alla guida.

C’è poi il mistero del telefonino. Il delitto si consuma poco dopo l’aggressione (anche se non è stata trovata l’arma), ma fino al mattino successivo squilla regolarmente e all’altro capo qualcuno riattacca. Potrebbe essere stato sempre Mohamed, che solo molte ore dopo il delitto decide di disfarsene. Ma perché correre il rischio di portarsi dietro il telefono per tutto quel tempo? Superficialità o voleva che non andasse distrutto? Tutte domande alle quali dovrà dare delle risposte. Al momento la posizione del marito appare inattaccabile. L’altra sera per due ore ha risposto agli inquirenti. «Ha un alibi e su questo non ci sono dubbi — dice il suo legale, Luca Lugari —. Siamo di fronte a un mosaico con centinaia di tasselli che gli inquirenti stanno cercando di comporre. Nicholas quella sera era a casa con la bambina. Il vero problema è che in questi casi sono i cadaveri a parlare, ma purtroppo in questa triste vicenda il corpo di Alice non può dare risposte perché non esiste, è stato completamente bruciato».

Indagato per omicidio. Alice Neri, svolta nelle indagini sulla donna morta carbonizzata: principale sospettato fuggito all’estero. Redazione su Il Riformista il 10 Dicembre 2022

C’è un terzo, principale sospettato, per la morte di Alice Neri, la giovane donna di 32 anni trovata morta carbonizzata nella sua auto a Concordia, in provincia di Modena, il 18 novembre scorso.

Il presunto assassino della giovane sarebbe un tunisino di 29 anni, individuato dagli inquirenti ma rifugiatosi all’estero. Come riferisce l’Ansa, nelle ultime ore la sua abitazione in provincia di Modena è stata perquisita e dell’atto è stato informato un difensore d’ufficio, l’avvocato Roberta Vicini.

L’agenzia spiega che il giovane sarebbe fuggito il giorno dopo il delitto e sulle sue tracce ci sono ora i carabinieri di Modena: risponde di omicidio e distruzione di cadavere. Al 29enne si è arrivati dopo lune indagine, effettuate dai carabinieri coordinati dai pm Claudia Natalini e Giuseppe Amara: decisivi gli interrogatori tenuti in questi giorni e le  telecamere presenti nella zona del ritrovamento del corpo carbonizzato.

Il 29enne indagato, che abita poco distante dal luogo del ritrovamento e che risulta irregolare in Italia, destinatario di un provvedimento di espulsione, era presente nel bar quando Alice, giovedì 17 novembre, si era incontrata con un collega. Gli inquirenti, scrive l’Ansa, ipotizzano che sia salito a bordo dell’auto della vittima e abbia diretto, non è chiaro il motivo, la ragazza verso il luogo della morte.

L’uomo sarebbe così il terzo indagato per la morte di Alice dopo il marito e il collega della 32enne. Nella giornata di venerdì il marito della vittima, Nicholas Negrini, è stato ascoltato per circa un’ora dai pubblici ministeri Claudia Natalini e Giuseppe Amara.

Ha risposto a tutte le domande, resta a disposizione qualora fosse necessario sentirlo nuovamente. Credo che non ci siano ombre sulla sua posizione, mentre trovo che l’ipotesi di un suicidio sia assolutamente da escludere”, sono state le parole del suo avvocato, Luca Lugari.

Siamo di fronte – ha aggiunto Lugari – ad un mosaico con centinaia di tasselli che gli inquirenti stanno cercando di comporre e mettere insieme. Stanno lavorando giorno e notte per arrivare ad una verità. Il mio assistito ha confermato quanto già aveva riferito ai Carabinieri, nell’immediatezza dei fatti, ha risposto in merito a tutti i suoi spostamenti. Ha un alibi – ha spiegato il legale – e stamattina (ieri, ndr) abbiamo fornito ulteriori precisazioni sugli orari e loro (gli inquirenti, ndr) cercheranno di colmare i buchi di pochi minuti che ci sono”.

Filippo Fiorini per “la Stampa” il 10 dicembre 2022.

Il principale sospettato per la morte di Alice Neri non è il marito Nicholas Negrini, né l'amico sardo Marco Cuccui, che pure sono ancora iscritti nel registro degli indagati per l'omicidio e la distruzione del cadavere di questa 32enne, madre di una figlia di 4 anni, uscita di casa per un aperitivo lo scorso 18 novembre e trovata il pomeriggio del giorno dopo, morta nella sua auto carbonizzata. 

Non è nemmeno il terzo uomo, non il quarto, entrambi colleghi della fabbrica in cui lavorava, che con lei chattavano su Facebook, che erano stati redarguiti per gli atteggiamenti invadenti, ed erano finiti nella miriade di ipotesi che hanno accompagnato il caso nelle ultime settimane. 

È un tunisino di 29 anni, che viveva a meno di due chilometri dal luogo isolato in cui è stata trovata la Ford Fiesta di Alice, che si trovava nello stesso bar di Concordia sulla Secchia in cui lei ha trascorso molte ore conversando con Cuccui la sera della scomparsa e che dopo la chiusura l'avrebbe approcciata senza conoscerla, uccidendola forse per un rifiuto e fuggendo poi all'estero l'indomani.

Il sentore di una svolta in un caso rimasto a lungo statico è arrivato giovedì notte, quando i Carabinieri si sono presentati in casa dell'uomo per una perquisizione, hanno avvertito un avvocato di turno per l'autorizzazione a procedere e non l'hanno trovato. Non lui, non la compagna, non il loro cane pitbull. 

Destinatario di un decreto di espulsione, era arrivato nella Bassa Modenese da pochi mesi, più o meno nello stesso periodo in cui Alice aveva trovato lavoro. Solo dieci giorni prima, l'uomo era stato visto a Milano, mentre dieci giorni dopo il delitto, invece, era in una città francese prossima al confine con Svizzera e Germania. Sebbene dicesse di essere originario di Stoccolma, è più plausibilmente nato a Mahdia, sulle coste nord orientali della Tunisia.

Mentre si ultimano le pratiche per il mandato di cattura internazionale, si alleggerisce la posizione di Nicholas e Marco, anche se nessuno dei due è ancora completamente libero da sospetti. Ieri infatti, il primo tra loro, che aveva sposato Alice nel 2015, si è presentato spontaneamente in Procura per testimoniare. Dopo un'ora di interrogatorio, il suo avvocato, Luca Lugari, ha detto: «Ha risposto a tutte le domande. Ha confermato quello che aveva già raccontato ai Carabinieri subito. Abbiamo dato ulteriori precisazioni sugli orari e loro colmeranno i buchi di pochi minuti che restano». Vedendo che la moglie non era rientrata, Negrini si era subito messo a cercarla coinvolgendo anche il fratello di lei e, non ottenendo risultati, era andato in caserma fornendo elementi utili. 

Su tutti, l'app di geolocalizzazione del telefono con cui da casa aveva visto il cellulare della moglie fermo a Concordia fino alle 3,40 di notte e le chiamate senza risposta rigettate manualmente da qualcuno, fino all'alba del giorno del ritrovamento. Tuttavia, il suo nome è ancora tra gli indagati e, davanti a un alibi forte, c'è un movente che lo è altrettanto: la gelosia. Gelosia che avrebbe potuto nutrire per esempio nei confronti di Cuccui, per uscire con il quale Alice gli aveva raccontato di voler invece incontrare un'amica e con cui molti hanno ipotizzato potesse esistere una relazione sentimentale.  

A sua volta indagato, le telecamere di sicurezza che mostrano la auto dell'operaio sardo e meccanico di moto prendere la strada di casa, dieci minuti prima che quella di Alice fosse ripresa mentre viaggia verso il luogo in cui poi è stata trovata bruciata, sono il principale elemento a sua discolpa.  

L'auto di Alice e non Alice, poiché chi la guidasse quella notte non è visibile nella videosorveglianza pubblica. I nuovi elementi portano a pensare che a farlo fosse proprio il 29enne ora ricercato e questo spiegherebbe anche uno degli altri capitoli che finora restavano aperti sul caso: come aveva fatto l'assassino a lasciare la scena del delitto, senza che nessun altra automobile fosse ripresa durante il tragitto di andata? 

L'uomo in questione abitava così vicino che potrebbe averlo fatto a piedi. Come e in che contesto sia maturato il crimine, appartiene ancora alla notte di ambiguità e misteri in cui la donna è andata incontro quando ha salutato la sua famiglia per l'ultima volta. Il suo corpo è talmente deteriorato dal rogo che non si può stabilire la causa della morte, non può fornire tracce del killer, né dire se fosse viva mentre l'auto bruciava. Si può solo escludere che sia stata colpita alla testa, perché il cranio non ha fratture e poi confermare col Dna ciò che ovvio: Alice Neri è una delle 110 donne uccise quest' anno da un uomo.

Da repubblica.it il 21 novembre 2022.

Quando la macchina ha preso fuoco, lei era nel portabagagli. È morta carbonizzata Alice Neri, 32 anni, madre di una bambina di 4 anni. Il suo corpo è stato ritrovato nella sua auto completamente bruciata, nelle campagne di Concordia sulla Secchia, Bassa Modenese, dopo che un testimone ha notato il fumo. Proseguono le indagini per quello che appare sempre più un omicidio volontario. La procura si muove insomma per quello che potrebbe essere l’ennesimo femminicidio.

Al momento ci sono due indagati sia pure per "atto dovuto". Uno è il marito, l'altro è un amico. Entrambi sospettati, entrambi a piede libero. Il marito, che aveva denunciato la scomparsa giovedì 17, è stato sentito a lungo dai militari: "Non vedendola rincasare dal lavoro pensavo avesse avuto un incidente", avrebbe detto il giovane. Mentre la novità sta, secondo quanto riportano alcuni giornali locali, in un sopralluogo nell’appartamento di un conoscente a San Possidonio. Un amico sentito a sua volta dagli inquirenti e finito a sua volta nel registro degli indagati. 

Alice Neri vista in un bar a Concordia. Poi più nulla

E’ nel paese vicino a Concordia sulla Secchia infatti che vive l’uomo interrogato domenica pomeriggio dalle forze dell’ordine. Sarebbe stato l’ultimo ad avere visto viva Alice Neri. La donna, che viveva a Rami di Ravarino con il marito e la figlia, è stata vista per l’ultima volta in un bar di Concordia giovedì pomeriggio.

I carabinieri stanno setacciando le immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza per ricostruire il tragitto che l'auto della donna ha fatto nel raggiungere la strada sterrata di campagna dove è stata ritrovata.  La stessa auto sarebbe stata vista passare poco tempo prima proprio a Concordia: i varchi ne avrebbero registrato la targa. Chi guidava l'auto?

Gli spritz e la lunga notte al bar. Il giallo delle ultime ore di Alice. La serata ripresa dalle telecamere: la donna ha lasciato il locale alle 2, poi il buio. Indagati il marito e l'amico. Redazione su Il Giornale il 22 Novembre 2022.

Due persone sono indagate nell'ambito delle indagini in corso nel Modenese sulla morte di Alice Neri, la 32enne trovata carbonizzata venerdì sera nella sua auto a Fossa di Concordia, una località della provincia. La Procura ha iscritto nel registro degli indagati il marito della donna e un amico. Secondo quanto trapela, l'iscrizione è un atto necessario per alcuni accertamenti che devono essere eseguiti; entrambi rimangono a piede libero.

Le ipotesi di reato sono omicidio volontario e distruzione di cadavere. Sulla vicenda indagano i Carabinieri coordinati dal pm Claudia Natalini. Si stanno scandagliando le ultime ore di vita della vittima, in particolare quanto accaduto giovedì sera. Testimonianze, filmati delle telecamere di videosorveglianza, celle telefoniche. Nicholas Negrini, marito di Alice e padre della loro bambina di quattro anni, è stato sentito a lungo in caserma. Era stato proprio lui a denunciare la scomparsa della moglie giovedì, non vedendola rientrare a casa dopo il lavoro. «Avevo paura che avesse fatto un incidente», aveva spiegato ai carabinieri. L'altra persona sulla quale è rivolta l'attenzione è un amico della 32enne, convocato in caserma già venerdì sera. Sarebbe lui l'ultimo ad averla vista. La 32enne lavorava per l'impresa di pulizie «Sun Flower» insieme alla madre, mentre il marito Nicholas è un grafico.

Alice, originaria di Ravarino, sempre nel Modenese secondo una testimonianza avvalorata da alcuni filmati delle videocamere di sorveglianza, ha passato la serata in un bar. La donna sarebbe arrivata attorno alle 19.40, poi l'ha raggiunta un uomo con cui si è intrattenuta fin alla chiusura del locale attorno alle 2, dopo aver bevuto diversi spritz. Tra loro non ci sarebbero state effusioni, ma solo chiacchiere e scherzi in forma amichevole. Resta da chiarire dunque cosa sia successo nelle ore successive: il corpo della donna è stato rinvenuto alle 21 del venerdì. Della 32enne si erano perse le tracce da giovedì 17 novembre. A dare l'allarme era stato il marito denunciando la scomparsa.

La macchina è stata ritrovata in una zona di campagna di Concordia sulla Secchia, in provincia di Modena. Un cittadino di passaggio aveva notato il fumo che saliva al cielo in mezzo ad una macchia di vegetazione e ha allertato i soccorsi. L'auto si trovava in sosta su una strada sterrata. Un'area di aperta campagna, fatta di strette stradine non asfaltate, dove vicino ci sono una serie di laghetti per l'itticoltura. Una zona estranea di fatto alla frequentazione, se non da parte di chi lavora nei campi o abita nelle poche case circostanti. Dopo l'intervento dei vigili del fuoco per spegnere le fiamme dell'utilitaria, è stata fatta la tragica scoperta. Quindi l'intervento dei carabinieri per avviare gli accertamenti sul posto e le indagini. Poco dopo il marito era stato informato del ritrovamento del corpo di sua moglie ed era stato accompagnato in caserma per essere ascoltato nel dettaglio. Si attende ora che la Procura incarichi i periti per effettuare l'autopsia sui resti della 32enne. Durante le perquisizioni nelle abitazioni dei due indagati non sono emersi elementi utili alle indagini. Non è quindi ancora del tutto esclusa la pista del gesto volontario.

Il dolore della famiglia: "Stiamo vivendo un incubo pazzesco". Alice Neri, il giallo della morte della mamma trovata carbonizzata nella sua auto: “Punita per un rifiuto”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Novembre 2022

Non si danno pace i familiari di Alice Neri, la 32enne di Ravarino, piccolo paesino nella provincia di Modena, trovata carbonizzata nel bagagliaio della sua auto venerdì 18 novembre in mezzo alle campagne di Concordia, nella Bassa modenese. Una drammatica morte su cui gli investigatori stanno cercando di fare luce. Attualmente due sono le persone indagate: il marito, che ha dato l’allarme dopo la sua scomparsa e un amico di Alice, l’ultimo ad averla vista viva. Ma al momento nessuna pista è esclusa.

L’unico motivo possibile è che mia figlia abbia rifiutato qualcosa che non voleva fare, abbia detto di ‘no’, e questo ha fatto partire l’embolo a qualcuno. Che l’ha ammazzata e bruciata, per non farmela vedere più l’ultima volta nemmeno da morta”, ha detto a Repubblica la mamma di Alice, Patrizia Montorsi, che non riesce a darsi pace su quanto accaduto. Il dolore per l’assurda morte della figlia è enorme.

Alice viveva con il marito Nicholas e la loro figlioletta di 4 anni in una villetta a Ravarino. È da lì che Alice giovedì sera intorno alle 19 è uscita per raggiungere l’amico (ora indagato) in un bar di Concordia per fare un aperitivo. Si è trattenuta lì in chiacchiere amichevoli fino alle 2 di notte. L’aperitivo è stato ripreso dalle telecamere di videosorveglianza, poi non si sa cosa sia successo. Il mattino seguente, non trovandola nel letto, il marito di Alice l’ha cercata ovunque insieme al fratello della ragazza senza trovarne traccia, poi la denuncia della scomparsa ai carabinieri.

Mio cognato Nicholas ed io, grazie al localizzatore del telefono di Alice, siamo riusciti a risalire al posto dove era stata l’ultima volta che il cellulare è rimasto acceso – ha raccontato al Resto del Carlino Matteo Marzoli, fratello di Alice – Per tutto il pomeriggio ho setacciato il paese e la campagna con la speranza di vedere la sua macchina. A posteriori, mi pare di poter dire anche di essere passato vicino al luogo del ritrovamento”.

Poi il ritrovamento venerdì sera del corpo carbonizzato di Alice rinchiuso nel bagagliaio della sua auto. Non è esclusa nessuna ipotesi sebbene un fascicolo è stato aperto per omicidio e distruzione di cadavere. “Spero che si trovi chi ha fatto questa crudeltà a una ragazza solare, felice, una mamma di famiglia – ha continuato la mamma di Alice nell’intervista a Repubblica – Non c’era nulla di nascosto, mia figlia non aveva amanti. Mio genero non c’entra. Un folle ha deciso di eliminarla”, conclude la signora Patrizia.

Se mi spaventano le cose spiacevoli che potrebbero emergere? Certo – continua il fratello a Il Resto del Carlino – per ora sto cercando di mantenere la razionalità, con la speranza che la verità venga a galla presto, prima di perdere questa poca lucidità che mi resta: sono un essere umano e qualcuno ha ucciso mia sorella. Un passo alla volta, stiamo vivendo un incubo pazzesco. Sto vicino a mamma, siamo una grande famiglia molto unita e ci sono tante persone che ci vogliono bene e che si sono mobilitate per stare con noi h24. Senza questo supporto di affetto, il rischio è quello di impazzire”. “Mio cognato – ha concluso Matteo – ora pensa a proteggere la loro meravigliosa bimba, sta cercando di salvaguardarla il più possibile. Non riesce neanche più a tornare a casa sua, sempre assediata da tutti. Sta con la sua bimba”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Scarpa per roma.repubblica.it il 4 gennaio 2023.

Madre e figlia, le hanno trovate entrambe senza vita. Morte all'interno dello stesso appartamento, il più tragico degli epiloghi si è consumato, molto probabilmente, a Capodanno. Ma cosa è accaduto a San Basilio la notte del 31 dicembre? In via Fabriano, al civico 31, nessuno sa niente, nessuno ha visto niente. Eppure qualche cosa deve essere accaduto. I dirimpettai giurano di non aver udito "alcun rumore" provenire da quella casa. "È venuta la polizia stamattina (il 3 gennaio, ndr) io non so altro", giura la vicina. Un altro inquilino taglia corto: "Io non so niente di questa storia" e rientra in casa dopo essersi affacciato dal balcone. La procura, però, vuole vederci chiaro.

 Due donne morte nello stesso momento, nella stessa abitazione sono un fatto abbastanza singolare. Forse una pura coincidenza, una che si sente male muore e l'altra che successivamente a causa dello stress ha un infarto. Oppure un doppio suicidio? Sullo sfondo l'ipotesi estrema dell'omicidio - suicidio.

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Gli altri inquilini, che vivono nei palazzi accanto, si chiedono cosa possa essere accaduto. "Non godevano di buona salute, questo è certo", spiega una signora. Al civico 31 si contano almeno tre edifici, tre diversi portoni. Quello in cui abitavano le due vittime è l'ultimo rispetto al cancello d'ingresso. Tutti edifici bassi, case popolari, di tre piani color ocra. Molte donne anziane affacciate parlano tra loro. "Hai visto la polizia? Cosa è successo ad Augusta e Carmela?" Adesso investigatori e inquirenti dovranno dare una risposta.

"Le sette hanno sempre più adepti". L'ombra dei riti sulla donna mummificata. È mistero intorno alla morte di Luana Costantini e della madre Elena Bruselles: nella loro storia c'è un movimento filoesoterico e forse solitudine. Ne parla il criminologo Francesco Esposito. Angela Leucci il 27 gennaio 2023 su Il Giornale.

La morte di Luana Costantini e della madre Elena Bruselles è un giallo inestricabile al momento. Mentre si attendono gli esiti dell’autopsia, si sa solo che la 54enne e l’anziana madre 83enne, malata di Alzheimer, abbiano molto probabilmente perso la vita in tempi diversi.

A impensierirsi è stato un meccanico che possiede un’officina nei pressi della casa delle due donne, a Roma in via Salvatori: dapprima aveva notato lo scooter di Luana fermo per giorni, poi le aveva parlato dalla finestra, trovandola “strana”, infine aveva scorto la luce accesa per diversi giorni. Infine la tragica scoperta il 19 gennaio: Elena è stata trovata addirittura mummificata e in casa sono state ritrovate insolite suppellettili, che parte della stampa ha ricondotto a rituali settari.

Le due donne non vivevano da sole in quella casa. Con loro c’era il fidanzato di Luana, Paolo Rosafio, originario di Taurisano in provincia di Lecce, che però intorno al giorno di Santo Stefano sarebbe tornato dai parenti in Puglia, e che, ancora lì al momento in cui scriviamo, pare aver appreso della morte delle donne dai media. L’uomo, che si fa chiamare sui social Shamano Shekinà Shekinà, è un sedicente esperto di benessere, si è reso reperibile ed è stato ascoltato dagli inquirenti.

Inoltre in casa pare abitasse un altro uomo, tale “Roberto”, che la stampa aveva ribattezzato con un nome di fantasia. Roberto, insieme a Paolo e Luana, fa parte di un movimento chiamato Cubytrix, che alcuni hanno definito una setta. Nessuno è sotto indagine al momento, tuttavia è stata aperto un fascicolo per morte in seguito ad altro reato. “Quale che sia l’altro reato, la storia desta allarme, anche alla luce dell'aumento di sette e psicosette in Italia”, spiega a IlGiornale.it il criminologo forense Francesco Esposito, autore del podcast Le Bestie di Satana, 25 anni dopo.

Esposito, che idea si è fatto sul caso di Luana Costantini ed Elena Bruselles?

Gli elementi sono pochi, possiamo solo fare qualche supposizione a voce alta. Secondo me si tratta di un insieme di situazioni: a volte alcuni gruppuscoli finiscono per aggrapparsi a situazioni di disagio o fragilità, o ancora ipersensibilità. Potrebbe essersi trattato di qualcosa del genere”.

Si è parlato molto di sette, ma da Cubytrix smentiscono di essere una setta. Possiamo parlare di un movimento filoesoterista?

Le sette, dopo gli anni ’90 e parlando comunque in generale, si sono fatte un po’ più furbe. Nessuna dirà mai di essere una setta, tanto più che sette con iscritti e riti sono ben poche. Aiutate da motivi sociologici e politici, si sono nascoste sempre più dietro la libertà di espressione. A volte, dopo un po’, diventano religioni. Sette, psicosette e post-new age con nuove tecnologie sono ancor più liquide e sfuggenti”.

Luana era un’operatrice socio sanitaria che aveva deciso di non vaccinarsi ed era stata sospesa dal servizio. I fenomeni relativi a chi smette di seguire la medicina ufficiale sono cresciuti dopo la pandemia, secondo la sua percezione?

Negli ultimi 15 anni, a volte anche per motivi validi - come per esempio per passare da uno stile di vita consumistico a riprendersi il proprio tempo - in tanti sono passati hegelianamente da un estremo a un altro prima di trovare il giusto equilibrio tra il pensiero occidentale e quello orientale. Così i movimenti settari e gli spiritualismi sono cresciuti tantissimo, anche pret-a-porter con acquisti di app, certamente leciti e anche buoni su meditazione e yoga. Il periodo scatenante io credo però che sia sorto quando un movimento ha iniziato ad affermare che i vaccini causassero l’autismo, cosa che rappresentava una grande fuffa ma che ha radicalizzato un fenomeno”.

È stato aperto un fascicolo per morte a seguito di altro reato e non ci sono indagati. Cosa significa?

È un atto dovuto. Si presume che il soggetto non si sia suicidato, né che sia morto per un’overdose. In base alla scena del crimine e alle sommarie informazioni, si presume che la morte sia da altro reato quando non c’è dolo nella morte, è un altro tipo di responsabilità, anche se comunque è grave. Ancora non lo sappiamo quale potrebbe essere, eventualmente, questo altro reato”.

Morte madre e figlia. Il rito esoterico e il post Facebook: "Luana ha mollato"

Cosa potrebbe dirci l’autopsia?

La vittima parla sempre. Bisogna sempre ascoltarla. L’autopsia ci fa vedere quando una persona è morta, cosa aveva mangiato, se aveva assunto alcol o droghe e in quale quantità, quali erano le condizioni dei suoi organi. In Italia, ci tengo a dirlo, siamo molto bravi nelle autopsie, tra i primi al mondo, purtroppo abituati a eseguirle fin dagli Anni di Piombo e passando per le stragi di mafia. L’autopsia potrebbe rivelare anche un’eventuale malattia o un accadimento letale, come un aneurisma, anche se però mi chiedo quale accadimento letale possa aver colpito entrambe le donne”.

Colpisce l'immaginario il fatto che la signora Elena fosse mummificata. Può essere un fenomeno naturale oppure ci può essere la mano umana?

I cadaveri, talvolta, quando vengono ritrovati in determinate situazioni, possono presentare quella che i non addetti ai lavori possono definire mummificazione, ma è un processo naturale. Difficilmente inquirenti ed esperti utilizzerebbero questa dicitura colloquiale. Mi pare strano che questo cadavere sia stato mummificato con un rito: rendiamoci conto che i cadaveri non sono patinati, ma si possono mostrare apparentemente saponificati, mummificati o rigidi, ma si tratta di fenomeni essenzialmente naturali. Ci andrei molto molto cauto”.

Le donne sono state trovate grazie a un meccanico che lavorava nei pressi della casa e che ha dato l’allarme. C’è una componente di dramma della solitudine in questa storia?

Mi ha colpito molto leggere la testimonianza di un’amica, che diceva che Luana aveva vissuto un periodo di cambiamenti, era più riservata, più chiusa. Quando un soggetto inizia a trasformare il proprio comportamento, vivendo un cambiamento repentino volto a chiudersi, bisogna stare attenti. È possibile abbia incontrato qualcuno che dopo un’iniziale love bombing l’abbia risucchiata, anche se al momento non possiamo dire chi potrebbe essere. Quella di Luana potrebbe essere una storia di solitudine, sebbene apparentemente fosse circondata da persone”.

Estratto da open.online il 21 gennaio 2023.

Ieri mattina la polizia ha trovato in un appartamento di via Giulio Salvadori al Trionfale i corpi di Elena Bruselles e Luana Costantini. Madre e figlia avevano rispettivamente 83 e 54 anni. Elena, malata di Alzheimer, è probabilmente morta a ridosso del 28 dicembre. La figlia sembra essere deceduta alcuni giorni fa.

 Costantini faceva parte di una setta esoterica. Aveva due profili Facebook [...] parlava delle attività social di Cubytrix, una comunità del paranormale che sponsorizza corsi di magia e tantra nero. Vendendo rune e tavole ouija. Il fondatore si fa chiamare Shamano Shekhinà Shekhinà. Il suo vero nome è Paolo Rosafio. Ed è l’ex fidanzato di Luana. Gli inquirenti lo stanno cercando in Puglia, dove pare che sia tornato.

Lo Shamano Shekhinà Shekhinà

Rosafio aveva frequentato Costantini per due anni e mezzo. Poi è tornato a Lecce. Ma ha lasciato alcuni suoi vestiti nell’appartamento al Trionfale. [...] Dopo il suo arrivo, secondo i racconti dei vicini nell’edizione romana di Repubblica, Costantini aveva chiuso i rapporti con i fratelli. Lui invece sostiene che fino all’ultimo ha tentato di convincerla a farsi aiutare.

 Un presunto occultista molto conosciuto nella capitale oggi dice che si aspettava la sua morte: «So che si farà fatica a crederlo, ma in quella casa abbiamo assistito a più di un avvenimento di possessioni e manifestazioni. Molte cose che vedevamo non erano normali. Luana aveva due quaderni nel cassetto dove c’è il drago bianco. La verità sta lì».

 Secondo la sua testimonianza già il 24 dicembre [...] Elena Bruselles stava molto male: «Mangiava una sola volta al giorno all’ora di pranzo. La cena non riusciva a farla perché non aveva le forze. Le portava qualcosa la figlia».

Il presunto occultista sostiene che tutto parta dalla setta Cubytrix: «C’è qualcosa in quella casa. Tutto è iniziato il 31 ottobre. E da allora è come se qualcosa ogni giorno volesse prevalere sull’armonia. Sono aumentate le liti, i malesseri, le morti. Saltava anche la corrente».

 La notte di Halloween erano in 4: c’erano l’occultista, Luana con il fidanzato e un’altra ragazza. «Dopo il 31 ottobre ha iniziato ad avere atteggiamenti strani. Sbatteva i denti con furia. Non mangiava, distorceva le ossa. Molte volte la trovavi a sbattere. Sentiva dolore a tutte le ossa e zoppicava. Tutto è iniziato con una semplice insonnia, poi sono arrivate le infiammazioni alle parti intime. Io e Paolo siamo andati via da quella casa proprio per i comportamenti abbastanza strani e inquietanti di Luana».

 La cocaina

Secondo il presunto occultista Luana Costantini ha anche assunto cocaina. «Dopo la morte della madre si è lasciata andare. «Ha chiamato uno spacciatore ed ha pippato fino al crollo», sostiene. [...]

Estratto dell’articolo di Marco Carta per “la Repubblica - Edizione Roma” il 23 gennaio 2023.

 Un rito esoterico finito male. Oppure una notte storta, passata a consumare cocaina o altre sostanze.

 Poi il vuoto. La data è quella del 27 dicembre: è il giorno in cui Luana Costantini “ha mollato”. La 54enne, trovata morta insieme a sua madre Elena Bruselles, deceduta un mese prima e custodita mummificata in casa, intorno alle 23 pubblica tre post sul suo profilo Facebook. Dopo di che scompare.

 Da poche ore il suo fidanzato Paolo Rosafio, lo sciamano, ha lasciato Luana e l’appartamento di Monte Mario dove aveva abitato per più di un anno. Nella casa viveva anche Roberto, che se ne va lo stesso giorno. Viene lasciato dalla fidanzata e poche ore dopo abbandona anche Cubytrix, la comunità esoterica che ha fondato proprio insieme a Rosafio.

Paolo, Roberto e la sua ex fidanzata sono gli ultimi ad aver visto le due donne in vita: «Il 31 ottobre c’era stata una seduta spiritica in quella casa — ricorda Roberto - e da quel giorno Luana aveva iniziato ad avere atteggiamenti aggressivi. Ci lanciava coltelli, aveva crisi epilettiche.

 Gli ultimi giorni stava sempre nella sua stanza e in quella della madre. Fino al 25 Elena era viva, dopo non lo so. Luana le parlava e la cambiava » .

 […] La paura è che il corpo dell’anziana possa essere stato conservato per qualche rito. O per sfruttare la sua pensione da invalida, come si sospetta. Per ora nel fascicolo aperto non ci sono indagati. Sono già stati ascoltati dagli inquirenti i vicini e i familiari di Luana.

 Oggi invece è il turno dello sciamano Rosafio, rintracciato a Lecce due giorni fa. A breve potrebbero essere interrogati anche i suoi amici occultisti, che a Monte Mario erano di casa. Lo sciamano parla di “ favole”, commentando la vicenda. […]

Estratto dell’articolo di Marco Carta per “la Repubblica – ed. Roma” il 23 gennaio 2023.

 Non un ricordo. Non una foto di Luana. Paolo Rosafio, a poche ore dalla notizia del ritrovamento del corpo senza vita dell’ex fidanzata, ha ripreso a pubblicare sulle sue pagine social gli stessi contenuti motivazionali di sempre. La paura principale, insomma, è quella di perdere follower.

[…] nelle chat private, tra i migliaia di adepti, ognuno ha la sua versione dei fatti. « Solo per qualche live e oggetto siamo stati presi per satanisti - spiega uno degli amministratori di Cubytrix - quando la colpa non è nostra. Lì nella via tutti sapevano che la Luana c’era chiusa in casa. Tutti sapevano che era crollata » . Lo “ sciamano”, uno degli ultimi ad aver visto la donna in vita, non è indagato. Ma sarà ascoltato lunedì dai poliziotti di Lecce per capire cosa possa essere accaduto in quella casa di Monte Mario dove lui ha vissuto fino a poco fa. Chi lo conosce bene, lo definisce provato. Anche se sui social, sembra che non sia accaduto nulla

 […] Quando l’ho conosciuto era ossessionato dai rituali. Si chiudeva solo nella grotta a fare i suoi rituali, una volta che ha capito che stava sbagliato ha coperto la grotta di casa con sassi», racconta Roberto, secondo cui lo sciamano sarebbe stato plagiato da un altro gruppo esoterico, denominato il Tempio. «Tutto e partito da lì, in quel gruppo ci sono ritualisti negromanti. E’ la vera setta che da un anno e mezzo crea scompiglio. Con i rituali non si scherza » .

A gestire il Tempio, è un esperto del settore olistico, Francesco Speciale, che dopo aver collaborato con Rosafio, facendogli moderare il gruppo Facebook, decide di allontanare lo “sciamano”. […]

 Una volta allontanato, Rosafio avrebbe innescato una vera guerra contro il fondatore del Tempio, il gruppo dove Luana, però, non sarebbe mai stata iscritta: «Tra mezzora tu non esisti più su Facebook - dice Rosafio in un audio di minaccia - ti vengo a trovare ».  […] Al centro della contesa, i followers e la credibilità nella comunità esoterica virtuale. […]

Madre e figlia trovate morte in casa, ascoltato l'ex fidanzato sciamano. Questa mattina è stato ascoltato in caserma l'ex fidanzato di Luana Costantini, uno sciamano della setta occulta di cui faceva parte la donna. Potrebbero essere suoi gli indumenti trovati dalla polizia nell'appartamento della donna a Roma in zona Monte Mario. Emanuele Fragasso il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.

La mattina del 20 gennaio sono state trovate morte nella loro abitazione a Roma due donne, madre e figlia rispettivamente di 83 e 54 anni. L’anziana Elena Bruselles, ex infermiera, è morta molto prima della figlia, Luana Costantini, operatrice sanitaria - da tempo disoccupata per le sue posizioni no-vax -, da sempre attratta dalle magie occulte e dall’esoterismo.

L’ombra della magia nera aleggia sopra quella che sembrava essere una tragica storia di solitudine. All’interno dell’abitazione sono stati ritrovati oggetti oscuri, che potrebbero essere stati utilizzati per un rito di magia nera.

La dinamica

La cinquantaquattrenne è morta da poco meno di una settimana, potrebbe aver vegliato sul corpo della madre per più di venti giorni, spegnendo il telefono e isolandosi completamente dal mondo esterno. Sembra che la donna non uscisse nemmeno per gettare la spazzatura. I vigili del fuoco quando hanno sfondato la porta della loro abitazione, dopo la segnalazione del fratello della Costantini, hanno trovato decine di sacchetti dell’immondizia riversi sul pavimento. Un comportamento anomalo e che ancora ad oggi gli investigatori non si riescono a spiegare.

L'ex fidanzato sciamano e la setta online

Nel piccolo appartamento di via Giulio Salvadori, in zona Monte Mario ad est del Tevere sono stati trovati dalla polizia anche degli indumenti maschili, appartenenti forse all’ex fidanzato di Luana Costantini, uno sciamano pugliese chiamato Paolo Rosafio, appartenente alla setta online Cubytrix. Anche Luana Costantini faceva parte della stessa setta, non si sa se la donna avesse conosciuto il fidanzato sciamano dopo essere entrata nel gruppo occultista oppure sia stato proprio lui a invogliarla ad entrare. L’uomo - dopo aver terminato la relazione con l’operatrice sanitaria - ha lasciato la casa della fidanzata, dove viveva anche l’anziana madre, per tornare a Lecce. La donna, dopo la fine della relazione con il santone, sembra essere caduta in una forte depressione. Le ultime persone ad aver visto la cinquantaquattrenne l’hanno descritta come “sconnessa” e “psicologicamente distrutta”. Proprio oggi, 23 gennaio, gli inquirenti hanno ascoltato Rosafio, dopo essere stato rintracciato dalle forze dell’ordine. Al momento l’uomo non è sospettato.

Un'evocazione finita male

La donna ha continuato a pubblicare sulla sua pagina Facebook post a tema esoterico fino al 27 dicembre 2022, data in cui molto probabilmente la madre era morta da pochi giorni. L’ex operatrice sanitaria aveva completamente tagliato i propri rapporti con i due fratelli dopo aver iniziato la relazione con il santone dell’esoterismo. La donna - ha raccontato un amico - sarebbe totalmente cambiata dopo un rito d’evocazione spiritico avvenuto durante la notte di Halloween. Luana avrebbe smesso di mangiare e, secondo l’amico, passava le giornate a battere istericamente i denti, come se avesse freddo, rimanendo completamente sola con l’anziana madre, della quale però non riusciva a prendersi cura.

Il post della setta Cubytrix

Dopo la diffusione della notizia della morte della loro adepta, la setta Cubytrix ha pubblicato un lungo post su Facebook. "Tutti volevamo bene a Luana, lei credeva tanto in questo progetto. Non era solo una sorella, era una luce in un mondo di tenebre". La pagina di Cubytrix ha poi cercato di proteggere il proprio santone. "State cercando un criminale - continua il post su Facebook - ma quel criminale non è Shekhinà Shekhinà (il "nome usato da Paolo Rosafio n.d.r.) non sapete quanti crolli e battaglie Paolo ha dovuto affrontare pur di aiutare Luana e la madre".

Madre e figlia morte in casa a Roma, l’ombra dei riti esoterici: l’ex fidanzato “sciamano” di Luana rintracciato a Lecce. Redazione su Il Riformista il 21 Gennaio 2023

Il ritrovamento dei corpi senza vita di Luana Costantini, 54 anni ex infermiera, e di sua madre, Elena Bruselles, 83enne malata di Alzheimer, si tinge di giallo.

I corpi delle due donne, trovate mummificate nella loro abitazione in via Salvadori, quartiere Monte Mario a Roma, erano state rinvenuti giovedì 19 gennaio su segnalazione del fratello di Luana, che non aveva più notizie delle due da diverse tempo.

Secondo quanto emerso da un primo esame effettuato dal medico legale, l’83enne Elena sarebbe morta quasi un mese prima rispetto alla figlia: il decesso risalirebbe a prima di Natale, quindi circa un mese fa.

Ma quella che inizialmente poteva apparire come una storia di solitudine sembra in realtà nascondere altro, una vicenda ben più oscura legata a riti esoterici.

Gli inquirenti lo hanno capito quando, come racconta il Corriere della Sera, nell’appartamento sono stati rinvenuti candelabri, tuniche, formule magiche. Analizzando la vita di Luana Costantini gli agenti del commissariato di Polizia di Primavallae hanno scoperto che la 54enne aveva perso il lavoro di operatore sanitario per le sue posizioni no vax, condivideva le iniziative dei “fratelli e sorelle” di Cubytrix, una “comunità del paranormale”, quasi una setta.

Il fondatore di Cubytrix che si fa chiamare Shamano Shekhinà Shekhinà, alias Paolo Rosafio, sarebbe stato il fidanzato di Luana: il suo nome era presente sul citofono della palazzina di via Salvadori in cui abitavano madre e figlia.

Rosafio è stato rintracciato oggi dalla polizia a Lecce: si trovava nella sua abitazione, non era scappato e al momento non è indagato. Nei prossimi giorni potrebbe essere sentito dagli agenti della Squadra mobile del posto.

Il suo ruolo nella vicenda della morte di Luana ed Elena al momento non è chiaro: sui corpi di madre e figlia non sarebbero stati rilevati evidenti segni di violenza, ma sarà ora l’autopsia a chiarire i contorni della vicenda.

Repubblica cita la testimonianza di un amico di Luana, per un periodo suo ospite quando l’ex infermiera faceva ancora coppia col ‘santone’, che ha raccontato al quotidiano come la donna si fosse isolata dopo un rito di evocazione la notte di Halloween: “Nel mondo esoterico molti lo conoscono, è un rito di ringraziamento e sacrificio, considerato una specie di passaggio col mondo dei morti“. Da quel giorno Luana era cambiata: “Non mangiava, batteva i denti con furia“.

Estratto dell’articolo di Marco Carta e Emanuela Del Frate per “la Repubblica - Edizione Roma” il 24 gennaio 2023. 

La pensione di anzianità di Elena Bruselles. Ma anche le ricchezze dello sciamano Paolo Rosafio, l’ex fidanzato di Luana Costantini. Un corposo gruzzolo che negli ultimi mesi si è fatto sempre più consistente. Un tesoro sospetto, su cui ora faranno luce gli inquirenti.

 […] a sei giorni dalla scoperta dei corpi senza vita di Luana, morta circa dieci giorni fa, e di sua madre Elena, deceduta forse un mese fa e ritrovata mummificata all’interno dell’appartamento, le indagini si allargano anche alla pseudo setta “Cubytrix”, di cui Rosafio è il fondatore […].

Lo sciamano, che non è indagato, per oltre un anno ha vissuto insieme a Luana e Elena. Poi a fine dicembre ha lasciato la casa […]. È stato rintracciato a Taurisano, in provincia di Lecce, sabato scorso: […] « Non so niente della morte di Elena e Luana. Io me ne sono andato via prima da quella casa » .

 […] Addirittura ha minimizzato anche il rapporto con la sua ex fidanzata: «non era così stretto ».

 Lo sciamano avrebbe detto di aver lasciato l’appartamento di via Salvadori il […] 26 dicembre. Ma il sospetto è che possa essersi intrattenuto qualche giorno in più. O che comunque in qualche modo avesse almeno saputo della morte di Elena.

Per capirlo sarà decisivo l’esito dell’esame autoptico […]. […] Se, infatti, dovesse emergere che le due donne sono morte per cause naturali, si cercherà di capire se siano state vittime di una possibile manipolazione psicologica. Da questa accusa, lo sciamano si è difeso preventivamente ieri: “Cubytrix non è una setta”.

 Ma la promozione di tavole Ouija, i riferimenti diretti al satanismo su Facebook, e le tracce dei riti esoterici ritrovate dell’appartamento, fanno pensare a qualcosa di diverso.

 Anche perché […] il conto in banca dello sciamano si sarebbe fatto più corposo proprio nell’ultimo anno. Rosafio ha detto di essersi arricchito vendendo “alghe” e pozioni on line. […]

Estratto dell’articolo di Marco Carta e Emanuela Del Frate per “la Repubblica - Edizione Roma” il 24 gennaio 2023.

«Ho visto delle foto e ho detto: questa non è Luana. Non era lei». Alessandra S., infermiera, è una delle ultime colleghe di Luana Costantini, che aveva conosciuto poco prima della sua relazione con lo sciamano Paolo Rosafio.

 «Luana era una persona che si sentiva sola. Ma non era depressa o aggressiva. […] Si truccava tutti i giorni, aveva i capelli sempre colorati di nero.

 Invece adesso che vedo le sue ultime foto quasi non la riconosco. Tutti capelli bianchi, senza un filo di trucco, piena di occhiaie. Non sembra nemmeno lei» .

 A cambiare le cose, secondo Alessandra, sarebbe stata proprio la relazione con lo sciamano, conosciuto sul finire del 2019. «Un giorno mi disse guarda ho conosciuto un ragazzo.

A me lui sembrava strano, ma lei era una persona che si sentiva sola e non le ho detto niente. Luana era innamoratissima. E a poco a poco ha iniziato a cambiare: faceva discorsi strani, parlava in continuazione di mondi nuovi e altre cose esoteriche. Io me la guardavo e le dicevo: A Luà, Ma che stai a di?».

 Le due si perdono di vista. Alessandra si trasferisce in un’altra struttura, mentre Luana, esplosa la pandemia Covid 19, decide di non vaccinarsi e rimane senza lavoro: «Lei aveva paura delle medicine. Non usava nulla. Figuriamoci se prendeva la cocaina, come ho letto».  […]

Yana torna a casa. La nonna: «La malattia per colpa di Chernobyl e le operazioni. Era diventata il nostro cigno». Pietro Tosca su Il Corriere della Sera l’8 Febbraio 2023.

Il feretro della ragazza uccisa dal convivente nel Mantovano oggi sarà a Romano per la camera ardente. La nonna racconta i suoi anni di malattia e i suoi sogni. La mamma: «Serve una pena esemplare»

«Era bellissima e aveva tanta voglia di vivere, dopo un’adolescenza in cui aveva conosciuto la malattia e il dolore». Nonna Larissa Bodnari si lascia cadere nel divano della casa di Romano dove, insieme al marito Giovanni Vitali, ha cresciuto la nipote Yana Malaiko, la ragazza ucraina di 23 anni uccisa il 20 gennaio a Castiglione delle Stiviere (Mantova) dall’ex convivente moldavo Dumitru Stratan, 33 anni. Manca poco all’ora di pranzo e la tavola è già apparecchiata, il gatto arriva e si struscia sulla gamba dell’anziana intenta a riannodare il filo della memoria, ma è come se qualcuno avesse tirato un sasso su quella quotidianità di provincia mandandola in frantumi. «La nostra è un’abitazione modesta — racconta — ma qui Yana aveva trovato serenità. Era arrivata a 15 anni dopo averne trascorsi due in ospedale. Era di Cernivci, città al confine con la Romania, dove abbiamo pagato un tributo caro a Chernobyl. Molti bambini nascono ammalati e anche Yana sin da piccola stava male per una malformazione all’intestino». Nel 2014 il papà Oleksandr Malaiko riesce a farla operare in una clinica a Leopoli e poi la ragazza arriva a Romano per una convalescenza difficile. «Era uno scricciolo — continua Larissa — stava crescendo e diceva “nonna sono brutta”, ma poi è diventata un cigno. Aveva ancora bisogno di cure e la burocrazia ci faceva penare: per farle ottenere i documenti ci sono voluti 8 mesi».

Anche l’inserimento a scuola non è facile e, dopo aver frequentato il Don Milani a Romano e il Majorana a Seriate, Yana decide che non è la sua strada. «Aveva fretta di crescere — ricorda la nonna —, così è andata a lavorare. Prima in un bar qui vicino, poi in un ristorante a Covo e infine in un bar a Chiari. Mio marito andava tutte le notti a prenderla a fine turno». Proprio a Chiari Yana, a 20 anni, conosce Dumitru Stratan e va a convivere con lui a Castiglione delle Stiviere dove la sorella del ragazzo ha un bar in cui entrambi lavoreranno. «Lui era più grande — continua la nonna —, pensavamo che sarebbe stato un appoggio. Ma c’era qualcosa di strano. Veniva a casa per il pranzo della domenica ma poi usciva e aspettava in auto. Diceva che andava a fumare. Yana ci rimaneva male ma non diceva nulla. Dall’esperienza della malattia le era rimasto un carattere chiuso. Sopportava come aveva sopportato il dolore perché voleva costruirsi una famiglia». Il sogno di Yana si sgretola mentre Dumitru trascorre le notti in giro con gli amici e, come poi la sorella confermerà, diventando succube della droga. «Yana rimaneva sola in casa con il suo cagnolino Bulka — ricorda la nonna —, poi abbiamo saputo che c’erano state delle liti e delle botte, l’aveva confessato alla mamma».

Quando il rapporto si incrina è proprio la sorella del fidanzato a ospitare la 23enne nell’appartamento sopra il bar. Dopo Natale, Yana rompe la relazione. Dumitru non accetta e, quando viene a sapere che lei ha un nuovo ragazzo, prepara quella che sembra una trappola. Il 19 gennaio tocca a lui tenere Bulka e verso mezzanotte tempesta la 23enne di telefonate dicendole che il cagnolino sta male e se può riportarglielo. Lei acconsente ma quando rientra nell’appartamento, di cui anche Dumitru ha le chiavi, trova che è stata disinserita la telecamera interna. Verso le 2 scrive al nuovo ragazzo che tutto va bene. Alle 4, però, un’altra telecamera riprende Dumitru che esce dall’abitazione trascinando un fagotto. Prima, avrebbe tentato di mettere il corpo di Yana in un trolley, per trasportarlo nei boschi dove verrà ritrovato solo il 1° di febbraio. Lunedì la salma di Yana è stata riconsegnata ai familiari che hanno allestito la camera ardente a Castiglione. A vegliarla il papà e la mamma Tatiana Serbenchuk, arrivata dal Canada, che ieri ha voluto ringraziare i volontari che si sono prodigati nelle ricerche: «Abbiamo l’opportunità di vedere Yana per l’ultima volta solo perché ci avete aiutato tutti». Poi rivolge un appello a chi può «influenzare la condanna di Stratan» chiedendo una pena esemplare: «Il 20 gennaio la mia Yana probabilmente ha salvato la vita a uno dei tuoi figli che potevano imbattersi in Stratan. Forse ha salvato la vita di sua sorella o di sua madre. Una persona con un cuore così crudele avrebbe comunque ucciso. E ora dobbiamo isolare per sempre questo mostro».

Contestualizza la richiesta l’avvocato della famiglia Angelo Lino Murtas, che ieri ha partecipato al sopralluogo del Ris nell’abitazione del delitto: «La convinzione dei genitori è che ci sia stata premeditazione». Oggi pomeriggio la salma arriverà a Romano dove sarà allestita una camera ardente nella chiesa della Grotta e venerdì, alle 9.30, saranno celebrate le esequie nella parrocchiale.

Gli ultimi istanti di Yana Malayko: «Ha smesso di respirare chiusa in un trolley». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 07 Febbraio 2023

L'assassino Dumitru Stratan, ex fidanzato della ragazza, intendeva trasportare il corpo in un'area periferica di Castiglione delle Stiviere all'interno di una valigia

Il completamento dell’autopsia, divisa in due esami tra sabato e domenica, introduce nel delitto di Yana Malayko un ulteriore atroce scenario: la 23enne avrebbe smesso di respirare all’interno di una valigia, dove l’ex fidanzato e suo killer Dumitru Stratan l’aveva posizionata con l’obiettivo di trasportarla nell’area periferica di Castiglione delle Stiviere. Una zona di campi, boschi, canali e pozzi ugualmente raggiunta dall’assassino a bordo della sua Mercedes, ma con il cadavere dentro non un trolley bensì un sacco. Questo perché, secondo le risultanze del medico legale e le ipotesi degli inquirenti, Stratan non era riuscito a chiudere nella valigia Yana, il cui corpo infatti presentava molti e precisi segni da contatto forzato contro gli spigoli. 

Un trolley, per appunto, che risulta esser stato sequestrato dai carabinieri nel trilocale della morte, al quarto piano del condominio multietnico di piazzale della Resistenza, il luogo di residenza di Yana, originaria dell’Ucraina. Lo scenario fin qui raccontato non esclude comunque le precedenti fasi del delitto già cristallizzate, ovvero l’iniziale aggressione con una spranga contro il lato destro del capo e del viso, e uno strangolamento che potrebbe però non esser stato «concluso» dal killer il quale avrebbe poi optato per il trolley, lasciando agonizzare a oltranza la ragazza. Fin dall’arresto, venerdì 20 gennaio (l’omicidio era avvenuto la notte precedente), Stratan, nato in Moldavia, si è avvalso della facoltà di non rispondere, dunque pure evitando, nonostante le disperate suppliche della famiglia di Yana, di aiutare chi cercava il cadavere. Un quadro complessivo che salvo sorprese innescherà una condanna all’ergastolo. 

Yana e Stratan, devastato da piccolo dal trauma di aver scoperto lui il padre che si era impiccato, si erano lasciati a metà dicembre. Il 14 gennaio, il killer aveva minacciato di morte la ragazza se avesse cominciato una relazione con un uomo da entrambi loro conosciuto, spargendo in giro voci su voci affinché, nel caso, venisse subito informato. Come avvenuto per bocca di un ristoratore che aveva avuto i giovani al tavolo e aveva telefonato a Stratan, così gonfiando i suoi piani di vendetta. 

La soffiata dello chef all’assassino di Yana Malayko: «È qui, insieme a un altro uomo». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 06 Febbraio 2023.

Dumitru Stratan aveva chiesto ad amici e conoscenti di mappare i movimenti dell’ex fidanzata. Un ristoratore lo contattò pochi giorni prima del delitto

Da almeno una settimana prima dell’omicidio, Dumitru Stratan aveva sparso voci su voci a Castiglione delle Stiviere affinché amici e conoscenti mappassero i movimenti dell’ex fidanzata Yana Malayko e gli riferissero novità. E se nella cittadina in provincia di Mantova si sapeva che qualcuno aveva preso molto, molto sul serio quell’incarico del futuro killer, se ne ignorava la precisa identità: ecco, è stato un ristoratore, in data 16 gennaio (l’omicidio è avvenuto la notte del 20) ad avere al tavolo Yana con il nuovo compagno Andrei, e — forse perfino compiaciuto con se stesso per la soffiata — ad avvertire Stratan che dunque in quelle esatte ore ha cominciato a ideare il piano assassino. Un piano che, unito alla mancata collaborazione nel fornire il nascondiglio del cadavere, salvo sorprese gli porterà in dono l’ergastolo.

Dopodiché rimangono e rimarranno domande inutili che purtroppo coinvolgono la medesima Yana nonché Andrei: il 14 gennaio, il 33enne Stratan, originario della Moldavia, aveva ordinato alla ragazza, in quel momento al lavoro nel bar «Event coffee», di salire nel suo appartamento per dei chiarimenti. Yana si era rifiutata e Stratan l’aveva minacciata di morte promettendo che se avesse avviato una storia con un altro uomo da entrambi conosciuto, allora lui l’avrebbe ammazzata. Yana ne aveva fatto parola con Andrei ma nessuno dei due aveva scelto di denunciare l’accaduto, certo nella tragica convinzione che Stratan si sarebbe fermato. Yana non aveva confidato nulla al papà Oleksandr con il quale il dialogo era quotidiano e sovente circostanziato; a sua volta Andrei, riflettendoci sopra in solitaria, non aveva reputato di andare dai carabinieri all’oscuro di Yana; ignoravano (si presume) le pressioni di Dumitru la sorella Cristina, 31 anni, titolare di quell’«Event coffee», e la mamma Ana, 52 anni, pur se al corrente del termine a dicembre della relazione e delle conseguenti ossessioni di Dumitru.

Come proseguono le indagini dei carabinieri del Comando provinciale di Mantova, procedono anche quelle dell’avvocato Angelo Lino Murtas che difende la famiglia Malayko (lunedì, dopo aver superato una serie di ostacoli burocratici, dovrebbe arrivare dal Canada la madre); la conclusione dell’inchiesta non dovrebbe richiedere tempi lunghi; difficile soltanto ipotizzare, dinanzi al più che robusto impianto dell’accusa, su cosa possa poggiare la difesa di Stratan, il quale pare non abbia intenzione di mutare l’atteggiamento tenuto dall’esordio in cella: riposa sulla branda, non parla, ma del resto negli interrogatori si è avvalso della facoltà di non rispondere e, come detto, mai ha rivelato la localizzazione del fosso dove giaceva il cadavere, e men che meno concesso dettagli, magari non precisi ma quantomeno utili a orientare le ricerche, faticose, durate tredici giorni nella periferia di Castiglione delle Stiviere, tutta boschi, campi, pozzi, canali, fango. Che nel suo reiterato silenzio vi fosse un ulteriore scopo di vendetta, è uno scenario considerato dagli inquirenti della Procura assai verosimile.

In conseguenza di quella soffiata del ristoratore, Yana e Andrei, che avevano constatato di persona, specie nel tono e nella frequenza delle telefonate di Stratan, la progressiva estensione della sua azione oppressiva, avevano perfino stabilito di uscire per locali e passeggiate lontano da Castiglione delle Stiviere, sia mai ulteriori informatori comunicassero dritte. E mentre loro modificavano le proprie esistenze, il killer aumentava il ricorso a birre e super alcolici che ne amplificavano la rabbia e accrescevano i fantasmi. 

La giovane 23enne scomparsa nel Mantovano. Yana Malayko, corpo ritrovato in un sacco sotto una catasta di legno: l’omicidio 12 giorni fa, in carcere l’ex fidanzato. Redazione su Il Riformista l’1 Febbraio 2023

Ritrovato in un sacco, gettato in un campo nascosto sotto a una catasta di legno tra i rovi, il cadavere di Yana Malayko, la 23enne di origine ucraina scomparsa la notte del 20 gennaio scorso a Castiglione dello Stiviere, in provincia di Mantova, uccisa nella sua abitazione dall’ex fidanzato, Dumitru Stradan, 33enne di origini moldave, e poi ‘scaricata’ nei campi agricoli poco distanti. La scoperta è avvenuta nel primo pomeriggio, poco dopo le 15, del primo febbraio, oltre 11 giorni dopo la sparizione, tra Castiglione e Lonato, in una zona al confine tra la provincia di Mantova e di Brescia, dove da giorni si erano concentrate le ricerche nonostante il silenzio del killer, con cui aveva avuto una relazione terminata poche settimane prima.

A trovare il corpo della 23enne, originaria di Cernivci, sono stati i carabinieri durante una battuta insieme ad alcuni dei volontari impegnati nelle ricerche. Sul posto anche il procuratore di Mantova Manuela Fasolato. Per l’ex fidanzato,  in carcere già nelle ore successive alla scomparsa di Yana, l’accusa è ora di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e dall’essere stato legato alla vittima da una relazione sentimentale, oltre che di occultamento di cadavere.

Per la precisione, il cadavere è stato ritrovato alle 15.15 a Castiglione delle Stiviere, in via del Benaco, nei pressi di una centrale elettrica, sotto una catasta di legna. Sul luogo sono in corso le operazioni di polizia scientifica per i primi rilievi. Al termine il corpo sarà portato via per gli altri accertamenti tecnici e l’autopsia.

Da venerdì 20 gennaio, il giorno dell’arresto, Dumitru Stratan ha taciuto con carabinieri e magistrati, sdraiato giorno e notte sul letto della cella nel carcere di Mantova. Ma già ore prima avrebbe confessato alla sorella Cristina l’uccisione, avvenuta – a quanto sembra – tra le 2.30 e le 5 della notte precedente, forse armato di un coltello: “Ho ammazzato Yana come lei ha ammazzato me”.

“Yana mi faceva le corna, è una traditrice. E non poteva mettersi con uno della nostra compagnia”, avrebbe detto il presunto assassino riferendosi al ragazzo con il quale Yana aveva una relazione. Appena a dicembre Yana Malayko aveva troncato i rapporti con Dumitru.

Nella serata di giovedì 19 gennaio Yana e l’attuale compagno avevano cenato in un ristorante a Lonato del Garda per poi trasferirsi nell’abitazione di lui. A mezzanotte aveva iniziato a ricevere telefonate e messaggi da Stratan. A detta del 33enne il cane, di nome Bulka, che avevano comprato insieme, stava male, e l’uomo aveva chiesto il suo aiuto affinché lei lo assistesse. Yana aveva acconsentito, annunciandogli che sarebbe rincasata per attenderlo al quarto piano del condominio di piazzale della Resistenza, nel bilocale dove viveva e dove è stata uccisa dall’ex.

La sorella del killer di Yana Malayko: «Le volevamo bene. Un sollievo aver ritrovato il corpo». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 4 Febbraio 2023.

Cristina, sorella di Dumitru Stratan, faceva lavorare la vittima nel proprio bar. È stata lei a ricevere la confessione del fratello e a chiamare i carabinieri

L’appartamento della morte, l’alloggio numero 15 al quarto piano del condominio di piazzale della Resistenza, è di proprietà di Cristina Stratan, 31enne sorella del killer Dumitru. Qui viveva Yana, l’ex fidanzata uccisa venerdì 20 gennaio tra le 2.30 e le 5: Cristina, che la faceva lavorare come cameriera nel proprio bar, l’«Event coffee» al medesimo indirizzo, alla base del palazzo nella cittadina di Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova, le aveva lasciato il trilocale dopo la fine a dicembre della relazione con il 33enne Dumitru. «Le volevamo bene. L’amavamo» ripete in queste ore Cristina alle (molte) persone che le sono vicine, aggiungendo: «Il fatto che il suo corpo sia stato ritrovato è un sollievo». Dopodiché, in linea con il massimo riserbo adottato da subito, in una situazione più che tragica (aveva ricevuto lei la confessione da parte del fratello; era stata lei a chiamare i carabinieri per arrestarlo), Cristina null’altro ha detto pregando di rispettare la scelta del silenzio.

Con quella sua ospitalità nell’appartamento, Cristina voleva forse in aggiunta proteggere dal fratello Yana, sul cui cadavere sabato mattina verrà eseguita l’autopsia che potrebbe confermare la strenua opposizione contro il killer; se non risultano agli atti interventi delle forze dell’ordine per litigi e violenze durante la storia tra Yana e Dumitru, e se parimenti mancano denunce della ragazza, originaria dell’Ucraina, non significa che l’assassino non avesse già aggredito l’ex fidanzata. Infatti l’ultimo suo compagno, Andrei, a verbale ha ricordato che «Yana mi riferiva che Dumitru l’aveva minacciata, affermando che se avesse intrattenuto una relazione con un uomo da loro due conosciuto, allora l’avrebbe uccisa; in più, in almeno due circostanze le aveva messo le mani addosso».

La sera di giovedì 19, preludio del delitto, c’era Andrei con Yana: avevano cenato, quindi si erano trasferiti nell’abitazione del giovane, che abita sempre in provincia di Mantova ed è dipendente di un’azienda agricola; con una serie di telefonate e di sms, Dumitru, arrivato dalla Moldavia a Castiglione delle Stiviere con la stessa Cristina e la mamma Ana, 52 anni, le aveva spiegato che il cane di nome Bulka stava male. Quand’erano insieme, avevano comprato l’animale; con la separazione, lo tenevano a turno, anche se sembra che nonostante di recente fosse contrario ad averlo in custodia, Dumitru avesse insistito ad accudirlo: forse il suo piano omicida ha origini lontane nel tempo, ché già aveva ideato l’utilizzo del cane come trappola. Yana aveva acconsentito a rincasare per ricevere il killer, lasciando andare Andrei («Cerca di dormire, tesoro»); nell’alloggio, servendosi di un’arma che s’era portato o ha trovato sul posto, magari in cucina, Dumitru ha ammazzato a coltellate Yana, che sarebbe stata anche strangolata.

Macchie di sangue sono state isolate dai carabinieri sulla maniglia della porta della camera e sul materasso. Stratan aveva posizionato il cadavere in un sacco, poi trasferito sulla sua Mercedes; aveva guidato fino alla periferia in una zona di boschi e canali, abbandonando il corpo sul retro di un vivaio e coprendolo con legna e foglie.

Interrogato due volte, si è avvalso della facoltà di non rispondere, pertanto rifiutando di rivelare il punto del nascondiglio nonostante gli appelli di Oleksandr, il papà di Yana che sabato sera a Castiglione delle Stiviere ringrazierà le forze dell’ordine, i vigili del fuoco, la protezione civile, i volontari che per tredici giorni hanno cercato il cadavere. Tra lunedì e martedì i funerali a Romano di Lombardia, primo luogo dell’emigrazione in Italia della famiglia Malayko.

Il padre di Yana Malayko, uccisa dall'ex: «Lui l’ha colpita, quella notte, e lei ha reagito fino a quando ha potuto». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 2 febbraio 2023.

La disperazione del 45enne che ha perso l'unica figlia: «Mi parlava di quel ragazzo, lui non mi piaceva perché non lavorava, beveva e basta. Non ha voluto dirci dove l'aveva nascosta»

«Le chiedo perdono per il mio italiano, che non è ottimo, cerchi di scusarmi, davvero. Per il resto... Per il resto ascolti: non esiste, io credo, papà al mondo che non avrebbe pensato, forse contro ogni logica possibile, contro ogni parere, contro tutto e tutti, a Yana ancora viva... Forse, mi dicevo il giorno e la notte, quel ragazzo l’avrà nascosta da qualche parte... Forse, mi ripetevo mentre camminavo nei campi e nei boschi insieme alle persone che la cercavano, adesso quel ragazzo si decide a dirci dove l’ha messa, magari in un capanno, magari in una cascina abbandonata, magari in una casa vuota, e noi andiamo a liberarla...».

Oleksandr Malayko, 45 anni, lavora nel settore della sicurezza privata; è il padre di Yana; ha scelto come avvocato Angelo Lino Murtas, già poliziotto con incarichi a Milano.

Signor Oleksandr, sua figlia le aveva parlato di Dumitru Stratan?

«Certo, ci sentivamo, abito in Toscana, stavamo molto al telefono: cose ovvie, cose normalissime di ogni famiglia. Mi aveva informato, era la fine di dicembre, che la sua relazione stava terminando. Yana aveva dato del tempo a Dumitru affinché cambiasse, ma lui non era cambiato per nulla. Non faticava, dormiva e basta, beveva e basta, usciva con gli amici e rientrava all’alba sempre ubriaco... Questo sì, lo sapevo, ma senza ulteriori particolari: Yana era come me, una persona pratica, che non tende a lamentarsi, a piangersi addosso, e che piuttosto guarda al futuro. Ero convinto che quella storia si sarebbe conclusa... Dai racconti che avevo ascoltato, quel ragazzo non mi piaceva, ma appunto era ormai una storia del passato. Avevo domandato a Yana se c’erano state delle violenze, se c’erano stati dei comportamenti persecutori, ma cambiava presto discorso, anche per non farmi preoccupare, per proteggermi».

Quali erano i progetti di Yana?

«Intanto era intenzionata a fermarsi a Castiglione delle Stiviere. Si trovava bene: accolta, aiutata dalla gente del posto. Con fatica, qualche soldo da quando sono in Italia l’ho messo da parte: così avevamo individuato una casa da comprare, c’erano stati i primi incontri, le carte erano a posto, Yana era pronta a costruirsi la sua esistenza. Anche a farsi una famiglia: quand’è nata, io avevo 22 anni. Oggi, alla mia età, in Italia ti considerano ancora giovane, mentre in Ucraina, vista la storica età media, sei già considerato un vecchio».

Di questo Dumitru Stratan, il killer, lei...

«Ho pregato fin dalle prime ore che rivelasse, almeno, il punto del nascondiglio. Almeno quello. Per darmi la possibilità di rivedere mia figlia, e se davvero era morta, di avere un corpo da piangere».

Perché lui è rimasto zitto?

«Non ne ho idea. Di sicuro, in carcere, sarà stato al corrente di quello che succedeva fuori, dei disperati tentativi dei carabinieri, dei vigili del fuoco, della protezione civile, dei volontari, e anche miei e dell’avvocato, di ritrovare Yana... Abbiamo percorso chilometri, in quelle campagne. Chilometri, le giuro».

Ha altri figli?

«Yana era figlia unica. Le ho trasmesso i valori veri, ovvero il rispetto delle regole e del prossimo, il culto del lavoro, il ringraziamento a Dio per le mille fortune di ogni giorno. E insieme a tutto questo, la decisione, la capacità di difendersi dinanzi ai pericoli. Lui l’ha colpita, quella notte, e Yana ha reagito fino a quando ha potuto, come ha potuto. Ora il killer paghi la maggior pena possibile».  

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Mantova, la testimonianza del compagno della 23enne ucraina scomparsa dopo l'incontro con il suo ex Dumitru: lui le aveva detto che poteva geo-localizzarle il cellulare. L’appello dei familiari: aiutateci a trovare il corpo

A parlare è Andrei, il fidanzato di Yana. «Dumitru non accettava la fine della relazione. Una sera aveva detto a Yana di essere profondamente deluso, e che se fosse uscita con un ragazzo che lui conosceva, l’avrebbe uccisa. Yana era sicura che la seguisse. Dumitru le aveva detto che poteva geo-localizzarle il cellulare, per scoprire ogni suo movimento, e infatti vedevo Yana che spegneva e riaccendeva il telefonino nella speranza di eludere il controllo».

Ma non era mai successo, fin da quando a dicembre era terminato il rapporto tra Yana Malayko, 23 anni, uccisa nella notte di venerdì e il cui corpo non si trova, e Dumitru Stratan, di dieci anni maggiore, che in carcere non muta la scelta, forse così consigliato dall’avvocato Andrea Pongiluppi, che peraltro con insistenza rifiuta di risponderci: nessuna indicazione su dove sia il cadavere, amplificando l’indicibile strazio della famiglia che supplica l’intera cittadina di Castiglione delle Stiviere di aiutare nelle ricerche nell’area periferica di via Albana, tutta boschi, campi, pozzi, canali, sterpaglie; basta camminarci per smarrire presto l’orientamento, appurare l’infinità di possibili nascondigli, farsi assalire dallo sconforto; qui s’aggira, infangato, il papà della ragazza, in disperata missione.

Fra le deposizioni assunte dalla Procura retta da Manuela Fasolato, e che il Corriere ha visionato, quella di Andrei, che abita in provincia di Mantova e lavora in un’azienda agricola, è la più determinante: era con Yana giovedì, prima a cena quindi sotto il suo condominio, nel parcheggio in piazzale della Resistenza; Yana, di origini ucraine, era stata sollecitata con plurime chiamate dal killer a rincasare affinché prendesse in consegna il cane di nome Bulka, che aveva comprato insieme allo stesso Dumitru, spiegando che stava male. Una trappola. Stratan voleva che Yana fosse da sola nel trilocale al quarto piano, per ucciderla. 

Ed è inevitabile, racconta chi è stato con Andrei, il progressivo suo tormento da quella sera. «Avrei dovuto salire e portarla via», ha ripetuto e ripete. Del resto, una volta nell’appartamento, Yana gli aveva inviato un messaggio per comunicare che in precedenza Dumitru era entrato di nascosto (aveva una copia delle chiavi) per disattivare la telecamera. In passato era stata un’azione di disturbo, un ulteriore strumento per farle sentire la sua perenne, oppressiva presenza, per minarne la quotidianità. Questa volta la mossa è stata una delle azioni nella pianificazione del delitto. Ma Yana era decisa a fare uscire Dumitru dalla propria esistenza. In modo definitivo. Le 2.28: «Deve accettare il fatto. Basta. Non per me, ma per sé». Andrei: «Ma non è una persona ragionevole, inutile insistere». E Yana: «Cerca di dormire tesoro». Le ultime sue parole. Il delitto, avvenuto forse con un coltello, è datato tra le 2.30 e le 5, l’orario dell’uscita di Stratan, ripreso da una seconda telecamera, questa non scollegata e installata sul ballatoio, mentre trascinava un sacco. Dentro, il corpo della ragazza.

Ancora Andrei: «Yana mi aveva detto che Dumitru era arrivato, e che il cane stava bene. Mi aveva rassicurato». Gli investigatori avevano finora escluso pregresse violenze. Sia per l’assenza di chiamate alle forze dell’ordine e di denunce, sia per conferma della medesima Yana ai genitori. Eppure «ai tempi in cui erano stati fidanzati, per due volte Dumitru le aveva alzato le mani addosso». Prima di ucciderla, e lo sappiamo sempre grazie all’ultima chat, «le aveva domandato se non si vergognasse ad avere un compagno diverso da lui».

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Delitto di Mantova, secondo interrogatorio per il 33enne. Cristina Stratan: «Si oppose a ogni aiuto, compreso un trasferimento in comunità»

La sorella del killer, Cristina Stratan, 31 anni, titolare del bar «Event Coffee» dove la vittima lavorava come cameriera, ha messo a verbale che il fratello Dumitru si drogava ma aveva sempre rifiutato ogni tipo di aiuto, compreso un trasferimento in comunità, e parimenti, siccome sempre secondo la donna soffriva di problemi psichici, si era opposto a visite dai medici fin da quando, da adolescente, aveva scoperto il suicidio dell’amato papà, una ferita mai rimarginata, anzi aggravatasi nel tempo. Dopodiché lui, Dumitru, 33 anni, ha taciuto anche nel secondo interrogatorio. 

L’impianto dell’accusa è più che solido, basandosi su fonti di prova perfino già oggettive, e di conseguenza le possibilità di fornire valide spiegazioni difensive sono quasi nulle, se non nulle del tutto (l’imputato rischia l’ergastolo). I reiterati silenzi di Dumitru, originario di Raciula, un paese moldavo di duemila abitanti, ancora impediscono, una settimana dopo l’omicidio a Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, di scoprire in quale punto abbia occultato il cadavere dell’ex fidanzata Yana Malayko, che è stata uccisa tra le 2.30 e le 5 della notte di venerdì 20 gennaio. S’ignora poi se l’avvalersi della facoltà di non rispondere sia una decisione spontanea oppure un consiglio dell’avvocato mantovano Andrea Pongiluppi, e nel caso pensato per quale obiettivo ultimo, a maggior ragione dinanzi alle suppliche dei genitori di Yana affinché il killer si decida, quantomeno, a rivelare il nascondiglio; s’ignora se Dumitru non collabori coscientemente per punire ancora di più la stessa vittima, 23enne nata a Cernivci, città ucraina verso il confine con la Romania, oppure se sia assente da se stesso, come invece proprio non sembrerebbe. Una detenzione diciamo non morbida, era convinzione degli inquirenti, avrebbe dovuto spingerlo, dopo qualche giorno, ad arrendersi. 

Ma così non è stato, e carabinieri, Protezione civile e vigili del fuoco hanno insistito a battere la periferia di via Albana, tutta una zona di estesi campi, fitti boschi, pozzi, canali d’acqua, torbiere, fanghiglia, sterpaglie. Plurimi ricorsi ai cani molecolari, capaci di missioni impossibili, non hanno modificato lo scenario. E al di là della retorica, è evidente che, prima o poi, anche in considerazione dei costi, le ricerche si interromperanno in forma definitiva. Il corpo di Yana, uccisa, forse a coltellate, nel suo appartamento in piazzale della Resistenza, al quarto piano, non c’è. Un’unica persona, ovvero Dumitru, può svelare il mistero, ed evitare l’ulteriore strazio di mamma e papà della ragazza, che non hanno neanche un cadavere da seppellire, e che implorano chiunque, risieda a Castiglione delle Stiviere o altrove non fa differenza, ad aiutare nelle ricerche. Dumitru beveva alcolici, beveva tantissimo; e come abbiamo detto, secondo la sorella Cristina si drogava. Ma in quella notte di morte, stando a quanto finora comunicato dalla Procura di Mantova, sarebbe stato pienamente lucido. Del resto, a leggere le «carte» dell’inchiesta, risulta che abbia preparato l’omicidio ideando una trappola. Mentre Yana era a cena con il fidanzato Andrei (una relazione recente e successiva a quella con Dumitru), il killer, intorno alla mezzanotte di giovedì 19 gennaio, aveva cominciato a telefonarle e scrivere messaggi sul telefonino per annunciare che il cane di nome Bulka, che avevano comprato insieme e che tenevano a turno, stava male. 

La ragazza aveva acconsentito a ricevere una visita del killer, in modo tale che le lasciasse l’animale. Il fatto che, appena entrata nel trilocale, avesse scoperto che la telecamera interna era stata scollegata dall’alimentazione, l’aveva preoccupata. O forse no. Nella sua azione maniacale e persecutoria, composta da pedinamenti e «segnali» della propria presenza dalla conclusione del rapporto, a dicembre, Dumitru era infatti solito entrare di nascosto nell’abitazione (aveva la copia delle chiavi) e appunto disattivare l’impianto di videosorveglianza. Quella sera, però, era una delle basi del piano assassino, affinché la telecamera non riprendesse l’omicidio.

Castiglione delle Stiviere, il corpo di Yana sparito nel nulla: l'ex fidanzato ripreso mentre carica un sacco in auto. Giovanni Bernardi su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2023.

Setacciata un'area di campagna innevata. La ragazza ucraina, 23 anni, scomparsa da giovedì sera. Sarebbe stata uccisa a coltellate dopo una lite con l'ex. L'uomo arrestato con l'accusa di omicidio e occultamento di cadavere

L’hanno cercata per tutta la serata di venerdì e tutta la giornata di ieri, nelle campagne ancora innevate di Castiglione delle Stiviere sul confine con Lonato nel Garda. Del corpo della 23enne ucraina Yana Malayko, però, non c’è traccia. L’ipotesi sulla quale i carabinieri stanno lavorando è che la ragazza sia stata uccisa dal suo ex, il 33enne moldavo Dumitru Stratan, che, in stato di arresto, è stato condotto nel carcere di Mantova, gravato dalle pesantissime accuse di omicidio volontario premeditato e occultamento di cadavere.

Una storia dalle tinte fosche che si sarebbe sviluppata nel corso degli ultimi mesi e che avrebbe visto il culmine giovedì sera, ovvero da quando di Yana non si sono più avute notizie. Dietro la vicenda, quella che appare come una storia di gelosia da parte del 33enne, mai rassegnato alla fine della relazione con la giovane ucraina né tantomeno all’idea che da qualche tempo la 23enne avesse iniziato a frequentare un’altra persona.

Yana e Dima, come viene chiamato dai conoscenti, si erano conosciuti all’arrivo di lei a Castiglione, quando la giovane aveva iniziato a lavorare al bar Event Coffee, che si trova sotto al grattacielo di piazzale Resistenza ed è gestito dalla sorella del giovane moldavo. Tra i due era nato un legame sentimentale che poi Yana aveva deciso di interrompere proprio a causa degli atteggiamenti possessivi di lui. Non dandosi per vinto, il 33enne, che saltuariamente dava una mano nel bar alla sorella, avrebbe però insistito nel tentativo di ricucire il rapporto, ma invano. Tentativi falliti che non avrebbero fatto altro che incrementare la sua ingiustificata rabbia. 

Fino a quello che, in questa storia ancora avvolta da molti misteri, appare come l’epilogo avvenuto giovedì sera. In un appartamento nella disponibilità del giovane, situato nel grattacielo sopra al bar, forse al culmine di un ennesimo litigio scoppiato tra i due ex fidanzati, si sarebbe consumato il delitto: la 23enne sarebbe stata uccisa a colpi di coltello, ma su tale modalità per il momento gli inquirenti non si sono sbilanciati. Anche perché si tratta di un dettaglio difficile da stabilire almeno fino a quando il corpo della giovane non sarà stata trovata.

A corroborare l’ipotesi dell’omicidio, che ha portato all’arresto del ragazzo, il fatto che quest’ultimo sarebbe stato inquadrato dalle telecamere della zona mentre nella serata di giovedì usciva dal palazzo portando con sé un ingombrante sacco: l’ipotesi è che al suo interno fosse avvolto il corpo della giovane ucraina.

Non riuscendo a contattarla in alcuni modo, a lanciare l’allarme per la scomparsa è stato infatti un parente di Yana: in breve tempo i carabinieri hanno preso visione degli occhi elettronici che avrebbero appunto inquadrato Stratan nell’atto di caricare il pesante sacco sulla sua automobile. La targa del veicolo inserita nel sistema di sorveglianza comunale e le celle del suo cellulare, hanno poi portato le forze dell’ordine fino nelle campagne in località Valle, dove da subito si sono concentrate le ricerche di carabinieri, Protezione civile e vigili del fuoco (ieri sono arrivati anche i sommozzatori e un elicottero da Milano). Dell’arma del delitto e del corpo della giovane, però, non c’è traccia.

La 23enne, definita una «gran lavoratrice», viene anche descritta come una bravissima ragazza e nei pressi del bar, ieri rimasto chiuso, nessuno ha realmente voglia di parlare, con la consapevolezza che la giovane potrebbe essere rimasta schiacciata da una relazione finita in un dramma.

Yana Malayko, sparita a Castiglione delle Stiviere: la lite, l’auto, il sacco nero. Giovanni Bernardi su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2023.

La ragazza 23enne, di origini ucraine, è stata vista l’ultima volta giovedì sera a Castiglione delle Stiviere. I video dell’auto dell’uomo in campagna

È lo scorso giovedì notte, fa freddo. Ovunque c’è la neve abbondante caduta il giorno prima. Nessuno in giro. Tranne una persona: un uomo — 33 anni, Dumitru Stratan, moldavo — che, ripreso da alcune telecamere di sorveglianza di Castiglione delle Stiviere, nel Mantovano, non lontano dal Garda, esce di casa trascinando un grosso sacco della spazzatura. Non senza fatica, lo carica nel bagagliaio dell’auto. Pochi istanti e il veicolo viene messo in moto. Poi Stratan si dirige in campagna.

Ventiquattr’ore dopo questa scena, venerdì, i carabinieri lo hanno arrestato per omicidio volontario e premeditato e occultamento di cadavere. Grava su di lui il sospetto che dentro quel sacco vi fosse il corpo senza vita di Yana Malayko, una ragazza ucraina di 23 anni.

Forze dell’ordine, vigili del fuoco e protezione civile, dopo la segnalazione della sparizione giunta venerdì da un familiare della ragazza, l’hanno cercata ovunque — anche con dei droni — sino a domenica mattina. Si riprenderà lunedì.

Nel frattempo però le indagini hanno messo subito nel mirino quel moldavo, incensurato, che lavorava saltuariamente al bar Event Coffee, sempre a Castiglione, di proprietà di sua sorella.

Nel locale era impiegata anche Yana e i due, dopo aver avviato la loro storia qualche anno fa, si erano stabiliti in un appartamento al piano sopra al bar. Ma finito l’amore qualche mese fa — sembra a causa delle continue scenate di Stratan — Yana, a Castiglione descritta come una brava ragazza, ha lasciato casa per trasferirsi nell’alloggio della titolare del bar che aveva deciso di ospitarla forse anche per proteggerla dallo stesso fratello.

Gli investigatori hanno puntato dritto sulle telecamere della zona che avrebbero ripreso Stratan uscire di casa e poi allontanarsi verso la campagna dopo aver caricato in auto quel sacco di cui ancora nessuno conosce il contenuto.

I carabinieri, intanto, hanno accertato che Stratan sarebbe rimasto impantanato con l’auto nel fango di una strada sterrata in campagna. Solamente un agricoltore del posto, aiutandolo con un trattore e nonostante l’ora tarda, è riuscito a far ripartire, trainandola, la vettura, che però poi, inspiegabilmente, è stata abbandonata tra i campi dove è stata successivamente trovata dai carabinieri.

Altri testimoni avrebbero visto Stratan nei pressi di un laghetto, scandagliato dai sommozzatori, situato in una torbiera attorniata da una fitta vegetazione. Spostamenti ricostruiti anche verificando il cellulare dell’uomo, agganciato alle celle della zona, in possesso degli inquirenti.

Nella ricostruzione restano alcune ore di blackout. Giovedì sera un conoscente aveva incrociato Yana mentre era intenta a chiudere il bar. Poi la giovane avrebbe incontrato l’ex, non è chiaro se a casa di lui o della sorella. Da questo momento in poi però dall’inchiesta non filtra più nulla.

L’ipotesi è che ci sia stata una furiosa lite tra i due ex fidanzati, forse sarebbe stato usato un coltello ma dagli investigatori non arrivano conferme. Rinchiuso nel carcere di Mantova, Stratan per ora non parla. Le ricerche di Yana riprenderanno anche con unità cinofile. L’idea degli investigatori sarebbe quella di estendere l’area da perlustrare. Ed è possibile che i sommozzatori del 115, giunti da Milano, tornino al laghetto.

Yana Malayko, la telefonata della sorella che ha fatto arrestare Dumitru: «Lei è sparita, c'è del sangue». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 24 Gennaio 2023.

Dumitru Stratan ha fatto due telefonate, a un amico e alla sorella Cristina, per confessare l’omicidio dell’ex fidanzata Yana Malayko. Arrestato, si è chiuso nel silenzio. Il corpo non si trova

Silente in caserma, silente in carcere, silente nell’interrogatorio di garanzia, Dumitru Stratan ha parlato per l’ultima volta venerdì. Due telefonate, a un amico e alla sorella Cristina, entrambe per confessare l’omicidio dell’ex fidanzata Yana Malayko, uccisa la notte precedente, forse con un coltello. Cristina era corsa nell’appartamento della ragazza a Castiglione delle Stiviere (Mantova), nel palazzo sopra il bar «Event coffee» del quale è proprietaria: «Ho visto sangue, sangue ovunque, e Yana non c’era». Senza bisogno di ragionare per ipotesi oppure senza coprire il fratello magari innescandone la fuga, con una successiva chiamata ai carabinieri Cristina l’aveva di fatto consegnato.

Dumitru riposava nel soggiorno di casa, convinto che la sorella avrebbe taciuto. O forse sicuro d’esser «protetto» dall’assenza del cadavere, che infatti non si trova da quattro giorni: rimane certa la localizzazione, in via Albana, periferia della cittadina, un’area di campi, boschi, pozzi, rogge e un lago. La Procura è convinta che il delitto sia stata opera esclusiva, e in solitaria, di questo 33enne che non accettava la fine della relazione con Yana, ucraina di Cernivci, al confine con la Romania. 

I carabinieri hanno ricostruito i movimenti di Stratan, la cui famiglia viene dal distretto di Calarasi, in Moldavia: una telecamera di videosorveglianza lo ha ripreso uscire guardingo dal condominio di Yana portando sulle spalle un voluminoso sacco, al cui interno, è lecito ipotizzare, giaceva il corpo senza vita della ragazza; le celle agganciate dal telefonino lo hanno collocato proprio nell’area di via Albana; qui un residente lo ha aiutato a spingere fuori la macchina, una Mercedes, dal pantano nel quale si era bloccata; ulteriori filmati delle telecamere lo hanno registrato mentre attraversava in auto Castiglione delle Stiviere dalla residenza di Yana in piazza della Repubblica alla periferia del nascondiglio; anche sulla Mercedes sono state isolate ampie macchie ematiche appartenenti con probabilità a Yana, il cui papà implora l’assassino di rivelare il punto del cadavere, che forse è stato sotterrato; dei conoscenti hanno ripetuto la rabbiosa ossessione di Dumitru per una relazione «impossibile» da riavviare stante la decisione di Yana.

Sotto sequestro la geografia dell’inchiesta, dal bar, dove la vittima lavorava come cameriera, all’appartamento fino al cellulare anche di Cristina, adesso protetta con tenacia dalla comunità moldava. E però filtrano l’amore verso la vittima accolta in famiglia («Una dolcissima seconda figlia» dice Ana, mamma di Dumitru e Cristina), lo strazio per l’incapacità di non averne evitato l’uccisione, il dolore per l’eterno trascinarsi (e il tragico epilogo) di un uomo di 33 anni che insisteva nel comportarsi da ragazzino, abituato com’era Dumitru a dormire a oltranza e chiedere soldi ai parenti per bere nei locali.

Delle quote societarie dell’«Event coffee», l’orgoglio d’una faticosa esistenza da migranti, e diviso tra madre e sorella, non una, per appunto, gli era stata assegnata.

Yana, 23 anni, scomparsa da giovedì. Arrestato per l'omicidio il fidanzato. Si cerca il corpo: al setaccio un lago di Castiglione delle Stiviere. Antonio Borrelli il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Brescia. Le ricerche del corpo di Yana Maliko si sono concentrate in un laghetto naturale fuori al centro abitato di Castiglione delle Stiviere, comune del Mantovano ma a pochi chilometri dal confine con Lonato del Garda, nel Bresciano. Una zona impervia, periferica, lontana da occhi indiscreti. Per il momento, però, le operazioni di carabinieri e dei vigili del fuoco non hanno portato ad alcun risultato. Quel che è certo è che della 23enne ucraina, che lavora come barista in un locale di Castiglione delle Stiviere, si sono perse le tracce da giovedì.

Già poche ore dopo la scomparsa, viene lanciato l'allarme e la macchina delle ricerche è subito attivata. Poi nella notte di venerdì la svolta: i carabinieri arrestano un 33enne moldavo residente nella stessa cittadina. Le accuse per lui, che ora si trova nel carcere di Mantova a disposizione dell'Autorità Giudiziaria, sono pesantissime: omicidio della sua ex fidanzata e occultamento di cadavere. Ancora non è chiaro dove sia avvenuto il delitto né se ne conoscono le modalità: secondo indiscrezioni, non confermate dalle forze dell'ordine, il delitto sarebbe stato commesso con un coltello o con un'arma affilata in un appartamento della stessa Castiglione delle Stiviere.

Ad occuparsi del caso, coordinati dalla Procura di Mantova, sono i carabinieri del Reparto investigativo di Mantova con l'aiuto dei colleghi della Compagnia di Castiglione delle Stiviere: non si conoscono ancora dettagli ma l'uomo è già accusato di omicidio volontario premeditato. I militari sembrano sicuri di riuscire presto a trovare il cadavere e così le approfondite ricerche sono iniziate nella zona di via Albana, fuori dal centro abitato verso il Bresciano: si tratta di un'area ricca di vegetazione e anche per questo le operazioni si stanno rivelando non così semplici. Le telecamere della zona - secondo quanto riferisce la Gazzetta di Mantova - hanno individuato i movimenti dell'auto dell'ex fidanzato proprio in quella zona.

Intanto la comunità ucraina di Mantova e di Brescia, particolarmente attiva e presente nelle due province, ha già lanciato un accorato appello: «Aiutateci a trovare Yana», recitano diversi messaggi che scorrono sui social. In tanti, però, pensano al peggio proprio come gli inquirenti. Se la tesi degli investigatori fosse confermata e venisse effettivamente trovato il cadavere della ragazza di 23 anni, si tratterebbe del quinto femminicidio perpetrato in Italia nei primi 20 giorni dell'anno: Giulia Donato a Pontedecimo di Genova il 4 gennaio, Martina Scialdone a Tuscolano di Roma il 13, Oriana Brunelli a Bellaria Igea Marina il giorno successivo e 24 ore dopo Teresa Di Tondo a Trani. Un tragico e inesorabile elenco che si ripropone nella sua drammaticità ogni anno e che disegna la geografia di tutto il Paese, senza differenze tra Nord e Sud: nel 2022 le donne vittime della violenza maschile sono state 58, una ogni 6 giorni. Un fenomeno culturale e sociale in costante crescita che lo confermano le continue cronache pare ad oggi sempre più complesso arginare.

Yana Malayko, Dumitru Stratan aveva nascosto una vanga nella sua auto. Si cerca il complice. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.

Castiglione delle Stiviere, Stratan si lamentava per l'«ingratitudine» della fidanzata. «Mi devi tutto», diceva. Acquisiti nuovi filmati dalle telecamere

Sangue e una piccola vanga sulla Mercedes di Dumitru Stratan, il killer che tace avendo condiviso la strategia difensiva: il silenzio a oltranza in relazione all’assenza del cadavere. Quella vanga, appunto di ridotte dimensioni e pertanto di un impatto contenuto, non avrebbe permesso di scavare una fossa per seppellire l’ex fidanzata Yana Malayko, uccisa tra le 2 e le 5 della notte di venerdì, e il cui corpo, nascosto nella periferica via Albana in un’area di campi, boschi, pozzi, torbiere e un lago, ancora non si trova, al quinto giorno ormai di ricerche con la partecipazione del papà della vittima, che supplica l’omicida di rivelare l’esatta localizzazione.

Lui, Dumitru, come riposava tranquillo sul divano dopo il delitto, così dorme in cella; nell’interrogatorio di garanzia si è avvalso della facoltà di non rispondere e il legale Andrea Pongiluppi poggia sull’esclusione di premeditazione. Ma la Procura di Mantova ragiona sull’ipotesi opposta, al netto dell’abituale scelta di non informare la stampa ordinando poi ai carabinieri di comportarsi allo stesso modo, e di fatto perfino impedendo le domande, comprese quelle argomentate e con fondamento.

Di tre settimane fa l’annuncio di Yana, ucraina di Cernivci, assassinata nel suo appartamento a Castiglione delle Stiviere, d’interrompere la relazione, stanca com’era delle perpetue ubriacature di Stratan, emigrato con mamma Ana e sorella Cristina dalla Moldavia, e qui noto per l’inesistente voglia di lavorare. Difatti a 33 anni lo mantenevano i familiari, i quali comunque non si fidavano altrimenti Ana e Cristina, di 52 e 31 anni, non si sarebbero tenute la totalità delle quote del bar «Event coffee» che sorge alla base del condominio dell’omicidio. 

Omicidio consumato da Dumitru da solo a differenza, forse, delle azioni per liberarsi del cadavere. Con l’acquisizione di nuovi filmati delle telecamere e la stesura di una nuova ipotetica geografia percorsa in direzione di via Albana, gli investigatori esplorano la possibilità di un complice, reclutato all’indirizzo di residenza, senza telefonate anticipatorie. Il che non toglie l’orientamento già menzionato: che non ci sia stata sepoltura. Lo scenario non sarebbe stato «consentito» dai movimenti di Stratan attraverso le celle agganciate dal cellulare, poiché sarebbero serviti molti più minuti rispetto all’effettiva sua sosta nella zona.

A inizio anno Yana aveva dunque detto all’ex di riflettere e comunicarle cosa davvero volesse fare nella vita; Dumitru, preparando l’incontro di venerdì con messaggi sul telefonino che, ci viene garantito, non sarebbero stati «bellicosi né in qualche modo un annuncio della tragedia», era salito al quarto piano per entrare nell’abitazione di Yana. E l’aveva ammazzata. Come sulla Mercedes, non si era curato di pulire le macchie di sangue su pavimento, muri, arredo; aveva, questo sì, portato via l’arma, forse un coltello, insieme al medesimo corpo, all’interno di un sacco nero. Era abitudine del killer lamentarsi della «ingratitudine» della fidanzata. Proprio lei, ripeteva, che grazie a me ha trovato un appartamento? Proprio lei che, grazie a me, fa la cameriera nel bar di mia sorella?

Il padre di Yana ripete di non aver mai sentito racconti pregressi di violenze, e al contempo di paure della ragazza. La famiglia del killer coltivava però preoccupazioni. Cristina aveva spesso ospitato Yana, anche per proteggerla; ed è stata Cristina, l’altro giorno, a consegnare subito l’assassino con una chiamata ai carabinieri, dopo aver a sua volta ricevuto al telefono da Dumitru la confessione del delitto.

Yana Malayko, la trappola del killer: «Vediamoci, il cane sta male». Alla sorella: «Si è messa con uno della nostra compagnia». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

Castiglione delle Stiviere, Dumitru Stratan ha atteso l'ex fidanzata nel suo appartamento, dopo aver spento la telecamera. La confessione all'amico e alla sorella: «È una traditrice»

«Ho ammazzato Yana come lei ha ammazzato me». Da venerdì 20 gennaio, il giorno dell’arresto, Dumitru Stratan ha taciuto con carabinieri e magistrati, sdraiato giorno e notte sul letto della cella nel carcere di Mantova. Ma già ore prima aveva confessato alla sorella Cristina l’uccisione, avvenuta tra le 2.30 e le 5 della notte precedente, forse armato di un coltello, dell’ex fidanzata Yana Malayko,  il cui corpo, nascosto in un’assai estesa area periferica scarsamente abitata, di boschi, campi, pozzi e canali in località «Albana», ancora non si trova, nonostante un ulteriore ricorso ai cani molecolari, e nonostante ai tentativi di rinvenimento partecipi, senza interruzione, anche il papà della ragazza.

«Lei era solo una traditrice»

L’assassino, a rischio ergastolo, appunto non parla. Sia per una strategia difensiva dell’avvocato Andrea Pongiluppi legata proprio all’attuale assenza del cadavere, sia forse perché aveva già detto tutto alla stessa sorella, confermando la premeditazione: «Yana mi faceva le corna, è una traditrice. E non poteva mettersi con uno della nostra compagnia». Ovvero il ragazzo con il quale Yana aveva una relazione dopo la fine, a dicembre, di quella con Dumitru, 33enne di origini moldave con una ferita esistenziale mai rimarginata da quand’era adolescente, il suicidio del padre (in questo articolo, il racconto della madre di Dumutru), e secondo i famigliari tossicodipendente e afflitto da un’esasperata progressiva fragilità nei rapporti con il prossimo.

La preparazione del delitto

Che il delitto sia stato la conseguenza di un piano preciso, lo sostengono, con forza, le carte della Procura di Mantova visionate dal Corriere e basate su una trappola. Dobbiamo tornare alla serata di giovedì 19 gennaio. Yana e il compagno avevano cenato in un ristorante a Lonato del Garda per poi trasferirsi nell’abitazione di lui. A mezzanotte, Yana, nata a Cernivci, in Ucraina, aveva iniziato a ricevere telefonate e messaggi da Stratan. A sentir lui il cane, di nome Bulka, che avevano comprato insieme, stava male, e il killer aveva chiesto di portarglielo perché lei lo assistesse. Yana aveva acconsentito, annunciandogli che sarebbe rincasata per attenderlo, al quarto piano del condominio multietnico di piazzale della Resistenza, nell’appartamento numero 15, nella cittadina di Castiglione delle Stiviere. L’altro le aveva detto che più tardi sarebbe arrivato con l’animale. Invece era già stato all’interno del bilocale. Un ingresso permesso dal fatto che avesse una copia delle chiavi; un ingresso funzionale alla manomissione della telecamera che registra gli accessi all’appartamento: il killer non voleva che venisse filmato il delitto.

«Cerca di dormire tesoro»

Eppure la vittima, che aveva notato l’impianto scollegato dall’alimentazione, non aveva avuto ripensamenti una volta nell’alloggio, né il compagno, fermo in macchina sotto il palazzo, aveva presagito pericoli oppure era salito per consigliarle di andarsene, e accompagnarla lontano. Il compagno, al cellulare, aveva sì domandato aggiornamenti a Yana, che però l’aveva tranquillizzato datando come imminente l’arrivo di Stratan, e augurandogli la buonanotte: «Cerca di dormire tesoro» (qui l'ultima chat di Yana con il fidanzato). All’interno del bilocale, i carabinieri hanno isolato molteplici macchie di sangue sulla maniglia della porta della stanza da letto e sul materasso. Dumitru ha cercato di cancellare le tracce ematiche e ha buttato il piumone dentro un sacco nero. In un altro sacco nero ha posizionato il corpo di Yana, lo ha trascinato per le scale (alle 5.13, ripreso dalla telecamere sul ballatoio del condominio, composto da quattro abitazioni più il vano dell’ascensore), l’ha caricato sulla Mercedes, e ha guidato fino alla periferia per abbandonarlo, munito di una piccola vanga. E forse, è un sospetto crescente degli inquirenti, accompagnato da un complice, reclutato non con una chiamata ma direttamente con un passaggio sotto la sua abitazione. Si tende a escludere che l’assassino abbia seppellito la ragazza in relazione ai tempi dati dalle celle, agganciate dal telefonino, dei suoi passaggi e dalle sue presenze. Più probabile abbia coperto il corpo con sterpaglie e terra. E non è scontato che il nascondiglio sia nelle vicinanze del punto dove la Mercedes si era impantanata nel fango: Stratan potrebbe aver gettato il cadavere altrove ed essersi fermato lì per disfarsi dell’arma.

Le sigarette e la confessione

Oltre che alla sorella Cristina, proprietaria del bar «Event coffee» che sorge alla base del medesimo palazzo dell’omicidio, e dove Yana lavorava come cameriera, Dumitru ha ammesso l’uccisione a un amico: «Ho fatto una cazzata. L’ho ammazzata». A differenza dell’amico, Cristina ha ascoltato un’analoga confessione ma ha subito chiamato i carabinieri. Quei carabinieri del Comando provinciale di Mantova ai quali il compagno di Yana ha fornito elementi che confermano la preparazione del delitto: «… Lei mi riferiva che Dimitru aveva detto che se avesse intrattenuto una relazione con un uomo da entrambi loro conosciuto, l’avrebbe uccisa». Alle 11 di venerdì, allertata da una serie di sms ricevuti dal fratello, Cristina era corsa nella sua abitazione. «Gli ho chiesto come stava e mi ha risposto che andava tutto bene. Gli ho chiesto dove fosse Yana e mi ha risposto: “L’ho mandata via”. Ho ulteriormente chiesto chiarimenti e lui mi ha risposto: “Troppo comodo così”. Ho insistito. Continuava a rimanere in piedi e fumare una sigaretta dietro l’altra. Allora l’ho invitato a sedersi per raccontarmi qualcosa. “L’ho ammazzata come lei ha ammazzato me”».

Luigia Borrelli, l’ex infermiera e prostituta uccisa col trapano: «Fu un primario». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2023.

Riaperto il caso del femminicidio commesso il 5 settembre 1995. In procura ascoltata la figlia di un’amica infermiera: «Quando ero bimba mia madre mi raccontò dei sospetti»

Era un’ex infermiera divenuta prostituta, i suoi clienti la conoscevano come «Antonella». All’anagrafe però si chiamava Luigia Borrelli e quando, il 5 settembre 1995, venne ammazzata in modo efferato a Genova, in uno stanzino di quattro metri per tre al civico 64 di vico degli Indoratori, aveva 42 anni. Lo sconosciuto che la uccise le conficcò un trapano verde alla gola infierendo con il cosiddetto overkilling: dopo le violentissime botte con lo sgabello, la donna era già praticamente morta. Non c’era alcuna necessità, per finirla, di usare per dodici volte il Black & Decker, perforando zone vitali.

Una storia terribile, cui seguirono poi altri drammi: subito (settembre 1995) il suicidio di uno dei sospettati, prima che l’inchiesta lo scagionasse; poi un secondo suicidio, quello della proprietaria del luogo teatro del delitto. E infine pure uno dei figli della vittima decise di farla finita, gettandosi dal ponte Monumentale, nel 2014.

Il femminicidio è rimasto sinora senza colpevole. Adesso però la Procura di Genova ha deciso di riaprire l’inchiesta sul cold case dopo che la pm che indaga, Patrizia Petruzziello, titolare anche allora del fascicolo, ha ascoltato una testimonianza importante: quella della figlia di una conoscente di Luigia. La prostituta, che aveva anche un’occupazione come badante, «aveva una relazione con un medico, primario in un ospedale, che ricattava». Del dottore sarebbe stato fatto il nome. L’uomo però è morto da tempo. Non viene esclusa l’ipotesi di comparare il suo Dna con quello dell’assassino repertato sul luogo del delitto.

A darne notizia è Il Secolo XIX in un ampio resoconto a firma di due bravi cronisti, Matteo Indice e Marco Menduni. Proprio a quest’ultimo, la donna — bambina all’epoca del fatto — raccontò, dopo aver visto un recente documentario sulla morte di Luigia, le confidenze ricevute dalla madre. Il cronista l’ha così messa in contatto con la Procura e sul caso, mai archiviato, si è tornati dunque a indagare.

Ma facciamo un passo indietro, riprendendo la puntuale ricostruzione fatta da Sette nello scorso agosto. Quel mattino era stata la signora Adriana, proprietaria della stanza ed ex prostituta a sua volta, a trovare Luigia, riversa in una pozza di sangue, con un trapano verde conficcato nella gola. Morta da parecchie ore. La stessa pm Patrizia Petruzziello, intervistata per lo speciale andato in onda su Crime+Investigation — quello visto dalla donna che ha parlato al Secolo — la rammenta come una scena criminis tra le più truculente cui abbia assistito in carriera.

Le indagini, comparando anche il Dna, si mossero in diverse direzioni. A indicare un sospetto fu la signora Adriana: fece il nome di un elettricista di Genova che aveva fatto alcuni lavori nella stanza affittata da Luigia —origini sarde, vedova di un barista finito nelle mani degli usurai lasciandola dopo la sua morte (febbraio 1990) in un mare di debiti — e che, a suo dire, si era fatto pagare non solo in denaro perché infatuato della donna. C onvocato per fornire informazioni, l’uomo si mostrò prostrato sia per l’uccisione, sia per il timore di essere identificato come cliente di una prostituta, quale in effetti era. Ma il trapano sulla scena del delitto era suo, sugli avambracci mostrava ecchimosi compatibili con una lite; in più, le sue spiegazioni traballavano. Sicché finì, il signor Ottavio, con nome cognome e recapito su tutti i giornali del nord, come sospettato e probabile assassino. Chiamato una seconda volta a chiarire la sua posizione, la sera prima dell’interrogatorio uscì di casa con una scusa, raggiunse una sopraelevata e si buttò di sotto.

Dopodiché, nel marzo del 1996, toccò alla stessa proprietaria del basso: si intossicò mortalmente con farmaci senza lasciare messaggi ma, ad avviso dei suoi conoscenti, il movente del gesto risiedeva nel senso di colpa per aver additato in buona fede un innocente, il signor Ottavio, quale responsabile del delitto del trapano.Da lì in poi, salvo altre piste offerte da mitomani, l’inchiesta si arenò. Si ipotizzò pure un coinvolgimento del serial killer Donato Bilancia ma fu lui stesso a dire che no, con quel delitto non c’entrava proprio niente. La mano della morte tornò a ghermire vite nel 2014, quando il figlio di Luigia, avviluppato in una depressione senza scampo, decise di concludere la sua vita nello stesso modo scelto anni prima dal signor Ottavio. Ora la nuova testimonianza.

La figlia dell’amica di «Antonella» è già stata sentita dai carabinieri. Ha raccontato che quando avvenne l’omicidio, sua madre le confidò di avere forti sospetti su un primario, morto negli anni scorsi. L’uomo l’aveva conosciuta in corsia dove lavorava come infermiera prima di dedicarsi all’assistenza agli anziani. La testimone ha raccontato che la madre le disse che il medico, nei giorni dopo l’omicidio, si presentò al lavoro con il volto segnato tanto che qualcuno gli chiese «se aveva fatto a pugni con il gatto». Non solo: la donna rivelò alla figlia che dietro all’omicidio poteva esserci un ricatto da parte della Borrelli. Vedova e con i debiti lasciati dal marito e i figli da crescere, Luigia aveva sempre bisogno di soldi e per questo poteva aver preteso denaro dal primario per non rivelare la loro relazione. Ma quel trapano? Un altro ricordo affiora da lontano: quel giorno forse fu usato per «coprire» precedenti ferite inflitte con un bisturi.

(Dopo che il povero Ottavio si tolse la vita, i carabinieri trovarono a casa sua cinque foglietti scritti da lui. Oltre alle raccomandazioni ai figli — «Giuseppe, sii sempre bravo», «Patrizia, prendi la laurea» — c’era la richiesta di perdono alla moglie: «Teresa, ti ho fatto del male, ero cieco dalla gelosia, resta sempre brava come sei...». Agli investigatori indirizzò queste parole: «Maresciallo, fai che la mia morte non sia stata vana. Cercate l’assassino di Antonella. Sono innocente. So che lo troverete»).

Dopo 27 anni caso riaperto: "È lui il killer del trapano". Il femminicidio di Luigia Borrelli senza colpevole dal '95. Nel mirino un primario, che però è morto. Stefano Vladovich il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Un trapano insanguinato, un cadavere massacrato di colpi, tre suicidi e un assassino mai scoperto. Dopo 27 anni la Procura di Genova riapre un cold case, quello dell'omicidio di Maria Luigia Borrelli, infermiera di 42 anni uccisa in un basso utilizzato per prostituirsi. A riaprire il fascicolo il ricordo di una donna allora bambina. «Mia madre, amica e collega della vittima, mi disse che Luigia aveva una relazione con un primario. Subito dopo l'assassinio il professore era arrivato in reparto con vari graffi, tanto che gli hanno chiesto se avesse litigato con il gatto» racconta a Il Secolo XIX.

È il 5 settembre del 1995. Luigia di giorno assiste gli anziani, di notte affitta una camera al 64 di vico degli Indoratori di un'ex prostituta, Adriana. Luigia, dai suoi clienti si fa chiamare Antonella, è vedova e deve saldare i debiti del marito barista passato a miglior vita e finito nelle mani degli usurai. Eppoi ha i figli da mantenere e i soldi non bastano mai. La mattina del 6 settembre la proprietaria del basso la trova riversa a terra con un trapano verde conficcato in gola. È quello lasciato da un muratore che di giorno ristruttura il monolocale, Ottavio Salis. La scena del crimine è fra le più cruente che la pm titolare delle indagini, Patrizia Petruzziello, ricorda. Luigia ha un Black&Decker nella gola e il resto del corpo martoriato con 12 colpi, tutti in organi vitali, inferti quando la poveretta era già morta. Il primo sospettato ha ecchimosi e segni sulle braccia e la sua versione non convince. Viene convocato in Procura per un secondo interrogatorio ma lui, per la vergogna di essere finito su tutti i giornali come cliente di prostitute, si getta da un cavalcavia. Salis lascia 5 biglietti, ai suoi tre figli, alla moglie, ai carabinieri. «Maresciallo, fai che la mia morte non sia stata vana. Cercate l'assassino di Antonella. So che lo troverete». A indicare il suo nome era stata la signora Adriana che non regge al rimorso e, nel marzo del '96, si toglie la vita impasticcandosi con i farmaci.

Le piste prendono varie direzioni: quella di un giro di usurai, di un marocchino autore di altri omicidi a Torino, di un cliente abituale e di un uomo che entra insanguinato in un albergo. Si pensa anche a Donato Bilancia, il killer delle prostitute, che però nega. La scientifica, intanto, rileva le tracce del DNA lasciate dal killer sulla vittima: non appartiene a nessuno di loro. Si ricomincia da zero, anzi ci si ferma del tutto e il caso sembra destinato all'archiviazione. Nel 2014 anche uno dei figli di Luigia, depresso per la morte della madre, decide di togliersi la vita gettandosi dal ponte Monumentale. Le nuove rivelazioni, adesso, fanno luce su quanto accaduto anche se il medico di cui parla la donna è, ormai, morto pure lui. «Lo ricattava per soldi, gli diceva che sarebbe andata dalla moglie a dirle della loro relazione» il movente. Il killer avrebbe usato il trapano per nascondere ferite inferte con un bisturi. Adesso manca solo la comparazione del DNA repertato con quello del medico defunto. Non è escluso che il sostituto procuratore di allora, lo stesso di oggi, autorizzi l'esumazione della salma della Borrelli per un nuovo esame.

(ANSA il 23 Dicembre 2022) - Sarebbe un palermitano di 21 anni con problemi psichici il fermato dalla polizia inglese per la morte di Francesca Di Dio e Nino Calabrò, i ragazzi messinesi trovati morti nella casa in cui il giovane viveva da quando si era trasferito nel Regno Unito. Non è ancora chiaro se il fermato fosse un coinquilino o un ex coinquilino della vittima. Secondo quanto si apprende avrebbe assassinato la coppia a colpi di martello.

Fidanzati uccisi in Inghilterra: il padre dell'assassino fa trovare i corpi. Fabrizio Bertè su La Repubblica il 23 Dicembre 2022.

Sotto torchio l'ex coinquilino palermitano, lutto nel Messinese. Sono arrivati nello Yorkshire i genitori di Nino Calabrò e Francesca Di Dio. Il sospettato, che aveva sofferto di disturbi psichici, era stato aiutato dal giovane assassinato a trovare un lavoro. Poi era tornato in Italia

Due fidanzati massacrati a casa in Inghilterra, un giovane palermitano fermato, due centri della provincia di Messina in lutto. Queste, finora, le sole certezze sulla morte di Nino Calabrò e Francesca Di Dio, 26 anni lui, appena 20 lei. Restano ancora da chiarire le dinamiche di un giallo, che, a pochi giorni dal Natale, ha distrutto la vita delle famiglie dei due giovani siciliani, trovati morti, in casa, da alcuni amici, in un’abitazione di Thornaby-on-Tees, comune di quasi 25mila abitanti, nella contea del North Yorkshire.

Il giovane fermato è di origine palermitana. Nino e Francesca uccisi a martellate in Inghilterra, fermato l’ex coinquilino. La madre: “Non sappiamo ancora nulla”. Redazione su Il Riformista il 23 Dicembre 2022

Sono stati uccisi a colpi di martello Nino Calabrò e Francesca Di Dio, i due fidanzati di 25 e 20 anni trovati senza vita nell’appartamento dove il giovane viveva a Thornaby, Stockton-on-Tees, nel nord dell’Inghilterra. E’ quanto emerge da fonti investigative che indagano per il duplice omicidio dei due giovani siciliani: lui di Milazzo (tre anni fa si era trasferito nel Regno Unito), lei di Montagnareale (era arrivata nei giorni scorsi per le festività natalizie). Nelle ore immediatamente successiva al macabro ritrovamento, la polizia ha fermato un 21enne siciliano ex coinquilino di Calabrò. Il giovane palermitano aveva sofferto in passato di problemi di natura psichica.

Dolore e sgomento nelle due cittadine in provincia di Messina. I genitori di Nino e Francesca sono arrivati nelle scorse ore in Inghilterra. “Siamo disperati, non pensavamo potesse mai accadere una cosa del genere, mia figlia era una ragazza solare, gentile e molto generosa. Amava il suo ragazzo ed era venuta qui in Inghilterra per trovarlo e stare con lui e poi sarebbe tornata presto a casa. Siamo in Inghilterra ma ancora non sappiamo nulla dagli investigatori su quanto accaduto. Stiamo andando proprio a parlare con loro e ci incontreremo anche con i genitori del ragazzo”. Lo dice, raggiunta telefonicamente dall’ANSA, Anna Niosi madre della 20enne. “Spero presto si faccia chiarezza su quanto accaduto – aggiunge la mamma di Francesca – e che presto possiamo tornare con il corpo della mia ragazza a casa”.

Ancora da chiarire il movente del duplice omicidio. Il ragazzo sospettato di esserne l’autore è stato interrogato per ore dagli investigatori ma al momento non trapela nulla. Nino Calabrò si era trasferito tre anni fa in Inghilterra e dopo aver lavorato a lungo nel settore della ristorazione, recentemente aveva trovato lavoro come croupier in un Casinò. Due settimane fa era stato raggiunto dalla fidanzata che in Sicilia lavorava come estetista. Avrebbero dovuto trascorrere insieme il Natale prima del ritorno in Sicilia di Francesca.

L’allarme è scattato mercoledì scorso quando i genitori, allarmati perché non riuscivano a mettersi in contatto con i figli da circa 48 ore, avevano sollecitato alcuni amici della coppia a reperire informazioni. Una volta giunti nell’abitazione di Nino, poco dopo le 14, la drammatica scoperta. Adesso saranno le indagini della polizia inglese a chiarire dinamica e movente del duplice omicidio che sarebbe avvenuto nella mattinata di mercoledì 21 dicembre.

Da corriere.it il 23 Dicembre 2022Una coppia di giovani messinesi è stata trovata senza vita all’interno di una casa a Thornaby-on-Tees, nella contea del Nord Yorkshire, nel Regno Unito. Secondo la polizia inglese si tratterebbe di Nino Calabrò, di Barcellona Pozzo di Gotto, e Francesca Di Dio, di Montagnareale. I due, poco più che ventenni, erano fidanzati da settembre 2019 e si trovavano all’estero perché il ragazzo aveva trovato un lavoro nel settore della ristorazione. La sua compagna, invece, era andata a trovarlo per le vacanze di Natale.

 I corpi sono stati scoperti mercoledì verso le 14 (le 15 ora italiana) da amici che, ieri, si erano preoccupati perché la coppia non rispondeva al telefono. Secondo la Bbc la polizia ha arrestato un 21enne perché sospettato del duplice omicidio e chiede l’aiuto dei vicini di casa nella speranza di raccogliere quante più informazioni sul duplice delitto che sarebbe avvenuto tra le 10 e le 11 di mercoledì. 

Nino, originario di Milazzo, residente a Barcellona Pozzo di Gotto da alcuni anni, lavorava anche come croupier al Grosvenor G Casino di Stockton-on-Tees. Nella sua pagina Facebook fissa al 27 settembre 2019 il fidanzamento con Francesca di Dio. Nel 2016 si era iscritto all’università a Messina. 

Il 7 dicembre scorso, nel loro ultimo post su Facebook, facevano un occhiolino verso l’obiettivo dello smartphone Francesca. Nell’ultimo «boomerang» — un video breve che si ripete in loop — girato nel pub The Thomas Sheraton, Di Dio scriveva di essere innamorata. A corredo del post avevano inserito quattro cuori.

La polizia ha anche lanciato un appello: «Chiunque sia passato davanti agli appartamenti di Thornaby Road, precedentemente noto come The Royal George Pub, tra le 10 e le 11 di mercoledì 21 dicembre — ha affermato l’ispettore capo della polizia locale Peter Carr — e ha visto qualcuno agire in modo sospetto o qualsiasi attività sospetta, per favore ci contatti».

Titti Beneduce per corriere.it il 23 Dicembre 2022

«Siamo disperati, non pensavamo potesse mai accadere una cosa del genere, mia figlia era una ragazza solare, gentile e molto generosa. Amava il suo ragazzo ed era venuta qui in Inghilterra per trovarlo e stare con lui e poi sarebbe tornata presto a casa. Siamo in Inghilterra ma ancora non sappiamo nulla dagli investigatori su quanto accaduto. Stiamo andando proprio a parlare con loro e ci incontreremo anche con i genitori del ragazzo».

Sono strazianti le parole di Anna Niosi madre di Francesca Di Dio, 20 anni, la ragazza originaria di Montagnareale (Messina) trovata morta con il fidanzato Nino Calabrò, 25 anni, originario di Barcellona Pozzo di Gotto ma residente a Milazzo, nella casa di lui a Thornaby, sulla riva ovest del fiume Tess, nella contea dello Yorkshire in Gran Bretagna. 

«Spero presto si faccia chiarezza su quanto accaduto — aggiunge la mamma di Francesca — e che presto possiamo tornare con il corpo della mia ragazza a casa». Un giovane è stato fermato dalla polizia che ancora non parla di «omicidio» anche se tutti gli elementi inducono a ritenere che la giovane coppia sia stata assassinata. 

Il coinquilino siciliano

Secondo indiscrezioni non confermate il giovane fermato potrebbe essere un coinquilino o un ex coinquilino di Nino e sarebbe a sua volta di origini siciliane. In un video postato da Francesca Di Dio su Instagram si vede la casa di Thornaby dove insieme ai due fidanzati c’è un altro ragazzo anch’egli italiano.

L’ultimo post felice

Lui lavorava in Gran Bretagna, lei era andato a trovarlo. Nel loro ultimo video postato su Facebook, il 7 dicembre scorso, sono in un bar, davanti a un drink, sereni, insieme. Strizzano l’occhio alla telecamera, giocano. I corpi senza vita di Ninò Calabrò e Francesca Di Dio sono stati trovati mercoledì in un appartamento di Thornaby-on-Tees, comune della contea di North Yorkshire in Inghilterra. La Polizia ha fermato un giovane di 21 anni, ma le indagini per chiarire i contorni di questa drammatica storia sono appena agli inizi. 

Lui lavorava in Inghilterra

Nino e Francesca si erano fidanzati tre anni fa. Lui si era trasferito nel Regno Unito e lavorava in un casinò come croupier, la ragazza era andato a trovarlo. Ci andava spesso, come raccontano le foto postate su facebook e i commenti delle amiche «Quanto ti sei fatta inglese». E sono stati proprio alcuni amici, mercoledì, a trovare i corpi. Erano preoccupati perché la coppia non rispondeva al telefono. 

Nino, il diploma all’Itis e poi il trasferimento a Londra

Il giovane, nonostante si fosse trasferito da oltre tre anni nel Regno Unito, era molto conosciuto a Barcellona Pozzo di Gotto e anche a Milazzo. Un ragazzo molto volenteroso, così lo descrivono gli amici, e amante del lavoro. Subito dopo il diploma conseguito all’Istituto Tecnico Industriale «E. Maiorana» di Milazzo con ottimi risultati, aveva iniziato a lavorare nel campo della ristorazione facendo apprezzare le sue doti e la sua allegria. Successivamente, dopo l’iscrizione all’università, parlando con alcuni amici già trasferiti a Londra, ha deciso di cercare fortuna in Inghilterra, dove ha trovato subito lavoro. La madre di Nino, Salvina Cappellano, originaria del quartiere marinaro di Calderà, opera nel campo del volontariato nella parrocchia di San Rocco. Il padre, Salvatore, è sottufficiale della Guardia di Finanza. Da cameriere Nino aveva lavorato in una pizzeria ubicata nel porto di Milazzo e per l'occasione aveva anche deciso di andare a vivere da solo in una casetta al confine fra Barcellona Pozzo di Gotto e Milazzo. 

Francesca, che voleva fare l’estetista

Francesca aveva 20 anni e aveva iniziato l’istituto d'arte, poi aveva lasciato la scuola per iscriversi a un corso da estetista. «Erano innamoratissimi», raccontano le amiche. Nino, di poco più grande aveva trovato lavoro come croupier in un casinò. «È un dolore immenso», commenta Mada Zaharia che con la vittima aveva seguito la scuola di estetica. Francesca aveva una sorella minore.

Un nuovo giallo in Germania

E intanto dopo quello dello Yorkshire un altro duplice omicidio, questa volta avvenuto in Germania, scuote la Sicilia: un giovane originario di Messina, Christian Zoda, di 23 anni, è morto mercoledì scorso dopo essere stato ferito a colpi di pistola davanti la pizzeria del padre a Albstadt, cittadina tedesca a Sud di Stoccarda; per la sua morte è stato fermato un italiano di 52 anni. Nei giorni precedenti era scomparsa un’altra italiana, Sandra Quarta, di 20 anni, ex fidanzata di Christian. Il cadavere della ragazza è stato trovato nel giardino del 52enne che ha sparato a Zoda.

Alfio Sciacca per corriere.it il 24 dicembre 2022.

Si chiama Andrea Cardinale ed era un collega di lavoro di Nino Calabrò. Dal fitto riserbo degli inquirenti inglesi è trapelato il nome del 21enne di origini palermitane fermato perché sospettato di aver ucciso Calabrò, 26 anni, e la fidanzata Francesca Di Dio di appena 20. I due giovani erano stati trovati morti mercoledì scorso in un appartamento di Thornaby, nel North Yorkshire in Gran Bretagna. Il presunto assassino, oltre ad essere collega di lavoro di Calabrò era anche suo coinquilino. Stando alle indagini li avrebbe colpiti con un martello per motivi che restano ancora misteriosi.

Il giovane di 21 anni è stato già fermato dalla polizia inglese che, in un riserbo totale, sta cercando di ricostruire la dinamica e il movente di un duplice delitto apparentemente inspiegabile. Si è comunque appreso che il giovane avrebbe problemi psichici. A far scoprire il duplice delitto è stato il padre del presunto assassino. Anche lui era in Gran Bretagna: era andato a trovare il figlio. Per un giorno aveva provato a chiamarlo e, non ricevendo risposte, aveva pensato di passare in casa dei due fidanzati, scoprendo i cadaveri. Non si capisce se l’uomo sia materialmente entrato in casa con una copia delle chiavi, in ogni caso ha fatto scattare la macchina delle indagini allertando un amico poliziotto in Italia.

Ma perché sono stati uccisi Francesca e Nino? In attesa di conferme dagli inquirenti e della versione del presunto assassino, si possono fare solo ipotesi. Come quella che circola a Milazzo e Montagnareale, i comuni d’origine delle due vittime, nel Messinese. «Francesca voleva trasferirsi in Inghilterra — ipotizzano dei conoscenti — e magari Nino avrà detto al coinquilino che doveva lasciare la casa. Questo potrebbe aver scatenato la sua ira».

A cercare risposte sono soprattutto i familiari dei due giovani, che sono volati in Gran Bretagna. «Siamo disperati, mia figlia era una ragazza solare e generosa — dice Anna Niosi, mamma di Francesca —. Amava Nino ed era venuta in Inghilterra per stare con lui, poi sarebbe tornata presto a casa. Dalla polizia non abbiamo ancora saputo nulla». La mamma spera che «si faccia chiarezza su quanto accaduto e che presto possiamo tornare a casa con il corpo della mia ragazza», dice. Dalla Sicilia il ricordo straziante della sorella Veronica: «Ogni volta era una tenerezza vederla che faceva tutti quei chilometri per incontrare Nino. Le ho sentito dire che voleva anche un figlio e io ero felicissima»

Germania, il giallo di Christian e Sandra, uccisi dallo zio di lei. Storia di Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2022.

È giallo in Germania sulla morte di d ue ragazzi italiani, , di tre anni più piccola, originaria di Novoli, in provincia di Lecce, uccisi ad Albstadt, cittadina a 100 chilometri da Stoccarda, a colpi di pistola. Amici fin da piccoli, figli, entrambi, di immigrati italiani andati oltralpe a cercare fortuna, Sandra e Christian erano inseparabili. La loro morte è un mistero con un presunto colpevole: Michele Quarta, zio della giovane vittima. Ma ancora senza un movente.

La storia comincia domenica scorsa, quando Sandra sparisce. Non va al lavoro, nessuno sa dove sia. Christian pubblica su Facebook un post. «Sandra è scomparsa lasciando a casa borsa, scarpe, giacca, occhiali, e cellulare — scrive —. Aiutatemi a trovarla». La ragazza viene cercata ovunque: con cani poliziotto, dall’alto con gli elicotteri, ma di lei non c’è traccia. L’amico è sempre più preoccupato. Mercoledì, intorno alle dodici, esce dalla pizzeria del padre, in cui lavora con le due sorelle, Valeria e Noemi. I familiari li chiamano i tre gemellini: legatissimi e molto vicini di età. Un uomo gli si avvicina, tira fuori una pistola. Christian fa per scappare, l’omicida gli spara alle spalle. Tre colpi. Il ragazzo cade a terra e, mentre tenta di rialzarsi, l’assassino gli scarica il caricatore addosso e fugge via. Il ragazzo muore in ospedale qualche ora dopo.

Le indagini, probabilmente aiutate dai testimoni che hanno assistito al delitto avvenuto in pieno centro, portano a Michele Quarta, 52 anni, zio di Sandra, anche lui emigrato in Germania dove ha raggiunto il fratello. Su richiesta dell’ufficio del pubblico ministero di Hechingen viene arrestato. La polizia di Reutlingen lo trova in casa, nel palazzo in cui anche la nipote viveva. Ha ancora con sé la pistola. Agli agenti dice solo che il corpo della ragazza è sepolto in giardino. Non una parola di più. Poi si chiude nel silenzio. Una squadra di agenti specializzati in indagini geofisiche recupera il corpo della ventenne sepolto sotto pochi metri di terra: anche lei, dirà l’autopsia eseguita giovedì, è stata uccisa con colpi di arma da fuoco. Secondo alcune indiscrezioni pubblicate da giornali online tedeschi, Quarta avrebbe piccoli precedenti, ma nessuno per violenza.

La polizia è al lavoro per chiarire il movente dell’omicidio che ha scosso la cittadina tedesca. I due ragazzi erano molto conosciuti: entrambi erano nati e cresciuti in Germania. A Ziegelplatz, dove Christian è stato ucciso, sono state lasciate decine di candele e mazzi di fiori. «Siamo disperati, distrutti. Non possiamo dire nulla e vi preghiamo di non disturbarci più», dice singhiozzando il padre del ragazzo, Ignazio Zoda. Con i figli e la moglie si era trasferito in Germania 23 anni fa. Poi il ritorno a Messina e, dopo il divorzio, la decisione di stabilirsi nuovamente ad Albstadt con i ragazzi e aprire il ristorante-pizzeria «Viva la mamma». Strazianti le parole delle sorelle: «Fai buon viaggio amore mio... ti amo immensamente e lo farò sempre», scrive Noemi sui social.

«Christian era legatissimo a Sandra — racconta la cugina, Lilly Cannarozzo, che mercoledì sarà in Germania per partecipare ai funerali —. Era generoso, gli piaceva divertirsi, amava lo sport, aveva mille amici». Ma dello zio di Sandra non ha mai sentito parlare. Un personaggio di cui si sa poco Michele Quarta. «Mio figlio non me lo aveva mai nominato — dice la madre del ragazzo, Maria Antonia Cannarozzo, che dopo il divorzio è rimasta a Messina —. Non riesco a spiegarmi cosa sia accaduto, ma voglio la verità».

Ad Albstadt. Christian e Sandra uccisi in Germania, fermato lo zio della ragazza: delitti a distanza di giorni ma “collegati”. Redazione su Il Riformista il 23 Dicembre 2022

Lui è stato ucciso a colpi di pistola davanti alla pizzeria, lei è stata trovata senza vita nel giardino del 52enne fermato per il primo omicidio. È il giallo che arriva da Albstadt, cittadina tedesca a sud di Stoccarda, in Germania, dove una coppia di giovanissimi italiani sono stati uccisi nelle scorse ore.

La prima vittima è Christian Zoda, 23 anni, originario di Messina: mercoledì è morto dopo esser stato raggiunto da alcuni colpi di pistola davanti la pizzeria del padre a Albstadt. Portato in ospedale in gravi condizioni, è morto alcune ore dopo il ricovero.

Le rapide indagini condotte dalla polizia tedesca ha portato al fermo di un uomo di 52 anni italiano, che conosceva la vittima: addosso, scrive l’Ansa, gli agenti gli hanno trovato la pistola che avrebbe utilizzato per sparare a Zoda.

Omicidio che sarebbe collegato alla sparizione di una seconda giovane italiana, Sandra Quarta, 20 anni: il suo cadavere è stato trovato nel giardino del 52enne che ha sparato a Zoda. Secondo i media tedeschi, Quarta viveva nella stessa casa del fermato per il duplice omicidio, ma in un appartamento diverso. La Bild scrive che l’uomo sarebbe lo zio di Sandra, di cui non si avevano più notizie da domenica. Dalle testimonianze raccolte dal quotidiano nella città di Albstadt, Christian Zoda e Sandra Quarta sarebbero stati amici stretti.

Il fermato si è avvalso del suo diritto di rifiutarsi di testimoniare”, ha detto una portavoce della polizia.

Christian lavorava nel ristorante di suo padre. Viveva in Germania dall’età di 12 anni e stava col padre, perché i suoi sono separati. Non era il fidanzato ma a quanto ne so era un amico molto stretto di Sandra. Ancora sappiamo molto poco sulla dinamica dell’omicidio“, ha invece raccontato all’Ansa Lizzy Cannarozzo, cugina di Christian Zoda. “Mio cugino – aggiunge Cannarozzo – non veniva a Messina dal 2018 ma ci sentivamo. Era un giovane molto perbene e un gran lavoratore. Sappiamo solo che nell’omicidio c’entra lo zio di Sandra. Non sappiamo altro. Le indagini sono ancora in corso spero sia fatta giustizia“.

Il duplice omicidio di Londra

Duplice omicidio che segue di poche ore quello avvenuto in Inghilterra e che vede come vittime una coppia di fidanzati, Nino Calabrò e Francesca Di Dio, coppia siciliana misteriosamente assassinata a Thornaby, cittadina del North Yorkshire.

Trovati senza vita nell’appartamento di Calabrò, 26enne che in Inghilterra era sbarcato nel 2019 e che lavorava come croupier al vicino Grosvenor Casinò di Stockton, e la fidanzata Francesca, appena ventenne che lo aveva raggiunto qualche settimana fa dalla Sicilia per trascorrere assieme il Natale, sarebbero stati uccisi da un 21enne italiano fermato dalla polizia britannica.

Omicidio in Germania, emigrato salentino uccide la nipote e il fidanzato. Giallo nella cittadina di Albstadt: la vittima e il carnefice sono originari di Novoli. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Dicembre 2022

Un altro giallo scuote famiglie di emigranti italiani: dopo quello in Gran Bretagna, dove una coppia di giovani fidanzati messinesi sono stati uccisi da un ragazzo siciliano, in Germania sono stati assassinati Cristian Zoda, 23 anni, nato in quel paese da genitori messinesi, e la sua amica Sandra Quarta, 20 anni, originaria di Novoli in Puglia.

Per il duplice omicidio è stato arrestato Michele Quarta, 52 anni, zio di Sandra, su richiesta dell’ufficio del pubblico ministero di Hechingen. Abitavano tutti e tre ad Albstadt, cittadina di 45mila abitanti a circa 100 km a sud di Stoccarda. Quarta era partito per la Germania da Novoli, paese in provincia di Lecce, diversi anni fa e aveva raggiunto il fratello, il padre di Sandra. Non è chiaro se la ragazza vivesse coi genitori. A Novoli erano rimaste la madre dei due e una sorella. Il duplice delitto è ancora avvolto nel mistero anche perché l’indagato si è trincerato nel silenzio assoluto: l’unica cosa che ha raccontato a uno dei 30 poliziotti di Reutlingen che seguono l'indagine dove trovare il corpo della nipote. L’aveva sepolto nel suo giardino. Nulla, invece, sul possibile movente dei due omicidi.

La vicenda comincia la scorsa domenica quando Sandra sparisce da casa: abiterebbe nello stesso immobile dello zio ma in un appartamento separato. Martedì cominciano le ricerche a terra con cani poliziotto e anche con l’ausilio di elicotteri dall’alto. Due giorni dopo Christian Zoda, che lavora nel ristorante del padre Ignazio «Viva la mamma» mette sul proprio profilo Facebook un annuncio con le foto di Sandra in cui si denunciava la scomparsa della ragazza.

Nel post Christian affermava che l’ultimo segno di vita di Sandra risaliva alla domenica precedente e che la ragazza aveva lasciato «borsa, scarpe, giacca, occhiali, e cellulare a casa». Sandra «non ha contattato nessuno non è andata al lavoro» ha scritto nel post dove implorava: «chiunque ha notizie avverta subito la polizia». Il giorno dopo, mercoledì alle 12 in Ziegerplatz, accanto al ristorante di famiglia, Christian viene ferito con alcuni colpi di arma da fuoco. Portato in ospedale, muore nel pomeriggio. Il delitto scuote la cittadina dove già si era sparsa la voce della scomparsa di Sandra ma in poco tempo, forse anche grazie alle indicazioni di alcuni testimoni, viene fermato Michele Quarta che sarebbe stato in possesso di una pistola.

L’uomo viene interrogato e indica il luogo in cui sarebbe sepolta la nipote: il giardino. Intervengono per gli scavi gli investigatori specialisti per indagini geofisiche che recuperano il corpo della ragazza. Anche lei sarebbe stata uccisa con colpi di arma da fuoco. La polizia tedesca ha perlustrato diversi luoghi scavando e ispezionando anche bidoni della spazzatura. Secondo alcune indiscrezioni pubblicate da giornali online tedeschi Michele Quaranta era noto alla polizia per reati minori. Gli investigatori stanno appurando se avesse precedenti giudiziari all’estero.

Tante persone hanno deposto candele e fiori a Ziegelplatz e qualcuno ha attaccato su un palo della luce le foto delle due vittime. Per tutto il giorno c'è stato un mesto pellegrinaggio di parenti e amici in lacrime davanti quel lampione: sono andati anche Ignazio, il padre di Christian, che è divorziato, e le altre due figlie Noemy e Valeria. La madre del ragazzo, Mary, che è in Sicilia ed è in contatto con le figlie dice: «Voglio la verità. Domani sarò in Germania». Al telefono Ignazio Zorda dice: «Siamo disperati, distrutti, non vogliamo parlare. Non possiamo dire nulla e vi preghiamo di non disturbarci più in questo momento e di non telefonare più. Vi ringraziamo per il rispetto che avrete per la nostra famiglia». Tutti i profili Facebook della famiglia Zoda sono listati a lutto. Noemy, la sorella minore, sul social ha scritto: «Fai buon viaggio amore mio... ti amo immensamente e lo farò sempre». La cugina del giovane Lizzy Cannarozzo dice: «Christian lavorava nel ristorante di suo padre. Viveva in Germania dall’età di 12 anni e stava col padre, perché i suoi sono separati. Non era il fidanzato ma a quanto ne so era un amico molto stretto di Sandra. Mio cugino non viene a Messina dal 2018 ma ci sentivamo. Era un giovane molto perbene e un gran lavoratore». Un amico di Christian, Anthony; scrive: «Non ci posso ancora credere che sei andato via cosi...non era il tuo tempo, era ancora troppo presto per te avevi solo 23 anni...ma per qualche malaugurato caso la sorte ha voluto andasse così... mi mancherei tantissimo Christian credimi e davvero difficile accettarlo eri come un fratello e adesso non ci sei più...ti voglio bene Cristianuccio riposa in pace e veglia su tutti noi da lassù».

Due giovani italiani ammazzati in Germania. Confessa lo zio di lei. Christian Zoda colpito nel parcheggio, Sandra Quarta era seppellita nel giardino del parente. Daniel Mosseri il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Berlino. Due giovani italiani uccisi in Germania. Lui Christian Zoda di 23 anni, lei Sandra Quarta, di 20. Arrestato lo zio della ragazza. È cronaca nera quella che arriva da Albstadt-Eblingen, nel meridionale Baden-Württemberg ed è la cronaca di fatti di sangue occorsi fra domenica scorsa, il 18 dicembre, e mercoledì 21. È stato però il secondo omicidio a mettere gli investigatori sulla pista utile a risolvere il primo.

Mercoledì dei colpi di arma da fuoco sono esplosi in un parcheggio nel centro Albstadt, città da 45mila abitanti 80 chilometri a Aud di Stoccarda. Il parcheggio è dietro a un ristorante italiano. Allertati dagli spari giungono i soccorsi e trovano Christian esanime: il ragazzo viene trasportato in ospedale ma è troppo tardi e dopo poco il giovane muore. Sarà la stampa locale a spiegare che il parcheggio della sparatoria è situato subito dietro al ristorante del padre di Christian. Il giovane originario di Messina, scrive Il Giornale di Sicilia, aveva raggiunto il padre, separato, all'età di dodici anni e aveva poi seguito le orme del padre diventando lui stesso pizzaiolo.

Le indagini della polizia sono molto rapide e dopo poche ore per la morte del ragazzo viene fermato un altro cittadino italiano, Michele Quarta, che, racconta la Bild, abita a 300 metri dal luogo del delitto. L'uomo, 52 anni, non parla: secondo la stampa tedesca il presunto omicida si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il caso è però tutt'altro che chiuso. Domenica 18 da Albstadt era sparita Sandra Quarta, cittadina italiana con passaporto anche tedesco, e gli investigatori hanno facilmente collegato i pezzi del puzzle. Sandra era una cara amica di Christian, tant'è che lo stesso ragazzo aveva lanciato un appello su Facebook. Il 20 dicembre il ragazzo posta tre foto di Sandra scrivendo, in tedesco, vermisst (scomparsa) fornendo la descrizione della ragazza svanita nel nulla da alcuni giorni. «Sandra è scomparsa da ieri. L'ultimo suo cenno di vita risale alle 8.30 di domenica: non ha la borsa, le scarpe, il cellulare, gli occhiali né il borsellino. È tutto a casa e non si è fatta viva con nessuno neppure con il lavoro; se la vedete per favore avvertite subito la polizia». Ore dopo il ragazzo rilancia un appello online preparato dalla stessa polizia.

Da due giorni erano scattate le ricerche con l'ausilio di un elicottero e di cani molecolari. Dopo l'arresto di Michele Quarta gli investigatori hanno perquisito la casa dell'uomo facendo una tragica scoperta: il corpo di Sandra era seppellito nel giardino di suo zio.

È sempre la Bild a raccontare che Sandra e Christian non erano fidanzati ma erano grandi amici e che nel fine settimana prima della sparizione della giovane avevano festeggiato la sua assunzione come infermiera. Secondo un'altra testimonianza riportata dal più diffuso tabloid tedesco, giorni prima una vicina aveva chiesto allo zio notizie sulla nipote: questi avrebbe risposto con un sorriso assicurando che avrebbe dato notizie appena ne avesse avute.

Dopo il ritrovamento del corpo della giovane, la polizia ha sigillato l'area intorno alla casa del 52enne mettendosi anche a setacciare i bidoni della spazzatura nei dintorni alla ricerca di qualche indizio per una storia che rimane ancora senza movente. Michele Quarta resta il principale sospettato anche per la morte della sua giovane nipote. L'uomo, secondo fonti di agenzia, era originario di Novoli, in provincia di Lecce, ma si era trasferito in Germania vent'anni, fa. La tedesca Dpa ha scritto che Quarta era già noto alla polizia tedesca per una serie di reati minori.

Brava gente (che uccide) all'estero. Il giallo dura poco e allo strazio si aggiunge strazio. Valeria Braghieri il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il giallo dura poco e allo strazio si aggiunge strazio. Avremmo voluto che le morti dei nostri giovani connazionali, Francesca Di Dio (20 anni) e Nino Calabrò (26) in Inghilterra e Sandra Quarta (20) e Christian Zoda (23) in Germania, avessero avuto almeno la grazia della fatalità, l'incolpevolezza del caso. Invece sono stati ammazzati tutti e quattro, brutalmente e lontano da casa. Si accorda sempre ammirazione ai ragazzi che vanno a cercarsi il futuro, specie se per farlo devono preparare i bagagli, uscire dalla cuccia della famiglia e percorrere chilometri. Vanno a «incominciarsi» sotto un altro cielo, un'altra lingua, altri modi e altre facce. Nino aveva trovato lavoro come croupier al Grosvenor Casino di Stockton, nel North Yorkshire, e la fidanzata Francesca che aveva studiato all'istituto d'arte ma a casa, a Montagnareale, faceva l'estetista, era andata a trovarlo per le feste di Natale. Christian lavorava nel ristorante del padre ad Albstadt, vicino a Stoccarda, da quando aveva dodici anni e i suoi genitori si erano separati. Sandra era andata laggiù per fare l'infermiera. Lei e Christian erano molto amici, secondo alcuni addirittura ex fidanzati. Per tutti e quattro, il repertorio che ci si aspetta dai ventenni: amici, foto sui social, telefonate di rassicurazioni a casa e biglietti del treno per gli avanti e indietro da una vita all'altra. Fino a una manciata di ore fa, le loro, sembravano proprio quelle esistenze da «italiani all'estero» che i telegiornali raccontano per descrivere il nostro Paese e i suoi giovani.

Ma una manciata di ore dopo, Francesca, Nino, Sandra e Christian sono diventati «italiani uccisi all'estero» e ad ucciderli sono stati altri italiani. Il mondo che hanno allargato per crescere gli si è richiuso addosso. E male. A colpi di martello e di arma da fuoco. Per mano del coinquilino di Nino i primi, per mano dello zio di Sandra i secondi: «italiani che uccidono all'estero». È diventata tutta un'altra storia quella dei virtuosi connazionali emigrati in cerca di fortuna. Hanno trovato l'Italia peggiore anche dove se ne sono andati a crescere. La patria... Li ha trovati in Inghilterra e in Germania, a pochi giorni da Natale, negli anni belli delle loro vite. In quelli gonfi di tutto ciò che avrebbero potuto essere se gli «italiani che uccidono all'estero» non li avessero interrotti e coperti di sangue e terra e sogni spenti. Ammazzati. Per mano amica, per mano italiana.

(ANSA il 2 Novembre 2022 ) Massimiliano Lucietti, il cacciatore di 24 anni trovato morto domenica mattina nei boschi di Celledizzo, in Trentino, è stato ucciso. Gli inquirenti - apprende l'ANSA - escludono il suicidio perché grazie all'esame del corpo del giovane cacciatore è emerso che il foro d'entrata del proiettile che l'ha ferito mortalmente è sulla nuca. Il colpo, sparato da una distanza di almeno mezzo metro - ma potrebbe essere anche maggiore - è poi uscito dal collo. Inizialmente si pensava anche all'ipotesi del gesto estremo, ma gli accertamenti hanno portato ad escludere l'ipotesi.

Da corriere.it l’8 novembre 2022.

Era steso per terra, con il fucile indirizzato verso qualche preda da cacciare, quando è stato ucciso con un colpo di Winchester alla nuca da una distanza di un metro o poco più. È morto così lunedì scorso Massimiliano Lucietti , 24 anni di Celledizzo di Peio, in Val di Sole, Trentino. È quanto si apprende dagli inquirenti che hanno analizzato i referti autoptici nell’attesa delle risultanze balistiche dei carabinieri del Ris. 

Il corpo è stato ritrovato attorno alle 8 da un forestale in pensione di ritorno dalla postazione di caccia; il giorno dopo l’uomo si è suicidato lasciando un biglietto con scritto «Non attribuitemi colpe che non ho» . Il 59enne, nell’immediatezza della macabra scoperta era stato sentito a lungo dai carabinieri come persona informata sui fatti. Ora i familiari hanno dato mandato all’avvocato Andrea de Bertolini di difenderne l’onorabilità. Il pm Davide Ognibene, titolare del fascicolo per omicidio colposo contro ignoti aperto nell’immediatezza del ritrovamento del corpo di Lucietti, non esclude altre piste compresa quella dell’omicidio volontario. 

In un primo momento sul caso dei due cacciatori morti si era pensato ad un incidente. Poi pian piano è emerso un altro scenario. Massimiliano Lucietti, in realtà, sarebbe stato ucciso. Escluso il suicidio. Decisivo l’esame balistico: il foro d’entrata del proiettile, infatti, è sulla nuca. Mentre il colpo sarebbe stato sparato da una distanza di almeno mezzo metro ed è poi uscito dal collo. 

A rendere ancor più misteriosa la vicenda il fatto che il giorno dopo il ritrovamento del cadavere del ragazzo, a Celledizzo era stato trovato morto anche un altro cacciatore, il 59enne Maurizio Gionta, ex guardia forestale che aveva denunciato il ritrovamento del giovane. L’uomo si sarebbe suicidato lasciando poi il biglietto con la scritta: «Non incolpatemi per quello che non ho fatto». Tra le tante ipotesi anche quella che su posto ci fosse anche un terzo cacciatore.

Trento, il giallo del cacciatore ucciso «Un colpo di fucile alla nuca mentre era a terra per sparare». Alfio Sciacca (ha collaborato Lorenzo Pastuglia) su Il Corriere della Sera l’8 novembre 2022.

«Era steso a terra, a pancia in giù e con il fucile in mano». Posizione tipica di un cacciatore che sta prendendo la mira, puntando la preda. Così, secondo il procuratore di Trento Sandro Raimondi, era Massimiliano Lucietti quando è stato raggiunto dal colpo che l’ha ucciso. Se poi questo colpo sia stato sparato a bruciapelo o da una certa distanza è ancora tutto da accertare. Il «Winchester 270», il modello di fucile dal quale è partito il proiettile, può infatti centrare un obiettivo anche da 100 metri.

Nel giallo della morte del cacciatore di 24 anni ucciso il 31 ottobre scorso nei boschi di Celledizzo, in Trentino, si aggiunge un particolare che fa ipotizzare persino un’esecuzione. Ma su questo gli inquirenti sono molto cauti. Il colpo che ha ucciso Lucietti, precisano, è stato «sparato da una distanza che va da un metro in su, ma ciò non vuol dire che è stato esploso da un metro». E lasciano intendere di credere poco alla pista dell’esecuzione a bruciapelo. Al di là delle ipotesi, a dieci giorni dai fatti la chiave del giallo ruota tutta attorno all’ esito dell’esame sul proiettile che ha ucciso il giovane cacciatore. È sicuramente entrato dalla nuca, ma l’ogiva nell’impatto si è molto deteriorata. Gli esperti del Ris di Parma la stanno comunque esaminando nella speranza di riuscire a trovare una traccia che permetta di capire da quale fucile è stata esplosa.

In condizioni normali questo è possibile, ma quando è rovinata diventa estremamente complicato. I carabinieri del Ris comunque non disperano. In quel caso sarebbe come estrarre un’impronta digitale da attribuire ad una specifica arma. Il modello è sicuramente una carabina Winchester, ma in questo caso vuol dire poco, perché si tratta di un’arma molto utilizzata dai cacciatori della zona. Altro tassello del giallo di Celledizzo è la morte dell’altro cacciatore, Maurizio Gionta, 59 anni, 24 ore dopo l’uccisione di Massimiliano Lucietti. L’uomo si è sicuramente suicidato, ma perché lo abbia fatto è un altro mistero. Prima di spararsi ha lasciato la fede sul comodino di casa e un biglietto sull’auto con la scritta. «Non voglio colpe che non ho». I familiari, e il loro legale Andrea de Bertolini, «in nome della verità» ne vogliono difendere l’onorabilità e invitano tutti ad evitare «frettolose conclusioni».

Dopo la morte di Lucietti, il 59enne era stato a lungo interrogato dai carabinieri di Trento. Non era indagato, ma solo «persona informata sui fatti». In ogni caso è stato sottoposto al cosiddetto Stub, che mira ad accertare se aveva sparato nelle ore precedenti. Ma l’esito dell’esame potrebbe solo scagionarlo. Se infatti sul suo corpo non venissero trovate tracce di polvere da sparo vorrà dire che era totalmente estraneo alla morte di Lucietti. Mentre l’eventuale esito positivo confermerebbe solo che ha sparato. Circostanza che per un cacciatore è normale e dunque non avrebbe alcun valore probatorio.

Nell’interrogatorio Maurizio Gionta aveva raccontato di avere rinvenuto il cadavere del 24enne mentre stava rientrando. Anche per chiarire la sua posizione, ancora una volta, sarà decisivo l’esame del Ris sull’ogiva. Mentre non si può escludere, come lasciano intendere i familiari e il loro legale, che l’uomo si sia tolto la vita perché non ha retto alla pressione e al crescere di pettegolezzi e sospetti nei suoi confronti. Per tentare di risolvere il giallo gli inquirenti stanno anche provando ad allargare l’inquadratura e capire quali altri soggetti erano in quei boschi quando è partito il colpo che ha ucciso Lucietti, intenzionalmente o per un tragico errore di caccia. A quanto pare gli inquirenti avrebbero convocato in caserma ed ascoltato almeno altri due cacciatori che erano in zona quel 31 ottobre. Anche se nulla trapela sulla loro posizione.

Trento, il giallo dei cacciatori uccisi: tutti i punti oscuri (e quello che non torna). Dafne Roat su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.

Chi ha ucciso il 24enne Massimiliano Lucietti? È stato un incidente? E qual è la ragione del suicidio di Maurizio Gionta, il 59enne che ha trovato il corpo del giovane e poi si è sparato? C’è qualcuno che si nasconde? Un mistero ancora aperto. Mentre il paese si chiude nel silenzio

Le due morti

Lo scorso 31 ottobre nei boschi sopra Celledizzo, 350 anime nella Trentina Val di Sole un proiettile centra in testa Massimiliano Lucietti, cacciatore 24 anni. Il giovane, volontario del corpo dei Vigili del fuoco di Peio, resta ucciso sul colpo. In mano imbraccia ancora il suo fucile. A ritrovare il corpo, lo stesso giorno, è Maurizio Gionta, 59 anni che fa parte del suo stesso gruppo venatorio. È lui che avvisa le forze dell’ordine. Passano 24 ore e Gionta viene trovato morto a poca distanza dal punto in cui era stato ritrovato Lucietti. Un suicidio. Nell’auto del cacciatore, viene trovato un biglietto in cui l’uomo di non essere incolpato per la morte del 24enne.

La perizia balistica

La chiave del giallo resta la perizia balistica sull’ogiva trovata accanto al corpo di Massimiliano Lucietti, il vigile del fuoco volontario di 24 anni ucciso il 31 ottobre da un colpo alla nuca. A dieci giorni di distanza dalla tragedia nei boschi di Celledizzo in val di Sole (Trentino) cresce l’attesa, ma i carabinieri del Ris di Parma hanno chiesto alla Procura più tempo. L’operazione è complessa, l’ogiva nell’impatto si è molto deteriorata e gli investigatori del Raggruppamento investigazioni scientifiche stanno cercando di identificare la traccia lasciata dalla rigatura del fucile, che è simile a un’impronta digitale ed è determinante per capire da quale arma è partito il colpo mortale.

Quale fucile ha sparato?

L’unico aspetto certo è che si tratta di una carabina Winchester calibro 270, la stessa che aveva Maurizio Gionta, l’ex guardia caccia in pensione, 59 anni, che si è tolto la vita 24 ore dopo aver trovato il corpo di Max. Un’arma molto comune tra i cacciatori, almeno una ventina in valle la possiedono. Ma quale è stato il fucile a sparare? È uno degli interrogativi aperti a cui stanno cercando di rispondere i carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Trento e i colleghi della compagnia di Cles che hanno avviato approfondimenti tecnici e indagano nell’ambiente della caccia. Capire chi possiede quel tipo di fucile non è difficile, le armi vengono denunciate all’autorità di pubblica sicurezza. In un momento di grande incertezza come questo è facile associare il proiettile che ha ucciso Massimiliano all’arma di Gionta perché è stato il primo a trovare il corpo ed era in zona, ma questo non significa nulla.

La distanza

Questo tipo di fucile è molto potente ed è in grado di sparare e colpire anche da una distanza di cento metri. E la distanza è un altro punto da chiarire. Secondo la Procura il colpo fatale è partito da almeno mezzo metro, ma molto probabilmente di più. Nell’esame autoptico sul corpo di Massimiliano non è stato trovato quello che viene definito «tatuaggio», ossia il segno, la bruciatura, che viene lasciata se si spara da una distanza ravvicinata. Non solo: sarà determinante capire anche in che posizione era il giovane vigile del fuoco. Il suo corpo è stato trovato in una posizione prona – come ha spiegato il procuratore Sandro Raimondi - come se nel momento in cui ha ricevuto il colpo alla nuca che ha messo fine alla sua vita, fosse steso a terra in fase di appostamento. Ma anche questa resta un’ipotesi.

Il suicidio

Poi c’è il capanno sul quale era appostato Maurizio Gionta. La posizione non è secondaria, la geografia dei luoghi rende quasi impossibile il fatto che il colpo sia partito dal capanno. Non sarebbe riuscito a raggiungere Massimiliano da quel punto. Il giovane, altro particolare anche se non determinante, non indossava il giubbotto catarifrangente, in Trentino infatti non è obbligatorio. Ma il giallo ruota attorno anche ad un altro aspetto di grande tragicità. Il gesto estremo compiuto da Gionta a sole ventiquattro ore di distanza dal ritrovamento del corpo di Max, il «gigante buono», come lo chiamavano in paese. Perché lo ha fatto? È una delle domande che continua a tormentare i familiari e gli investigatori. L’uomo è stato sentito a lungo come persona informata dei fatti, un lungo colloquio durato quasi quattro ore con i carabinieri dal quale era uscito, ricorda la famiglia, stremato. Ma perché in una sola notte ha maturato la decisione di uccidersi? Non si può escludere, come lasciano intendere i familiari e il loro legale, l’avvocato Andrea de Bertolini, che non abbia retto alla pressione e ai sospetti.

Il biglietto

L’uomo era stato sottoposto anche allo Stub che mira ad accertare se aveva sparato, ma questo accertamento non sarà risolutivo. Anche se l’esame fosse positivo significherebbe solo che ha sparato. E poi c’è il biglietto lasciato sul cruscotto dell’auto: «Non attribuitemi responsabilità che non sono mie». Cosa significa questa frase? Perché prima di togliersi la vita, ha lasciato la fede sul mobile e ha scritto queste parole, parole che sembrano gridare la sua innocenza. Cosa sapeva Gionta che non ha detto ai carabinieri? Forse sapeva che in zona quella mattina c’erano altri cacciatori? L’ex guardia forestale appena ha trovato il corpo di Max ha chiamato il papà del giovane, si conoscevano da tempo, erano ex colleghi, succede così in un paese piccolo come Celledizzo. Maurizio era comprensibilmente provato. Il mistero è fitto e c’è un altro particolare: quel giorno i due cacciatori non erano soli nei boschi di Celledizzo. Max era uscito per una battuta di caccia in solitaria mentre Gionta era partito con un’altra persona, poi arrivati nel bosco si erano divisi come spesso succede.

I testimoni e il silenzio del paese

Secondo quanto ricostruito erano almeno in quattro i cacciatori nel bosco, ma nel parcheggio c’erano più auto, forse erano di più. E allora chi ha esploso il colpo mortale? I carabinieri nei giorni scorsi hanno sentito altri due cacciatori, in particolare l’uomo che era con Gionta. Ha raccontato di essere stato lontano nel momento dello sparo, una versione pare confermata da un testimone. L’aspetto certo è che alle 8.20 l’uomo era nel bar del paese, meno di un’ora dopo della tragedia. Lo sparo era echeggiato anche in paese, si era sentito verso le 7.25, venti minuti dopo, alle 7.44 era arrivata la chiamata d’allarme alla centrale unica di emergenza 112. Subito prima l’ex guardia forestale aveva chiamato il papà di Max. «È morto vieni subito», aveva detto, disperato. In paese nessuno ha voglia di parlare, Massimiliano era un gigante buono, era un ragazzo che tutti amavano e anche Gionta era stimato. Una doppia tragedia che colpisce al cuore una piccola comunità di sole trecento anime e che lascia tanti, troppi interrogativi aperti.

La Repubblica il 2 Novembre 2022.

La piccola comunità di Celledizzo, frazione di circa 350 abitanti del Comune di Peio, in Trentino, è incredula. In 24 ore si ritrova a piangere due concittadini. Lunedì mattina, nei boschi sopra il paese, è stato trovato morto Massimiliano Lucietti, 24 anni, giovane cacciatore ucciso da un colpo di fucile sparato dal basso verso l'alto, che lo ha raggiunto all'altezza della gola. Questa mattina, un'altra tragedia: l'uomo che ha rinvenuto il corpo del 24enne, anche lui cacciatore, è stato trovato senza vita. 

È stata la famiglia a dare l'allarme, preoccupata per la sua assenza. Il 59enne, secondo gli elementi raccolti dai carabinieri, si sarebbe suicidato sparandosi con un fucile da caccia. È stato trovato durante le ricerche dei carabinieri, dei vigili del fuoco volontari e del soccorso alpino nei boschi sopra Celledizzo, in una zona diversa da dove è stato trovato morto Massimiliano Lucietti.

Lunedì mattina, attorno alle 7.45, era stato proprio il 59enne a dare l'allarme e segnalare il cadavere del giovane cacciatore e vigile del fuoco volontario, dipendente della Fucine Film di Ossana, che era uscito presto di casa, da solo, e si era incamminato verso i boschi sopra il paese. Poi il ritrovamento. L'allarme, i colleghi vigili volontari di Massimiliano Lucietti che arrivano sul posto. Lo sgomento. 

Stabilire se via sia un legame tra i due decessi è però ancora prematuro e al momento non ci sono elementi che possano collegare i due fatti. Per chiarire la vicenda sarà fondamentale il risultato dell'autopsia sul corpo del 24enne, che è prevista per mercoledì.

E altrettanto importanti saranno gli accertamenti che condurrà il Ris sugli elementi di prova raccolti dai carabinieri della Compagnia di Cles e del Nucleo investigativo di Trento: l'arma, le munizioni e anche un bossolo, quindi un colpo esploso, trovato accanto al corpo di Massimiliano Lucietti, saranno analizzati dai tecnici del Reparto investigazioni scientifiche, che svolgeranno anche delle prove balistiche.

"Era un ragazzo disponibile, attivo, socievole. Dopo aver fatto parte del gruppo allievi è passato con noi volontari circa quattro anni fa. A Celledizzo era sempre attivo nel Gruppo giovani, mettendosi sempre in gioco per dare una mano nell'organizzare eventi, feste e sagre", ha ricordato il comandante dei vigili del fuoco volontari, Vincenzo Longhi. Il giovane lascia la mamma Mirta, il papà Roberto ed il fratello Mattia.

Cacciatore morto in Trentino: si tratta di omicidio, ucciso con un colpo alla nuca. La Repubblica il 2 Novembre 2022 

Il foro di entrata della pallottola è nella parte posteriore della testa. A sparare un'altra arma. Chi ha premuto il grilletto forse non l'ha fatto intenzionalmente. Resta il giallo sul suicidio dell'ex guardia forestale che si è tolta la vita due giorni dopo

Non si è tratto di un errore né di un suicidio. Massimiliano Lucietti, il cacciatore di 24 anni trovato morto domenica mattina nei boschi di Celledizzo, in Trentino, è stato ucciso. Gli inquirenti escludono il suicidio perché, grazie all'esame del corpo del giovane cacciatore, è emerso che il foro d'entrata del proiettile che l'ha ferito mortalmente è sulla nuca. Il colpo, sparato da una distanza di almeno mezzo metro - ma potrebbe essere anche maggiore - è poi uscito dal collo.

Il giallo del soccorritore suicida

Inizialmente si pensava anche all'ipotesi del gesto estremo, ma gli accertamenti hanno portato ad escludere l'ipotesi. Oltre al fucile della vittima, era stato sequestrato anche quello del 59enne Maurizio Gionta, cacciatore ed ex guardia forestale, che ha ritrovato il corpo del giovane e poi, secondo gli elementi raccolti dai carabinieri, lunedì mattina si è tolto la vita. L'uomo, che era stato sentito come persona informata sui fatti, ma non era indagato, e su cui non c'erano sospetti, ha lasciato anche un biglietto in cui ha chiesto di non essere incolpato per la morte del 24enne.

Le piste investigative

Secondo il pm Davide Ognibene, che nell'immediatezza ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti, tutte le piste sono aperte compresa quella dell'omicidio volontario. La Procura di Trento, guidata dal procuratore Sandro Raimondi, attende la relazione completa dell'autopsia, svolta oggi sul corpo del 24enne, e anche i risultati delle perizie balistiche e delle analisi del Ris sulle armi sequestrate. Sarà infatti dirimente individuare l'arma che ha sparato il colpo mortale per chiarire la vicenda. L'ipotesi del gesto estremo era supportata dal fatto che, inizialmente, sembrava che il proiettile fosse stato sparato dal basso verso l'alto, raggiungendo il giovane cacciatore all'altezza della gola. Ma gli accertamenti svolti hanno fugato i dubbi.

Chi ha sparato?

Resta ovviamente da capire chi abbia sparato. E se lo abbia fatto intenzionalmente. Oppure se si sia trattato di un tragico incidente, che sembrerebbe essere l'ipotesi più probabile. Che la morte di Massimiliano Lucietti sia collegata al suicidio di Maurizio Gionta, trovato morto il giorno successivo, sembra ormai evidente. Oltre al fucile da caccia trovato a poca distanza dal corpo di Lucietti - vicino al quale è stato rinvenuto anche un bossolo - i carabinieri del Nucleo investigativo di Trento e della Compagnia di Cles hanno infatti sequestrato anche l'arma del 59enne.

Trento, il giallo del giovane cacciatore ucciso: era sdraiato a terra per sparare. Redazione Cronaca su La Repubblica l’8 Novembre 2022.

Massimiliano Lucietti, ucciso il 30 ottobre durante una battuta di caccia 

I rilievi degli investigatori sul corpo del 24enne portano a stabilire la sua posizione nel momento in cui un colpo di fucile l'ha colpito alla nuca: era steso sul terreno per prendere la mira. Chi l'ha ucciso nel bosco non era quindi troppo distante. Il cacciatore che l'ha trovato morto il giorno dopo si è suicidato. Lasciando un biglietto in cui si discolpa

 Steso a terra, con ogni probabilità nella posizione classica del cacciatore che imbraccia il fucile mirando alla preda. Alle sue spalle qualcuno avrebbe esploso un colpo di Winchester, freddandolo con un proiettile alla nuca da pochi metri di distanza. Massimiliano Lucietti, 24 anni, di Celledizzo di Peio, in val di Sole, sarebbe morto così domenica 30 ottobre nei boschi a due passi da casa. È quanto si apprende dagli inquirenti che stanno analizzando ogni dettaglio scientifico emerso dagli esami autoptici.

Il corpo del vigile del fuoco volontario è stato ritrovato quasi subito da un altro cacciatore, Maurizio Gionta, un forestale in pensione che il giorno seguente si è suicidato. "Non attribuitemi colpe che non ho", ha lasciato scritto il 59enne, sentito per ore dai carabinieri come persona informata sui fatti nell'immediatezza del ritrovamento. I familiari hanno dato mandato all'avvocato Andrea de Bertolini di difenderne l'onorabilità "in nome della verità".

Un giallo nel giallo anche per il pm Davide Ognibene: sul suo tavolo c'è un fascicolo per omicidio colposo che non esclude al momento altre ipotesi, compresa quella dell'omicidio volontario. Pista che non può essere tralasciata, almeno fino a quando non saranno disponibili le risultanze balistiche dei carabinieri del Ris di Parma che stanno analizzando l'ogiva, peraltro deteriorata, ritrovata accanto al corpo del giovane cacciatore. Le perizie dovrebbero essere depositate in procura nel giro di un paio di giorni.

I carabinieri hanno ascoltato e messo a verbale le testimonianze di altri cacciatori che lunedì scorso, nelle ore della tragedia, erano appostati nei boschi per le consuete battute. "Dichiarazioni da approfondire", precisano gli inquirenti che hanno raccolto informazioni anche dagli abitanti di Celledizzo e dai componenti delle associazioni venatorie locali per incrociare racconti e testimonianze. "Abbiamo piena e totale fiducia nell'opera investigativa messa in atto da carabinieri e magistratura", fanno sapere i familiari della vittima attraverso l'avvocato Giuliano Valer.

Massimiliano freddato: colpo alla nuca. L'amico suicida: "Non incolpate me". Maurizio dopo l'interrogatorio è andato nei boschi e si è ucciso. Stefano Vladovich il 3 Novembre 2022 su Il Giornale.

Ucciso a fucilate da un misterioso assassino. Dopo 24 ore l'uomo che rinviene il cadavere si suicida. «Non mi attribuite colpe che non ho» scrive su un biglietto Maurizio Gionta, 59 anni, forestale in pensione, prima di esplodersi un colpo calibro 12 alla testa. Due morti in poche ore nei boschi di Celledizzo, a sud di Peio, in Trentino, senza un perché. Il cadavere trovato lunedì mattina da Gionta nei boschi sopra il paesino di 350 anime è di Massimiliano Lucietti, 24 anni, dipendente della Fucine Film di Ossana, anche lui cacciatore e volontario vigile del fuoco. Il corpo riverso a terra vicino alla cartuccia esplosa e all'arma. Un colpo sparato a bruciapelo, a mezzo metro distanza, tirato dall'alto verso il basso. Per il medico legale il foro d'entrata è nella nuca mentre quello di uscita è nel collo. Insomma Lucietti è stato ucciso. E il primo ad essere interrogato dai carabinieri è proprio Gionta.

Un interrogatorio formale, visto che non c'è nessun indagato nel fascicolo aperto dalla Procura per omicidio colposo. Era uscito all'alba del 31 ottobre per una battuta di caccia nei boschi, Massimiliano. Un giovane benvoluto da tutti: «Un ragazzo disponibile - ricorda il comandante dei volontari vigili del fuoco, Vincenzo Longhi - attivo, socievole. Sempre in prima linea nel gruppo giovani per organizzare eventi, feste e sagre». Sconvolti i familiari, la mamma Mirta, il papà Roberto e il fratello Mattia. L'arma del delitto, la doppietta di Massimiliano, è stata sequestrata e sottoposta alle prove balistiche. Da stabilire se è con questa che il 24enne è stato ammazzato attraverso la comparazione della canna con i pallini recuperati. Mentre i carabinieri di Cles, con i colleghi del nucleo investigativo di Trento, congelano la scena dell'omicidio per portare più elementi possibile in laboratorio, martedì i familiari di Gionta, preoccupati perché non è rincasato, lanciano l'allarme per la sua scomparsa. Sono gli stessi volontari a organizzare una battuta di ricerca in zona. Il corpo di Gionta viene trovato ore dopo sempre nei boschi ma in una zona diversa da quella in cui lui stesso aveva segnalato il cadavere dell'amico. Sull'erba, accanto al corpo senza vita, il suo fucile, anche questo sequestrato, e il biglietto, su cui verrà eseguita una perizia calligrafica.

Temeva di essere accusato dell'omicidio di Massimiliano tanto da togliersi la vita? Sarà il Ris, il Reparto investigativo dell'Arma, a cercare una risposta in quello che sembra davvero un omicidio-suicidio di due persone legate dalla stessa passione per i boschi. Gionta si è sparato il colpo mortale tanto da archiviare il caso come un suicidio o anche lui è stato ucciso da qualcuno che ha simulato, poi, il gesto estremo scrivendo su un pezzo di carta quelle poche righe? Ancora. Il suo fucile è lo stesso ad avere ucciso Lucietti? Le due morti, insomma potrebbero essere collegate. Il primo scenario: Gionta uccide Lucietti con il fucile della vittima. Il giorno dopo si spara, ma con la propria arma. L'altro è che Gionta potrebbe aver usato il proprio fucile per uccidere, non quello di Lucietti, e, per paura di essere scoperto, si toglie la vita. Ultima ipotesi: entrambi uccisi da un terzo uomo che ha inscenato il tutto.

Patricia Tagliaferri per “il Giornale” il 9 novembre 2022.

Non è stato un incidente venatorio, né un suicidio. Qualcuno la mattina del 31 ottobre ha sparato a distanza ravvicinata, forse mentre era a terra intento a prendere la mira per centrare qualche animale, a Massimiliano Lucietti, il cacciatore di 24 anni trovato morto in un bosco a Celledizzo, in Val di Sole, in Trentino. 

Il suo corpo era stato scoperto da un altro cacciatore, Maurizio Gionta, 59 anni, forestale in pensione, che il giorno dopo si è tolto la vita, sparandosi alla testa proprio nella stessa zona, lasciando un biglietto con scritto: «Non attribuitemi colpe che non ho». Parole che hanno reso ancora più fitto il mistero su una vicenda ancora poco chiara.

L'uomo era stato sentito a lungo dagli inquirenti come persona informata sui fatti, ma non era indagato, anche se il suo gesto ha finito per alimentare i sospetti che potesse avere a che fare con la morte di Lucietti. Poi la tragedia, che non ha chiarito i dubbi sull'accaduto. 

Analizzando i referti autoptici e i primi risultati della perizia balistica, i magistrati hanno accertato che il giovane è stato ucciso con un colpo di Winchester alla nuca sparato da una distanza di mezzo metro o poco più. È stato identificato anche il proiettile che non gli ha lasciato scampo: si tratta di un calibro 270 compatibile con la carabina utilizzata da Gionta, ma anche molto diffuso nell'ambiente venatorio, tanto da risultare compatibile con una ventina di fucili regolarmente denunciati dai cacciatori della zona. 

Non è detto, dunque, che sia stato l'ex forestale a sparare, è possibile che sia stato un altro cacciatore a premere il grilletto. Una terza persona che quella mattina si trovava nello stesso bosco e che ha poi fatto perdere le sue tracce. 

Di certo il proiettile ha raggiunto Lucietti alle spalle per poi uscire dal collo. Una traiettoria che ha escluso definitivamente l'ipotesi del suicidio, formulata in un primo momento perché sembrava che il proiettile fosse stato sparato dal basso verso l'alto.

Il ragazzo inoltre utilizzava il calibro 300, quindi il colpo è non certamente partito dal suo fucile. I militari del Ris stanno ancora lavorando per accertare se sia stato quello di Gionta a sparare. Le analisi balistiche si stanno concentrando sull'impronta lasciata sull'ogiva, per capire se il colpo sia partito dalla carabina dell'ex forestale. 

Un compito non facile, in quanto la pallottola si è deformata nell'impatto. La famiglia dell'uomo respinge ogni insinuazione e ha dato mandato ad un avvocato per difendere l'onorabilità del cacciatore che si è ucciso dopo avere trovato il corpo chiedendo di non essere incolpato della morte del ragazzo.

Al momento non risulta indagato nessuno: la Procura di Trento ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti, ma le indagini procedono in diverse direzioni e non è escluso che presto possa essere ipotizzato l'omicidio volontario.

Nei giorni scorsi i carabinieri hanno sentito alcuni cacciatori che si trovavano in zona la mattina del 31 ottobre. Tanti i punti ancora da chiarire, non ultimo il perché Gionta abbia deciso di farla finita, per di più nello stesso bosco dove è morto Lucietti. Resta in piedi l'ipotesi del terzo uomo.

Tanto che l'attenzione degli investigatori si sta concentrando sui rapporti tra i cacciatori della zona, che non sarebbero stati per niente distesi. In passato ci sarebbero stati accesi confronti per assicurarsi le postazioni di caccia più favorevoli.

Trentino, il giallo dei cacciatori morti in Val di Sole. I Ris scagionano Gionta: quella mattina il suo fucile non sparò. Dafne Roat su Il Corriere della Sera il 26 Gennaio 2023.

A Celledizzo in ottobre un vigile del fuoco volontario fu trovato senza vita durante una battuta di caccia. L'ex guardia giurata si tolse la vita 24 ore dopo

Non c'era polvere da sparo sulle mani e sugli abiti di Maurizio Gionta. Dopo mesi di dubbi, interrogativi sospesi e due famiglie distrutte dal dolore che a fatica stanno cercando di ritrovare un pizzico di normalità, è arrivata una prima risposta certa dalle indagini dei carabinieri del Ris di Parma che forniscono un elemento importante per la ricerca della verità sulla tragedia dei boschi di Celledizzo. Le analisi di laboratorio al microscopio sugli stub effettuati su mani, braccia e abiti dell’ex guardia forestale della val di Sole non evidenziano residui di polvere da sparo. Non sono state trovate particelle neppure sui tamponi effettuati sulla bocca e sul naso. Le analisi tecniche sembrano quindi scagionare Gionta, non sarebbe stato lui a sparare il colpo fatale che ha ucciso Massimiliano Lucietti, il vigile del fuoco volontario trovato senza vita la mattina del 31 ottobre scorso nei boschi durante una battuta di caccia.

Il  biglietto

È difficile in queste ore non pensare al biglietto lasciato dall’ex guardia forestale in pensione sul cruscotto dell’auto poco prima di togliersi la vita, ventiquattro ore dopo la tragedia di Celledizzo. «Non addebitatemi responsabilità non mie», aveva scritto. Poche parole che hanno il sapore di un grido d’innocenza. E ora le analisi del Ris sembrano confermare quella verità che Gionta ha ribadito più volte nelle lunghe ore di colloquio con i carabinieri. Nella relazione, consegnata in Procura, i carabinieri spiegano che «non sono state rivenute particelle “peculiari” dello sparo». Le analisi hanno evidenziato solo alcune particelle «compatibili» che, però, «se considerate da sole — sottolineano i carabinieri del Ris della Sezione chimica, esplosivi e infiammabili — assumono una valenza limitata atteso che, per loro natura, possono essere anche di origine ambientale o derivare da fonti occupazionali». È infatti possibile trovare «particelle di questa natura anche in ambienti comuni», ricordano gli investigatori. Un’osservazione importante che può aiutare a fare maggiore chiarezza su una tragedia che resta comunque avvolta nel giallo. Chi ha esploso il colpo fatale che ha ucciso Max? È un interrogativo a cui nessuno finora è riuscito a rispondere. L’unico aspetto che appare certo è che si tratta di un tragico incidente di caccia.

Le analisi del Ris

Il Ris ha analizzato anche gli stub effettuati sugli abiti e sul corpo del povero Max, il gigante buono, come tutti lo chiamavano in paese. Le analisi in questo caso evidenziano residui di polvere da sparo in particolare sulla mano, sulla guancia e i capelli. Sarebbero state trovate particelle compatibili anche con il munizionamento del fucile di Lucietti, un Winchester Magnum calibro 300. Questo può far pensare che quella mattina Max aveva sparato prima di essere raggiunto dal colpo fatale alla nuca. Ma sono ancora tanti i particolari da chiarire, la perizia balistica consegnata al pm lo scorso dicembre non aveva dato risposte certe. Gli approfondimenti sull’ogiva trovata accanto al corpo di Lucietti avevano evidenziato una corrispondenza con un fucile Winchester calibro 270, lo stesso che aveva Gionta, ma «non sufficienti a suffragare un sicuro giudizio di unica provenienza balistica», aveva scritto il Ris nel documento. E comunque si tratta di un’arma molto comune tra i cacciatori. Si continua a cercare la verità. Le indagini dei carabinieri del nucleo investigativo in questi mesi non si sono mai fermate e sono in corso ulteriori approfondimenti chiesti dal pm Davide Ognibene, titolare del fascicolo d’indagine. Nel corso delle indagini sono stati sentiti altri cacciatori della zona, sono almeno una ventina quelli che possiedono la stessa arma di Gionta.

Le mosse della procura

Ora si attende di capire quali saranno le prossime mosse della Procura, resta la tragedia che ha colpito al cuore tutta la comunità di Celledizzo, il dolore di due famiglie unite nella sofferenza. La famiglia di Gionta, rappresentata dall’avvocato Andrea de Bertolini, mantiene il silenzio e così anche i genitori di Max che attendono gli sviluppi delle indagini. Poche le battute lasciate dal loro avvocato Giuliano Valer: «Manteniamo ancora cautela in ordine a valutazioni essendoci altri approfondimenti da svolgere e altre attività investigative in programma».

Assisi, Davide Piampiano morto durante una battuta di caccia, un arresto. Svolta dalle immagini della GoPro. Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.

Un arresto per omicidio volontario con dolo eventuale è stato eseguito dai carabinieri che indagano sulla morte di un giovane durante una battuta di caccia al cinghiale nelle campagne di Assisi

Svolta nelle indagini sulla morte di un 25enne di Assisi, morto durante una battuta di caccia, nei pressi del monte Subasio, in provincia di Perugia. Nel pomeriggio di oggi, i carabinieri della compagnia di Assisi hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Perugia nei confronti di un uomo, residente ad Assisi, individuato quale presunto autore dell’omicidio del 25enne, Davide Piampiano.

Nei confronti dell’indagato, il Giudice delle indagini preliminari ha ritenuto, sulla scorta degli elementi raccolti della Procura della Repubblica, sussistenti gravi indizi di colpevolezza per il reato di omicidio volontario con dolo eventuale. Da una prima ricostruzione della dinamica, basata sulle dichiarazioni rese da parte dei vari testimoni, era, invece, emerso che la vittima si trovava a caccia con un altro amico e che un terzo cacciatore, non impegnato con loro nella battuta ma residente in quella località, aveva trovato la vittima in fin di vita dopo aver udito in lontananza uno sparo ed essersi avvicinato per verificare se i due fossero riusciti ad abbattere un cinghiale.

In sede di autopsia erano emersi numerosi dubbi sull’ipotesi del colpo fosse stato esploso accidentalmente dallo stesso 25enne, poiché sembrava da escludersi che potesse essere partito a bruciapelo. Le indagini dei carabinieri hanno poi consentito la svolta e quindi di ricostruire una dinamica ben diversa dei fatti. Sul luogo dell’incidente, avvenuto l’11 gennaio, i carabinieri hanno sequestrato, oltre ai telefoni, alle armi e agli indumenti dei presenti, anche una GoPro che la vittima utilizzava per pubblicare i suoi contenuti sui social. Èd è proprio dall’analisi delle immagini della GoPro che è emersa la verità sull’accaduto. I filmati, particolarmente crudi e drammatici, hanno permesso di stabilire che il colpo fatale certamente non è stato esploso dal fucile di Pimpiano a seguito di una caduta, ma da quello di un terzo uomo che partecipava alla battuta di caccia.

Proprio quest’uomo, accortosi di quanto accaduto, avrebbe secondo quanto si comprende dal filmato, cercato di depistare le indagini alterando lo stato dei luoghi, scaricando l’arma di Piampiano, disfacendosi del proprio fucile e della propria giacca da caccia e soprattutto omettendo di chiamare tempestivamente i soccorsi, avvisati solo dopo vari minuti da un altro giovane. Il comportamento ha consentito di ipotizzare a carico dell’autore dello sparo l’ipotesi dolosa di omicidio, avendo «con la sua scelta di non chiamare immediatamente i soccorsi accettato il rischio che il soggetto colpito potesse morire». Il presunto responsabile si trova ora a Capanne.

Morto a caccia: c'è un arresto per omicidio. Non si trattò di incidente. La svolta dalle immagini della telecamera GoPro. Redazione il 28 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Svolta nelle indagini sulla morte di Davide Piampiano, il 24enne di Assisi morto lo scorso 11 gennaio durante una battuta di caccia, nei pressi del monte Subasio (Perugia). Non è stato un incidente, una caduta che poteva avere fatto partire un colpo dal suo fucile da caccia, come ipotizzato in un primo momento. Il giovane è morto dopo essere stato raggiunto dal colpo esploso da un'altra persona, forse qualcuno che come lui stava cacciando cinghiali nelle campagne di Assisi. Ad aiutare gli investigatori, che hanno rintracciato il responsabile, anche le immagini delle piccola telecamera, una GoPro, che la vittima aveva sempre con sé.

Ieri i carabinieri hanno eseguito un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Perugia nei confronti di un uomo, residente ad Assisi, accusato ora di omicidio volontario con dolo eventuale. Da una prima ricostruzione della dinamica era emerso che il 24enne si trovava a caccia con un amico e che un terzo cacciatore lo aveva trovato in fin di vita dopo avere udito in lontananza uno sparo ed essersi avvicinato. L'autopsia aveva fatto emergere numerosi dubbi sull'ipotesi che il colpo fosse stato esploso accidentalmente dallo stesso Piampiano, poiché sembrava da escludersi che potesse essere partito a bruciapelo. Le indagini hanno così portato gli inquirenti a ricostruire una diversa dinamica dei fatti. Le immagini della GoPro, particolarmente crude e drammatiche, hanno consentito di stabilire che il colpo fatale certamente non è stato esploso dal fucile della vittima a seguito di una caduta, ma da quello di un terzo «presumibilmente» anche lui nella battuta di caccia, che poi avrebbe cercato di depistare le indagini alterando lo stato dei luoghi, scaricando l'arma del ventiquattrenne, disfacendosi del proprio fucile e della giacca da caccia e soprattutto «omettendo di chiamare tempestivamente» i soccorsi, avvisati dopo vari minuti da un altro giovane.

Estratto dell’articolo di Salvatore Mannino per corriere.it il 28 gennaio 2023.

Lo ha ucciso quello che lui chiamava "secondo papà", così come la moglie era la sua "seconda mamma". Un caro amico di famiglia, insomma, uno nelle cui braccia Davide Piampiano, 24 anni, era cresciuto e che, dopo un tragico incidente di caccia sulle montagne sopra Assisi, nella zona del Monte Subasio, lo ha lasciato ad agonizzare per qualche decina di minuti, senza soccorrerlo, preoccupandosi solo (se è vera la ricostruzione della procura di Perugia diretta da Raffaele Cantone) di alterare la scena in modo da non apparire lui come il responsabile.

Piero F. è ora nel carcere di Capanne, a Perugia, accusato di omicidio volontario sotto il profilo del dolo eventuale: ritardando l'allarme e anzi cercando di far apparire che il giovane fosse stato colpito da una cartuccia del suo stesso fucile, dopo una caduta, ha accettato il rischio che Piampiano potesse morire. Lo hanno incastrato poi, sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, le immagini riprese dalla Go Pro, la telecamera che Davide portava sempre con sé per riprendere filmati della caccia che poi postava sui social. […]

Nella battuta di caccia al cinghiale erano in tre, Davide, Piero F. e un altro amico. Stavano tutti rientrando e il giovane stava scendendo lungo un viottolo impervio. All'improvviso il colpo che lo raggiunge al petto. Sparo accidentale ovviamente, partito dal fucile dell'arrestato, ma il suo "secondo papà", invece di chiamare subito i soccorsi, stando alle immagini rimaste nella telecamera di quella che potrebbe a buon diritto essere definita come una morte in diretta, ha altri pensieri.

 Prima scarica l'arma del figlioccio, sparando un colpo a simulare che fosse quello fatale, poi si libera del suo fucile e degli abiti da caccia. Nel frattempo, Davide sta sempre peggio, fino a morire. E quando arrivano finalmente i soccorritori c'è già una "verità" pronta: ha fatto tutto da solo.

Ma qualcosa non torna, a cominciare dall'autopsia, nella quale non risulta alcun segno di un colpo a bruciapelo, come avrebbe dovuto essere se Davide si fosse sparato da solo. […]

La tragedia del 24enne. Ucciso a caccia, arrestato per omicidio l’uomo che Davide Pampiano chiamava “secondo papà”. Vito Califano su Il Riformista il 28 Gennaio 2023

Davide Piampiano era a caccia con l’uomo che chiamava il suo “secondo papà” quando è morto, a 24 anni, per quello che dopo i primi accertamenti era stato raccontato come un tragico incidente sulle montagne sopra Assisi, nella zona del Monte Subasio. Quell’uomo però ora è in carcere, a Capanne a Perugia, accusato di omicidio volontario sotto il profilo del dolo eventuale. A incidete sulle indagini le immagini riprese dalla GoPro, la telecamera che la vittima portava sempre con sé quando partiva per le battute di caccia.

Piampiano era con altre due persone nella caccia al cinghiale dello scorso 11 gennaio. Aveva studiato economia all’università di Perugia, lavorava nel ristorante pizzeria di famiglia nel cuore del centro storico. Era molto conosciuto: giocava a calcio nel Viole, iscritta al campionato di Promozione, e faceva il dj. Era inoltre un figurante della rappresentazione folkloristica “Nobilissima parte di sopra”.

Stava tornando dalla battuta – riporta la ricostruzione del Corriere Fiorentino – quando un colpo lo ha raggiunto al petto. Lo sparo sarebbe partito in maniera accidentale, secondo le indagini, dal fucile dell’uomo arrestato. Quest’ultimo però invece di chiamare subito i soccorsi avrebbe stando all’accusa scaricato l’arma del 24enne, sparato un colpo, buttato il suo fucile e le armi da caccia. Quando i soccorsi sono arrivati sul posto ormai non c’era più niente da fare per il giovane. Questa la versione ricostruita nell’ipotesi di accusa.

Già dall’autopsia qualcosa non sarebbe risultata chiara o coerente agli inquirenti: la prima versione voleva che il 24enne si fosse sparato da solo, a bruciapelo. I carabinieri avevano intanto recuperato la telecamera dalla quale avrebbero acquisito le immagini. Così si è arrivati alla richiesta di custodia cautelare. Il Procuratore di Perugia Raffaele Cantone ha spiegato che per formulare la pesante ipotesi di reato si è fatto riferimento al caso di Marco Vannini. “Non è possibile, era come un padre”, la reazione della madre del 24enne quando è stata informata dell’arresto dell’amico di famiglia secondo quanto riportato dal Corriere. Sconvolta la comunità di parenti, amici e conoscenti dal rivolgimento improvviso nelle indagini.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato

Salvatore Mannino per corriere.it il 31 gennaio 2023.

«Vorrei essere morto io al suo posto, la mia vita è finita quando ho ucciso Davide, che consideravo il figlio che non ho mai avuto». È drammatico l'interrogatorio di garanzia che Piero Fabbri, 56 anni, accusato di omicidio volontario, sotto il profilo del dolo eventuale, per la tragica fine nelle campagne di Assisi dell'amico Davide Piampiano, lasciato agonizzare senza chiamare i soccorsi, ha reso stamani davanti al Gip nel carcere di Capanne a Perugia. […]

 L'interrogatorio avviene in camera di consiglio, quindi senza la presenza di pubblico, e perdi più dentro una galera. Nessun estraneo quindi assiste alle frasi di pentimento del muratore assisano, per le quali bisogna affidarsi alle parole del suo avvocato Luca Maori.

 È lui a riferire anche la spiegazione che Fabbri dà del suo atteggiamento, prima la menzogna anche col terzo protagonista della battuta al cinghiale, un coetaneo di Davide, poi con la famiglia, dinanzi alla quale ha ostentato per giorni la sua partecipazione al dolore, in prima fila alla camera ardente, in prima fila anche al funerale. «Ha fornito una versione stupida e assurda – spiega il legale – per senso di colpa e di vergogna, non aveva il coraggio di ammettere coi genitori di essere stato lui ad uccidergli il figlio».

L'accusato, tuttavia, nega di aver depistato le indagini ed è questo il passaggio decisivo, perché l'accusa di omicidio volontario regge solo se davvero Fabbri ha tenuto quell'atteggiamento omissivo che gli contesta la procura di Perugia, accettando il rischio che Davide morisse, pur di non apparire lui come il responsabile dello sparo, nascondendo il suo fucile, spogliandosi degli abiti da caccia e non rispondendo alle disperate richieste di aiuto del ragazzo: «Non lasciarmi qui a morire», almeno stando alle immagini riprese dalla telecamera Go Pro che Piampiano portava nel berrettino e che è volata a terra dopo la fucilata al petto.

«Era quasi buio, ho sentito un fruscio e ho sparato. Credevo fosse il cinghiale». L'audio della telecamera integra il suo racconto. Si sente il Biondo che dice a Davide: «Dove ti ho preso, pensavo fossi il cinghiale». Poi la telefonata al terzo cacciatore, che infine chiamerà i soccorsi, in dialetto: «Curre, Curre che a Davide gli è partito un colpo. Tocca arcacciallo di qui (dal sottobosco impervio Ndr), io sto di qui, cerco de non fallo svenì». I soccorsi? «Chiamali tu», dice all'altra doppietta. […]

Un caso mai risolto da 28 anni diventato virale su TikTok. Il mistero di Volpe 132, l’elicottero della Guardia di Finanza sparito nel nulla. Elena Del Mastro su Il Riformista il 27 Dicembre 2022

Un video di Marcel Aregoni andato in virale su TikTok che riprende il docufilm “Il Grano e la Volpe” di Vincenzo Guerrizio, Raffaele Manco, Francesco Deplano e Raquel Garcia Alvarez, racconta uno dei più grandi misteri dell’aviazione italiana. Si tratta della sparizione dell’elicottero della Guardia di Finanza Volpe 132 e dei due piloti che erano a bordo: il maresciallo Gianfranco Deriu e il brigadiere Fabrizio Sedda. Uno dei cold case italiani mai risolti. Cosa successe quando la sera del 2 marzo 1994 dell’elicottero si persero completamente le tracce? Ventotto anni dopo quel drammatico evento non ci sono ancora risposte certe. L’episodio fu ribattezzato dalle cronache dell’epoca l’”Ustica sarda”.

Volpe 132 era il nome in codice dell’elicottero Agusta A-109A Mk.II Hirundo, in forza presso la Sezione aerea di manovra Elmas della Guardia di Finanza. La notte del 2 marzo 1994 si schiantò al largo di Capo Ferrato, presso la rada di Feraxi, a Muravera. Secondo quanto riportato in una vecchia inchiesta di Repubblica sul caso, quattro testimoni videro o sentirono l’esplosione di un elicottero che stava sorvolando una nave mercantile a poca distanza dalla costa. Il brigadiere Sedda, 28 anni, era ai comandi, al suo fianco c’era il maresciallo Deriu, 41 anni. I loro corpi non sono mai stati trovati. Qualche giorno dopo furono rinvenuti solo alcuni pezzi dell’elicottero, nessuna traccia del relitto.

I testimoni dichiararono che l’elicottero era caduto in prossimità di una nave portacontainer ancorata in quel tratto di mare da alcuni giorni. Secondo alcuni abitanti della zona, l’imbarcazione, in seguito identificata con il mercantile Lucina, avrebbe preso rapidamente il largo dopo l’abbattimento dell’elicottero. La nave fu successivamente coinvolta nella strage di Djen-Djen, avvenuta nel luglio dello stesso anno a Taher, in Algeria. Proprio in quel porto fu teatro dell’eccidio di sette marinai italiani ad opera di un gruppo di estremisti islamici il 6 luglio 1994. Tutti i membri dell’equipaggio furono sgozzati. Il sospetto è che trasportasse un carico di armi invece della semola che era stata dichiarata.

Non è questa l’unica coincidenza di questo incredibile mistero. Il Volpe 132 fu abbattuto circa tre settimane prima dell’omicidio di Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin che stavano indagando su traffici di armi o di scorie radioattive. Una delle ipotesi che circolò è che l’elicottero, decollato dall’Aeroporto Militare A.M. di Cagliari-Elmas “Mario Mameli”, sarebbe stato abbattuto in volo per ragioni afferenti al traffico internazionale di armi e di rifiuti tossici. La Procura di Cagliari aprì un’inchiesta e da subito saltarono fuori incredibili difficoltà e qualche sospetto di depistaggio. Nei primi anni si pensò che si fosse trattato di un incidente. Ma nel 2011, dopo una serie di appelli da parte dei familiari delle vittime e dei testimoni, la Procura di Cagliari ha abbandonato la pista del disastro aviatorio per quella dell’omicidio plurimo volontario.

Furono sentiti 4 testimoni: il giardiniere di Feraxi Giovanni Utzeri, Gigi Marini operaio di Villacidro in pensione, Antonio Cuccu, il presidente della cooperativa pescatori di Feraxi, e Giuseppe Zuncheddu, un capraro originario di Burcei che dichiararono di aver sentito il forte boato. Ma della nave non si trovò mai traccia. E da qui il sospetto che qualcuno lo avesse spostato da quella rada profonda pochi metri. Qualcuno che avesse avuto i mezzi per trascinarlo dove le acque sono profondissime tanto da non essere mai più trovato.

A un certo punto, sulla relazione interna della Gdf venne persino opposto il segreto di Stato che i magistrati, insistendo riuscirono a far togliere. Le conclusioni del documento erano che, forse, si era trattato di un incidente ma che, senza relitto, era impossibile dire di più. Insomma nulla che potesse giustificare il segreto di stato. A questi misteri si aggiungeva anche un altro dettaglio che non quadrava nella ricostruzione: l’assenza di comunicazioni tra l’elicottero Volpe 132 e la motovedetta G.63 della Guardia di Finanza, una zona d’ombra in cui si sarebbe trovato l’elicottero, i 40 minuti di silenzio nelle comunicazioni.

Sempre un’inchiesta di Repubblica riporta che un elicottero gemello del Volpe 132, fu sottratto dal deposito della Guardia di Finanza di Oristano e, in seguito ad una telefonata anonima, fu ritrovato smontato presso un immobile del patrimonio dello Stato, adibito ad uso governativo, sito a Quartu Sant’Elena: il sospetto è che si volesse orchestrare con i pezzi del velivolo un ritrovamento fasullo del Volpe 132, asseritamente abbattuto. In una relazione datata 16 marzo 2000, redatta dalla sezione della Polizia giudiziaria si afferma che il giorno della scomparsa dell’elicottero erano in corso esercitazioni militari con lancio di missili. Una nuova ipotesi si fece strada: l’elicottero possa essere stato abbattuto da un missile. Incidente, errore o omicidio? A 28 anni di distanza, quello del Volpe 132 resta un mistero.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Chivasso, Giusi «la cantante» era già morta da ore quando è stato scoperto il corpo. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2022.

Autopsia della 52enne uccisa con 3 colpi di pistola: potrebbe essere andata a un appuntamento o qualcuno potrebbe averla seguita. 

Potrebbe essere stata uccisa nella mattinata di giovedì 12 ottobre Giuseppina Arena, la 52enne di Chivasso trovata senza vita nelle campagne della piccola frazione di Pratoregio.

In base alle prime indiscrezioni filtrate dopo l’autopsia eseguita dal medico legale Roberto Testi, Giusi «la cantante» era già morta da parecchie ore quando il cadavere è stato scoperto da un passante sotto il cavalcavia dell’Alta velocità.

L’assassino, verosimilmente posizionato di fronte a lei, le ha sparato due colpi in fronte e un terzo allo zigomo destro, in rapida successione e da distanza molto ravvicinata.

Giusi, che viveva nelle case popolari di via Togliatti, è stata vista dai vicini alle 10 di giovedì mentre usciva dai garage dello stabile. Era in sella alla sua inseparabile bicicletta rossa, con la quale macinava chilometri per le strade di Chivasso e Montanaro ( il paese dove è cresciuta e dove vive suo fratello Angelo) intonando filastrocche e stornelli. Potrebbe essere andata a un appuntamento o qualcuno potrebbe averla seguita.

La bicicletta è stata ritrovata accanto al corpo assieme a tre bossoli calibro 7,65, compatibili con i proiettili che l’hanno uccisa. Questa mattina i carabinieri hanno eseguito una nuova ricognizione sul luogo del delitto per cercare la pistola che il killer potrebbe aver gettato. Al momento gli inquirenti, coordinati dalla Procura di Ivrea, non escludono nessuna ipotesi, ma la pista più probabile porta alla ricca eredità (circa 300 mila euro poi divisi con il fratello) ricevuta da Giusi dopo la morte della madre, avvenuta due anni fa.

L'omicidio della donna in bicicletta. Il giallo di Giusy “la cantante”, uccisa con 3 colpi in faccia: il caso dell’eredità e del killer. Vito Califano su Il Riformista il 14 Ottobre 2022 

Giuseppina Arena era conosciuta a Pratoregio, in provincia di Torino, la chiamavano “Giusy la cantante”. È stata trovata senza vita, a pochi chilometri da casa, uccisa da tre colpi di pistola nel giorno del suo compleanno. Colpi esplosi da distanza ravvicinata e al volto: come in un’esecuzione. Aveva 52 anni ed era in giro con la sua bicicletta. L’omicidio è un giallo sul quale si allunga l’ombra di un’eredità.

Arena era stata vista l’ultima volta dai vicini di casa ieri alle quattro del pomeriggio. Viveva in un piccolo alloggio, un monolocale di 40 metri quadri, di edilizia popolare in via Togliatti a Chivasso. È stata uccisa con tre colpi d’arma da fuoco esplosi a distanza ravvicinata, tutti al volto. Il corpo è stato ritrovato in un prato sotto a un cavalcavia. Nessuno al momento sembra aver sentito i colpi esplosi da una calibro 7,65. L’arma non è stata trovata dai militari.

Secondo quanto ricostruisce Il Messaggero la donna parlava molto e spesso della sua eredità: una casa e 60mila euro. I carabinieri hanno sentito ieri il fratello, Angelo, muratore che vive a Montanaro. Non è chiara l’entità delle tensioni, forse liti, tra i due legate a quell’eredità. Sorella e fratello avrebbero fatto anche ricorso a un avvocato. La vittima per il resto sembrava condurre una vita piuttosto serena. Era seguita dai servizi sociali, viveva con due cani e 15 gatti e ogni giorno si esibiva sotto i portici di via Torino tra i passanti e di fronte ai negozi.

Scriveva canzoni in cui raccontava anche storie di abusi, di due gemelli frutto di violenze sessuali, di un matrimonio finito male, della madre “che ha pensato a me e mi lascerà una bella eredità” – la cantava al futuro perché per lei la madre non era mai morta e ai vicini diceva di andate in bicicletta, con la sua Graziella, fino a Montanaro a trovarla.

Chi la conosceva concorda su una cosa: “Non ha mai fatto male a nessuno”. L’altra pista che riporta il quotidiano è più losca: “Potrebbe aver visto ciò che non doveva vedere”. L’autopsia sul corpo sarà eseguita oggi. Non è neanche escluso che la donna, che percorreva quella strada un paio di volte a settimana, sia stata uccisa altrove e il corpo spostato una volta cadavere.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

L’addio a Giusi la «cantante». «Magari l’assassino è qui, nascosto tra la folla». Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 24 Ottobre 2022.

L’ultimo saluto alla donna delle filastrocche. Sul delitto ancora tanti interrogativi. 

«Giusi non meritava di essere uccisa, è assurdo. Speriamo che chi l’ha ammazzata faccia la stessa fine». Parole ruvide, pesanti, pronunciate di getto da una donna sul sagrato della chiesa di Santa Maria Annunziata, a Montanaro. Dove lunedì 24 ottobre si sono svolti i funerali di Giuseppina Arena, freddata con tre colpi di pistola a Chivasso lo scorso 12 ottobre, il giorno del suo cinquantaduesimo compleanno. A due settimane di distanza l’omicidio resta avvolto nel mistero e le domande degli abitanti di due paesi aspettano risposte. L’ultimo saluto a Giusi la cantante, che alle difficoltà della vita rispondeva con le filastrocche inventate in sella alla sua bicicletta, ha chiuso il capitolo «pubblico» del dolore, ma lascia aperti ancora tanti interrogativi.

«Magari l’assassino è qui, nascosto tra la folla», sussurra un uomo non appena le telecamere delle televisioni si allontanano per seguire l’arrivo del feretro. Il suo stesso pensiero lo hanno avuto in molti, forse anche i carabinieri, presenti in divisa e in borghese, sotto i portici di via Matteotti. Si cercano sguardi, emozioni, indizi. Poi dalla piccola folla spunta la tuta nera di Angelo Arena che taglia il silenzio della piazza e si avvicina alla bara ricoperta di rose. Tutti gli occhi sono su di lui, che con il cappuccio della felpa calato sulla fronte non dice una parola. Poi si avvicinano i figli, gli amici, le zie.

Don Aldo pronuncia la benedizione e il feretro che entra in chiesa, portato sulle possenti spalle dei residenti della Coppina. È il quartiere popolare alla periferia di Chivasso, dove Giusi si era trasferita da molti anni e dove continuava a vivere, nonostante alla morte della madre lei e il fratello Angelo avessero ricevuto una cospicua eredità. Si parla di circa 120 mila euro a testa, fra contanti, immobili e titoli. Il denaro sembra la pista più probabile per arrivare alla soluzione del giallo, ma dal pulpito il parroco di Montanaro, prova a spegnere per qualche momento le «chiacchiere» e invita alla prudenza: «Sono state dette tante parole in questi giorni, siamo fatti così, ma a volte c’è bisogno di silenzio». E aggiunge: «Giusi era una donna semplice, chiamava “mamme” le suore con cui ha passato tanti momenti della sua giovinezza e magari trovava la gioia cantando. La vita è sacra, nessuno può toglierla, ma adesso speriamo che Giuseppina canti anche vicino al Signore».

Angelo, seduto in prima fila, sorretto dalle sue figlie cerca di trattenere le lacrime, che alla fine sgorgano copiose quando sul sagrato risuonano le note di «Giusy», la canzone di Ultimo che gli amici hanno voluto dedicare a sua sorella. «Giusy ha spento ogni passione e la gente ha spento lei», recita il testo. Ma la gente, a Montanaro e Chivasso, vuole sapere chi è stato.

La morte di Giusi la cantante, 105 giorni di mistero «C’è un assassino in giro». Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.

La cantastorie di Chivasso (Torino) ancora senza giustizia. La pista principale restano i soldi: l'eredità che lei e suo fratello avevano ricevuto alla morte della madre

Sono passati 105 giorni dall’omicidio di Giusi Arena, 15 settimane di indagini senza sosta che però non hanno scacciato dubbi, sospetti e paure. A Chivasso i residenti della Coppina, il quartiere popolare dove viveva la cantastorie che inventava filastrocche in sella alla sua bicicletta, chiedono giustizia. E il nastro bianco e rosso rimasto sulla porta dell’appartamento al piano terra di via Togliatti ricorda a tutti quello che è successo la mattina del 12 ottobre, il giorno del cinquantaduesimo compleanno di Giusi. 

È uscita di casa verso le 10 con una giacca pesante, pantaloni chiari, calze rosse e stivaletti neri. Non è andata alla Caritas come faceva ogni mercoledì e il suo corpo senza vita è stato ritrovato nel tardo pomeriggio sotto i piloni dell’Alta Velocità, in frazione Pratoregio. 

L’assassino le ha sparato da distanza ravvicinata, guardandola in faccia. È possibile che si trattasse di una persona che conosceva e che magari le ha dato appuntamento in quel posto isolato, lontano dalla provinciale per Montanaro che percorreva tutti i giorni per andare nel paese dove era cresciuta e dove vivono ancora il fratello Angelo e i suoi nipoti. 

Due proiettili calibro 7,65 le hanno trapassato la fronte, il terzo l’ha colpita alla guancia. 

Giusi è caduta sul fianco sinistro trascinando con sé la sua inseparabile bici e la testa si è incastrata sotto il sellino. I bossoli sono rimasti sul terreno, ma la pistola non è masi stata ritrovata. 

Nelle scorse settimane la boscaglia che circonda quel piazzale, luogo di incontri segreti, è stata ripulita, ma dell’arma non è rimasta nessuna traccia. Potrebbe essere stata gettata nell’Orco oppure nascosta in un altro posto. Durante la perquisizione a casa del fratello, eseguita diversi giorni dopo il funerale, non sono stati trovati indizi in grado di imprimere una svolta all’inchiesta. Angelo Arena, peraltro, è risultato negativo al test dello stub, che non ha rilevato tracce di polvere da sparo sui suoi abiti o sulle mani. 

I carabinieri del nucleo investigativo hanno esaminato i filmati delle – poche - telecamere utili a ricostruire il percorso seguito da Giusi e seguono diverse piste. Una porta al suo passato di sofferenze e traumi che la cantastorie di Chivasso ricordava nei suoi monologhi incomprensibili, ma forse non per tutti. Quella principale parte invece dal vecchio Nokia di Giusi e arriva alla cospicua eredità, circa 120 mila euro a testa, che Giusi e suo fratello avevano ricevuto alla morte della madre Angela. Tanti soldi, transitati su un conto corrente alle Poste. Eppure Giusi aveva continuato a vivere nel piccolo alloggio di via Togliatti. 

Sul davanzale adesso ci sono pupazzi, piante e biglietti. Un altare impolverato davanti al quale una vicina si fa il segno della croce: «I residenti della Coppina, ma tutti gli abitanti di Chivasso sperano e pregano che l’assassino venga arrestato – spiega il consigliere comunale Bruno Prestia -. Chi ha ucciso Giusi è ancora in libertà e questo fa paura, ma siamo certi che i carabinieri riusciranno a trovare il colpevole».

Estratto dell’articolo di Sara Recordati per “Gente” lunedì 25 settembre 2023.

Storie a tinte forti, volutamente esagerate hanno fatto la fortuna della Ares film, società di produzione cinematografica che nei primi anni 2000 ha dominato i canali Mediaset, con fiction di enorme successo come l'onore e il rispetto, il peccato e la vergogna, il bello delle donne. Fondata dal produttore Alberto Tarallo e dallo sceneggiatore Teodosio Losito - compagni anche nella vita - la ares film era sembrata inarrestabile fino al suicidio di quest'ultimo l'8 gennaio 2019, nella villa della coppia a Zagarolo (Roma), senza motivo apparente. 

Da quel momento la società è diventata protagonista di un giallo degno delle proprie produzioni. Tutta la vicenda è stata ricostruita con dovizia di particolari nel documentario “Ares Gate: la fabbrica delle illusioni”, in onda sul nove il 28 settembre. Vi si ripercorrono gli eventi dalla mattina in cui Tarallo ha trovato il corpo dell'amato, impiccato al termosifone del bagno, fino a oggi. E la storia non è chiusa perché il produttore si trova attualmente sotto processo con l'accusa di aver falsificato il testamento olografo di Losito, che vale circa 5 milioni di euro, e potrebbe anche finire alla sbarra per il fallimento della Ares. […]

Per quasi due anni dopo la morte di Losito tutto è rimasto silente finché, a settembre 2020, Adua del Vesco (vero nome: Rosalinda Cannavò) e Massimiliano Morra, concorrenti del grande fratello vip, si lasciano andare a dichiarazioni inquietanti sulla società di produzione che li ha lanciati. I due parlano di quel mondo come di una setta che li ha traummatizzati […]  E a quel punto che giuseppe losito, fratello di teodosio, decide di manifestare tutte le sue perplessità e di denunciare tarallo per istigazione al suicidio.

[…] Con Enrico Lucherini, suo ufficio stampa, Tarallo studiava a tavolino finti fidanzamenti tra i suoi attori, risse sul set, litigi tra primedonne così che i giornali ne parlassero e la loro popolarità volasse. Le serie Ares non potevano esistere senza questa mitologia: fiction aggiunta alla fiction. 

[...] Tarallo è quindi malefico come dicono alcuni? Archiviata l'accusa di istigazione al suicidio, la colpevolezza o l'innocenza del produttore verranno stabilite dal processo che si è aperto a Roma il 13 settembre: riguarda l'autenticità del testamento e di tre lettere lasciate da Losi-to. E, come si diceva all'inizio, s'è aperto un nuovo capitolo giudiziario legato al fallimento della Ares. A detta del pm, Tarallo avrebbe commesso una serie di reati economici, manipolando i bilanci e distraendo denaro per favorire se stesso a danno della società. Attendiamo le nuove puntate per sapere come finirà il giallo. 

GRUPPO ARES COMUNICATO STAMPA 

In prima tv assoluta per il ciclo Nove Racconta, arriva il documentario inchiesta “Ares Gate: la fabbrica delle illusioni", incentrato sul caso scottante che riguarda lo strano suicidio del regista e sceneggiatore Teodosio Losito e la successiva bancarotta della casa di produzione Ares Film. In onda giovedì 28 settembre alle 21:25 sul Nove. 

Losito viene trovato senza vita l’8 gennaio 2019 nel bagno della sua splendida villa di Zagarolo, alle porte della Capitale. A fare la macabra scoperta è l'ex compagno Alberto Tarallo, l’uomo a capo della società Ares Film che ha prodotto tutte le fiction scritte e dirette da Losito. I due in quindici anni hanno firmato grandi successi che hanno lanciato la carriera di attori come Gabriel Garko e Manuela Arcuri. Ma perché Teodosio Losito ha deciso di togliersi la vita?

Oltre all’inevitabile can can mediatico che si accende per la risonanza dei nomi coinvolti, saranno le dichiarazioni rese da Adua Del Vesco, all’anagrafe Rosalinda Cannavò, e Massimiliano Morra, due attori della ‘scuderia’ Ares, a dare il via alle indagini giudiziarie su una vicenda che scoperchia un ‘sistema’ fatto di presunte manipolazioni e ricatti psicologici da parte di Tarallo, abituato a dettare le regole della vita degli aspiranti attori e attrici che ruotano attorno a quella che nell’ambiente viene ribattezzata ZagarHollywood. La Procura di Roma apre un’inchiesta per istigazione al suicidio, visti anche i dubbi sempre sollevati dalla famiglia Losito, al termine della quale è stata chiesta l’archiviazione.

Da questa indagine sono scaturiti poi altri filoni, come quello per la bancarotta fraudolenta della Ares, che vede indagati tra gli altri Tarallo, e quello sulla legittimità del testamento di Losito, che nomina unico erede proprio l’ex compagno Tarallo ma che potrebbe non essere autografo, su cui la parola fine non è ancora stata scritta visto che c’è un procedimento giudiziario in corso.

Il documentario svela parti inedite di un intrigo che sta ancora scuotendo il mondo dello spettacolo e della tv e che intreccia vicende giudiziarie a strascichi mediatici di un'inchiesta che sui media è stata ribattezzata Ares Gate.

Estratto dell'articolo di Camilla Palladino per il “Corriere della Sera – ed. Roma” l’11 aprile 2023.

 Umorale ma soprattutto padronale con i suoi attori, il produttore Alberto Tarallo deroga per una volta al proprio intuito. Siamo nel 2016/2017 e il suo compagno, lo sceneggiatore Teodosio Losito, lo spinge ad avventurarsi nelle grandi produzioni, […] Nasce così il film «Bob and Marys, criminali a domicilio» con Laura Morante e Rocco Papaleo. Trama semplice, comicità spontanea. Costi imprevisti.

[…] La fuga verso un cinema popolare, lontano dalla nicchia di affezionati alla sensualità domestica di Gabriel Garko e Manuela Arcuri, frutta alla coppia Tarallo/Losito un gigantesco flop, così riassunto dall’amministratore unico della Ares film Massimo Giuseppetti agli investigatori: «La produzione ebbe costi rilevanti con notevole indebitamento verso banche, fornitori ed attori. Tutti i costi del film, circa 2 milioni di euro, vennero sostenuti dalla Ares come contrattualmente pattuito...il film, uscito nelle sale nel 2018, si rivelò un disastro al botteghino».  «Bob e Marys» frutterà appena 200mila euro e la Ares non si rialzerà più.

 Il fragile Losito somatizzerà l’insuccesso fino all’epilogo, nel gennaio 2019, con la scelta di impiccarsi a un termosifone della villa di Zagarolo. […] «Nel 2018 — prosegue Giuseppetti con la neutralità di un contabile — Losito vedendo all’orizzonte la crisi ha avviato una serie di trattative volte al rilancio ed alla ristrutturazione ha erogato risorse personali per pagare stipendi e Tfr al personale via via licenziato o dimesso e tacitando il mutuo bancario...»

[…] In quello stesso periodo Mediaset (che partecipa con una rispettabile quota nella società) si sfila dalla produzione di «Donne d’onore» […] : «Nel marzo 2018 senza alcun preavviso, nè una motivazione e/o giustificazione Mediaset decise di non dar seguito agli impegni assunti con la Ares film e di non produrre più la serie commissionata» fa sapere Giuseppetti.

 […] Ares procede alla maniera di sempre. Scrive il consulente del pm Carlo Villani, il commercialista Igor Catania: «I dati di bilancio dell’esercizio 2019 non rilevano la presenza di alcun ricavo con una correlata drastica riduzione dei costi a riscontro ulteriore della incapacità dell’impresa di poter continuare l’attività aziendale».

[…] Riducendo il capitale, riportando i remi in barca si sarebbe potuto, forse, evitare il crac. Invece no: «La prosecuzione dell’attività dell’impresa — scrive Catania — in assenza dei presupposti per la continuità aziendale, può ragionevolmente aver gravato il dissesto». La Ares continua a sognare in grande. Accarezza l’idea di una fiction su Gianni Versace e intanto tratta con la parigina Gallimard per i diritti sul capolavoro di Marguerite Yourcenar «Memorie di Adriano».

È questa una delle operazioni che vale a Tarallo l’accusa di bancarotta fraudolenta ed è descritta da Davide Bernardi, un suo collaboratore (nipote di un ex socio della Janus film di un tempo): «Mi ricordo che vi era in piedi un accordo tra Ares film con la casa editrice Gallimard di Parigi. Ricordo che vennero pagati circa 200mila euro per la cessione dei diritti e l’opzione con la casa editrice. Ricordo che Ares aveva i diritti di tale opera per aver pagato questa opzione. Nello stesso anno, 2018, la società chiudeva il bilancio di esercizio al 31.12.2017 con una forte perdita...». […]

La Ares film in bancarotta: quattro indagati. Le spese folli di Tarallo (e di Teo Losito). Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2023.

L'azienda sarebbe stata la gallina dalle uova d’oro alla quale attingere per spese voluttuarie, estranee al perimetro degli affari

La più classica delle bancarotte, nella quale sono confluite dissipazioni, favori e ordinarie distrazioni, s’è portata via (nel 2020) la Ares film e i suoi sogni televisivi. Soffocata da debiti e sperperi la casa di produzione made in Zagarolo trascina ora in un gorgo giudiziario il suo padre-padrone Alberto Tarallo, assieme a tre dirigenti della Banca Centro Lazio Credito Cooperativo. E infatti, chiusa l’inchiesta, i magistrati Carlo Villani e Stefano Pesci hanno notificato quattro avvisi di garanzia che raccontano retroscena inattesi. La Ares, in gran sintesi, sarebbe stata la gallina dalle uova d’oro alla quale attingere per spese voluttuarie, estranee al perimetro degli affari.

 Con un colpo di scena si potrebbe dire, perché la dispersione di risorse economiche da parte della Ares , secondo i pm, fu condivisa da Teodosio Losito, morto per impiccagione (a un termosifone con una sciarpa di seta) l’8 gennaio 2019. Questi, sceneggiatore di fiction da record («L’onore e il rispetto», «Il bello delle donne» e altro ancora) e compagno di Tarallo negli anni migliori della casa produttrice, avrebbe cagionato «con dolo e per effetto delle predette operazioni il fallimento della Ares film srl (per circa un milione di euro, ndr)». Ma quali sono le operazioni teoricamente spericolate compiute dai due? Il consulente della Procura, Igor Catania, ne individua tre. Una prima violazione alle leggi societarie da parte di Tarallo/Losito sta nella dissipazione di circa 41mila euro per spese «effettuate in assenza di alcuna giustificazione di natura economico - aziendale». 

Tarallo si sarebbe servito come di un suo personale bancomat della carta di credito aziendale e di quella del suo autista Marco Regoli (estraneo all’inchiesta) secondo i finanzieri del nucleo di polizia economico finanziaria. Ma poi c’è anche altro, come la cessione di un progetto aziendale sull’archivio fotografico e «sui diritti per l’opera “Memorie di Adriano” (di Marguerite Yourcenar, ndr)» al patron per appena 350mila euro «allo scopo di favorire, in danno dei creditori, lo stesso Tarallo». Per questa via il produttore sarebbe entrato in possesso dei veri gioielli della srl, il suo archivio (con relativi primi piano dei suoi attori feticcio: Gabriel Garko, Eva Grimaldi, Giuliana De Sio, Nancy Brilli e altre star delle fiction tivù) e i diritti per uno dei romanzi di maggior prestigio del Novecento. 

Ultima contestazione, non meno importante, è quella della bancarotta «preferenziale» nei confronti della Banca Centro Lazio Credito Cooperativo, alla quale Tarallo fece avere 820mila euro in via privilegiata e «in danno dei creditori». Assieme a Tarallo sono indagati i rappresentanti legali della banca Alessandro Petrucci e Marcello Cola più il funzionario Guido Borgetti Zaffi. Fiduciosi e convinti «di poter dimostrare l’estraneità di Tarallo alle accuse» si dicono i suoi difensori, gli avvocati Franco Coppi e Daria Pesce

Estratto dell'articolo di Michela Allegri per “il Messaggero” l’8 marzo 2023.

Avrebbe imitato la calligrafia del compagno, scrivendo e firmando un testamento che lo nominava erede universale di un patrimonio milionario. Un documento spuntato dopo il suicidio dello sceneggiatore tv Teodosio Losito, avvenuto l'8 gennaio 2019, nella villa di Zagarolo, la "Zagarhollywood" dove lui e Alberto Tarallo avevano cresciuto una scuderia di divi del piccolo schermo, con la loro società "Ares film".

 Ora Tarallo è finito sul banco degli imputati: il pm Carlo Villani ha firmato un decreto di citazione diretta a giudizio a suo carico con l'accusa di falso. L'udienza predibattimentale è già fissata: il 13 settembre. Secondo il magistrato il produttore avrebbe studiato nei dettagli un piano per mettere le mani sull'eredità a sei zeri: immobili a Roma e a Milano, una casa a New York e anche la maxi-tenuta di Zagarolo.

LA CONSULENZA Il testamento incriminato porta la data del 24 ottobre 2017: secondo il consulente grafologico della Procura si tratta di un falso. Secondo quello della difesa di Tarallo, invece, si tratta di un atto autentico: una tesi che mesi fa ha convinto prima il Tribunale del Riesame e poi la Cassazione, che hanno stabilito la restituzione a Tarallo di 5 milioni di euro che erano stati sequestrati su richiesta della procura. […]

Estratto dell’articolo di Luigi Franco per ilfattoquotidiano.it il 15 aprile 2023

L’accordo interrotto da Mediaset per la produzione della fiction “Donne d’onore” e il maxi flop del film “Bob & Marys” con Rocco Papaleo e Laura Morante. Sono due degli eventi che, secondo le testimonianze raccolte dalla procura di Roma, hanno contribuito a far saltare i conti della Ares Film di Teodosio Losito, morto suicida nel gennaio del 2019.

 Per il fallimento della Ares è indagato Alberto Tarallo, compagno di Losito e considerato amministratore di fatto della casa di produzione. Nelle prossime settimane il pm Carlo Villani ne chiederà con ogni probabilità il rinvio a giudizio per bancarotta fraudolenta. A lui vengono contestati alcuni fatti, come l’utilizzo della carta di credito aziendale per spese personali e a un accordo da 820mila euro con la Banca Centro Lazio Credito Cooperativo a saldo e stralcio di un debito più consistente che ha lasciato a bocca asciutta altri creditori. Ma le testimonianze agli atti dell’indagine permettono di ricostruire il contesto più ampio in cui la Ares è passata velocemente dai successi televisivi al tracollo.

La Ares – ricorda il curatore fallimentare Simonetta Barbuto in una relazione acquisita dal pm – era una casa di produzione che sin dalle sue origini ha avuto come unico referente Mediaset, per la quale ha prodotto molte fiction di successo. Del resto anche Rti, società del gruppo Mediaset, aveva una partecipazione nel capitale sociale.

 “Nel 2017 – si legge nella relazione – la società aveva avviato la produzione di una nuova fiction, intitolata Donne d’onore, come da impegni assunti da Mediaset nel 2014. Era stata scelta la protagonista della serie ed il committente aveva dato il proprio benestare all’esecuzione di provini agli attori selezionati con trucco e abiti di scena. Ma nel marzo del 2018, senza alcun preavviso né una motivazione o giustificazione, Mediaset decise di non dare seguito agli impegni assunti con la Ares Film e di non produrre più la serie commissionata”.

Il venire meno dell’accordo viene ripercorso anche dalla testimonianza di Patrizia Marrocco, ex compagna di Paolo Berlusconi, socia della Ares fino al 2018 e oggi deputata di Forza Italia: “Mediaset in quegli anni decise di non produrre più fiction ma di buttarsi tutta sull’intrattenimento e per tale ragione questa serie tv non venne prodotta. Per tale mancata realizzazione della fiction la perdita è stata di circa 400-500mila euro”.

 Tarallo a quel punto chiese a Marrocco, che non era più né socia né produttrice esecutiva di Ares e doveva ancora ricevere dalla società il Tfr e altri soldi, di intervenire su Mediaset: “Alberto mi disse che mi avrebbe dato i soldi a me spettanti (…) se lo avessi aiutato a chiudere l’accordo con Mediaset per la produzione di una fiction che Mediaset non voleva più produrre. Diciamo che mi fece un sottile ricatto (…) Mi disse che voleva fare causa a Mediaset in quanto vi era una lettera di intenti che glielo permetteva. Andai più volte a Mediaset per parlare con i vertici di Mediaset, in particolare con Alessandro Salem, braccio destro di Piersilvio Berlusconi, ma non riuscii a chiudere l’accordo. Ricordo che Mediaset mi disse che in nove anni avevano corrisposto alla Ares 147 milioni di euro e che con questi soldi si poteva ben far fronte a una situazione negativa temporanea”.

Per l’accordo non rispettato da Mediaset, si era mosso lo stesso Losito, rivolgendosi nel 2018 pochi mesi prima di suicidarsi, all’avvocata Daria Pesce. La legale, che oggi difende Tarallo, spiega a ilfattoquotidiano.it che, dopo il suicidio, “è stato chiuso un accordo transattivo con Mediaset, che ha versato al fallimento della Ares buona parte dei costi sostenuti per la produzione della fiction”.

 A contribuire all’aggravarsi della situazione contabile anche il flop del film che Ares, specializzata in fiction, produce per il cinema nel 2017: Bob e Marys – criminali a domicilio, con Papaleo e Morante. Uscita nel 2018, la pellicola al botteghino è un disastro: “È costato 1,8 milioni con un ricavo di soli 116.000 euro”, racconta agli inquirenti Marrocco sottolineando di non aver fatto volontariamente il produttore di Bob & Marys “perché non lo ritenevo un progetto valido”. […]

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 12 febbraio 2023.

 Svillaneggiati fuori e dentro il set. Ricattati per le loro scelte affettive. Umiliati nella loro professionalità. Ma ora anche coinvolti in avventurosi intrighi per la promozione delle fiction made in Ares. Dopo Gabriel Garko, Eva Grimaldi e la grande accusatrice Rosalinda Cannavò, è l’attrice Giuliana De Sio a descrivere la vita a Villa Dafne, piccolo salotto di provincia (Zagarolo), grande fucina di fiction e ultima destinazione dello sceneggiatore suicida Teodosio Losito. […]

De Sio rivela gli escamotage del produttore Alberto Tarallo, indagato per falso e bancarotta: «Ricordo che in una di queste cene a viale Parioli...si parlava delle iniziative per promuovere il film. Inizialmente mi venne proposto di litigare sul set con un’altra attrice con la quale mi sarei dovuta picchiare ma io rifiutai nettamente non avendo mai picchiato nessuno in vita mia. Mi venne allora proposto di fidanzarmi con Garko... al che io cominciai a ridere rifiutando tale proposta anche perché sapevo che non sarei piaciuta a Gabriel Garko».

 L’esigenza di una promozione brillante prende, allora, una piega vagamente pulp e spunta così l’idea del rapimento: «Mi proposero — prosegue l’attrice — di nascondermi nella cantina della casa di Zagarolo per tutto il periodo della promozione della fiction per creare un caso sulla mia scomparsa. Cominciai un po’ a preoccuparmi anche perché Tarallo mi disse che non avrei potuto portarmi neanche il cellulare e che avrei potuto avvertire solo mia madre. Mi ricordo che ebbi una reazione quasi isterica di riso...».

[…] «Tarallo ebbe una reazione che ancora ricordo vividamente, diventò rosso paonazzo in viso, si arrabbiò e cominciò a urlare come un pazzo contro di me, anche insultandomi tanto che tutti al ristorante si girarono verso di noi...in quella occasione mi fece veramente paura». In seguito il produttore, rendendosi conto di aver passato il segno, chiederà scusa alla De Sio.

[…] «Lui era un manipolatore, faceva cambiare denti e viso a molti artisti e metteva delle clausole nei contratti. Secondo me vivere con Alberto era vivere un incubo». Tarallo disponeva della vita degli altri alla maniera di certi imperatori, racconta la De Sio: «Ricordo che una volta una persona stava recitando con me ed era molto impacciato, successivamente scoprii che era il suo dentista». Losito […]? «Posso definirla una figura sfocata, aveva un carattere debole, faceva tutto quello che diceva Tarallo... […]». […].

Donna carbonizzata a Santeramo, l'esito dell'autopsia: «si è accoltellata e poi si è data fuoco» «Aveva organizzato la sua morte». Gli esiti degli esami nella richiesta di archiviazione indagine. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Settembre 2023

Michelle Baldassarre, la 55enne trovata carbonizzata nelle campagne di Santeramo in Colle, in provincia di Bari, lo scorso 9 febbraio, si sarebbe tolta la vita prima ferendosi al torace con un coltello, e poi dandosi fuoco con un accendino dopo essersi cosparsa di benzina. È quanto emerge dall’autopsia effettuata dal professor Francesco Vinci e parzialmente contenuta nella richiesta di archiviazione dell’indagine per istigazione al suicidio coordinata dalla procura di Bari.

«È opinione della medicina legale - si legge nel rapporto - che la lesività da punta e taglio a livello toracico fu antecedente a quella indotta poi dal calore». Pur non essendoci elementi di «assoluta certezza a riguardo», il medico legale sottolinea come la ferita da arma bianca «sarebbe stata comunque difficoltosa ove la combustione fosse stata già avviata, tenuto conto dell’estrema rapidità dello sviluppo dell’incendio in rapporto al mezzo utilizzato», cioè la benzina.

«Non può essere esclusa la possibilità che il soggetto - scrive il medico legale -, a seguito delle prime lesioni toraco-polmonari, possa aver dato adito alla combustione, essendosi precedentemente già cosparsa di natura infiammabile». 

Santeramo, la storia di Michelle torna in Tribunale: oggi il processo all’ex marito violento. Udienza con rito abbreviato. La Procura deciderà se aggravare le accuse. ISABELLA MASELLI su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 maggio 2023

Torna in aula la storia di Michelle Baldassarre, la 55enne di Santeramo in Colle il cui corpo senza vita, trafitto da una lama e carbonizzato, fu trovato in una campagna alla periferia della cittadina murgiana il 9 febbraio. Sulla morte della donna l’inchiesta della Procura è ancora in corso. Il pm Baldo Pisani ipotizza l’istigazione al suicidio, contro ignoti.

La storia che invece è già arrivata dinanzi ad un giudice è quella dei presunti maltrattamenti. Alla sbarra c’è il marito 57enne Vito Passalacqua.

Lei lo aveva denunciato il 21 dicembre scorso. In 48 ore lui finì agli arresti domiciliari e lei fu accolta per alcune settimane in una casa rifugio, dopo essersi rivolta ad un centro antivolenza. Passalacqua da quel giorno, dal 23 dicembre 2022, è ai domiciliari con 8 ore di permesso al giorno per andare a lavorare. In meno di un mese la pm Silvia Curione ha chiuso l’inchiesta e ha chiesto il processo per il presunto marito violento, prima che la donna fosse trovata morta.

Per la Procura il decesso e i maltrattamenti non sarebbero collegati. Per questo l’indagine sulla morte procede autonomamente (nelle scorse settimane è stata depositata la relazione dei medici legali, che è stata secretata), mentre dei presunti comportamenti violenti l’uomo è già chiamato a rispondere.

Nella prima udienza, il 5 aprile scorso, dinanzi alla gup Anna De Simone, i legali che rappresentano i famigliari della vittima, gli avvocati Michele Laforgia e Maria Pia Vigilante, avevano sollecitato una modifica della imputazione, maltrattamenti aggravati dalla morte, ritenendo cioè che il suicidio sia stato diretta conseguenza di anni di vessazioni. La Procura, però, aveva insistito per la contestazione dei maltrattamenti semplici, dando anche il consenso al patteggiamento a 3 anni e 6 mesi di reclusione, proposto dall’uomo tramite i suoi difensori, gli avvocati Nicola Lanzolla e Maurizio Tolentino.

La giudice, dopo due settimane di riflessione, ha sciolto la riserva su tutte queste questioni all’udienza del 19 aprile: no al patteggiamento, no alla costituzione di parte civile dei fratelli della vittima, no all’aggravante della morte. L’aver rigettato la richiesta di patteggiamento, però, è stata motivata dalla contestazione di un’altra aggravante: aver cioè maltrattato non soltanto la moglie defunta ma anche le due figlie. Con una motivata ordinanza, la giudice aveva spiegato che «non risulta corretta la qualificazione giuridica dei fatti nella parte in cui la condotta dei maltrattamenti viene contestata con riferimento alla sola Baldassarre Michelle e non anche in relazione alle figlie».

La pm contestava al marito - dal quale la donna si stava separando - cinque episodi di violenze commessi tra ottobre e dicembre 2022. Michelle Baldassarre aveva raccontato di essere stata sottoposta a continue aggressioni fisiche e verbali, a minacce, a denigrazioni con espressioni del tipo «sei una bestia», «non capisci niente, pazza» e a scatti d’ira per futili motivi, fino a schiaffeggiarla, scagliarle piatti sulla testa, minacciarla con un coltello e frasi come «ti uccido, ti paralizzo», colpirla con pugni e calci. Una situazione che le avrebbe causato uno stato di tale prostrazione da arrivare - sostiene la sua famiglia - a compiere anche gesti autolesionistici.

Dopo l’ordinanza della gup (che essendosi pronunciata nel merito ha dovuto rimettere agli atti perché il procedimento venisse assegnato a un diverso giudice), la pm in queste settimane ha riesaminato dichiarazioni e testimonianze, per decidere se integrare la contestazione come suggerito dal giudice, cioè nella forma aggravata.

Oggi, in udienza, difesa e parte civile (le figlie di Michelle e l’associazione antiviolenza Giraffa) sapranno a quali conclusioni è arrivata la Procura. Il processo, che dovrebbe celebrarsi con rito abbreviato, si farà dinanzi alla presidente Susanna De Felice. Salvo ulteriori colpi di scena, oggi il processo potrebbe arrivare a sentenza. 

Si chiude il giallo di Michelle Baldassarre, trovata carbonizzata: «Si è accoltellata e data fuoco da sola». Le figlie: «Inverosimile». Cinzia Semeraro su Il Corriere della sera il 15 Settembre 2023

L'igienista dentale di 55 anni fu trovata carbonizzata a febbraio scorso nelle campagne di Santeramo: si è ferita con un coltello e poi si è cosparsa di benzina. Aveva denunciato il marito per maltrattamenti 

Michelle Baldassarre, la 55enne trovata carbonizzata nelle campagne di Santeramo in Colle, in provincia di Bari, lo scorso 9 febbraio, si sarebbe tolta la vita prima ferendosi al torace con un coltello, e poi dandosi fuoco con un accendino dopo essersi cosparsa di benzina. È quanto emerge dall'autopsia effettuata dal professor Francesco Vinci e parzialmente contenuta nella richiesta di archiviazione dell'indagine per istigazione al suicidio coordinata dalla procura di Bari. «È opinione della medicina legale - si legge nel rapporto - che la lesività da punta e taglio a livello toracico fu antecedente a quella indotta poi dal calore». Pur non essendoci elementi di «assoluta certezza a riguardo», il medico legale sottolinea come la ferita da arma bianca «sarebbe stata comunque difficoltosa ove la combustione fosse stata già avviata, tenuto conto dell'estrema rapidità dello sviluppo dell'incendio in rapporto al mezzo utilizzato», cioè la benzina.

«Non può essere esclusa la possibilità che il soggetto - scrive il medico legale - a seguito delle prime lesioni toraco-polmonari, possa aver dato adito alla combustione, essendosi precedentemente già cosparsa di natura infiammabile.

La Procura: «È suicidio, si archivi»

Per la Procura di Bari «l'ipotesi suicidiaria»  sarebbe «accertata». «In tale ottica - si legge nella richiesta di archiviazione - militano non soltanto i risultati» dell'autopsia e «gli elementi di indagine acquisiti tramite sommarie informazioni», ma anche il contenuto delle conversazioni (intercettate) dei familiari della vittima, pienamente convinti «che Michelle Baldassarre abbia compiuto un insano gesto "tutto da sola"». La procura ha indagato sin dall'inizio per istigazione al suicidio a carico di ignoti. «L'innesco del processo di autodeterminazione al suicidio - si legge ancora negli atti - è costituito dalla decisione di allontanarsi» dalla vita di tutti i giorni «e denunciare il marito, in quanto ha destrutturato l'equilibrio, al cui interno la fragile personalità della defunta aveva una sua parvenza di stabilità». 

A dicembre 2022, infatti, la donna denunciò il marito Vito Passalacqua per maltrattamenti, fatto per il quale l'uomo è tuttora a processo in abbreviato. Le indagini hanno dimostrato come l'uomo (ai domiciliari dalla fine di dicembre, ma con un permesso di otto ore al giorno per lavorare) fosse in ufficio nelle ore precedenti al ritrovamento del cadavere della donna. Nei suoi confronti i pm hanno escluso sia «l'elemento psicologico del dolo del delitto di istigazione al suicidio» sia «la volontà di determinare ovvero rafforzare una ipotetica scelta» nella donna di togliersi la vita, avendo tra l'altro «manifestato il desiderio di ricucire la relazione matrimoniale».

A supporto dell'ipotesi del suicidio anche una relazione svolta dal professor Roberto Catanesi (ordinario di Psicopatologia forense dell'università di Bari) che «ha isolato un preciso frangente temporale - ovvero quello successivo alla separazione di fatto dal marito - nonché un autonomo percorso motivazionale - ovvero la consapevolezza dell'irreversibile fine del legame con il marito sulla cui figura ella aveva plasmato la propria esistenza, unitamente al senso di colpa nei confronti delle due figlie ed al riscontrato viraggio in chiave depressiva dell'umore della defunta l'abbandono della struttura protetta - quali elementi causali sopravvenuti da soli sufficienti, a causare l'evento», si legge ancora negli atti. 

Le figlie di Michelle: «Ricostruzione inverosimile»

Nel corso dell'attività investigativa furono sentite le figlie della donna. «Mio padre è sempre stato una persona violenta», disse una delle due agli inquirenti evidenziando «le continue vessazioni da lui poste in essere nei miei confronti, di mia madre e di mia sorella». Nell’udienza di gli avvocati dell’imputato hanno chiesto l’acquisizione di alcune conversazioni in chat tra l’uomo e le due figlie tra il 2015 e il 2022. E le figlie, alla notizia della richiesta di archiviazione della Procura, ritengono che la «ricostruzione sia inverosimile»

Corriere del Mezzogiorno

Michelle e il giallo di Santeramo: il marito (a processo per maltrattamenti) sentito dai carabinieri. Nicolò Delvecchio su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2023.

Michelle Baldassarre trovata morta carbonizzata il 9 febbraio scorso. Vito Passalacqua, ai domiciliari dal 23 dicembre, ascoltato dagli inquirenti

Proseguono le indagini sulla morte di Michelle Baldassarre, la 55enne igienista dentale di Santeramo in Colle il cui corpo è stato ritrovato carbonizzato, nel tardo pomeriggio del 9 febbraio scorso, in una campagna a circa due chilometri dal centro cittadino. Questa settimana è stato ascoltato dai carabinieri di Altamura il marito Vito Passalacqua in qualità di persona informata sui fatti. Alla testimonianza, durata pochi minuti, non ha partecipato il pm Baldo Pisani, titolare del fascicolo.

Inchiesta per istigazione al suicidio

La Procura di Bari indaga dall’inizio per istigazione al suicidio a carico di ignoti, nonostante la dinamica della morte sia ancora da delineare nei dettagli e si sia trattato di un decesso particolarmente violento. La donna, infatti, aveva anche la lama di un coltello conficcata nel torace, sul lato destro. L’autopsia, svolta dal medico legale del Policlinico di Bari Francesco Vinci, stabilirà se le fiamme siano precedenti o successive alla coltellata.

Il marito ai domiciliari dal 23 dicembre

Passalacqua, assistito dall’avvocato Maurizio Tolentino, andrà però a processo per presunti maltrattamenti a danno della moglie, per i quali è ai domiciliari dal 23 dicembre con un permesso di otto ore al giorno (quattro di mattina, altrettante di pomeriggio) per recarsi a lavoro. La misura nei suoi confronti scattò a 48 ore dalla denuncia presentata dalla donna, che raccontò di due presunti episodi di violenza avvenuti a ottobre (al termine di un furioso litigio il marito le avrebbe lanciato contro un piatto, colpendola alla testa) e il 20 dicembre quando, sempre al culmine di una lite, Passalacqua l’avrebbe schiaffeggiata. Nella denuncia, la donna fece trapelare riferimenti ad altre vessazioni subite in passato. Il giorno dopo l’ultimo episodio la 55enne trovò il coraggio di denunciare, e nel giro di poche ore fu presa in cura da una casa protetta di un comune vicino a Santeramo in cui rimase per 40 giorni, fino al 31 gennaio.

Processo con rito abbreviato

Il processo per maltrattamenti a carico di Passalacqua, che ha scelto di essere giudicato con rito abbreviato, inizierà il 5 aprile. I due procedimenti vanno avanti però separatamente, e al momento nessuno è indagato per la morte della donna, né ci sono elementi particolari che possano far pensare a un omicidio. Appoggiata contro un muretto a secco, non lontano dal luogo in cui poi è stato ritrovato il cadavere, c’era infatti la bici con cui era solita spostarsi per Santeramo. Segno che sia arrivata lì autonomamente, non si sa però se da sola o con qualcuno. E dal suo cellulare, la mattina del 9 febbraio, partì un messaggio – diretto a una delle due figlie – con la posizione «Contrada Pantarosa», dove poi è stato ritrovato il corpo. Quel giorno la donna era attesa per pranzo dalla figlia e da una delle sorelle, che però l’attesero invano. Fu un passante ad accorgersi del cadavere carbonizzato della donna e ad allertare i carabinieri. Pur avendo firmato le dimissioni dalla casa protetta, Michelle avrebbe dovuto continuare a seguire un percorso con assistenti sociali e psicologi della struttura. Uno degli appuntamenti era fissato per il 10 febbraio.

Giallo di Santeramo, nel telefono di Michelle si nasconde la verità. .In attesa degli esami non ancora eseguiti. Gli altri punti oscuri della vicenda. ISABELLA MASELLI - FRANCO PETRELLI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Febbraio 2023.

Una città divisa tra il dolore e l’incredulità. Tra chi si dice rassegnato all’idea che una donna, moglie e mamma, possa essersi tolta tanto tragicamente la vita, trafitta con una lama e poi bruciata, e chi all’ipotesi del suicidio non ha mai creduto. Santeramo in Colle, cittadina di 25mila abitanti sulla murgia barese, ormai da quasi due settimane è alle prese con il dramma, apparentemente inspiegabile e tuttora avvolto nel mistero, della morte di Michelle Baldassarre, 55enne igienista dentale, il cui corpo carbonizzato è stato trovato il pomeriggio del 9 febbraio in campagna.

Dopo i primi giorni di attività incessanti di investigatori e inquirenti sul luogo dove giaceva il cadavere e gli accertamenti tecnici fatti nell’immediatezza dei fatti - primo fra tutti l’autopsia - l’indagine prosegue nel silenzio di chi sta cercando faticosamente di mettere in fila i pezzi. E ogni giorno che passa il fascicolo per istigazione al suicidio sulla morte della 55enne sembra intrecciarsi a maglie sempre più strette con quello per maltrattamenti a carico del marito della donna. Vessazioni, litigi e percosse per i quali Michelle aveva denunciato Vito Passalacqua, noto commercialista della città, qualche giorno prima di Natale. Lui finito agli arresti domiciliari - tuttora detenuto - e lei in una casa protetta.

LA COMUNITÀ SCOSSA - «I santermani soffrono per quello che è successo a questa sfortunata donna. Tornata dalla casa protetta che l’aveva ospitata dopo i presunti maltrattamenti subiti dal marito, potrebbe esserle mancato l’aiuto che in quel momento le era indispensabile per ricominciare»...

Donna carbonizzata a Santeramo: violenze in casa, a giudizio il marito della 55enne. Udienza il 5 aprile: dovrà difendersi dall’accusa di maltrattamenti. ISABELLA MASELLI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 febbraio 2023.

La morte di Michelle Baldassarre, trafitta e bruciata in una campagna alla periferia di Santeramo in Colle (Bari) è ancora un «giallo». Ma il rapporto conflittuale che la donna, 55enne igienista dentale, madre di due figlie, viveva da tempo con il marito, approderà presto in un’aula di giustizia. L’uomo, Vito Passalacqua, noto commercialista della città, sarà processato per maltrattamenti. Dopo la richiesta di giudizio immediato fatta dalla Procura, l’uomo ha chiesto il rito abbreviato e l’udienza è stata fissata per il prossimo 5 aprile.

Una vicenda precedente e al momento formalmente slegata dalla tragica sorte toccata alla moglie, ma inevitabilmente intrecciata a questa.

È il 21 dicembre 2022. Michelle Baldassarre trova il coraggio di denunciare il marito dopo l’ennesimo episodio di violenza. Nella querela racconta gli ultimi due mesi di presunte sopraffazioni, fisiche e psicologiche, lasciando trapelare riferimenti ad anni di presunte vessazioni. Descrive nel dettaglio due aggressioni: a ottobre, la prima, quando durante un brusco litigio in casa l’uomo avrebbe lanciato un piatto contro di lei, colpendola alla testa; il 20 dicembre, la seconda, quando la situazione sarebbe degenerata e il marito l’avrebbe presa a schiaffi. Meno di ventiquattr’ore dopo, Michelle decide di denunciarlo e in due giorni lui finisce agli arresti domiciliari, mentre lei viene accolta in una casa protetta, dopo essersi rivolta ad un centro antiviolenza.

Da allora Passalacqua è detenuto, a casa di un amico, con il permesso di uscire 8 ore al giorno, quattro la mattina e quattro il pomeriggio, per andare a lavorare nel suo studio professionale. E lo era anche il giorno in cui la moglie, ormai fuori dalla comunità, è stata trovata morta...

Estratto dell’articolo di Tatiana Bellizzi per “la Repubblica” il 20 febbraio 2023.

Tutti pensavano al suicidio di una donna disperata, in aperta campagna. […] Ma, giorno dopo giorno, quella donna morta è diventata il soggetto di un giallo. Davvero Michelle Baldassarre, igienista dentale di 55 anni e madre di due figlie, da sola si sarebbe conficcata un coltello nel torace e poi cosparsa di benzina nelle campagne di Santeramo in Colle, 25mila abitanti a 40 chilometri da Bari? Oppure è stata uccisa? Sul fascicolo aperto dalla procura della Repubblica si parla di ipotesi di istigazione al suicidio. Ma i misteri sono tanti, troppi.

È il pomeriggio di giovedì 9 febbraio quando viene ritrovato il corpo senza vita di Michelle. È suo il cadavere carbonizzato che giace in un fondo agricolo in contrada “Pantarosa”. Ma sul posto non viene trovata nessuna tanica di benzina. La donna era in fase di separazione con il marito Vito Passalacqua, con il quale pare avesse un rapporto burrascoso, fatto — dicono in paese — di continui episodi di violenza.

 L’uomo dal 23 dicembre è agli arresti domiciliari per maltrattamenti in famiglia. Nello stesso giorno Michelle viene collocata in una struttura protetta in provincia di Bari.

Ma l’igienista dentale dopo 40 giorni decide di andare via. […]

 Michelle il 9 febbraio è attesa per pranzo dalla sorella e da una delle due figlie. La 55enne tarda, mentre le due donne iniziano a preoccuparsi. E così pare che nel primo pomeriggio dall’utenza telefonica di Michelle parta un messaggio con la posizione “contrada Pantarosa”. Questo messaggio arriva sul cellulare della figlia. Viene ritrovato il corpo carbonizzato della donna. I carabinieri iniziano le indagini.

[…]  Le verifiche si concentrano sulla sfera familiare della donna e sulla figura del marito (non indagato per la morte della moglie), commercialista di Santeramo che, pur essendo ai domiciliari, usufruisce di un permesso speciale per recarsi tutti i giorni al lavoro. «Io e Michelle non eravamo separati — dice l’uomo — Non so davvero cosa le sia accaduto. Il mio è un dolore immenso».

 Intanto sul corpo della donna è stata eseguita l’autopsia che ha riscontrato una ferita d’arma da taglio all’altezza del torace destro. La lama era ancora conficcata nel corpo. Ma c’è un altro tassello: la tanica di benzina che […] avrebbe acquistato la mattina della sua scomparsa. […]

La tanica e la lama nel petto: Michelle e quel suicidio che non torna. Michelle Baldassare, igienista dentale di 55 anni, si sarebbe conficcata un coltello nel torace e poi si cosparsa il corpo con la benzina. Ma gli inquirenti non escludono l'ipotesi di una messinscena. Rosa Scognamiglio il 20 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il ritrovamento del cadavere

 I dubbi

 Chi era Michelle Baldassare

 L'ipotesi del suicidio

È un mistero la morte di Michelle Baldassarre, l'igienista dentale di 55 anni ritrovata senza vita nel campagne di Santeramo in Colle, in provincia di Bari, lo scorso 9 febbraio. Gli investigatori ritengono attendibile l'ipotesi di un suicidio: la donna si sarebbe conficcata un coltello nel torace e poi cosparsa il corpo di benzina. Ma accanto al corpo non è stata trovata alcuna tanica di carburante: ha fatto davvero tutto da sola? La procura del capoluogo pugliese, come conferma la giornalista Tiziana Bellizzi su La Repubblica, ha aperto un fascicolo di indagine per istigazione al suicidio contro ignoti.

Il ritrovamento del cadavere

Ci sono tanti, troppi punti interrogativi sulla morte di Michelle Baldassarre. Il cadavere carbonizzato della donna è stato ritrovato la sera del 9 febbraio scorso. Era adagiato in una campagna in Contrada Pantarosa, a Santeramo, una cittadina di 28mila abitanti o poco di più, con un coltello conficcato all'altezza del torace, sul lato destro. La perizia medico legale, eseguita dal professor Francesco Vinci, incaricato dal pm della procura di Bari Baldo Pisani, avrebbe confermato la presenza sul corpo di una ferita riconducibile ad un'arma da taglio. Sulla salma sono stati eseguiti anche prelievi di natura tossicologica e istologica: serviranno a capire se il decesso sia stato provocato dal taglio o dalle fiamme e se la vittima abbia assunto farmaci prima di morire.

I dubbi

I militari dell'Arma stanno provando a ricostruire gli ultimi istanti di vita della donna nel tentativo di dare una direzione certa alle indagini. Secondo alcune ricostruzioni investigative, pare che il giorno della scomparsa Michelle fosse attesa per ora di pranzo dalla sorella e dalla figlia che, non vedendola rientrare, si erano preoccupate. C'è di più. Stando a quanto riferisce ancora Repubblica, dal cellulare della vittima sarebbe stato inviato un messaggio con la posizione "Contrada Pantarosa" proprio qualche ora prima che il cadavere fosse ritrovato. L'sms è stato ricevuto da una delle due figlie della 55enne. Chi lo ha scritto?

Chi era Michelle Baldassare

Michelle Baldassarre era un'igienista mentale, madre di due adolescenti. Una donna abitudinaria che, ogni mattina, montava in sella alla bicicletta per raggiungere lo studio del fratello, non senza aver acquistato prima il pane e le sue immancabili caramelle. Lo scorso 23 dicembre, il marito è finito agliarresti domiciliari per maltrattamenti in famiglia. Nello stesso giorno era stato adottato un ordine di protezione da parte dei servizi sociali del comune. Dunque, la donna era stata collocata in una struttura protetta, dov'è rimasta per quaranta giorni, fino al 31 gennaio, quando ha deciso di rientrare volontariamente alla sua vita normale. "I servizi sociali - ha precisato all'Agi il sindaco di Santeramo in Colle Vincenzo Casone - hanno continuato a seguire il caso per monitorarlo".

L'ipotesi del suicidio

La procura di Bari ha aperto un fascicolo con l'ipotesi di reato per istigazione al suicidio contro ignoti. Le indagini degli investigatori si concentrano sulla sfera privata e affettiva della 55enne. Il marito, che non è indagato, usufruisce di un permesso per lavorare durante i domiciliari. "Io e Michelle non eravamo separati - racconta l’uomo a Repubblica - Non so davvero cosa le sia accaduto. Il mio è un dolore immenso". Intanto è emerso un altro dettaglio dalle indagini: i titolari dei cinque distributori di carburante presenti a Santeramo affermano di non aver visto Michelle la mattina del 9 febbraio. Un mistero nel mistero.

Donna carbonizzata a Santeramo: trovata lama conficcata nel corpo. Si continua ad indagare per istigazione al suicidio. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Febbraio 2023

La lama di un coltello è stata trovata conficcata nel corpo di Michelle Baldassarre, la 55enne di Santeramo in Colle il cui cadavere carbonizzato è stato trovato nel pomeriggio dello scorso 9 febbraio in località contrada Pantarosa nelle campagne di Santeramo in Colle, nel Barese. La lama era conficcata all’altezza del torace, lato destro. Sono le prime indiscrezioni emerse dopo l’autopsia eseguita ieri sul corpo della donna che non presenterebbe altre ferite d’arma da taglio. Sul decesso della donna la Procura di Bari ha in corso un’indagine a carico di ignoti per istigazione al suicidio. Quella del suicidio, quindi, resta l’ipotesi più accreditata dai pm.

Gli inquirenti stanno verificando se la donna si sia recata in un distributore di carburante della zona ed abbia acquistato della benzina utilizzata ipoteticamente per darsi fuoco. Al momento tutti i benzinai di Santeramo hanno affermato di non aver visto negli ultimi giorni Michelle. La donna, inoltre, era solita muoversi in sella ad una bicicletta elettrica. Sul punto gli investigatori non confermano nè smentiscono che la due ruote sia stata rinvenuta sul luogo del ritrovamento del cadavere, ma affermano che tutti i veicoli nelle disponibilità della 55enne sono stati recuperati. 

Donna carbonizzata a Santeramo: spunta una tanica di benzina. Da chi e quando è stata acquistata. Eseguita l’autopsia sul corpo di Michelle. Isabella Maselli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Febbraio 2023

Chi e quando ha acquistato la tanica di benzina con la quale la 55enne Michelle Baldassarre avrebbe dato fuoco al suo corpo - se verrà accertato che si è trattato di suicidio - sono le ennesime domande alle quali gli inquirenti baresi stanno cercando di dare risposta.

L’inchiesta dei carabinieri, coordinata dal pm Baldo Pisani, ipotizza il reato di istigazione al suicidio per il momento a carico di ignoti. Del resto fino ad oggi non sono emersi elementi che facciano pensare ad un omicidio. Ma destano non pochi dubbi le drammatiche modalità con le quali la donna, nota e apprezzata professionista di Santeramo in Colle (Bari), avrebbe scelto di togliersi la vita: una coltellata al torace e poi le fiamme. Così è stata trovata, il 9 febbraio, con la lama ancora vicino al corpo e la pelle bruciata, a ridosso di un muretto a secco nelle campagne alla periferia della cittadina murgiana.

Ieri, su incarico della Procura, il medico legale Francesco Vinci e il tossicologo Roberto Gagliano Candela hanno eseguito l’autopsia...

Il giallo di Santeramo: Michelle fu vista in banca poche ore prima della morte. Oggi l’autopsia sul corpo della 55enne ritrovato carbonizzato giovedì. Franco Petrelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Febbraio 2023.

Sarebbe andata in banca, a fare alcune operazioni, poi sarebbe passata da una tabaccheria del paece. Queste le ultime ore di Michelle Baldassarre, la donna di 55 anni in cui resti carbonizzati sono stati ritrovati giovedì scorso alla periferia di Santeramo.

Si scava nella sua vita nel tentativo di ricostruire le tessere del mosaico. Al momento, la morte - orribile - della donna rimane un mistero. I carabinieri del Comando Compagnia di Altamura, guidati dal maggiore Leonardo Bochicchio. stanno ricomponendo il materiale a disposizione: le dichiarazioni dei familiari (la donna era sposata con un noto commercialista santermano e aveva due figli), i tabulati telefonici, le testimonianze e le immagini della videosorveglianza della cittadina murgiana. Ulteriore impulso alle indagini giungerà dall’esito dell’autopsia, disposta dal pubblico ministero Baldo Pisani, che sarà eseguita oggi da Francesco Vinci dell’istituto di Medicina Legale del Policlinico di Bari.

Tra le testimonianze raccolte, quelle dei Servizi Sociali del Comune di Santeramo e degli operatori della Casa protetta nella quale Baldassarre ha vissuto fino a dicembre. Un allontanamento volontario, il suo, probabilmente per dissidi in ambito familiare. Cosa è successo dal ritorno a casa di Michelle al giorno in cui è stata uccisa? Sempre che di omicidio si tratti, il fascicolo di indagine nelle mani di Pisani è stato aperto con l’ipotesi di reato di «istigazione al suicidio». Si tratterà di stabilire quale sia stata la causa della morte e se davvero la donna si sia data fuoco da sola.

Nel frattempo, la comunità di Santeramo è ancora incredula. Tantissimi i messaggi social postati negli ultimi giorni «Ti ricorderò sempre così. Che torni in bicicletta dal lavoro» (la donna era un’igienista dentale, ndr), col vento che ti fa svolazzare la giacca e ti scompiglia i capelli». Sulle piattaforme si legge ancora «una donna dolcissima e sempre con il sorriso». «Non vi sono parole che possano lenire il dolore e la sofferenza per aver perso un angelo». «Non riesco ad immaginare cosa abbia patito e sofferto».

«Ancora una volta - commenta invece Stella Sanseverino, consigliera di parità della Città Metropolitana di Bari - emerge come i disagi delle donne nella gestione di situazioni familiari abbiano bisogno di maggiore ascolto da parte dei soggetti pubblici e privati chiamati a intercettare situazioni di particolare gravità. La violenza si consuma alla porta a fianco e non si riesce a coglierne i segnali».

Il macabro giallo di Santeramo: nel mirino i rapporti familiari. La 55enne morta carbonizzata chiese aiuto ai servizi sociali. Redazione Centrale su La Gazzetta del mezzogiorno il 12 Febbraio 2023.

Forse sarà l’autopsia a dire qualcosa di più sulla macabra fine di Michelle Baldassarre, 55 anni, trovata morta carbonizzata, la sera di giovedì nelle vicinanze della strada provinciale per Altamura.

Le indagini dei Carabinieri, coordinati dal pm Baldo Pisani, stanno passando al setaccio la vita di una donna dal passato irreprensibile, che potrebbe tuttavia aver subìto una situazione familiare molto pesante. Poco prima di Natale, infatti, era stata collocata in una casa protetta, quelle strutture in cui normalmente sono ospitate le donne vittime di violenza. Michelle era tornata a Santeramo da una decina di giorni. L’ipotesi su cui si concentra l’indagine è che possa essere stata spinta a farla finita.

Ecco perché è fondamentale ricostruire le ultime ore di vita, ascoltando familiari e conoscenti, esaminando i tabulati telefonici, cercando eventuali telecamere di sicurezza nelle abitazioni che si trovano sul percorso fino al luogo in cui è stato trovato il cadavere, poco lontano da un’automobile. Per estrarre i resti di Michelle Baldassarre sono dovuti intervenire i Vigili del Fuoco, impegnati sul posto insieme al Radiomobile dei carabinieri di Altamura con i colleghi della stazione di Santeramo. I militari della Sezione investigazioni scientifiche di Bari hanno compiuto rilievi sul posto, allo scopo di illuminare la dinamica dei fatti e capire se la 55enne, negli ultimi istanti di vita, fosse realmente da sola. L’ipotesi di indagine è al momento quella di istigazione al suicidio, scelta obbligata nel momento in cui l’autorità giudiziaria deve chiarire le circostanze in cui è avvenuta una possibile morte autoinferta. Ma il titolo di reato potrebbe mutare se dovessero emergere elementi a supporto di ricostruzioni alternative, che possono vedere la donna come vittima di atti violenti.

La vicenda resta dunque avvolta nel mistero. La donna, madre di due figlie, era seguita dai servizi sociali del Comune di Santeramo, ed era stato adottato un ordine di protezione da parte del Tribunale di Bari. La donna è rimasta in casa protetta per circa 40 giorni. Michelle era conosciuta in paese anche perché lavorava come igienista nello studio del fratello odontoiatra. Ma le dinamiche familiari a volte possono essere oscure, come dimostra l’intervento degli assistenti sociali. E secondo qualche persona amica negli ultimi tempi la donna appariva non più lucida, segnata da qualche tipo di dolore. Qualcosa che pesava sulla sua esistenza.

Le indagini si muovono in ogni direzione. Martedì il magistrato affiderà l’incarico per l’autopsia ai medici legali baresi Francesco Vinci e Roberto Gagliano Candela, che nei giorni successivi procederanno agli accertamenti nell’istituto di patologia forense del Policlinico di Bari. L’esame servirà ad accertare la causa della morte, per escludere che le ustioni evidenti nascondano segni di arma da taglio. E dovrà provare a stabilire un orario indicativo del decesso. E, infine, dovrà accertare le condizioni della donna, per capire se fosse lucida o se avesse assunto qualcosa. I tempi potrebbero non essere brevi. E soltanto dopo il termine degli accertamenti, il corpo potrà essere riconsegnato alla famiglia. Il sindaco, Vincenzo Casone, esprime «cordoglio e solidarietà» alla famiglia, ma chiede alla comunità «di rimanere in silenzio e attesa, finché la terribile vicenda assumerà contorni più chiari e definiti». 

Estratto dell'articolo di Alessia Marani per “il Messaggero” il 14 gennaio 2023.

«Questo posto è mio», «ma che ca.. vuoi?»: prima la lite per il parcheggio poi il pestaggio mortale. Spunta una supertestimone nell'omicidio del caporal maggiore dell'Esercito Danilo Salvatore Lucente Pipitone, picchiato fino alla morte in via dei Sesami a Centocelle nella notte tra venerdì e sabato. Si tratta di una prostituta romena habituè del vicinissimo viale Palmiro Togliatti. La donna ha raccontato di avere visto il 44enne (in quel momento fuori servizio) litigare furiosamente con un'altra persona, probabilmente saltata fuori da un'auto che si era accostata alla Panda del militare parcheggiata vicino a un cassonetto degli abiti usati.

[…] La Squadra mobile ricerca un tunisino di 33 anni, Mohamed Abidi, stella del calcio nordafricano arrivato in Italia circa dieci anni fa per giocare con il Bologna. Una carriera stroncata sul nascere per via dei documenti non regolari. Poi l'escalation criminale: un'accusa di violenza sessuale e rapina alle prostitute in zona San Giovanni, a Roma, nel 2015 (da cui è stato assolto); quindi i guai per droga e ricettazione che lo portano prima nel carcere di Regina Coeli, poi in quello di Rieti. Uscirà nel 2018.

 «Non lo sento da sabato mattina - dice ora la compagna in lacrime[…]- mi ha chiamata per chiedermi come stavamo io e le bambine, non mi ha detto niente solo che mi avrebbe richiamato, che si sarebbe fatto sentire lui. Dopo il silenzio, il telefono è spento, sono preoccupata, non può avere fatto una cosa del genere. Era rientrato da cinque mesi dalla Svizzera dove era andato una volta uscito dal carcere, voleva rifarsi una vita qui a Roma. E lui non si è mai sottratto alla giustizia anche quando è stato accusato ingiustamente. Spero che si presenti alla polizia, magari attraverso l'avvocato, per chiarire tutto. Mi sembra di vivere un incubo».[…]

 Chi lo conosce a Centocelle parla, comunque, di una persona violenta[…] «Una volta ha gonfiato di botte due energumeni sulla Togliatti, nonostante lui sia piccolino di statura. Guai a farlo arrabbiare diventa una belva», dicono dei residenti. A fare il suo nome sarebbe stato un italiano, un suo amico, messo sotto torchio negli uffici della Questura e poi rilasciato. Era lui ad avere noleggiato la Fiat 500 Abarth immortalata dalle telecamere mentre si allontanava da via dei Sesami e nell'abitacolo sarebbero state rinvenute impronte del tunisino. […]

Morto dopo un pestaggio. Il giallo del militare ucciso. Tiziana Paolocci il 13 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Il caporale era in coma da sabato: due interrogati. L'ipotesi di una lite. Città violenta, due gambizzati

Non passa giorno senza che la Capitale non si macchi di sangue.

Ieri è stata dichiarata la morte cerebrale di Danilo Salvatore Lucente Pipitone, il caporal maggiore dell'Esercito originario di Erice (Trapani), ricoverato nel reparto di rianimazione dell'Umberto I. Poche ore prima, la periferia sud-est della città, si era trasformata in Far West e due ragazzi erano stati feriti a colpi di arma da fuoco.

Il militare 44enne, che prestava servizio presso l'ospedale Celio, era stato aggredito nella notte tra venerdì e sabato in via dei Sesami, all'angolo con viale Palmiro Togliatti, a Centocelle. Gli agenti di alcune volanti lo avevano trovato a terra, privo di sensi, dopo aver ricevuto la segnalazione da alcuni passanti. La vittima aveva il volto tumefatto, un grosso taglio sul sopracciglio e i segni di un colpo ricevuto alla nuca con violenza. Poco prima era stato visto discutere con qualcuno nei pressi di un bar, che però aveva chiuso tre ore prima.

Gli investigatori della squadra mobile romana, che si occupano del caso, hanno ipotizzato che l'uomo sia stato colpito con un pugno al volto e sia finito a terra sbattendo il capo. Ma qual è il movente dell'aggressione? I poliziotti lavorano su questo e stanno cercando ulteriori riscontri dalle immagini delle telecamere presenti in zona. Stanno anche ascoltando alcune testimonianze e hanno messo sotto torchio un paio di persone. Chi ha lanciato l'allarme, ha notato un uomo che fuggiva a velocità sostenuta a bordo di un'auto. La zona è terreno franco di prostitute e spacciatori e in prima battuta si era pensato a un tentativo di rapina, ma il caporal maggiore aveva ancora addosso il portafoglio.

Pipitone era stato in missione in Albania e abitava negli alloggi di servizio nella cittadella militare della Cecchignola. Ieri, quando ne è stata dichiarata la morte cerebrale, sono arrivati i familiari dalla Sicilia.

Violenza anche a Morena. Due ragazzi, di 27 e 21 anni, sono stati feriti sabato poco le 22 in via dei Sette Metri. Contro il 27enne, che ha precedenti penali, sono stati sparati due proiettili, uno dei quali lo ha raggiunto a una gamba e si è conficcato a poca distanza dall'arteria femorale. La vittima è stata sottoposta poco dopo a un intervento chirurgico d'urgenza. Anche l'amico è stato colpito, ma le condizioni di entrambi non sono gravi. Mobile e scientifica sono al lavoro per ricostruire l'esatta dinamica dell'accaduto. I due non hanno voluto collaborare ma gli investigatori ritengono che alla base dell'imboscata ci sia un giro di droga di cui anche i due potrebbero far parte.

Si tratta del secondo agguato a colpi di pistola avvenuto in pochi giorni. Infatti venerdì all'Infernetto due ristoratori, marito e moglie, si erano recati al Grassi di Ostia dichiarando di essere stati raggiunti da alcuni colpi di pistola mentre erano in auto con il figlio neonato. Ad avvicinarli due sicari a bordo di uno scooter. Dietro l'agguato ci sarebbe l'ombra della malavita organizzata.

Estratto dell'articolo di Marco Carta per “la Repubblica” il 13 febbraio 2023.

«Lo hanno massacrato di botte. Lo hanno colpito alle spalle. Loro sanno chi è stato, ma non ce lo vogliono dire». Danilo Salvatore Lucente Pipitone non ce l’ha fatta. Il caporal maggiore dell’Esercito, aggredito nella notte di venerdì scorso a Centocelle, ha lottato tra la vita e la morte per più di un giorno. […]

  Ancora è giallo sulla dinamica dell’aggressione, che assomiglia a un vero e proprio agguato. Grazie alle testimonianze raccolte, gli inquirenti avrebbero già identificato il presunto aggressore. Un uomo di nazionalità straniera, che dopo aver colpito Lucente ha fatto perdere le sue tracce a bordo di un’auto.

 Ignoto ancora il movente: forse una tentata rapina, anche se il militare è stato ritrovato con il telefono e il portafoglio. […]. Quello che è certo, per ora, è che Lucente, 44 anni, intorno alle 2 di notte si trovava nella zona Est della capitale, in via Palmiro Togliatti, che nelle ore notturne diventa uno dei punti caldi dello spaccio e della prostituzione su strada. Lucente era a poca distanza dalla sua auto, parcheggiata in via dei Sesami, quando è stato colpito alla testa e sul volto.

[…] Quando è arrivata l’ambulanza, però, le condizioni del militare erano già critiche: Lucente, infatti, era privo di conoscenza, presentava un profondo taglio al sopracciglio e i segni di un duro colpo dietro la nuca. […] Un uomo è stato interrogato, e poi rilasciato, come testimone dell’aggressione che, con il passare delle ore, è diventata un omicidio.

 «Mio figlio non frequentava quelle zone», dice la madre Vita Poma, arrivata dalla Sicilia. «[…] Come si trovava in quel posto non lo sappiamo, non si capisce. Lo hanno trovato vicino alla macchina. Lo hanno colpito da dietro, quindi lui nemmeno lo ha visto. È stato massacrato di botte, lo hanno preso da dietro». […]

Estratto dell'articolo di Marco Carta per “la Repubblica - Edizione Roma” il 13 febbraio 2023.

«Non è stata una lite. Lo hanno aggredito. È stato massacrato di botte, ma non capiamo che ci facesse in quel posto. La Polizia sa chi è stato, ma non ce lo dice». Vita Poma, la madre del caporal maggiore dell’esercito Danilo Salvatore Lucente Pipitone, non si da pace per la morte del figlio: «Non ce l’ha fatta. Loro ci devono dire cosa è successo. Lo sanno chi è stato». […]« Noi non sappiamo cosa ci facesse lì a Centocelle. Mio figlio non frequentava quelle zone.Era un tipo tranquillo, solare allegro. Ultimamente era diventato casalingo e religioso. Andava in chiesa. Rispettava le donne, come si trovava in quel posto non lo sappiamo, non si capisce. Lo hanno colpito da dietro, quindi lui nemmeno ha visto ».

La rabbia dei familiari per quello che è accaduto è tanta. «È stato massacrato di botte. Perché non andate a cercare i colpevoli invece di stare qui?» , si sfoga il padre, che chiede giustizia dopo l’ennesima tragedia che ha colpito la città. Dal Pigneto a via Palmiro Togliatti passando per Ostia e Morena. Senza dimenticare Termini. Tra accoltellamenti, sparatorie e violenze, la città è diventata un far west: in appena una settimana si contano 7 vittime. Una al giorno.

 […] La vicinanza degli episodi aveva convinto il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza a prendere una serie di precauzioni nella zona di Termini. Più controlli, ma anche una maggiore illuminazione. Ma il dubbio è che serva qualcosa di più.

(ANSA il 13 febbraio 2023) - C'è un sospettato per l'omicidio del caporale maggiore dell'Esercito, Danilo Salvatore Lucente Pipitone, morto dopo essere stato aggredito a Roma la notte tra venerdì e sabato nel corso di una lite stradale. La persona sospettata è in trentenne nordafricano con precedenti legati allo spaccio di droga. Sulla vicenda sono al lavoro gli agenti della Squadra Mobile. (ANSA).

Roma, l'omicidio di Lucente Pipitone: caccia al killer, forse straniero, fuggito su un'auto a noleggio. Ancora mistero sul movente. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 13 febbraio 2023

Il militare massacrato a botte a Centocelle e morto dopo due giorni di agonia: non si sa nemmeno perché fosse in zona e cosa ha scatenato l'aggressione

Sanno chi è stato, ma non ce lo dicono». Fuori dal reparto di rianimazione del Policlinico Umberto I, Vita Poma non nasconde la rabbia. E così anche il marito Giuseppe Lucente Pipitone: «Ce l’hanno massacrato», dice. Sono i genitori di Danilo Salvatore, 44 anni, primo graduato dell’Esercito (il vecchio caporalmaggiore), morto dopo quasi due giorni di agonia in seguito all’aggressione subìta venerdì notte a Centocelle a Roma. 

La polizia sta dando la caccia a uno straniero che si è allontanato in auto — una Fiat Cinquecento Abarth a noleggio — dal luogo del pestaggio del militare, operatore sanitario all’ospedale del Celio, dove negli anni della pandemia è stato uno degli «angeli del Covid» proprio in terapia intensiva, assistendo centinaia di pazienti contagiati. Il sottufficiale è stato preso a pugni vicino a un cassonetto per la raccolta di abiti usati in via dei Sesami dopo una lite in strada, come segnalato da chi ha chiamato al 112, in una zona dove da tempo i residenti protestano per la presenza notturna di spacciatori di droga e protettori di prostitute. Colpi che hanno causato al 44enne trapanese gravissime lesioni alla testa. 

Il decesso è sopraggiunto nel pomeriggio di ieri: i familiari hanno autorizzato l’espianto degli organi, ma con il nulla osta del magistrato che si occupa delle indagini per omicidio. Ci sarebbe un testimone che avrebbe visto fuggire un uomo da via dei Sesami alle 2 circa di venerdì notte, poco prima che Lucente fosse trovato a terra, privo di sensi, accanto alla sua auto parcheggiata. L’aggressore si è quindi dileguato, anche se non c’è tuttora la certezza che fosse da solo. Ma almeno uno dei due è stato identificato, come ha confermato la madre della vittima. Non si esclude si tratti di un pregiudicato. Il movente dell’omicidio rimane un mistero, così come perché il sottufficiale si trovasse a Centocelle, visto che abitava in un alloggio nella cittadella dell’Esercito della Cecchignola.

Accertamenti in questo senso anche da parte dei carabinieri con funzioni di polizia militare che si sono presentati all’Umberto I. «Era un ragazzo allegro, sensibile. Da un po’ di tempo anche religioso, andava spesso in chiesa, e casalingo. Molto rispettoso delle donne. Che ci faceva lì? Non lo sappiamo. Lui con quella zona non c’entrava niente», rivela ancora la signora Vita. Messaggi di cordoglio sono giunti alla famiglia dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi — che lo ha definito «un servitore dello Stato aggredito in circostanze su cui confido sia fatta piena luce al più presto» —, così come dai responsabili dei dicasteri della Difesa e dell’Agricoltura, Guido Crosetto e Francesco Lollobrigida, e dal sindaco di Roma, Roberto Gualtieri.

IL COLPO DELLA MANTIDE: L’OMICIDIO GUCCI.

Gaia Vetrano il 18 Febbraio 2023 

Nella storia della moda italiana, pochi lasciarono il segno come Maurizio Gucci.

Un nome famoso in tutto il mondo. Non tutti possono vantarsi negli anni Novanta di poter indossare un capo della famosa maison, i cui prezzi sono alti, ma la qualità è invidiabile. D’altro canto, il nome di Gucci si lega proprio a quell’élite alto borghese per cui una pelliccia più costosa o una borsa sfarzosa non sono altro che un capriccio da soddisfare.

Eppure, nonostante i sorrisi che davanti alle telecamere vengono sfoggiati, il marcio è padrone delle loro vite. L’avidità, a partire dai tempi di Caino e Abele, è da sempre stata capace di spezzare in due le famiglie. Il denaro si fa facilmente, se è quello che si vuole. Ma difficilmente ci si limita a questo: il potere non è acquistabile. Eppure, la ricerca di questo corrompe in poco tempo, e corrode i rapporti tra fratelli, sorelle, o coppie.

Da sempre, è capace di trascinare anche le anime più razionali verso gli abissi, dove l’intelletto si spegne e rantola nel buio. Ed è quando il lume della ragione viene perduto, che la mente umana è capace di commettere le più assurde atrocità. Futili battaglie capaci però di recare immensa distruzione.

Quando Maurizio Gucci si guarda allo specchio, la sua vita è l’immagine perfetta di tutto questo. Dell’invidia, del lusso, delle feste sfrenate. Dell’ammirazione smisurata difficile da guadagnare. Dei calici di champagne e delle perversioni. Della ricerca sfrenata e ossessiva di portare avanti il proprio nome. Di farlo rispettare.

Ma quello che Maurizio non vede è che la discesa verso gli Inferi è più vicina e precipitosa di quanto sembra. Gucci non sa di trovarsi con i piedi sul baratro e che sarà qualcuno a lui tremendamente vicino a spingerlo al suo interno.

D’altro canto, non è forse questa la storia dei già citati Caino e Abele? I due figli di Adamo ed Eva, rispettivamente un agricoltore e un pastore. Il primo, dopo che Dio rifiutò il suo raccolto preferendo quello del fratello, diventerà il primo assassino della storia.

Caino, per invidia, si macchierà dell’omicidio di Abele. Forse, se qualcuno avesse detto a Maurizio Gucci di guardarsi le spalle da qualcuno a lui vicino, allora sarebbe ancora vivo.

In pochi possono vantarsi di lavorare a stretto contatto, o di banalmente conoscere, gli imprenditori della Milano bene che, già alle otto del mattino di lunedì, corre a lavoro.

Tra questi c’è il portinaio del numero civico 20 di Via Palestro, un elegante edificio rinascimentale di fronte i Giardini Pubblici, il signor Giuseppe Onorato, ex-maresciallo dell’esercito, adesso pensionato. Anche questo la mattina ha un bel da fare: deve pulire meticolosamente le scale dell’ingresso dalla sporcizia e fare in modo che nessun estraneo entri al suo interno.

Marzo è un mese a Milano relativamente ventoso: basta poco affinché boccioli e foglie entrino nell’androne, per non considerare la polvere che ognuno si porta dietro, sotto le suole. A lui viene richiesto che si mantenga un certo decoro. Per cui, come ogni giorno della sua vita, il 27 marzo 1995 Giuseppe sta passando la scopa sui gradoni in marmo bianco del suo palazzo.

Per qualcuno potrebbe sembrare una routine noiosa. In fondo, cosa si fa oltre che accogliere i vari condominiali o ritirare pacchi? Per Giuseppe è sufficiente potersi vantare di conoscere Maurizio Gucci. Un uomo gentile, alla mano, con lui sempre cortese. Una brava persona, a modo. Oltre che un grande imprenditore.

“Eccolo che arriva” mormora tra sé e sé quella mattina. Come sempre, indossa il suo completo elegante, dai toni del marrone. Ogni giorno, sorridente, con la sua ventiquattro ore e la camicia bianca, si reca negli uffici della sua ditta. Maurizio entra nella palazzina e saluta Giuseppe. 

Dal numero civico 20 di Via Palestro, Gucci non ne uscirà mai più.

Onorato non ha il tempo di ricambiare il gesto che, dietro di lui, vede un’altra figura. Un uomo elegante, come lo sono tutti coloro che lavorano in quella impresa, con un berretto da baseball in testa. Ha il braccio puntato in avanti: tra le dita stringe una pistola, che colpita dalla luce brilla come un diamante. Lo fa con disinvoltura, come se non fossero solo le 8:35 del mattino.

Prima che il portiere riesca a dire qualcosa, il killer spara tre colpi verso Maurizio: lo raggiungono alla schiena e al gluteo destro. Gucci ha il tempo di guardare un’ultima volta Giuseppe, prima di accasciarsi sul pavimento. Seguirà un altro colpo, nella tempia.

Onorato rimane pietrificato. Di tutte le cose che gli erano successe, questa va ben oltre l’immaginabile. All’assassino non importa nulla delle sue lacrime o delle sue suppliche. Del fatto che sia solo un povero anziano, presente casualmente in un luogo dove – solo sa Dio – quanto avrebbe preferito non esserci. È solo un testimone scomodo. Così spara altre due volte, ma è nervoso.

Giuseppe solleva il braccio, come per difendersi e, miracolosamente, viene colpito solo al tricipite e alla spalla.

A quel punto l’assassino se ne va, con la stessa nonchalance con la quale è arrivato. Nel farlo urta però una dipendente della ditta di Gucci, mentre il portiere cade a terra. Prima di svenire, ha il sorriso sulle labbra, felice di essere ancora vivo.  

Purtroppo, accanto a lui, qualcuno ha già smesso di lottare per la vita, ed è precipitato nel baratro. A qualche metro, c’è il corpo di Maurizio Gucci, pregno del suo stesso sangue, steso sul fianco destro, con la testa su un braccio e l’altro ripiegato sotto al corpo. Ha lo sguardo sereno, come se dormisse.

Ma dagli Inferi, come ci insegna il mito di Orfeo ed Euridice, non si può tornare indietro. A qualche metro da Giuseppe, il re ormai caduto di un vasto impero.   

Gucci: l’impero dalle due G 

Agli inizi degli anni 20’, l’offerta imprenditoriale di Gucci vanta un ampio catalogo di borse e valigie. Il nonno, Guccio Gucci, gestisce un negozio piccolo ma speciale perché, ogni pezzo, è creato con cura e su ognuno di essi è riposta la stessa attenzione che una madre riserverebbe per i propri figli.

La raffinatezza e il gusto della famiglia Gucci affondano nelle origini della stirpe stessa: i genitori di Guccio sono infatti degli artigiani. Quando questo apre la sua azienda, conosce alla perfezione cosa piace ai membri dell’alta borghesia, per cui aveva lavorato come facchino al Savoy di Londra. Circondato dal lusso, rende questo la sua stessa vita, sviluppando delle creazioni che lo renderanno capo di un impero.

Il 19enne Guccio, in cerca di fortuna, rimane incantato dall’eccellente fattura delle borse da viaggio, e diventano il suo principale interesse. I modelli che propone vantano prezzi poco abbordabili, ma di ciò Gucci non si fa un problema. Questo verrà scordato: i clienti nel futuro si ricorderanno solo della qualità del prodotto.

Ed è con l’idea di un lusso che solo in pochi possono permettersi che Gucci segna la storia.

Nel 38′ entra in società il figlio Aldo. Alla morte di Guccio, nel 53‘, seguiranno Rodolfo e Vasco. I tre, nonostante il volere del padre fosse di aprire sedi solamente in Italia, per tenere sotto controllo al meglio la qualità della filiera produttiva, aprono una boutique a New York. Un cambio di rotta decisivo, mosso dal desiderio di aumentare il bacino degli affari. L’avidità che genera il peccato capitale di cui si marchia la famiglia.

Aldo diventa il responsabile della parte amministrativa del marchio. Rodolfo, creativo e carismatico, il volto. I due bei fratelli dagli occhi cerulei fanno innamorare le signore. Durante il fascismo, quest’ultimo aveva recitato in alcuni film, conoscendo Alessandra Winkelhauser, in arte Sandra Ravel. Tra i due fu amore.

Maurizio, figlio di Rodolfo Gucci, viene al mondo nel 1948 sotto il simbolo del morso e della staffa: è già destinato a portare avanti il marchio. Si trova a capo di un tempio della moda, con testimoni quali Grace Kelly, Jacquelyn Kennedy e Audrey Hepburn.

Dal 1955 il simbolo della maison era uno stemma araldico con al suo interno un cavaliere che portava con sé una valigia e una borsa a mano. Solo nel 1992 venne cambiato con le iconiche due G. 

La maison vale, nel ‘73, ben 800 miliardi di lire, e i suoi pezzi iconici si espandono a macchia d’olio prima per il continente, poi anche oltremare.

Il giovane Maurizio, come in ogni favola d’amore che si rispetta, incontrerà la futura moglie a una festa. Si trovano lì grazie a delle amicizie in comune e lei è la figlia del commendator Ferdinando Reggiani, ricco impresario lombardo. Per il giovane Gucci fu sin da subito colpo di fulmine, ma la bellissima Patrizia evita la sua corte.

A fare breccia nel cuore del giovane i suoi splendidi occhi, che le ricordano quelli della sua attrice preferita, Elizabeth Taylor.

La fanciulla nasce da una lavapiatti di nome Silvana di Vignola, in provincia di Modena, e porta un cognome non suo. Patrizia non conobbe mai il padre biologico. La mamma ebbe però la fortuna di conoscere l’imprenditor Ferdinando, un uomo ricco e gentile che decise di adottare la piccola. Si occupò della sua istruzione, dandole tutti i mezzi necessari per una buona posizione in società. 

Ferdinando la assume come segretaria della sua impresa. La Reggiani cresce così abituandosi al lusso frutto di poca fatica e con il timore di poter tornare nuovamente a fare la fame, tra i topi e la polvere.

La giovane frequenta la Milano bene, girando per la galleria di San Babila con i tacchi alti e i capelli cotonati, che le incorniciano gli occhi neri come la grafite. Nel suo piccolo, spera che nessuno si renda conto del divario sociale tra lei e le sue amiche. Patrizia è nata povera e, i chili di trucco, non possono nascondere le sue origini.

Tra le donne benestanti che girano con le pellicce di visone, Patrizia è un pesce fuor d’acqua. Una misera imitazione. Le manca lo status.

Mentre le sue amiche cercano il vero amore, lei vuole un uomo bello, ma con un grande portafogli. Quando Gucci le si presenta, lui è l’uomo perfetto.

Alla fine l’amore sboccerà e diventano ufficialmente una coppia, pur con la disapprovazione del padre Rodolfo. Questo coglie sin da subito l’ambiguità di Patrizia, che può essersi avvicinata all’ingenuo Maurizio solo per il denaro. È una donna avida, interessata a mettere le mani sul patrimonio familiare. Una vera arrampicatrice sociale.

D’altro canto, i detti popolari dicono che i capelli rossi hanno la luce del fuoco, delle risate e delle malizie. Ma anche della malvagità. Gucci, in fondo, rappresenta la stabilità e il potere economico. Elementi che, agli occhi della donna, hanno la loro importanza.

Eppure, Maurizio la ama profondamente, e per lei è disposto a perdere tutto. Rodolfo lo pone davanti a una scelta: l’amore di quella sciagurata o le sue quote in azienda. Davanti al rifiuto del padre di accettare il loro fidanzamento, il figlio si trasferirà a vivere dai Reggiani, accettando di venire diseredato.

Terminati gli studi, i due si sposeranno, nel ‘72. Nessun membro della famiglia Gucci verrà alla cerimonia. Primo tra tutti Rodolfo. 

I due, con le due figlie, vivono in uno splendido attico di 1800 m2, con giardino pensile e piscina, in piazza San Babila, contando anche le quattro ville a Saint Moritz, quella ad Acapulco, l’appartamento sulla Fifth Avenue che gli aveva donato Aldo, il veliero “Créole” di proprietà della famiglia, costato 7 miliardi di lire, fino alla Bentley beige targata “Maizia”, acronimo nato dalla fusione dei nomi dei due e che sancisce il loro amore. Per Patrizia è un’occasione per scalare la piramide sociale, nonostante il suo carattere sia un po’ spigoloso. Non si sentirà mai accolta dai circoli della Milano bene.

La donna ha finalmente la vita che tanto desiderava e un’amica fedele al suo fianco: Giuseppina “Pina” Auriemma. Questa è una sedicente maga napoletana, attratta più dal denaro che dalle arti oscure, che riconosce lo status della Reggiani. Le due si incontrano nel 77′ alle terme di Ischia. Il suo è un nome che ritornerà nel nostro racconto.

Eppure, l’amore che Maurizio prova nei confronti dell’altra non è sufficiente e, probabilmente, non lo era mai stato. 13 anni dopo i due porranno la firma sul documento che sancisce la fine della loro storia.

Il giovane Gucci si è innamorato di un’altra donna, Paola Franchi, ex – modella. Nello stesso anno della separazione, l’84, la Reggiani viene operata di tumore al cervello. Secondo gli accordi, avrebbe dovuto percepire ogni anno 1,5 milioni di lire dall’ex – marito.

Arriviamo così a quel 27 marzo dell’85, le cui dinamiche hanno l’ambizione di voler ricordare il delitto perfetto. Forse, non sempre ciò che il popolo mormora è vero, ma Rodolfo Gucci aveva ragione: mai fidarsi di una donna dai capelli rossi. Rossi, come il sangue.

Il colpevole è nascosto “sotto la mattonella”?

La Polizia arriva subito sul luogo del delitto, riuscendo a salvare Onorato. Questo proverà ad aiutare le indagini ma, complici lo shock psicologico e fisico, ciò che ricorda è poco: l’assalitore è un uomo sulla quarantina non troppo alto. Sicuramente robusto e, il giorno dell’omicidio, indossava un giacchetto marrone. E il cappellino da baseball, un dettaglio chiave della descrizione.

Un volto sicuramente sconosciuto, non un frequentatore di quella Milano bene, e neanche degli ambienti di classe della ditta dalla doppia G. 

Secondo le prime indagini, l’arma usata è un calibro 7.65, dotata di silenziatore. Una mano sicuramente esperta, quella di uomo che arriva e con sicurezza compie la sua esecuzione. Tutto porta a un omicidio premeditato. Probabilmente, su commissione.

Per capire chi però possa essere stato intenzionato a commettere questo delitto, per il commissario Filippo Ninni bisogna ripercorrere a ritroso la vita del pupillo dell’impero Gucci.

Le prime indagini si concentrano proprio sulla vita lavorativa della vittima che muoveva, creava e rappresentava un grande patrimonio monetario.

Ciò che sicuramente non traspare al mondo esterno è il rapporto tra Maurizio e il padre particolarmente duro e conflittuale.

Dopo la morte prematura di Sandra Ravel, avvenuta solo sei anni dopo la nascita del figlio a causa di un tumore all’utero, Rodolfo dovette affrontare il lutto dell’amata moglie e al contempo mostrarsi una figura paterna solida.

Probabilmente, proprio per questo motivo Maurizio è una persona molto generosa, ma anche insicura e indecisa. Sin da subito obbligato a lavorare sodo per l’azienda, a fare la gavetta, per guadagnarsi il denaro. Gli viene chiesto di andare bene a scuola, di laurearsi in poco tempo – a 23 anni finisce il suo percorso di studi in Giurisprudenza alla Cattolica – e di pretendere poco dalla vita. Solo con il sudore si può ottenere ciò che si vuole. Un messaggio importante che, accompagnato dalla tanta disciplina, lascia poco spazio all’affettività.

Dopo il matrimonio, padre e figlio si riconcilieranno, mettendo via l’orgoglio. Sarà soprattutto grazie a Patrizia, che scelse di chiamare la sua prima figlia Alessandra, proprio come la defunta Ravel. 

Nel 1980, Rodolfo muore. In eredità gli lascia il controllo dell’azienda insieme ad Aldo, ma i documenti non sono firmati. Nonostante sia il giusto erede delle quote, queste non potranno diventare sue. Maurizio deve compiere una scelta: pagare la tassa di successione – non ha i soldi per farlo, significherebbe rinunciare a tutto – oppure falsificare gli atti. Ed è ciò che fa.

Maurizio, proprietario del 50% delle aliquote, diventa più ambizioso e ossessionato dal lavoro. Il suo sogno è quello di riportare Gucci in auge, distaccandosi dalla famiglia e dalle tradizioni. Mentre il mondo va avanti, Gucci rischia di rimanere bloccato alle sue radici. Memento di un passato glorioso.

Ci vogliono nuovi designer e concept, ma prima di farlo, deve assumere le redini del marchio. C’è solo un ostacolo: lo zio Aldo. Con l’aiuto della Reggiani si mette d’accordo con Paolo, suo cugino, aspirante stilista e proprietario del 3%. Ciò che gli chiedono è di votare in consiglio a favore di Maurizio.

Quest’ultimo, in cambio, gli aveva promesso che avrebbe messo la sua firma sulla nuova collezione. Riluttante accetta e così, Maurizio, forte già del 50% della proprietà, butta fuori dai suoi uffici Aldo. In più, nel 1986 questo sarà condannato a un anno di carcere negli Stati Uniti per evasione fiscale e frode bancaria. Sarà proprio per colpa di Paolo, che denuncerà i suoi problemi con il fisco.

Maurizio non manterrà mai la promessa. Così, Paolo decide di vendicarsi, informando le autorità della firma falsificata sui documenti dell’eredità di Rodolfo. Uscito di prigione, Aldo supporterà il figlio. Il rampollo sfugge dalla polizia italiana in Svizzera, dove verrà seguito dalla moglie. Siamo proprio a cavallo tra gli anni 83′-84′: la loro favola sta giungendo alla fine.

Probabilmente grazie all’aiuto degli innumerevoli avvocati, Gucci verrà comunque assolto. Può tornare in Italia.

Maurizio ritorna proprietario del suo 50%. Le restanti aliquote sono in possesso dell’impresario arabo Nemir Kirdar, capo della Investcorp, una società che investiva sulle azioni di altri marchi promettenti per poi rivenderle a prezzi più alti. Tra i suoi anche Tiffany. Per conto di Gucci, aveva acquistato dalla Morgan Stanley le quote di Aldo e i suoi altri due figli, Roberto e Giorgio, il 47,8%. Secondo i patti, non avrebbero mai interferito sulla gestione delle restanti.

Nel 1990 Maurizio è ufficialmente presidente di Gucci, mentre gli arabi lo supportano e gli danno man forte. Ma il 50% non basta, vuole di più. Al colosso arabo chiede di acquisire un altro 10%, pari alle quote di Giorgio, Roberto e Paolo, i tre cugini. Ma la Investcorp i suoi pacchetti azionari li vende a caro prezzo.

Gucci i soldi non li ha ma, a cinque giorni di scadenza del termine, Maurizio paga. Ciò provoca stupore. A chi gli chiede chi avesse dato il denaro, Gucci risponde che durante la notte gli era apparso in sogno papà Rodolfo che gli aveva detto di guardare sotto una mattonella.

Quando gli inquirenti ricercano il possibile movente, questa diventa una faccenda da esaminare. Chi può aver dato il denaro? Potrebbe essere questa una pista? Questo mattone potrebbe essere un finanziatore occulto. Qualcuno che, in cambio del prestito, avesse fatto promettere qualcosa in cambio. Patto che Maurizio non rispettò. Da qui l’omicidio.

È sotto quel mattone che si trova nascosto il mandante? Successivamente ci si rese conto che il debito venne saldato. La pista non era possibile.

Acquisito il 60%, Maurizio ha tutte le carte in tavola per incominciare la sua tanto agognata ristrutturazione di Gucci. Ma, nel settembre del 93’, è costretto a vendere tutte le sue quote alla Investcorp. Questa ha le capacità manageriali necessarie a portare avanti ciò lui aveva cercato di incominciare anni fa.

Difatti, il colosso arabo lo aveva più volte accusato di cattiva gestione della società, arrivando a chiedere e ottenere il congelamento temporaneo della quota azionaria del socio italiano. Una vertenza che aveva accentuato le difficoltà del gruppo e allarmato i dipendenti preoccupati per il ritardo nel pagamento degli stipendi. Insieme alla Investcorp, anche il CEO di Gucci America, Domenico de Sole. 

Per Maurizio è una sconfitta. Nell’esercizio finanziario chiuso il 31 gennaio del 93′ il gruppo ha realizzato un fatturato di circa 225 miliardi di lire, contro i 299 miliardi dell’anno 1990-91. Il suo progetto è fallito.

Quando morirà, nel 95’, è il re caduto dell’impero Gucci che, però, non appartiene più alla famiglia Gucci.

Chi può aver ucciso Gucci?

Con i soldi incassati dalla vendita delle sue quote, Maurizio decide di voler aprire un casinò in Svizzera. Una mossa ardita, un gioco che non sapeva gestire che, forse, pagherà con la vita.

Ipotesi investigativa interessante ma, purtroppo, non portò a nessuna novità riguardo al caso.

Maurizio era un uomo fin troppo rispettabile e onesto per commettere qualche errore da essergli costato la vita. O almeno, così sembra. In fondo, quando ognuno rientra nelle proprie case, nel caldo dei propri appartamenti, è lì che rivela la sua vera natura.

Solo le figlie Alessandra e Allegra e la bella Patrizia potevano sapere qualcosa in più sui misteri dell’esistenza da favola del giovane Gucci.

Quando negli anni 80’ il suo potere inizia a vacillare a causa delle questioni legali legate ai documenti falsi, Patrizia lo accusa di incapacità manageriale, come successivamente farà la Investcorp. Sulla gestione dell’azienda i due iniziano a litigare: la Reggiani aveva fin troppo idealizzato il marito e le incomprensioni resero troppo difficile la convivenza tra i due. La donna non accetta di non poter avere posizione nella gestione del marchio, e lo manipola.

Agli occhi della Reggiani, è un uomo inutile e incapace. Se non fosse per il suo cognome sarebbe un pezzente. Maurizio non la tollera. Ha sopportato a lungo una figura che lo comandava a bacchetta, non avrebbe patito ancora.

Come già detto, nell’84’ Gucci fa le valigie e si trasferisce in un appartamento in corso Venezia, lasciando alla ex – moglie l’attico. Alla Reggiani rimane un’ottima liquidazione e una bella casa. Eppure, in seguito all’omicidio, lascia una dichiarazione che confonderà gli inquirenti: umanamente le dispiaceva ma, ma dal punto di vista personale non poteva dire la stessa cosa.

Per quale motivo? Per gelosia? Odio nei confronti dell’amante? Paola Franchi, una fine arredatrice e decoratrice di interni, diede a Maurizio la speranza che, forse, non era tutto perduto. Poteva comunque trovare l’amore. La donna non lo faceva sentire solo, ma gli dava supporto. Così, Gucci si innamorò dei suoi capelli biondi come il grano.

Forse, la presenza di quest’ultima e il tenore di vita che i due sostenevano potevano costituire un pericolo per l’indennità dell’eredità delle figlie. Ciò appare solo come una copertura . In realtà, la Reggiani non poteva permettersi di perdere il suo nome, che si era guadagnata, per una qualsiasi sciagurata di passaggio.

Lei è Lady Gucci, l’unica e la sola. Lei, che lo aveva aiutato a prendere il controllo del marchio, ora era costretta a perdere ciò per cui aveva tanto lottato.

Dopo il divorzio, il telefono di casa Gucci – Franchi viene inondato da messaggi minatori, ricchi di odio e desiderio di vendetta. In cui gli augura di finire all’Inferno. Ciò che è certo è che le parole di Patrizia Reggiani, un’ex – moglie infuriata, non possono essere ignorate. Eppure, non portano a nulla. Nulla che la leghi al caso.

Rimangono solo i sospetti e la certezza che Rodolfo avesse ragione. Dopo il funerale, il primo interesse della Reggiani è quello di riscuotere l’eredità, compreso l’appartamento in corso Venezia, dove abitava la Franchi, sfrattandola. 

Per due anni, l’inchiesta sull’omicidio non porta a nulla. Chi può aver ucciso Gucci?

“Dottor Filippo Ninni? Ho una storia da raccontarle”

Dottor Filippo Ninni? Ho una storia da raccontarle

L’8 gennaio 1997, il commissario della Criminalpol è seduto nel suo studio. Sta cercando di gestire le varie carte che ha sul tavolo e, nonostante siano le 22:38 della notte, il suo ruolo gli impedisce di dormire.

Sono molti i casi che gli vengono posti. Troppe le persone in cerca di giustizia.

Quando la cornetta suona, lascia stupito Ninni, che prima di tutto si chiede con chi stia parlando. Non si tratta di un informatore professionista, ma di un uomo qualsiasi. Un certo Gabriele, che si vanta di conoscere delle novità riguardo il caso Gucci, fermo da due anni.

Se prima aveva la sua curiosità, adesso ha la sua attenzione. Ninni rizza la schiena, prende un taccuino e, calendario alla mano, fissa un appuntameno il prima possibile.

Quando i due si incontrano, Gabriele gli racconta una storia incredibile, degna di un giallo.

Da qualche mese questo viveva nascosto in un hotel, dove aveva fatto amicizia con il portiere, Ivano Savioni. Per darsi un tono davanti a questo, gli aveva raccontato di essere coinvolto nel narcotraffico mondiale e di avere l’FBI alle calcagna.

Ivano, allora, forse per non sentirsi da meno, confessa di aver preso parte all’omicidio di Maurizio Gucci.

Il colpo della mantide

Savioni potrebbe essere un mitomane. Eppure, sa troppi dettagli, a partire da come si sono svolti gli eventi per filo e per segno il giorno del delitto. Racconta particolari che non erano stati divulgati nemmeno dalla stampa. Tra questi, anche le caratteristiche dell’arma usata.

Solo gli inquirenti potevano sapere si trattasse di una semi automatica dotata di un silenziatore artigianale. Oltre a questi, il killer.

La Criminalpol chiede a Gabriele di incontrarsi nuovamente con il portiere, ma questa volta gli dicono di indossare dei microfoni. Savioni racconta nuovamente tutto. Scende ancor di più nei dettagli: dice di aver solo organizzato l’operazione, ma non è stato lui a sparare a Gucci, ci sono due complici di cui fa nomi e cognomi. Mentre raconta, si pavoneggia. Fiero del piano che era riuscito a mettere in piedi e, di come in due anni, non siano ancora riusciti a prenderlo.

I nomi sono quelli di Benedetto Ceraulo, costruttore siciliano, e Orazio Cicala, ristoratore di Arcore. Il primo è il famoso uomo dal berretto da baseball, l’altro è l’autista che lo aspettava fuori, in via Palestro, a bordo della Clio verde.

Ma c’è dell’altro: secondo quanto racconta Savioni, il committente dell’omicidio si stava rifiutando di pagare. Quando si apre il vocabolario e si cerca il termine “sicario”, quello che si può leggere è:

Chi uccide, chi commette assassinio su commissione, per conto cioè di un mandante

Colui che aveva richiesto la morte di Gucci è ancora a piede libero.

Filippo Ninni fa mettere sotto controllo i telefoni dei sospettati e, così, salta fuori un nome: quello di Pina, la famosa maga napoletana. L’amica di Patrizia Reggiani, vicina anche a Maurizio, che le aveva concesso di gestire a Napoli due punti vendita della maison. Questi fallirono in poco tempo, facendola uscire dalle grazie del rampollo. Ecco il possibile movente: la vendetta.

Ma Pina è piena di debiti, da chi può aver ottenuto i soldi? Salta subito un secondo nome, quello della Reggiani.

Dopo il divorzio, il loro rapporto va avanti e si fa sempre più stretto. Pina sfrutta il fascino che la sua personalità suscita su Patrizia, una donna debole e facilmente influenzabile. Ma perchè prestare dei soldi per uccidere Gucci? Ninni decide di mettere su una trappola: l’operazione Carlos.

Viene chiesto a Gabriele di dire a Savioni di aver trovato un sicario, di nome Carlos, disposto a spaventare la persona che gli deve dei soldi. Sotto copertura viene quindi inviato un ispettore colombiano della questura, che conosce molto bene la lingua. Questo, insieme a Ivano, si dirigono verso i mandanti del delitto Gucci. I due entrano quindi in un auto che, per l’occasione, è piena di microspie.

Vanno a prendere Pina in stazione e, appena questa entra in auto, confessa il nome del mandante: Lady Gucci. In un solo colpo, Ninni ha individuato tutte le persone coinvolte. Il 31 gennaio 1997, alle 4.30 del mattino, le volanti della Polizia sfrecciano nel buio, dritte verso le case dei sospettati.

Durante gli interrogatori, Savioni è il primo a crollare.

Come racconta, Patrizia era ossessionata dal timore di poter perdere il suo status, e si sfoga con tutti di quanto la spaventi la possibilità che Maurizio e Paola si sposino. Lei lo vuole morto. A molti chiede aiuto: alla sua domestica, al marito di questa e persino all’avvocato. La Reggiani vuole trovare qualcuno disposto a ucciderlo. Tutti pensino che scherzi, tranne una sola persona. 

Parliamo di Pina, che dice di avere la soluzione: prepara un incontro delle due con Savioni, che contatta i killer. In realtà sperano di truffarla: i due vogliono farsi dare i soldi e poi sparire, senza compiere l’omicidio.

I sicari chiedono 600 milioni, di cui la Reggiani anticipa 150, che Pina, Savioni, Ceraulo e Cicala spendono immediatamente. Gli altri, come Patrizia ripete, verranno dati solo a omicidio compiuto. Ecco che quindi, i quattro, si trovano costretti a commettere il delitto.

La Reggiani tratta l’operazione come se fosse un’impresa commerciale qualsiasi, gli altri, come dei pezzenti in disperata cerca di denaro.

Lady Gucci racconterà agli inquirenti di non aver mai commissionato il delitto. Ammette di esserne venuta a conoscenza solo a fatto compiuto. Pina Auriemma e gli altri hanno fatto tutto di testa loro, per poi ricattarla.

Nel 1998 si apre il processo. Tutti gli occhi sono ovviamente incentrati su Patrizia e, i tabulati telefonici e bancari confermano quanto confessato da Savioni.

L’accusa la dipinge come una spietata mantide, pronta a colpire il compagno, quando è più indifeso. La difesa sfrutta il tumore al cervello di cui è malata, che l’avrebbe resa manipolabile da Pina. Il giudice condanna, il 3 novembre 1998, Benedetto Ceraulo all’ergastolo, Orazio Cicala a 29 anni, Ivano Savioni a 26 anni, Pina a 25 anni. Lady Gucci a 29 anni di reclusione.

Sarà la Corte d’Assise ad emettere il verdetto finale. Il 17 marzo del 2000 le condanne saranno accorciate: l’ergastolo di Ceraulo sarà commutato a 28 anni. La pena di Savioni e Cicala a 26 e 20 anni. quella di Pina a 19 anni e 6 mesi. Per la regina dalla doppia G solo 26 anni. La Corte di Cassazione approverà la sentenza.

La Reggiani, nel 2000 tenterà il suicidio in carcere. Nonostante i primi anni di sconforto, come racconterà poi in un’intervista a Discovery Plus, al San Vittore è stata trattata con riguardo. Per lei, dal mondo esterno arrivano medici ed estetiste. Anche dietro le sbarre è trattata con lusso e le viene data persino la possibilità di tenere un animale: un furetto.

Durante l’ora d’aria, esce indossando la sua pelliccia e si stende al Sole.

Paola Franchi, nel suo libro “L’amore spezzato”, parla dei suoi sentimenti per Maurizio, e della loro storia d’amore, interrotta sul nascere dalla furia omicida della Reggiani. Mesi, passati con il terrore delle telefonate e delle lettere minatorie della donna. il suo era un delitto annunciato.

Nei nastri che mandava per posta, diceva che lo voleva morto. Paola l’aveva supplicato di iniziare a girare con le guardie del corpo, ma così non fece. A Maurizio piaceva vedere il buono nelle persone, persino in quella mantide della Reggiani.

Dal 2014 quest’ultima è libera, e lascia il “Victor Residence” – così chiamava il San Vittore – per compiere due anni di lavori socialmente utili, che non le si addicono. Al giudice, che le aveva proposto di uscire prima dal carcere in cambio di qualche anno in più di faccende, risponde di no. Che Lady Gucci non fa niente per gli altri.

Oggi, passa le giornate nella casa ereditata dalla madre, a osservare da lontano il mondo sfarzoso della moda, senza potervi più mettere piede. Sogna di tornare a lavorare proprio per la Milano bene. A tutti continuerà a ripetere che il suo grande errore è stato quello di fidarsi di un gruppo di persone con capacità pari a quelle della scalcinata Banda Bassotti, quella di Paperopoli.

Oggi Gucci vanta un fatturato di 9 miliardi 730 milioni di euro. Tom Ford, designer texano scelto dal rampollo Gucci, riesce a far tornare in auge il marchio, dando vita alla sua personale corrente stilistica: quella del Porno Chic. Questo con l’aiuto di Dawn Mello. Nel 1999 la Investcorp vende le sue azioni a LVMH, LVMH Moët Hennessy Louis Vuitton SE, che se le contende con Francois Pinault. Oggi è parte della scuderia di Kering.

Il signor Onorato muore per colpa di un infarto nel novembre 2020. Passeranno 25 anni prima che gli venga dato il giusto indennizzo per i danni subiti dalla vicenda.

Termina così il nostro racconto. Quello di un nome: Maurizio Gucci, così musicale. Una persona la cui vita sensazionale venne stroncata troppo presto. La cui esistenza era così piena da riempire le pagine di giornale.

Un nome tanto importante, segnato però da un peccato originale, che lo porterà alla precipitosa rovina.

La storia di una donna che arriva a compiere il gesto estremo per non perdere lo status di regina dalla doppia G per colpa di un’altra. Che viene divorata dall’invidia, di non poter vivere più in quel mondo che tanto aveva desiderato e in cui era rimasta intrappolata. Quella di Patrizia Reggiani, un’istrionica narcisista segnata dalla grande incapacità di sopportare il rifiuto.

Una storia di rancore, gelosia, invidia e odio. Si conclude con un dubbio, che tartassa le nostre coscienze: è etico che, la mente di un tale gesto, sia punita meno, del braccio? Forse, non lo sapremo mai.

Scritto da Gaia Vetrano

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Eredità Gucci, Patrizia Reggiani «inferma di mente» e raggirata: sottratti 91 immobili. I primi due patteggiamenti. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 06 giugno 2023

Misure per la presunta prestanome Mara Angela Stimoli. Tra gli indagati anche Loredana Canò, che con Reggiani aveva diviso la cella di San Vittore 

Un «progetto di approfittamento e dirottamento» ai danni di Patrizia Reggiani e del suo ingente patrimonio come 91 appartamenti, abusando dell’infermità psichica della donna, oggi 74enne. Questa la sintesi della prima sentenza nell’inchiesta sull’eredità della vedova di Maurizio Gucci che lei, scontando 17 anni nel carcere di San Vittore, aveva fatto assassinare nel marzo del 1995. Il gip Guido Salvini ha ratificato i patteggiamenti di 2 anni (pena sospesa) per l’avvocato Daniele Pizzi, ex amministratore di sostegno di Reggiani, e a 10 mesi e 20 giorni, parimenti con pena sospesa, per Mara Angela Stimoli, presunta prestanome. 

Le indagini erano nate su impulso delle figlie della donna, insistendo sullo stato di influenzabilità della madre da parte di terzi e rievocando le origini e gli sviluppi proprio di quell’omicidio, con il ruolo della sedicente maga e confidente Pina Auriemma. In attesa delle contromosse degli imputati, rimane al momento il dato delle plurime consulenze che hanno accertato l’incapacità psichica della vedova, soprattutto nella facilità con la quale viene manipolata. Fra gli indagati anche Loredana Canò, che con Reggiani aveva diviso la cella: Canò avrebbe portato la donna a prosciugare il suo pur esoso patrimonio finanziario. Le carte dell’inchiesta sono un elenco di somme via via sottratte, compresa la stipula di un’assicurazione da quasi 7 milioni di denaro destinata non certo a Patrizia Reggiani bensì a chi le stava intorno.

Patrizia Gucci: «Da 25 anni mi confondono con l'assassina di mio cugino. House of Gucci? Sembra Il Padrino».  Edoardo Semmola su Il Corriere della Sera il 22 gennaio 2023.

La quarta generazione del brand della moda, che non ama la moda. «Ridley Scott ha modificato gli eventi storici senza rispettare la famiglia. Patrizia era ossessionata da Maurizio, mi telefonava per sapere dove fosse»

L’incubo della quasi omonimia con l’assassina Patrizia Reggiani Gucci «non è mai finito». Anche se sono passati più di 25 anni. Basta aprire Google e cercare lei, la «vera» Patrizia Gucci, quarta generazione della famiglia fiorentina simbolo di moda e lusso, e appare sempre l’altra, quella che grazie al kolossal di Ridley Scott tutto il mondo immagina con le fattezze di Lady Gaga. «Ho chiesto a un avvocato come potermi liberare da questa maledizione — sospira — ma non c’è verso. Da quel giorno io e lei non ci siamo più sentite ma le sue figlie per 16 anni hanno pensato che fosse innocente...». E dire che «quando ero piccola il cognome Gucci non lo sentivo ingombrante o importante. Non era ancora un brand, solo un cognome. Fino ai 17 anni almeno». Patrizia è la figlia di Paolo Gucci, pronipote del fondatore dell’azienda, Guccio Gucci: «Ho passato l’infanzia nella casa del bisnonno in via La Farina: ero una bambina tranquilla e l’unico elemento “ingombrante” che vivevo erano i giochi con mia sorella più grande, Elisabetta, dove mi toccavano sempre i ruoli subalterni: lei l’insegnante e io l’alunna, lei il dottore e io la paziente. Ma mio padre diceva che non dovevo preoccuparmi perché la vera personalità di una ragazza si vede dopo i 30». 

Ha avuto un’infanzia serena, dunque? 

«Tra mio padre collezionista di piccioni viaggiatori che tenevamo in giardino, la tartaruga, il mio pulcino Pio Pio, ero circondata dagli animali. E dalle tate: una della famiglia di mamma, Pina, che ha cresciuto la nostra famiglia per 50 anni. E poi Emma. Ho vissuto lì fino ai 10 anni, poi ci fu l’Alluvione». 

Casa vostra venne allagata? 

«L’acqua entrò nella stanza del biliardo fino all’ultimo scalino del piano di sopra, dove c’erano il salotto e le camere. Di notte sentivo terrorizzata la gente che urlava dai tetti e le caldaie a gasolio che galleggiavano e scoppiavano, con quell’odore terribile che non scorderò mai. Allora ci siamo trasferiti al Poggio Imperiale». 

Una poggiolina, come si addice alle ragazze di buona famiglia... 

«È lì che ho sviluppato la passione per l’archeologia, per questo mi iscrissi a Siena dove insegnava il grande Andrea Carandini. Eravamo una famiglia di basso profilo, a differenza di quanto la gente possa pensare, a Siena infatti ci andavo in pullman e la mia prima macchina è stata una 126 usata. Mio padre amava le cose semplici, non il lusso e anch’io gli scavi per quattro anni li ho fatti con le mia mani, pala e piccone, a Villa Sette Finestre a Orbetello. È stato il periodo più bello della mia vita. Credo sia per questo che non sono diventata una persona superficiale, ho mantenuto sempre allenata la curiosità». 

Lei ha un carattere fumino, battagliero. Non certo quell’aura di flemma e pazienza che si addice a un archeologo. 

«Timida non sono mai stata ma era mio padre quello fumino, e negli anni in cui ho lavoravo nell’azienda di famiglia spesso mi capitava di dovermi far sentire e protestare con veemenza. Cosa che con l’archeologia non succedeva». 

Quando ha deciso di entrare in Gucci? 

«Mio padre viveva in America e un giorno mi chiese quanti esami avevo fatto, quanti scavi… Disse: guarda bellina che se non studi devi venire a lavorare. Mi mise davanti a una scelta, da una parte pile enormi di libri e dall’altra l’azienda di famiglia. Ci sono stata per 12 anni».

Quali mansioni le affidarono? 

«La politica della famiglia era di far iniziare tutti da zero: mio padre a 18 anni pulendo le vetrine del negozio di Roma, io disegnando tessuti, poi al reparto di oggettistica in mezzo agli orologi dove il genio creativo di papà creò un orologio tondo di malachite bellissimo. Poi mi misero a fare l’archivio storico, il mio progetto più bello: iniziai a collezionare borse di varie attrici-clienti come la Loren, la Lollobrigida, Ava Gardner, ma anche Frank Sinatra, e le foto del nonno Aldo con Kim Novak e di zio Giorgio con Audrey Hepburn. Ci ho lavorato per quasi tre anni cercando documenti indietro nel tempo, fino al 1923, l’anno di nascita del primo negozio Gucci che era una valigeria e articoli da viaggio. Per me è questo l’anno del centenario, ma in azienda hanno voluto festeggiare due anni fa». 

È quando ha iniziato a lavorarci lei che il nome Gucci è diventato un brand internazionale.

 «Per questo da bambina non ne sentivo il peso, non c’era nessun peso da sentire. Il mio maggiore contributo per l’azienda è stato viaggiare per il mondo come rappresentante nei franchise. Ero “la diplomatica” della famiglia». 

Fino all’inizio degli anni Novanta. 

«Ho lasciato nel 1991 e mi sono messa a studiare filosofie orientali, incuriosita dai perché buddhisti sull’esistenza, e iniziai a scrivere quello che divenne il primo di cinque libri: Il piccolo libro della semplicità (Mondadori). Volevo tenere insieme le cose essenziali della vita, dopo una serie di esperienze di famiglia molto complesse. Lo feci un po’ per gioco ma vendette tanto, arrivò in classifica e allora ci presi gusto. In quel periodo ho anche iniziato a dipingere seriamente fino ad arrivare a fare una mostra in Bahrein nel 1998 dallo sceicco Rashid Bin Al Kalifa anche lui pittore. La mia passione sono i quadri a tema natura, amo particolarmente dipingere l’upupa e per l’appunto lo sceicco aveva un’upupa in giardino e lo volle comprare». 

Il suo libro di maggior successo è «Single». Perché ha sentito l’esigenza di scrivere un’apologia della vita da soli? 

«Lo scrissi come risposta, diciamo critica, anche un po’ d’istinto, a Il diario di Bridget Jones. Quando vidi quel film mi fece parecchio arrabbiare, ecco. E Sperling & Kupfer lo ha tradotto in otto lingue. Volevo raccontare tutte le esperienze felici che una donna sola può avere, come andare al ristorante in tempi in cui se ti presentavi da sola non ti volevano dare nemmeno il tavolo, e mi venne in mente di farlo in chiave autobiografica per spiegare come solo da single puoi imparare a conoscere te stessa». 

Non le piaceva la vita matrimoniale? 

«Mi sono sposata molto giovane con un uomo, Stefano, molto possessivo. E poi era pure di sinistra e in famiglia non la vedevano molto di buon occhio questa cosa. Man a mano che diventavo sempre più indipendente, nei 10 anni che abbiamo passato insieme, ho maturato convinzioni diverse. Ma la mia storia d’amore più lunga e importante è stata dopo il matrimonio, con un signore che anche lui veniva da una famiglia complicata come la mia. Siamo stati insieme 20 anni». 

Famiglia complicata? 

«Patriarcale, conservatrice, un po’ anaffettiva. Non ci si abbracciava mai. Io ero quella controcorrente: aperta di mente, passionale, e ci credo ancora nell’amore, anche se ora un po’ meno». 

A proposito di famiglia, l’ultimo suo libro è dedicato proprio alla storia dei Gucci. 

«La vera storia di una dinastia di successo (Piemme) sì, per mettere alcune cose in chiaro dopo tanti racconti falsi e ossessivi poi sfociati in quel brutto film che ha fatto Ridley Scott. Ci ho messo tre anni per finirlo e raccogliere molte testimonianze tra membri della famiglia ed ex dipendenti Gucci. E ho dovuto fare delle aggiunte con una ristampa dopo l’uscita del film». 

Quando Ridley Scott ha realizzato «House of Gucci», lei non l’ha presa proprio bene. Detto in senso eufemistico.

«Non ne posso più di questi stereotipi sugli italiani di Hollywood. Quando Al Pacino abbraccia Adam Driver e gli dice “Maurizio mio sei il nostro futuro”, sembra un discorso da mafiosi. E descrive mio padre (Jared Leto nel film) in un modo che non meritava proprio. E poi gira tutto intorno all’omicidio, una storia che con noi non c’entra nulla. Ridley Scott ha modificato gli eventi storici per fare un film alla Il Padrino, senza rispettare la famiglia, questa è la cosa più orribile. E poi la confusione dei due nomi, il mio e quello di Patrizia Reggiani (in Gucci) è stato un incubo senza fine, con tutti i media del mondo che parlavano “dell’assassina Patrizia Gucci” e mi confondevano con lei. Patrizia era ossessionata da Maurizio, quando lavoravo in azienda spesso mi telefonava per sapere dove fosse e lui mi diceva che lei lo ricattava e non gli voleva far vedere le figlie».

 Qual è il suo rapporto con la moda? 

«La moda per me è un concetto sociale di poco valore, è quella cosa che ti fa stare nel gruppo, che ci fa sentire tutti uguali. Non amo portare le griffe e compro le magliette al mercato. Penso che la personalità di una donna nel vestire non dipenda dal nome che ha scritto sul vestito ma dall’idea di sé che vuol creare». 

Detto da una Gucci, e da una designer… 

«Amo esprimermi in un altro modo. Quando lavoravo come designer in un’azienda svedese nel 2014, mi misero in contatto con l’associazione Non Violence Art Proejct creata da Yoko Ono dopo la morte di John Lennon, e mi hanno chiesto di reinterpretare il loro logo, una pistola annodata. Ci ho disegnato una colomba col ramoscello di ulivo e la farfalla simbolo di libertà e pace».

Da lastampa.it Il 14 luglio 2023.

È stata condannata al tribunale di Pavia a 16 anni Barbara Pasetti, a processo con rito abbreviato per l'omicidio volontario di Luigi Criscuolo, conosciuto a Pavia come Gigi Bici, per l'occultamento del cadavere, detenzione illegale di arma e anche tentata estorsione. Il giudice ha riconosciuto una provvisionale di risarcimento di centomila euro per ciascuna delle cinque parti civili. I pubblici ministeri Valentina Terrile e Andrea Zanoncelli avevano chiesto per la fisioterapista una condanna a 14 anni. 

Pasetti ha parlato in aula. In lacrime ha chiesto scusa: «Chiedo scusa ai familiari, ho agito perché intimorita da Gigi Bici, avevo paura per mio figlio. Mio figlio è la mia vita ho fatto tutto per difenderlo. So che mi sono rovinata la vita ma l’ho fatto per mio figlio». Parole rispedite alla mittente: «Le scuse di Barbara Pasetti? Non me ne faccio nulla e non mi interessano. L'avrei detto anche se l'avessero condannata all'ergastolo»: è stata questa la reazione di Katia, seconda figlia di Luigi Criscuolo. «L'unica cosa che conta - ha aggiunto in lacrime all'uscita dal tribunale - è che mio padre non me le restituirà nessuno. Senza di lui la mia vita è precipitata. Ho perso 30 chili, non riesco più ad avere un lavoro».

A poco sono valsi i tentativi degli avvocati Graziano e Yuri Lissandrin, legali di parte civile, di consolarla spiegandole che la condanna a 16 anni, in un processo celebrato con rito abbreviato, era il massimo che si poteva ottenere. Quando Barbara Pasetti è uscita dall'aula coprendosi il volto, Katia Criscuolo le ha detto: «Tanto prima o poi ci rivedremo».

(...)

(ANSA il 27 gennaio 2023) La Procura di Pavia ha chiuso le indagini per il delitto di Luigi Criscuolo, 60 anni, detto Gigi Bici. Accusata dell'omicidio è Barbara Pasetti, fisioterapista 40enne, in carcere da oltre un anno. In un campo vicino alla sua villa, nel pomeriggio del 20 dicembre 2021, venne trovato il cadavere di Criscuolo, che era sparito dall'8 novembre. Pasetti è accusata di omicidio volontario, occultamento di cadavere e tentata estorsione aggravata.

Nella comunicazione della chiusura delle indagini, firmata dal procuratore Fabio Napoleone, si ricorda che il 5 ottobre scorso, in un interrogatorio chiesto da Pasetti, "l'indagata ha ammesso gli addebiti". Dopo la confessione, le indagini sono proseguite per far luce sulle "modalità di esecuzione del delitto", sulle "ragioni che l'avevano portata ad avere rapporti personali con Luigi Criscuolo" e anche sui comportamenti tenuti dallo stesso Gigi Bici verso la donna, in particolare su "inattese richieste di denaro" che l'uomo avrebbe avanzato. Nei confronti di Barbara Pasetti è caduta l'aggravante, inizialmente contestata, della premeditazione: "I fatti - spiega la Procura - si sono svolti in modo repentino e sostanzialmente occasionale".

Omicidio di Gigi Bici, la confessione di Barbara Pasetti: «Volevo solo spaventarlo, dalla pistola è partito un colpo». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2023.

I verbali della donna, rea confessa dell'omicidio di Luigi Criscuolo: «Mi chiedeva soldi, ha detto di essere tossicodipendente. Avevo paura per mio figlio»

«Diventava molto aggressivo, mi diceva che ero mamma di un bambino e ci minacciava... Ero spaventata, ero presa dal panico... Avevo la pistola in casa, è partito un solo colpo...».

A domanda, Barbara Pasetti, rea confessa dell’omicidio di Luigi Criscuolo alias «Gigi Bici» e per la quale mercoledì la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio, risponde. Dopo una premessa: «Sono qui per darvi la versione veritiera dei fatti. Voglio farlo con la massima sincerità».

Il Corriere ha acquisito i verbali delle ammissioni della 41enne che l’8 novembre 2021, nel cortile della sua casa in località Cura Carpignano, nelle campagne a Est di Pavia, aveva assassinato il commerciante di 60 anni il quale, incaricato di ammazzarne l’ex marito, aveva rinunciato all’incarico.

Stanza del carcere di Vigevano, le domande dei pm Valentina Terrile e Andrea Zanoncelli, e il racconto della donna, mamma di un piccolo di dieci anni.

«Io e Criscuolo ci sentivamo da tempo perché ero una donna sottoposta a una pressione molto forte... Il figlio era sotto la mia completa responsabilità, la casa era grande, mio marito mi aveva posto in un difficile stato fisico e mentale... Ero debolissima. Mi sono dovuta rivolgere a Criscuolo per spaventare il mio ex marito... Criscuolo mi disse che aveva questo night club, era un buttafuori... Mi fece vedere un tirapugni... Mi chiese se la casa era tutta mia e propose un’arma per difendermi. Alla fine, per 200 euro mi diede una pistola. Si tratta della pistola che avete trovato». Ovvero l’arma calibro 7.65 da cui era partito il proiettile letale per «Gigi Bici», colpito alla tempia. 

«Criscuolo mi ha detto che andava a parlare con il mio ex marito e che per parlargli voleva dei soldi: 1.500 euro al mese... Sono andata via a luglio e agosto, a settembre è ricominciata questa storia, Criscuolo ha ripreso a chiedere soldi. Ha detto che era tossicodipendente e aveva bisogno di denaro... Subito dopo le vacanze è diventato più pressante, mi ripeteva che era un pregiudicato e che non dovevo dargli nessun tipo di problema... Per tutto il mese di ottobre non si è fatto sentire ma a fine ottobre è diventato assillante...».

L’8 novembre è una data sempre più vicina. «Quella mattina mi ha mandato dei messaggi sul cellulare, dicendomi che arrivava subito. Infatti è arrivato ed è entrato in cortile». Il cortile è quello della vasta abitazione di Barbara Pasetti che, grazie a questa confessione e alla caduta dell’accusa della premeditazione, potrebbe accedere al rito abbreviato ed evitare l’ergastolo. «Lui era seduto in macchina e parlava al cellulare... Nell’impugnare la pistola è partito un colpo. In quel momento mi sono sentita male... Volevo minacciarlo, non ucciderlo... Avevo paura per mio figlio, per lui darei la vita... Presa dal panico, sono rientrata in casa, non sapevo cosa fare, non avevo nessuno ma dovevo reagire perché il danno era fatto. Avevo capito subito che era morto... Ho legato il corpo di Criscuolo per i piedi con una corda e l’ho spostato trascinandolo... Ho pulito con l’acqua il sangue. La pistola l’ho messa nel sottoscala».

Una settimana prima del Natale 2021, il rinvenimento del cadavere. Nei terreni incolti che confinano con l’abitazione della stessa Pasetti. Che intanto, per depistare la polizia, con telefonate e lettere alle figlie di «Gigi Bici» aveva inscenato l’azione di una fantomatica banda russa che aveva sequestrato Criscuolo e pretendeva un riscatto. «La cosa della gente dell’Est era inventata... L’ho ideata per cercare di salvare me e mio figlio... Non volevo uccidere nessuno, se tornassi indietro non lo rifarei mai. Non so che cosa farò adesso nella mia vita, non uscirò mai di qui... Vorrei stare con mio figlio e con mia madre, che ha ancora poco da vivere. Vorrei dire alla famiglia di Criscuolo che non volevo ucciderlo, non l’ho fatto apposta, mi assumo le mie responsabilità ma non sono totalmente le mie responsabilità: un giorno ho accompagnato il bambino a scuola e ho trovato Criscuolo vicino alla mia macchina. Mi ha detto: “Voi due non avete scampo”». 

Gigi Bici, Barbara Pasetti ricostruisce l'omicidio: un colpo di pistola alla testa mentre era nella sua auto con il finestrino abbassato.  Davide Maniaci su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2023.

La rea confessa ha ricostruito l’omicidio di Luigi Criscuolo. Era l’8 novembre 2021. Il cadavere era stato trovato più di un mese dopo, il 20 dicembre, proprio nei pressi dell’abitazione della donna

Lo ha ucciso con un colpo di pistola alla testa, nel cortile di casa, mentre l’uomo era seduto nella sua Volkswagen e aveva il finestrino abbassato. Così Barbara Pasetti, rea confessa, ha ricostruito l’omicidio di Luigi Criscuolo, per tutti «Gigi Bici» dal nome del suo negozio di Pavia dove riparava e vendeva biciclette. Era l’8 novembre 2021. Il cadavere era stato trovato più di un mese dopo, il 20 dicembre, proprio nei pressi dell’abitazione della donna. I due si frequentavano. La Procura della Repubblica di Pavia ha escluso però l’aggravante della premeditazione, ipotizzata in un primo tempo. Quando si sono incontrati, quindi, lei non aveva già l’intenzione di ammazzarlo. La pistola usata, una calibro 7,65 era proprio di Criscuolo, e doveva servire per «regolare i conti» tra Barbara Pasetti e l’ex marito, Gian Andrea Toffano. Criscuolo si era poi tirato indietro: perché rischiare lunghi anni di galera macchiandosi di un omicidio? Dal rifiuto, la lite fatale. La donna, 40 anni, fisioterapista di Cura Carpignano (Pavia) si trova rinchiusa nel carcere di Vigevano. 

Ha spiegato agli inquirenti come si sia trattato di un «delitto d’impeto», di un episodio repentino e imprevisto. La confessione di Pasetti, detenuta con le accuse di omicidio, occultamento di cadavere, tentata estorsione e detenzione illegale di arma da fuoco, risale al 5 ottobre scorso. Vista la chiusura delle indagini, notificata ieri all’avvocato difensore della donna, Irene Valentina Anna Anrò, la Procura ha deciso di renderla pubblica. Sempre ad ottobre, dopo la confessione, gli agenti della squadra mobile di Pavia erano tornati a casa Pasetti e hanno sequestrato una bicicletta, una corda e una lettera per compiere indagini approfondite di natura dattiloscopica e genetico-molecolare. Nella corda c’erano tracce di sangue: sarebbe servita per trasportare il cadavere di Gigi Bici (60 anni all’epoca dei fatti) fino al retro della casa, un’ampia villa di campagna, dove è stato poi trovato coperto dal fogliame. La bicicletta è stata certamente usata da Criscuolo «per stimarne il valore economico». 

La lettera, come chiarisce il quotidiano La Provincia Pavese, «è un riconoscimento di debito messo per iscritto dall’ex marito della donna a favore della Pasetti, che aveva prestato quel denaro. Non è da escludere che l’indagata lo avesse fatto vedere a Criscuolo, ingaggiato da lei per “punire” l’ex marito, e magari utilizzato come una sorta di garanzia rispetto alle richieste di denaro da parte di Gigi Bici». Subito dopo la sparizione dell’uomo i familiari avevano iniziato a cercarlo. Pasetti, per depistare, si era fatta portavoce di un gruppo di inesistenti soggetti dell’est Europa e minacciato le due figlie e la compagna di Criscuolo di ucciderlo «se non avessero pagato un riscatto di 390 mila euro, poi ridotto a 350 mila e con una possibile riduzione a 300 mila se i familiari si fossero prestati a terminare i lavori iniziati da Criscuolo». «Il prolungamento delle indagini – ha spiegato il procuratore Fabio Napoleone – è stato necessario al fine di ricevere conferma di taluni dettagli forniti dalla persona sottoposta alle indagini e relativi alle specifiche modalità di esecuzione del delitto, alle ragioni che l’avevano portata ad avere rapporti personali con Criscuolo e anche alle condotte da quest’ultimo perpetrate nei confronti della stessa Barbara Pasetti e che hanno poi condotto al tragico epilogo».

Barbara Pasetti confessa l’omicidio di Gigi Bici. La donna, accusata di aver ucciso Luigi Criscuolo, ha confessato il crimine. L’uomo era scomparso dalla sua casa la mattina dell’8 novembre del 2021, il cadavere è stato rinvenuto il 20 dicembre. Valentina Dardari il 28 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Barbara Pasetti ha confessato di aver ucciso Luigi Criscuolo, 60 anni, meglio conosciuto a Pavia come ‘Gigi Bici’, per la sua popolare rivendita di biciclette. La donna, fisioterapista 40enne in carcere da oltre un anno, ha ammesso di averlo ammazzato. Questo è quanto emerso dall'avviso di chiusura dell'inchiesta che la Procura le ha notificato in queste ore nel carcere di Vigevano. Come si legge in una nota della Procura, "l'ultima fase delle indagini è stata volta a cercare ulteriori elementi di riscontro dell'impianto accusatorio, che ha trovato integrale conferma nelle dichiarazioni rese da Pasetti nell'interrogatorio alla quale lei stessa ha richiesto di sottoporsi il 5 ottobre 2022 nell'alveo del quale ha ammesso gli addebiti".

Di cosa è accusata la donna

La Pasetti è accusata di omicidio volontario, occultamento di cadavere e tentata estorsione aggravata. Nella comunicazione della chiusura delle indagini, firmata dal procuratore Fabio Napoleone, viene ricordato che il 5 ottobre scorso, in un interrogatorio chiesto dalla Pasetti, "l'indagata ha ammesso gli addebiti". Dopo la confessione, le indagini erano proseguite per fare luce sulle "modalità di esecuzione del delitto", sulle "ragioni che l'avevano portata ad avere rapporti personali con Luigi Criscuolo" e anche sui comportamenti tenuti dallo stesso Gigi Bici verso la donna, in particolare su "inattese richieste di denaro" che l'uomo avrebbe avanzato.

La lettera, il cadavere e la foto: giallo sulla morte di Gigi Bici

Nei confronti di Barbara Pasetti è caduta l'aggravante, che era stata inizialmente contestata, della premeditazione. Come spiega la Procura, gli "ultimi accertamenti consentono di ritenere che l'aggravante della premeditazione originariamente contestata non fosse in realtà sussistente" e che "i fatti si sono svolti in modo repentino e sostanzialmente occasionale". Nell'interrogatorio dell'ottobre scorso, la donna ha infatti raccontato delle inattese richieste di soldi che le aveva fatto il commerciante, delle ragioni che l'avevano portata ad avere rapporti personali con l'uomo e anche alle condotte da quest'ultimo perpetrate nei suoi confronti che hanno poi condotto al tragico epilogo.

Cosa era successo

Ricordiamo che Criscuolo era scomparso dalla sua abitazione la mattina dell'8 novembre 2021 e quello stesso giorno, secondo gli inquirenti, l’indagata l'avrebbe ucciso con la pistola calibro 7,65, che lei stessa gli aveva consegnato per uccidere il suo ex marito. Gigi Bici avrebbe infatti dovuto aggredire Gian Andrea Toffano, l’ex coniuge della Pasetti. L'8 novembre Criscuolo si è però presentato da lei per restituire l'arma in quanto aveva deciso di non voler più prendere parte al piano criminale. A quel punto, secondo la Procura, Barbara Pasetti ha sottratto la pistola al 60enne e, indossando un paio di guanti, gli ha sparato un colpo alla tempia uccidendolo. Gigi Bici era stato dichiarato scomparso da Carpignano nei pressi di un ex convento di Calignano, sempre nella provincia Pavese, il 20 dicembre del 2021. Nel giardino della villa della fisioterapista erano state rinvenute tracce ematiche.

Andrea Galli per il “Corriere della Sera” il 25 giugno 2022.

«Voi date 350 mila sennò noi iniziare a prendere compagno Katia, sorella Stefania, figli piccolini e uccidere, e fare piccoli pezzi per cibo per maiali». Alle 11 del 13 dicembre 2021, una delle stampanti di una copisteria pavese produsse questo testo destinato alla spedizione alle figlie di Luigi Criscuolo alias «Gigi Bici», in un italiano che voleva evocare una «firma» dell'Est Europa: le minacce erano volte a ottenere un riscatto per il sequestro di un uomo in realtà assassinato da oltre un mese, l'8 novembre.

 Ai poliziotti, l'impiegato della copisteria descrisse la cliente, che gli «aveva girato il documento per email». La stampante aveva conservato l'indirizzo. Eccolo: pasetti.barbaramariaatlibero.it. Quella donna era proprio Barbara Maria Pasetti, 44 anni, presunta killer di Criscuolo, meccanico e commerciante di biciclette.

La Procura, le cui «carte» sulle meticolose indagini della squadra Mobile il Corriere ora racconta insieme all'ordinanza del gip, ha «chiuso» il caso. Pasetti dovrà rispondere dell'omicidio di «Gigi Bici». La notifica è avvenuta nel carcere di Vigevano: era già in cella per la tentata estorsione relativa alla simulazione del rapimento per intascare soldi.

Soldi che nonostante la provenienza da una ricca famiglia del settore caseario, Pasetti, sedicente fisioterapista, aveva sempre meno. E sarebbe stato il progetto di accedere, secondo un percorso per nulla scontato, a eredità immobiliari, l'innesco del piano di far assassinare l'ex marito. Sparito lui, Pasetti avrebbe acquisito i suoi futuri appartamenti.

Aveva individuato nel 60enne Criscuolo, con cui aveva un legame, il sicario perfetto. «Gigi Bici» forse aveva accettato l'incarico intascando un anticipo, ma ci aveva ripensato e quell'8 novembre aveva raggiunto il vecchio convento divenuto abitazione della donna, a Calignano, nelle campagne pavesi, a bordo della sua Polo. Entrato nel cortile, aveva abbassato il finestrino e comunicato la decisione, consegnando a Pasetti la pistola che aveva procurato su suo ordine. Afferrata l'arma, Pasetti l'aveva rivolta contro «Gigi Bici» uccidendolo con un colpo alla tempia.

Alle 10.44 una telecamera pubblica in paese aveva ripreso il passaggio della Polo. A bordo, un'unica persona: una guidatrice. Il finestrino lato passeggero era infranto, raggiunto dal proiettile che aveva freddato «Gigi Bici». Schegge del vetro sono state rinvenute all'interno dell'ex convento.

Il Labrador e l'arma Pasetti aveva abbandonato la macchina in un bosco: «Sul volante c'erano le sue impronte». Tornata a piedi, aveva nascosto il corpo nel perimetro della magione, all'aperto, «sotto un cumulo di fusti e rami di lauroceraso che provenivano dalla siepe che circonda una parte della proprietà».

In seguito alla scoperta del cadavere fuori dall'ex convento, il 20 novembre, la polizia scientifica ha isolato macchie ematiche su fusti e rami: «Sangue di Criscuolo». Nella perquisizione del primo febbraio, il Labrador «Cocco» dell'unità cinofila ha puntato con insistenza un vano. Ospitava un revolver: «Compatibile con l'omicidio».

Dall'arresto a gennaio, compreso il nuovo interrogatorio di ieri, Pasetti non ha chiarito gli addebiti. Ha ammesso di aver inviato le minacce alla famiglia Criscuolo «obbligata da una banda straniera» (per il pm inesistente). Tre giorni prima della scoperta del cadavere, che mentendo aveva attribuito al figlioletto mentre giocava, Pasetti aveva telefonato all'ex marito (licenziato dall'azienda di vendita di auto per aver rubato 30 mila euro ai clienti) urlando: «Devo andare all'inferno, ho fatto ammazzare un uomo. Sai che c me ne frega di te e degli altri. Non ho scrupoli io». 

Una domanda: la scelta di posizionare all'esterno della magione il corpo di Criscuolo? Era il 20 dicembre, ricordiamolo. Pasetti era attesa a casa del papà per le feste natalizie. Non poteva più custodire il corpo. O forse vegliarlo. 

Federica Zaniboni per il Messaggero il 23 giugno 2022.

Era tutto deciso: Luigi Criscuolo, conosciuto a Pavia come Gigi Bici, avrebbe aiutato la fisioterapista Barbara Pasetti ad ammazzare il suo ex marito. Gli era stato promesso un compenso e aveva già con sé la pistola di cui si sarebbe servito per commettere il delitto. Quando ha scelto di tirarsi indietro, però, con quella stessa arma è stato ucciso lui. La morte del commerciante di biciclette, quindi, sarebbe stata una sorta di punizione, un'agghiacciante vendetta per cui la donna ieri è stata arrestata una seconda volta. Già in carcere per tentata estorsione, la 40enne adesso è accusata anche di omicidio aggravato.

GLI ACCORDI Secondo la ricostruzione degli investigatori, arrivata dopo settimane di indagini e accertamenti, il 60enne sarebbe morto lo scorso 8 novembre, lo stesso giorno in cui era stato dichiarato scomparso. 

Mesi prima aveva preso accordi con la fisioterapista per aiutarla a fare del male all'ex marito, lei gli aveva prestato una pistola e gli era già stato consegnato anche un anticipo della cifra pattuita. Quel lunedì, però, Gigi Bici si è presentato sotto casa di lei per restituirle il revolver calibro 7.65, dicendole che lui non ci stava più. Non avrebbe ammazzato Gian Andrea Toffano, non sarebbe diventato un assassino.

I due si trovavano nel cortile della villa di Calignano, l'uomo era a bordo della sua auto: ha tirato giù il finestrino e le ha allungato l'arma. 

A quel punto Pasetti, indossando un paio di guanti, avrebbe preso la pistola e, senza esitazioni, avrebbe sparato quel colpo a bruciapelo contro la tempia sinistra dell'uomo. Le schegge del vetro del finestrino, che si è frantumato in seguito allo sparo, sono state poi rinvenute in una grata nel cortile dell'abitazione. 

Ma la 40enne non si sarebbe premurata soltanto di spazzare via i vetri e di pulire il pavimento dal sangue: avrebbe anche nascosto il cadavere. Il corpo di Gigi Bici è stato rinvenuto lo scorso 20 dicembre, nel retro della villa, ricoperto di sterpaglie: a fare la macabra scoperta era stato il figlio di 8 anni della fisioterapista. Secondo l'accusa, dunque, sarebbe stata lei a spostarlo e occultarlo sotto alcuni arbusti che sono poi risultati provenire proprio dal suo giardino. Un altro indizio contro Pasetti sarebbe emerso dalla pistola, sulla quale erano state applicate due etichette con le istruzioni per la messa in sicurezza dell'arma: sugli adesivi c'era il suo materiale biologico.

Tracce della donna, inoltre, erano presenti anche nella Polo bianca della vittima, trovata abbandonata in una stradina di campagna.

Il proiettile che ha ucciso il 60enne, infine, corrisponderebbe all'arma trovata in casa della donna. Ma la messa in scena dell'indagata non finirebbe qui. Nel gennaio di quest' anno, infatti, è stata arrestata per tentata estorsione dopo che avrebbe cercato di ingannare i familiari del biciclettaio, chiedendo un finto riscatto. Questi ultimi, poco dopo la scomparsa dell'uomo, avevano iniziato a ricevere alcune lettere nelle quali veniva chiesto loro di pagare fino a 390mila euro per liberare Criscuolo da una presunta banda di estorsori dell'Est Europa. 

I DEPISTAGGI A rendere le indagini particolarmente lunghe e difficoltose, inoltre, sarebbero state proprio le false piste e i depistaggi della donna. Fin dall'inizio ha dichiarato di non avere mai conosciuto prima Gigi Bici e di avere scoperto chi fosse soltanto dopo le notizie sulla sua tragica morte. Non ci sono stati mai dubbi su un possibile ruolo della donna nel delitto, alimentati anche dalle sue continue contraddizioni. Secondo la procura di Pavia, «nessun elemento può far dubitare sul fatto che Criscuolo sia stato ucciso all'interno della proprietà di Pasetti, che il suo corpo sia stato nascosto dagli arbusti e che nessun terzo soggetto abbia preso parte a tali attività».

"Gigi Bici si rifiutò di uccidere il marito". Nei guai la fisioterapista. Laura Cataldo il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.

Svolta nel caso che ha visto vittima Luigi Criscuolo, l'uomo di 60 anni che era sparito per qualche tempo prima di essere trovato morto davanti al cancello di un'abitazione. "Quella donna aveva architettato tutto".

Era stato dichiarato scomparso da Carpignano di Pavia l'8 novembre, ed è stato rinvenuto privo di vita vicino a un ex convento di Calignano (Pavia) lo scorso 20 dicembre. A trovare il corpo di Luigi Criscuolo, detto "Gigi Bici" era stata una donna, Barbara Pasetti, 44 anni. Gli inquirenti avevano capito che qualcosa fosse stato nascosto già dal fatto che il cadavere non era stato visto fino a quel momento e il referto dell'autopsia riteneva che l'uomo fosse deceduto tempo prima. Per questo motivo la donna era finita sotto la lente d'ingrandimento degli inquirenti.

La droga, la pistola, "l'esecuzione": cosa è successo a Gigi Bici

I sospetti sulla fisioterapista

Figlia di un noto imprenditore caseario del Pavese, Pasetti sin da subito è stata l'unica a insospettire gli agenti, per diversi motivi. Primo tra tutti il fatto che il corpo dell'uomo si trovasse a pochi passi dalla sua villa. Inoltre la donna aveva attirato su di sé l'attenzione dei militari e dei media dichiarando di aver trovato nella sua buca delle lettere alcuni fogli scritti a mano. Si trattava di parole intimidatorie rivolte ai familiari di Criscuolo. Nelle poche righe erano stati descritti anche un orologio, un portafoglio nero, le foto della moglie e delle figlie sottratti alla vittima. Non solo, due telefonate anonime a loro rivolte avevano rivelato che dall'altro lato della cornetta ci fosse una donna che camuffava la voce.

Nonostante ciò il giallo si faceva sempre più fitto. Gli agenti non avevano materiale sufficiente per incriminare qualcuno. Finché non sono state trovate delle tracce di sangue nel giardino della fantomatica fisioterapista, la donna infatti non ha alcun titolo che dimostri che lo sia davvero.

Le prime accuse

Mentre la Scientifica procedeva con i rilievi, Barbara Pasetti veniva accusata per tentata estorsione ai danni dei familiari di Gigi Bici. È il 20 gennaio e secondo gli investigatori la donna avrebbe contribuito ad occultare la salma del 60enne, cercando di trarre profitto dal fatto che fosse nascosta vicino alla sua abitazione. In manette, la Pasetti continuava a negare di aver conosciuto Criscuolo.

Nel mesi successivi le indagini continuano, gli esami rivelano tutto quello che si è cercato di nascondere. Il materiale ematico, così come gli altri reperti rinvenuti nell'abitazione della 40enne nel corso dei sopralluoghi precedenti, vengono esaminati dai periti della procura. Tra gli altri elementi al vaglio degli inquirenti ci sono anche la pistola (una vecchia arma di piccolo calibro compatibile con la ferita alla tempia della vittima) trovata in casa della "fisioterapista" e una quantità non definita di polvere vetrosa rinvenuta sul proiettile.

La svolta del caso

Dopo aver analizzato le prove, il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Pavia accusa la Pasetti dell'omicidio del commerciante pavese. Ma cos'è successo davvero quell'8 novembre?

Secondo la procura quel giorno l'uomo sarebbe andato a casa della donna per restituirle la pistola, un revolver calibro 7.65, che gli aveva dato per uccidere il marito. Da giugno, infatti, i due erano rimasti in contatto per portare a termine il delitto dell'ex. La donna quindi doveva essere il mandante e Gigi Bici avrebbe dovuto essere l'esecutore dell'omicidio di Gian Andrea Toffano. Quel giorno, però, per ragioni ancora da accertare, l'uomo avrebbe cambiato idea facendo andare su di giri la donna che avrebbe sparato alcuni colpi uccidendo sul colpo il 60enne.

Le indagini inoltre rivelano che la donna si sarebbe occupata anche dell'occultamento del cadavere: lo avrebbe trascinato sul retro del cascinale e coperto di sterpaglie. Per nascondere le tracce avrebbe lavato il pavimento ed eliminato qualsiasi cosa rimandasse all'uomo. La pistola, invece, l’avrebbe nascosta in un vano scala di casa.

Per depistare le indagini Pasetti avrebbe poi scritto le lettere intimidatorie e alla fine avrebbe finto di trovare per caso il cadavere di Gigi. Secondo la Procura la donna avrebbe agito da sola, senza l'aiuto di nessuno.

Un piano quasi perfetto.

Gravissimi indizi riportano a lei. Omicidio Gigi Bici, la fisioterapista arrestata anche per omicidio: “Si era rifiutato di ‘sistemare’ l’ex marito”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Giugno 2022. 

Svolta per le indagini sulla morte di Luigi Criscuolo, 60 anni, conosciuto da tutti a Pavia come Gigi Bici. Barbara Pasetti, 40 anni, la fisioterapista della frazione Calignano di Cura Carpignano (Pavia), già in carcere per tentata estorsione ai danni dei familiari della vittima, è ora accusata anche di omicidio del commerciante pavese. Lo ha stabilito il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Pavia. Sulla donna pesano gravissimi indizi di commissione del reato. Secondo la ricostruzione delle indagini della Procura, sarebbe stata lei ad uccidere Luigi Criscuolo con un colpo alla tempia, proprio l’8 novembre, quando l’uomo era andato da lei per restituirle la pistola che gli avrebbe dato con le istruzioni per “sistemare” il suo ex marito Gian Andrea Toffano. Gigi si era tirato indietro e non voleva portare a termine il compito che gli era stato assegnato. Per questo sarebbe stato eliminato. A renderlo noto, un comunicato della Procura di Pavia firmato dal procuratore Fabio Napoleone.

La Squadra Mobile di Pavia ha eseguito una misura cautelare nei confronti di Barbara Pasetti, proprietaria dell’immobile a ridosso del quale è stato trovato il 20 dicembre dello scorso anno, il corpo esanime di Luigi Criscuolo. L’uomo era scomparso l’8 novembre 2021. Pasetti il 20 gennaio scorso aveva già ricevuto una misura cautelare per tentata estorsione nei confronti della vittima. La donna, da quanto è emerso dalle indagini, fin dal mese di aprile 2021 aveva il proposito di recare nocumento all’ex marito Gian Andrea Toffano, in un primo momento cercando di raggiungere tale obiettivo agendo individualmente. Poi, già nel mese di giugno dello scorso anno avrebbe preso contatti con Gigi Bici, che aveva visto più volte. A Criscuolo la donna aveva promesso un compenso se avesse aggredito l’ex marito. La donna gli ha anche prestato un revolver privo di numero di matricola calibro 7.65, con applicate due etichette adesive per indicare la sicura. L’8 novembre, Luigi Criscuolo ha cambiato idea ed è andato a casa della donna per ridarle l’arma. Era entrato in auto nel cortile della donna e le aveva parlato senza uscire dall’abitacolo ma soltanto abbassando il finestrino lato conducente.

Pochi attimi che sono bastati alla donna, secondo quanto ricostruito dalla procura di Pavia, per afferrare la pistola che Gigi Bici le stava restituendo con dei guanti e fare “fuoco a bruciapelo contro la tempia sinistra” dell’uomo. “Il proiettile ha infranto tra l’altro vetro anteriore del veicolo, quello lato passeggero”, fa notare la procura in una nota firmata dal procuratore Roberto Napoleone. Frammenti di vetro, infatti, sono stati trovati nel cortile della donna. Barbara Pasetti ha poi spostato “il corpo di Luigi Criscuolo fino al retro” della sua proprietà e lo ha messo “nel luogo dove poi sarebbe stato trovato, lo ha coperto con sterpaglie certamente provenienti da vegetazione all’interno del giardino, ha cercato di lavare sia il carrello di metallo che la parte di pavimento ove era colato il sangue della persona offesa, ha spazzato all’interno del canale scolmatore i frammenti di vetro del finestrino lato passeggero” che era stato “infranto dal proiettile che ha attraversato tutto il cranio di Luigi Criscuolo”. La donna ha poi nascosto “l’arma all’interno di un vano posto sulla scala interna che conduce al primo piano dell’abitazione” e ha portato la macchina dell’uomo nel posto in cui è stata trovata. Nel farlo ha lasciato le “proprie ed inequivocabili tracce biologiche all’interno dell’abitacolo della vettura”.

Barbara Pasetti, per la Procura di Pavia, dopo l’omicidio di Gigi Bici avrebbe inscenato “l’improbabile vicenda estorsiva per la quale si trova già sottoposta a regime detentivo ormai da quasi 5 mesi”. La donna avrebbe sparato perché la vittima si rifiutava di fare del male all’ex marito e di restituirle l’acconto già versato. Tutte le prove raccolte, per la procura di Pavia, riconducono indicano Barbara Pasetti come autrice dell’omicidio. Le etichette adesive applicate all’arma sono cosparse – nella loro parte posteriore – di materiale biologico riconducibile a Gigi Bici. Le analisi botaniche non hanno restituito alcun dubbio circa la provenienza degli arbusti utilizzati per coprire il corpo dell’uomo; il carrello metallico e la grata che copre il canale scolmatore si sono rivelati coperti da significative tracce del sangue della vittima. Il cranio dlel’uomo è stato trapassato proprio da un proiettile di calibro identico a quello che la pistola (perfettamente funzionante), nascosta da Barbara Pasetti, era capace di sparare.

Un’ogiva relativa ad un simile proiettile è trovata proprio nella parte di cortile antistante la porta di accesso all’abitazione, dove si è svolto l’omicidio. La donna aveva altri proiettili dello stesso tipo e avrebbe agito da sola. Nel corso delle indagini non sono stati trovati riscontri circa la presunta banda di estorsori provenienti dall’est Europa, di cui la Barbara Pasetti avrebbe parlato agli inquirenti. “Le indagini – sottolinea il procuratore di Pavia – sono state rese ancor più difficoltose sia dalla serie di false piste fornite dall’indagata– ma comunque rese oggetto di verifica e approfondimento – sia dalla proliferazione di errate informazioni pervenute e diffuse alla stampa sia locale che nazionale“.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Omicidio Gigi Bici, la vita in carcere di Barbara Pasetti. «È tranquilla, studia cucito perché vuole lavorare». Andrea Galli e Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.

La donna, unica indagata per la morte di Luigi Criscuolo, continua a dichiararsi innocente. Il mistero della pistola che ha sparato: è un’arma artigianale costruita oltre mezzo secolo fa, ben conservata e mai registrata. A fine mese la chiusura delle indagini.

«Un delitto con tante ombre»

Per mezzo secolo o forse più, il possessore della pistola che ha ucciso Luigi Criscuolo alias «Gigi Bici», 60 anni ex buttafuori, ha mantenuto l’arma in perfetta funzione. L’ha pulita, oliata, testata. Questa antica pistola — piccola, da custodire in una tasca oppure in una borsetta — non rientra in nessun registro perché, come appreso dal Corriere, è stata fabbricata artigianalmente e, forse, tramandata di generazione in generazione. Fino ad approdare nelle mani di Barbara Pasetti, la 44enne che, secondo l’impianto accusatorio della Procura, avrebbe sparato contro lo stesso Criscuolo, ucciso da un unico proiettile alla tempia nelle ore successive all’8 novembre 2021, il giorno della sua sparizione dalla casa di Pavia. 

Le telecamere

Del 20 dicembre il rinvenimento del corpo, in località Calignano, cinquecento abitanti, una frazione del comune di Cura Carpignano; i resti, sui quali si erano accaniti gli animali, i temporali e l’umidità, erano semi-nascosti da rovi e arbusti nel campo incolto che confina con un castello trasformato in residenza di lusso, circondato da un perimetro di mura e soprattutto telecamere di videosorveglianza. Ovvero l’abitazione di Pasetti, figlia di una ricca famiglia di imprenditori nel settore caseario, in carcere con l’accusa di omicidio e occultamento di cadavere; al proposito, nella prigione di Vigevano la donna ha chiesto a ripetizione di poter lavorare, si è fatta portare dei libri di cucito con l’obiettivo non di riempire gli infiniti tempi della vita in cella, quanto di imparare davvero e rendersi utile al resto dei detenuti. Chi ha modo di vederla e incontrarla, ha parlato di una donna «ordinaria» nella gestione della quotidianità, senza degenerazioni di violenza o insofferenza mentale.  

La banda dell’Est

Di fatto Pasetti, separata, un figlio di otto anni affidato ai nonni, sedicente fisioterapista — così si annunciava ma non ha mai praticato —, non ha finora parlato del caso e delle colpe che le addossano. O meglio: aveva da subito e ha in seguito insistito sulla storia criminale di una presunta banda dell’Est in qualche modo responsabile del delitto. Storia che da allora, in sette mesi di indagini articolate della Questura di Pavia, non ha cristallizzato un elemento-uno a conferma della tesi. Pura invenzione. A quale pro, non lo si conosce. Forse Pasetti voleva depistare, buttarla sulla generica paura dello straniero che spesso attecchisce nei pensieri del popolo, ed era sicura — sicurissima — di potercela fare. Tacendo, Pasetti non ha in aggiunta risolto i misteri relativi a quella pistola, la cui analisi ha rimandato a lei sia come possesso sia come specifico uso assassino, e che i magistrati non escludono possa esser stata reperita da parte del medesimo «Gigi Bici». Luigi Criscuolo sarebbe insomma stato freddato dall’arma che...

Le lettere anonime

In Procura si ripete che le indagini dovrebbero concludersi entro questo mese. Mancano pochi passaggi, di esclusiva natura scientifica, e sembra necessari non per svelare nuovi particolari bensì per rafforzare gli elementi di prova già in possesso. Vero che la coltivazione del dubbio è comandamento d’ogni inquirente, però le ipotesi iniziali sono procedute in modo lineare durante i numerosi passaggi dell’inchiesta. Si sospettava di Barbara Pasetti e a oggi la si considera protagonista principale della morte di «Gigi Bici», il quale potrebbe aver conosciuto la donna nell’estate del 2021 e anche avviato una relazione. I magistrati non escludono «collaborazioni», ma che nell’eventualità non altererebbero il quadro. In relazione a quella storia dei predoni dell’Est, sarebbe stata sempre Pasetti a scrivere delle lettere, due delle quali con destinatarie le figlie di Criscuolo e inerenti la scomparsa; lettere scritte in maniera sgrammaticata a voler far apparire che dietro ci fosse una mano straniera. Lettere invece composte dal computer della 44enne, di cui nella fase successiva alla scoperta del cadavere, quand’era divenuta una «sorvegliata speciale» dalla polizia con intercettazioni, sopralluoghi e pedinamenti, rimarrà notoria la propensione a fingere di ribellarsi all’assedio dei giornalisti fuori casa volendo invece — si truccava e sceglieva appositi vestiti — comparire dinanzi alle telecamere.

La difesa

Sicché, chi sia sul serio Barbara Pasetti, se una completa innocente anzi una vittima della giustizia come ripetono i famigliari specie il padre, a sua volta collezionista di armi, oppure una figura suo malgrado iconica della criminalistica italiana — una persona complessa e complicata, diabolica e pianificatrice —, è di certo un punto centrale dell’inchiesta e anche della narrazione. Insieme, s’intende, ai motivi che l’avrebbero spinta ad assassinare Criscuolo, forse punito per un rifiuto, un ipotetico sgarro, un’ipotetica mancanza di rispetto nei confronti d’una donna che, per intanto, una cosa ha in testa: lavorare in carcere. Se mai Barbara Pasetti ha fornito particolari dirimenti nei colloqui con l’avvocato, è un segreto professionale della sua legale, impegnata nella contro-indagine per smontare la costruzione dei pm e della polizia; per dimostrare che se anche...

Delitto Gigi Bici, «il proiettile che l’ha ucciso è simile a quello trovato nella villa di Barbara Pasetti». Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.

Dall’autopsia sulla vittima emerge che il proiettile killer che ha ucciso il commerciante di biciclette combacia con l’ogiva ritrovata dalla polizia nel terreno della villa della fisioterapista. Attesi i risultati della perizia sulla pistola.

Potrebbe esserci una svolta nel caso dell’omicidio di Gigi Bici, il commerciante di biciclette 60enne — all’anagrafe Luigi Criscuolo — trovato cadavere davanti alla villa di Calignano di Barbara Pasetti. Il proiettile che lo ha ucciso è infatti simile a quello trovato durante i sopralluoghi nella magione della sedicente fisioterapista, in carcere a Vigevano per tentata estorsione, e indagata per omicidio e occultamento di cadavere. Dalla autopsia sulla vittima emerge proprio questo: il proiettile killer che ha ucciso Criscuolo combacia con l’ogiva ritrovata dalla polizia nel terreno della villa della Pasetti, al momento unica indagata per il delitto. L’ogiva, inoltre, sarebbe simile agli altri proiettili inesplosi trovati in un sacchetto di plastica, sempre all’interno della casa.

Freddato a bruciapelo

Secondo l’ esame autoptico, Gigi Bici è stato freddato con colpo di pistola calibro 7,65 alla tempia sinistra, a bruciapelo, e ad una distanza molto ravvicinata. La traiettoria del colpo sarebbe dal basso verso l’alto, tutti elementi che portano a confermare l’ipotesi dell’auto. Gigi Bici potrebbe essere stato ucciso mentre si trovava sulla sua Polo Bianca: il vetro rotto e le tracce di sangue ritrovate all’interno dell’abitacolo e sui sedili portano su questa strada.

La perizia sulla pistola

La data della morte combacerebbe con il giorno della scomparsa. L’omicidio, infatti, risalirebbe all’8 novembre, quando il commerciante è sparito dalla sua casa di Cura Carpignano. Il cadavere, tenuto nascosto per oltre un mese e mezzo è stato poi trascinato a terra fuori dalle mura di cinta della grande casa della Pasetti, che lo ha fatto scoprire nel pomeriggio del 20 dicembre, raccontando che il figlioletto di 8 anni l’aveva notato mentre giocava a pallone. Si attendono i risultati di altre perizie che potrebbero aggravare la posizione della Pasetti. Le perizie in corso dovranno ora chiarire se a sparare il colpo che ha ucciso Gigi Bici sia stata la pistola ritrovata in una centralina elettrica della sua villa.

Omicidio Gigi Bici, analisi su parte del proiettile trovato a casa della Pasetti: svolta nelle indagini. I sospetti che quel frammento appartenga al proiettile che la sera di lunedì 8 novembre ha ucciso Gigi Bici: l’esame in programma per lunedì 21 marzo. A cura di Giorgia Venturini su Fanpage.it il 15 marzo 2022.

Potrebbero essere vicine a una svolta le indagini sull'omicidio di Luigi Criscuolo, 60 anni, conosciuto da tutti a Pavia come Gigi Bici perché per anni ha gestito un negozio per la rivendita e la manutenzione delle biciclette. La polizia scientifica di Roma lunedì 21 marzo eseguirà un esame sul frammento di proiettile trovato lo scorso 20 gennaio dagli agenti della Squadra Mobile nella villa di Barbara Pasetti, in carcere ora con l'accusa di omicidio. Forti sono i sospetti che quel frammento appartenga al proiettile che la sera di lunedì 8 novembre ha ucciso Gigi Bici con un colpo alla tempia destra. 

Frammenti di vetro sul proiettile

Le speranze di una possibile svolta su questo caso sono legate infatti a questo esame. Perché? Sul frammento del proiettile è stata trovata una polvere vetrosa che potrebbe coincidere con le modalità dell'omicidio. La parte vetrosa potrebbe essere stata prodotta dalla rottura del vetro dell'auto di Gigi Bici, ritrovata vuota e con il finestrino rotto nelle campagne di Calignano. Al momento l'unica certezza arriva dall'esame dell'autopsia che conferma la morte dovuto a un unico colpo di pistola di piccolo calibro alla tempia destra. Saranno ora anche altre perizie a confermare se l'arma del delitto è quella ritrovata nella villa di Barbara Pasetti lo scorso primo febbraio. E il frammento di proiettile trovato dalla polizia scientifica potrebbe appartenere a questa pistola. 

Tracce di Dna di due uomini sull'auto di Gigi Bici

Oltre agli esami balistici si attendono anche i risultati delle tracce di Dna di due uomini trovate sull'auto del commerciante di biciclette pavese: le tracce biologiche miste erano in una macchia di sangue trovata sulla Volkswagen Polo. Uno dei due Dna apparterebbe alla vittima, ma l'altro? In questi giorni i periti lo metteranno a confronto con i 3 Dna prelevati nei giorni scorsi da Franco Pasetti, padre di Barbara, Gian Andrea Toffano, ex marito della fisioterapista, e Ramon Pisciotta, il "buttafuori" amico di Gigi Bici. "Mai come in questo momento storico le analisi scientifiche sembrano ricoprire un ruolo dirimente per la risoluzione dei casi di omicidio", aveva scritto su Fanpage.it la criminologa Anna Vagli qualche giorno fa.

Gigi Bici: nel sangue trovato sull'auto dna di due uomini. ANSA  il 13 marzo 2022.

E' di due persone il dna presente nelle tracce di sangue trovate sull'auto di Luigi Criscuolo, il sessantenne scomparso l'8 novembre e trovato cadavere il 20 dicembre a Carpignano, nel Pavese. Uno è quello di Gigi, l'altro di un maschio che deve ora essere identificato e che potrebbe avere avuto un ruolo nella sua uccisione. Lo riporta la Provincia Pavese.

Il profilo genetico, che era sulla Polo ritrovata il giorno stesso della scomparsa, sarà confrontato con quello di tre persone legate a Barbara Pasetti, la quarantenne in carcere con l'accusa di tentata estorsione ma indagata anche per omicidio e occultamento di cadavere. Si tratta di Franco Pasetti, il padre di Barbara Pasetti, , l'ex marito della donna Gian Andrea Toffano e Ramon Cristian Pisciotta, il buttafuori amico di Gigi Bici che ha detto di essere stato contattato da lei per 'sistemare' l'ex marito. Il confronto dei profili viene fatto anche con le altre tracce biologiche trovate durante i sopralluoghi nella casa di Pasetti e nella zona circostante, dove è stato trovato il cadavere di Criscuolo.

Si attende intanto il deposito dei risultati dell'autopsia eseguita dal medico legale Yeo Chen mentre la difesa di Barbara Pasetti ha nominato come consulente il biologo Pasquale Linarello, ex ris che era stato anche consulente della difesa di Alberto Stasi. Per l'accertamento, invece, la Procura ha nominato proprio consulente Roberto Giuffrida del gabinetto regionale di polizia scientifica di Milano. (ANSA).

(ANSA il 24 febbraio 2022) - "Mi sono reso conto che l'obiettivo di Barbara era di farmi fuori, in un modo o nell'altro". A dichiararlo oggi, in un'intervista trasmessa nel programma 'La Vita in Diretta' su Raiuno, è stato Gian Andrea Toffano, ex marito di Barbara Pasetti, la fisioterapista 40enne di Calignano, frazione di Cura Carpignano (Pavia), finita in carcere con l'accusa di tentata estorsione nell'ambito dell'inchiesta per l'omicidio di Luigi Criscuolo, 60 anni, conosciuto da tutti a Pavia come Gigi Bici. 

"Sto vivendo un incubo, voglio tornare alla mia vita - ha dichiarato Toffano -. Per due volte Barbara ha cercato di avvelenarmi con massicce dosi di sonnifero versate nel caffè". Gli episodi a cui fa riferimento l'uomo sono avvenuti nella scorsa primavera. 

"La prima volta Barbara - ha raccontato Toffano - è venuta nella concessionaria in cui lavoravo e mi ha portato il caffè in un bicchierino di carta. Mezz'ora dopo averlo bevuto sono svenuto: se mi fossi messo al volante dell'auto non so che fine avrei fatto. Sono andato in ospedale e nel referto ho letto che mi era stata somministrata una dose pesante di sonnifero. Ho chiesto un chiarimento a Barbara in un luogo neutro: ci siamo visti in un bar, e anche in quel caso dopo aver bevuto il caffè mi sono sentito male. A quel punto ho capito che era stata lei a cercare di avvelenarmi. Alla luce di quanto è successo dopo, mi sono reso conto di aver seriamente rischiato di rimetterci la pelle".

Toffano ha spiegato di non aver denunciato subito quanto gli era accaduto perché temeva di "perdere definitivamente il bambino", rimasto con Barbara dopo la loro separazione. L'ex marito ha raccontato alla polizia i due tentativi di avvelenamento subìti lo scorso 7 febbraio, quando in Questura ha portato anche i referti dell'ospedale. 

L'ipotesi sulla quale stanno lavorando gli inquirenti è che Barbara Pasetti (indagata anche per omicidio e occultamento di cadavere per il delitto di Gigi Bici) abbia cercato di eliminare l'ex marito per entrare in possesso del patrimonio (4 appartamenti e 4 garage a Milano, Brescia, Lecco e Finale Ligure) che Toffano ha ereditato dalla madre morta il 4 dicembre 2020. Intanto si è sempre in attesa dell'esito delle perizie disposte dalla Procura di Pavia per far luce sull'omicidio di Criscuolo. 

Dall'autopsia (che ha stabilito che Gigi Bici sarebbe stato ucciso l'8 novembre, il giorno in cui era scomparso, con un colpo di pistola di piccolo calibro alla tempia destra) sarebbero emersi segni di trascinamento del cadavere della vittima, ritrovato il pomeriggio di lunedì 20 dicembre in un campo di Calignano, vicino alla villa di Barbara Pasetti.

(ANSA il 7 febbraio 2022) - A Calignano, frazione di Cura Carpignano (Pavia), nella villa di Barbara Pasetti, la fisioterapista 40enne arrestata con l'accusa di tentata estorsione nell'ambito dell'inchiesta sull'omicidio di Luigi Criscuolo, 60 anni, conosciuto da tutti a Pavia come Gigi Bici, è stato trovato anche un sacchetto contenente una ventina di proiettili di piccolo calibro.

La scientifica dovrà ora stabilire se le pallottole sono compatibili con quella che ha ucciso Gigi Bici la mattina di lunedì 8 novembre, il giorno della sua scomparsa. A darne notizia è oggi il quotidiano "La Provincia pavese". 

La scoperta dei proiettili è avvenuta durante la perquisizione di giovedì 20 gennaio, il giorno in cui Barbara Pasetti (indagata anche per omicidio e occultamento di cadavere) è stata arrestata.

Nel sopralluogo di martedì primo febbraio la polizia ha ritrovato una vecchia pistola di piccolo calibro: anche in questo caso gli accertamenti tecnici dovranno stabilire se può essere compatibile con quella del delitto. Gli investigatori hanno inoltre trovato nella villa una cassetta degli attrezzi da lavoro di Criscuolo. Il cadavere di Gigi Bici è stato trovato (o fatto trovare) nelle campagne di Calignano, davanti alla villa di Barbara Pasetti, un ex monastero del Seicento, nel pomeriggio di lunedì 20 dicembre.

Gigi Bici, trovata la sua valigetta da lavoro a casa di Barbara Pasetti. Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera il 5 febbraio 2022.

Si aggravano gli indizi a carico della fisioterapista, nella cui abitazione è stata trovata anche una pistola con la matricola abrasa. Nuovi esami sull’auto della vittima: lunedì gli esiti. 

La casa di Barbara Pasetti continua a restituire oggetti rilevanti per la risoluzione del giallo sulla morte di Gigi Bici, il commerciante pavese di 60 anni trovato cadavere fuori dalla grande villa della 40enne di Calignano lo scorso 20 dicembre. Dopo la pistola di piccolo calibro con matricola abrasa, compatibile con quella usata per freddare Luigi Criscuolo e rinvenuta all’interno dell’abitazione, spunta anche la cassetta da lavoro di Gigi Bici. L’uomo, quindi, sarebbe entrato anche in casa della sedicente fisioterapista, dove avrebbe lasciato i suoi attrezzi. La pistola verrà ora sottoposta all’esame della scientifica, che dovrà stabilire se si tratta effettivamente di quella del delitto che corrisponde a una 7,65 o una 22.

La difesa di Pasetti

L’avvocato Irene Valentina Anrò, il legale di Barbara Pasetti, si è recata nei giorni scorsi alla Procura di Pavia per esaminare l’esito dell’ ultimo sopralluogo di martedì 1 febbraio nell’ex convento di proprietà della sua assistita. «Su questa circostanza stiamo lavorando — ha affermato l’avvocato —. Stiamo facendo la nostra attività. Nei prossimi giorni vedrò la mia assistita in carcere». Dal carcere, intanto Pasetti continua a sostenere di «essere stata incastrata», nonostante gli indizi emersi che aggraverebbero ulteriormente la sua posizione.

I controlli sull’auto di Gigi Bici

Nei prossimi giorni verranno passati al setaccio il computer e il cellulare di Barbara Pasetti dal quale, sin dal giorno della scomparsa di Luigi Criscuolo, sono partite numerose chiamate e messaggi destinati alla stessa figlia di Gigi, Katia, e agli amici del commerciante, Mimmo e poi, in seguito, Ramon Pisciotta. Lunedì dovrebbero essere resi noti gli esiti degli esami effettuati sull’auto di Criscuolo, ritrovata nelle campagne di Calignano la sera dell’8 novembre, con un vetro infranto e macchie di sangue all’interno dell’abitacolo. Un giallo dai contorni ancora molto sfumati, e con tanti interrogativi. Chi ha ucciso Gigi? E per quale motivo? Davvero Barbara Pasetti lo aveva ingaggiato per «eliminare l’ex marito», che a suo dire la maltrattava? L’avvocato Marco Biancucci, legale di Gianandrea Toffano, ex marito della 40enne di Calignano, rigetta le accuse. «I due ex coniugi erano in rapporti regolari. Non mi capacito di come si sia potuto affermare che il mio cliente si è reso responsabile di maltrattamenti in famiglia: sono affermazioni contro le quali ci tuteleremo nelle sedi più opportune. Non esiste nessun tipo di coinvolgimento del signor Toffano in questa vicenda».

Omicidio Gigi "bici", una pistola trovata sepolta nel giardino dell'indagata. Redazione Tgcom24 il 3 Febbraio 2022.

Possibile svolta nell'omicidio di Luigi Criscuolo, 60 anni, conosciuto da tutti a Pavia come Gigi Bici per aver gestito a lungo un negozio per la vendita e la manutenzione di biciclette. Una pistola è stata trovata sepolta nel giardino della villa di Barbara Pasetti, la fisioterapista 40enne finita in carcere con l'accusa di tentata estorsione nell'ambito dell'inchiesta. Si ipotizza che si tratti dell'arma del delitto.

A rivelare la notizia è stato il quotidiano "La Provincia pavese" secondo cui l'arma è stata rinvenuta dagli inquirenti durante il sopralluogo effettuato martedì a Calignano, frazione di Cura Carpignano (Pavia) dove si trova l'abitazione di Barbara Pasetti. A trovare la pistola sarebbero stati gli agenti della squadra mobile grazie all'utilizzo di un robot georadar. La pistola verrà ora analizzata dalla scientifica: in particolare si dovrà anche stabilire se è compatibile con il frammento di proiettile ritrovato nell'area dell'abitazione il 20 gennaio, il giorno dell'arresto di Barbara Pasetti.

Dall'autopsia sul corpo di Luigi Criscuolo è emerso che ad ucciderlo è stato un colpo di pistola alla tempia destra, esploso da una calibro 7,65 o una 22. Il sopralluogo di martedì, che oltre alla squadra mobile e alla scientifica ha visto in azione anche le unità cinofile con i cani molecolari, è stato disposto dal sostituto procuratore Andrea Zanoncelli, il magistrato che coordina l'indagine. L'avvocato Irene Valentina Anrò, il legale di Barbara Pasetti, si è recata alla Procura di Pavia per esaminare l'esito dell'ispezione. "Su questa circostanza stiamo lavorando - ha affermato l'avvocato - Stiamo facendo la nostra attività".

Gigi Bici era scomparso da casa la mattina di lunedì 8 novembre, lo stesso giorno nel quale (secondo l'autopsia) è stato ucciso, Il suo cadavere era stato ritrovato il pomeriggio di lunedì 20 dicembre in un campo di Calignano davanti alla villa di Barbara Pasetti. 

Omicidio Gigi Bici, spunta un testimone: «Barbara Pasetti chiese anche a me di uccidere l’ex marito». Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2022.

A «La Vita in Diretta» si è presentato un conoscente, Ramon Cristian Pisciotta, che ha detto di essere stato contattato dalla donna l’8 novembre: «Mi ha offerto dei soldi». 

Barbara Pasetti, la fisioterapista 44enne di Calignano rinchiusa da una settimana nella sezione femminile del carcere Piccolini di Vigevano per estorsione nell’ambito dell’indagine sull’omicidio di Gigi Bici, aveva in mente un piano «luciferino». Ciò che Luigi Criscuolo non aveva portato a termine, ossia il terribile compito di eliminare il marito che, a detta della stessa, era un violento e la picchiava (nel quartiere in cui vive con la nuova compagna viene definito da tutti come una brava persona, tranquilla e riservata), ora spettava a un altro conoscente, Ramon Cristian Pisciotta.

L’uomo, che conosceva Gigi Bici, era stato contattato dalla donna l’8 novembre, il giorno stesso della scomparsa. Barbara aveva detto a Ramon che Criscuolo aveva bisogno di aiuto perché era finito vittima di un violento pestaggio. Poi, però, la Pasetti aveva chiesto un appuntamento al ragazzo nei pressi del cimitero di Pavia per una «questione» da portare avanti.

I due si incontrano, e Barbara Pasetti va subito al sodo: Ramon Cristian Pisciotta avrebbe dovuto proseguire il «lavoro» non portato a termine da Criscuolo, ovvero di «sistemare» il suo ex marito. Lo ha detto chiaramente Pisciotta, questo pomeriggio ai microfoni della trasmissione Rai «La Vita in Diretta»: «Barbara Pasetti mi ha offerto dei soldi e mi ha chiesto anche di andare a casa sua, forse perché lasciassi delle tracce, ma io non ho accettato».

Affermazioni al vaglio degli inquirenti, così come il contenuto delle telefonate e dei messaggi tra la 44enne di Calignano e Ramon, amico di Gigi Bici. Sembra che la sedicente fisioterapista avesse fatto un’offerta di 20 mila euro all’uomo, e poi rilanciato a 30 mila. Non solo, Ramon ha anche avanzato sospetti pesanti sulla donna: «Per come sono andate le cose, potrebbe essere stata lei a uccidere Gigi». 

Eleonora Lanzetti per il "Corriere della Sera" il 24 gennaio 2022.

La macchina blindata nel cortile circondato da mura e siepi. Il sistema di videosorveglianza a protezione della sconfinata casa, un ex convento. L'abitudine, quando a passeggio nelle vuote strade di Calignano, frazione di 500 abitanti nelle campagne pavesi, di scrutare intorno ed esaminare i passanti. 

Eppure, ossessionata da eventuali pedinatori, sospettosa e guardinga - scoprì subito il Gps installato sull'auto dagli agenti -, sicura d'essere al centro di complotti e sicurissima d'essere più furba degli investigatori, la 44enne Barbara Pasetti avrebbe commesso degli errori, cristallizzando la sua voce in telefonate sotto intercettazione con riferimenti, per nulla giudicati indiretti, alla morte di Luigi Criscuolo, quel «Gigi Bici» possessore di negozi a Pavia, scomparso l'8 novembre e rinvenuto il 20 dicembre. Dove? All'esterno proprio della magione di Pasetti, erede di una ricca famiglia di imprenditori, un figlio di 8 anni affidato ai nonni da giovedì, il giorno dell'arresto per tentata estorsione (Barbara è anche indagata per omicidio e occultamento di cadavere).

Ebbene, in una telefonata all'ex, avrebbe fatto riferimenti alle modalità del delitto quando si ignoravano le cause della fine di Criscuolo in quanto il cadavere non era stato individuato. In un'altra conversazione, sembra da una cabina telefonica e diretta alla figlia di «Gigi Bici», avrebbe invano alterato la propria voce con l'obiettivo di apparire un uomo dell'Est Europa sollecitando un riscatto. E poi: in una lettera scritta al computer e inviata a se medesima, certo spacciandola come missiva spedita da presunti malavitosi russi, aveva parlato di una morte provocata da un proiettile.

 Infatti Criscuolo, 60 anni, è stato freddato con un colpo alla tempia, nell'immediatezza della scomparsa; una modalità da esecuzione. Lui e Barbara si erano conosciuti in estate. Il commerciante con ombre nel passato e la fisioterapista - il mestiere dichiarato - che tale non era, una quotidianità tra isterie e debolezza, i perenni ricordi del fratello morto anni fa in un incidente e forse giri strani nei quali avrebbe trascinato «Gigi Bici», forse eliminato proprio da Barbara ma non da sola.

Nelle ore antecedenti la scomparsa c'era un uomo in macchina con Criscuolo - sono stati ripresi da una telecamera -, e indossava dei guanti. I guanti del killer? Il cadavere, che non presentava ferite da aggressione, è rimasto all'aperto per quaranta giorni. Pasetti e Criscuolo avrebbero avuto una relazione, e forse la prima avrebbe manipolato il secondo per assassinare l'ex marito, da punire per imprecisate violenze. Magari Criscuolo dopo un'iniziale adesione si sarebbe rifiutato. O forse no, e oggi nell'interrogatorio Barbara potrebbe raccontare l'intera storia criminale. La sua.

Eleonora Lanzetti per il "Corriere della Sera" il 25 gennaio 2022.

Nebbia nel piccolo bosco di via Vistarino, popolato da gigantesche nutrie, luogo della scoperta della macchina di Luigi Criscuolo detto «Gigi Bici», che qui venne nel suo ultimo giorno in vita, l'8 novembre, forse attirato in trappola e finito con modalità da esecuzione. Nebbia lungo i settecento metri da questo punto all'ex convento residenza di Barbara Pasetti, l'unica persona indagata per omicidio e occultamento di cadavere, e in prigione per tentata estorsione. 

Nebbia nei vasti terreni intorno alla medesima magione, compresa la zona vicina al cancello posteriore dove quel cadavere è stato scoperto il 20 dicembre, sepolto da rovi e arbusti, un buco alla tempia destra. Ovvero il foro d'entrata del proiettile letale, forse un calibro 22 esploso nell'abitacolo, dal sedile lato passeggero, e infatti il finestrino alla sinistra di Criscuolo, alla guida, fu bucato. Questa, in località Calignano, frazione di 500 abitanti, l'ancora parziale geografia del gran mistero sulla morte di «Gigi Bici», 60enne non senza ombre, noto commerciante, uomo che conosceva il mondo; ma è anche il mistero di lei, Barbara, da giovedì in carcere, sfibrata ma non travolta dalla detenzione: ha negato dapprincipio e ha negato ieri nell'interrogatorio.

Con la storia sanguinaria, un caso per nulla agevole e condotto di logica e pazienza dalla Squadra Mobile di Pavia, ripete di non avere legami, senza però che abbia confutato le non leggere prove in possesso degli inquirenti. Non è vero che ignorava Criscuolo poiché i due si conobbero in estate forse avviando una relazione. 

E non aleggiano dubbi intorno all'autrice delle lettere, delle quali una diretta a se stessa, scritte da Barbara al computer di una copisteria e recapitate alle figlie di «Gigi Bici» le quali, oltre a condannare le bugie di Pasetti («Confessi»), oltre a ripetere che era sua la voce alterata al telefono («Si spacciò per uno straniero dell'Est») nella conversazione in cui chiedeva il riscatto, aggiungono: «Dica il parente che l'ha aiutata». Come da convinzione della Procura, Pasetti potrebbe aver agito da sola ma anche no, e allora, in questa seconda ipotesi, forse il complice sarebbe l'uomo (ignoto) ripreso da una telecamera al volante dell'auto di Criscuolo l'8 novembre, che appunto venne infine abbandonata nel piccolo bosco, in un'area distante dalle case e perfetta per attutire il rumore di uno sparo o collegarlo a quello di un cacciatore.

Sempre dal bosco, Pasetti sarebbe tornata nella magione a piedi lasciandosi dietro il corpo sulla macchina. Corpo che sarebbe presto sparito venendo trasferito all'interno dell'ex convento e custodito all'aperto, fino allo spostamento davanti al cancello, a trentadue passi dalla strada. Ai cronisti della Provincia pavese , il padre di Barbara - la cui collezione di armi è stata sequestrata per esaminare eventuali pistole assenti oppure «calde» -, ha escluso colpe della donna; padre che, imprenditore del settore caseario, nell'immediatezza dell'arresto avrebbe organizzato un frettolosa riunione con l'ex marito di Pasetti, mai amato dai suoceri forse anche per un licenziamento causa presunti ammanchi di soldi sul posto di lavoro, una concessionaria d'auto, che aveva fatto parlare il paese. Dubitare d'ognuno è dovere investigativo, sia pur nel rispetto profondo per un genitore devastato da una tragedia, ed estraneo ad addebiti, e senza dimenticare che sull'ex marito, nei progetti di Barbara condivisi con Criscuolo, gravava il piano di un omicidio come punizione di imprecisate violenze.

Non esistono ulteriori indagati ma questo non esclude, al contrario, l'identificazione del complice o dei complici di Pasetti, descritta quale ossessiva, guardinga e paranoica, la magione riempita di telecamere, la macchina blindata, la capacità di scovare subito il Gps installato dagli agenti, un'esistenza gravata dal decesso del più che adorato fratellino in un incidente che l'aveva scavata dentro. 

All'avvocato Irene Anrò, che si batte per i domiciliari, Pasetti ha domandato le condizioni del figlio di 8 anni affidato ai nonni. La strategia difensiva potrebbe puntare sull'infermità mentale di una donna presunta fisioterapista - lo dichiara ma non avrebbe mai esercitato -, che non risulta aver dimestichezza con le pistole nè allenamenti al poligono, ma che a detta di un detective potrebbe trasformarsi in figura iconica della narrazione criminale d'Italia. E dell'ascesa, o del baratro, degli assoluti insospettabili di provincia.

Gigi Bici, l’omicidio: «Barbara Pasetti forse è stata aiutata da un parente». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 24 Gennaio 2022.

Le figlie del 60enne Gigi Bici ucciso: «Dica il parente che l’ha aiutata». Il padre della 44enne Barbara Pasetti ha una collezione di armi. L’uomo con i guanti e il corpo spostato e poi fatto ritrovare. Lei si dice innocente. 

Nebbia nel piccolo bosco di via Vistarino, popolato da gigantesche nutrie, luogo della scoperta della macchina di Luigi Criscuolo detto «Gigi Bici», che qui venne nel suo ultimo giorno in vita, l’8 novembre, forse attirato in trappola e finito con modalità da esecuzione. Nebbia lungo i settecento metri da questo punto all’ex convento residenza di Barbara Pasetti, l’unica persona indagata per omicidio e occultamento di cadavere, e in prigione per tentata estorsione. Nebbia nei vasti terreni intorno alla medesima magione, compresa la zona vicina al cancello posteriore dove quel cadavere è stato scoperto il 20 dicembre, sepolto da rovi e arbusti, un buco alla tempia destra. Ovvero il foro d’entrata del proiettile letale, forse un calibro 22 esploso nell’abitacolo, dal sedile lato passeggero, e infatti il finestrino alla sinistra di Criscuolo, alla guida, fu bucato.

Questa, in località Calignano, frazione di 500 abitanti, la ancora parziale geografia del gran mistero sulla morte di «Gigi Bici», 60enne non senza ombre, noto commerciante, uomo che conosceva il mondo; ma è anche il mistero di lei, Barbara, da giovedì in carcere, sfibrata ma non travolta dalla detenzione: ha negato dapprincipio e ha negato ieri nell’interrogatorio. Con la storia sanguinaria, un caso per nulla agevole e condotto di logica e pazienza dalla Squadra Mobile di Pavia, ripete di non avere legami, senza però che abbia confutato le non leggere prove in possesso degli inquirenti. Non è vero che ignorava Criscuolo poiché i due si conobbero in estate forse avviando una relazione. E non aleggiano dubbi intorno all’autrice delle lettere, delle quali una diretta a se stessa, scritte da Barbara al computer di una copisteria e recapitate alle figlie di «Gigi Bici» le quali, oltre a condannare le bugie di Pasetti («Confessi»), oltre a ripetere che era sua la voce alterata al telefono («Si spacciò per uno straniero dell’Est») nella conversazione in cui chiedeva il riscatto, aggiungono: «Dica il parente che l’ha aiutata».

Come da convinzione della Procura, Pasetti potrebbe aver agito da sola ma anche no, e allora, in questa seconda ipotesi, forse il complice sarebbe l’uomo (ignoto) ripreso da una telecamera al volante dell’auto di Criscuolo l’8 novembre, che appunto venne infine abbandonata nel piccolo bosco, in un’area distante dalle case e perfetta per attutire il rumore di uno sparo o collegarlo a quello di un cacciatore. Sempre dal bosco, Pasetti sarebbe tornata nella magione a piedi lasciandosi dietro il corpo sulla macchina. Corpo che sarebbe presto sparito venendo trasferito all’interno dell’ex convento e custodito all’aperto, fino allo spostamento davanti al cancello, a trentadue passi dalla strada.

Ai cronisti della Provincia pavese, il padre di Barbara — la cui collezione di armi è stata sequestrata per esaminare eventuali pistole assenti oppure «calde» —, ha escluso colpe della donna; padre che, imprenditore del settore caseario, nell’immediatezza dell’arresto avrebbe organizzato una frettolosa riunione con l’ex marito di Pasetti, mai amato dai suoceri forse anche per un licenziamento causa presunti ammanchi di soldi sul posto di lavoro, una concessionaria d’auto, che aveva fatto parlare il paese.

Dubitare d’ognuno è dovere investigativo, sia pur nel rispetto profondo per un genitore devastato da una tragedia, ed estraneo ad addebiti, e senza dimenticare che sull’ex marito, nei progetti di Barbara condivisi con Criscuolo, gravava il piano di un omicidio come punizione di imprecisate violenze. Non esistono ulteriori indagati ma questo non esclude, al contrario, l’identificazione del complice o dei complici di Pasetti, descritta quale ossessiva, guardinga e paranoica, la magione riempita di telecamere, la macchina blindata, la capacità di scovare subito il Gps installato dagli agenti, un’esistenza gravata dal decesso del più che amato fratellino in un incidente che l’aveva scavata dentro.

Al legale Irene Anrò, che si batte per i domiciliari, Pasetti ha domandato le condizioni del figlio di 8 anni affidato ai nonni. La strategia difensiva potrebbe anche puntare sull’infermità mentale di una donna presunta fisioterapista — lo dichiara ma non avrebbe mai esercitato —, che non risulta aver dimestichezza con le pistole né allenamenti al poligono, ma che a detta di un detective potrebbe trasformarsi in figura iconica della narrazione criminale d’Italia. E dell’ascesa, o del baratro, degli assoluti insospettabili di provincia. (ha collaborato Eleonora Lanzetti) 

Le telecamere di videosorveglianza hanno ripreso gli spostamenti dell’auto. Gigi Bici, il mistero delle lettere e del riscatto chiesto dalla fisioterapista: un altro uomo guidava la sua auto. Elena Del Mastro su Il Riformista il 23 Gennaio 2022. 

Il caso della morte di Gigi Bici, come era conosciuto Luigi Criscuolo, 60enne di Pavia, è ancora avvolto nel mistero. Una storia davvero intricata difficile da decifrare. Ma nuovi dettagli emergono dalle indagini come le immagini delle videocamere di sorveglianza della zona di Cura Carpignano (Pavia) che hanno ripreso un uomo con la maglietta rossa e i guanti bianchi alla guida della polo di Criscuolo.

Poi c’è la fisioterapista, Barbara Pasetti, 44 anni, che giovedì scorso è stata arrestata per il reato di tentata estorsione: è accusata di aver chiesto alla famiglia di Criscuolo, attraverso due lettere lasciate in una cabina telefonica e sotto un tappeto di una chiesa di Pavia, un riscatto di 390mila euro per liberare il loro congiunto che in realtà era già stato ucciso. Barbara Pasetti, indagata anche per omicidio e occultamento di cadavere, dalla sezione femminile del carcere dei Piccolini a Vigevano (Pavia) continua a proclamare la sua innocenza e nega di aver mai conosciuto Criscuolo. Facciamo ordine in questa storia.

Dalla scomparsa di Gigi Bici al ritrovamento del cadavere

Gigi Bici è scomparso l’8 novembre scorso. Era uscito di casa in viale Canton Ticino alle 8,40 dopo aver ricevuto una telefonata si è diretto verso Calignano, una frazione di Cura Carpignano. Alle 9,37 la sua auto è passata sotto la telecamera di via De Gasperi, alle 9,39 era a Calignano poi è scomparsa per un’ora e 5 minuti e ricomparsa alle 10,44 all’uscita dalla frazione con l’auto già col finestrino rotto. Le immagini di videosorveglianza hanno ripreso gli spostamenti dell’auto.

Come riportato da Il Giorno è stata la figlia minore di Criscuolo, Stefania, quando le è stata mostrata la sequenza di immagini a notare fin da subito che nel fotogramma delle 10,44 non era suo padre l’uomo alla guida. “Mio papà era uscito con una maglia blu – aveva dichiarato appena dopo la scomparsa – questa persona mi sembra indossasse una maglia rossa, ma non si vede bene”. L’uomo al volente sembrerebbe avere tra i 40 e i 50 anni e indossava guanti bianchi. La sera dell’8 novembre l’auto di Gigi è stata trovata con un vetro rotto e le macchie di sangue nell’abitacolo nelle campagne di Calignano.

Poi di Gigi si sono perse le tracce fino al 20 dicembre, quando il suo corpo è stato trovato davanti al cancello della villa di Barbara Pasetti, 44 anni, fisioterapista, che giovedì scorso è stata arrestata per il reato di tentata estorsione. Dall’autopsia è emerso che Gigi è stato freddato da un proiettile alla tempia e che il suo corpo è rimasto all’aperto finchè non è ricomparso fuori alla villa della Pasetti.

Il ruolo della fisioterapista

Barbara Pasetti è accusata di aver chiesto alla famiglia di Criscuolo un riscatto di 390mila euro per liberare il loro congiunto che in realtà era già stato ucciso, come rilevato dall’autopsia. Lo avrebbe fatto attraverso due lettere lasciate in una cabina telefonica di via Tasso e sotto un tappeto della chiesa di via Ludovico il Moro, scritte in italiano sgrammaticato.

Ma perché una persona che apparentemente non ha problemi economici dovrebbe chiedere una somma così ingente a una famiglia non facoltosa? Barbara Pasetti, indagata anche per omicidio e occultamento di cadavere, dalla sezione femminile del carcere dei Piccolini a Vigevano continua a proclamare la sua innocenza e nega di aver mai conosciuto Gigi Bici e qualunque componente della famiglia Criscuolo. La donna, che sarà interrogata domani, sostiene di essere finita per caso in una storia che le ha cambiato la vita.

Come riportato da Il Giorno, in un confronto con una delle figlie dell’uomo, Katia, Barbara ha ribadito di non riuscire più a tollerare una “persecuzione” fatta di “lettere anonime con particolari raccapriccianti sul delitto” e scampanellate nel cuore della notte che mettevano in allarme lei e il figlio di 8 anni. “Hanno scaricato il cadavere davanti al mio cancello – aveva raccontato Barbara – perché quello è l’unico punto non ripreso dalle telecamere che circondano la mia proprietà e facilmente raggiungibile in auto”. Nell’ultima lettera fatta trovare nella buca delle lettere di Pasetti e Stefania Criscuolo c’era scritto che il cadavere era proprio davanti alla villa, fatto trovare per far passare ai familiari un brutto Natale.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Omicidio Gigi Bici, i ricatti e le ossessioni della fisioterapista Barbara Pasetti. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2022.

Il 60enne ucciso con un unico proiettile alla tempia. La 44enne, in carcere, è indagata per omicidio e occultamento di cadavere. Avrebbe tentato di estorcere un riscatto ai familiari di lui. Lei si difende: «Sono innocente».  

Luigi Criscuolo detto «Gigi Bici», 60 anni, e Barbara Pasetti, 44 anni.

Un unico proiettile alla tempia, in uno scenario da esecuzione, da colpo voluto e non casuale per punire uno sgarro, un rifiuto, una promessa non mantenuta. Un unico proiettile come già menzionato in una delle lettere di questo mistero, comprese quelle fatte ritrovare alle figlie del 60enne Luigi Criscuolo, il «Gigi Bici» di Pavia famoso per le officine di riparazione e famoso alle forze dell’ordine per diversi motivi, scomparso l’8 novembre e rinvenuto senza vita il 20 dicembre a ridosso del cancello posteriore di un convento trasformato in magione tra disordine, ante da riparare, un costoso impianto di videosorveglianza e una macchina blindata nel cortile. Un unico proiettile esploso nella coincidenza temporale della sparizione, dunque un cadavere rimasto — all’aperto — per oltre quaranta giorni, infine trovato da Barbara o fatto trovare a Barbara seppur celato sotto rami e rovi come questi, forse proprio gli stessi, ammucchiati a trentadue passi dalla strada, la via Marconi in località Calignano, frazione di Cura Carpignano.

Ovvero lungo il perimetro di quell’ex convento, di quella magione: la residenza di Barbara Pasetti, 44enne figlia di una ricca famiglia di imprenditori nel settore caseario, con lui, il padre, regolare possessore di armi sequestrate dalla polizia alla ricerca di pezzi mancanti o «caldi», e lei, la figlia, indagata per omicidio e occultamento di cadavere, e in cella per tentata estorsione avendo, secondo l’accusa, chiesto ai cari di Criscuolo 290 mila euro per liberare l’ostaggio. Presunto ostaggio poiché «Gigi Bici», come detto, si spense subito, e sembra senza aver ricevuto, prima e dopo la pallottola, violenze con pugni, pietre, bastoni.

Ebbene, in Procura sono convinti che la firmataria delle lettere , quattro in totale con una a se stessa, lettere sgrammaticate con l’intenzione di rimandare a un autore dell’Est Europa, sia stata Passetti, che risulta essere fisioterapista senza esserlo per davvero. E nelle missive, si faceva per appunto riferimento a un unico proiettile. Caso chiuso? Giammai e non solo perché Barbara, che ha conosciuto Criscuolo in estate legandosi forse anche sentimentalmente, si è giurata innocente, a meno che nell’interrogatorio di lunedì muti strategia e parli.

Nella ovvia presunzione d’innocenza, il lavoro della squadra Mobile di Pavia — il metodo empirico, la coltivazione del dubbio — si conferma ostico, specie in quanto l’asse portante è Barbara Pasetti con il suo comportamento contradditorio, lineare e subito dopo caotico, forse in conseguenza di disturbi psicopatologici magari iniziati a manifestarsi anni fa, quando in un incidente le morì il più che amato fratellino, e conclamati negli incontri coi cronisti nelle settimane precedenti l’epilogo: urla e silenzi, minacce e pace, la ricerca delle telecamere e la fuga.

Adesso Katia, una delle figlie di Criscuolo, che non si esclude possa essere entrato o esser stato trascinato in affari loschi, forse di droga e di carichi sottratti, ricorda che Pasetti, con voce mal camuffata e di nuovo aspirando ad apparire uno slavo, un romeno, un russo, «aveva telefonato consigliando come recuperare due lettere», la prima in una cabina telefonica e l’altra davanti a una chiesa.

L’avvocato Irene Anrò ha dialogato con Barbara nel carcere di Vigevano: «Era serena e tranquilla… Si professa estranea ai fatti». Estranea ai fatti ma non a «Gigi Bici», cui avrebbe chiesto di eliminare l’ex marito per punirlo di imprecisati maltrattamenti. Che Barbara abbia manipolato Criscuolo, l’abbia esposto, l’abbia presentato alle persone sbagliate, non è dato sapere; che sullo sfondo vi sia una rapina nell’Oltrepò con Criscuolo a custodire e depredare il bottino, e sono di nuovo circostanze narrate nelle missive, è improbabile: sì, sono avvenute delle rapine, ma non collocabili nell’omicidio di «Gigi Bici», ex buttafuori, uomo di strada, eppure caduto prigioniero in un tranello e assassinato di sorpresa. Ma da chi? Se l’incensurata Barbara, la mamma Barbara — il figlioletto di 8 anni è stato affidato ai nonni —, come si vocifera tra tribunale e questura può divenire una figura iconica della criminalistica italiana, vero è che non dovrebbe aver agito da sola, per il semplice motivo delle manovre di spostamento del cadavere.

Ecco, il cadavere: trasferito fino a questo spiazzo, erba schiacciata e fanghiglia, un vecchio silos più avanti, il muro di cinta dell’ex convento e della magione, al cui interno è escluso possa esser stato custodito il corpo stesso da novembre a dicembre prefigurando una camera degli orrori nelle sconfinate stanze di Barbara, che scoprì in pochi minuti il Gps installato dagli agenti sull’auto. Una non comune ma scontata mossa in un’esistenza pervasa dall’ossessione di essere sorvegliata, d’avere pedinatori e persecutori. Ancor prima, molto prima, d’incrociare Criscuolo. (ha collaborato Eleonora Lanzetti)

Giu.Sca. per "il Messaggero" il 21 gennaio 2022.

È a una svolta l'omicidio di Luigi Criscuolo, 60 anni, noto a tutti a Pavia come Gigi Bici per aver gestito a lungo in città un negozio di rivendita e manutenzione di biciclette. Ieri una donna è stata arrestata per tentata estorsione. 

Si tratta di Barbara Pasetti che ha sempre negato di aver conosciuto Criscuolo. Ha continuato a negarlo dal pomeriggio di lunedì 20 dicembre quando il cadavere di Gigi, che mancava da casa da novembre, è stato trovato davanti al cancello di ingresso della sua villa, alla frazione Calignano di Cura Carpignano (Pavia).

LA PERQUISIZIONE Ieri, un mese dopo quel macabro ritrovamento, Pasetti, 44 anni, fisioterapista, è stata arrestata dalla polizia. Con un'accusa precisa. Secondo quanto emerge dalle indagini condotte dalla squadra mobile, e coordinate dalla Procura di Pavia, Pasetti «avrebbe fornito un contributo all'occultamento della salma - come si legge in una nota che porta la firma del procuratore Fabio Napoleone - ed avrebbe cercato di trarre profitto dalla custodia della stessa nei pressi della propria abitazione». Ieri mattina la polizia si è presentata all'alba all'ingresso della villa di Calignano, con un mandato di perquisizione. 

Gli agenti della mobile hanno condotto i controlli in collaborazione con la scientifica e con l'ausilio dei cani molecolari; alcuni consulenti botanici hanno inoltre analizzando il terreno dove, nel pomeriggio del 20 dicembre, il figlio della fisioterapista mentre giocava ha ritrovato il corpo di Gigi Bici. Poi la svolta. Mentre era in corso la perquisizione (al termine della quale la casa è stata posta sotto sequestro), la donna è stata accompagna in Questura per essere interrogata. Gli investigatori non si sarebbero limitati ad appuntare l'attenzione su di lei. Infatti sarebbe stato sentito dagli agenti della squadra mobile anche il suo ex marito.

 LE VERIFICHE Nel pomeriggio poi è stata arrestata: una svolta che potrebbe essere decisiva nelle indagini sulla morte di Criscuolo, per la quale la Procura ha aperto un fascicolo con le ipotesi di omicidio, sequestro di persona e occultamento di cadavere. «Gli accertamenti della squadra mobile della Questura di Pavia - continua la nota della Procura - sono proseguiti per ricostruire gli ultimi movimenti di Criscuolo sino a quando, a fine novembre, l'obiettivo degli investigatori si è ampliato perché è stata recapitata una prima richiesta estorsiva ai familiari di Criscuolo, nella quale veniva richiesta la somma di 390mila euro in cambio della liberazione del proprio congiunto. La prima richiesta è stata poi seguita da altre che «ad oggi sono state tutte ricondotte all'indagata poi tratta in arresto». Le indagini continuano per trovare gli «autori materiali dell'omicidio».

LA LETTERA In queste settimane non si sono mai interrotti gli accertamenti. La polizia, in particolare, ha cercato di far luce sulle frequentazioni di Criscuolo e sull'attendibilità di una lettera anonima lasciata, insieme alla foto del cadavere della vittima, nella cassetta postale di Pasetti. Una lettera scritta al computer in un italiano sgrammaticato, nella quale si racconta che a Criscuolo era stato affidato il bottino di una rapina effettuata anni fa in Oltrepò Pavese (300mila euro tra contanti e gioielli), che l'uomo non avrebbe restituito nell'appuntamento dell'8 novembre scorso a Calignano. Nella lettera sono descritti alcuni oggetti personali sottratti a Gigi Bici (tra cui un orologio, un portafoglio nero, le foto della moglie e delle figlie) e vengono minacciati anche i familiari dell'uomo, in caso di mancata restituzione del bottino.

Eleonora Lanzetti per corriere.it il 20 gennaio 2022.

Arrestata per tentata estorsione Barbara Pasetti, la fisioterapista 44enne che lo scorso 20 dicembre trovò il cadavere di Gigi Bici. La donna è stata portata nel carcere femminile Piccolini di Vigevano. 

La Pasetti, che aveva sempre negato di conoscere Gigi o di essere in qualche modo coinvolta nel caso, ha aperto le porte della propria villa, un ex convento francescano del 1600, alle forze dell’ordine che giovedì 20 gennaio alle luci dell’alba hanno iniziato a perquisire ogni stanza e gli spazi esterni.

Diverse squadre di vigili del fuoco, carabinieri, e polizia sono andate alla ricerca di elementi utili alle indagini nel luogo del rinvenimento del cadavere, e nella casa di Barbara Pasetti, mamma del bambino di 8 anni che ha scoperto il corpo dell’uomo nascosto dalle foglie.

I nodi da sciogliere

Sul posto, per ore, gli uomini della Scientifica e cani molecolari. Nel punto in cui è stato scaricato il corpo di Criscuolo, invece, i consulenti botanici hanno analizzato le tracce nel terreno, transennato da quel lunedì 20 dicembre.

Ancora molti i nodi da sciogliere. Prima di tutto la lettera trovata dalla Passetti nella cassetta della posta: è attendibile o si tratta di un tentativo di depistaggio? In che rapporti erano Gigi Bici e la fisioterapista di Calignano? Gli inquirenti stanno cercando di ricostruire contatti e le frequentazioni della vittima per collegare tutti i pezzi di un puzzle complicato. Nel primo pomeriggio Barbara Pasetti e il suo ex marito erano stati accompagnati in Questura dove hanno risposto alle domande degli investigatori, poi la donna è finita in manette.

ELEONORA LANZETTI per il Corriere della Sera il 29 dicembre 2021. Un delitto senza colpevole. E tanti dettagli che non hanno ancora una spiegazione plausibile. In questura, a Pavia, proseguono gli interrogatori ad amici e parenti di Luigi Criscuolo - noto a tutti come Gigi Bici per essere stato proprietario di due rivendite di biciclette - il 60enne sequestrato e ucciso e il cui cadavere è stato ritrovato lunedì 20 dicembre davanti al cancello di casa di Barbara Pasetti, una fisioterapista di Calignano, frazione nelle campagne pavesi. 

Molti i punti oscuri di questa vicenda. Per gli inquirenti, Criscuolo sapeva che quell'8 novembre, giorno della scomparsa, stava andando incontro a qualcosa di pericoloso: aveva appuntamento per la restituzione di un ingente debito con chi poi l'ha sequestrato ed ucciso. 

Altrimenti, come testimoniato dal signor Pasqualino e da un altro amico, Gigi non avrebbe chiesto loro di essere accompagnato, e in qualche modo protetto. I due amici non avevano potuto raggiungere Calignano con Criscuolo, che era così salito sulla sua Polo bianca, presentandosi da solo a quell'incontro finto in tragedia.

Le indagini si concentrano anche sul luogo in cui è stato abbandonato il cadavere: è stato scelto in modo casuale, solo perché in una zona defilata e non coperta dalle telecamere? Oppure gli assassini avevano un piano preciso? Il corpo è stato lasciato davanti all'entrata di una cascina in cui vivono alcune famiglie, coperto di foglie e sterpaglie. Poi l'assassino - o chi ha agito per lui - ha suonato al citofono della fisioterapista Pasetti: «Vada a vedere davanti al suo cancello, ci sono delle cose che le possono interessare». 

Ma lei, come ha riferito agli investigatori e ai cronisti, all'inizio ha pensato fosse uno scocciatore intento a fare uno scherzo. Poco dopo il figlio della donna, un bimbo di 8 anni, avrebbe fatto la macabra scoperta mentre giocava a pallone. «Non centro nulla con questa storia. Sono terrorizzata, mio figlio ha gli incubi, lasciateci stare», ha ribadito più volte Pasetti. «Gigi Bici non lo conosco, e nemmeno la sua famiglia».

Poi la fisioterapista ha chiuso le serrande e ha lasciato per qualche giorno il paese. Nei giorni successivi al ritrovamento del corpo l'assassino, o più probabilmente i rapitori-assassini di Criscuolo hanno fatto altre mosse. 

Prima hanno imbucato nella cassetta delle lettere di Pasetti una foto del cadavere di Gigi Bici, poi le hanno recapitato una lettera anonima - destinata però alla figlia della vittima, Katia - che ora è al vaglio della scientifica e che di fatto conterrebbe il movente dell'omicidio: un debito da 300 mila euro. Criscuolo sarebbe stato ucciso perché colpevole di aver fatto sparire il bottino di una rapina messa a segno in Oltrepò Pavese - a cui lui non aveva partecipato - che avrebbe dovuto custodire, forse occupandosi anche della ricettazione. 

La lettera ha toni crudi, diretti, è scritta al computer in un italiano stentato che tradirebbe le origini russe dello scrivente. E se invece quel testo pieno di errori non fosse che una messa in scena per depistare gli inquirenti? Il movente però sembra avere le prime conferme: la vittima sarebbe stata uccisa per una ingente somma che gli era stata data in custodia: più o meno 300 mila euro tra contanti e gioielli. In seguito gli autori della rapina avevano chiesto conto della refurtiva, ma Gigi, stando a quanto accusa l'autore della lettera anonima, si sarebbe intascato tutto.

La mattina della scomparsa la vittima avrebbe incontrato i suoi assassini e avrebbe detto loro di non avere più quei 300 mila euro perché gli erano stati rubati. Gigi, a quel punto, sarebbe stato picchiato a sangue, caricato su un furgone - ma non ci sono immagini delle telecamere che possano confermarlo -, e nascosto in un luogo sconosciuto, sino alla data di restituzione del debito fissata proprio per il 20 dicembre. Il giorno del ritrovamento del cadavere.

«Gigi Bici» sequestrato e ucciso a bastonate: il corpo scaricato nelle campagne pavesi dopo la morte. Eleonora Lanzetti su Il Corriere della Sera il 23 dicembre 2021. Il corpo di Luigi Criscuolo, 60 anni, ritrovato nelle campagne di Calignano (Pavia). Un testimone: pochi giorni prima non c’era. «Colpito ripetutamente alla testa con un bastone o una mazza». Il cadavere ritrovato lunedì nelle campagne di Calignano, nel Pavese, potrebbe essere proprio quello di Luigi Criscuolo, «Gigi Bici», il commerciante 60enne scomparso da casa l’8 novembre scorso. Manca ancora il riconoscimento ufficiale da parte dei famigliari, ma restano pochi dubbi: alcuni indumenti e parti di tatuaggi visibili sul corpo sarebbero riconducibili proprio a lui. L’ipotesi dell’omicidio, dunque, è quella sui cui si stanno concentrando gli inquirenti.

L’indagine

Il fascicolo per il reato di sequestro di persona era già stato aperto, ed il modo in cui è stato ritrovato il cadavere farebbe propendere decisamente per la morte violenta. Oltre al finestrino rotto e le tracce di sangue sul vetro della Polo bianca di Criscuolo, altri due elementi conducono ad una mano assassina: il corpo era coperto da un cumulo di foglie e sterpaglie, e sembra sia stato scaricato proprio lì da pochi giorni. Il luogo del ritrovamento resta ancora un punto interrogativo. Si tratta di un’area di campagna, ma abitata da più famiglie, non isolata. Perché chi avrebbe portato il cadavere ha scelto di lasciarlo proprio in quella stradina che costeggia il muro di cinta di un cascinale?

Le testimonianze

La zona non risulta coperta da telecamere, che invece sono presenti qualche centinaio di metri prima, in paese. Uno dei residenti in quella cascina, sentito dagli investigatori, ha assicurato che nel punto del ritrovamento qualche giorno fa non c’era assolutamente nulla. L’intero territorio comunale era stato battuto dai ricercatori che avevano setacciato campi e aree limitrofe, senza esito.

L’autopsia

Lunedì i rilievi sono proseguiti sino a tarda sera. L’autopsia chiarirà le cause del decesso, anche se da un primo esame sul cadavere non è da escludere che l’uomo sia stato colpito ripetutamente alla testa con un bastone o una mazza, per via di un evidente ematoma. Il movente, i debiti o di altra natura personale, dovrà essere ancora chiarito. Gli uomini della Scientifica hanno cercato tracce sul terreno, segni e impronte utili alla risoluzione del caso che si delinea sempre di più come un regolamento di conti.

L’iniziativa per i 4 ragazzi. Elena Ceste, pignorate e messe all’asta le auto sua e del marito: “I soldi per aiutare i figli negli studi”. Elena Del Mastro su Il riformista il 21 Aprile 2023

La drammatica vicenda di Elena Ceste è stato uno dei più grandi cold case italiani. E si rivelò anche essere un enorme dramma familiare: di quell’omicidio fu condannato il marito di Elena, Michele Buoninconti, condannato a scontare 30 anni di carcere. La coppia aveva 4 figli. Le auto di Elena e del marito sono state pignorate e messe all’Asta per aiutare i figli a sostenere i loro studi.

Il Corriere della Sera riporta che il prezzo minimo base d’asta, 4200 euro. Si tratta di una Peugeot 205 utilizzata dalla donna e della Golf del marito. L’avviso è pubblicato sul portale delle vendite giudiziarie e l’indirizzo in cui si trovano le due vetture è quello di Strada San Pancrazio 10 a Costigliole d’Asti, frazione Motta, lo stesso della casa della coppia con quattro figli in cui si è consumato il femminicidio. Ai due prezzi base d’asta si possono fare rilanci minimi di 100 euro.

L’asta si svolgerà per via telematica il 17 maggio. Le due automobili erano state pignorate nell’ambito della procedura civile intentata dagli avvocati Tabbia e Abate Zaro per conto dei genitori di Elena, in qualità di tutori dei quattro nipoti, dopo la dichiarazione di “indegnità” che il tribunale di Asti ha dettato a carico di Michele Buoninconti, per escluderlo dall’asse ereditario della moglie.

Elena Ceste, 37 anni, scomparve il 24 gennaio 2014 da Costigliole D’Asti dove viveva con il marito, Michele Buoninconti, e quattro figli. Il suo cadavere fu ritrovato il 18 ottobre successivo nel Rio Mersa, a pochi passi dall’abitazione. Il marito fu condannato a 30 anni con l’accusa di omicidio. Secondo quanto ricostruito dal Corriere della Sera, era stato il marito stesso, vigile del fuoco, a denunciare la sua scomparsa. Ai carabinieri aveva detto che il mattino del giorno della scomparsa di Elena, lui aveva accompagnato i bambini a scuola su richiesta della moglie. Al suo ritorno non l’aveva più trovata. Disse che il giorno prima gli aveva confidato di aver intrattenuto rapporti compromettenti via sms con un uomo e che era molto scossa.

L’uomo raccontò anche di aver trovato i vestiti e gli occhiali della donna nel cortile. Gli investigatori scandagliano la vita privata della donna, soprattutto i contatti sui social e i tabulati delle utenze in uso a Elena ma nulla venne trovato. Poi i sospetti ricaddero sul marito che in varie circostanze si era contraddetto cercando, in più occasioni, di porre in essere diversi tentativi di depistaggio.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La scomparsa, i dubbi e la morte: la storia di Elena Ceste. Elena Ceste scomparve il 24 gennaio del 2014. Qualche settimana dopo il suo corpo senza vita venne ritrovato: per la morte della donna il marito venne condannato a 30 anni di carcere. Francesca Bernasconi e Rosa Scognamiglio il 14 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La scomparsa

 Il ritrovamento del corpo

 Il marito sotto accusa

Era il 24 gennaio del 2014, una giornata come tante per la maggior parte degli abitanti di Costigliole d’Asti. Ma proprio quel giorno una terribile scoperta sconvolse la comunità: Elena Ceste, 37 anni e quattro figli, era scomparsa. Il suo corpo, senza vita, venne ritrovato giorni dopo, e il marito Michele Buoninconti fu accusato di omicidio e condannato a trent'anni di carcere. Le accuse: omicidio volontario e occultamento di cadavere.

Per la difesa le cose sarebbero andate diversamente: "Emerse subito un quadro riferibile a un allontanamento volontario della Ceste in preda a una crisi psicotica", ha dichiarato in un'intervista a ilGiornale.it la criminologa Ursula Franco. Ma la Cassazione ha confermato la sentenza di condanna per l'uomo.

La scomparsa

La mattina del 24 gennaio 2014 Elena Ceste era rimasta a casa mentre il marito Michele era uscito con i figli, per accompagnarli a scuola. Erano le otto. Poco tempo dopo, la donna era stata vista dai vicini nel giardinetto davanti alla propria abitazione. Il cancello era chiuso e lei aveva dato l'impressione di essere uscita di casa solo un momento, dato l'abbigliamento leggero che indossava: una maglietta a maniche corte. Nulla faceva presagire quello che sarebbe successo.

Dopo aver accompagnato i bambini a scuola, Michele si era recato in paese per alcune commissioni: secondo il suo racconto, prima sarebbe andato a chiedere informazioni sull'Imu, poi allo studio medico per documentarsi circa gli orari del dottore. L'uomo era stato ripreso dalla telecamera di sorveglianza della farmacia, poco prima delle 8.40. Secondo una tabella oraria redatta dai Carabinieri, sarebbe poi rientrato in casa alle 8.45.

Buoninconti disse di aver trovato, una volta tornato a casa, l'abitazione vuota e di aver visto sparsi a terra, nella porzione di giardino che va dalla porta al cancelletto, i vestiti della donna, il suo cellulare, i documenti e gli occhiali da vista. Ma di Elena nessuna traccia. Dopo aver contattato i vicini per chiedere aiuto, Michele sostenne di aver cercato la moglie nei dintorni della loro abitazione, per poi chiamare i parenti della donna e recarsi dai carabinieri, per denunciare la scomparsa di Elena Ceste.

Inizialmente una delle piste battute riguardò l'allontanamento volontario. Il marito dichiarò che proprio la sera prima di sparire Elena aveva manifestato i segni di un disagio psicologico, riferendo di aver ricevuto alcuni messaggi che la preoccupavano e di sentirsi sotto pressione. Secondo quanto riportò ai tempi Chi l'ha visto?, già nell'ottobre precedente la scomparsa, Elena avrebbe detto a una vicina di essere stata "tradita" da "una persona che credevo amica". Queste prime informazioni fecero pensare che la donna si fosse allontanata in preda a un delirio psicologico.

Successivamente anche lo psichiatra Elvezio Pirfo segnalò che la Ceste aveva avuto una crisi psicotica nei mesi precedenti la scomparsa, poi superata. Secondo la criminologa Ursula Franco, invece, "la Ceste manifestò un profondo disagio emotivo e pensieri ossessivi specifici con neppur troppo sfumate idee di riferimento".

Il ritrovamento del corpo

Per nove mesi la scomparsa di Elena Ceste rimase avvolta nell'ombra e la donna sembrò svanita nel nulla: nessuna traccia, nessun segno della sua presenza in qualche luogo lontano da Costigliole d'Asti, nessuna telefonata per rassicurare i propri famigliari. Nel frattempo si faceva strada anche l'ipotesi di istigazione al suicidio, formulata dalla procura di Asti. Ma la speranza che Elena Ceste fosse ancora in vita da qualche parte era ancora accesa nei familiari della donna, che rivolsero direttamente a lei un appello durante la trasmissione Chi l'ha visto?: "Elena, io e mamma ti aspettiamo. Dacci un segno che sei viva, questo è l’importante. Tutte le cose di sistemano".

Le speranze però si spensero il 18 ottobre dello stesso anno. Quel giorno, un cadavere in avanzato stato di decomposizione venne rinvenuto in un canale di scolo nei pressi del Rio Mersa, a pochi passi dall'abitazione della donna scomparsa. "Al termine di specifiche analisi condotte da un Istituto specializzato di Torino delegato al riguardo dall'Autorità giudiziaria inquirente - rese noto al tempo il comando provinciale dei carabinieri di Asti - è stato riscontrato che il Dna della signora Elena Ceste, scomparsa il 24 gennaio 2014 dalla propria abitazione di Costigliole d'Asti, è compatibile con quello del cadavere ritrovato il 18 ottobre scorso".

L'autopsia indagò le cause della morte della donna, riconducendole a un'asfissia. I medici però non stabilirono a cosa fosse dovuta l'asfissia, senza quindi specificare se Elena fosse morta per soffocamento o strangolamento. Vennero però escluse le ipotesi di avvelenamento e annegamento, oltre che le morti per colpo di arma da fuoco e da taglio. Il referto autoptico stabilì che "lo stadio evolutivo del processo trasformativo cadaverico è coerente con l’epoca della scomparsa della donna" e che il corpo rimase sempre "nel luogo ove furono rinvenuti i resti".

La psicosi, i vestiti e il marito: "Gli ultimi minuti di Elena Ceste"

Il marito sotto accusa

All'indomani del ritrovamento del corpo, il marito di Elena Ceste Michele Buoninconti venne iscritto nel registro degli indagati. L'ipotesi di reato era quella di omicidio volontario e occultamento di cadavere. Già nei mesi della scomparsa i Ris avevano operato perquisizioni e accertamenti nel garage della casa della famiglia Ceste, e sulle auto di cui disponeva il marito.

Le indagini portarono nel gennaio del 2015 all'arresto di Buoninconti. Che venne giudicato colpevole in primo grado dal gup di Asti e dalla Corte d'Assise di Appello di Torino: gli fu inflitta una pena di 30 anni di carcere. Dopo la richiesta di ricorso, il caso arrivò in Cassazione e, nel maggio 2018, la Corte confermò la condanna a 30 anni di reclusione per Michele Buoninconti. I giudici stabilirono che "la colpevolezza di Buoninconti è l’unica possibile lettura da dare allo svolgimento dei fatti". Secondo la ricostruzione fatta al tempo dalla Cassazione e fornita nelle motivazioni che accompagnarono la sentenza, "l’imputato commise il delitto e poi occultò il cadavere, compatibilmente con il falso alibi già predisposto", seguendo "una serie di azioni ben studiate, così da poter essere eseguite in continuità secondo una cadenza sul filo dei minuti"

L'uomo si è sempre dichiarato innocente e, secondo la difesa, le cose non sarebbero andate come stabilito dalle sentenze. "Elena Ceste è morta per assideramento - ha detto a ilGiornale.it la criminologa Franco - Le risultanze autoptiche e investigative pesano tutte sul piatto della bilancia dell’allontanamento volontario della Ceste, in preda a una crisi psicotica caratterizzata da allucinazioni uditive e da un delirio persecutorio. La mattina del 24 gennaio la Ceste si denudò e, mossa dal timore di essere portata via da casa, timore che costituiva l’essenza del suo delirio, prese un’iniziativa: scappò e si nascose ai suoi fantomatici persecutori in un tunnel di cemento del Rio Mersa, inconsapevole del fatto, a causa della sua condizione psichica che aveva viziato la sua capacità critica, che il freddo avrebbe potuto ucciderla".

Tre gradi di giudizio però hanno stabilito che Elena Ceste venne uccisa dal marito Michele Buoninconti, che nascose poi il corpo in un canale di scolo vicino casa, dove rimase fino al suo ritrovamento.

La psicosi, i vestiti, il marito: "Gli ultimi minuti di Elena Ceste". Elena Ceste scomparve da Costigliole d'Asti il 24 gennaio del 2014. Il cadavere fu ritrovato il 18 ottobre successivo nel Rio Mersa, a pochi passi dall'abitazione. Michele Buoniconti, il marito, fu condannato a 30 anni con l'accusa di omicidio. La criminologa a ilGiornale.it: "Perché non è andata come dicono". Rosa Scognamiglio il 24 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Il 24 gennaio del 2014 Elena Ceste, una donna di 36 anni, scomparve da Costigliole d'Asti. Il suo cadavere fu ritrovato il 18 ottobre successivo nel Rio Mersa, un canale di scolo distante pochi chilometri dall'abitazione dove lei viveva con il marito, Michele Buoniconti, e i quattro figli. L'uomo, un ex vigile del fuoco, fu condannato a 30 anni di reclusione con l'accusa di aver ucciso la moglie. Ma, nonostante la sentenza sia stata confermata sia in Appello che in Cassazione, c'è chi è convinto che le cose non siano andate così.

"Ho iniziato ad analizzare il caso all’indomani della scomparsa e, processando i racconti fatti in tv da parenti e conoscenti, era subito emerso un quadro riferibile a un allontanamento volontario della Ceste in preda a una crisi psicotica", racconta alla nostra redazione la criminologa Ursula Franco, che è stata la consulente della difesa di Buoninconti.

I giudici della corte d'appello di Torino hanno ipotizzato che la 36enne fu strangolata dal marito pur non potendo stabilire con certezza le cause del decesso. Secondo lei, come è morta Elena Ceste?

"Elena Ceste è morta per assideramento. Le risultanze autoptiche e investigative pesano tutte sul piatto della bilancia dell’allontanamento volontario della Ceste, in preda a una crisi psicotica caratterizzata da allucinazioni uditive e da un delirio persecutorio. La mattina del 24 gennaio la Ceste si denudò e, mossa dal timore di essere portata via da casa, timore che costituiva l’essenza del suo delirio, prese un’iniziativa: scappò e si nascose ai suoi fantomatici persecutori in un tunnel di cemento del Rio Mersa, inconsapevole del fatto, a causa della sua condizione psichica che aveva viziato la sua capacità critica, che il freddo avrebbe potuto ucciderla".

Quali sono gli elementi a suffragio dell'ipotesi di assideramento accidentale?

"Non solo lo stato dei resti della Ceste ma anche la posizione in cui sono stati ritrovati sono compatibili con un assideramento accidentale di un soggetto in preda a un disturbo psicotico. La Ceste non assunse una posizione fetale, non si rannicchiò in quanto era incapace di percepire il freddo a causa del suo disturbo psichico".

Come sarebbe entrata Elena nel Rio Mersa?

"La Ceste entrò nel letto del Rio Mersa da un varco nella vegetazione, raggiunse il tunnel di cemento e vi si nascose. Elena era stanca, non solo non aveva dormito la notte precedente all’allontanamento, ma era stremata dal delirio che aveva già cominciato a manifestarsi nel pomeriggio del giorno precedente. E proprio per questo, una volta sentitasi al sicuro, si addormentò. Lo stato soporoso e il coma subentrarono al sonno a causa dell’ipotermia e la portarono a morte. Una volta morta, la Ceste cadde a faccia in giù".

Il cadavere di Elena Ceste fu ritrovato, senza vestiti, in un canale di scolo nella campagna di Costigliole d'Asti. Per i giudici sarebbe stato Buoninconti a svestire la moglie, dopo averla strangolata. Per la difesa invece fu la Ceste a denudarsi decidendo di allontanarsi da casa volontariamente. Secondo lei, perché Elena si sarebbe spogliata?

"Non solo la seconda ipotesi è vera ma è l’unica plausibile. Il denudamento che Elena mise in atto e che precedette la sua fuga da casa rientra tra le anomalie del comportamento che possono manifestarsi nei soggetti psicotici (Dsm5). La scienza e la casistica parlano chiaro, esistono migliaia di foto e di video di soggetti psicotici che camminano per strada nudi. Una crisi psicotica non ha né orari né stagioni, e il distacco dalla realtà impedisce a chi ne è affetto di percepire il dolore, il freddo o il caldo".

Lo psichiatra Pirfo, che eseguì l'autopsia psicologica sul cadavere della Ceste, dedusse che la 36enne, nei mesi antecedenti alla scomparsa, aveva verosimilmente avuto una crisi psicotica. In base alla sua esperienza, possiamo affermare che Elena fosse un soggetto psicotico?

"Nei mesi che precedettero il suo allontanamento da casa, la Ceste manifestò un profondo disagio emotivo e pensieri ossessivi specifici con neppur troppo sfumate idee di riferimento, lo si evince dalle testimonianze di parenti e conoscenti. Il dottor Pirfo vi ha riconosciuto una crisi psicotica. Personalmente ritengo che quei pensieri ossessivi non possano essere equiparati a una vera e propria crisi psicotica, ma rappresentino invece i prodromi della crisi psicotica che colpì la Ceste tra il 23 e il 24 gennaio".

Quindi?

"In sintesi: secondo lo psichiatra Pirfo, quelli che io ho indicato come pensieri ossessivi persecutori erano invece i sintomi di una vera e propria crisi psicotica che la Ceste aveva poi spontaneamente superato. Ipotizziamo che abbia ragione il dottor Pirfo, ipotizziamo che in autunno Elena abbia avuto una prima crisi psicotica poi risoltasi spontaneamente: la casistica insegna che, soprattutto in un soggetto non sottoposto a terapia farmacologica, la crisi può ripresentarsi".

La mattina della scomparsa, il 24 gennaio 2014, Elena disse al marito di non portare i figli a scuola sostenendo che fossero controllati a vista da qualcuno. Erano fondate le sue paure?

"No. Le paure della Ceste, ovvero quella di essere portata via e il timore che le controllassero i figli, erano il frutto del suo convincimento delirante e il suo allontanamento fu proprio una risposta comportamentale a quel convincimento".

Secondo i giudici della corte d'appello di Torino, Elena e il marito stavano attraversando una crisi coniugale.

"Le risultanze investigative permettono di escludere che i coniugi Buoninconti abbiano mai attraverso una crisi coniugale. E, posto che, fortunatamente, i fatti accaduti sono immarcescibili, quella della crisi coniugale resterà in eterno un’ipotesi della procura non suffragata da prove".

Quali sarebbero state dunque le difficoltà coniugali?

"Le cosiddette 'difficoltà coniugali dipese dalle confidenze', le cosiddette 'problematiche di tale natura', non sono agli atti. Nessun testimone ha infatti mai consegnato a chi indagava alcunché che potesse lasciar intendere che nei mesi precedenti alla scomparsa di Elena si fosse incrinato il rapporto tra i due coniugi".

Elena raccontò al marito di averlo tradito?

"Elena non confidò a Michele di averlo tradito prima del pomeriggio del 23 gennaio e della notte tra il 23 e il 24 gennaio. E lo fece mentre era in preda al delirio. Per questo motivo Buoninconti non si preoccupò per eventuali tradimenti, si preoccupò invece per la salute psichica della moglie, tanto che al mattino, durante la colazione, si accordò con lei per condurla dal dottore e poi si recò allo studio medico per informarsi sugli orari di visita del sostituto. Testimone dell’accordo intervenuto tra i due coniugi durante la colazione fu la loro figlia più grande".

E poi?

"Aggiungo che la mancata 'crisi coniugale' è un dato cruciale che ci permette di escludere che Michele abbia premeditato di uccidere sua moglie. Ed escludere la premeditazione equivale a riconoscere che Buoninconti ha detto la verità sul fatto che Elena stava male. Perché escludere la premeditazione ci permette di escludere che Buoninconti si fosse recato dal dottore per depistare, e dunque Michele non può che essersi recato dal dottore perché Elena stava male. Aggiungo anche che i giudici del Tribunale del Riesame avevano escluso la premeditazione, una conclusione che avrebbe dovuto far implodere il castello accusatorio".

Quale era lo stato d'animo della 36enne nei giorni antecedenti alla scomparsa?

"Riguardo al 22 gennaio una teste ha dichiarato di aver avuto l’impressione che Elena avesse il magone, che avesse voglia di piangere, che avesse voglia di dirle qualcosa. Impressioni personali della teste, ma compatibili con uno stato di disagio psichico della Ceste".

Cosa raccontò la sorella di Elena agli inquirenti?

"La sorella ha invece riferito agli inquirenti di aver parlato con Elena la mattina del 23 gennaio, giorno precedente alla scomparsa, e che la stessa le aveva detto 'di avere problemi alla testa, tant’è che io chiedevo se si trattasse di mal di testa od altro e lei non riusciva a spiegarsi. Sembrava volesse dire qualcosa ma non riusciva ad esprimersi bene'. Quello appena descritto è uno stato pre-delirante detto wahnstimmung. In quei 'problemi alla testa' descritti dalla Ceste alla sorella, l’incapacità 'di spiegarsi' e di 'esprimersi bene' si può identificare il germoglio della crisi psicotica che la colpì poche ore dopo, crisi della quale fu testimone Michele Buoninconti nella notte tra il 23 e il 24 gennaio".

Poi c'è la testimonianza del papà della Ceste.

"Sempre riguardo al 23 gennaio il padre di Elena ha riferito di aver sentito per telefono la figlia e di averle chiesto di ricordare a Michele di accendere la caldaia della casa di Govone. Disse anche che lei lo aveva invitato a contattare direttamente il marito. Elena chiese al padre di rivolgersi direttamente al marito per dirgli di accendere la caldaia, perché aveva difficoltà a concentrarsi in quanto pensieri ossessivi persecutori le occupavano la mente, e temeva di non ricordarsi di dire al marito ciò che le aveva appena riferito il proprio padre. Questo episodio, alla luce degli eventi che lo precedettero e di quelli che lo seguirono, è la riprova che un disagio psichico affliggeva Elena già da quel 23 gennaio e non certo un segnale di incomunicabilità tra marito e moglie".

Cosa accadde poi?

"Sempre nel pomeriggio del 23 gennaio, Michele, invitato a rientrare in casa dall’orto da uno dei figli perché la mamma non stava bene, trovò la moglie accovacciata in terra con le mani in testa che piangeva e si lamentava di alcune persone che non la 'lasciavano stare', inviandole messaggi sul telefonino. Non solo il racconto di Michele è compatibile con la descrizione di una crisi psicotica, per quanto riguarda i contenuti del delirio persecutorio riferitogli da sua moglie, ma anche perché la descrive in una posizione classica dei pazienti in preda alle allucinazioni, una posizione raccolta, di difesa".

Secondo la ricostruzione dei giudici, Michele avrebbe strangolato Elena e gettato il cadavere in un fosso. Quindi sarebbe rientrato a casa con i vestiti della moglie fingendo di averli trovati nel cortile. Secondo lei, invece, cosa accadde quella mattina?

"L’analisi delle risultanze investigative permette di concludere senza ombra di dubbio che tra le 8.10 e le 8.15 del 24 gennaio 2014 Elena Ceste si allontanò da casa in preda a una crisi psicotica caratterizzata da allucinazioni uditive e da un delirio persecutorio".

E quindi, secondo lei, quale fu la successione esatta degli eventi?

"La mattina del 24 gennaio 2014, dopo la colazione, dopo aver accompagnato i bambini e il marito all’auto, Elena rientrò in casa, si tolse la giacca che Michele le aveva messo sulle spalle, premette il pulsante di apertura del cancello automatico e uscì di nuovo. Si tolse gli abiti in due tempi, prima le ciabatte e il maglione che lasciò sul tombino di fronte alla porta di casa, quindi si avvicinò al cancello per impedire che si chiudesse e finì di denudarsi. In pochi secondi attraversò la strada asfaltata, sì inoltrò nei campi per poche centinaia di metri, si nascose in un tunnel di cemento del Rio Mersa e vi trovò la morte per assideramento".

Come spiega che nessuno abbia visto Elena attraversare i campi?

"La strada asfaltata di fronte a casa Buoninconti-Ceste non è un’arteria maggiore di transito, è invece una strada minore di un’area periferica della cittadina di Costigliole d’Asti. Sfortunatamente nessun automobilista assisté alla fuga della Ceste nuda nei campi, in quanto nessuno passò dalla strada di fronte alla sua abitazione in quella manciata di secondi che le servirono per raggiungere la strada sterrata che si inoltra nei campi. Campi che, poiché era gennaio, non erano frequentati. Elena si allontanò nuda da casa dopo che la maggior parte dei suoi vicini erano già usciti per recarsi al lavoro o per accompagnare i propri figli a scuola e prima che rientrassero. Ecco perché nessuno di loro la vide. La Ceste si allontanò non appena Michele e i bambini se ne andarono, lo provano la testimonianza di R.R., che la vide mentre cominciava a denudarsi, e il fatto che non si occupò delle faccende domestiche. Michele, 35 minuti dopo, al suo ritorno, trovò la casa nelle stesse condizioni in cui l’aveva lasciata, i letti dei ragazzi ancora da rifare e le tazze della colazione ancora da lavare".

Ritiene sia possibile che Elena avesse 'premeditato la fuga'?

"Elena premeditava di scappare, lo aveva già annunciato al figlio più piccolo poco prima che lo stesso lasciasse l’abitazione con il padre e proprio mentre stavano rifacendo insieme il letto matrimoniale".

Cos'altro?

"Voglio precisare che non solo i resti della Ceste sono stati rinvenuti privi di lesività ascrivibile a una morte violenta e non propriamente occultati, ma anche a una distanza ridotta dall’abitazione. E che la causale connessa a asfissia è stata sostenuta dall’accusa e dai giudici nella più totale assenza di riscontri investigativi. Non solo non è stata repertata infatti sui resti della Ceste alcuna lesione di carattere traumatico, ma non è stata trovata traccia alcuna di un mezzo atto a cagionare uno strangolamento. Nei casi di strangolamento è frequente che si trovi ancora intorno al collo del cadavere il mezzo usato per portare a termine il delitto. E non è stato trovato neanche alcun segno di una colluttazione sul corpo di Buoninconti o nella casa di famiglia".

Poi?

"A tutto questo si aggiunga l’assenza di fango all’interno delle auto di Buoninconti, sulle sue scarpe e sui suoi abiti, l’assenza di graffi sul suo volto e sulle sue mani, che ci saremmo aspettati di trovare se avesse occultato il cadavere della moglie nel Rio Mersa, e l’assenza di reperti compatibili con il trasporto di un cadavere su una delle due auto in uso a Buoninconti".

Lei ha sempre creduto all'innocenza di Buoninconti. Perché?

"Bella domanda. Posso dirle che ho iniziato ad analizzare il caso all’indomani della scomparsa e che, processando i racconti fatti in tv da parenti e conoscenti, era subito emerso un quadro riferibile a un allontanamento volontario della Ceste in preda a una crisi psicotica. Inoltre era evidente che il vigile Michele Buoninconti non poteva essersi inventato la crisi psicotica che colpì sua moglie. Buoninconti non poteva infatti sapere che i soggetti in preda alle allucinazioni uditive si picchiano in testa per cacciarle, né avrebbe potuto riportare i contenuti di un delirio persecutorio se non per aver udito pronunciare certe frasi dalla moglie. E poi era emerso il dato cruciale del rinvenimento degli abiti della Ceste in cortile che supportava l’allontanamento volontario in preda a una crisi psicotica".

Ovvero?

"Quel rinvenimento confermava la crisi psicotica. Aggiungo che in quel rinvenimento non si può individuare uno 'staging', come sostenuto dalla procura. Lo 'staging' ha, infatti, regole ben precise: coloro che alterano una scena del crimine la 'preparano' affinché la vedano gli inquirenti o eventuali testimoni. Se Michele Buoninconti avesse ucciso la moglie e avesse optato per uno 'staging' dei suoi indumenti in cortile non li avrebbe poi rimossi prima che qualcuno li vedesse in terra".

Altri dettagli?

"Oltretutto, a che scopo Buoninconti avrebbe dovuto inventarsi di aver trovato gli abiti in due zone diverse del giardino? Solo Elena aveva ragione di lasciare i suoi vestiti in due zone diverse del giardino. Ella infatti, dopo essere rientrata in casa ed essersi tolta la giacca che Michele le aveva messo sulle spalle, premette il pulsante di apertura del cancello automatico, uscì di nuovo, si tolse prima le ciabatte e il maglione, che lasciò sul tombino di fronte alla porta di casa, quindi si avvicinò al cancello per impedire che si chiudesse e lì finì di denudarsi. Quella mattina Buoninconti raccolse gli abiti abbandonati da Elena in giardino e li mise in macchina perché sperava di ritrovare sua moglie e rivestirla".

Lo ha mai sentito o ci ha mai parlato in questi anni?

"Certo, di frequente. È un uomo consapevole di essere una vittima di un sistema incapace di riconoscere i propri errori. E non è l’unica vittima".

Ma anche la Cassazione ha confermato la condanna a 30 anni. Pensa che ci sarà mai una revisione del processo?

"Lo spero e posso affermare a ragion veduta che un processo di revisione non potrà che fondarsi proprio sull’alibi di Buoninconti per il presunto occultamento. È stata infatti ignorata dal consulente dell’accusa, dalla procura e da tutti i giudici che si sono occupati di questo caso la prova regina della estraneità ai fatti dell’indagato. In sintesi: proprio nei minuti in cui la procura ritiene che fosse al Rio Mersa a occultare il corpo di sua moglie, Michele Buoninconti si trovava di fronte al cancello della casa del vicino A.R. Un dato immarcescibile sorretto dai dati scientifici facilmente estrapolabili dai tabulati telefonici e dalle testimonianze dei vicini, soprattutto quella dello stesso A.R., che colloca Michele sotto casa sua alle 8.57.28, ovvero nel momento in cui sentì suonare sia il suo telefono fisso che il suo campanello di casa".

Libero De Rienzo, condannato a 8 anni il pusher/ Ma assolto per la morte dell’attore. Pubblicazione: Silvana Palazzo il 18.01.2023  su Il Sussidiario.net

Libero De Rienzo, il pusher che gli ha venduto droga è stato condannato a 8 anni di carcere, ma assolto dall’accusa di morte in conseguenza di altro reato

Mustafa Minte Lamin, il pusher cambiano di 33 anni considerato responsabile di aver venduto una dose di eroina fatale all’attore Libero De Rienzo, è stato condannato a 8 anni di carcere. Lo ha deciso il giudice monocratico di Roma, che lo ritiene colpevole per la detenzione e la cessione di droga. Invece è stato assolto dall’accusa di morte come conseguenza di altro reato. Il pm Francesco Minisci, titolare del fascicolo sulla morte dell’attore – deceduto a 44 anni d’overdose il 15 luglio 2021 nella sua abitazione di Roma in zona Madonna del Riposo -, aveva chiesto una condanna complessiva a 13 anni, di cui nove anni per la detenzione e la cessione della droga e 4 anni per l’accusa di morte come conseguenza di altro reato.

«Il 14 luglio Mustafa Minte Lamin ha ceduto l’eroina a Libero De Rienzo: vi è inoppugnabile riscontro della cessione alla luce della droga trovata a casa» dell’attore, ha spiegato il pm in aula nella sua requisitoria. «Libero De Rienzo era sano ed è morto a causa della droga assunta», ha aggiunto il pubblico ministero.

Libero De Rienzo morto aver assunto quantità importante di eroina”

Il pm ha ricostruito tramite i tabulati gli ultimi contatti e l’incontro durante il quale è avvenuta la compravendita di droga. La decisione di droga, avvenuta il 14 luglio 2021, «è solo l’ultima di una serie di cessioni passate, infatti, Lamin conosceva da prima l’indirizzo di De Rienzo», ha spiegato il pm. Infatti, il pusher era a conoscenza del fatto che l’attore era un consumatore abituale di sostanze stupefacenti, tanto che quando concordarono un appuntamento non fu necessario chiedere l’indirizzo. Inoltre, Mustafa Minte Lamin ha «ceduto eroina tossica e impura che ha causato l’evento morte». Le relazioni di medico legale ed esperto tossicologo sono chiare in tal senso: «De Rienzo morì non per patologie pregresse ma semplicemente per aver assunto una quantità importante di metaboliti della eroina». Per il pusher non è finita qui. L’uomo è accusato di aver ceduto droga, oltre che a Libero De Rienzo, anche ad altre cinque persone. Lo ha rilevato una minuziosa indagine dei carabinieri del nucleo operativo della compagnia di Roma San Pietro. Al processo Marcella Mosca, moglie e figli, avevano deciso di non costituirsi parte civile.

La storia di Livio Giordano: uccise l’amico per fare la bella vita e alla fine fu graziato. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2023.

Originario di Vinadio, gli piacevano il denaro e le auto. Giovanni Armando era un suo caro amico, ma fu ucciso il 28 novembre 1960 per i soldi della Posta

Difficile spiegare cosa potesse far sentire un reietto Livio Giordano, ragazzo sì di un paesino ai piedi delle Alpi, lontano dalle attrattive di città, ma figlio unico del macellaio di Vinadio, bel ragazzo, apparentemente spensierato e non indigente. 

Accudito dall’amore del padre e della madre, quando non erano impegnati in bottega, badava più che altro ai fondi per mantenere uno stile di vita da Gassmann del Sorpasso - che sarebbe stato girato in quei primi anni Sessanta di entusiasmo e boom economico. 

Cinema, locali notturni, ragazze, weekend fuori in automobile. Purtuttavia, Livio desiderava un’automobile più potente. Prima una Aurelia, poi una Alfa 1900. E il clima in casa, non era così disteso: i genitori, stirpe di lavoratori della Valle Stura, lamentavano le incessanti richieste di denaro e la scarsa voglia di aiutare in negozio. 

Tra i più cari amici d’infanzia di Giordano c’era Giovanni Armando, ragazzo diviso tra il lavoro e lo studio serale, giacché voleva diventare ragioniere. Viveva con la madre ed era gerente dell’ufficio postale in centro, per conto del quale custodiva pure le chiavi della cassaforte. Quando la sera del 28 novembre 1960 non rientrò a casa, la famiglia andò nel panico. 

La madre lo diede subito per morto, certa che qualcuno glielo avesse ammazzato; i carabinieri lasciarono in sospeso un’altra ipotesi, che fosse fuggito con le settantamila lire nella cassa facendo perdere le sue tracce. Ma per essere stata una fuga volontaria era molto strana: quella somma era un avanzo, siccome erano appena stati pagati stipendi a decine di dipendenti pubblici, comprese le forze dell’ordine. Se avesse voluto scappare con le tasche piene, lo avrebbe fatto qualche giorno prima. 

Dopo dieci giorni di interrogativi al vento, gli inquirenti puntarono dritti sull’amico dello scomparso, non credendo più all’ipotesi della fuga volontaria. Quel Giordano non li convinceva: sapevano di alcuni suoi traffici di contrabbando con la Svizzera e ritenevano il suo atteggiamento esageratamente spavaldo. Con la scusa di verificare il suo alibi, lo convocarono in caserma facendogli notare che la persona con cui sosteneva di aver passato la serata del 28 aveva negato di essere stata in sua compagnia. Con metodi che probabilmente oggi sarebbero ritenuti al di là della garanzia in favore dell’indagato, lo spinsero a confessare. Quando gli mostrarono il martello insanguinato che un passante gli aveva visto gettare nel fiume, abbassò le difese. 

Livio Giordano raccontò con calma e autocontrollo di aver attirato in una trappola l’amico Giovanni, chiedendogli di dargli una mano ad avviare l’automobile difettosa. Nell’autorimessa manipolò il cavo dell’acceleratore per coprire altri rumori, dopodiché prima gli sparò al petto, poi lo finì a martellate. Il piano era stato preordinato: una volta morto, l’Armando venne caricato nel bagagliaio e Giordano andò a cena fuori, con in tasca le chiavi dell’ufficio postale. Nottetempo lo svaligiò, sebbene pensasse di trovarci ancora i due milioni di lire delle paghe del mese. Poi si diresse verso un canale di scolo del forte albertino di Vinadio e ci gettò dentro il cadavere. E riprese la sua vita come se nulla fosse stato, con un’altra puntatina in Svizzera nel weekend e uno stupore artefatto al ritorno, davanti a parenti e amici, per la misteriosa scomparsa del responsabile delle poste. 

Il processo non narrò altro che una insensata, irrefrenabile bramosia di denaro. Giordano abbozzò una scusa, giurando di averlo voluto rapinare e non ammazzare ma mostrò di non nutrire alcun rimorso per la fine di un coetaneo col quale aveva diviso buona parte della gioventù. Una volta confermato l’ergastolo, confinato a Porto Azzurro, tentò di articolare le ragioni del massacro: «Smania di soldi e divertimenti. L’invidia per amici che stavano meglio di me e potevano godersi la vita. Adesso mi rendo conto che devo pagare il prezzo del mio delitto». Anche all’inviato di sessant’anni fa parve tutt’altro che affranto, semmai dispiaciuto di non essere riuscito a evitare “il pieno” (la pena massima, in gergo carcerario). 

In una manifestazione di fascinazione criminale mediatica ante litteram, una ragazza pugliese si innamorò a distanza del viso gentile di Giordano vedendolo in tivù e lo convinse a sposarla. Dopo quindici anni di cosiddetto matrimonio, si rese conto «di aver fatto una pazzia» e ottenne l’annullamento. Nel mentre, dopo un anno di pena e ancora in attesa di appello, il marito era evaso come nei fumetti, segando le sbarre della cella e calandosi dal tetto. 

Tornato a casa a fare il pieno di soldi, si era nascosto per tre giorni in giro tra Francia e Piemonte; lo catturarono all’uscita di un’osteria a Salmour, riconosciuto da un messo comunale che avvertì i carabinieri. «Fra due mesi scapperò di nuovo – disse – ho scoperto un sistema infallibile per evadere». 

Nel 1987, a quarantasette anni, il presidente Francesco Cossiga concesse la grazia a Livio Giordano con la collaborazione decisiva delle sorelle della vittima: nonostante faticassero a perdonarlo per il tradimento più profondo dell’amico, reputarono utile quel gesto per chiudere, almeno materialmente, la questione. Ad aspettarlo c’era ancora l’anziana madre, nel frattempo spostatasi a Demonte. Livio Giordano è morto nel sonno, nella sua casa di Vinadio, nel 2018. Mancava poco ai suoi ottant’anni. In paese si parla il meno possibile di un fatto che scosse alle fondamenta la città, tanto che coi giornalisti del tempo era solito fungere da portavoce il parroco, compresi i sopralluoghi al forte dove il corpo della vittima venne nascosto sperando che nessuno lo trovasse mai. Di Giovanni Armando resta una lapide, di fronte alla botola in cui fu gettato come un rifiuto, per un pugno di soldi.

Estratto dell'articolo di Lara Sirignano per corriere.it

[…] L’inchiesta sul suicidio di Alice Schembri , la diciassettenne, violentata e filmata da quattro amici quando aveva 15 anni e poi morta suicida nel 2017, apre scenari inattesi agli inquirenti. Oltre all’indagine per violenza sessuale e produzione di materiale pedo-pornografico, aperta dalla Dda di Palermo e dalla Procura dei minori del capoluogo (due dei presunti violentatori erano maggiorenni all’epoca dei fatti, altri due lo sono diventati dopo) si procede per tentata estorsione.

 Uno degli adolescenti coinvolti, che avrebbe avuto anche una relazione sentimentale con Alice, sarebbe stato protagonista di diversi video che lo immortalavano mentre faceva sesso con delle coetanee.

Il sospetto degli inquirenti è che il minore potrebbe aver tentato di ricattare le adolescenti, tra loro anche Alice, chiedendo denaro ed altro in cambio della mancata divulgazione dei filmati girati a insaputa delle protagoniste. […]

Estratto dell'articolo di Emanuela Audisio per “la Repubblica” il 17 febbraio 2023.

Lo abbiamo ancora ai piedi, sua Airness. Anche se è sceso a terra da un pezzo. Perché oggi che fa 60 anni non ci sono dubbi su quale star al mondo sia stata più capace di diventare icona, mito, prodotto. Un affascinante capitano Marvel che oltrepassava la barriera razziale, fantasia e realtà per bianchi e neri, uomo non solo da ghetto, ma da società contemporanea.

E di farci ancora ballare con lui ( The Last Dance ), pazienza se solo sul piccolo schermo, nelle terribili stagioni della pandemia, quando lo sport era fermo, senza fiato. […] E tra poco uscirà Air – La storia del grande salto , il film diretto da Ben Affleck, con protagonista Matt Damon che narra le vicende del manager che decise di puntare su Jordan come leggenda della cultura pop. In America tutti volevano essere come Mike […]. Essere come Mike in campo era impossibile: bellezza, creatività, inventiva. Estetica leggera. Stile. Nessuna forza di gravità: Jordan galleggiava. Floating , dicevano.

Fluttava. E infatti: sei titoli Nba, due ori olimpici (Los Angeles 1984 e Barcelona 1992), 5 volte Mvp, 14 All Star, miglior debuttante dell’anno ’85, l’unico della storia ad essere votato come miglior difensore e giocatore in assoluto nella stessa stagione. […]. Uno dei pochi ad aver vinto tre campionati consecutivi: 1.099 partite con almeno 20 punti, un cartone animato dedicato a lui, Space Jam , molte serie tv. E il passaggio da giocatore egoista a uomo-squadra.

 Si può essere incerti su chi sia il più grande tra Federer e Nadal, tra Pelé e Maradona, ma quando si tratta del giocatore più bravo a vendersi (brand e logo) resta Michael Jordan. La sua maglia numero 23 dei Chicago Bulls, indossata nell’ultimo titolo Nba nel 1998 è stata venduta da Sotheby’s per 10,1 milioni di dollari.

Quando giocò the last game aveva 40 anni, ora che manca dal parquet da 20 stagioni, non è un sopravvissuto, ma sempre più nome alla moda. «Air» è ancora cool, il suo brand e le sue scarpe sono un miracolo di longevità. Dicono che con i diritti (dal 5 al 10 per cento a paio) guadagni una cifra mostruosa: 5 miliardi di euro è stato l’incasso lordo per Nike nel 2022, quindi almeno 250 milioni per Jordan. […] . E per il suo compleanno ha regalato 10 milioni dollari all’associazione Make-a-Wish con cui collabora dall’89 e che si occupa di bambini malati terminali.

[…]Su una cosa però Jordan è stato surclassato […] da altri giocatori: sull’impegno sociale, sulla consapevolezza che una star sportiva può usare la sua fama per denunciare ingiustizie. A Kareem Abdul- Jabbar avevano bruciato la casa perché musulmano nero, a Tommie Smith inviato sacchi di merda per la sua protesta contro l’America, a Muhammad Ali avevano sparato alla porta di casa perché non voleva andare in Vietnam, a quell’hippy di Bill Walton avevano inviato l’Fbi per controllare cosa fumasse, ma Jordan no, […] E l’America lo coccolò quando un paio di ragazzacci neri gli uccisero il padre.

[…] Bravissimo a fare la linguaccia e a vendere scarpe, un po’ meno a protestare contro l’uccisione dei neri. Lui si è scusato per la sua ritrosia e per la frase infelice del suo disimpegno («Anche i repubblicani comprano sneakers »). Come a dire che il mercato non si turba. Il suo divorzio nel 2008 è stato tra i più cari: la moglie Juanita, che con lui aveva due figli e una figlia, ottenne 168 milioni di dollari dopo averlo fatto seguire per quattro anni da mr. Rizzo, famoso investigatore privato, che diede prova dei tradimenti. […]

L’uomo ha mimato in aula i momenti dell’omicidio. Omicidio Rosa Alfieri, il racconto agghiacciante del vicino di casa reo confesso: “Una voce mi ha detto di ucciderla”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 17 Febbraio 2023

Doveva ubbidire a delle voci che gli dicevano di uccidere. Pochi istanti, una sequenza agghiacciante di azioni, poi la morte di Rosa Alfieri, la 23enne di Grumo Nevano strangolata dal vicino di casa Elpidio D’Ambra, 31 anni, reo confesso di quel terribile delitto avvenuto senza un perché. Davanti alla Corte di Assise di Napoli (seconda sezione), ha iniziato il racconto dell’orrore mimando le azioni che si sono velocemente susseguite nel suo appartamento a Grumo Nevano, nella stessa palazzina dove Rosa abitava con la sua famiglia, di cui D’Ambra era un affittuario. L’uomo ha spiegato come ha trascinato la sua vittima in casa, prima di metterle le mani intorno al collo e ucciderla. Per ubbidire alle voci che gli dicevano: “uccidi lei oppure uccidiamo te”.

Tutto avvenne nelle prime ore del pomeriggio del 2 febbraio 2022. Come riportato dall’Ansa, ai Pm D’Ambra ha premesso di essere sotto effetto di farmaci psichiatrici e di soffrire di vuoti di memoria. Ricordava nitidamente però che quel giorno aveva assunto in un breve lasso di tempo un ingente quantitativo di droga, un grammo di cocaina e anche mezzo grammo di crack. Ed è proprio quest’ultima droga che, sostiene, gli avrebbe fatto perdere la testa.

Ha raccontato di aver convinto Rosa a entrare in casa sua con la scusa di volerle far vedere il contratto di locazione. Poi ha messo il braccio sinistro intorno al collo della ragazza come fanno i lottatori, e se l’è trascinata in casa. È stato allora che sono sopraggiunte le voci e il buio. “Quando mi sono ripreso – ha detto – ero a terra, con le mani intorno al collo di Rosa… capisco il dolore del padre di Rosa… chiedo scusa a voi… so che la famiglia non mi perdonerà mai. E hanno ragione, chiedo aiuto a voi e a Dio”, ha poi detto in lacrime.

D’Ambra ha anche avuto una reazione scomposta, nei confronti del pm, prontamente sedata dal suo avvocato e dal presidente Concetta Cristiano. L’istruttoria sarà chiusa il 28 marzo, giorno in cui il pubblico ministero farà la sua requisitoria. Le parte civili (l’avvocato della famiglia Alfieri Carmine Busiello e l’avvocato della Fondazione Polis Gianmarco Siani) discuteranno invece il 4 aprile. Il legale dell’imputato, l’avvocato Mattia Cuomo, il 12 aprile.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Elpidio D’Ambra e il ruolo della cocaina nel delitto di Rosa Alfieri. Viviana Lanza su Il Riformista il 5 Febbraio 2022

È prevista per questa mattina, davanti al gip del Tribunale di Napoli Nord (quinta sezione), l’udienza di convalida del fermo emesso dal sostituto procuratore Patrizia Dongiacomo nei confronti di Elpidio D’Ambra, il 31enne reo confesso dell’omicidio di Rosa Alfieri, vicino di casa della ragazza trovata senza vita a Grumo Nevano, in provincia di Napoli, martedì pomeriggio. D’Ambra, difeso dall’avvocato Dario Maisto, è stato fermato a ventiquattr’ore dal delitto nell’ospedale San Paolo del quartiere Fuorigrotta di Napoli.

Agli inquirenti, nel corso di un interrogatorio alla presenza del suo legale, ha ammesso di essere l’assassino di Rosa ma non ha confermato il movente legato a un presunto tentativo di violenza sessuale. Intanto le indagini continuano e colpiscono le dichiarazioni della mamma di D’Ambra che ai giornalisti ha raccontato di non poter difendere né comprendere il figlio: «È un mostro, non è mio figlio. Io sono con i genitori di Rosa», ha affermato disperata e distrutta da quanto accaduto.

D’Ambra ha dichiarato di aver sentito delle voci che lo avrebbero spinto ad uccidere Rosa. E per questo motivo il suo avvocato ha in serbo di chiedere una perizia psichiatrica per il suo cliente. Il 31enne ha inoltre ha dichiarato di essere un assuntore abituale di cocaina ma quel giorno avrebbe assunto la droga solo dopo l’omicidio. Il caso, però, non è ancora chiuso. Tra gli aspetti da chiarire c’è il ruolo del giovane al quale D’Ambra avrebbe consegnato le chiavi di casa poco dopo la fuga, colui che poi ha aperto l’uscio e trovato Rosa senza vita nel bagno.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (T

Da leggo.it il 29 ottobre 2022.  

È stata strangolata con una federa, Rosa Alfieri, la 23enne uccisa lo scorso primo febbraio nel mini appartamento del suo assassino, 31enne Elpidio D'Ambra, sotto processo davanti alla Corte di Assise di Napoli (presidente Concetta Cristiano). A confermarlo, oggi, durante l'udienza del processo, è stato il maresciallo dei carabinieri che entrò nella casa dove avvenne il delitto. 

Elpidio sottoposto a una perizia in carcere

D'Ambra, che venne riconosciuto, identificato e poi fermato dalla Polizia nell'ospedale San Paolo di Fuorigrotta, a Napoli è stato anche sottoposto a una perizia, in carcere che lo ha ritenuto sano di mente. Nel corso dell'udienza è anche emerso che D'Ambra venne arrestato in Spagna per violenza domestica.

Il sottufficiale dell'arma ha descritto ai giudici i luoghi del delitto, dove ha eseguito una perquisizione dopo il ritrovamento di Rosa da parte del padre, che riuscì a entrare nel mini appartamento di Epidio grazie a un amico di quest'ultimo, in possesso delle chiavi, che lì era stato mandato proprio da Elpidio per ritirare della droga. 

Il padre della vittima ne approfittò per fiondarsi nella casa dove trovò la figlia a seno scoperto e con i pantaloni "non in ordine". Il maresciallo ha anche detto che il padre di Rosa gli disse che per pudore le abbassò la maglietta: e così infatti il carabiniere l'ha trovata quando è giunto nel luogo del delitto.

Il carabiniere ha anche descritto le ricerche dell'imputato, da subito indicato come il probabile assassino della povera Rosa, che per ore però non diedero esito positivo. Com'è noto, infatti, l'individuazione di D'Ambra è legata a un video che ritrae l'assassino mentre acquista un gratta e vinci: il filmato è stato ripreso dalla telecamera di videosorveglianza del bar della stazione di Frattamaggiore-Grumo, dove l'uomo si era recato già una decina di minuti dopo aver commesso l'omicidio.

Grazie a quel video, e a un tassista, inizia la ricostruzione dei movimenti dell'omicida (reo confesso: proprio il conducente del taxi riferisce poi di avere accompagnato D'Ambra, tra l'altro, al Rione Traiano dove, verosimilmente, acquista della droga che poi gli provocherà quel malore che lo costringe a recarsi in ospedale dove viene riconosciuto. Oggi, nel corso dell'udienza, è stato anche ascoltato l'ufficiale dei carabinieri che ha coordinato le ricerche di D'Ambra. 

Il processo sull'omicidio della 23enne di Grumo Nevano. Rosa Alfieri strangolata con una federa, le parole del papà (“Era seminuda”) e la perizia: “E’ sano di mente”. Redazione su Il Riformista il 28 Ottobre 2022 

Rosa Alfieri è stata strangolata con una federa nell’appartamento che il papà aveva affittato a Elpidio D’Ambra, il 31enne reo confesso che avrebbe anche cercato di spogliarla stando a quanto emerso dal racconto del maresciallo dei carabinieri che entrò nel “basso“, lo scorso primo febbraio 2022, dove avvenne il delitto della 23enne che sconvolse la cittadina napoletana di Grumo Nevano.

Nel corso dell’udienza del processo che si sta celebrando davanti alla Corte di Assise di Napoli, il sottoufficiale ha descritto ai giudici il luogo dell’omicidio dove ha eseguito una prima perquisizione in seguito al ritrovamento, da parte del padre, del cadavere di Rosa. Il genitore riuscì infatti ad entrare nel “basso” grazie alle chiavi che aveva un amico di D’Ambra. Una volta dentro – così come riporta l’agenzia Ansa – trovò la figlia a seno scoperto e con i pantaloni ‘non in ordine’. Il maresciallo ha anche detto che il padre di Rosa gli disse che per pudore le abbassò la maglietta: è così infatti che i carabinieri l’hanno trovata all’interno dell’appartamento.

D’Ambra è stato definito “sano di mente” in seguito alla perizia psichiatrica a cui è stato sottoposto in carcere dopo la richiesta del suo legale Dario Maisto. Venne arrestato il giorno dopo l’omicidio dopo essersi allontanato da Grumo Nevano con un treno partito dalla stazione e arrivato a Napoli centrale. Da lì la corsa in taxi verso il Rione Traiano dove, verosimilmente, ha acquisto della droga che gli ha poi provocato un malore che l’ha costretto a richiedere l’assistenza dei medici del pronto soccorso dell’ospedale San Paolo di via Terracina, dove è stato riconosciuto e arrestato.

D’Ambra ha sempre dichiarato di aver agito dopo aver sentito delle voci nel cervello che gli dicevano di uccidere la ragazza. Ha negato di aver abusato della 23enne così come emerso anche dall’autopsia che ha riscontrato i segni di una colluttazione e di strangolamento ma non di una violenza sessuale. Il 31enne in passato venne arrestato in Spagna per violenza domestica. 

Rosa, strangolata a 24 anni: scatta la caccia al vicino di casa. Raffaele Sardo La Repubblica il 2 febbraio 2022.  

Grumo Nevano, ragazza uccisa nell'abitazione di un giovane: l'aveva presa in fitto dal padre della vittima appena due settimane fa. La disperazione del genitore: "E pensare che sono stato proprio io a portarlo nel nostro palazzo di via Risorgimento..."

Ancora una donna uccisa. Ancora un delitto efferato. Stavolta la vittima è una giovane di Grumo Nevano, Rosa Alfieri, di 24 anni. La ragazza è stata trovata morta a Grumo Nevano nel tardo pomeriggio in casa di un vicino nell'edificio dove abitava, in via Risorgimento 1, non lontano dall'ufficio postale.

Il femminicidio di Grumo Nevano. Rosa strangolata a 24 anni, è caccia al vicino di casa. Il dolore del papà: “Sono stato io a portarlo nel palazzo…” Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Febbraio 2022. 

La caccia all’uomo è proseguita tutta la notte e non si è fermata neanche questa mattina. Sono ancora in corso infatti le ricerche del 31enne sospettato di aver ucciso nel pomeriggio di ieri, martedì primo febbraio, la 24enne di Grumo Nevano (Napoli) Rosa Alfieri.

La ragazza è stata trovata priva di vita all’interno dell’appartamento al piano terra della palazzina dove viveva con i genitori e il fratello in via Risorgimento. A fare chiarezza sull’omicidio sarà l’autopsia, ma dai primi rilievi pare certo che il killer di Rosa l’abbia strangolata, con una sciarpa o forse un asciugamano, dopo le avance e un presunto tentativo di violenza sessuale da parte del 31enne a cui la famiglia Alfieri aveva fittato due settimane prima l’appartamento.

Lo stesso, dopo l’omicidio, si è dato alla fuga ed è ancora irrintracciabile. A fare la drammatica scoperta è stato il genitore della giovane che non riusciva a mettersi in contatto con la figlia: ha quindi sfondato la porta dell’appartamento al piano terra trovando la figlia Rosa a terra, ormai priva di vita.

Sul posto sono accorsi i carabinieri della Compagnia di Giugliano e un’ambulanza del 118, ma i sanitari non hanno potuto fare altro che constatare il decesso della giovane.

“Chi l’avrebbe mai immaginato una cosa del genere. E pensare che sono stato proprio io a portarlo nel palazzo“, avrebbe detto il padre di Rosa, scoppiato in lacrime, ad alcuni vicini, racconta Repubblica.

Il femminicidio

Secondo una prima ricostruzione dei fatti Rosa era da poco tornata a casa, nella palazzina di famiglia in via Risorgimento, dopo aver trascorso alcune ore nella tabaccheria del fidanzato distante poche centinaia di metri, al quale era legata da meno di un anno.

Una volta nel palazzo Rosa sarebbe stata attirata nella casa affittata al 31enne, anche lui di Grumo Nevano, con un pretesto. Dopo aver rifiutato le avance dell’uomo, quest’ultimo l’avrebbe immobilizzata e strangolata: sul corpo di Rosa infatti non vi sono evidenti ferite di arma da fuoco o da lame, ma segni attorno al collo. Non è chiaro se la 24enne abbia subito anche violenze sessuale: a fare luce su questo sarà l’autopsia, con la salma già trasferita all’istituto di Medicina legale dell’ospedale San Giuliano di Giugliano (Napoli).

Dopo l’omicidio il 31enne si è allontanato dal palazzo dandosi alla fuga, con le ricerche ancora in corso.

Forze dell’ordine che hanno anche dovuto placare gli animi bollenti della folla che già nel pomeriggio di ieri si era radunata davanti la palazzina in cui è avvenuto il femminicidio. Si era infatti diffusa la notizia, priva di fondamento, che il delitto di Rosa fosse stato commesso da alcuni pachistani: sui social c’era anche chi evocava una “rappresaglia” nei confronti degli immigrati, per fortuna non realizzata.

Il dolore

In città il dolore e lo sgomento per l’omicidio di Rosa sono forti. “Un dolore immenso, il lutto della famiglia della giovane donna è il dolore dell’intera comunità cittadina“, spiega il sindaco di Grumo Nevano, Gaetano Di Bernardo.

“Nelle prossime ore – prosegue il primo cittadino – con la giunta decideremo le iniziative per essere concretamente vicini alla famiglia. Siamo sconvolti. Qui ci conosciamo quasi tutti ed il dolore delle famiglie coinvolte è il nostro dolore“.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

L'uomo è sospettato dell'omicidio della 23enne. Omicidio Rosa Alfieri, fermato Elpidio D’Ambra: era in ospedale a Napoli. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.

E’ stato fermato nel pomeriggio di mercoledì 2 febbraio Elpidio D’Ambra, 31 anni, sospettato di aver ucciso Rosa Alfieri, la 23enne trovata senza vita all’interno di un’abitazione a Grumo Nevano. La notizia è stata confermata poco dopo le 18.30 dai carabinieri del Comando Provinciale di Napoli. L’uomo è stato intercettato da una volante della polizia all’ospedale San Paolo di Fuorigrotta, a Napoli, dopo la segnalazione di uno dei sanitari che lo aveva riconosciuto grazie alle foto segnaletiche diffuse in rete.

Ulteriori dettagli verranno forniti nelle prossime ore. D’Ambra avrebbe accusato un malore durante la fuga e nel pomeriggio si è presentato all’ospedale di via Terracina, nel quartiere flegreo. Poco dopo sono sopraggiunti anche i carabinieri, che procedono nelle indagini, che hanno notificato all’uomo un  provvedimento di fermo, emesso dalla procura di Napoli nord, per omicidio volontario.

“L’hanno preso?”. E’ quello che chiedevano da stamane con insistenza i cittadini di Grumo Nevano, comune in provincia di Napoli, ai giornalisti presenti all’esterno della palazzina di via Risorgimento dove nel pomeriggio di ieri, martedì 1 febbraio, è stato trovato il corpo senza vita della 23enne Rosa Alfieri. A  24 ore dal ritrovamento si sa poco o nulla su quanto avvenuto nell’abitazione al piano terra affittata dal papà della giovane vittima all’uomo attualmente ricercato dai carabinieri. La fuga di Elpidio D’Ambra, 31 anni, sospettato di aver strangolato e ucciso Rosa, è durata 24 ore. Si è allontanato a piedi dalla palazzina dove viveva la famiglia di Rosa e dove si era trasferito da poco più di dieci giorni. Non si esclude che possa essere stato aiutato da qualcuno durante la fuga.

Di lui al momento si sa poco o nulla. Ha vissuto per un periodo in Spagna dove ha collezionato una serie di reati contro il patrimonio. E’ definito da alcuni cittadini del comune napoletano “una testa calda” ma stando a quanto appreso dai carabinieri in Italia non aveva precedenti. Era ritornato a vivere a Grumo Nevano dopo la parentesi in Spagna e di recente aveva fatto richiesta anche di residenza. Viveva inizialmente con la madre ma, stando a quanto emerso in queste ore, aveva deciso di andare a vivere da solo perché i rapporti con la famiglia non erano idilliaci. La stessa madre è stata avvicinata in queste ore da diversi cronisti ma ha preferito non rilasciare dichiarazioni.

D’Ambra è sospettato di aver ucciso Rosa strangolandola con l’aiuto di un panno. Non è chiaro se in precedenza avesse tentato di avere un rapporto sessuale con lei. Così come non è chiaro se i due si conoscevano, circostanza che avrebbe spinto la 23enne a fidarsi dell’uomo ed entrare in casa, o se Rosa sia stata trascinata all’interno dell’abitazione con la forza o con una scusa considerato che D’Ambra era da pochi giorni il nuovo inquilino del palazzo di famiglia.

A trovare il corpo senza vita di Rosa è stato il papà, che ha una azienda tessile nel vicino comune di Frattamaggiore, preoccupato perché la figlia non rispondeva al cellulare che squillava dall’interno. (Rosa era uscita di casa poco prima delle 17 per andare dal fidanzato che gestisce un tabacchi, insieme al genitore, sempre in via Risorgimento). L’uomo ha forzato la porta d’ingresso e una volta dentro ha trovato all’altezza del bagno (e non nel letto come inizialmente trapelato, ndr) il corpo senza vita della 23enne. Non aveva nessun fazzoletto in bocca ma c’era un panno utilizzato probabilmente dal 31enne per strangolarla. Dopo la terribile scoperta, il papà di rosa è corso in strada per chiedere aiuto. Alcuni testimoni, intervistati anche dal Riformista, hanno sottolineato che l’uomo si disperava soprattutto perché “sono stato io ad affittargli la casa”. 

Saranno tuttavia gli approfondimenti investigativi dei carabinieri della compagnia di Giugliano, coordinata dalla procura di Napoli nord, a far luce sulla dinamica di quanto accaduto. Sul corpo, da un primo esame medico, non sarebbero stati riscontrati segni di violenza. Intanto la salma della giovane vittima è stata trasferita all’istituto di Medicina legale dell’ospedale San Giuliano di Giugliano (Napoli) per gli accertamenti medico-legali e per l’autopsia, disposta dal magistrato di turno della procura di Napoli nord. Saranno proprio queste verifiche a cristallizzare le cause del decesso di Rosa così come eventuali violenze, anche di natura sessuale, subite.

Intanto all’esterno del palazzo della famiglia Alfieri sono stati lasciati diversi fasci di fiori bianchi e diversi messaggi. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso

Preso l'assassino di Rosa: "Le ha teso una trappola e ha tentato di stuprarla". Stella Cervasio su La Repubblica il 03 febbraio 2022.

Il 31enne, vicino di casa della vittima a Grumo Nevano, è stato riconosciuto all'ospedale San Paolo dove era andato dopo una notte all'addiaccio.

Grumo nevano - È finita dopo circa 24 ore, intorno alle 18 di ieri, la fuga di Elpidio D'Ambra, il trentunenne maggiore indiziato dell'omicidio di Rosa Alfieri, la ragazza di 24 anni di Grumo Nevano. I carabinieri della compagnia di Giugliano l'hanno fermato nell'ospedale San Paolo di Fuorigrotta, dove girovagava chiedendo di essere soccorso dopo aver trascorso una notte difficile ed essersi cambiato i vestiti e liberato del cellulare.

Da tgcom24.mediaset.it il 3 febbraio 2022.

"Ho sentito delle voci che mi dicevano di agire e l'ho fatto". Così Elpidio D'Ambra, ha confessato l'omicidio di Rosa Alfieri, la ragazza trovata senza vita nell'abitazione di Grumo Nevano (Napoli) dove l'uomo viveva. D'Ambra ha però negato di aver compiuto violenze sessuali sulla donna. La giovane è stata trovata strangolata nell'appartamento di proprietà del padre della vittima che lo aveva dato in affitto a D'Ambra. Il 31enne è accusato di omicidio volontario.

La ricostruzione dell'omicidio

D'Ambra ha raccontato di avere invitato la ragazza ad entrare nel suo appartamento per chiederle informazioni sulle bollette della corrente. A questo punto, ha detto ancora l'uomo, ha sentito "delle voci nella sua testa che gli dicevano di agire". Per questo motivo avrebbe ucciso Rosa. Agli inquirenti ha negato di avere fatto delle avances e anche le presunte violenze nei confronti della giovane. Ha ammesso però di essere un consumatore abituale di cocaina, che aveva consumato anche il giorno dell'omicidio. 

D'Ambra aveva una compagna dalla quale si era separato tempo fa e da allora viveva da solo. Svolgeva saltuariamente lavori di muratura. Il 31enne ha anche confermato di essersi intrattenuto a colloquio con i genitori della ragazza, che a lui si erano rivolti chiedendo se l'avesse vista, dopo che l'aveva uccisa.  

La fuga e il fermo.

Dopo l'omicidio D'Ambra si era poi dato alla fuga. Nel tardo pomeriggio di mercoledì si era recato nell'ospedale San Paolo, tra i quartieri Fuorigrotta e Bagnoli di Napoli, per farsi visitare verosimilmente per le sue precarie condizioni dopo avere trascorso, probabilmente, le ultime 24 ore in strada. Due agenti che si trovavano nell'ospedale per motivi di servizio lo hanno riconosciuto e bloccato grazie alle foto segnaletiche diffuse dai carabinieri a tutte le forze dell'ordine.

La cugina della vittima: "Ha tentato di stuprarla, graffi sul collo lo dimostrano" - "Io so che è stato un tentato stupro, almeno per quello che so ora, poi dopo l'autopsia saranno accertate le informazioni. So che sono stati trovati dei graffi sul viso o sul collo di mia cugina che sarà stata lei stessa a farsi tentandosi di difendersi. Io so che è stata strangolata con un foulard o una sciarpa e lei avrà provato a toglierla". Lo ha detto la cugina di Rosa Alfieri parlando con i giornalisti.

La 23enne strangolata a Grumo Nevano. “Elpidio non è più mio figlio, non voglio più vederlo”, il dolore della madre del reo confesso dell’omicidio di Rosa Alfieri. Vito Califano su Il Riformista il 4 Febbraio 2022. 

La madre di Elpidio D’Ambra non vuole più sapere niente del figlio. Il 31enne ha confessato l’omicidio di Rosa Alfieri, 23enne di Grumo Nevano, in provincia di Napoli, strangolata nella palazzina dove entrambi vivevano. A fittargli l’appartamento dove il corpo della ragazza è stato ritrovato era stato il padre della vittima, proprietario. “Quello non voglio più vederlo. Non è più mio figlio”, le parole di Cristina Salas riportate dall’Ansa. Il delitto ha sconvolto la comunità. D’Ambra, accusato di omicidio volontario, si trova al carcere di Poggioreale.

Il 31enne muratore ha confessato l’efferato delitto. “Sentivo voci nella testa”, ha raccontato anche al pm dopo averlo raccontato mercoledì scorso a un infermiere dell’Ospedale San Paolo che lo aveva accolto al triage e lo aveva riconosciuto dopo aver visto le foto circolare sui siti. Così era stato rintracciato, dopo quasi 24 ore di fuga. Era andato a Frattamaggiore dove aveva preso un treno per Napoli. Alla Stazione Centrale aveva preso la vecchia metropolitana per arrivare a Fuorigrotta e un taxi per il Rione Traiano dove ha comprato della cocaina. È andato in ospedale perché “sentiva le voci”.

D’Ambra rischia l’ergastolo. Ha ricostruito nel lungo interrogatorio notturno come abbia fatto entrare la ragazza in casa per chiederle informazioni sulle bollette. L’ha trascinata in casa, al piano terra di via Risorgimento mentre i familiari di Rosa erano al piano di sopra e il fidanzato Luigi fuori al portone. Quando questi hanno cominciato a cercare la 23enne ha detto di non averla vista. Il corpo è stato trovato solo ore più tardi: Vincenzo Alfieri, padre della vittima, ha notato un ragazzo che con le chiavi si dirigeva verso l’appartamento di D’Ambra.

L’amico ha raccontato di dover recuperare degli oggetti. Quando ha aperto la porta il padre ha intravisto nell’ingresso la borsa della figlia. E quando è entrato ha trovato il corpo riverso a terra con uno straccio intorno al collo. Il ragazzo arrivato in casa di D’Ambra ha fatto perdere le sue tracce e la sua posizione è al vaglio degli inquirenti. Il reo confesso ha detto di non essersi costituito subito perché era “spaventato”. Un taxista ha telefonato al 113, raccontando di averlo riconosciuto e di averlo accompagnato a comprare dei vestiti nuovi. L’autopsia non è stata ancora fissata: soltanto l’esame potrà accertare se la vittima sia stata abusata sessualmente. Il 31enne ha ammesso l’omicidio ma negato lo stupro.

“Io sto con il dolore della famiglia della povera Rosa”, ha aggiunto la madre del ragazzo arrestato. Non ha nominato alcun avvocato di fiducia per il figlio che è difeso da un legale d’ufficio, Dario Maisto, che ha fatto sapere chiederà una perizia psichiatrica. “Non lo conosco, non so più chi è, non mi appartiene, non ci ho parlato, non voglio più chiamarlo”. Per l’avvocato della famiglia Alfieri, Carmine Biasiello, il 31enne era invece perfettamente lucido e capace di intendere e di volere. Domani quasi certamente l’udienza di convalida del fermo. La data dei funerali sarà stabilita in base alla calendarizzazione dell’esame autoptico. La salma è stata trasferita all’istituto di Medicina legale dell’ospedale San Giuliano di Giugliano (Napoli) per gli accertamenti. Il sindaco Gaetano Di Bernardo ha fatto sapere che per quel giorno proclamerà il lutto cittadino. Una strada sarà intitolata a Rosa Alfieri.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Il femminicidio di Grumo Nevano. Omicidio Rosa Alfieri, la ‘confessione’ di Elpidio: “Non ero in me, comprato cocaina per dimenticare”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 5 Febbraio 2022.  

L’ha uccisa perché le voci nella testa gli “dicevano cosa fare”, trascinandola dentro l’appartamento che la famiglia di lei gli aveva fittato una decina di giorni prima. Poi è scappato e ha assunto cocaina “per dimenticare quello che era successo” quel pomeriggio di martedì primo febbraio. 

È il racconto di Elpidio D’Ambra, il 31enne di Gruno Nevano fermato per l’omicidio di Rosa Alfieri, la 23enne strangolata nella palazzina di via Risorgimento dove entrambi vivevano. Parole scritte nel verbale di tre pagine redatto nel commissariato di Bagnoli, dove il 31enne era stato portato nel tardo pomeriggio di mercoledì dopo il fermo avvenuto nell’ospedale San Paolo di Napoli.

Parole, quelle sulle voci nella testa, che spingeranno gli avvocati difensori Dario Maisto e Mirko Argenzio a dipingere D’Ambra come un uomo tormentato da demoni interiori, incontrollabili: da qui la richiesta, nel corso dell’udienza di convalida svoltasi oggi, di una perizia psichiatrica per dimostrare l’incapacità di intendere e di volere. Per l’avvocato della famiglia Alfieri, Carmine Biasiello, il 31enne era invece perfettamente lucido e capace di intendere e di volere

“Elpidio non è più mio figlio, non voglio più vederlo”, il dolore della madre del reo confesso dell’omicidio di Rosa Alfieri

Ma dal racconto di Elpidio emerge anche l’efferatezza del gesto: “Ho visto Rosa passare davanti alla porta del mio appartamento. L’ho fatta fermare con la scusa di chiederle informazioni su certi documenti. A quel punto ho sentito le voci che mi dicevano di ucciderla perché, altrimenti, loro avrebbero ammazzato me nel sonno. L’ho afferrata da dietro per il collo e l’ho trascinata dentro l’appartamento. Siamo caduti entrambi a terra. Abbiamo sbattuto sulla porta a soffietto che si è rotta. Le ho messo le mani al collo e l’ho strozzata. Poi ho trascinato il suo corpo in bagno e le ho messo il bavaglio in bocca. Avevo paura che potesse urlare, anche se pensavo fosse morta”, sono le sue parole, riportate oggi da Repubblica. 

I demoni nella testa forse dovuti ad anni di cocaina, spingono il 31enne a dire che in quei momenti “non ero io, e con questo intendo dire che era come se fossi obbligato da qualcun altro a fare quello che stavo facendo”.

Se durante l’omicidio non era in sé, D’Ambra dimostra ben altra lucidità nei momenti successivi, quando il padre di Rosa va a bussare alla porta al pian terreno: “C’erano persone che bussavano alla porta, così ho trascinato il corpo in bagno per impedire di vedere a chi era fuori. Ho aperto la porta, ho detto che mi stavano disturbando e poi, preso dal panico, mi sono allontanato”.

Qui inizia un lungo girovagare, durato praticamente un giorno. Da Grumo Nevano va a Frattamaggiore e sale su un treno in direzione Napoli. Nella zona della Stazione Centrale prima compra in un negozio scarpe, pantaloni e un giubbino, quindi con un taxi si fa portare al Rione Traiano dove acquista 3 grammi di cocaina. La notte la passa in strada senza dormire, quindi nel pomeriggio di mercoledì si reca all’ospedale San Paolo: “Ho iniziato a sentire di nuovo le voci. Avevo un fortissimo mal di testa, mi hanno dato un calmante. Volevo essere visitato da uno psichiatra, ma invece sono arrivati i poliziotti e mi hanno portato via”.

“Io sto con il dolore della famiglia della povera Rosa”, ha detto la madre di Elpidio. “Quello non voglio più vederlo. Non è più mio figlio”, le parole di Cristina Salas riportate dall’Ansa. 

Nel corso dell’interrogatorio il 31enne, che era tornato in Italia dalla Spagna, dove aveva scontato quattro anni per rapine e furti, ha spiegato di non aver aggredito la ragazza per abusare di lei: “Conoscevo Rosa perché era la mia vicina di casa e ogni tanto mi ha aiutato a meglio comprendere dei documenti per la casa, tipo contratti delle utenze. In totale abbiamo parlato un paio di volte, ma quando passava davanti alla mia porta ci salutavamo cordialmente”.

Ora Elpidio D’Ambra è in carcere: il gip ha infatti convalidato nell’udienza tenuta oggi nel penitenziario di Poggioreale il fermo, disponendo la custodia cautelare in carcere per omicidio volontario aggravato dai futili motivi. Gli atti adesso saranno trasferiti a Napoli Nord, procura competente per il reato.

Martedì 8 febbraio si terrà invece all’ospedale San Giuliano di Giugliano l’esame autoptico sulla salma di Rosa: le esequie dovrebbero essere previste per il giorno successivo, mercoledì, presso la basilica di San Tammaro di Grumo Nevano. Ad officiarle sarà il vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, insieme con i quattro parroci della città. Il sindaco Gaetano Di Bernardo ha fatto sapere che per quel giorno proclamerà il lutto cittadino. Una strada sarà intitolata a Rosa Alfieri.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Da tgcom24.mediaset.it il 6 febbraio 2022.  

Elpidio D'Ambra, dopo aver strangolato la 23enne Rosa Alfieri, scappò da Grumo Nevano (Napoli). Si disfece degli abiti, del cellulare e comprò anche un "Gratta e vinci" durante la sua fuga durata quasi 24 ore. L'uomo ha confermato, davanti al giudice per le indagini preliminari, di aver ucciso la sua vicina di casa. 

Come riferito durante l'interrogatorio reso al pm subito dopo l'arresto, D'Ambra ha ammesso di aver fatto entrare la ragazza a casa sua per chiederle informazioni sulle bollette ma ha negato di aver tentato di violentarla. Questa versione è contestata però dalla famiglia della vittima, visto che Rosa fu rinvenuta nell'abitazione del 31enne con i seni scoperti.

Il giudice ha disposto la custodia cautelare in carcere per omicidio volontario aggravato dai futili motivi. D'Ambra con il "Gratta e vinci" voleva probabilmente tentare una vincita per poi far perdere le sue tracce. Tutto inutile visto che, poi, fu catturato all'ospedale San Paolo, a Napoli, dove era andato perché stanco per le ore all'addiaccio. Alora l'uomo, alla vista degli agenti, tentò di evitare l'arresto. Si nascose infatti dietro una parete ma fu notato dai poliziotti.

Martedì, nell'ospedale San Giuliano di Giugliano (Napoli), si terrà l'autopsia sulla salma di Rosa. Le esequie, invece, sono previste per mercoledì nella basilica di San Tammaro di Grumo Nevano.

I primi esiti dell'autopsia. Rosa Alfieri è stata strangolata, escluse violenze sessuali: i funerali della 23enne di Grumo Nevano. Giovanni Pisano su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

Prima di essere uccisa, Rosa Alfieri non avrebbe subito violenze di natura sessuale. E’ quanto emerge dai primi esiti dell’autopsia eseguita nella giornata di martedì 8 febbraio all’ospedale San Giuliano di Giugliano in Campania (Napoli). Per l’omicidio della 23enne, trovata senza vita nel pomeriggio del primo febbraio scorso in un’abitazione a Grumo Nevano, è stato fermato Elpidio D’Ambra, 31 anni. L’uomo, rintracciato 24 ore dopo in stato confusionale all’ospedale San Paolo di Fuorigrotta, a Napoli, ha confessato l’omicidio ma ha sostenuto dal primo istante di non aver commesso alcuna violenza sessuale.

“Sentivo delle voci e l’ho uccisa” ha raccontato ai pm della procura di Napoli nord e ai carabinieri della compagnia di Giugliano che procedono nelle indagini, oltre che al gip che ha convalidato il fermo. Dall’autopsia sono emersi, infatti, i segni di una colluttazione e di strangolamento. Eseguiti inoltre specifici esami (una tac) e prelievi per accertare in maniera inequivocabile la presenza o meno di traumi anche frutto di eventuali violenze sessuali.

Intanto mercoledì 9 febbraio alle 11 nella basilica di San Tammaro di Grumo Nevano si svolgeranno i funerali di Rosa. A celebrarli monsignor Angelo Spinillo, vescovo di Aversa (Caserta), insieme con i quattro parroci della città. Il sindaco di Grumo, l’avvocato Gaetano Di Bernardo, ha proclamato il lutto cittadino: è stato sospeso il mercato settimanale e i negozi resteranno chiusi tra le 10,30 e le 12,30. Annunciata anche la partecipazione dei primi cittadini di Frattamaggiore, Frattaminore, Crispano e Casandrino.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

"Le donne non sono cani da portare a spasso". Femminicidio Rosa Alfieri, la lezione dei bimbi al funerale: a scuola messaggi e disegni contro la violenza sulle donne. Francesca Sabella su Il Riformista il 10 Febbraio 2022

È il giorno dell’addio, dell’ultimo saluto a Rosa Alfieri, la 23enne uccisa a Grumo Nevano. Mentre per il suo assassino reo-confesso, Elpidio D’Ambra, si fa strada la possibilità di una perizia psichiatrica, la basilica di San Tammaro Vescovo è gremita sia dentro che fuori. Sono un migliaio le persone che abbracciano per l’ultima volta Rosa e si stringono intorno al dolore di mamma Nicoletta e papà Enzo. «Un male inspiegabile» ha detto il vescovo di Aversa Angelo Spinillo nella sua omelia, «banale proprio perché assurdo», con un riferimento all’opera della scrittrice Hannah Arendt, autrice del celebre libro sull’Olocausto “La banalità del male”.

Una morte quella di Rosa, strangolata dal vicino di casa, che ha lasciato tutti sgomenti. «Perché chi fa il male non lo fa solo verso una persona, ma verso tutti» ha aggiunto il vescovo. A colorare un giorno mai così nero ci sono i disegni dei bambini della scuola elementare Giovanni Pascoli di Grumo Nevano. Li hanno sistemati con cura sulle transenne di ferro: i pastelli sono gli stessi che solitamente usano in classe per colorare casette, alberi e disegnare le fate delle favole.

Questa volta sono serviti per raffigurare la violenza che si è abbattuta ancora una volta su una donna e per ricordare la giovane Rosa, vittima dell’ennesimo femminicidio. Osservando i cartoncini colorati si percepisce la consapevolezza di chi, così piccolo, ha già imparato molto più degli adulti. Un bigliettino rosa con una scritta rossa recita: le donne non sono palloncini da far volare via. Firmato Fatima. È una bambina che scrive, che già conosce e percepisce il dramma delle donne che volano via, come palloncini. Accanto al suo messaggio, un su un altro foglietto rosa c’è scritto: le donne non sono cani da portare a spasso. Firmato Mara.

I bambini non dovrebbero mai conoscere il volto oscuro della violenza, del male, della ferocia di cui sono capaci gli uomini. Ma visto che il mondo ne è pervaso, forse è giusto che imparino a conoscerla fin da piccoli. È quello che ha fatto l’istituto Giovanni Pascoli spiegando ai piccoli alunni cosa era successo, avvicinandoli al dramma di ciò che è accaduto ma anche alla consapevolezza di ciò che non dovrebbe succedere mai. Un altro bimbo, invece, ha scritto: le donne non si toccano. Accanto al suo foglietto c’è un disegno: un uomo piccolo picchia le donne per sentirsi grande. Firmato Flavia. Sono frasi chiare, brevi, dolorose, che descrivono la realtà atroce vista con gli occhi dei bambini. Le frasi colpiscono perché se imparassimo che educare vuol dire prevenire, che spiegare già nelle scuole che la violenza in generale, quella sulle donne in particolare, è inaccettabile, forse riusciremmo a fermare la scia di sangue che attraversa il nostro Paese che nel frattempo si trova a dover fare i conti con l’ennesima morte inspiegabile. E in momenti così dolorosi, il vescovo Spinillo ha poi voluto evidenziare come le parole «fratelli e sorelle» abbiano un significato, una forza, «perché siamo tutti uniti come figli di Dio di fronte al male».

Il vescovo ha poi parlato di Rosa, citando il parroco che la conosceva bene. «Padre Mimmo mi ha raccontato di come fosse piena di vita e gioiosa, di come partecipava alla vita della chiesa. Con gli occhi pieni di lacrime l’affidiamo a Dio». Spinillo non ha fatto alcun riferimento all’assassino di Rosa, attualmente in carcere per omicidio volontario, ma si è rifatto alla parabola di Caino e Abele tratta dal libro della Genesi e letta all’inizio della messa. «Dopo aver ucciso il fratello Abele, Caino, di fronte alle domande di Dio, resta in una tristezza deprimente, come capita a noi comuni mortali. Ecco contro il male non si può ragionare, il male non ammette possibilità di scambiare parola».

Francesca Sabella. Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

"Cena con Paolo". Il mistero di Marina che scomparve nel nulla. Marina Di Modica, logopedista di 40 anni, scomparve da Torino l’8 maggio 1996. Il filatelico Paolo Stroppiana fu condannato per omicidio preterintenzionale a 14 anni di carcere. Il cadavere non è mai stato trovato. Rosa Scognamiglio e Francesca Bernasconi il 21 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Marina scompare nel nulla

 I francobolli spariti e quell’appunto sull’agenda

 I sospetti

 Stroppiana condannato

 Il mistero del cadavere mai ritrovato

Era un mercoledì di inizio maggio. Come tutti i giorni, Marina Di Modica era andata al lavoro e poi, dopo una breve deviazione per qualche acquisto, era ritornata a casa. Nulla lasciava pensare che quelle sarebbero state le ultime ore in cui la donna sarebbe stata vista viva. Il giorno dopo i familiari diedero l’allarme della scomparsa. Era il 1996. Da quel giorno, l’8 maggio, sono passati quasi 27 anni e, nonostante la giustizia abbia identificato un colpevole, di Marina non è stata ancora trovata alcuna traccia.

Rimangono anche forti dubbi anche sul movente dell’omicidio: "Sembra attenere alla sfera privata della donna. In tal caso si potrebbe pensare ad avances intime non gradite e poi esitate in un tragico epilogo. Marina non si fidava di chiunque. Pertanto il killer doveva essere una persona conosciuta, ma anche con una forte personalità attrattiva e carismatica, capace di persuasione e dominanza", dice al Giornale.it la psicologa e criminologa Francesca Rosa Capozza.

Marina scompare nel nulla

"È un giallo la scomparsa di una donna torinese della quale non si hanno più notizie da quattro giorni". Così La Stampa dava la notizia della scomparsa di Marina Di Modica, una ragazza quarantenne con capelli ricci e rossi, vista per l’ultima volta il mercoledì precedente. All’epoca Marina era impiegata come logopedista all’ospedale Molinette di Torino e viveva da sola in via della Rocca.

L’8 maggio, come ogni giorno, rimase al lavoro fino alle 16.30. Poi, una volta lasciato l’ospedale, recuperò la sua auto, una Y10, e si recò a fare degli acquisti. Grazie agli scontrini trovati nel suo appartamento, gli inquirenti riuscirono a ricostruire gli ultimi movimenti della donna prima della scomparsa: "Venti minuti dopo aver lasciato l’ambulatorio - riferì La Stampa - acquista un paio di scarpe […]. Paga in contanti: 79 mila lire. Nella stessa via c'è anche il negozio di calze Neo: Marina compra due paia di autoreggenti per un totale di 25.900 lire".

Da quel momento l’unica certezza fu che Marina tornò a casa, data la presenza degli scontrini, indossò calze e scarpe e uscì con l’auto, che infatti non venne ritrovata. Poi più nulla. Marina, la sera stessa non si fece sentire dagli amici e il giorno successivo non si presentò al lavoro. A quel punto il padre presentò una denuncia di scomparsa alla polizia.

I francobolli spariti e quell’appunto sull’agenda

Inizialmente gli investigatori immaginarono che Marina potesse essere ancora viva e lavorarono seguendo tre piste: "La donna si è allontanata di sua volontà, scappando chissà dove - scrisse La Stampa, per spiegare le ipotesi della polizia - si è tolta la vita in un momento di sconforto; le è capitato qualcosa di grave, molto grave".

Qualche giorno dopo la scomparsa, la Y10 venne ritrovata, regolarmente chiusa, parcheggiata davanti all’ospedale Mauriziano. Ma di Marina nessuna traccia. E più il tempo passava, più le prime due ipotesi degli inquirenti si facevano labili. Cercando nell’appartamento di Marina, i famigliari notarono l’assenza di una scatola. La donna l'aveva ritrovata da poco tempo, sgombrando la soffitta, e aveva scoperto che conteneva dei vecchi francobolli appartenuti a un prozio.

Successivamente, durante una cena a casa dell’amica Bianca, Marina aveva conosciuto Paolo Stroppiana, un filatelico che lavorava nella storica azienda torinese Bolaffi. E proprio nella pagina dell’agenda corrispondente al giorno della sua scomparsa, la donna aveva segnato un appunto per le 18.30: "b. cena con Paolo X f.bolli". Quell’appunto venne interpretato come un appuntamento per una cena con Paolo, l’amico di Bianca (b.), con l’intenzione di parlare e forse far valutare quei francobolli (f.bolli) trovati in soffitta. Contattato dal fratello di Marina e poi sentito dalla polizia, Stroppiana negò quell’appuntamento e, per anni, la scomparsa della donna rimase un mistero.

I sospetti

Nel 2001, a cinque anni dalla scomparsa di Marina, la procura decise di riaprire le indagini e approfondire gli indizi sul caso. In particolare al centro dell’inchiesta finì quell’appunto sull’agenda per l’appuntamento fissato con Stroppiana. Dopo che questi ebbe sostenuto di non aver mai definito un incontro con Marina, l’uomo, come riportò al tempo La Stampa dichiarò di aver detto il falso per non fare ingelosire la fidanzata e di avere in realtà un appuntamento con la donna scomparsa, ma di aver poi annullato l’incontro: "Sì, dovevamo vederci ma avevo un noioso mal di schiena e rimandammo tutto. Quella sera ero con la mia fidanzata". Stroppiana disse di aver telefonato a Marina per riferirle che non avrebbero potuto vedersi.

Nel 2001 i tabulati telefonici delle utenze di Marina furono messi a disposizione degli inquirenti: erano le tracce che avrebbero potuto portare a una svolta. I tabulati, in effetti, mostrarono una chiamata di Paolo del 6 maggio, quella fatta per fissare l’appuntamento, ma nessuna traccia di altre telefonate. A quel punto l’uomo affermò di aver contattato Marina da una cabina telefonica, non rintracciandola a casa, ma all’ospedale, di cui aveva trovato il numero sulla guida telefonica.

Le diverse versioni di Stroppiana insospettirono gli inquirenti e nel 2002 l’uomo venne "iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario". Per vederci chiaro, il pm dispose il sequestro della sua Tipo usata nel 1996, per analizzare eventuali elementi utili, che avrebbero potuto essere rilevate dai reparti scientifici anche dopo diversi anni. Ma l’analisi si concluse con un nulla di fatto: "Troppo deteriorate, troppo labili le tracce biologiche a suo tempo evidenziate con il Luminol dalla polizia scientifica sui sedili e negli interni dell'auto".

Stroppiana condannato

Paolo Stroppiana

Iniziò così il processo al filatelico. Contro di lui c’erano alcuni indizi, così riassunti da La Stampa: l’appunto sull’agenda di Marina per un appuntamento che l’uomo aveva prima negato e poi ammesso, il labile alibi che lo indicava a cena con la fidanzata senza che nessuno oltre alla donna potesse confermarlo e una pistola trovata in casa di Stroppiana, mancante di sei colpi.

"Malgrado le sue menzogne, Paolo Stroppiana è stato sconfitto da Marina Di Modica. Le ultime parole della donna, scritte sull'agenda personale, sono il cartello che rappresenta l'uscita dal bosco per chi ha smarrito la via che porta alla verità", aveva detto in aula il pm, durante la sua requisitoria, nel corso del processo del 2005. A inchiodare l’uomo, secondo l’accusa, sarebbe stato l’appunto scritto sull’agenda dalla ragazza, che indicava un appuntamento con il filatelico per la sera della scomparsa. Dubbi anche sul mal di schiena di Paolo, indicato come impedimento all’incontro con la donna, ma che "secondo i referti medici sarebbe stato un banale 'colpo della strega'".

Nel 2006 la Corte di Assise di Torino condannò Paolo Stroppiana a 21 anni di carcere per omicidio volontario, stabilendo quindi che Marina Di Modica era stata uccisa da lui. Due anni dopo, nel 2008, la Corte d'Assise d'Appello condannò l’uomo a 16 anni, per omicidio preterintenzionale, ma nel 2009 la Cassazione annullò con rinvio la sentenza. Nel 2010, il filatelico ricevette la sentenza bis dei giudici della Corte di Assise Appello, che hanno ritenuto nuovamente Paolo Stroppiana colpevole per omicidio preterintenzionale, condannandolo a 14 anni di carcere, pena confermata definitivamente l’anno dopo dalla Corte di Cassazione. L’uomo, che si è sempre dichiarato innocente, ha terminato di scontare la sua pena e nel 2019 è tornato un uomo libero.

Il mistero del cadavere mai ritrovato

"In questo evento delittuoso, in cui è centrale l'assenza del corpo e d'informazione sul modus operandi dell’assassino (arma, modalità di commissione del reato, occultamento, ecc), è sicuramente l'autopsia psicologica della vittima che ci può aiutare a delineare i tratti caratteristici dell'autore di reato", spiega la dottoressa Francesca Rosa Capozza.

Poi continua: "Marina era una donna schiva e riservata, metodica, abitudinaria, precisa e puntuale, selettiva nelle amicizie e negli affetti, capace però di una buona socializzazione (aveva molti amici) e di aprirsi alle esperienze nuove e intense (amava infatti viaggiare e lo sport). Questo ci indica che non si fidava di chiunque, pertanto il killer doveva essere una persona conosciuta, ma anche con una forte personalità attrattiva e carismatica, capace di persuasione e dominanza".

Quanto alla scena del crimine: "La capacità di eliminare ogni traccia rimanda a un assetto di personalità in cui freddezza emotiva, opportunismo, cinismo ed anaffettività permettono di trattare la vittima come un oggetto di cui disfarsi - conclude l’esperta - Pertanto la scena del crimine diventa un elemento sui cui concentrare massima attenzione e perizia". Il corpo di Marina Di Modica non è mai stato ritrovato.

I volti di Psyco. “Io non ho fatto nulla”: omicidi e ossessioni del "mostro di Genova". Dieci omicidi brutali, tra sangue e violenza sessuale. Un serial killer schiavo delle sue pulsioni, senza rimorsi e senza pentimenti. Massimo Balsamo il 9 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'infanzia problematica

 I primi omicidi

 Il killer delle prostitute

 L’arresto e il fine pena mai

Violenza, brutalità, pulsioni. Un'evidente componente sadico-sessuale, ma anche l'ossessione per il sangue. Il bulletto di periferia, il pugile, il ballerino scatenato. Maurizio Minghella rientra nell’elenco dei più prolifici assassini seriali italiani, con dieci omicidi inframezzati da quasi vent’anni di carcere. Ma è probabile che abbia taciuto su altri episodi, su altre morti di cui è responsabile. “Il mostro di Genova” o “il serial killer delle prostitute”, tanti i soprannomi collezionati con il passare degli anni da un uomo schiavo dei suoi impulsi, ma mai pentito delle sue azioni truculente.

L'infanzia problematica

Maurizio Minghella nasce a Genova, nei palazzi popolari di Bolzaneto, il 16 luglio del 1958. L’asfissia neonatale gli causa un notevole ritardo nell’iniziare a parlare a camminare, ma l’infanzia è segnata soprattutto dalla separazione dei suoi genitori. La madre deve lavorare per mantenere i suoi cinque figli e si lega a un uomo violento, un alcolizzato aggressivo e manesco. Il futuro assassinio seriale inizia ad accarezzare idee criminali: sogna infatti di strangolare il nuovo compagno della madre, desidera porre fine alla sua vita.

Anni difficili, sia in famiglia che a scuola. Maurizio Minghella non riesce a superare la seconda elementare e mostra i primi segni di violenza: è manesco, è pericoloso. Lasciati gli studi, inizia a lavorare come piastrellista, ma soprattutto inizia a rubare. La sua specialità sono auto e moto, in particolare le Fiat 500 e le Fiat 850, ovvero quelle che sa guidare meglio.

Il ragazzo della val Polcevera inizia ad appassionarsi alla boxe e al ballo, frequentando tutte le balere del genovese. Il primo soprannome è “Travoltino”, in onore del suo idolo John Travolta. Un evento chiave della sua adolescenza è la morte del fratello Carlo, vittima di un incidente stradale. Maurizio Minghella inizia a sviluppare una morbosa attrazione per i morti e comincia a frequentare con regolarità l’obitorio di Genova.

Noto playboy, il futuro serial killer si sposa con la quindicenne Rosa Manfredi. Un’unione nata per caso, o meglio per scommessa. La minorenne è dipendente dagli psicofarmaci, e il matrimonio dura poco. Maurizio Minghella frequenta prostitute senza porsi problemi, ma l’evento a tracciare un solco nella sua vita è un altro: la perdita di un bambino al nono mese di gravidanza a causa di un’overdose da farmaci. Un episodio che traumatizza il killer considerevolmente.

I primi omicidi

Nel 1978, all’età di 20 anni, Maurizio Minghella inizia a uccidere. Tutti gli omicidi hanno la stessa modalità e lo stesso goffo tentativo di occultare le prove. La prima vittima è Anna Pagano, prostituta ventenne uccisa il 9 aprile. Tossicodipendente, la giovane viene massacrata a colpi di pietra. Minghella prova a depistare le forze dell’ordine sfruttando il rapimento di Aldo Moro, avvenuto il 16 marzo: prende una penna rossa e scrive in stampatello “Brigate Rose”. Un errore di ortografia marchiano, a testimonianza delle sue difficoltà di apprendimento.

Il 18 luglio la seconda vittima: la quattordicenne Maria Catena Alba, conosciuta semplicemente come Tina. La giovane sodomizzata, uccisa e trascinata in un bosco. Anche in questa occasione Maurizio Minghella prova un goffo depistaggio: Tina viene appesa a un albero per simulare un suicidio. Un tentativo vano, ma le forze dell’ordine fermano la persona sbagliata, ovvero l’ex fidanzatino della giovane, poi scagionato dopo pochi giorni.

Il 22 agosto il terzo omicidio, vittima Maria Strambelli. La commessa barese viene stuprata e strangolata con una corda porta-pacchi. Ancora violenza brutale, sempre lo stesso modus operandi. Il suo corpo viene poi gettato in un bosco della periferia genovese, nei pressi dell’autostrada Genova-Serravalle. L’ultima vittima accertata è Vanda Scerra, uccisa il 3 dicembre a Fegino. La 19enne viene soffocata e abbandonata in una scarpata. Tutte le vittime si trovano in periodo mestruale e non è un caso: Maurizio Minghella confermerà agli investigatori di essere ossessionato dal sangue delle mestruazioni, una fissazione tale da renderlo un killer efferato.

Nell’ultimo omicidio Maurizio Minghella commette un errore e viene arrestato dalle forze dell’ordine il 6 dicembre. Dopo decine di ore di interrogatorio, l’assassino crolla e confessa due omicidi, quelli di Maria Strambelli e Vanda Scerra, negando qualsivoglia coinvolgimento con gli altri tre casi. Il giorno dopo accompagna gli investigatori sulle scene del crimine, confermando il presunto raptus. Ma qualcosa cambia dopo qualche giorno: Minghella nega ogni addebito, affermando di essere stato costretto a confessare. Ma le prove lo inchiodano in maniera incontrovertibile. Per questo il 3 aprile del 1981 viene condannato all’ergastolo per quattro omicidi. Gli viene imputato anche l’omicidio di Giuseppina Ierardi, morta nel luglio del 1978. Anche lei strangolata e sodomizzata, ma il suo caso viene ritenuto impossibile da ricostruire con elementi oggettivi.

Il killer delle prostitute

Recluso nel carcere di massima sicurezza di Porto Azzurro, Maurizio Minghella presenta istanza di semilibertà grazie al supporto di don Gallo, in prima linea per concedergli una seconda possibilità. Detenuto modello, diventa falegname e inizia a farsi conoscere come lavoratore serio e puntuale. Nel 1995 viene dunque trasferito a Torino per lavorare in una ditta del gruppo Abele, ottenendo il permesso di semilibertà: costruisce e monta giocattoli in legno per parchi giochi pubblici e privati. In pratica esce dal carcere dalle 17 alle 22.

Ma la redenzione dura poco. Nel marzo del 1997 uccide la prostituta Loredana Maccario nella sua abitazione a San Salvario: la cinquantatrenne viene strangolata con una corda per canotti, dopo un'aggressione fisica e sessuale. Due mesi dopo dopo è la volta della prostituta Fatima H’Didou, anche lei malmenata e stuprata prima dello strangolamento con un laccio.

Passa qualche mese e Maurizio Minghella torna in azione. Il 14 febbraio 1998 uccide a Rivoli la prostituta straniera Floreta Islami: la 29enne viene strangolata con una sciarpa. Poi il 30 gennaio 1999 vittima la 67enne Cosima Guido, anche lei prostituta. La tarantina viene ammazzata con il suo foulard beige. A differenza delle altre vittime però il cadavere è perfettamente vestito.

Nel febbraio del 2001 Maurizio Minghella uccide Tina Motoc, prostituta 20enne. La romena viene costretta a spogliarsi con la forza, presa a sassata e poi strangolata. Una fine atroce, al freddo e al gelo. Ma non è tutto. Il killer prova a bruciare il cadavere, senza successo, come testimoniato dai segni di bruciatura rinvenuti in varie zone del corpo.

Quello della Motoc è l’ultimo assassinio di Maurizio Minghella. Le forze dell’ordine trovano tracce di Dna nei luoghi dei delitti e altre prove significative, a partire dalle tracce di peridotite (roccia rara e presente in enorme quantità sulla scena dell’ultimo crimine) sulla suola delle sue scarpe. Senza dimenticare il modus operandi e gli orari dei delitti, tutti compatibili con il regime di semilibertà.

Edmund Kemper, la storia del killer delle studentesse

L’arresto e il fine pena mai

Maurizio Minghella viene arrestato il 7 marzo del 2001. Nella sua abitazione vengono trovati i cellulari delle vittime con il numero di matricola delle Sim cancellato. In particolare il serial killer aveva regalato il telefonino della Motoc alla sua compagna come dono per San Valentino. “Io non ho fatto nulla”, la sua replica alle accuse. Nega, si dichiara innocente, si avvale della facoltà di non rispondere.

Maurizio Minghella inizia uno sciopero della fame, ma le indagini confermano la tesi sempre di più. Non ha alibi per gli omicidi, anzi: in alcuni giorni si è assentato dal lavoro o si è dato malato, tornando in carcere all’ultimo minuto. Il genovese professa la sua innocenza, ma allo stesso tempo prova due volte l’evasione. La prima nella primavera del 2001, attraverso un locale della lavanderia del carcere delle Vallette di Torino, arrivando al primo muro di cinta. La seconda nel gennaio 2003, quando si fa ricoverare per dolori a petto e braccio; riesce a fuggire dalla finestra del bagno del Pronto Soccorso, per poi salire a bordo di un treno in transito e recarsi a Biella. La fuga termina qualche ora dopo: confesserà che il suo obiettivo era quello di uccidere il pubblico ministero Sparagna.

Il 4 aprile 2003 Maurizio Minghella viene condannato dalla Corte d'Assise di Torino all'ergastolo per l'omicidio della Motoc e a 30 anni di carcere per gli omicidi di Cosima Guido e Fatima H'Didou. Attualmente sta scontando la pena in una prigione di massima sicurezza.

Luca Delfino e la "vita dopo". La storia del killer delle fidanzate diventa un podcast. Il podcast che racconta la storia di Luca Delfino. "Una storia atipica e con un futuro incerto", raccontano in esclusiva a ilGiornale.it gli autori Simone Gorla e Pietro Adami. Rosa Scognamiglio il 23 Giugno 2023 su Il Giornale.

Luca Delfino - il "killer delle fidanzate", come fu ribattezzato dalla stampa dell’epoca l’omicida di Antonella Multari, uccisa con 44 coltellate il 10 agosto del 2007 a Sanremo - è il protagonista di un nuovo podcast, disponibile sulla piattaforma Rai Play Sound e prodotto da Tgr Liguria a partire da lunedì 26 giugno 2023. "La vita dopo" - titolo del podcast - è stato realizzato dai due giornalisti e inviati di Tgr Liguria Simone Gorla e Pietro Adami. "L’obiettivo del nostro lavoro non è solo quello di raccontare la vicenda giudiziaria di Luca Delfino, che il prossimo 28 luglio finirà di scontare la pena per l’omicidio dell’ex fidanzata. Come recita il titolo del podcast, abbiamo voluto ‘andare oltre’ e quindi capire quale sarà il futuro di quest’uomo che a breve sarà collocato in una struttura Rems. Il nostro obiettivo è esplorare il confine tra pericolosità sociale e diritto alla sicurezza della collettività", spiegano i due autori a ilGiornale.it.

Simone Gorla e Pietro Adami, com’è nata l’idea di raccontare la storia di Luca Delfino in un podcast?

"Per tutto quest’anno ci siamo occupati di cold case realizzando una serie di servizi per Tgr Liguria. Tra i casi irrisolti che abbiamo raccontato c’è stato anche uno dei due omicidi attribuiti a Luca Delfino - per il quale fu assolto - che è quello di Luciana Biggi. Una storia sicuramente atipica sotto molti punti di vista. Da qui l’idea di realizzare un podcast che raccontasse, per l’appunto, la storia di Luca Delfino approfondendo tutti quei grandi temi che orbitano attorno al percorso di quest’uomo".

Da cosa siete partiti?

"Siamo partiti dai documenti, articoli di giornali e vecchie cassette, conservati negli archivi Rai. E dunque dalle notizie, dai protagonisti e dalle testimonianze dell’epoca. Il nostro lavoro ripercorre i fatti dalla primavera del 2006, quando venne trovata morta tra i vicoli di Genova Luciana Biggi, fino ai recenti sviluppi giudiziari che riguardano Luca Delfino".

Cosa è saltato fuori di particolarmente interessante durante il lavoro di ricerca?

"Una vecchia intervista a Luca Delfino, risalente al 2006, e quindi subito dopo l’omicidio della fidanza Luciana Biggi. Quando il giornalista gli chiese quale fosse il suo punto di vista rispetto alla vicenda, lui affermò senza esitazione di essere innocente. Ma non è l’unico documento interessante che abbiamo scovato".

Cos’altro?

“Al tempo c’era stato un confronto molto particolare tra il capo della squadra mobile e il pm che indagò sul caso. In buona sostanza, il capo della polizia accusava il pubblico ministero di non aver voluto fermare Delfino nonostante, a suo dire, ci fossero delle prove a carico dell’indagato. Per contro il giudice riteneva che la polizia non avesse svolto bene le indagini. Ne nacque un dibattito molto singolare che, all’epoca, suscitò l’interesse dei media e dunque abbiamo voluto riproporlo".

A fine luglio Luca Delfino uscirà dal carcere per essere collocato in una Rems di Genova Prà. Come è stata accolta la notizia dai residenti?

"Quando è uscita la notizia ci sono state un po’ di polemiche, soprattutto tra i residenti del quartiere Prà. Da giornalisti abbiamo cercato di capire, e poi di spiegare attraverso il podcast, come funziona una Rems. Dunque siamo andati in quella in cui sarà collocata Delfino e abbiamo parlato con i professionisti che operano all’interno della struttura".

E cosa avete scoperto?

"Le Rems non sono presidiate dalle forze dell’Ordine ma i medici, e tutto il personale, sono preparati e formati per accogliere autori di reati con gravi disturbi psichiatrici. Sono strutture a capienza limitata, in cui gli ospiti vengono monitorati costantemente e sottoposti a un percorso terapeutico che ha come fine ultimo, se possibile, la guarigione. Ma per Delfino la faccenda si complica".

Perché?

"Perché, a differenza delle altre persone che vengono collocate nelle Rems - generalmente autori di delitti dichiarati che bypassano il carcere perché dichiarati incapaci di intendere e volere - Delfino non è mai stato sottoposto ad alcun tipo di trattamento specifico per il tipo di patologia che gli è stata diagnosticata. E quindi i medici sono un po’ perplessi riguardo alla possibilità di gestire un paziente che non ha mai affrontato un percorso terapeutico. Senza contare che i reati attribuiti a Delfino sono correlati alle donne e all’interno della Rems ci sono molte operatrici".

Un caso atipico, insomma.

"Sicuramente sì. Quello che noi abbiamo capito realizzando questo podcast è che lui ha legittimamente delle aspettative di una vita libera dopo il carcere. Per contro c’è il parere di chi ritiene non sia ancora pronto per questa libertà".

E quindi quale sarà o potrebbe essere il futuro di Delfino?

"Difficile a dirsi. Nel senso che al momento non è possibile fare ipotesi di alcun tipo. Sicuramente c’è qualcosa che, esattamente come sedici anni fa, non ha funzionato nella gestione di una persona con problemi evidenti di natura psichica. È giusto fare ricadere sui medici la decisione sul futuro di quest’uomo? Ce lo chiediamo nel podcast".

Luca Delfino vicino al fine pena. Ma il killer delle fidanzate è pericoloso. Luca Delfino è stato assolto per l'omicidio di un'ex fidanzata, condannato per quello di un'altra ex. Ma dopo il carcere lo aspetta la Rems. “È ritenuto socialmente pericoloso", spiega il legale. Rosa Scognamiglio e Angela Leucci l’11 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Chi è Luca Delfino

 L’omicidio di Luciana Biggi

 L’omicidio di Antonella Multari

 I processi e il carcere

C’è chi lo chiama “il killer delle fidanzate”, al plurale, ma Luca Delfino è stato condannato per un solo omicidio, un femminicidio per la precisione, quello di una sua ex. Un’altra ex fidanzata un anno prima era morta e lui fu indagato e rinviato a giudizio anche per quel delitto, ma infine fu assolto in tribunale.

Chi è Luca Delfino

Classe 1977, l’uomo è attualmente detenuto nel carcere di La Spezia, dopo essere stato a lungo in quello di Ivrea. La madre morì suicida, mentre il padre creò una nuova famiglia con un’altra donna, dalla cui relazione nacque un altro figlio: ben presto Delfino, mal sopportando il nuovo ambiente famigliare, andò a vivere in strada, lavorando saltuariamente, talvolta come barista. E fu proprio in un bar che ebbe inizio la sua vicenda giudiziaria.

L’omicidio di Luciana Biggi

Come racconta il sito della Polizia Penitenziaria, il 6 gennaio 2006, Luciana Biggi era uscita con gli amici si era recata in un bar, prima di trascorrere la serata in discoteca. Aveva 36 anni e faceva l’istruttrice di aerobica in provincia di Imperia: viveva da sola, perché i genitori erano morti, così come era accaduto a un fratello, mancato per un overdose. Anche lei aveva combattuto contro le dipendenze e accanto, nella vita, le era rimasta la sorella Bruna, che di tanto in tanto si fermava a dormire a casa sua.

La sera dell'Epifania, Biggi venne molestata da due ubriachi in quel bar e “salvata” da un altro giovane con cui aveva scambiato un sorriso: si trattava di Delfino, conosciuto quella sera e poi portato in casa da Biggi quella stessa notte, nonostante le rimostranze della sorella. Delfino di lì a poco iniziò la sua convivenza con la donna, ma ben presto iniziarono i problemi: era possessivo e i litigi tra loro sempre più violenti, tanto che alla fine Luciana Biggi prese una decisione: lasciarlo. Ma questo non fermò Delfino, che, con un’azione di stalking, avrebbe iniziato a tempestare la donna di telefonate.

Questo fino alla notte tra il 28 e il 29 aprile 2006, quando tra i carruggi di Genova Biggi fu trovata morta da una coppia che passeggiava. Aveva la gola squarciata, delle ferite al braccio, i pantaloni abbassati e la felpa sollevata in corrispondenza del seno. Delfino venne subito indagato, anche perché inquadrato dalle telecamere di sorveglianza della zona, che lo avevano ripreso mentre camminava nella stessa direzione della vittima la notte dell’omicidio. Una volta a casa, Delfino avrebbe inoltre lavato subito scarpe e vestiti: “Stavo male e mi ero vomitato addosso”, avrebbe riferito agli inquirenti, che nella sua abitazione non trovarono prove a suo carico.

L’omicidio di Antonella Multari

Dopo il delitto di Luciana Biggi, Delfino iniziò a frequentare un’altra donna, Antonella Multari, impiegata 32enne di un centro estetico. Anche con lei avviò da subito una convivenza e, come con Biggi, non sarebbero mancati i litigi violenti, tali da mettere in allarme i signori Multari, padre e madre di Antonella, i quali, dopo una ricerca su Internet, scoprirono che Delfino era indagato per l’omicidio di una ex. Antonella Multari sulle prime non accettò il consiglio dei genitori, ma poi si ricredette: lasciò Delfino e lo querelò - ritirandola però infine - a dicembre 2006.

Lo stalking fu il mezzo che Delfino adoperò anche con Multari: non solo telefonate a quel punto, ma anche pedinamenti. E il 28 aprile, anniversario dell’omicidio di Luciana Biggi, le avrebbe scritto in un sms: “Ricordati che giorno è oggi”. Il 10 agosto 2007 l’uomo si recò a Sanremo, raggiungendo Antonella Multari nei pressi del centro estetico dove lei lavorava: la attese dietro un muro e la colpì con 40 coltellate, venendo bloccato da un passante e poi arrestato dalle forze dell’ordine allertate dalla gente per strada.

I processi e il carcere

A gennaio 2009 Delfino venne condannato in via definitiva a 16 anni e 8 mesi con rito abbreviato, più 5 anni di cure in una struttura psichiatrica: il giudice aveva ravvisato in lui la seminfermità mentale, nonostante fosse stato chiesto dall’accusa l’ergastolo per omicidio volontario premeditato. Durante le udienze Delfino aveva domandato di vedere Antonella Multari, mostrando inconsapevolezza rispetto a quanto accaduto. Il giudice ha inoltre definito Delfino “soggetto ad alta pericolosità sociale”. “Secondo l'ultima perizia psichiatrica - spiega a IlGiornale.it il suo legale Riccardo Lamonaca - risalente a due o tre anni fa - non ricordo con esattezza - è ancora ritenuto socialmente pericoloso”.

Il 14 febbraio 2011 giunse invece l’assoluzione per l’omicidio di Luciana Biggi. Delfino venne assolto per non aver commesso il fatto, poiché “il movente, pur esistente, da solo non è idoneo di integrare il quadro probatorio in modo da permettere di ritenere inequivocabile che il Delfino abbia seguito la Biggi nel vicolo e l’abbia aggredita in un raptus di gelosia e perché non voleva essere lasciato. Manca una prova diretta della presenza del Delfino sulla scena del crimine e ancora di più di una sua diretta partecipazione all’aggressione”.

A settembre 2023 ci dovrebbe essere il fine pena per Delfino, che sta beneficiando di sconti per buona condotta ma che in alcuni momenti ha visto anche la sua situazione peggiorare in carcere, sia per l’accusa di molestie da parte di una metronotte, avvenute due giorni prima dell’omicidio di Multari, sia per le accuse di altri detenuti. “Il termine naturale della pena è l'11 settembre - aggiunge Lamonaca - Poi, però, Delfino ha ricevuto 45 giorni di sconto. Il che significa che potrebbe uscire dal carcere a luglio. In più potrebbero aggiungersi altri 45 giorni, per i quali ha fatto appello dopo che gli sono stati dapprima riconosciuti e poi annullati per via di alcuni problemi in carcere. Dunque, qualora ci fosse l'accoglimento del ricorso da parte del giudice, si potrebbe arrivare a giugno. In sintesi la finestra temporale è tra giugno e luglio. Il 18 aprile ci sarà l'udienza davanti al giudice del tribunale di Sorveglianza e quindi sapremo cosa accadrà”.

L'omicida confessa altri delitti Ma presto tornerà in libertà

Delfino avrebbe confessato inoltre a un compagno di carcere di aver ucciso un uomo che era con lui in galera a Firenze Sollicciano, all’inizio della sua detenzione, e che l’omicidio sarebbe stato scambiato per un suicidio. Ma dall’accusa che scaturì in questa occasione, Delfino fu assolto in secondo grado. PrimoCanale racconta che un altro detenuto avrebbe affermato inoltre: “Luca odia le donne: ogni volta che vede un femminicidio in tv si infuria e le maledice: ‘Sono tutte putt…, maledette”. Il legale di Delfino tuttavia solleva dei dubbi su possibili esternazioni del suo assistito - tra l’altro nel tempo si è diffusa una notizia smentita anche dai diretti interessati su presunte minacce a Bruna Biggi: “È un soggetto molto particolare, una persona che tiene le cose per sé”.

La possibilità che Delfino esca dal carcere a breve non è rassicurante per alcuni. Non lo è per esempio per Rosa Tripodi, mamma di Antonella Multari, che a Repubblica ha confidato: “Ormai non ho più nulla da perdere, ma continuo ad avere paura di Luca Delfino, di quello che può fare una volta uscito dal carcere. Ho paura per me e per gli altri”. “Lui ha dichiarato di essersi pentito - chiosa il suo avvocato in merito all'omicidio per cui Delfino è stato condannato - Poi, se vuole sapere se sia sincero o meno, questo non glielo so dire. Gli psicologi del carcere credono che si tratti di un pentimento di forma. Per quanto mi riguarda, non sento di poter esprimere un parere sull'autenticità dei suoi sentimenti. Del resto chi può farlo? Solo lui sa qual è la verità”.

Delfino tuttavia non sarà libero. “Quando Delfino uscirà dal penitenziario di La Spezia, dove è stato trasferito da febbraio 2023 - conclude Lamonaca - sarà collocato in un struttura Rems, presumo nei pressi di Genova Prà. Quindi non andrà 'in giro per le strade di Genova', come potrebbe pensare qualcuno, ma continuerà a essere sorvegliato”.

Il serial killer Donato Bilancia, Carlo Piano: «Disse: "Le donne che uccidevo? Scelte a caso, come carte dal mazzo"». Fabrizio Dividi su Il Corriere della Sera il 4 giugno 2023.

Con «Il torto - Diciassette gradini verso l’inferno» Carlo Piano (figlio dell'architetto Renzo) rivive i luoghi tra il Piemonte e la Liguria in cui ha colpito il serial killer condannato a 13 ergastoli per 17 omicidi in sei mesi

«Diciassette omicidi in sei mesi; tredici ergastoli e un rimorso. I “numeri” di Donato Bilancia, detto Walter, rappresentano un caso unico nella storia della criminalità, in Italia e non solo». Carlo Piano (giornalista), dopo Il cantiere di Berto e Atlantide - Viaggio alla ricerca della bellezza, scritto a 4 mani con il padre Renzo, si cala negli inferi con Il torto - Diciassette gradini verso l’inferno (edizioni e/o) la cui presentazione torinese si svolgerà mercoledì 7 maggio alle 18.30 presso la libreria Il Ponte della Dora. Continua Piano: «“Quella poveracrista (sic) — confesserà Bilancia — ha lasciato un’orfana di quattro anni; io non lo sapevo, sennò avrei scelto un’altra”. Il “delitto di Pasqua” di Elisabetta Zoppetti avvenuto nel tratto piemontese dell’Intercity La Spezia-Venezia è l’unica recriminazione. Forse deriva dallo choc per il suicidio del fratello che nel 1987 si era gettato sotto un treno con il figlio, nipotino cui Walter era molto affezionato».  

Carlo Piano è nato a Genova nel 1965. È  scrittore e giornalista

Perché un libro su Donato Bilancia? 

«Ne avevo seguito il caso da inviato e alla sua morte nel 2020, ho sentito un rigurgito da qualche angolo recondito dello stomaco. A 25 anni da quegli omicidi tra Liguria e Piemonte ho pensato di ricostruirne i passi, forse anche per liberarmi definitivamente di lui». 

E così? 

«Sono partito dalle novantamila pagine processuali e ho ricalpestato le strade in cui aveva colpito. I luoghi parlano. Alcuni sembrano mantenere la memoria ed emanano persistenze sinistre». 

Chi era Walter? 

«Era un ladro, ma soprattutto un incallito giocatore d’azzardo. A 46 anni non aveva fatto ancora male a nessuno ma le parole carpite da due biscazzieri che credeva amici saranno il torto che gli cambierà la vita. “Lo abbiamo agganciato, il Walter” sente per caso, e per lui è l’ultimo tradimento. Li ucciderà entrambi per poi prenderci drammaticamente gusto». 

Perché sembrava imprendibile? 

«Perché non c’era un disegno preciso né legami apparenti tra le vittime. Lo beccheranno con il Dna e sarà lui a confessare anche gli omicidi di cui non era sospettato». 

Come uccideva? 

«Il Centenaro, quello della bisca, per soffocamento; poi con la sua Smith & Wesson colpisce al petto e alla testa: come quei due metronotte di Novi Ligure che lo avevano sorpreso mentre voleva uccidere una transessuale». 

E le donne? 

«Gli uomini erano uccisi per vendetta, le donne per disprezzo. Bilancia dichiarerà “Le pescavo a caso, come carte dal mazzo”. Era stato soprannominato “il killer delle prostitute” ma per sua ammissione “le donne erano tutte uguali”». 

Come spiegare tutto ciò? 

«Gli psichiatri individueranno due ossessioni fondamentali: il tradimento e l’assenza di ricambio affettivo, dimensioni che lo avrebbero reso fragile e crudele al tempo stesso. Da ragazzino però era sereno; pensi che giocava in cortile con Beppe Grillo e Vittorio De Scalzi». 

Com’era il suo ambiente familiare? 

«Donato nasce a Potenza e presto si trasferisce con i genitori prima ad Asti e poi a Genova ma tornerà spesso dalla zia. Negli interrogatori ricorderà una delle tante umiliazioni cui lo sottoponeva il padre, spogliandolo davanti alle tre cuginette sghignazzanti perché era affetto da ipoplasia peniena. Questa disfunzione gli negò sempre un rapporto sano con l’altro sesso». 

Durante la ricostruzione ha mai rischiato di giustificarlo? 

«Beh, sì; ma ero preparato. Bisogna rispettare gli oscuri dedali della mente e le possibili cause originarie, ma soprattutto i fatti e le vittime». 

È fuori luogo parlare di banalità del male?

  «È un concetto intrigante perché fotografa il labile confine tra bene e male. I mostri servono a questo: avvertire la società dei suoi pericoli e delle sue zone oscure».

Il killer dei treni. Donato Bilancia che rapinava per rapinare e uccideva per uccidere. Stefano Nazzi su L'Inkiesta il 31 Maggio 2023

Condannato a tredici ergastoli, tra il 1997 e il 1998 è autore di diciassette omicidi. Lo prendono solo perché in mesi di spostamenti frenetici tra Genova e Ventimiglia non ha mai pagato i pedaggi autostradali. Ne “Il volto del male” Stefano Nazzi, autore del podcast “Indagini” del Post, racconta le storie di dieci «mostri» della cronaca nera, tra cui questa.

Dopo aver ucciso Carla Scotto e Maurizio Parenti, Donato Bilancia salì sul loro letto e iniziò a ballare. Immaginava una musica e la seguiva nella sua testa, come se fosse al centro di una discoteca. Aveva sempre amato ballare. Quel giorno scoprì che amava anche uccidere.

Ammazzò biscazzieri, sconosciute incontrate sui treni, prostitute, cambiavalute, metronotte. Iniziò per rabbia e per soldi, continuò perché era bravo a farlo, perché era la sua passione. Donato Bilancia uccideva perché quello era il suo hobby.

Lo fece con una cadenza quasi sfinente, come se inseguisse un record: diciassette persone dall’ottobre 1997 all’aprile 1998. È stato un serial killer, assassino seriale o assassino a catena, secondo una definizione che aveva dato di quel tipo di criminale l’Fbi già negli anni Settanta.

Donato Bilancia rientra nella categoria di quelli che vengono chiamati «serial killer missionari» perché era convinto di dover compiere una missione, ma è stato anche un cosiddetto «serial killer edonista» perché provava piacere nell’uccidere.

È stato un «assassino seriale dominatore» perché esercitava totale controllo sulle sue vittime, ma anche un «serial killer esecutore di vendetta» perché aveva fissazioni che lo tormentavano, torti che pensava di avere subito o che forse aveva davvero subito e per i quali cercava una rivincita. Uccise anche perché era sessualmente represso.

Davanti ai giudici cercò di passare per incapace di intendere e di volere. I periti che ebbero a che fare con lui dissero invece che era lucido, perfettamente in grado di sostenere un processo. Affetto, questo sì, da un inguaribile narcisismo. «Incapace di tollerare il calo d’attenzione, l’uscita di scena, non ha altri oggetti di desiderio che sé stesso» scrissero i periti.

Uno degli psichiatri annotò: «Donato Bilancia rapina per rapinare, uccide per uccidere. Lo fa per il gusto di farlo, perché è facile». Coloro che redassero le perizie psichiatriche concordarono che ci fosse un filo preciso, forte e visibile, che univa tutta la sua vita, dall’infanzia fino alla fine. Come se si fosse prodotta una serie di eventi quasi inevitabile, una catena solida e non spezzabile iniziata tanto tempo addietro.

Nel primo interrogatorio dopo l’arresto, avvenuto il 6 maggio 1998, spiegò: «Intendo riferirmi ai fatti delittuosi di cui mi assumo la responsabilità nella loro successione cronologica; mi riservo in un secondo momento di spiegarne le motivazioni che adesso non so dare».

Donato Bilancia era nato a Potenza, il 10 luglio 1951. Quando aveva quattro anni la sua famiglia si trasferì prima nella zona di Asti e poi a Genova. Da bambino, a scuola, diceva di chiamarsi Walter: Donato era un nome troppo meridionale, si vergognava. Quando parlò della madre agli psichiatri che lo incontrarono in carcere dopo l’arresto, ricordò soprattutto un episodio: lei che metteva sul balcone il materasso che lui aveva bagnato, da bambino, durante la notte.

Come se anche i vicini dovessero sapere, e poi tutto il quartiere: una sorta di pubblica vergogna da esporre. Non ricordava con piacere nemmeno il padre, Rocco: di lui raccontò che, quando tornavano d’estate in vacanza in Basilicata, lo faceva spogliare davanti alle cugine per far vedere quanto poco fosse sviluppato. Dei genitori Donato Bilancia disse: «Avevano due cervelli che sarebbero stati dentro un coriandolo».

Iniziò con piccoli furti già da piccolo: abbandonò la scuola dopo essere stato bocciato per tre volte in terza media. Eppure, era intelligente, veloce. Iniziò a frequentare gente più grande, e con loro a rubare. Nel 1965 lo arrestarono mentre rubava una Vespa, lo rilasciarono. L’anno dopo fu preso ancora durante un furto: questa volta finì nel carcere minorile.

Partì militare nel 1971, prima a Casale Monferrato, in provincia di Alessandria, poi ad Asti. Fu esonerato dopo qualche mese per motivi di salute. Tornato a Genova, nel 1972 rubò un camion pieno di panettoni. Tentò di rivenderli davanti a un supermercato, lo arrestarono di nuovo.

Uscito dal carcere conobbe quello che definì «il grande amore della sua vita». Non ne rivelò mai il vero nome. Allo psichiatra Vittorino Andreoli, che lo incontrò in carcere, disse che quella donna si chiamava Ornella. Non era vero: Ornella era il nome della moglie del fratello, una donna che Donato Bilancia ha odiato con tutte le sue forze.

Nel 1974 fu arrestato a Como per detenzione di armi da fuoco, poi lo fermarono di nuovo in Francia, quattro anni dopo, per una serie di furti. Finì nuovamente in carcere nel 1981 per rapina e sequestro di persona di due coniugi nell’entroterra genovese. Era entrato in casa loro, con due complici, per rubare.

Fu quando uscì dal carcere che «il grande amore della sua vita» lo lasciò. Fu colpa di Ornella, disse poi lui. Era stata lei, la moglie del fratello, «a convincerla che con me non poteva avere un futuro». Sostenne anni dopo: «Da allora le cose cambiarono. Decisi di trattare tutte le donne con cui avrei avuto a che fare come puttane».

Si mise in proprio: niente più complici. Si specializzò in furti negli appartamenti, divenne un «invasore domestico».

Intanto frequentava le bische di Genova, lo conoscevano un po’ tutti: lo chiamavano Walterino. Era sempre accigliato, lo sguardo rabbioso, la voce roca per le decine di sigarette Marlboro fumate. Alto meno di 1,75, robusto, gli piaceva avere quella voce, disse che gli dava un tono da duro. Si vestiva bene, aveva quasi sempre la cravatta, spesso una camicia bianca.

Con le donne andava male. Scrisse nel suo memoriale: «A me sono sempre piaciute le donne belle, anzi molto belle, però a quei tempi mi accontentavo anche di quelle che molto belle non erano perché pensavo che non potessero lamentarsi delle mie prestazioni».

Non ebbe mai relazioni di lunga durata: «È certo che non rimanevo entusiasta quando mi accorgevo che la partner mi scaricava. Ma ciò che mi feriva di più erano il modo e le parole che utilizzava per far cessare il rapporto».

Il 17 marzo 1987 il fratello Michele si uccise, assieme al figlio Davide, che aveva quattro anni, gettandosi sotto al treno Ventimiglia-Genova, a Genova Pegli. Si suicidò, lasciò detto, perché, dopo il divorzio, il figlio era stato affidato alla moglie Ornella. Fu Bilancia a riconoscere i corpi all’obitorio, pagò il funerale e le spese di sepoltura. L’odio per la cognata divenne viscerale, profondo, si estese a tutte le donne.

Nel 1990 fu denunciato per aver minacciato e picchiato una prostituta. Lo stesso anno un’auto su cui viaggiava, guidata da una donna, andò a sbattere contro un palo. Bilancia restò in coma per due giorni, per mesi dovette poi camminare con un supporto. Tre anni dopo fu denunciato per molestie sessuali da una commessa del negozio di abbigliamento intimo che aveva aperto a Genova, in piazza Corvetto.

Con i furti guadagnava molto: comprò una casa a Savona, sul mare, poi la perse giocando a poker. Nel 1996 dilapidò moltissimi soldi nelle bische clandestine. Dovette lasciare l’appartamento che aveva acquistato in centro, a Genova, e andò a vivere in un sottoscala in via del Fossato.

Nel giugno 1997 si alzò dal tavolo dove stava giocando, in una bisca clandestina, per andare in bagno. Da dietro la porta della toilette udì il discorso dei due biscazzieri che erano con lui al tavolo verde. I due ridevano, dicevano di averlo spennato come un pollo, di averlo messo in mezzo. Lo chiamavano belinon.

Fu allora che le emozioni di Donato Bilancia andarono in corto circuito. Era sempre stato convinto di essere rispettato, forse anche temuto. Credeva di essere un duro, si accorse che lo prendevano in giro. 

Da “Il volto del male” di Stefano Nazzi, Mondadori, 192 pagine, 18 euro.

Il "mostro della Liguria" e la scia di sangue: "Sono un folle lucido". Diciassette persone uccise in sei mesi, mai nessun segno di rimorso: la storia dell’uomo che ha terrorizzato la Liguria e il basso Piemonte. Massimo Balsamo il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'infanzia traumatica

 "Walterino", le bische e i tradimenti

 Da gambler a killer

 L'assassino delle prostitute

 La cattura, la "nuova vita" e la morte

Ladro, giocatore d’azzardo, serial killer. Donato Bilancia rientra senza ombra di dubbio nell’elenco dei serial killer più efferati della storia italiana, i suoi numeri sono impressionanti: 17 vittime – 9 uomini e 8 donne – in sei mesi, dall’ottobre 1997 all’aprile 1998. Panico e terrore in Liguria e nel basso Piemonte, il raggio d’azione della sua furia truculenta. Nessun rimorso, nessun sentimento: "Penso di essere un folle, ma un folle lucido". Tutto è iniziato a causa di un tradimento, di una fiducia bruciata: una notte che ha cambiato tutto, tanto da estendere la sua vendetta al mondo intero.

L'infanzia traumatica

Donato Bilancia nasce a Potenza il 10 luglio 1951. Suo padre è un dipendente pubblico, un uomo molto autoritario, mentre la madre casalinga è una donna piuttosto remissiva. La famiglia gira per lo Stivale – da Asti al salernitano – per arrivare a Genova nel 1956, dove vanno a vivere nello stesso stabile della famiglia di Beppe Grillo. A scuola è un disastro, ma fuori è anche peggio tra maleducazione e atteggiamenti da bullo.

La sua adolescenza non è delle più semplici. Tanti problemi relazionali, molte le prese in giro: dalla sua struttura fisica al nome meridionale, le criticità sono diverse. Anche per questo decide di cambiare nome e di farsi chiamare Walter, una via per arginare sfottò e insulti. Ma anche tra le mura domestica la situazione non è rosea: Donato Bilancia viene costantemente denigrato e bullizzato dal padre.

Cresce da solo, senza affetto e senza amici. I primi problemi con la giustizia all’età di 15 anni, tra furti e rapine. È in carcere che diventa bravo con le serrature, è lì che viene "catechizzato" da un criminale esperto. Donato Bilancia inizia a capire come preparare i piani per i furti, messi in pratica una volta fuori dalla cella.

"Walterino", le bische e i tradimenti

I soldi rubati o ricavati dalla vendita della merce trafugata servono per appianare debiti e per il gioco d’azzardo. Donato Bilancia inizia a farsi un nome nell’ambiente delle bische clandestine genovesi – è noto come "Walterino" – giocando somme elevate, vertiginose. Gioca a carte con commercianti e imprenditori di spicco e conduce una vita piuttosto agiata. Paga, vince, perde, paga.

Il gioco d’azzardo affianca le attività criminali, ma qualcosa va storto. Donato Bilancia lavora sempre con complici professionali, una mossa che si rivela sbagliata in occasione di un colpo in Francia. Il futuro "mostro della Liguria" viene tradito dal complice e catturato dalle forze dell’ordine. Condannato a quattro anni di carcere, ne sconta due. Fuori dalla galera si mette in proprio: mai più rapine in società, mai più fiducia nei confronti dell’altro.

Tornato alla sua vita di sempre, Donato Bilancia inizia a giocare somme sempre più pesanti: anche 40-50 milioni di lire per volta, anche solo per una tirata di dadi. Nel marzo del 1987 però un evento sconvolge la sua vita: il suicidio del fratello Michele, che porta via con sé anche il figlioletto. Un gesto estremo inaspettato, dettato dai problemi coniugali. "Walterino" è distrutto, la rabbia è indescrivibile. E addossa tutta la colpa alla cognata, fattore che influisce fortemente nel suo atteggiamento nei confronti delle donne, viste come delle "bagasce".

Da gambler a killer

Prima dei delitti e del sangue tra Liguria e basso Piemonte, Donato Bilancia finisce a processo per violenza sessuale ai danni di una prostituta. Un episodio che conferma il disprezzo nei confronti delle donne. I particolari dell’episodio sono agghiaccianti: dopo l’abuso, l’uomo la picchia violentemente e la lascia per strada nel pieno della notte. La donna trattata come un essere inferiore di cui non avere rispetto.

La goccia che fa traboccare il vaso nella psiche di Donato Bilancia è l’ennesimo tradimento. "Walterino" inizia a perdere parecchi milioni di lire nella bisca gestita da Giorgio Centanaro e Maurizio Parenti, due persone considerate vicine. Bilancia, però, viene spennato con l’inganno: 400-500 milioni di rosso. Nessuna amicizia, lui è il pollo da spennare, lo zimbello da deridere.

La prima vittima è Giorgio Centanaro, ucciso il 16 ottobre 1997 a Genova. Dopo tre notti di appostamenti, Donato Bilancia entra in azione: lo blocca in casa, lo fa spogliare e lo soffoca a mani nude. Le forze dell’ordine però archiviano l’episodio come morte per cause naturali: il killer non ha lasciato alcuna traccia. Ma questo è solo l’inizio di una furia raggelante.

Otto giorni dopo, il 24 ottobre, è il turno di Maurizio Parenti, assassinato insieme alla moglie Carla Scotto. Rientrati dal viaggio di nozze da pochi giorni – Donato Bilancia aveva anche partecipato al regalo – i coniugi vengono freddati con un colpo di pistola alla testa. Il gambler inoltre sottrae 13 milioni e mezzo di lire in contanti e diversi orologi di valore.

Il 27 ottobre 1997 un nuovo duplice omicidio, sempre con lo stesso modus operandi. Assassinati i coniugi Bruno Solari e Maria Luigia Pitto. Un’azione criminale a scopo di rapina, terminata con la morte dei due titolari di un’oreficeria. Pochi giorni dopo, a Ventimiglia, a fare le spese della collera di Donato Bilancia è il cambiavalute Luciano Marro, a cui sottrae quasi 50 milioni di lire. E ancora il 25 gennaio 1998 il delitto del metronotte Giangiorgio Canu.

L'assassino delle prostitute

Omicidi simili ma trattati separatamente, anche se una perizia balistica dimostra la presenza di un’unica pistola dietro tre delitti. A febbraio tutto tace, ma a marzo la scia di sangue riprende con altri tre omicidi. Donato Bilancia fa un salto di qualità e inizia a vendicarsi del mondo femminile, punendo le prostitute attive in tutta la Liguria. Il 9 marzo 1998 uccide l’albanese Stela Truya a Varazze, il 18 marzo l’ucraina Ljudmyla Zubskova a Pietra Ligure. Entrambe con un colpo in testa.

Due giorni dopo, il 20 marzo, Donato Bilancia rapina e assassina il cambiavalute Enzo Gorni. Il 24 marzo commette un errore: si apparta con la prostituta transessuale Lorena a Novi Ligure, ma deve fare i conti con il passaggio di due metronotte. Questi ultimi, Massimiliano Gualillo e Candido Randò, vengono ammazzati barbaramente, mentre la sex worker sudamericana riesce a sopravvivere. Il 29 marzo è la volta di un’altra prostituta, la nigeriana Tessy Adodo. Questo delitto rappresenta una svolta nelle indagini, spingendo gli investigatori a riunire i casi in un unico filone. Ma l’attività criminale di Bilancia non si ferma.

Anche a causa del pressing degli inquirenti, il killer cambia modo di agire e tipologia delle vittime. Il 12 aprile, sul treno Intercity La Spezia-Venezia, uccide l’infermiera Elisabetta Zoppetti con un colpo di pistola alla testa nella toilette. Dopo l’omicidio della prostituta macedone Kristina Valle del 14 aprile, Bilancia torna a fare scorrere il sangue sui treni: il 18 aprile tramortisce Maria Angela Rubino, professione babysitter. E c’è di più: dopo il solito colpo d’arma da fuoco, si masturba sul suo cadavere.

Quest’ultimo sanguinoso avvenimento scatena il panico. Le donne sono in pericolo, l’invito è di non viaggiare da sole. Sui mezzi di trasporto – ormai scortati – vengono raddoppiati i controlli. Donato Bilancia non si ferma e il 20 aprile consuma quello che sarà il suo ultimo assassinio: ad Arma di Taggia, nell’area di servizio Conioli Sud, rapina e uccide il benzinaio Giuseppe Mileto, reo di aver rifiutato di fargli credito.

La cattura, la "nuova vita" e la morte

Le indagini vanno avanti senza sosta e gli investigatori riescono a individuare Donato Bilancia quasi per caso, attraverso l’auto comprata da un amico. Quest’ultimo, Pino Monello, si reca in procura per denunciare la mancata formalizzazione del passaggio di proprietà e per contestare una serie di contravvenzioni ricevute per il mancato pagamento di pedaggi autostradali. I carabinieri scoprono una corrispondenza perfetta con l’identikit della trans Lorena e soprattutto una corrispondenza con il Dna rinvenuto sul corpo di Maria Angela Rubino.

Il killer viene arrestato il 6 maggio 1998 all’uscita dell’ospedale San Martino di Genova. In caserma non dice niente, anzi ha un atteggiamento da sbruffone. Fuma e non parla. Dopo una settimana di silenzio, inizia a parlare e la sua confessione dura tre giorni. Gli investigatori hanno la certezza di 7, forse 8 omicidi. In realtà sono molti di più, sono 17.

Condannato a 13 ergastoli per i 17 omicidi e a 16 anni per il tentato omicidio di Lorena Castro, Donato Bilancia affronta parecchie difficoltà dietro le sbarre del Due Palazzi di Padova, dove viene minacciato e aggredito da altri detenuti, anche per questo l’isolamento passa da 3 a 11 anni. Terminata questa fase, il "mostro della Liguria" avverte la necessità di un cambiamento, vuole dare una svolta alla sua esistenza.

Riprende a studiare fino al diploma di ragioneria nel 2016, per poi proseguire con il corso di laurea di Progettazione e gestione del turismo culturale all’Università degli Studi di Padova. Lo studio e la preghiera lo aiutano, così come il teatro. E ancora, decide di aiutare economicamente un bambino senza famiglia e una mamma di tre bimbi disabili.

Nel dicembre del 2020 nel carcere padovano scoppia un focolaio di Covid-19. Donato Bilancia è costretto al ricovero presso il reparto di pneumologia dell’Azienda ospedaliera di Padova. Dopo essersi visto negare un permesso premio, decide di rifiutare le cure. Muore il 17 dicembre 2020, aveva 69 anni.

La doppia vita, i debiti «per colpa di Baudo e Carrà»: così il killer Michele Profeta iniziò a odiare il mondo. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2023.

Prima l’omicidio di un tassista e, 10 giorni dopo, il ritrovamento del corpo di un agente immobiliare. In mezzo una lettera anonima alla polizia: «Datemi 12 miliardi o ucciderò ancora». Disse che la sua rovina era cominciata a causa di un concerto (saltato) con Pippo Baudo e Raffaella Carrà: non era riuscito a restituire i soldi dei biglietti

Il racconto più terrifico del docufilm Michele Profeta: il killer di Padova , andato in onda sul canale 119 di Sky per la regia di Gabriele Bianchini, è affidato a Leonardo Carraro. Un agente immobiliare che, per via di quel trauma, perse i capelli in tre giorni e tuttora, prima di andare a dormire, ritrova davanti a sé lo sguardo gelido di un uomo che terrorizzò il Veneto in un inverno di inizio millennio.

Il mistero

Tutto iniziò con la morte di Pierpaolo Lissandron, trentotto anni, un tassista di Padova. Il 29 gennaio 2001 alcuni passanti lo trovarono riverso sul volante della sua Citroën siglata Pisa 14. Qualcuno lo aveva ucciso con un colpo di pistola alla nuca. Intanto, alla questura di Milano era arrivata una lettera scritta col normografo.

La lettera inviata alla questura di Milano

Poche righe: si chiedevano dodici miliardi di lire per evitare che l’anonimo uccidesse «persone a caso, in qualsiasi città». Il testo invitava ad accondiscendere alla richiesta pubblicando sul Corriere della Sera - cosa che peraltro avvenne - un’inserzione: «Offresi tornitore specializzato, dodici anni di esperienza». E, per firmare il delitto di Padova appena scoperto, l’autore si identificava come «Padova Uno».

Il secondo morto

L’11 febbraio, in una palazzina del centro patavino, venne scoperto un altro morto ammazzato. A essere colpito tre volte nella regione occipitale del cranio, la sera precedente, era stato Walter Boscolo, trentasei anni, un collega di Carraro. Ucciso nel corso di una visita con un cliente. Il killer aveva lasciato due carte da gioco sul tavolo del salotto e una lettera: annunciava che neanche quella era stata una rapina ma un’esecuzione e che, per informazioni in merito, sarebbe bastato «chiedere alla questura di Milano». Padova aveva a che fare con un serial killer. Il meticoloso signor Boscolo si era segnato una telefonata ricevuta dal cliente, tale signor Pertini, con tanto di ora e minuto: lo sviluppo dell’utenza portò a una scheda prepagata e a una cabina telefonica dalla quale era partita la chiamata, di fronte all’ospedale di Noventa Vicentina. Lì per lì si pensò a qualcuno legato alla struttura ma non emersero indizi. Dodici i giorni di distanza tra un omicidio e l’altro, dodici i miliardi di lire chiesti dall’assassino per placarsi, dodici gli anni di esperienza del fantomatico tornitore: ad agire pareva un esoterista come il killer dello Zodiaco in California. Ma quello nostrano non era stato così accorto e, prima della scadenza per una terza vittima, la stessa scheda telefonica usata per prendere contatti con Boscolo rivelò un aggancio: il chiamante aveva parlato con un utente di Palermo, una signora anziana che aveva legami col Veneto. Da anni, un suo figlio risiedeva ad Adria. Si chiamava Michele Profeta.

L’errore

Intanto, Carraro si era presentato in questura raccontando di quello strano cliente che aveva accompagnato a visitare un appartamento. Lo riconobbe, da un album con altri quattro individui, come il signor Pertini. Il 16 febbraio, Michele Profeta venne bloccato sotto casa e non fece resistenza. Nel veicolo e in casa vennero repertati una moltitudine di elementi decisivi: il mazzo di carte da gioco, il normografo usato per la lettera al questore, la pistola degli omicidi Lissandron e Boscolo. Era certo di non poter essere individuato. La moglie, sconvolta, accennò una difesa, poi capitolò. Emerse una doppia vita, divisa tra la famiglia ufficiale con due figli adolescenti e una convivenza, a Mestre, con una signora che Profeta aveva conosciuto in gioventù in Sicilia: anche l’altra donna lo scaricò e lasciò il Veneto. Caso chiuso: Michele Profeta era, indubitabilmente, il mostro di Padova. Ergastolo confermato fino alla Cassazione ma pochi anni di pena: il 16 luglio 2004, mentre sosteneva il primo esame di Storia della filosofia, morì di infarto a San Vittore.

I simboli

Ed è qui che il docufilm rallenta e tenta di scardinare il nucleo occulto di un caso che, dal punto di vista criminale, venne risolto senza alcun sussulto. Perché mai il signor Profeta, all’apparenza persona mite e di buona cultura, incensurato, si sarebbe dovuto dare alla carriera del killer seriale? Sia l’imputato, sebbene a lungo silente nel corso del processo, sia la difesa - che nominò Vittorino Andreoli come perito di parte - offrirono una lettura psicopatologica. La simbologia del mazzo di carte, la numerologia, l’ossessione per le letture bibliche rivelata nelle udienze tendevano a ritrarre l’incriminato come un uomo preda di un delirio spirituale di onnipotenza. Profeta raccontò, oltretutto, di aver agito guidato a uccidere da una voce: quella di una defunta madrina. Il guaio di un’interpretazione simile, mirata alla concessione di infermità mentale, era fare i conti con altro genere di moventi, smaccatamente più terreni e consequenziali.

I nessi col passato

In un aneddoto marginale sembra, difatti, nascondersi la chiave dei delle imprese criminali di Profeta: narrando dei suoi anni palermitani, spiegò che nel 1972 aveva avviato, a Palermo, un’attività commerciale con un amico. Per promuoverla, avevano organizzato un concerto invitando il re e la regina del nazionalpopolare, Raffaella Carrà e Pippo Baudo. La serata venne annullata per il maltempo e Profeta non riuscì, «per varie vicissitudini» - forse la passione per il gioco d’azzardo - a restituire i soldi dei biglietti, né la somma garantita dallo sponsor. Per giunta, il socio lo lasciò a piedi di lì a poco, con l’argomento che la società era di fatto, in realtà intestata solo a lui. Ebbene: che mestiere esercitava Profeta col socio, a Palermo? L’agente immobiliare. E quale ditta aveva pagato per sostenere il concerto e si rivalse su di lui? Una cooperativa di taxi.

La frustrazione

Profeta arrancava per provvedere a due famiglie, mantenute a stento, ed era provato da una vita di fallimenti, forse non tutti di sua responsabilità. Si sentiva un talento non riconosciuto. Emigrato al nord per sfangarla, stava ben peggio di prima. Per sopravvivere si era messo, a cinquant’anni suonati, a distribuire volantini nelle buche delle lettere. Finché non provò a estorcere denaro allo Stato, minacciando di uccidere cittadini a caso. Ma li scelse tra le due categorie che avevano segnato - incolpevolmente - la sua rovina. Profeta indicò la simbologia del colpo unico al tassista come l’unità di Dio, emblema del bene; triplo all’agente immobiliare, perché la Trinità annulla il male. Peccato avesse già spiegato di aver ucciso Lissandron «perché parlava troppo». E quando gli si chiese conto di due uomini scelti sì a caso, ma di professione accuratamente selezionata, svicolò con un «non saprei rispondere». Avrebbe dovuto ammettere di aver scelto la vendetta indiscriminata contro il mondo, colpevole di non avergli offerto gli onori e i denari che era convinto di meritare. Tanto da rivolgersi sgangheratamente a una Questura e tentare di estorcere il risarcimento per una vita da sconfitto.

I volti di Psyco. "Sono un killer": il mostro dagli occhi di ghiaccio e il terrore tra Francia e Italia. Sette vittime accertate in sette anni: la storia di Roberto Succo, il giovane veneziano che ha terrorizzato l’Italia e la Francia. Massimo Balsamo il 26 Maggio 2023 su il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Un ragazzo introverso e solitario

 Il brutale duplice omicidio dei genitori

 L'arresto

 La fuga

 La "nuova" vita a Parigi

 Il killer dagli occhi di ghiaccio in manette

 La fine

 Il film

È ricordato come il mostro di Mestre, ma anche come il killer dagli occhi di ghiaccio. Negli anni Ottanta Roberto Succo terrorizzò Italia e Francia con la sua brutale ferocia: 7 le vittime accertate, ma senza la cattura non si sarebbe mai fermato probabilmente. La sua vicenda personale è molto nota grazie all’omonimo film del 2001 diretto da Cédric Kahn e basato su una biografia pubblicata in Francia ma mai tradotta in italiano. Ma la sua storia conserva ancora misteri e verità impossibili da decrittare.

Un ragazzo introverso e solitario

Roberto Succo nasce a Mestre il 13 aprile 1962. Una famiglia normale, vita tranquilla e senza grossi pensieri. Il padre poliziotto e la madre casalinga, un’infanzia serena trascorsa anche come componente del coro della parrocchia. Il futuro mostro di Mestre cresce introverso e solitario, forse un po’ troppo irascibile, diventando sempre più egocentrico con il passare degli anni: è ossessionato dalla forma fisica e da adolescente passa gran parte delle sue giornate in palestra per fare body building. Frequenta la quinta superiore al liceo scientifico Morin di Gazzera - sobborgo di Venezia - e si prepara per gli esami di maturità: non è tra gli studenti più brillanti, ma se la cava abbastanza bene. Eppure c’è qualcosa che non va.

Il brutale duplice omicidio dei genitori

La vita di Roberto Succo cambia per sempre il 12 aprile del 1981. Mentre il padre è fuori per lavoro, il diciannovenne colpisce la madre Maria Succo alla testa e la accoltella una decina di volte. Non pago, prende una piccozza e la finisce con un colpo secco alla nuca, portando il suo corpo nella vasca da bagno. Il padre Nazario Succo rientra attorno a mezzanotte dopo aver finito il turno al commissariato di San Marco: il figlio lo aggredisce nel corridoio dell’appartamento con un coltello e, dopo averlo ucciso, lo trascina nella vasca sopra il corpo della moglie. Poi prende la pistola d’ordinanza del padre e la sua automobile e tenta la fuga.

L'arresto

La polizia non ci mette molto a ricostruire la dinamica dell’evento e a individuare l’assassino. Gli agenti trovano i vestiti di Roberto Succo sporchi del sangue dei genitori, praticamente una firma lasciata sul luogo del delitto. A confermare la teoria, la testimonianza di alcuni vicini che lo hanno visto allontanarsi di fretta. Il giovane viene cercato tra Veneto e Lombardia, dove ha uno zio a Brescia. Roberto Succo viene arrestato due giorni dopo, in pieno pomeriggio: le forze dell’ordine lo beccano in una pizzeria di San Pietro al Natisone, provincia di Udine. La segnalazione decisiva è arrivata da un passante che ha notato l’Alfasud blu descritta dai telegiornali. Appena vede i carabinieri, il diciannovenne prova a tirare fuori la pistola ma l’agente riesce a saltargli addosso senza dargli la possibilità di muoversi. Il mostro di Mestre ha ancora con sé il coltello col quale sono stati uccisi i genitori.

Roberto Succo arriva in caserma in stato confusionale e inizia a raccontare storie assurde. “Soffrivo perché la mamma mi aveva escluso. A scuola andavo male. Papà, poi, non mi voleva prestare la macchina perché diceva che correvo troppo forte”, il suo racconto agli investigatori. Poi la tragica ricostruzione del duplice omicidio, confermata anche al magistrato. L’8 ottobre 1981 l'ufficio Istruzione del tribunale di Venezia dichiara Roberto Succo non punibile per totale infermità di mente sulla base delle perizie psichiatriche che lo giudicano schizofrenico. Il giovane viene dunque ricoverato nel manicomio criminale di Reggio Emilia per almeno dieci anni.

La fuga 

Come temuto, Roberto Succo non resta nel manicomio criminale per dieci anni. Tormentato e inquieto, il giovane veneziano condivide lettere inquietanti con don Domenico Franco, nelle quali racconta i suoi sogni criminali. A Reggio Emilia conosce un altro serial killer, Wolfgang Abel, che insieme al compare Marco Furlan aveva ammazzato quindici persone in sei anni. Un legame che potrebbe aver rinfocolato il suo desiderio di sangue. In realtà però Roberto Succo si comporta bene. Finisce il liceo e si iscrive all’università, per la precisione alla facoltà di Scienze naturali. In questo modo ottiene licenze di studio fuori dall’ospedale per frequentare corsi più impegnativi. Durante una di queste licenze, nel 1986, il giovane decide di scappare: ha 25 anni e vuole ricominciare. Ma non in Italia, all’estero. In Francia, a Parigi.

La "nuova" vita a Parigi

Per due anni Roberto Succo sembra scomparso nel nulla: nessuna notizia. Ma in realtà non ha mai smesso di uccidere: il 2 aprile del 1987 ammazza il brigadiere della gendarmeria Andrè Castillo a Tresserve (Savoia). Il 27 aprile commette due delitti: ad Annecy uccide a coltellate la giovane vietnamita France Vu-Dinh – il suo corpo non viene mai ritrovato – mentre a Sisteron, al termine di un passaggio in autostop, massacra il medico Michel Astoul. L’asticella della violenza sale esponenzialmente con il passare dei giorni: il 24 ottobre violenta e uccide con una 38 Special Claudine Duchosal a Menthon-Saint-Bernard.

Il 27 gennaio 1988 Succo è protagonista di una rissa in un bar di Tolone, dove ferisce un uomo con un colpo di pistola. Conosciuto con il nome di Andrè, il veneziano attira l’attenzione della polizia. Il giorno dopo due ispettori della polizia francese si recano in un albergo per prendere informazioni, ma di punto in bianco spunta proprio il mostro di Mestre: Succo estrae la sua arma e inizia a sparare, colpendo sia l’ispettore Claude Ajazzi che il collega Michel Morandin. Il primo crolla privo di sensi – ma non muore – mentre il secondo è bloccato al pavimento in quanto raggiunto dai proiettili alle braccia e alle gambe. Morandin supplica Succo di non ucciderlo, ma il ventiseienne fa finta di non sentire: lo finisce con un colpo alla testa.

Harold Shipman, il Dottor Morte che sconvolse la Gran Bretagna

Il killer dagli occhi di ghiaccio in manette

Con il passare dei giorni si moltiplicano testimonianze e segnalazioni su Roberto Succo, in fuga tra Francia e Svizzera. Nonostante la fuga, non smette di inanellare crimini tra rapine e stupri. Almeno fino alla sera del 28 febbraio 1988, giorno della sua cattura a Santa Lucia di Piave, nei pressi di Conegliano: viene bloccato da una decina di agenti senza arrivare al Far West. I poliziotti trovano documenti falsi, parecchi contanti e una mappa a testimonianza dei suoi progetti: raggiungere la Sicilia per poi partire alla volta del Nord Africa. “Sono un killer, ammazzo la gente”, le sue prime parole in questura. E Roberto Succo ammette tutto, senza ritrosie e senza alcun tipo di rimorso.

La fine

Roberto Succo viene trasferito nel carcere Santa Bona a Treviso. Il 1° marzo si rende protagonista dell’ultimo show della sua vita: prima tenta l’evasione spettacolare, poi improvvisa una conferenza stampa in mutande sul tetto del penitenziario. Il giovane si attacca a un cavo e inizia a dondolarsi, nel tentativo di saltare su un terrazzino cade di sotto e precipita da un’altezza di sei metri: tre costole rotte e spalla lussata. Imbottito di calmanti, viene trasferito nel carcere Le Sughere di Livorno. La Francia spinge per l’estradizione, ma il 17 maggio 1988 il giudice istruttore del tribunale di Treviso Nicola Maria Pace lo dichiara incapace di intendere e di volere. Prima del trasferimento in un istituto psichiatrico giudiziario, decide di farla finita: “ospite” del carcere di Vicenza – il più vicino al tribunale – viene rinchiuso in isolamento. La notte del 23 maggio 1988 si suicida infilando la testa in un sacchetto di plastica che aveva riempito di gas grazie a una piccola bombola utilizzata per cucinare.

Il film 

Come anticipato, il film “Roberto Succo” di Cédric Kahn ha giocato un ruolo importante nel fare conoscere la storia del mostro di Mestre, qui interpretato dall’esordiente Stefano Cassetti. Tratto da un libro della giornalista Pascale Froment, è stato presentato in concorso al 54° Festival di Cannes. Nel cast anche Isild Le Besco, Patrick Dell’Isola, Viviana Aliberti, Estelle Perron.

Estratto dell'articolo di leggo.it il 25 maggio 2023.

[…] la Corte di assise di appello di Perugia nelle motivazioni della sentenza di appello bis, relativa alla sola aggravante di violenza sessuale, che ha confermato la condanna all'ergastolo per Innocent Oseghale accusato di aver violentato, ucciso e fatto a pezzi la 18enne romana Pamela Mastropietro. 

Secondo le motivazioni della sentenza, da parte di Oseghale c'è stata una «iniziale violenza di tipo costrittivo - divenuta ‘necessaria’, nel palesato dissenso di Pamela una volta resasi conto delle reali intenzioni del suo partner» che secondo quanto ricostruito dalla Corte ha voluto un rapporto non protetto. In seguito c'è stato un «approfittamento - senza soluzione di continuità alcuna - dello stato soporoso ormai completamente manifestatosi nella vittima» che, come ricostruito, era sotto l'effetto dello stupefacente appena assunto. 

«Reagì a rapporto sessuale non protetto»

Dopo aver subito la violenza, un rapporto sessuale non protetto, e con il «progressivo scemare» degli effetti della droga, Pamela ha gradualmente ripreso coscienza e non ha «esitato a ribadire il proprio aperto dissenso a siffatte modalità dell'atto sessuale», avvenuto senza l'uso di protezione, «incorrendo però nell'abnorme reazione di Oseghale» che non ha «esitato ad ucciderla». […] 

Accettando l'invito a casa di Oseghale, secondo quanto riportano le motivazioni, Pamela «seppur ben consapevole della prospettiva - ragionevolmente prevedibile e concretamente ineludibile, date le circostanze, anche ove fosse mancato un esplicito accordo in tal senso - di doversi sessualmente intrattenere con lui in cambio della procurata disponibilità dello stupefacente», era «’tranquilla’ perché aveva ancora con sé i due profilattici» […]

[…] «certo è che Oseghale aveva volutamente ritardato il momento di assunzione dello stupefacente da parte di Pamela proprio al fine di condurla presso la sua abitazione e qui ‘ricevere’ il corrispettivo più o meno esplicitamente concordato (ovvero implicitamente sottinteso) e cioè intrattenersi sessualmente con lei». 

Secondo la Corte «deve ritenersi che Pamela, una volta giunta nell'appartamento di Oseghale, avesse deciso di soddisfare per prima cosa il più urgente bisogno che in quel momento l'attanagliava: assumere pressoché immediatamente la droga» anche perché non era più coperta dalle terapie che venivano somministrate in comunità.

Secondo la Corte «Oseghale, pretendendo al fine di consumare un rapporto senza protezione alcuna in difformità dagli accordi esplicitamente presi (o comunque implicitamente sottintesi) aveva preso dapprima a percuoterla e colpirla per vincere la resistenza della ragazza che, però, diveniva sempre più flebile al progressivo manifestarsi degli effetti dello stupefacente appena assunto». Poi iniziato l'effetto della droga sulla ragazza «aveva portato a termine l'atto sessuale» senza curarsi «di utilizzare protezione alcuna» […]

Secondo la ricostruzione contenuta nelle motivazioni, la ragazza, man mano che è finito l'effetto della droga ed è tornata in sé «non poteva non essersi resa conto» del rapporto del rapporto con «modalità non protette». E da ciò è insorto «un acceso contrasto fra i due» […] Oseghale, secondo quanto ricostruito dalla Corte, «di fronte ad una così inaspettata reazione della ragazza» ha «deciso di risolvere il problema aggredendola fisicamente con le due coltellate sino portare a termine l'azione omicidiaria mediante le modalità e le forme già incontrovertibilmente accertate; dedicandosi poi, con fredda lucidità, a cercare di far scomparire totalmente le tracce biologiche che avrebbero potuto ricondurre alla sua persona».

Il legale: estraneo a stupro, faremo ricorso

«Non condividiamo le motivazioni e proporremo ricorso in Cassazione convinti dell'estraneità dell'imputato rispetto all'ipotesi della violenza sessuale». Così l'avvocato Simone Matraxia, legale insieme a Umberto Gramenzi di Innocent Oseghale […]

Estratto da leggo.it il 14 maggio 2024.

Pamela Mastropietro, è morto il papà Stefano. L'uomo era il padre della 18enne stuprata, uccisa e fatta a pezzi il 30 gennaio 2018 a Macerata. Aveva 44 anni. «Almeno tu ora puoi riabbracciarla! Vi mando un grandissimo abbraccio angeli. Amore di mamma, accogli il tuo papà tra le tue braccia»: con queste emozionate parole Alessandra Verni, la mamma, ha voluto dire addio all'ex marito su Facebook. La notizia è riportata da Il Messaggero in un articolo a firma di Alessia Marani. 

Cosa è successo

Il papà di Pamela è stato trovato morto questa mattina intorno alle 11 nella sua casa in zona Romanina, a Roma. Secondo gli inquirenti e il medico accorso sul posto il decesso risalirebbe ad alcuni giorni prima. Il corpo, secondo una prima ricostruzione, era riverso a terra e c'era del sangue. Una delle ipotesi è quella che possa avere avuto anche un malore ed essere caduto, ma al momento nulla è escluso. Motivo per cui sarebbe stata disposta l'autopsia. […]

Estratto dell'articolo di Alessia Marani per “Il Messaggero” il 15 maggio 2023.

Lo hanno trovato accasciato sul pavimento del salotto di casa, privo di vita, intorno al corpo alcune macchie di sangue. Forse era già morto da giorni Stefano Mastropietro, il papà di Pamela, la diciottenne stuprata e brutalmente uccisa a Macerata nel gennaio del 2018. Pezzi della ragazza vennero rinvenuti in due valigie. 

L'uomo, 44 anni appena, separato dalla mamma della ragazza, abitava in un appartamento all'interno di una palazzina di famiglia a Morena, periferia sud-est della Capitale. I suoi familiari non lo avevano più visto uscire, non rispondeva al telefono e al citofono. Ieri mattina intorno alle 11 la terribile scoperta: inutile l'arrivo degli operatori dell'Ares 118. Per lui non c'era più nulla da fare.

Al medico legale non è rimasto altro che constatarne il decesso, risalente a 4-5 giorni prima. Nella casa era rimasto acceso il condizionatore che erogava aria calda, circostanza che avrebbe comunque accelerato il processo di decomposizione. 

[…] 

L'ipotesi degli inquirenti è che Stefano Mastropietro si sia sentito male improvvisamente e che sia caduto a terra sbattendo la testa. Apparentemente sul suo corpo non sono stati rinvenuti altri segni di violenza e in casa non sono stati trovati farmaci o droghe. Ma sarà l'autopsia, disposta dal pm di turno dopo il sopralluogo degli agenti del commissariato Romanina, a chiarire con esattezza i motivi del decesso.

Mastropietro era conosciuto come una persona cordiale e mite. Come Alessandra Verni, la mamma di Pamela, si era sempre battuto perché la loro "bambina", che era nelle Marche ospite di una comunità per disintossicarsi dalla droga, ottenesse giustizia e non fosse vittima, oltre che della violenza, del pregiudizio. Nonostante la separazione (Mastropietro aveva una nuova compagna), aveva mantenuto un buon rapporto con la ex compagna e insieme avevano condiviso il grande dolore per una perdita tanto devastante. 

Ieri la donna ha voluto scrivere un post su Facebook per ricordarlo, pubblicando una foto di lui e Pamela abbracciati e felici: «Almeno tu ora puoi riabbracciarla! Vi mando un grandissimo abbraccio angeli. Amore di mamma accogli il tuo papà tra le tue braccia». 

[…]

Nella tragica vicenda di Pamela l'ultima sentenza risale al 22 febbraio scorso. I giudici della corte d'Assise d'Appello di Perugia, nell'ambito del processo bis di secondo grado, avevano confermato l'ergastolo per Innocent Oseghale, 33enne pusher nigeriano, accusato di avere violentato, ucciso e fatto a pezzi la diciottenne. 

Anche quel giorno il papà di Pamela era presente in aula. «Un altro punto. Siamo molto felici e orgogliosi della sentenza. Spero con tutto il cuore che venga confermata in Cassazione, ce lo auguriamo io e la madre», aveva commentato dopo la lettura della sentenza non nascondendo di avere provato «grande gioia». […]

Morto Stefano, papà di Pamela Mastropietro. L'ex moglie: «Riabbracciala per noi, siete angeli». Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 14 Maggio 2023

Il 48enne padre della ragazza uccisa a Macerata, è stato trovato senza vita dalla polizia domenica mattina nella sua casa di Morena. Alessandra Verni: «Amore di mamma, accogli il tuo papà fra le tue braccia»

Da giorni non rispondeva alle chiamate. E domenica mattina la polizia è andata a controllare cosa gli fosse accaduto. Il corpo di Stefano Mastropietro, il papà di Pamela, la 18enne romana uccisa e fatta a pezzi a Macerata il 30 gennaio di cinque anni fa, è stato trovato senza vita in via Niobe, a Morena. Potrebbe essere caduto a causa di un improvviso malore. Sarà effettuata l'autopsia per chiarire cosa abbia provocato il decesso e perché i poliziotti hanno scoperto anche qualche traccia di sangue.

Mamma Alessandra: «Almeno puoi rivederla»

«Almeno tu ora puoi riabbracciarla. Vi mando un grandissimo abbraccio Angeli. Amore di mamma, accogli il tuo papà fra le tue braccia», è lo struggente messaggio lasciato su Facebook dalla ex moglie di Mastropietro, Alessandra Verni, che dal 2018 combatte per fare giustizia sulla tragica fine della figlia. A rendere noto quanto accaduto all'ex coniuge è stata proprio lei che ha scritto anche: «L'attuale compagna mi ha chiamato stamattina - spiega - E' stato trovato ormai senza vita, riverso a terra nel suo appartamento a casa sua, forse a causa di un malore, almeno secondo quanto ha detto il medico».

Da quanto emerge dai primi riscontri degli investigatori, il corpo del 48enne è stato ritrovato nel salotto dell'abitazione. A chiamare il 112 sono stati alcuni familiari che si sono rivolti alle forze dell'ordine perché Mastropietro non rispondeva al telefono e al citofono. Il padre di Pamela ha seguito fin dai primi momenti le indagini e anche la mobilitazione per fare luce sulla morte della figlia, rimanendo al fianco di Alessandra Verni, in prima linea anche nel corso del processo di appello qualche mese fa che ha confermato la condanna all'ergastolo per Innocent Oseghale, lo spacciatore nigeriano accusato di aver anche violentato Pamela. 

Pamela Mastropietro, l'ira della madre Alessandra contro Oseghale: «Non perdono il carnefice». Il nigeriano, condannato all’ergastolo: «Fatta a pezzi per paura, non l’ho uccisa». Il Messaggero Sabato 13 Maggio 2023. 

Nessuno potrà biasimarla perché nessuno potrà mai capire il dolore che prova da anni. Dove si trova la forza per perdonare l’assassino di tua figlia? Come si fa ad accettare una tragedia inspiegabile che si porta dietro anche l’orrore per come, quella tragedia, si è consumata? Lei non perdona e il suo rifiuto lo urla anzi, lo scrive con parole di fuoco per rispondere a quell’uomo condannato all’ergastolo che solo pochi giorni fa, dal carcere, aveva provato a giustificare. «Non l’ho uccisa, l’ho fatta a pezzi per paura. Su di me solo pregiudizi». E mamma Alessandra non ce la fa a sopportare quelle parole così, in una lettera affidata all’agenzia Adnkronos risponde ad Innocent Oseghale, il nigeriano condannato all’ergastolo per l’omicidio di Pamela Mastropietro. Era il 2018 e la ragazza, 18enne, fu prima stuprata, poi uccisa e infine fatta a pezzi. Viveva in una comunità di recupero per problemi di tossicodipendenza. Si perse di nuovo nei giardini “Diaz” a Macerata incontrando Oseghale. I suoi resti furono trovati dentro due trolley. Un orrore inspiegabile e inaccettabile. Terribile. «Adesso parlo io»: inizia così la lunghissima lettera di mamma Alessandra che non contempla perdono ne comprensione. «Ricordati l’ergastolo è sempre poco per quello che hai fatto a Pamela». È una lettera la sua che trasuda rabbia e dolore e sia la prima che il secondo vanno lasciati sfogare. «È disumano e terrificante tutto quello che tu e i tuoi amici avete fatto a mia figlia. È disumano il fatto che tu ancora non sia veramente pentito». 

Il precedente

L’uomo in una precedente lettera aveva parlato di «pregiudizi» legati alla sua condizione di immigrato, di aver subito violenze di ogni genere insieme ad altre persone sequestrate dagli scafisti che dalla Libia lo portarono in Italia. Scrive, Oseghale, che mai e poi mai avrebbe violentato e ucciso Pamela. Di fronte alle sue parole mamma Alessandra risponde «Basta, a te e ai tuoi amici vi abbiamo accolto, abbiamo offerto cure, integrazione. E voi come avete ricambiato? Rifiutando il lavoro perché preferivate delinquere? Approfittando della carità che il mio Paese vi ha dato? Violentando e massacrando con tanta cattiveria e precisione una ragazza di 18 anni?». E ancora: «Perché portavi il rosario durante le udienze se dici di aver intrapreso ora, in carcere, un cammino cristiano? Per tutto quello che hai fatto a Pamela escludo che tu pregassi Dio. A me la fede sta aiutando a sopportare questo dolore immane che tu hai provocato. Che puoi saperne tu della voglia di riabbracciare quel corpo che hai fatto a pezzi? Perché tutto questo? Mia figlia l’avete lavata con la candeggina, messa in due trolley abbandonati sul ciglio di una strada».

La condanna

E poi la sua condanna che arriva implacabile e severa: «Per tutto quello che hai fatto a Pamela, io non ti credo». Poi mamma Alessandra riprende le fasi del processo, la difesa del nigeriano a cui non crede. «Dici di aver commesso lo sbaglio più grande della tua vita non chiamando subito l’ambulanza e la polizia. Lo sbaglio più grande è quello di non aver aiutato una ragazza che voleva tornare a casa. Come a voler infierire scrivi di condividere con me lo stesso dolore. Non ti permettere». La madre di Pamela mostra clemenza solo verso i figli dell’uomo: «sappi che se un giorno si dovessero presentare alla mia porta, li abbraccerò perché anche a loro tu hai distrutto il cuore. Io non ti perdono se fossi veramente pentito faresti i nomi dei tuoi complici».

Omicidio Pamela Mastropietro, confermato l'ergastolo per Oseghale. Resta l'aggravante dello stupro. La madre: «Ci sono altri mostri». Fulvio Fiano il 22 Febbraio 2023 su il Corriere della Sera.

Sta già scontando il carcere a vita il nigeriano che uccise la ragazza il 30 gennaio 2018. Per l'accusa, «il modo in cui è stato smembrato il corpo di Pamela dimostra che l'assassino voleva coprire la violenza sessuale»

Ergastolo confermato per Innocent Oseghale, l’uomo accusato dell’omicidio e della distruzione del cadavere di Pamela Mastropietro. La corte d’Assise d’appello di Perugia conferma dunque la sentenza diventata già definitiva per l'omicidio, riconoscendo anche l’aggravante della violenza sessuale ai danni della 18enne romana uccisa il 10 gennaio 2018 in provincia di Macerata. Su questa si giocava il processo, con i timori della famiglia della ragazza che senza l'aggravante la pena potesse diminuire. 

La Cassazione aveva infatti mandato gli atti a Perugia per un processo di appello bis in relazione a questo aspetto. «Il modo in cui è stato smembrato il corpo di Pamela dimostra che l'assassino voleva coprire la violenza sessuale», era invece la tesi del pg, ribadita in aula da Marco Verni, legale di parte civile e fratello di Alessandra Verni, la madre della ragazza. «Sentenza giusta, nessuno sconto di pena. E adesso vogliamo gli altri - le prime parole di Alessandra - Ci sono le prove che c'erano anche gli altri. Ci sono altri mostri fuori», 

La difesa ne chiedeva l’assoluzione perché «il fatto non sussiste». «Non ho parole. Ho temuto per una sentenza diversa. Adesso bisogna sperare di superare la Cassazione», ha detto Stefano, il padre, all'uscita dal tribunale. «Ergastolo, ergastolo», ha urlato invece la mamma Alessandra. Assente l'imputato, la camera di consiglio è durata un'ora. 

Pamela era stata agganciata dal suo assassino mentre vagava in strada in cerca di droga dopo essere fuggita da una comunità di recupero a Corridonia. Il suo corpo era stato ritrovato fatto a pezzi in due trolley. 

«Pamela era incapace di autodeterminarsi. Se lo fosse stata non sarebbe andata con nessuna delle persone con cui è andata - ha sostenuto in aula l'avvocato Ippolita Naso legale di Stefano Mastropietro - Pamela era sotto terapia farmacologica con 4 tipi di farmaci diversi tra cui antipsicotici. Da quando si era allontanata dalla comunità non li ha più assunti, subendo anche la sindrome da farmaco. Pamela che non era in grado di autodeterminarsi. Il suo comportamento faceva parte del suo disturbo e della sua personalità disturbata».

Riconosciuto il reato di violenza sessuale. Omicidio Pamela Mastropietro, ergastolo confermato a Oseghale. La madre: "Altri mostri hanno violentato mia figlia". Redazione su il Riformista il 22 Febbraio 2023

Per la corte d’Assise di Perugia non ci sono dubbi. È arrivata così la conferma della condanna all’ergastolo a Innocent Oseghale reo di aver violentato, ucciso e fatto a pezzi la diciottenne Pamela Mastropietro nel gennaio del 2018, il cui corpo fu ritrovato in due trolley.

La ragazza si era allontanata da una comunità di Corridonia, da dove aveva raggiunto Macerata e quindi conosciuto Oseghale per l’acquisto di eroina. Ed era proprio sul riconoscimento dell’aggravante della violenza che si giocava il processo con i timori della famiglia che temeva una riduzione della pena se questo non fosse avvenuto.

A Perugia erano arrivati gli atti inviati dalla Cassazione per un processo di appello bis in relazione proprio a constatare questa verità processuale. "Il modo in cui è stato smembrato il corpo di Pamela dimostra che l’assassino voleva coprire la violenza sessuale", era la tesi del pg, ribadita in aula da Marco Verni, legale di parte civile e fratello di Alessandra Verni, la madre della ragazza.

"Non ho parole", ha detto Stefano, il padre, in risposta alla difesa di Oseghale che ne chiedeva l’assoluzione perché "il fatto non sussiste". "Ho temuto per una sentenza diversa. Adesso bisogna sperare di superare la Cassazione" ha concluso all’uscita dal tribunale. La mamma Alessandra con indosso una maglietta con il volto della figlia ha invece urlato: "Ergastolo, ergastolo" e, fuori dall’aula ha parlato di decisione "giusta" per la conferma dell’accusa di violenza sessuale ma sostiene che "ci sono altri mostri fuori da prendere".

"Spero che sia a vita e senza sconti di pena. Come ho detto a Macerata fuori uno. Adesso vediamo gli altri" ha aggiunto la madre che ha proseguito: "Vogliamo gli altri perché ci sono le prove che c’erano anche loro. Questa sentenza un po’ di sollievo me lo dà". La camera di consiglio è durata un’ora e l’imputato era assente.

Durante il dibattimento in aula l’avvocato Ippolita Naso, legale di Stefano Mastropietro, ha sostenuto che "Pamela era incapace di autodeterminarsi. Se lo fosse stata non sarebbe andata con nessuna delle persone con cui è andata. Pamela era sotto terapia farmacologica con 4 tipi di farmaci diversi tra cui antipsicotici. Da quando si era allontanata dalla comunità non li ha più assunti, subendo anche la sindrome da farmaco. Pamela che non era in grado di autodeterminarsi. Il suo comportamento faceva parte del suo disturbo e della sua personalità disturbata".

Attanasio, dietro la morte in Congo il racket di visti per l'Europa. Edoardo Romagnoli su Il Tempo il 19 ottobre 2023

La morte dell’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio potrebbe essere legata al racket dei visti. Il diplomatico è stato ucciso in un agguato il 22 febbraio del 2021 a Goma, nel nord del Congo, insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo. Inizialmente si era parlato di una rapina, ma la verità sembra essere un’altra. Attanasio sarebbe stato ucciso perché voleva denunciare una vera e propria compravendita di visti per l’area Schengen. In Congo, dove lo stipendio medio mensile ammonta a 200 euro, un visto per l’area Schengen può valere tra i 5 e i 6mila euro. «La quantità di persone che arrivano in Italia con visti business e turistici supera di gran lunga quello di chi arriva con i barchini. Tra l’altro chi arriva in aereo non viene controllato quanto chi arriva via nave e questo pone una questione importante di sicurezza nazionale» ci racconta il deputato di Fratelli d’Italia Andrea Di Giuseppe. L’onorevole, eletto nella circoscrizione estera dell’America centrale e settentrionale, ha denunciato un tentativo di corruzione proprio nell’ambito dei visti. A seguito dell’esposto è finito sotto scorta per le minacce ricevute «da gentiluomini italiani». Per questo anche lui è portato a credere che la morte del diplomatico italiano possa essere legata al racket dei visti più che a una rapina e per vederci chiaro ha presentato un esposto alla Procura della Repubblica perché si facciano nuove indagini.

«Ricevo ogni giorno telefonate, da tutto il mondo, di funzionari e ambasciatori "fedeli" che mi raccontano tutti la stessa storia» spiega Di Giuseppe. È un giro d’affari enorme, «si parla di più finanziarie anche perché il prezzo di un visto va dagli 8 ai 15mila euro. Poi una volta ottenuto arrivano in Italia e, alcuni, chiedono anche il ricongiungimento familiare spesso con persone che sono parenti fittizi». Ci sono anche una serie di morti sospette che proverebbero come il fenomeno sia effettivamente dilagante. Nel 2016 Mauro Monciatti, un ispettore della Farnesina di 63 anni, è stato trovato morto nella sua abitazione a Caracas in Venezuela. In un primo momento si era parlato di morte violenta, poi di malore, ma la verità sarà difficile da verificare visto che il corpo è stato cremato. E questo è solo uno dei casi di cui anche l’onorevole Di Giuseppe si sta occupando prendendo spunto da un’inchiesta della giornalista Antonella Napoli. 

Nel frattempo il giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Roma ha convocato, per il prossimo 30 novembre, un funzionario della Farnesina che dovrà riferire sulla prassi e la procedura utilizzata per le comunicazioni con i funzionari del Ministero degli Esteri non in servizio in Italia sul procedimento penale per gli omicidi dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci. Gli imputati che dovranno rispondere di omicidio colposo sono Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza. L’accusa è rappresentata dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco e della sostituta Gianfederica Dito. Secondo la pubblica accusa, Leone e Rwagaza sarebbero stati gli organizzatori della missione in Africa dove persero la vita tre persone. Sono tanti gli aspetti da chiarire. Perché l’auto guidata da Milambo e su cui viaggiavano Attanasio e Iacovacci non era blindata? Perché venne scelto proprio quel giorno per recarsi in una delle zone più pericolose del Congo, visto che era stata diramata un’allerta di sicurezza per cui molti militari erano stati richiamati a Goma lasciando sguarnita la strada? Tutti interrogativi che dovranno trovare risposta per poter accertare la verità sul caso Attanasio. Verità che potrebbe scoperchiare un vaso di pandora molto più profondo di quanto appare.

Dietro la morte di Luca Attanasio potrebbe esserci il racket dei visti Schengen. L'ambasciatore italiano in Congo voleva vederci chiaro. «Non è stato un sequestro. Bisogna indagare sul traffico all’interno dell’ambasciata di Kinshasa», accusa un testimone. Antonella Napoli su la Repubblica il 12 Settembre 2023  

Non posso più tacere perché i responsabili della morte dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo sono ancora liberi». A parlare, per la prima volta, è un imprenditore italo congolese, “sponsor” dell’ambasciata italiana nella Repubblica democratica del Congo. La sua è una denuncia precisa che getta una nuova luce sul contesto dell’agguato a Goma, il 22 febbraio 2021. 

Un racconto che disegna uno scenario, un contesto, già acquisito dalla magistratura romana e che coinvolge direttamente alcuni personaggi che gravitavano intorno alla rappresentanza italiana, interessati a un racket di rilascio dei visti Schengen e a una serie di stranezze contabili. Un vero e proprio sistema che vedeva nell’ambasciatore un nemico. Secondo la giustizia congolese, autori dell’agguato sono stati sei cittadini del Paese, componenti di una banda dedita a sequestri a scopo di estorsione. «Fa male sentire che Attanasio e Iacovacci sono morti per un tentativo di rapimento. Il marcio lo avevano vicino. Nessuno si è posto finora il dubbio che tutto sia scaturito da quello», dice la fonte. 

Il testimone che ha rotto il silenzio ripercorre le verità contenute negli esposti presentati al tribunale di Kinshasa, e arrivati, tramite la Farnesina, alla Procura di Roma. Collaboratori e funzionari della nostra ambasciata, ora non più operativi nella capitale congolese, avrebbero rilasciato visti dietro pagamento di cifre che oscillavano tra i 5 e i 6 mila dollari. Somme astronomiche in un Paese in cui lo stipendio medio mensile si aggira intorno ai 200 euro. 

«Sono anni che sento di brogli per i visti in quella ambasciata, ma nessuno ha mai fatto niente. Perché nessuno ha collegato la morte di Attanasio a ciò che aveva scoperto?  Era risaputo che esisteva un business intorno al rilascio di un centinaio di visti illegali al mese. Per non parlare dei soldi del budget per le gare di fornitura all’ambasciata fatti sparire negli anni. C’era chi, pagate le fatture, chiedeva al fornitore, una quota, uno sconto che finiva nelle sue tasche. E ci sono stati maneggi anche sui soldi di noi sponsor della Festa della Repubblica del 2 giugno e della Festa della cucina». 

La fonte fa nomi e cognomi di persone sul cui conto sono state aperte indagini. Si tratta, in particolare, di un funzionario il cui nome ricorre in vari esposti e in una relazione dei carabinieri dell’ambasciata di Kinshasa che lo avevano sorpreso mentre lasciava il Consolato con una borsa piena di passaporti. 

«La magistratura italiana – dice il testimone – dovrebbe andare a fondo. Questo personaggio ha sempre preso soldi dalla vendita illegale dei visti. Sono a conoscenza anche di una truffa al capo dei Servizi congolesi: venticinquemila dollari per dei visti promessi ma mai rilasciati. Il funzionario si è volatilizzato, ma i suoi complici in ambasciata hanno coinvolto un italiano molto in vista in Congo che ha risarcito il truffato per fargli ritirare la denuncia». Ma sul conto del funzionario c’è molto altro. «Dopo la morte di Attanasio ha ricevuto a Goma una busta piena di soldi davanti ad altre persone. E sempre lui ha preso il denaro che era in possesso di Attanasio quando è stato ucciso, denunciandone lo smarrimento». Di sicuro, ricostruisce la fonte, Attanasio poco prima di partire per la missione durante la quale è stato ucciso, aveva promesso di indagare a fondo. «Attanasio non avrebbe ammesso illeciti, ma voleva acquisire altre informazioni. Era un diplomatico intransigente e aveva affrontato anche il funzionario al centro dei sospetti. Ne aveva parlato con persone vicine dicendo: quello gioca troppo con i visti». 

La persona in questione è stata oggetto di denunce inoltrate alle autorità congolesi e acquisite anche dalla Farnesina che, contattata da L’Espresso, non ha fornito ulteriori elementi. 

Di sicuro a segnalare anomalie è stata anche la moglie dell’ambasciatore Zakia Seddiki. Entrando nella posta elettronica istituzionale del marito aveva notato che erano state cancellate le mail dell’intero 2020, fino a pochi giorni prima dell’agguato. Un elemento non sufficientemente valutato all’epoca. A non accontentarsi della versione ufficiale sono stati anche il padre del diplomatico, Salvatore Attanasio e il fratello del carabiniere ucciso, Dario Iacovacci, sottufficiale di Marina. 

«Da tempo si rincorrono voci ma anche notizie circostanziate su azioni poco limpide di alcuni soggetti che operavano in ambasciata. Perché il ministero degli Esteri non è intervenuto?», si chiede Dario Iacovacci. «E poi – prosegue – c’è la storia della scorta dimezzata». Ovvero del secondo uomo che avrebbe dovuto vigilare sulla sicurezza di Attanasio lasciato a casa, come dell’intero dispositivo di tutela del diplomatico anche in sede. Ma anche del giallo sull’intera organizzazione del viaggio di Attanasio, circostanza per la quale ci sono già due indagati in Italia. Si tratta dei due funzionari del Programma alimentare mondiale, Rocco Leone e Mansour Rwagaza, accusati di omesse cautele e omicidio colposo, già arrivati al giro di boa dell’udienza preliminare che riprenderà il 14 settembre. 

Il ministro congolese – spiega Dario Iacovacci – sostiene di non aver mai ricevuto nessun documento che diceva che l’ambasciatore e mio fratello sarebbero andati in missione nel Kivu». Ma le stranezze non si esauriscono qui: c’è anche «l’uccisione del procuratore che indagava sull’agguato. Noi – dice - andremo avanti fino in fondo. Per questo ci siamo costituiti parte civile in Italia, mentre lo Stato dal quale ci sentiamo traditi non si è mai presentato davanti al Gup». 

Antonella Napoli è autrice del libro inchiesta “Le verità nascoste del delitto Attanasio”, Edizioni All around

Processo Attanasio: all’Italia non interessa la verità sulla morte di un suo servitore? Stefano Baudino su L'Indipendente il 23 maggio 2023.

Mancano ormai pochissimi giorni all’udienza preliminare del procedimento italiano sull’omicidio di Luca Attanasio, l’ambasciatore lombardo che, il 22 febbraio 2021, fu ucciso in Congo insieme a Vittorio Iacovacci, carabiniere della sua scorta, e a Mustapha Milambo, autista locale del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (PAM), durante un trasferimento a bordo di un convoglio umanitario. In quella sede si dovrà decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio formulata dai pubblici ministeri di Roma a carico di due funzionari del PAM, Rocco Leone (vicedirettore n Congo con funzioni di direttore) e Mansour Rwagaza (addetto alla sicurezza), accusati di omicidio colposo e omesse cautele nella cornice del pluriomicidio. Eppure, nonostante la data limite sia quella di giovedì 25 maggio, il governo italiano non ha ancora dato mandato all’Avvocatura dello Stato per costituirsi parte civile al processo. Un fatto che, destando grande perplessità, stimola molti interrogativi.

La causa di questa titubanza è, probabilmente, del tutto diplomatica. All’epoca dell’iscrizione nel registro degli indagati dei funzionari da parte dei pm, infatti, la Fao (’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) – istituto dell’Onu di cui la PAM è un’articolazione – aveva sollevato un problema di immunità, rivendicata a livello mondiale per tutti i suoi funzionari. Una questione che ora, dopo che la Procura di Roma ha accusato Leone e Rwagaza del reato di omicidio colposo poiché, “in violazione dei comuni doveri loro imposti dai protocolli di sicurezza dell’ONU e del PAM”, avrebbero “contribuito e comunque facilitato” l’azione dei sequestratori – poi divenuti assassini – con false dichiarazioni o omissioni, sembra pesare molto sulla (mancata) azione dell’Esecutivo.

In una nota inviata nel luglio 2021 al Comando dei carabinieri del ministero degli Affari esteri, la FAO aveva infatti parlato di un “grave incidente” in riferimento a quanto avvenuto l’8 giugno 2021 a Roma, quando uno dei due funzionari era stato convocato come persona informata sui fatti dai magistrati e, dopo l’interrogatorio, la sua posizione si era tramutata in quella di indagato. “L’organizzazione ha l’onore di richiamare lo status giuridico del PAM quale organo congiunto e sussidiario della FAO e le Nazioni Unite, i privilegi e immunità che il programma e i propri funzionari godono”, riporta il contenuto della nota, in cui si affermava inoltre che il PAM aveva acconsentito a che il dipendente “venisse sentito esclusivamente sulla base di una cooperazione volontaria e senza pregiudizio alcune a dette immunità”. Si esprimeva, dunque, una “seria preoccupazione” per l’iniziativa intrapresa dalla Procura, che, secondo FAO, si sarebbe posta “in evidente violazione degli accordi fra il PAM e le autorità italiane”, rischiando di “nuocere a una lunga e positiva tradizione di cooperazione e sostegno reciproco fra FAO, PAM e governo italiano”.

Nel frattempo, un mese e mezzo fa il tribunale militare congolese di Kinshasa ha condannato all’ergastolo sei presunti esecutori materiali dell’assassinio, presentati come parte di una banda di sequestratori. I condannati hanno negato ogni accusa, sostenendo di essere stati sottoposti a tortura dalle autorità dopo l’arresto. All’Italia, che in quel caso ha scelto di costituirsi parte civile, andranno due milioni di dollari in “via equitativa”, ossia a carico dei condannati.

Il reale movente della morte di Attanasio e Iacovacci resta, a due anni di distanza, ancora avvolto nel mistero. Poche ore dopo l’eccidio, le autorità congolesi accusarono dell’imboscata un gruppo di ribelli hutu ruandesi, le FDLR (Forces Démocratiques de Libération du Rwanda), che negarono di essere implicati nel pluriomicidio, chiamando invece in causa la banda dei ribelli tutsi. Un’altra ipotesi investigativa ad opera dei missionari comboniani ha invece inquadrato come responsabile dell’eccidio il colonnello Jean Claude Rusimbi, il cui mandante sarebbe stato il presidente del Ruanda Paul Kagame, poiché Attanasio, che sarebbe stato “in possesso di informazioni scomode sui massacri nella zona”, avrebbe voluto indagare sui fondi per gli aiuti umanitari “non raramente dirottati su altre finalità da ONG e organizzazioni internazionali”.

«Ricordare Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci non è solo un dovere istituzionale, ma un atto di giustizia e di amore. Verso le loro famiglie […] che possono contare sul sostegno delle Istituzioni per conoscere la verità su quei tragici fatti. Verso la nostra Nazione, che con orgoglio può rendere omaggio al sacrificio di due servitori dello Stato…», affermava la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni il 22 febbraio scorso, in occasione del secondo anniversario della morte dell’ambasciatore e del carabiniere. Ora capiremo se il governo sarà davvero intenzionato a sostenere gli avvocati e i parenti delle vittime nella cornice di un procedimento più “scomodo” rispetto a quello che, a Kinshasa, ha punito solo piccoli esponenti di bande criminali.

«Abbiamo parlato con funzionari della Presidenza del Consiglio a cui abbiamo presentato le nostre richieste sia per la costituzione di parte civile sia per la non validità dell’immunità per i due funzionari del PAM: ci era stato assicurato un interessamento, ma ad oggi stiamo ancora aspettando risposte concrete – ha riferito in un’intervista Salvatore Attanasio, padre dell’ambasciatore ucciso -. Sono più importanti le relazioni con le Nazioni Unite o l’onore di un Paese che deve pretendere verità e giustizia per i suoi caduti e per la loro memoria? Lo Stato deve far vedere da che parte sta». [di Stefano Baudino]

Giallo Attanasio. Rita Cavallaro su L'Identità il 16 Maggio 2023

C’è un nodo nel governo, che dovrebbe essere sciolto nelle prossime ore, e che farà la differenza nel percorso verso la giustizia e la verità per Luca Attanasio.

Tra nove giorni, infatti, al Tribunale di Roma si aprirà il filone italiano sull’omicidio dell’ambasciatore italiano, ammazzato in un’imboscata in Congo il 22 febbraio 2021, nel corso della quale morirono anche il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo.

E se il capitolo a Kinshasa si è già chiuso con i sei ergastoli per gli assassini, lasciando comunque aperti seri dubbi nelle famiglie delle vittime sulla ricostruzione dell’assalto finito nel sangue, resta ancora appesa al filo la speranza che i giudici italiani possano accertare la verità sugli omicidi, in un quadro più ampio che pone l’accento non solo su chi ha sparato, ma anche su chi ha contribuito, con omissioni e falsificazioni, a lasciare al proprio destino Attanasio e Iacovacci, mandati senza protezione in un’area del Congo altamente pericolosa a causa delle razzie di bande di criminali.

Il prossimo 25 maggio, dunque, prenderà il via, davanti al gup di Roma, il processo che vede imputati, con l’accusa di omicidio colposo, Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza, i due organizzatori della missione che avrebbe dovuto portare Attanasio da Goma a Rusthuru per un’ispezione al progetto del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam), finanziato dall’Italia, e durante la quale sia l’ambasciatore che il carabiniere della scorta furono uccisi. In quella prima udienza è prevista la costituzione delle parti civili al dibattimento. Tra queste, oltre ai familiari delle vittime, è stata individuata quale parte offesa anche la Presidenza del Consiglio, come riportato nel decreto di fissazione.

Dunque il governo, avendo perso nell’assalto mortale due servitori dello Stato, potrà costituirsi contro i due imputati. E non tanto per un risarcimento economico del danno, già fissato in due milioni di dollari in via equitativa nel processo conclusosi in Congo, dove l’Italia si era costituita parte civile contro i sei assassini di Attanasio e Iacovacci.

L’istanza nel filone romano ha più un valore simbolico, principalmente nei confronti delle famiglie delle due vittime italiane, uccise nel compimento del servizio. Al momento, però, la risposta dell’Italia resta titubante, perché a nove giorni dalla scadenza dei termini di costituzione delle parti civili, Palazzo Chigi non ha sciolto il nodo, a causa dei silenzi della Farnesina, incerta sul da farsi.

Posizione chiara, invece, quella del ministero della Difesa, con Guido Crosetto fermamente convinto a costituirsi al processo di Roma. Di questa scelta nel nome della verità non ne ha fatto mistero, neppure con Salvatore Attanasio, il padre dell’ambasciatore ucciso, che il ministro ha incontrato domenica scorsa alla festa degli Alpini, a Udine.

In quell’occasione, il titolare della Difesa ha ribadito la sua posizione alla famiglia del diplomatico, rimasta scettica sulla verità processuale emersa nel filone congolese e fiduciosa che le responsabilità e i presunti mandanti possano emergere nel dibattimento davanti al giudice dell’udienza preliminare di Roma.

In ogni modo il codice di procedura penale consente che possa costituirsi parte civile anche il singolo ministero e non solo la Presidenza del Consiglio. Pur tuttavia una scelta simile rappresenterebbe non solo una sgrammaticatura istituzionale, ma anche un messaggio fuorviante alle famiglie delle vittime, perché farebbe emergere l’idea che l’Italia sia poco disposta a impegnarsi ufficialmente nel percorso di giustizia per Attanasio e Iacovacci.

Questo, il governo lo sa. Motivo per il quale nelle prossime ore Palazzo Chigi scioglierà la riserva e dovrebbe annunciare la decisione della costituzione come parte civile, perché la Nazione non abbandona al destino la verità sull’omicidio dell’ambasciatore e del carabiniere.

Gli esecutori materiali dei loro delitti sono già stati trovati e condannati all’ergastolo, lo scorso aprile, dal tribunale militare di La Gombe, che ha inflitto il carcere a vita a Murwanashaka Mushahara André, Issa Seba Nyani, Bahati Antoine Kiboko, Amidu Sembinja Babu (alias Ombeni Samuel) e Marco Shimiyimana Prince, i sei componenti del commando criminale dedito alle rapine di strada che, il 22 febbraio 2021, decise di rapire l’ambasciatore a scopo di riscatto, in un assalto che finì con tre omicidi. Il filone italiano, invece, punta a inchiodare alle proprie responsabilità i due funzionari che, con la loro condotta illegale, avrebbero creato le condizioni che, infine, hanno portato il commando a causare la morte dei servitori dello Stato.

Per la Procura di Roma Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza, che si appellano all’immunità diplomatica, sarebbero colpevoli di omicidio colposo, per aver omesso e falsificato le procedure necessarie a proteggere l’ambasciatore italiano nell’area del Congo notoriamente nel mirino di pericolose bande di miliziani. Secondo il procuratore Francesco Lo Voi e l’aggiunto Sergio Colaiocco i due dipendenti del World Food Program avrebbero “attestato il falso” e “omesso per negligenza ogni cautela idonea a tutelare l’integrità fisica dei partecipanti e di informare cinque giorni prima del viaggio la missione di pace Monusco, preposta alla sicurezza e alla predisposizione di scorta armata e veicoli corazzati”, si legge nelle carte dell’inchiesta.

Non solo i due dipendenti Onu avrebbero presentato la richiesta di autorizzazione solo 12 ore prima della partenza, anziché 72 come prevede il protocollo, ma, per ottenere rapidamente il permesso, avrebbero falsamente indicato i nomi di due dipendenti del personale Pam al posto di quelli di Attanasio e Iacovacci. E, condotta più grave, non avrebbero informato cinque giorni prima la forza di pace Monusco, che si occupa di predisporre una scorta armata e veicoli blindati nelle zone a rischio, lasciando così Attanasio e Iacovacci in un convoglio senza protezioni, nel mirino del loro assassini, nell’inferno del Congo.

Estratto da open.online l’8 marzo 2023.

I presunti killer dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, rischiano la pena di morte. La pubblica accusa del tribunale di Kinshasa ha chiesto la massima condanna (che di prassi viene comunque trasformata in ergastolo) per i sei uomini che avrebbero fatto parte del commando che, nel febbraio 2021, assaltò un convoglio diplomatico su cui viaggiava anche Attanasio, nell’est della Repubblica Democratica del Congo.

 Come chiarisce Ansa, nella Repubblica Democratica del Congo la pena di morte è comminata spesso, nei casi di sicurezza nazionale, ma da 20 anni non viene applicata ed è trasformata automaticamente in ergastolo.

 Attanasio, 43 anni, fu ucciso da colpi di arma da fuoco in un’imboscata tesa da criminali a un convoglio del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam) con cui si muoveva ai margini del Parco nazionale dei Virunga, nel Nord Kivu, una delle aree storicamente più rischiose dell’Africa centrale.

L’accusa riguarda anche la morte del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo. […]

 L’inchiesta del tribunale di Kinshasa si occupa solo di una parte della vicenda. Parallelamente, infatti, è stata chiusa a Roma l’indagine avviata dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco sulla morte dell’ambasciatore e le sue cause: due funzionari del Programma alimentare mondiale Onu (Pam) sono stati rinviati a giudizio con l’accusa di omicidio colposo. Secondo la ricostruzione di piazzale Clodio i due non avrebbero fornito al convoglio di Attanasio le protezioni necessarie per il viaggio in una zona pericolosa come il Nord Kivu. Il 25 maggio ci sarà la prima udienza e avrà un peso la scelta del governo italiano che non ha ancora fatto sapere se si costituirà parte civile oppure no.

Non fu un sequestro ma un raid militare: un po’ di luce sulla morte di Luca Attanasio. Antonella Napoli L’Espresso il 22 Febbraio 2023

Un ufficiale del Congo smentisce la tesi del tentativo di rapimento per l’omicidio del diplomatico italiano. "Azione mirata di un commando venuto dal Ruanda, i soldati sapevano"

«Io e i miei familiari siamo in pericolo. Se chi vuole far calare il silenzio sul caso Attanasio mettesse insieme gli elementi che riconducono a me e avesse conferma che sono stato sentito dagli inquirenti italiani, sarei un uomo morto».

A parlare è un alto ufficiale congolese, di cui non riveliamo l’identità per proteggerlo. È lui il superteste dell’inchiesta sull’uccisione dell’ambasciatore italiano nella Repubblica democratica del Congo, Luca Attanasio. Il militare ha fornito elementi sulla tesi di un attacco deliberato e non di un sequestro finito male. Nell’agguato nel Nord Kivu del 22 febbraio 2021, oltre al nostro diplomatico, persero la vita il carabiniere che gli faceva da scorta, Vittorio Iacovacci, e un autista del convoglio del World food programme, Mustapha Milambo.

Secondo il testimone, quella dei «criminali comuni», arrestati nel gennaio del 2022 e attualmente sotto processo davanti alla corte militare di Kinshasa, «è una messinscena». «Chi ha agito proveniva dal Ruanda, supportato da un colonnello delle forze armate della Repubblica democratica del Congo», conferma l’ufficiale. «Quelli che hanno operato a Kikumba appartenevano a un gruppo strutturato, con un obiettivo politico. Ma le indagini delle autorità in Congo su questa pista sono state sospese e il fascicolo chiuso. Spetta all’Italia fare chiarezza», spiega il militare.

Già nel 2021, le informazioni della fonte erano state acquisite dagli inquirenti italiani, guidati dal pm Sergio Colaiocco, attraverso l’allora incaricato d’Affari presso l’Ambasciata d’Italia a Kinshasa, Fabrizio Marcelli. E, da quanto emerge dagli atti giudiziari, il magistrato che era nel team di inquirenti dell’Auditoriat militaire di Goma - che aveva condotto le fasi iniziali delle indagini sull’uccisione di Attanasio - aveva disposto l’arresto di alcuni soldati delle forze armate del Congo.

Secondo l’ufficiale, gli assalitori erano sul posto già dal sabato precedente l’attacco. E poco prima della missione a Goma organizzata dal vicedirettore del Wfp in RdC, Rocco Leone, era stato inspiegabilmente rimosso il posto di blocco dell’esercito istituito in località "Trois Antennes", l’area dove poi si era consumato l’agguato. Ma a inizio marzo del 2021, quando è arrivata da Kinshasa una commissione incaricata di sovraintendere alle indagini della procura militare di Goma, l’inchiesta è stata congelata. Il comandante del battaglione che abbandonò il posto di blocco si è assunto la responsabilità della decisione ma non ha fornito spiegazioni sul perché.​

La commissione aveva liberato i fermati e non aveva ritenuto opportuno sentire il colonnello a capo dell’altro reggimento congolese impegnato nella zona.​ A volerci vedere chiaro era rimasto solo l’ufficiale che coordinava le indagini. Frustrato dall’atteggiamento dei superiori, aveva chiesto di lasciare. Al rifiuto delle dimissioni è seguito poi un repentino trasferimento a Kinshasa. E con la rimozione anche la smobilitazione dell’intera squadra che si occupava del coinvolgimento dei soldati congolesi.

Da quel momento si è proseguito solo sulla pista di un attacco di predoni. I militari sono usciti di scena: la richiesta dei tabulati telefonici dei sospetti è rimasta lettera morta. E resta un interrogativo sul passaggio senza intoppi di un altro convoglio con operatori umanitari, poco prima di quello di Attanasio. Un ulteriore indizio che porta all’ipotesi di un attacco mirato.

L’autrice ha appena pubblicato il libro "Le verità nascoste del delitto Attanasio" (edizioni All Around)

Ciccio e Tore, la madre chiede di riaprire le indagini: "Potrebbero essere stati vittime di omicidio". "Sono sicura che con loro ci fossero altri ragazzi, che sapevano dov’erano finiti e non hanno mai voluto parlare", ha dichiarato. Federica Palman il 23 Marzo 2023 su Notizie.it.

La madre di Ciccio e Tore crede che i suoi figli siano stati uccisi: “Furono istigati da qualcuno ad andare nella casa delle cento stanze”

È evidente che con Ciccio e Tore ci fosse qualcuno che non ha mai voluto dire niente”

Salvatore sarebbe ancora vivo se qualcuno avesse chiamato subito i soccorsi”

Anche il padre ha chiesto di riaprire le indagini

I fratelli Francesco e Salvatore (Ciccio e Tore), 13 e 11 anni, sparirono il 5 giugno 2006 a Gravina di Puglia (nella città metropolitana di Bari). Venti mesi dopo i loro corpi furono trovati senza vita nella cisterna di una masseria abbandonata.

Per la madre, Rosa Carlucci, non si trattò di un tragico incidente. “Fu molto più di una prova di coraggio. I miei figli furono istigati da qualcuno ad andare lì e potrebbero essere stati vittime di omicidio“, ha dichiarato Carlucci, come riportato dal Corriere del Mezzogiorno. La donna chiederà di riaprire le indagini.

La madre di Ciccio e Tore crede che i suoi figli siano stati uccisi: “Furono istigati da qualcuno ad andare nella casa delle cento stanze”

Rosa Carlucci si prepara per una nuova battaglia legale. La prima, tentata nel 2012, non ebbe successo: la donna aveva chiesto alla procura dei minori di Bari di riaprire le indagini, sostenendo che i suoi figli fossero stati sottoposti a una prova di coraggio da parte di alcuni ragazzi più grandi. La vicenda si concluse con l’archiviazione.

Carlucci ora punterà tutto sull’ipotesi di omicidio. “I miei figli furono istigati da qualcuno ad andare nella casa delle cento stanze. Da soli non si sarebbero mai avvicinati, anche perché era un posto che non frequentavano. Sono sicura che con loro ci fossero altri ragazzi, che sapevano dov’erano finiti e non hanno mai voluto parlare“, ha detto.

È evidente che con Ciccio e Tore ci fosse qualcuno che non ha mai voluto dire niente”

Per Rosa Carlucci, ci sono diverse incongruenze nelle testimonianze degli amici di Ciccio e Tore, ormai 30enni. “Ci sono stati troppi errori nelle indagini. Le testimonianze dei ragazzi furono considerate inattendibili, ma alcuni dettagli corrispondevano. Uno di loro disse di aver messo una lastra di compensato sul buco di ingresso del pozzo, per vedere cosa succedeva se ci salivi su. E nella cisterna in cui sono stati trovati i miei figli c’erano frammenti di compensato, anche sulla schiena di uno dei due. Come ci è finito del compensato accanto ai loro corpi? Sono stati spinti, o addirittura scaraventati contro questa lastra? Chi ha rilasciato queste dichiarazioni non è più stato ascoltato, perché? È evidente che con Ciccio e Tore ci fosse qualcuno che non ha mai voluto dire niente, ragazzini che hanno taciuto e adulti che li hanno convinti a non parlare”, ha spiegato Carlucci.

Salvatore sarebbe ancora vivo se qualcuno avesse chiamato subito i soccorsi”

La donna sostiene inoltre che uno dei suoi figli, Tore, avrebbe potuto salvarsi se qualcuno dei presenti avesse parlato. “Francesco purtroppo morì sul colpo, ma forse Salvatore sarebbe ancora vivo se qualcuno avesse chiamato subito i soccorsi. E io avrei con me almeno uno dei miei figli. Questo pensiero non mi dà pace ancora oggi”, ha sottolineato. L’autopsia accertò infatti che il figlio maggiore perse la vita immediatamente, mentre il minore morì di stenti dopo un paio di giorni.

Anche il padre ha chiesto di riaprire le indagini

All’epoca dei fatti, fu accusato di omicidio aggravato e occultamento di cadavere e arrestato il padre di Ciccio e Tore, Filippo Pappalardi. Le indagini si concentrarono sui suoi problemi con l’ex moglie Rosa Carlucci, ma dall’autopsia emerse che sui corpi non c’erano segni di percosse e la posizione di Pappalardi venne archiviata. Nel frattempo, l’uomo rimase però in carcere per quattro mesi. Anche lui ha annunciato che chiederà di riaprire le indagini.

"Su Ciccio e Tore fu depistaggio". E oggi il padre chiede giustizia e verità. Intervista a Mauro Valentini che ha scritto un libro inchiesta sulla morte dei fratellini Pappalardi, scomparsi da Gravina di Puglia nel giugno 2006 e ritrovati, due anni dopo, nel pozzo della 'casa delle 100 stanze'. Rosa Scognamiglio il 17 Marzo 2023 su Il Giornale.

"La verità è nelle 'carte dell’inchiesta'". Ne è convinto il giornalista e scrittore Mauro Valentini che, assieme all’ex comandante dei Ris di Parma Luciano Garofano, ha scritto un libro d’inchiesta sulla tragedia di Ciccio e Tore Pappalardi, i due fratellini - uno di 11 e l’altro di 13 anni - ritrovati senza vita in un pozzo a Gravina di Puglia, all’interno della "casa delle 100 stanze".

Dalla scomparsa dei fratellini, avvenuta la sera del 5 giugno 2006, alla ritrovamento dei cadaveri, il 25 febbraio 2008, trascorsero ben 20 mesi. Filippo Pappalardi, il padre di Ciccio e Tore, fu accusato e poi successivamente prosciolto dall’accusa di aver ucciso i suoi figli. Una vicenda che i due autori del volume - Ciccio e Tore. Il mistero di Gravina (Armando editore) - hanno ripercorso e analizzato attraverso le testimonianze messe agli atti dell'inchiesta.

"Filippo fu accusato ingiustamente del più terribile reato che si possa contestare a un padre, quello di aver ucciso i figli - spiega Valentini - Ci fu un’attività di depistaggio da parte di alcuni ragazzini, e non solo tra quelli che frequentavano i fratellini, che fece rischiare a questo pover uomo addirittura l’ergastolo. Evidentemente, e di ciò ne sono convinto, bisognava proteggere un ‘segreto’ molto importante sulla morte di Ciccio e Tore. Ma dopo 17 anni credo sia giunto il momento di fare luce su questa vicenda".

Valentini, come mai ha deciso di raccontare la storia di Ciccio e Tore?

"L’idea di scrivere questo libro è nata dopo un incontro con l’ex comandante dei Ris di Parma, Luciano Garofano, che nel 2017 fu ingaggiato dall’avvocato Maria Gurrado, legale di Filippo Pappalardi, per una consulenza tecnica sul caso. Il nostro obiettivo è quello di invitare a una riflessione tutti gli 'attori' di questa vicenda. Mi riferisco sia alle persone ipoteticamente coinvolte che all’autorità giudiziaria di Bari. E poi speriamo di restituire dignità difensiva a Filippo Pappalardi, che fu ingiustamente accusato di aver ucciso i figli".

Nel libro riporta alcuni stralci delle testimonianze che vennero messe a verbale dagli inquirenti dell’epoca. Partiamo da quelle degli amici di Ciccio e Tore. Quanto hanno inciso sul corso delle indagini?

"Le testimonianze degli amichetti di Ciccio e Tore - all’epoca erano tutti minorenni - hanno inciso moltissimo sul corso delle indagini e degli eventi. Quella di un ragazzino, in particolare, fu determinante per costruire il castello accusatorio contro Filippo Pappalardi".

Cosa raccontò?

"Diede versioni discordanti sul presunto, ultimo avvistamento di Ciccio e Tore nella piazza della Quattro Fontane. Dapprima collocando il papà dei fratellini sul posto - disse di averlo visto mentre sgridava i figli perché si erano bagnati giocando con dei palloncini pieni d’acqua - e poi in un secondo momento ritrattò".

Nei mesi a seguire furono sentiti anche altri due amici dei fratellini Pappalardi. Le loro versioni concordavano?

"No. Ma uno descrisse esattamente come erano vestiti Ciccio e Tore la sera della scomparsa. E per quanto poi provarono a dire che, magari, l’incontro risaliva ai giorni precedenti non era vero. Lo sa perché? Perché quei vestiti che indossavano i due fratellini erano nuovi. Li avevano messi per la prima volta il giorno prima della scomparsa, in occasione della comunione di un cuginetto".

A proposito dei vestiti. Ne libro racconta che prima di uscire di casa, quel pomeriggio di giugno, Ciccio e Tore dissero alla moglie di Filippo Pappalardi che si erano messi di tutto punto perché dovevano "girare un film". Cosa sa di questa storia?

"Ciccio e Tore dissero alla moglie di Filippo, con la quale vivevano assieme al papà, che dovevano 'girare un film'. Non aggiunsero altri dettagli. Probabilmente si riferivano a qualche video che dovevano registrare con i compagni di scuola o gli amici del quartiere".

Ma c’è una traccia dell'ipotetico video?

"A noi risulta che qualcuno dei ragazzini, al tempo, avesse una telecamera. Poi cosa fosse questo ipotetico 'film' e se lo abbiano girato o meno non lo sappiamo. Certo è che gli investigatori dell’epoca non verificarono questa circostanza".

Secondo lei ci furono degli errori investigativi?

Non furono acquisiti i nastri delle telecamere di sorveglianza cittadina, ad esempio, che avrebbero potuto provare gli spostamenti di Filippo Pappalardi la sera della scomparsa, a riprova della sua estraneità alla vicenda”.

A pochi giorni dalla scomparsa alcuni ragazzini chiamarono a casa della vicina della sorella di Filippo Pappalardi spacciandosi per Ciccio e Tore. Si premurano di rassicurare che "stavano bene". Pensa sia stato solo uno scherzo di cattivo gusto o potrebbe esserci dell’altro?

"Penso sia stato un tentativo di depistaggio. Come tanti altri, del resto, in questa tragica storia".

Dice?

"A parer mio, ci sono elementi per poter ipotizzare che qualcuno abbia fatto il possibile per sviare le indagini o, comunque, ritardare il ritrovamento dei corpi di Ciccio e Tore nel pozzo all’interno della 'casa delle 100 stanze'".

Ciccio e Tore, l'appello di papà Filippo: "Chi sa qualcosa ora parli"

Per quale motivo "qualcuno", come dice lei, avrebbe dovuto depistare le indagini?

"Probabilmente c'era un 'segreto' che non doveva essere rivelato".

Che genere di "segreto"?

"Qualcosa di importante e che, forse, era custodito tra le mura della 'casa delle 100 stanze'".

Riguardo la "casa delle 100 stanze", sembra che all'inizio nessuno degli amici di Ciccio e Tore sapesse dell'esistenza di questo misterioso edificio.

"In un primo momento nessuno accennò alla casa delle 100 stanze. Ne parlarono solo quando, nel 2008, fu tirato fuori dallo stesso pozzo in cui erano precipitati i due fratelli anche un altro ragazzino, Michele. Evidentemente, ripeto, c'era qualcosa che non si doveva sapere".

Quando furono estratti i cadaveri dal pozzo, uno dei due fratellini aveva un palloncino nella tasca dei pantaloni. Fu mai analizzato?

"No, così come la bomboletta che venne ritrovata sulla 'scena del crimine'. Magari sarebbe stato utile provare a capire se c'erano impresse delle tracce biologiche. Volendo, lo si potrebbe ancora fare visto che quei reperti sono a disposizione degli inquirenti".

Ritornando alle testimonianze, ce n'è una di un uomo che Filippo Pappalardi registrò e consegnò agli investigatori. Cosa raccontò costui al papà dei fratellini?

"Quest'uomo riferì a Filippo Pappalardi di aver ricevuto informazioni da parte di alcune persone riguardo a degli adulti che, al tempo dei fatti, 'imposero il silenzio' ai ragazzini".

Ma fece dei nomi?

"Sì, precisi".

Nel libro scrive che Ciccio e Tore, forse, si "potevano salvare". Perché lo pensa?

"Il medico legale Francesco Introna, che eseguì l'autopsia, stabilì che uno dei due fratellini era morto nel giro di sei ore dalla caduta per via di un'emorragia. L'altro, invece, sopravvisse circa 24-36 ore. Ciò vuol dire che, se qualcuno avesse lanciato l'allarme, magari, avrebbero potuto salvarsi. E invece non fu fatto nulla".

Che intende dire?

"Quando Filippo Pappalardi si recò in questura, la sera stessa della scomparsa, gli dissero di tornare il giorno dopo, verso le dieci del mattino. Come se avesse dovuto denunciare lo smarrimento dei documenti o il furto dell'auto. Le ricerche dovevano essere tempestive, doveva scattare un allarme sociale. Stiamo parlando di due ragazzi piccoli, che per certo non erano soliti attardarsi, spariti da un momento all'altro. Si poteva e si doveva fare qualcosa subito".

Nonostante siano trascorsi 17 anni, Filippo Pappalardi continua a chiedere che venga fatta luce sulla morte dei suoi figli. Secondo lei, dove e come bisogna cercare la verità?

"È tutto agli atti dell'inchiesta. Basterebbe rileggere le testimonianze e riascoltare alcune persone. Nessuno, se parlasse oggi, rischierebbe qualcosa. Filippo Pappalardi non vuole vendetta, ma solo sapere perché sono morti i suoi figli. Quest'uomo, la moglie e la mamma dei bambini meritano di conoscere la verità. Bisogna cercarla per lui e la sua famiglia, ma soprattutto per Ciccio e Tore".

Ciccio e Tore, l'appello di papà Filippo: "Chi sa qualcosa ora parli". I due fratellini scomparvero a Gravina di Puglia il 5 luglio 2006 e furono ritrovati senza vita in un pozzo il 25 febbraio 2008. Il papà chiede di riaprire le indagini: "Chi sa qualcosa, si metta una mano sulla coscienza". Rosa Scognamiglio su Il Giornale il 23 febbraio 2023.

"Chi sa parli, i miei figli non erano soli il pomeriggio in cui finirono nel pozzo, sanno qualcosa i loro compagni di giochi e anche i loro genitori". È l'appello di Filippo Pappalardi, il papà di Ciccio e Tore, i due fratellini scomparsi a Gravina di Puglia, una cittadina distante poco più di 40 chilometri da Bari, il 5 luglio 2006. I corpi furono ritrovati all'interno di un pozzo, in una casa abbandonata, dopo un anno e mezzo di ricerche andate a vuoto. Era il 25 febbraio 2008, 15 anni fa. "Chi ha detto troppo poco, chi ha ritrattato, chi ha depistato, si metta una mano sulla coscienza", dice Filippo in un'intervista a Repubblica.it in cui chiede di riaprire le indagini.

La "casa delle cento stanze"

Se c'è un dettaglio inquietante in questa storia drammatica, uno dei tanti, riguarda il luogo che per oltre 200 giorni ha custodito il segreto di due giovani vite spezzate troppo presto: Ciccio aveva 13 anni e Tore appena 11. Furono estratti dal fondo di un pozzo in un casolare abbandonato, la "casa delle cento stanze", dove i ragazzini del posto erano soliti incontrarsi nel tardo pomeriggio. Lo hanno fatto fino a quando quel vecchio rudere non è crollato, forse, sotto il peso greve di verità inconfessabili. "Credo che in quella casa sia accaduto qualcosa di inconfessabile, che nessuno tra i coetanei dei bambini e tra gli adulti ha potuto dire Perché un segreto così conservato, costi quel che costi, è un segreto per forza importante", afferma Mauro Valentini, il giornalista e scrittore che assieme all'ex comandante dei Ris di Parma, Luciano Garofano, ha scritto un libro dedicato alla vicenda dei fratellini morti a Gravina di Puglia.

"Abbiamo segnalato nomi e cognomi"

C'è un groviglio di testimonianze in questa tragedia, di parole non dette e ritratte. Filippo Pappalardi ha chiesto per ben due volte alla procura di riaprire le indagini. L'ultima nel luglio 2021, quando è stata respinta l'istanza formulata dal suo legale sulla scorta di una relazione stilata dal generale Garofano. "Abbiamo segnalato alla Procura nomi e cognomi di persone che hanno mentito o non detto tutto ciò che sapevano. I compagni di Ciccio e Tore, che presumibilmente erano con loro, all'epoca non erano imputabili e anche oggi se parlano non rischiano nulla. - spiega l'ex comandante dei Ris a Repubblica - Inoltre, ci sono reperti - una bomboletta spray, la batteria di un telefono, un palloncino - che potrebbero essere rianalizzati alla ricerca di elementi dattiloscopici e genetici con tecniche che quindici anni fa non esistevano. Non è giusto che un padre non sappia cosa è accaduto ai suoi figli, che di fatto sono morti di stenti".

L'appello: "Chi sa parli"

Filippo Pappalardi fu il principale sospettato in questa vicenda. Il 27 novembre 2007 fu arrestato con l'accusa di duplice omicidio aggravato da futili motivi e dai vincoli di parentela e occultamento di cadavere. Il 4 aprile 2008 ritornò in libertà e, l'anno successivo, la sua posizione fu definitivamente archiviata. Gli inquirenti conclusero che Ciccio e Tore fossero morti per via di una lunga agonia e per le ferite riportate a seguito della "caduta accidentale" nel pozzo. Il padre dei due ragazzini non crede alla tesi della procura: dopo 15 anni chiede ancora verità e giustizia per i suoi figli. "Non mi rassegnerò mai a non sapere cosa è successo e per quale motivo. - dice - So che è difficile per lo Stato mettere sotto inchiesta parte dei suoi apparati ma lo deve a me, che sono stato accusato ingiustamente. E soprattutto alla memoria dei miei bambini". Rosa Scognamiglio

I misteri sui fratellini morti a Gravina di Puglia. Ciccio e Tore, a 15 anni dalla morte il padre Filippo Pappalardi chiede giustizia: “Riaprite le indagini, chi sa parli”. Fabio Calcagni su Il riformista il 24 Febbraio 2023

A 15 anni dal ritrovamento dei corpi senza vita dei figli Francesco e Salvatore, per tutti Ciccio e Tore, il padre Filippo Pappalardi non ha perso la speranza di trovare i colpevoli della loro morte.

La storia dei due fratelli di 13 e 11 anni scomparsi da Gravina in Puglia nel giugno 2006 e ritrovati in un pozzo, all’interno di una casa abbandonata a due passi dal centro della città nel febbraio del 2008, occupò per settimane le pagine dei quotidiani dell’epoca.

Storia che fu anche un caso clamoroso di malagiustizia. Filippo Pappalardi fu accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere, e rimase in carcere per tre mesi prima di essere liberato.

Domani, 25 febbraio, ricorre l’ennesimo anniversario del loro ritrovamento e Pappalardi non molla: anche se le indagini hanno ufficializzato che i due fratellini morirono cadendo accidentalmente in un pozzo della “Casa delle cento stanze”, come era chiamata l’abitazione abbandonata in cui furono trovati i corpi, il padre e ora imprenditore è convinto che vi sia una verità nascosta che nessuno vuole controllare.

Pappalardi chiede così di riaprire le indagini. Dalle pagine del ‘Venerdì’ di Repubblica lancia un appello: “Chi sa parli, i miei figli non erano soli il pomeriggio in cui finirono nel pozzo, sanno qualcosa i loro compagni di giochi e anche i loro genitori. Chi ha detto troppo poco, chi ha ritrattato, chi ha depistato, si metta una mano sulla coscienza”.

I riferimenti di papà Pappalardi è al muro di omertà e silenzi che ha visto protagonista la cittadina di 40mila abitanti in provincia di Bari , costati probabilmente la vita a Salvatore. Se infatti fu accertato che il fratello maggiore Francesco morì subito dopo la caduta nel pozzo, dove si era recato assieme a Salvatore e ad altri ragazzini forse per girare un video o per una prova di coraggio, il più piccolo dei fratelli è sopravvissuto per quasi due giorni.

Il ritrovamento dei corpi fu reso possibile solo da un episodio simile: il 25 febbraio 2008 il 12enne Michele, andato lì per giocare insieme ai suoi amici, cadde nella stessa cisterna. I vigili del fuoco lo salvarono perché avvertiti immediatamente e, salvando il piccolo, trovarono anche i corpi mummificati dei fratellini.

Se qualcuno avesse parlato e dato l’allarme, Salvatore avrebbe potuto essere tirato fuori vivo dalla “Casa delle cento stanze”. Secondo Mauro Valentini, giornalista che assieme all’ex comandante dei Ris di Parma Luciano Garofano ha scritto un libro sul caso di Ciccio e Tore, “in quella casa è accaduto qualcosa di inconfessabile, che nessuno tra i coetanei dei bambini e tra gli adulti ha potuto dire”.

Ne è convinto anche Filippo Pappalardi, ma non la Procura di Bari che per due volte ha detto ‘no’ alla richiesta di riaprire le indagini, l’ultima nel luglio 2021.

Risarcito con 65mila euro per l’ingiusta detenzione, Pappalardi si rivolge in particolare all’allora gip di Bari Giuseppe De Benedictis che ordinò la sua carcerazione e che oggi si trova a sua volta recluso per corruzione e detenzione di un arsenale da guerra.

Si liberi la coscienza, racconti chi e perché ha voluto il mio arresto”, chiede Pappalardi. “Bisogna indagare su come sono morti Ciccio e Tore e su come sono state condotte le indagini. So che è difficile per lo Stato mettere sotto inchiesta parte dei suoi apparati ma lo deve a me, che sono stato accusato ingiustamente. E soprattutto alla memoria dei miei bambini”, è la richiesta che arriva dal padre dei due bambini.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Manduria, un cadavere con segni di violenza sotto il viadotto: s'indaga per omicidio. La vittima potrebbe essere un 22enne di cui nelle ultime ore era stata denunciata la scomparsa a Lecce. La morte risalirebbe ad oggi. GIACOMO RIZZO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Febbraio 2023

Giallo a Manduria, nel Tarantino, per il ritrovamento del cadavere di un giovane - che presentava segni di violenza - sotto un viadotto della via vecchia comunale che conduce ad Oria (Brindisi).

Dovrebbe trattarsi di un italiano di 22 anni di etnia rom del quale era stata denunciata la scomparsa a Lecce. A scoprire il corpo martoriato del giovane, intorno a mezzogiorno, è stato un passante. La vittima, a quanto si è appreso, era vestita e aveva il volto parzialmente sfigurato e ferite compatibili con un'arma da taglio. La copiosa emorragia, visibile al momento di un primo esame necroscopico da parte del medico legale Liliana Innamorato, farebbe ipotizzare che la morte possa risalire a poche ore dal ritrovamento.

I rilievi sono stati compiuti dagli agenti della Polizia scientifica, della Squadra Mobile della Questura di Taranto e del commissariato di Manduria, che stanno conducendo gli accertamenti. A supporto sono intervenuti anche i carabinieri. Considerando la tipologia delle ferite riscontrate, s'indaga per omicidio.

Per risalire all’identità della vittima, che non aveva con sé documenti né il telefono, sono state disposte verifiche sulle denunce delle persone scomparse tra il Tarantino e il Salento. Il pm di turno di Taranto, Mariano Buccoliero, si è recato personalmente sul luogo in cui è stato trovato il cadavere, al confine tra le province di Taranto e Brindisi, sulla strada che da Manduria porta al Santuario di San Cosimo alla Macchia.

Il giovane, secondo una delle ipotesi al vaglio degli inquirenti, potrebbe essere stato picchiato e accoltellato a morte e poi scaraventato o abbandonato nella scarpata. Il corpo si trovava vicino ad un muro di contenimento alto circa quattro o cinque metri, accanto a grosse pietre, rifiuti e vegetazione.

Una prima ricognizione esterna avrebbe consentito di riscontrare, come detto, diverse ferite d’arma da taglio, anche al collo e al torace. Una volta scoperta l’identità del giovane, gli inquirenti proveranno a ricostruire gli ultimi movimenti della vittima per risalire alla cerchia delle sue conoscenze al fine di individuare il responsabile o i responsabili dell’aggressione che viene ipotizzata e stabilire il movente.

Dopo i rilievi sul posto, terminati dopo diverse ore, il cadavere è stato trasportato alla camera mortuaria, a disposizione dell’Autorità giudiziaria e in attesa dell’affidamento dell’autopsia, che potrà fornire ulteriori dettagli sulle cause e sull'orario del decesso. 

Il giallo della Bradanico-Salentina. Picchiato, colpito con fendenti al collo e gettato nella scarpata. La Redazione de La Voce di Manduria giovedì il 24 febbraio 2023.

Corpo esile, alto all’incirca un metro e 75, tra i 20 e i venticinque anni, tuta di cotone nera e un grosso tatuaggio sulla pancia. Ferite da taglio sul collo e sul volto ed anche alle mani e agli avambracci. Pantaloni abbassati, nessun documento addosso né altro elemento che portasse alla sua identità. Erano questi gli unici indizi nelle mani degli investigatori che dal mattino di ieri erano stati impegnati per identificare il cadavere di un giovane trovato in un dirupo nelle campagne intorno a Manduria. Nel pomeriggio le prime risposte sono arrivate da Lecce dove il giorno prima era stata denunciata la scomparsa di un ventunenne di nazionalità rom che risiedeva nel centro di sosta Panareo nel capoluogo salentino. Le caratteristiche fisiche corrispondevano, ma sino a ieri non c’era stata nessuna identificazione ufficiale da parte dei parenti. Nella tarda serata, poi, sono stati i social a dare le prime conferme sulla sua identità. «Non doveva finire così», scrive una donna dal cognome di etnia rom sul suo profilo Facebook. Insieme alla tenera dedica, «Ti ho visto bambino, ti ho visto ragazzino ti ho visto uomo e ora pure ti devo vedere da Angelo, non doveva finire così, ti voglio bene te ne vorrò sempre», le foto di un giovane dalle fattezze simili a quelle descritte per il cadavere senza nome. Man mano che passavano le ore, il sospetto è diventato quasi certezza anche se è mancata ancora l’ufficialità degli inquirenti che sul caso si sono mostrati come sempre abbottonati.  

L’unica cosa certa, è che non si è trattato di una morte naturale né accidentale perché il corpo presentava diverse ferite da taglio e di percosse. I tagli alle mani e alle braccia, fanno poi pensare ad un atteggiamento di difesa dai fendenti inferti con violenza. Il luogo del ritrovamento rende più complesse le indagini: una scarpata della Bradanico-Salentina, strada da anni chiusa al traffico perché mai completata nella periferica contrada manduriana «Cittu Cittu». Un luogo frequentato da chi vuole isolarsi in macchina, accessibile solo attraversando dei varchi che negli anni sono stati aperti abusivamente, nel versante che s’incrocia con le provinciali che portano nei comuni di Oria, Erchie e Torre Santa Susanna, nel brindisino. Ma facilmente accessibile anche più a Nord da Sava e San Marzano, nel tarantino.

Impossibile capire come un leccese che non frequenti la zona possa conoscere questi posti. Da una prima ricostruzione del luogo dove è stato trovato il corpo, è possibile ipotizzare che il giovane sia arrivato lì in macchina attraverso uno dei varchi che danno accesso alla strada non percorribile e che il suo o i suoi assassini, raggiunto uno dei cavalcavia privi di guardrail, possano averlo lasciato a bordo strada, già morto o in fin di vita. Lì il corpo sarebbe poi rotolato nel dirupo fermandosi nel terrapieno contro una parete di cemento alla base del ponte.

A segnalare la presenza del cadavere, intorno alle 9,30 del mattino, è stato un manduriano che a quanto pare percorreva in bicicletta una delle complanari percorse dai residenti delle numerose case di campagna presenti in quella zona periferica della città messapica. Il ciclista ha chiamato i carabinieri della compagnia di Manduria che in un primo momento si sono occupati delle indagini con i loro colleghi del nucleo scientifico del comando provinciale di Taranto. In seguito l’attività è passata agli agenti della squadra mobile di Taranto e del commissariato di polizia di Manduria con il coordinamento del pubblico ministero Remo Epifani della Procura della Repubblica di Taranto. Il magistrato ha dato incarico ad un medico legale della provincia di Brindisi che dopo l’esame necroscopico eseguito sul posto ha fatto trasportare la salma nella camera mortuaria dell’ospedale Perrino di Brindisi dove nelle prossime opere si occuperà dell’autopsia.

Nazareno Dinoi su Quotidiano di Taranto

Cadavere rinvenuto tra Manduria ed Oria: è di un 21enne. Si indaga per omicidio. REDAZIONE su pugliain.net il 24 febbraio 2023.

Il volto praticamente sfigurato e quasi irriconoscibile, numerosi segni di violenza su altre parti del corpo. E’ stato rinvenuto in queste condizioni un corpo, senza vita, di un ragazzo di 21 anni nei pressi di Manduria, in una scarpata ai margini di un ponte lungo la strada che porta ad Oria, nel brindisino.

Lo hanno picchiato e accoltellato. Poi, forse, lo hanno spinto in un dirupo. Ed è lì che ieri lo hanno trovato i carabinieri, dopo la segnalazione di un ciclista che ha notato il cadavere riverso sul terreno. Ferite da taglio sul collo e sul volto ed anche alle mani e agli avambracci. Pantaloni abbassati, nessun documento addosso né altro elemento che portasse alla sua identità.

Sul posto sono intervenuti i carabinieri della locale compagnia e del nucleo scientifico del comando provinciale di Taranto.

Il pubblico ministero Remo Epifani con i carabinieri è al lavoro nell’indagine per l’omicidio del ventunenne, di origine rom, che risiedeva a Ceglie Messapica ma in questo periodo si trovava in comunità a Lecce da dove ieri mattina si era allontanato.

David Romoli. Manduria, identificato cadavere con segni di violenza sotto il viadotto: è il 22enne montenegrino scomparso a Lecce. Il corpo presenta segni di ferite da arma da taglio. Si era allontanato in bicicletta senza documenti né telefono. GIACOMO RIZZO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Febbraio 2023

È stato identificato il giovane trovato morto ieri mattina a Manduria (Taranto), sotto un cavalcavia della via vecchia comunale che conduce ad Oria (Brindisi). Si tratta di Natale Naser Bathijari, nato a Campi Salentina (Lecce) l’11 maggio di 22 anni fa e di origine montenegrina. La vittima presentava segni di violenza e ferite compatibili con arma da taglio, anche al collo, alle mani e alle braccia. Il pm Remo Epifani della procura di Taranto ha aperto un fascicolo d’inchiesta per omicidio. A scoprire il corpo martoriato del giovane è stato un uomo che passeggiava in bicicletta. Il ragazzo, non ancora 22enne, indossava una tuta di colore nero. Non aveva con sè documenti nè cellulare. Le caratteristiche fisiche corrispondevano al giovane di cui era stata denunciata la scomparsa nei giorni scorsi a Lecce. A diverse ore di distanza dal ritrovamento del corpo è avvenuta l'identificazione. Ora si attende l’affidamento dell’autopsia da parte del magistrato inquirente. Le indagini sono condotte dalla Squadra Mobile della Questura di Taranto.

Il giovane trovato morto doveva concludere un affare a Manduria. La Redazione de La Voce di Manduria il 25 febbraio 2023.

Natale Naser Bathijari, questo il nome del giovane il cui corpo privo di vita è trovato l’altro ieri nelle campagne di Manduria, aveva un appuntamento con qualcuno a Manduria per concludere un affare. A rivelarlo è stata sua madre che il giorno della scomparsa, non vedendolo rientrare, aveva telefonato alla polizia dicendo che il figlio non era più rientrato dalla città messapica dove aveva preso accordi con un misterioso acquirente della sua auto usata. Tutta manduriana anche un'altra pista seguita da chi indaga che naturalmente non esclude altre ipotesi: una rissa avvenuta la sera prima del delitto in un locale del centro storico dove gli specialisti della sezione scientifica della polizia hanno raccolto tracce da confrontare con altri reperti in loro possesso. Sempre durante quella lite, sarebbero poi esplosi dei colpi di pistola. Sul posto sono stati trovati un paio di bossoli in fase di esame balistica. Le forze dell’ordine hanno anche acquisito le immagini delle telecamere di sorveglianza del locale dove avrebbe avuto origine la lite ed anche quelle di altri sistemi video tra cui un paio della rete pubblica. La presenza del giovane rom in quelle immagini, darebbe la svolta al giallo.

Potrebbe essere lui uno dei protagonisti della lite, magari nata proprio per dissidi originati dalla vendita dell’auto o da qualche sgarbo pagato con la vita. La resa dei conti si sarebbe poi spostava altrove, magari proprio su quella strada fantasma, iniziata quasi cinquant’anni fa e mai completata, diventata terra di nessuno, priva di controlli, buia, chiusa al traffico e sicura per commettere crimini anche per la sua vicinanza con diversi accessi che s’incrociano con vie di fuga che portano nei comuni del brindisino ma anche di Lecce e Taranto. Lì Natale Naser potrebbe aver trovato la morte non prima di essere barbaramente picchiato e colpito da più fendenti contro i quali ha cercato di proteggersi con le mani e gli avambracci su cui erano presenti diverse ferite che la medicina legale definisce proprio «da difesa».

Di quali colpe si sarà macchiato il ventunenne rom per essere ridotto così, lo diranno indagini che hanno tutta l'aria di essere ad una svolta decisiva. Le indagini sono condotte dagli investigatori della squadra mobile di Taranto e dagli agenti del commissariato di polizia di Manduria con il coordinamento del pubblico ministero della Procura ionica, Remo Epifani. Nazareno Dinoi 

Manduria, fermati in tre per l'omicidio del 22enne trovato morto sotto viadotto: prima la lite in un bar, poi l'esecuzione. Il giovane è stato ucciso nella notte tra il 22 e il 23 febbraio. Alla base, probabilmente, un debito di droga. Gli indagati sarebbero vicini alla Scu. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 il 28 Febbraio 2023

Alle prime ore dell’alba la Polizia di Stato ha proceduto al fermo di indiziato di delitto emesso dalla Procura Distrettuale di Lecce a carico di tre presunti responsabili dell’omicidio del 22enne di origine montenegrina Natale Naser Bahtijari, consumato nella notte tra il 22 e il 23 febbraio a Manduria (Ta) e trovato morto sotto a un viadotto. 

Si tratta di tre giovani: Vincenzo Antonio D’Amicis, 19enne di Manduria; Simone Dinoi e Domenico D’Oria Palma, 22enni, il primo nato a Manduria e l’altro a Grottaglie. I tre sono ritenuti dagli inquirenti vicini a una frangia della Sacra Corona Unita. A quanto si è appreso, oltre all’omicidio, sarebbero contestati reati di mafia, il tentativo di soppressione di cadavere e la rapina. Gli inquirenti stavano valutando possibili collegamenti tra l’omicidio e un traffico di droga tra Lecce e Manduria. A dare una svolta alle indagini sarebbero stati gli indizi raccolti nell’auto Fiat 500 trovata nelle campagne qualche ora dopo il ritrovamento del corpo, con la quale la vittima, la sera del delitto, si era recata a Manduria.

I tre manduriani erano già noti per traffico di droga. Gli inquirenti sono partiti dal fatto che la vittima fosse fratello di un ragazzo dal quale i tre indagati, nei giorni precedenti, avevano acquistato della cocaina, e che quella stessa sera fosse andato a Manduria proprio su incarico del fratello, accompagnato da due amiche, per incassare il pagamento. Dopo ore di attesa, dai filmati delle telecamere di sorveglianza si vede come Bahtijari sia stato avvicinato da due uomini con cui si è allontanato, inoltrandosi nei vicoli del centro storico. La vittima sarebbe stata accompagnata in un bar nel centro storico, dove c'è stata la prima violenta aggressione, con colpi di armi da taglio.

Successivamente sarebbe stato condotto in macchina in una zona periferica del paese e sottoposto ad una vera e propria esecuzione, colpito con ripetute coltellate. Caricato nuovamente in macchina agonizzante, è stato infine abbandonato sul cavalcavia nei cui pressi, la mattina successiva, è stato trovato il corpo senza vita. Gli indagati avrebbero tentato di cancellare le tracce dell’efferato omicidio, distruggendo il corpo e sottraendo con violenza e minaccia alle due amiche (che lo avevano accompagnato e che, ignare di quanto accaduto, lo attendevano ancora in piazza) l’auto a bordo della quale era arrivato a Manduria.

Manduria, restano in carcere i tre giovani accusati di aver ucciso il 21enne trovato morto sotto viadotto. L'omicidio per un debito di droga, la magistratura parla di azione spietata ed emblematica del contesto mafioso in cui è maturato il crimine. FRANCESCO CASULA su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Marzo 2023

Resteranno in carcere i tre giovani di Manduria fermati con l’accusa di essere gli autori dell’omicidio di Natale Naser Bahtijari, il 21enne trovato morto nelle campagne di Manduria nella notte tra il 22 e il 23 febbraio scorso. Il gip di Taranto Alessandra Rita Romano ha convalidato l’arresto dei tre e confermato la custodia cautelare in cella per il 19enne Vincenzo Antonio D’Amicis, il 22enne Domenico D’Oria Palma e Simone Dinoi anch’egli 22enne che nell’interrogatorio di convalida hanno scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere.

Il gip Romano ha confermato in pieno il quadro ricostruito dal pm Milto De Nozza che ha coordinato le indagini della Squadra Mobile di Taranto guidata dal vice questore Cosimo Romano: il magistrato ha parlato di un’azione “spietata” ed “emblematica del contesto francamente mafioso in cui è maturato tale gravissimo crimine”. Il giudice ha inoltre evidenziato la caratura criminale già raggiunta dal D’amicis, nipote dello storico boss Vincenzo Stranieri: a soli 19 anni ha “massacrato” un 21enne a coltellate “per avere osato di pretendere la riscossione di denaro” di una partita di droga e per di più “nel territorio ove la famiglia Stranieri esercita da sempre la propria influenza criminale”.

Coinvolto con il nipote che risponde di omicidio. "Stellina" torna ad essere indagato per minacce con metodo mafioso. La Redazione de La Voce di Manduria l’1 marzo 2023

Il suo nome è pressoché costante in tutte le inchieste che hanno interessato Manduria dai primi anni ’80 ad oggi. Vincenzo Stranieri, oggi 63 anni, alias «Stellina» per la stella a cinque punte tatuata sulla fonte, se non come indagato, appare nelle carte come identificativo di un gruppo criminale che di volta in volta sembra rinascere. Anche nel periodo del suo lunghissimo e duro isolamento del 41 bis che lo ha tenuto lontano dal mondo per trent’anni e dove ha contratto delle malattie che non si sanano, il nome, «Stellina», spuntava ostinatamente nelle inchieste dell’antimafia leccese. Che questa volta e dopo tantissimi anni, torna ad indagarlo in merito ad un brutto fatto di sangue in cui è indiziato il nipote che porta il suo nome, Vincenzo Antonio D’Amicis. Con lui la notte tra il 22 e 23 febbraio scorso, raccontano le carte della Procura della Repubblica di Lecce, «Stellina» sarebbe andato a rubare la macchina del giovane Rom, Natale Naser Bahtijari e a minacciare «con metodo mafioso» le due ragazze che erano a bordo ed erano in attesa che tornasse il loro amico che non tornerà più.

Nell’informazione di garanzia che lo indica come indiziato del reato di rapina e minaccia con metodo mafioso, non è dato sapere se fosse al corrente di quanto era accaduto prima. Né per quale scopo lui e il nipote avrebbero rubato la Fiat 500 del Rom per poi lasciarla abbandonata e intatta nel vicino comune di Maruggio.

La versione degli inquirenti, su come si sarebbero svolti i fatti limitatamente alla rapina dell’auto, racconta di atteggiamenti violenti nei confronti delle due donne (una delle quali è la fidanzata del fratello della vittima che nella stessa inchiesta è indagato a piede libero per reati di droga).

La scena si sarebbe svolta nella centralissima Piazza Vittorio Emanuele dove Naser Bahtijari aveva parcheggiato per incontrarsi con i tre indagati. Temporalmente siamo a quando il delitto è stato già compiuto e i due ventiduenni indagati, Simone Dinoi e Domenico Palma D'Oria, si stanno procurando la benzina con la quale avrebbero dovuto bruciare il corpo della vittima che non troveranno.

Nonno e nipote si sarebbero avvicinati alla macchina e con violenza avrebbero aperto le portiere intimando alle donne di scendere. Il più anziano, per vincere la resistenza di chi occupava la macchina ed evidentemente non aveva intenzione di accettare l’invito, avrebbe pronunciato questa frase «scendete dalla macchina o vi sparo in testa». Avrebbe poi strattonato e afferrato per i capelli una delle due donne che si attardava a raccogliere oggetti e effetti personali che i due aggressori non le avrebbero dato il tempo di prendere.      

Ottenuto ciò che volevano, i due manduriani, il nipote alla guida e il nonno nel posto passeggeri, si sarebbero allontanati lasciando le due donne stupite sul marciapiede. La Fiat 500 avrebbe poi preso una direzione praticamente opposta a quella dove in quel momento gli altri due presunti complici stavano cercando il corpo da bruciare. La misteriosa destinazione di quello viaggio è Maruggio dove tre giorni dopo la macchina viene trovata dai carabinieri che la consegnano alla polizia, titolare dell’inchiesta.  

Per la cronaca, Vincenzo Stranieri ha lasciato il carcere a gennaio del 2022 dopo aver trascorso 38 anni consecutivi in carcere di cui 30 in regime di carcere duro. In tanti anni di isolamento, il boss di Manduria che è stato il numero due della sacra corona unita del mesagnese Pino Rogoli, non ha mai avuto condanne per omicidio neanche come mandante. Il reato più pesante per il quale è stato condannato definitivamente, costatogli il carcere per 38 anni, è stato quello del concorso nel sequestro della manduriana Annamaria Fusco, figlia dell’imprenditore del vino, Antonio Fusco. Nazareno Dinoi

I silenzi e le paure che hanno cercato di nascondere le brutalità. La Redazione de La Voce di Manduria il 2 marzo 2023

L’omertà e i silenzi che hanno cercato di coprire l’omicidio del ventunenne venuto da Lecce, hanno occupato molte pagine delle informative che la polizia ha consegnato sul tavolo del sostituto procuratore dell’antimafia leccese, Milto Stefano De Nozza. È presente agli atti, ad esempio, il tentativo di cancellare le tracce si sangue, da parte del titolare, nel locale del centro storico di Manduria dove sarebbe avvenuta la prima sanguinaria aggressione. A portare gli investigatori nel bar manduriano frequentato soprattutto da giovani, sono state le prima macchie ematiche trovare sul basolato davanti l’ingresso. In effetti su alcuni suppellettili è stata trovata una rilevante quantità di sangue fresco. Durante l’ispezione, i poliziotti noteranno un forte odore di varichina sospettando quindi che ci sia stato un approfondito lavaggio per cancellare qualsiasi prova. Interrogato su questo, il titolare del locale ammetterà solo di aver visto la sera prima dei ragazzi che litigavano nel suo locale e di averli per questo invitati ad allontanarsi. Alla domanda su chi fossero costoro, il barista che è originario di Maruggio, dirà di non averli riconosciuti. Una versione «non credibile» per gli inquirenti forti delle intercettazioni ambientali che direbbero tutt'altro.

A non aver voglia di parlare, non sarebbe stato solo l’imprenditore maruggese, ma anche altri testimoni rimasti sconosciuti che in quel momento avranno sicuramente sentito o visto qualcosa perché si trovavano nelle vicinanze, se non addirittura all’interno del bar, mentre avveniva la prima brutale aggressione anche a colpi di lama. 

Tanto si evince dalla ricostruzione di quell'evento che fanno gli investigatori, documentata anche dal microfono nascosto nella Renault parcheggiata nella piazzetta antistante il locale. «Il dispositivo di intercettazione, infatti – si legge sempre nello stesso decreto - ha registrato le urla strazianti della vittima che erano così potenti da rimbombare all’interno della piccola piazzetta ove era in sosta l’auto; nonostante ciò, nessuna chiamata è stata fatta alle forze di polizia per segnalare il verificarsi di un fatto tanto grave. Detto altrimenti “nessuno ha visto o sentito nulla”». N.Din.

Omicidio di Manduria, il 21enne ucciso con «estrema spietatezza e ferocia». La ricostruzione del gip Romano che ha fatto arrestare i tre presunti killer. C'era la volontà di «infierire per infliggere particolari sofferenze o tormenti». FRANCESCO CASULA su La Gazzetta del Mezzogiorno il 3 marzo 2023.

Un’azione «spietata» ed «emblematica del contesto francamente mafioso in cui è maturato tale gravissimo crimine». È quanto scrive il gip Alessandra Rita Romano nell’ordinanza di custodia cautelare con cui ha convalidato il fermo dei tre giovani di Manduria fermati con l’accusa di essere gli autori dell’omicidio di Natale Naser Bahtijari, il 21enne trovato morto nelle campagne di Manduria nella notte tra il 22 e il 23 febbraio scorso.

Il magistrato ha infatti confermato la custodia cautelare in cella per il 19enne Vincenzo Antonio D’Amicis, il 22enne Domenico D’Oria Palma e Simone Dinoi anch’egli 22enne che, difesi dagli avvocati Armando Pasanisi, Franz Pesare e Domenico Sammarco, nell’interrogatorio di convalida hanno scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere.

Il gip Romano ha confermato in pieno il quadro ricostruito dal pm Milto De Nozza che ha coordinato le indagini della Squadra Mobile di Taranto guidata dal vice questore Cosimo Romano evidenziando la «estrema spietatezza e ferocia» nelle diverse fasi del delitto: «si pensi alle aggressioni ripetute in danno di Bahtijari Natale Naser – si legge infatti nell’ordinanza di custodia cautelare – già ferito all’interno o comunque nei pressi del bar Bunker. E nonostante ciò caricato a forza in macchina, sotto la costante minaccia della presenza dei tre indagati e del coltello detenuto dal D’Amicis, condotto per un ulteriore brutale pestaggio in un luogo isolato e ripetutamente colpito con fendenti al volto, al collo, dietro un orecchio, alla regione mandibolare».

Insomma, per la giudice, quell’accanimento andava ben oltre la volontà di uccidere: è la dimostrazione della volontà di «infierire sulla persona offesa per infliggerle particolari sofferenze o tormenti». Un vero e proprio massacro secondo quanto si legge nelle carte «per avere osato di pretendere la riscossione di denaro» di una partita di droga e per di più «nel territorio ove la famiglia Stranieri esercita da sempre la propria influenza criminale».

Non solo. Il giudice ha inoltre chiarito che le «efferate modalità» per uccidere il 21enne sono anche «un chiaro segnale da parte dello stesso D’Amicis per segnalare inequivocabilmente la sua appartenenza al clan Stranieri». Quello che il giudice definisce «l’astro nascente della famiglia Stranieri» non ha avuto alcuna paura, secondo l’accusa, a sfidare un gruppo dalla riconosciuta caratura criminale, forte evidentemente di quella del sodalizio che secondo gli inquirenti fa ancora capo a suo nonno Vincenzo Stranieri, boss indiscusso di Manduria. D’amicis, insomma, nei condivide i «valori criminali» e con quel brutale omicidio vuole affermare la sua «capacità d’intimidazione» e lanciare un messaggio agli avversari: è in grado di «neutralizzare qualsiasi forma di pressione e qualsivoglia pretesa» individuate come «affronto al prestigio criminale della famiglia». A soli 19 anni.

Omicidio di Manduria, massacrato con più di 20 coltellate: così è morto il 21enne leccese. Nazareno DINOI su Il Quotidiano di Puglia Domenica 5 Marzo 2023.

Più di venti coltellate al torace, tra queste anche quelle terribili al collo e alla spalla. Il vero colpo di grazia, invece, sarebbe quello inferto al petto, con un micidiale e profondo fendente. 

Lasciano di ghiaccio i dettagli che filtrano sui primi risultati dell’autopsia sul corpo di Natale Naser Bahtijari , il 21enne leccese di etnia Rom brutalmente picchiato e assassinato a coltellate mercoledì scorso a Manduria. Venerdì sera l’esame autoptico affidato dal pubblico ministero della Dda Milto Stefano De Nozza al medico legale Liliana Innamorato, è andato avanti sino a tarda ora. 

L'autopsia: coltellatre con una sola arma

L’accertamento ha richiesto un approfondimento proprio per esaminare le tante ferite riscontrate sull’addome del ragazzo. Più di venti. Un numero che dà il senso di un massacro. Probabilmente i fendenti sono stati inflitti con una sola arma, quasi certamente a doppio filo, ma sul punto il verdetto definitivo arriverà solo con la relazione che il medico legale depositerà tra sessanta giorni.

Una sola lama, eventualmente, mentre sono tre gli indagati, finiti dietro le sbarre con la contestazione di omicidio aggravato dall’aver agito con metodo mafioso e crudeltà.

L'omicidio "in diretta"

Per l’omicidio del giovane leccese, infatti, all’alba di martedì la squadra Mobile di Taranto ha fermato i manduriani Vincenzo Antonio D’Amicis, di vent’anni, Simone Dinoi e Domenico Palma D’Oria, entrambi di 23 anni. Avrebbero assalito la vittima prima in un bar del centro e poi in due zone diverse dell’agro. L’omicidio sarebbe maturato nel quadro dei rapporti intessuti tra il gruppo di manduriani e i fornitori di droga leccesi, in particolare il fratello della vittima, il 29enne Suad Bahtijari. Un legame che gli investigatori monitoravano da tempo. E proprio una delle microspie piazzate dagli investigatori per intercettare i dettagli del traffico di stupefacenti tra Manduria e Lecce si è rivelata determinante per decifrare l’omicidio. La “cimice” infilata nell’auto di uno degli indagati, infatti, ha consentito di registrare le fasi del delitto. E quelle intercettazioni, insieme alle immagini estrapolate da alcune telecamere di sicurezza di Manduria, hanno spianato la strada ai fermi della Polizia, portando in cella i tre ragazzi.

In carcere anche il fratello della vittima

Le porte del carcere, peraltro, si sono riaperte l’altra sera anche per Suad Bahtijari, 29enne leccese di origini Rom, fratello più grande del ragazzo assassinato. Suad, che era in detenzione domiciliare, è tornato in una cella del penitenziario del capoluogo salentino su disposizione del magistrato di sorveglianza. Il giudice, infatti, gli ha revocato la misura alternativa alla detenzione della quale stava beneficiando, dopo la condanna, già definitiva, a quattro anni e dieci mesi per il ruolo in un traffico internazionale di armi tra la Puglia e il Montenegro. La decisione del giudice è giunta sulla base di quanto emerso nelle indagini sul delitto di Manduria e sulle contestazioni piovute anche sul capo del 29enne.

Il delitto per un debito: il giovane doveva riscuotere i soldi della droga

Natale Naser, secondo il pm della Milto Stefano De Nozza, sarebbe stato assassinato nella cittadina messapica dove si sarebbe recato mercoledì sera per riscuotere il pagamento di una fornitura di cento grammi di cocaina. A fornire la droga ai manduriani sarebbe stato proprio il fratello Suad. E sempre lui, secondo gli investigatori dell’antimafia, avrebbe spedito Natale Naser nella cittadina jonica con il compito di riscuotere il credito. 

Una missione che, purtroppo, è sfociata in tragedia, per motivazioni ancora da decifrare. Lo sfortunato 21enne è stato aggredito, seviziato e assassinato. Poi è stato abbandonato agonizzante in una zona dell’agro di Manduria dove è stato rinvenuto cadavere. In quella terribile notte Suad dopo aver compreso che le cose stavano precipitando ha inviato un sms al manduriano D’Amicis, chiedendo di rilasciare il fratello. Un ultimo disperato tentativo di salvare la vita al ragazzo attuato quando era oramai troppo tardi. Suad, prima di finire in cella, mediante il suo difensore, l’avvocato Stefano Stefanelli, di essere ascoltato dal pm De Nozza.

Suad Bahtijari avrebbe fornito la droga ai manduriani indagati. Delitto del cavalcavia a Manduria, arrestato a Lecce il fratello della vittima. La Redazione su La Voce di Manduria sabato 4 marzo 2923.

Ripercussioni anche a Lecce dall’inchiesta sull’omicidio del 21enne residente a Lecce, Natale Naser Bahtijari, avvenuto a Manduria nella notte a cavallo tra il 22 e il 23 febbraio scorsi, secondo gli inquirenti ad opera di tre giovani manduriani arrestati lo scorso 28 febbraio.

Suad Bahtijari, fratello maggiore della vittima, è stato trasferito in carcere ieri dai domiciliari dove stava scontando una pena definitiva di 4 anni e 10 mesi per traffico d’armi dal Montenegro.  

A disporre l’arresto del 27enne è stato il magistrato di sorveglianza del Tribunale di Lecce, Michela De Lecce, sulla scorta di quanto contenuto nel decreto di fermo e l’applicazione della misura cautelare dei tre manduriani decisa dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto Rita Romano. Dalle indagini risulterebbe che sarebbe stato proprio Suad a fornire la droga ai manduriani accusati di avere ucciso il ventunenne inviato dal fratello a ritirare il denaro poiché impossibilitato a spostarsi perché ristretto ai domiciliari.

Con un altro componente della famiglia di etnia Rom, il fratellastro ventiseienne Denis Ahmetovic, Suad Bahtijari è stato coinvolto in un’inchiesta sul trasporto in Italia di armi e munizioni dal Montenegro. I funzionari della dogana e le Fiamme Gialle trovarono nel serbatoio di benzina dell’auto guidata da un giovane leccese dodici armi da sparo, di cui tre da guerra e una clandestina, e 23 cartucce. Secondo le indagini, ad aver ingaggiato il ragazzo del trasporto in cambio di 6mila euro furono proprio Ahmetovic e Bahtijari, in casa dei quali gli uomini del Gico del Nucleo di polizia-economico finanziaria della guardia di finanza di Lecce fecero altre scoperte: altre sei pistole, quattro delle quali clandestine.

Omicidio del 21enne, c'è il rischio di una guerra tra Manduria e Lecce. Nelle carte dell’inchiesta la sfida per il controllo del territorio. I consigli del boss Stranieri al nipote arrestato: «Fate molta attenzione, quelli non hanno niente da perdere». FRANCESCO CASULA su La Gazzetta del Mezzogiorno il 5 marzo 2023.

«Gli zingari li devi temere perché quelli non temono niente». Parola di Vincenzo Stranieri, il boss di Manduria e storico numero della Sacra corona unita. È lui a offrire questo consiglio al nipote 19enne Vincenzo Antonio D’Amicis, uno dei giovani finiti in carcere insieme a Domenico D’Oria Palma e Simone Dinoi per l’omicidio di Natale Naser Bahtijari, il 21enne trovato morto nelle campagne di Manduria nella notte tra il 22 e il 23 febbraio scorso.

Stranieri conosce evidentemente bene la capacità criminale del gruppo che di cui fa parte anche il 28enne Suad Bahtijari, fratello maggiore di Natale. Ma non è l’unico. Anche gli investigatori, coordinati dal pm Milto De Nozza della Direzione distrettuale Antimafia di Lecce, che stanno indagando sul brutale assassinio del giovane conoscono la forza del gruppo che ha la sua roccaforte nel campo Panareo, un insediamento alle porte di Lecce. E non è un caso che nel decreto di fermo che ha portato i tre manduriani in carcere, i poliziotti della Squadra Mobile guidati dal vice questore Cosimo Romano abbiano scritto nella loro informativa che i tre avevano «maturato il convincimento che il fratello della vittima Bahtjiari Suad, possa porre in essere azioni ritorsive nei loro confronti».

Il rischio della guerra tra Manduria e Lecce, quindi, esiste. Del resto due dei presunti autori del delitto, D’Amicis e D’Oria Palma, sono stati rintracciati dai poliziotti in un albergo: un luogo in cui, scrive il gip Rita Romano nell’ordinanza di convalida, «non avevano altra ragione di soggiornare, essendo entrambi dimoranti nel medesimo paese, se non quella di nascondersi in attesa di trovare un posto più lontano e sicuro per sottrarsi alle ricerche della Polizia», ma anche a quelle di «persone vicine alla vittima che, come visto per Bahtijari Suad. gravitano in pericolosi ambienti criminali».

Gli «zingari» infatti sono conosciuti non solo nel Salento: proprio Suad Bahtijari insieme al fratellastro Denis Ahmetovic sono stati arrestati alcuni anni fa nell’operazione ribattezzata «Bulldozer» per traffico di armi dal Montenegro. Suad Bahtijari fino a ieri mattina era ai domiciliari, mentre ora è stato trasferito in carcere su ordine del tribunale di Sorveglianza di Lecce. La procura di Lecce ha considerato lui e il fratellastro gli organizzatori di un trasferimento di pistole e munizioni intercettate al porto di Bari.

Oltre alle armi, però, Bahtijari sembra aver intessuto un importante rotta per il traffico di stupefacenti: «io ti posso dare fino a trecento chili di marijuana» avrebbe chiarito a D’amicis in occasione della consegna dei 100 grammi di cocaina. Ma per forniture come questa servono i soldi e il gruppo di Manduria non sembra navigare in buone acque: «lì è critica» confessa Dinoi ignaro di essere ascoltati dagli investigatori. Quel discreto quantitativo di cocaina avrebbe dovuto risollevare le sorti del gruppo messapico: tornando da Lecce, quel 6 febbraio, proprio Dinoi si lascia andare a un altro commento chiarificatore «Santo Cosimo. con cento grammi, se non ci riprendiamo».

Ma le aspirazioni sembrano destinate e restare tali. «Il 6 siamo andati a prenderla… siamo al 9 e 30 grammi ne sono rimasti» commenta Dinoi, ma in realtà nella conversazione spiega che solo 5 grammi sono stati venduti a 50/55 euro al grammo.

Troppo poco per raccogliere i soldi da dare agli zingari. Che intanto premono per incassare. «Se non andrà a pagarla, vedrai…» è l’amaro commento di Dinoi il 9 febbraio. E forse in una di quelle richieste di denaro, qualcuno dei leccesi si lascia andare a parole offensive: «hai sparato sulla macchina di mia madre per mio nonno» avrebbe detto D’amicis mentre accoltellando a morte il 21enne, ma il senso potrebbe essere un riferimento a una «sparata», cioè a frasi scappate nelle conversazioni ritenute inaccettabili dai manduriani.

Parole che avrebbero fatto alzare la tensione fino a quella tragica serata del 22 febbraio. Una serata conclusa con un appello disperato di Suad Bahtijari che alle 2.55 scrive a D’amicis un messaggio: «Te lo giuro sulla libertà, sto pulito, lascia mio fratello». Una richiesta caduta nel vuoto: Natale Nasser Bahtijari era già stato torturato e ucciso.

Gli inquietanti dialoghi intercettati dalla microspia. Delitto del cavalcavia: nel posto sbagliato le ricerche del corpo per bruciarlo. La Redazione de La Voce di Manduria giovedì 9 marzo 2023

Emergono altri particolari nell’inchiesta sulla morte del ventunenne leccese di etnia rom, Natale Naser Bathijari, barbaramente ucciso e gettato nel fossato di un cavalcavia della Bradanico-Salentina a Manduria. Per la quale sono accusati i tre manduriani Simone Dinoi e Domenico Palma D’Oria, entrambi di 23 anni e il ventenne Vincenzo Antonio D’Amicis.

Dalle intercettazioni dell’auto a bordo ella quale, secondo la ricostruzione fatta dagli inquirenti dell’antimafia leccese é stato trasportato il ferito, è possibile ricostruite le drammatiche sequenze della ricerca del corpo della vittima ad opera di Dinoi e e Palma D’Oria che avevano intenzione, sempre secondo l’accusa, di dargli fuoco per cancellare ogni traccia.

«Quello è riuscito a salire compà, ci sta il sangue per terra». «Non è riuscito a salire compà… non ce la faceva più a salire… non ce la fa, neanche morto», dicono i due manduriani durante le ricerche concluse senza esito perché il corpo non viene fortunatamente trovato. Non per il buio, ma perché lo cercano nel punto sbagliato.  

Dai loro dialoghi captati dalla microspia, i due amici erano convinti di aver gettato il corpo al di là del cavalcavia e che quindi fosse finito giù, alla base dei piloni di cemento o ai bordi della complanare della sottostante superstrada chiusa al traffico «Bradanico-Salentina». In realtà il corpo esanime dello sfortunato Natale Naser, molto probabilmente ancora agonizzante, rotolando nella scarpata si era fermato sul terrapieno bloccato dalla parete di contenimento in cemento che lo nascondeva alla vista dal basso dove i due invece quella notte lo cercavano.

I ventitreenni che avevano da poco lasciato D’Amicis a casa, avevano recuperato delle bottiglie che avevano riempito di benzina da un distributore sulla circumvallazione manduriana. Percorrendo con l’auto la complanare della Bradanico sono arrivati sotto il ponte convinti di trovare il corpo a cui dare fuoco.

La cimice continua a registrare tutto. «Qui non c'è nessuno compà.. qua non ci sta nessuno... dove ca..o sta questo?». Ai due viene il dubbio che il ferito possa essersi allontanato. «Ma non è che veramente se n’è andato? Ma è possibile? Che dal ponte lo abbiamo buttato compà», afferma D’Oria Palma incredulo. Dinoi gli risponde. «Vedi bene, dai vedi bene che è andato giù, vedi in mezzo alle frasche».    Le ricerche al buio illuminato con le luci flash dei telefonini, continuano sino all’una e trenta. A quell’ora Dinoi accompagna a casa D’Oria Palma. I due si congedano con la richiesta del proprietario dell’auto all’amico di portarsi dietro le bottiglie ancora piene di benzina. Quella terribile notte si conclude alle 2,35 con l’ultima intercettazione telefonica tra D’Oria Palma che chiama D’Amicis. «Sei andato con Simone li?», chiede il presunto capo dei tre sospettati. «Siamo andati ma era sparito». D’Amicis chiede se siano scesi di sotto. «Siamo scesi, abbiamo fatto trenta volte abbiamo fatto, ma non c’era un ca..o». Il ventenne dall’altro capo non sembra avere voglia di sapere altro e interrompe la conversazione con un secco «ciao».  Nazareno Dinoi

La città è sconvolta anche per i silenzi di chi l'amministra. Sammarco rinuncia alla difesa per il delitto del cavalcavia e spiega il perché. La Redazione de La Voce di Manduria giovedì 9 marzo 2023

L’avvocato manduriano Domenico Sammarco, nominato da Domenico Palma D’Oria per difenderlo dall’accusa di avere ucciso in concorso con Simone Dinoi e Vincenzo Antonio D’Amicis il ventunenne Natale Naser Bathijari, ha formalizzato la rinuncia all’incarico. Ad incaricarsi della difesa dell’indagato sarà l’avvocato Armando Pasanisi che con il penalista Franz Pesare difende anche gli altri due indagati.

L’abbandono di Sammarco, come lui stesso spiega in una nota, è legato al suo ruolo di consigliere comunale in carica (è capogruppo consigliare del Partito democratico).

«Seppure non ci siano profili di incompatibilità giuridica – spiega - ritengo che il mio ruolo di consigliere comunale in questo caso cozzi con la difesa tecnica del cliente poiché riguarda fatti terribili che toccano, in generale, il vivere civile e la serenità dei cittadini». Bisogni che sono duramente messi alla prova proprio in questo triste periodo. «Ne è prova la desolazione ancora più accentuata del centro cittadino con i locali vuoti», spiega ancora l’avvocato-politico. Che prosegue così nella sua analisi che non risparmia responsabilità nei confronti di chi amministra la città.

«E' legittimo – afferma Sammarco -, che la gente abbia anche paura di circolare dopo i sanguinosi accadimenti ed ancora più triste vedere che questa amministrazione, sindaco e assessori, non abbiamo speso una sola parola di condanna, non abbiano mosso un dito per gridare a gran voce tale necessità di intervento alle Istituzioni sovraordinate e alle forze di sicurezza tutte. Anzi è sconcertante invece – prosegue l’avvocato - come in tali momenti l’amministrazione minimizzi l’accaduto, ignorandolo, quando invece occorre svegliarsi dal torpore di resa (seppur umanamente comprensibile) che si è ormai annidato nell’animo dei cittadini, per ridare speranza di un futuro migliore». Per Sammarco, infine, è sempre più concreto il rischio che la città «sprofondi ancor più nel baratro in cui l’amministrazione Pecoraro l’ha spinta con la pessima attività sinora condotta».

Seconda ordinanza del gip leccese. Delitto del cavalcavia, le indagini passano a Lecce. La Redazione de La Voce di Manduria il 10 marzo 2023.

Il Tribunale di Lecce ha avocato a sé l’inchiesta sull’uccisione del ventunenne leccese di etnia rom, Natale Naser Bahtijari, avvenuta a Manduria nella notte tra il 22 e il 23 febbraio scorso. Il Tribunale di Taranto, inizialmente competente per territorio, aveva già emesso le ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti dei manduriani Vincenzo Antonio D’Amicis di 20 anni e dei 23enni Domenico Palma D’Oria e Simone Dinoi, tutti manduriani accusati di omicidio in concorso aggravato dal metodo mafioso ed altri reati.

La stessa misura firmata ora dal giudice delle indagini preliminari del tribunale salentino, Laura Liguori, è stata notificata ieri agli avvocati difensori dei tre indagati, Franz Pesare e Armando Pasanisi, che avranno ora più tempo a disposizione per studiare gli atti e decidere le strategie difensive.

Nella nuova ordinanza, il gip leccese condivide e fa proprie le motivazioni che hanno spinto il collega del Tribunale ionico ad emettere le originarie misure. «Il granitico quadro indiziario – si legge nell’atto -, emerge in prima battuta dalle intercettazioni telefoniche ed ambientali, il cui chiaro contenuto ha consentito di ricostruire nel dettaglio lo svolgimento della vicenda criminosa sin dalla fornitura di 100 grammi di cocaina da Suad Bathijari (fratello della vittima, ndr) a D’Amicis e Dinoi fino al tragico epilogo del tentativo di riscossione del credito servendosi del fratello Natale Naser, massacrato dal D’Amicis e dai due coindagati». Anche per il gip leccese ricorrono tutti gli indici rilevatori del carattere mafioso nelle condotte degli indagati. «Vincenzo D’Amicis – scrive la gip Liguori – ha agito facendo leva sull’appartenenza a un’organizzazione di stampo mafioso da tempo radicata nella provincia di Taranto, agevolato dal fatto di essere il nipote di Vincenzo Stranieri, ai vertici della stessa a il cui nome soltanto è in grado di evocare un contesto criminale pericolosissimo caratterizzato da forza intimidatrice e da sicura capacità di sopraffazione». Nazareno Dinoi

E' stato lui a trovare il cadavere ed ha chiamato i carabinieri. Delitto del cavalcavia, il coraggioso ferrivecchi che non si è girato dall'altra parte. La Redazione de La Voce di Manduria martedì il 14 marzo 2023.

In questa bruttissima storia dell’omicidio del ventunenne trovato morto sotto il cavalcavia della Bradanico Salentina, c’è stato un manduriano che non si è girato dall’altra parte come è invece accaduto durante la prima aggressione nel centro storico. E’ quello che ha scoperto il cadavere ed ha chiamato le forze dell’ordine sena fuggire come ha fatto invece un altro automobilista rimasto sconosciuto.  

L’uomo che vive con quello che ricava dalla raccolta di ferro vecchio, racconta così la sua brutta esperienza. «Ho fermato una Fiat Uno di colore bianco guidata da un giovane che quando gli ho chiesto se poteva chiamare la polizia, ha fatto un gestaccio con il braccio ripartendo di corsa».  Il manduriano ha poi ricostruito così quel macabro ritrovamento. Intorno alle 8 del mattino del 23 febbraio scorso, l’uomo, a bordo di una bicicletta, si è diretto nel piccolo casolare di campagna di sua proprietà per dare da mangiare ai cani. Per raggiungere la casetta rurale bisogna percorrere il cavalcavia della Bradanico Salentina dove si sono consumate le parti finali del delitto e dove era stato gettato il corpo del povero Natale Naser.

Appena superato il ponte, nel guardare ai bordi strada in cerca di materiale ferroso che avrebbe poi raccolto, il manduriano ha visto qualcosa che lo ha costretto a fermarsi. «Ho notato vicino ad un cespuglio il corpo di un uomo di giovane età che giaceva su un terrapieno scosceso». Il 63enne, per accertarsi meglio di quanto aveva visto dall’alto, sempre a bordo della stessa bicicletta si è recato sotto il ponte dove ha potuto verificare che non si era sbagliato. Non sapendo cosa fare, non avendo un telefono cellulare, ha cercato aiuto ad un automobilista che transitava sulla complanare della superstrada chiusa al transito perché mai ultimata. «Chiama la polizia perchè c’è un uomo che è morto», ha detto il ciclista che per tutta risposta ha ricevuto «un gestaccio con il braccio» dall’automobilista che si allontanava di corsa in direzione Sava.

È toccato al coraggioso ferrivecchio, a quel punto, imbracciare la bici e tornare di corsa a casa da dove ha chiamato le forze dell’ordine. E non è finita lì perché l’uomo, sempre pedalando, è tornato sul posto per farsi trovare dai carabinieri e indicare loro il punto preciso del ritrovamento.

La stessa disponibilità non è stata dimostrata da altri testimoni, ancora più preziosi del ciclista, che secondo chi indaga sull’omicidio si sarebbero girati dall’altra parte proprio nei momenti in cui avveniva il pestaggio del ventunenne leccese. Nazareno Dinoi

Omicidio del 21enne, il ciclista "coraggioso" chiede aiuto a un passante. «C'è un cadavere», ma l'automobilista va dritto per la sua strada. Nazareno DINOI su Il Quotidiano della Puglia Lunedì 13 Marzo 2023

Tra le tante reticenza che avrebbero reso più complesso il lavoro degli investigatori che indagavano sulla morte violenta avvenuta a Manduria del ventunenne di etnia rom, Natale Naser Bahtijari, l’unico a dimostrare invece senso civico e buon coraggio è stato il manduriano che per primo, la mattina del 23 febbraio scorso, ha scoperto il corpo senza vita del ragazzo non esitando a chiamare i carabinieri. 

Il racconto

L’uomo, di 63 anni, che vive con quello che ricava dalla raccolta di ferro vecchio, dopo la shoccante scoperta ha ricevuto anche un deciso rifiuto da un automobilista rimasto sconosciuto che aveva fermato chiedendogli un sostegno. «Ho fermato una Fiat Uno di colore bianco guidata da un giovane che quando gli ho chiesto se poteva chiamare la polizia, ha fatto un gestaccio con il braccio ripartendo di corsa», racconterà il testimone.

Il manduriano ha ricostruito così quel macabro ritrovamento. Intorno alle 8 del mattino del 23 febbraio scorso, l’uomo, a bordo di una bicicletta, si è diretto nel piccolo casolare di campagna di sua proprietà per dare da mangiare ai cani. Per raggiungere la casetta rurale bisogna percorrere il cavalcavia della Bradanico Salentina dove si sono consumate le parti finali del delitto e dove era stato gettato il corpo del povero Natale Naser. Appena superato il ponte, nel guardare ai bordi strada in cerca di materiale ferroso che avrebbe poi raccolto, il manduriano ha visto qualcosa che lo ha costretto a fermarsi.

«Ho notato vicino ad un cespuglio il corpo di un uomo di giovane età che giaceva su un terrapieno scosceso». Il 63enne, per accertarsi meglio di quanto aveva visto dall’alto, sempre a bordo della stessa bicicletta si è recato sotto il ponte dove ha potuto verificare che non si era sbagliato. Non sapendo cosa fare, non avendo un telefono cellulare, ha cercato aiuto ad un automobilista che transitava sulla complanare della superstrada chiusa al transito perché mai ultimata. «Chiama la polizia perchè c’è un uomo che è morto», ha detto il ciclista che per tutta risposta ha ricevuto «un gestaccio con il braccio» dall’automobilista che si allontanava di corsa in direzione Sava.

Ecco cosa ha fatto

È toccato al coraggioso ferrivecchio, a quel punto, imbracciare la bici e tornare di corsa a casa da dove ha chiamato le forze dell’ordine. E non è finita lì perché l’uomo, sempre pedalando, è tornato sul posto per farsi trovare dai carabinieri e indicare loro il punto preciso del ritrovamento. La stessa disponibilità non è stata dimostrata da altri testimoni, ancora più preziosi del ciclista, che secondo chi indaga sull’omicidio si sarebbero girati dall’altra parte proprio nei momenti in cui avveniva il pestaggio del ventunenne leccese. Gli investigatori, ad esempio, non credono (e lo riportano agli atti dell’inchiesta), che il titolare del pub dove sarebbe avvenuto il primo incontro tra la vittima e due dei tre indagati per l’omicidio, non abbia riconosciuti i due manduriani arrestati e che anzi avrebbe cercato di nascondere le tracce della violenta aggressione, con il ferimento, avvenuta all’interno del locale. Nessuna segnalazione sarebbe inoltre venuta da altre persone, si presume giovani, che, secondo il racconto del titolare del bar, si trovavano all’esterno del locale quando la vittima, ormai ferita e sanguinante, veniva trascinata verso la vicina piazzetta dove era in attesa il terzo indagato a bordo dell’auto. 

Inutili sarebbe state anche le richieste di aiuto di Natale Naser che in quel frangente cercava di fuggire intuendo la sua imminente fine. Ad ascoltare quelle grida disperate, è stata invece la microspia dell’antimafia leccese montata sull’auto dei tre sospettati che erano da tempo sotto indagine per un traffico di droga tra Lecce e Manduria.

Delitto evitato per il rifiuto dell'esecutore. Delitto del cavalcavia, le intercettazioni choc: "uccidete anche le donne". La Redazione su La Voce di Manduria giovedì 16 marzo 2023

«No le femmine no». È una sorta di codice non scritto, ma è anche un limite personale, un limite che nonostante le insistenze Simone Di Noi e Domenico Palma D'Oria, due dei tre componenti del gruppo che avrebbe seviziato e ucciso il 21enne leccese di etnia rom, Natale Naser Bahtijari, non hanno voluto superare.

Emerge dalle intercettazioni telefoniche che hanno documentato in real time l'omicidio avvenuto a Manduria nella notte fra il 22 e il 23 febbraio scorsi. Un delitto ancora senza un chiaro movente, se non quello contenuto in una aggravante, il metodo mafioso: l'affermazione di una certa mentalità criminale organizzata per vendicare un presunto ma non chiaro "sgarro" subito. La vittima, emerge dalle carte dell'inchiesta, non aveva la patente. Per questa ragione era stata accompagnata a Manduria da due ragazze di Gallipoli, una la fidanzata e l'altra la sorella, testimoni inconsapevoli se non del delitto, dei momenti iniziali. E sono state poi rapinate dell'autovettura, mentre il tentativo di sottrarre loro i cellulari non è andato a buon fine. «Andiamoci a prendere la fidanzata, la fidanzata alla villa sta», dice Vincenzo D'Amicis. Interviene Di Noi: «E che dobbiamo fare alla fidanzata?». Risponde l'altro: «La dobbiamo uccidere».

«Le femmine lasciale perdere, le femmine si devono lasciare perdere» prosegue D'Oria. Effettivamente il proposito omicida, che a questo punto sembra partire solo da uno dei tre componenti del gruppo, non viene portato a termine. Le ragazze, inconsapevoli, vengono private della Fiat 500 nella quale avevano atteso fino all'una della notte il ritorno di Natale Naser, che nel frattempo era stato assassinato.

Le due ragazze non sono andate subito a denunciare, per paura. Sono poi state sentite come persone informate sui fatti dai poliziotti di Lecce, che hanno cooperato con il colleghi manduriani, coordinati dal pm della Dda, Milto Stefano De Nozza. Hanno raccontato di essersi trovate sole e senza auto. E di aver chiesto aiuto in un bar, riferendo di essere state minacciate di morte. Hanno detto alla polizia di essere state soccorse da un 50enne che le avrebbe poi accompagnate a Gallipoli.

«Io non ce la faccio - dice Di Noi - sempre riferendosi all'idea di ammazzare le ragazze - per uccidere lei non ce la faccio». D'Amicis incalza: «Come non ce la fai, fallo per me, ti ho salvato la vita». Le due sono sane e salve. I tre fermi del 28 febbraio, sono stati disposti in tempi rapidi anche per tenerle al riparo da ogni rischio. Non si escludevano infatti ulteriori spedizioni punitive, sia come vendetta sia per portare avanti il progetto iniziale.

A quanto è emerso dall'attività investigativa, all'origine della contrapposizione fra leccesi e tarantini, ci sarebbe stato un debito di droga. O quantomeno una partita di cocaina da 100 grammi fornita da Suad Bathijari, fratello della vittima. Lo stesso Suad, una volta appreso che il ragazzo non era rientrato a casa, aveva telefonato chiedendo di lasciarlo andare. Roberta Grassi su Quotidiano

Omicidio a Manduria, le intercettazioni choc dei killer: «Uccidiamo anche la fidanzata e la sorella». Claudio Tadicini su Il Corriere Della Sera il 15 marzo 2023.

Il retroscena che emerge dalle indagini sul delitto del 21enne Natale Naser Bahtijari. I giovani arrestati avrebbero voluto ammazzare anche le ragazze che avevano accompagnato la vittima

«Andiamoci a prendere la fidanzata.. la dobbiamo uccidere» dice uno degli indagati, mentre un altro risponde «Le femmine lasciale perdere, le femmine si devono lasciare perdere», riuscendo infine a fare desistere il complice e salvare la vita alla ragazza. È uno dei retroscena che emergono dalle intercettazioni dell’inchiesta sull’omicidio avvenuto a Manduria del 21enne Natale Naser Bahtijari, leccese di etnia rom, accoltellato a morte e poi gettato in un dirupo nella notte tra il 22 ed il 23 febbraio scorsi, forse per vendicare un presunto sgarro maturato nel contesto dei traffici di droga. 

La conversazione telefonica in questione è quella intercorsa pochi minuti dopo il delitto tra Vincenzo Antonio D’Amicis, di 20 anni, Domenico D’Oria Palma e Simone Dinoi, di 23 anni, tutti di Manduria, ritenuti gli esecutori dell’omicidio del 21enne, che - stando a quanto emerso finora - si era fatto accompagnare a Manduria dalla fidanzata e dalla sorella di quest’ultima (in quanto privo di patente) per incontrare i suoi tre futuri assassini, ai quali il fratello aveva ceduto una partita di 100 grammi di cocaina. 

A chiedere l’uccisione delle giovani, che attendevano ignare di tutto nei pressi della villa il ritorno di Bahtijari (nel frattempo prelevato con la forza dal gruppetto ed ucciso) sarebbe stato D’Amicis, che avrebbe incalzato gli altri due affinché compissero il nuovo delitto. «Io non ce la faccio, ad uccidere lei non ce la faccio» risponde Di Noi, mentre D’Amicis replica: «Come non ce la fai, fallo per me, ti ho salvato la vita». Il rifiuto di uccidere le due ragazze ha probabilmente evitato nuove vittime, sebbene la fidanzata del 21enne e la sorella siano state comunque rapinate dell’auto (una Fiat 500), riuscendo ad evitare che venissero loro sottratti anche i cellulari. Rimaste sole, spaventate e senza vettura, le due sarebbe avrebbero quindi chiesto aiuto in un bar, per poi essere riaccompagnate a Gallipoli da un 50enne, sane e salve.

Estratto dell'articolo di Michela Allegri per "il Messaggero" mercoledì 9 agosto 2023.

Lo hanno sequestrato e picchiato, rinchiudendolo in un appartamento in zona Magliana. Avrebbero dovuto riscuotere un debito da mezzo milione di euro e, invece, il rapimento del pr barese Francesco Vitale, in arte "Ciccio Barbuto", era finito in tragedia: la vittima aveva cercato di fuggire, uscendo da una finestra mentre i rapitori erano distratti, ed era precipitata dal quinto piano, morendo sul colpo.

Ora, per quel decesso, due persone sono a un passo dal banco degli imputati: i pm Francesco Cascini e Francesco Minisci hanno chiesto il giudizio immediato - saltando quindi la fase dell'udienza preliminare - per due uomini che, secondo la Procura, insieme a una complice, hanno organizzato il rapimento, su commissione: Fabrizio Daniele e Sergio Placidi, soprannominati "Saccottino" e "Sergione".

L'accusa nei loro confronti è sequestro di persona a scopo di estorsione aggravato dalla morte della vittima. In carcere c'è anche una terza persona: la compagna di Placidi, arrestata in luglio e nei confronti della quale non sono ancora state chiuse le indagini. 

Continua la caccia ai mandanti: dalle indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri è emerso che Vitale aveva un pesante debito con il gruppo capeggiato dal narcos albanese Elvis Demce. Dopo l'arresto dei vertici della banda, avvenuto nel gennaio dello scorso anno, il credito sarebbe stato ceduto e la riscossione sarebbe stata appaltata a Sergione e ai suoi uomini per poche migliaia di euro.

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Arrestata la donna che partecipò alle torture del pr barese Francesco Vitale, sequestrato in casa a Roma e morto dopo un volo dal balcone. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Luglio 2023

Fra gli indizi a carico della Valentinetti arrestata e tradotta in carcere domenica scorsa, ci sono intercettazioni ambientali, il segnale del GPS del suo cellulare e la testimonianza del tassista che l'ha accompagnata nel palazzo della Magliana dal quale poi è precipitato Vitale, detto "Ciccio Barbuto".

Ilaria Valentinetti, 43enne è stata arrestata dai Carabinieri del Reparto Operativo di via in Selci a Roma, nell’ambito delle indagini sulla morte del pr barese Francesco Vitale, precipitato dal balcone il 22 febbraio scorso in via Pescaglia, nel quartiere Magliana a Roma. Ad oggi sono a tre le persone ad essere finite in carcere.  La compagna di Sergio Placidi avrebbe partecipato, con un ruolo da carceriere: la notte tra il 21 e il 22 febbraio si è recata in taxi in via Pescaglia, con l’obiettivo di controllare l’ostaggio per alcune ore, dato che gli altri presunti rapitori si erano dovuti momentaneamente allontanare. 

Fra gli indizi a carico della Valentinetti arrestata e tradotta in carcere domenica scorsa, ci sono intercettazioni ambientali, il segnale del GPS del suo cellulare e la testimonianza del tassista che l’ha accompagnata nel palazzo della Magliana dal quale poi è precipitato Vitale, detto “Ciccio Barbuto“. L’ordinanza di custodia cautelare, firmata dal Gip sulla base degli accertamenti svolti dai Carabinieri e su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Roma, nei confronti di Ilaria Valentinetti, la compagna di Sergio Placidi, 48 anni, bloccato in mezzo al traffico sulla via Pontina, vicino Pomezia i primi di marzo dai Carabinieri supportati dai colleghi del Reparto Territoriale di Aprilia e delle Compagnie di Roma Eur e di Pomezia, che lo hanno arrestato per sequestro di persona a scopo di estorsione con l’aggravante del decesso dell’ostaggio sotto inchiesta per concorso in sequestro di persona a scopo di estorsione, con l’aggravante di aver causato la morte di Francesco Vitale, volato al suolo dal quinto piano del palazzo con un volo che gli è costata la vita espiando probabilmente un debito non risarcibile.  La stessa accusa che aveva già portato in carcere Daniele Fabrizio adesso viene contestata alla donna.

Il pr 48enne, conosciuto con il soprannome di “Ciccio Barbuto“, con precedenti penali , finendo sotto inchiesta in Puglia, era stato segregato e torturato dal gruppo della Magliana di Sergione e Saccottino lo scorso 22 febbraio all’interno dell’appartamento di via Pescaglia 40 a Roma, con un sequestro lampo che aveva come obiettivo la riscossione dai familiari di Vitale di un credito di 500mila euro di droga, una partita di cocaina che non pagata. I sequestratori avevano dato un ultimatum ai genitori di Vitale: “I soldi devono arrivare entro le 8 del mattino del 22 febbraio”. È stato solo a quel punto che i familiari di Vitale si sono recati in commissariato a Bari, dove il fratello di Vitale, parla del debito facendo riferimento a soldi di scommesse non scommesse non restituiti. Ma agli investigatori è subito chiaro che si tratti di droga . 

Il giorno prima della tragica morte, Francesco Vitale, era arrivato da Bari insieme alla sua fidanzata Martina per incontrare i suoi creditori. Sulla base dei riscontri svolti dai Carabinieri del Nucleo investigativo, coordinati dai pm Francesco Cascini e Francesco Minisci della procura di Roma, il pr barese è stato segregato in quell’appartamento della scala D almeno 12 ore prima di atterrare sul selciato del cortile condominiale dopo un volo mortale di una decina di metri .

L’ipotesi è che Vitale abbia tentato una fuga disperata dalla finestra, ma mentre cercava di calarsi al piano inferiore ha perso l’equilibrio. Nella sua ultima telefonata alla compagna, prima di morire, aveva detto: “Amore mio, è finito tutto. Dovrai pensare da sola al nostro bambino“. Redazione CdG 1947

Giù da un terrazzo a Roma, è giallo sulla morte del pr Francesco Vitale. L’ipotesi: «Sequestrato a Bari»

Il 45enne barese era molto noto come pr delle discoteche anche all’estero visto che aveva girato per locali celebri come l’Amnesia di Ibiza. Si indaga anche a Bari. Carlo Testa su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2023.

Rapito a Bari e trasportato a Roma. Dove sarebbe stato scaraventato da un terrazzo. È l’ipotesi che emerge dalle indagini sulla morte di Francesco Vitale, 45 anni, detto Ciccio, molto noto come pr delle discoteche anche all’estero visto che aveva girato per locali celebri come l’Amnesia di Ibiza. Le indagini sono concentrate tra Bari e Roma, dove il cadavere è stato trovato nel cortile interno di un palazzo i via Pescaglia 40, nel quartiere della Magliana. Non aveva documenti né telefono. I carabinieri hanno avviato indagini e sono risaliti alla sua identità attraverso le impronte digitali in quanto il 45enne aveva qualche precedente penale. Vitale avrebbe inoltre stretto contatti con la malavita barese e secondo indiscrezioni si era indebitato con personaggi della criminalità asiatica: per questo si segue la pista di un sequestro lampo, poi finito con un omicidio. Il 45enne, conosciuto sui social come “Ciccio Barbuto”, si sarebbe anche confidato con qualcuno, a cui avrebbe detto di essere in pericolo. Gli investigatori stanno tentando di ricostruire le ultime ore di vita della vittima, ma anche il suo giro di amicizie e conoscenze. Vitale era separato, era padre di una figlia e aveva una compagna. Che a breve potrebbe essere interrogata.

Giallo sulla morte del pr barese Francesco Vitale volato giù da un terrazzo a Roma. L’ipotesi: “Sequestrato a Bari”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Febbraio 2023

I carabinieri hanno avviato indagini e sono risaliti alla sua identità attraverso le impronte digitali in quanto il 45enne aveva dei precedenti di giustizia. Vitale avrebbe inoltre stretto contatti con la malavita barese e secondo indiscrezioni si era indebitato con personaggi della criminalità asiatica: per questo si segue la pista di un sequestro lampo, poi finito con un omicidio.

L’ipotesi che emerge dalle indagini sulla morte di Francesco Vitale, 45 anni, detto “Ciccio“, molto noto nel suo lavoro come pr delle discoteche anche all’estero visto che aveva girato per locali celebri come l’Amnesia di Ibiza, è che sarebbe stato sequestrato a Bari e trasportato a Roma. Dove sarebbe stato scaraventato giù da un terrazzo.. Al momento le indagini sono in corso tra Bari e Roma, dove il cadavere è stato trovato nel cortile interno di un palazzo di via Pescaglia 40, nel quartiere della Magliana. Non aveva documenti né telefono. Vitale era separato, era padre di una figlia e aveva una compagna. Che a breve potrebbe essere interrogata.

I carabinieri hanno avviato indagini e sono risaliti alla sua identità attraverso le impronte digitali in quanto il 45enne aveva dei precedenti di giustizia. Vitale avrebbe inoltre stretto contatti con la malavita barese e secondo indiscrezioni si era indebitato con personaggi della criminalità asiatica: per questo si segue la pista di un sequestro lampo, poi finito con un omicidio. Il 45enne barese, conosciuto sul socialnetwork Facebook come “Ciccio Barbuto”, si sarebbe anche confidato con qualcuno, a cui avrebbe detto di essere in pericolo. La vita mondana notturna era una passione vera e propria nella sua vita lo aveva portato a girare i club più prestigiosi d’Europa, come l’Amnesia a Ibiza. Secondo gli inquirenti, però, la vita notturna era strettamente collegata all’attività di spaccio, che gli è costata la vita.

Gli investigatori stanno tentando di ricostruire le ultime ore di vita della vittima, ma anche il suo giro di amicizie e conoscenze. Ad indagare sul caso sono i carabinieri della stazione Villa Bonelli e della compagnia Eur di Roma, che presto potrebbero interrogare la compagna di Ciccio, che vive a Bari. Il 45enne, separato con una figlia, a Bari era molto conosciuto nella scena delle discoteche

Una delle ipotesi investigative è che Ciccio Vitale sia stato portato sul terrazzo da qualcuno che conosceva. E che sia stato fatto cadere, o sia scivolato, nel tentativo di oltrepassare una delle grate che dividono la terrazza. Forse voleva sfuggire alle persone che stavano cercando di sequestrarlo e nella foga ha perso l’equilibrio. Di sicuro, l’unico testimone oculare lo ha visto precipitare dal punto più alto dell’edificio. Vitale nella caduta ha sbattuto anche contro una balaustra e una bandiera, rischiando di travolgere un’anziana che stava per entrare nella scala. E il giorno stesso i suoi familiari ne hanno denunciato la scomparsa. Redazione CdG 1947

Estratto dell'articolo di Andrea Ossino per “la Repubblica - Edizione Roma” il 28 febbraio 2023.

Più che un suicidio da un terrazzo, si è trattato di un volo dalla finestra del quinto piano di un palazzo alla Magliana, di un tentativo di fuga, forse, da un appartamento dove Francesco Vitale era stato sequestrato, probabilmente a causa di vecchi rancori nati da un debito di mezzo milione di euro maturato nel mondo della malavita, in una vicenda che potrebbe riguardare lo spaccio di droga, anche se il fratello della vittima, denunciando la scomparsa dell’uomo, aveva detto di essere preoccupato perché Francesco Vitale aveva maturato “un importante debito di gioco”.

[…] Nel mondo del pr barese, diviso tra vita notturna nei club più esclusivi e pericolose frequentazioni un debito si può morire.

Il nome del quarantacinquenne compare infatti negli atti di un’indagine sbocciata un paio di anni fa con l’arresto di 13 persone. Era un cartello della droga made in Roma ma legato alla criminalità organizzata pugliese.

 Tra gli arrestati c’è ad esempio Daniele Carlomosti, un omone piuttosto temuto dalle parti de La Rustica, che quando non prestava la sua immagine al piccolo e grande schermo, si dedicava a faide familiari corredate da gambizzazioni, incendi e sparatorie.

La faccia del “ bestione”, Carlomosti, si vede nella serie Romanzo Criminale, nei film con Christian De Sica, Alessandro Gassmann e Tom Hanks, oltre che in Gangs of New York, di Martin Scorsese.

E la ricorda bene anche una persona che dopo aver contratto un debito con lui è stata rinchiusa e seviziata in una stanza dedicata e attrezzata per le torture, con tanto di teli di plastica per non sporcare di sangue le pareti, come nella serie televisiva Dexter.

Altro personaggio di rilievo arrestato nell’indagine in cui compare anche il nome di Vitale è Alessandro Corvesi. La fama raggiunta come ex centrocampista della Primavera della Lazio è stata surclassata dalla notorietà acquisita dopo il suo arresto, quando i carabinieri hanno trovato in casa sua […] 27 chili di polvere bianca. E poi circa 210 mila euro in contanti. Un clamore alimentato qualche mese dopo, quando si è scoperto che Corvesi progettava di uccidere due magistrati […]

Pr barese morto alla Magliana, arrestato un 37enne per sequestro di persona con l'aggravante del decesso della vittima. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2023

Svolta nell'inchiesta sulla tragica fine di Francesco Vitale, 45 anni, con precedenti per spaccio. 

Svolta nelle indagini sulla morte di Francesco Vitale, il pr barese di 45 anni precipitato il 22 febbraio scorso nel cortile di un palazzo in via Pescaglia 40 dopo essere stato segregato in un appartamento al quinto piano della scala D. I carabinieri del Nucleo investigativo di via In Selci hanno fermato un 37enne per sequestro di persona a scopo di estorsione aggravato dalla morte dell'ostaggio. Accusa che al momento non prefigura nei suoi confronti quella di un omicidio. 

Lunedì scorso i carabinieri del Ris erano tornati nell'appartamento, di proprietà di un incensurato, che ci abita da solo, per esaminare i locali con il luminol alla ricerca di tracce di sangue e segni di pulitura delle stanze. Un tentativo di cancellare quanto sarebbe accaduto proprio lì dentro. Vitale, che aveva precedenti per droga, ed era venuto a Roma accompagnato dalla fidanzata dopo aver preso un appuntamento con esponenti della malavita romana in quanto in debito con alcune persone a Roma, forse sempre per droga, è caduto a mezzogiorno dopo aver cercato di aggrapparsi disperatamente ai fili per stendere il bucato ma poi era stato visto precipitare per dodici metri da una testimone. 

La persona sottoposta a fermo su ordine della procura non è comunque il proprietario dell'immobile utilizzato come prigione per alcune ore di Vitale. A segregare il 45enne è stato invece il fermato, un personaggio noto alle forze dell'ordine proprio per i suoi precedenti anche per reati di droga, in contrasto per motivi economici con la vittima per motivi ancora da chiarire. Così come la dinamica che ha portato Vitale a scavalcare il davanzale della finestra e a cadere di sotto. Non si esclude un disperato tentativo di fuga, forse dopo aver capito che dal sequestro la sua situazione sarebbe potuta anche peggiorare. 

Noto pr barese precipitò da palazzo a Roma, arrestato un 37enne. L'uomo è accusato di aver sequestrato Francesco Vitale a scopo di estorsione su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Marzo 2023

Nell’ambito delle indagini relative alla morte del barese Francesco Vitale, avvenuta il giorno 22 febbraio in via Pescaglia, nel quartiere Magliana, i Carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma hanno arrestato un 37enne italiano, dando esecuzione ad un decreto di fermo del pm della Procura della Repubblica di Roma, perché gravemente indiziato del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione con l’aggravante del decesso della vittima.

Secondo quanto accertato il sequestro di persona sarebbe legato a dissidi legati a motivi economici, forse un debito che la vittima aveva contratto. Al vaglio degli inquirenti ci sono anche altre posizioni. Chi indaga deve, inoltre, accertare se la morte di Vitale, precipitato dal palazzo, si avvenuta nel tentativo di fuggire. Le indagini dei Carabinieri di via In Selci proseguono circa la dinamica dei fatti che hanno portato alla morte dell’uomo, ancora da chiarire.

Il Pr barese morto alla Magliana a Roma, trovate macchie di sangue in casa. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Marzo 2023

L'esame dei tabulati telefonici e delle celle agganciate dal cellulare di Vitale dovrebbe consentire di ricostruire i contatti nelle sue ultime ore di vita del pr barese. Il suo telefono infatti è scomparso, così come i documenti dell'uomo, che è stato identificato solo grazie alle impronte digitali in quanto aveva dei precedenti penali.

Tracce di sangue erano visibili a occhio nudo nell’appartamento situato al quinto piano di via Pescaia, alla Magliana, nello stabile dal quale è volato al suolo la scorsa settimana il pr barese Francesco Vitale morto per i traumi dovuti alla caduta da quindici metri. L’appartamento era in disordine, ma quando gli uomini del Ris dei Carabinieri sono arrivati per gli accertamenti hanno immediato avvertito un fortissimo odore di varechina. Probabilmente le persone che hanno sequestrato Vitale avrebbero tentato di ripulire l’appartramento , senza riuscirvi, in quanto alcune tracce sembrano essere sfuggite a chi aveva cercato di cancellare ed occultare ogni possibile prova. Un primo esame dei medici che hanno effettuato l’autopsia rivela che sul corpo sono presenti “politraumi da caduta“, quindi al momento nulla che possa far capire se l’uomo è stato picchiato prima di precipitare dalla finestra carambolando su una bandiera e spezzando i fili del bucato dei condomini che abitano ai piani di sotto. 

Il proprietario dell’appartamento, al momento indagato per sequestro di persona, nell’interrogatorio effettuato dai Carabinieri del nucleo Investigativo, ha dichiarato che la mattina del 22 febbraio, quando Vitale è volato giù da casa sua, non fosse in casa. Ma anche la sua versione sulle tracce di sangue rilevate all’interno dell’ appartamento dai Carabinieri del RIS, non ha convinto, in quanto ha sostenuto di essersi tagliato alcuni giorni prima e che la presenza di quelle macchie risalgano alla ferita che si era procurato.

Le verifiche e le comparazioni con il sangue di Vitale potranno tuttavia essere eseguite solo quando la dinamica di quanto accaduto sarà più chiara: dovranno prima venire identificate tutte le persone sospettate di avere partecipato al “pestaggio”, dal momento che si tratta di accertamenti irripetibili ai quali è prevista dal codice di procedura penale la partecipazione anche dei difensori di eventuali indagati e le eventuali prove emerse dovranno essere utilizzabili in un eventuale processo.

Saranno adesso le operazioni di accertamento irripetibile a verificare e confermare se le macchie ematiche fossero dell’uomo arrivato da Bari per un incontro che gli è poi costato la vita. L’ipotesi investigativa al momento è che Vitale, sia stato sequestrato e picchiato. Gli investigatori coordinati dai pm Francesco Cascini e Francesco Minisci, titolari del fascicolo, non escludono l’ipotesi che il pr barese,si era indebitato per 500mila euro, possa essere stato buttato giù, anche se si valuta anche l’ipotesi in via di accertamento che sia caduto nel tentativo di sfuggire ai suoi aguzzini.

Il sequestro lampo di “Ciccio Barbuto” così si identificava sul socialnetwork Facebook la vittima avrebbe avuto come scopo quello di riscuotere da lui il debito maturato. L’inchiesta si è concentrata suoi sui rapporti con la malavita, inziando dai suoi contatti con pregiudicati come Daniele Carlomosti boss de La Rustica (quartiere di Roma) che quando non prestava la sua immagine in comparsate cinematografiche era “specializzato” nel torturare i suoi debitori in un’apposita stanza allestita con teli di plastica, e l’ex calciatore Alessandro Corvesi con un passato di centrocampista della Primavera della Lazio, il quale dopo essere stato beccato con 27 chili di cocaina aveva chiamato il boss albanese Elvis Demce per progettare l’omicidio di due magistrati. Due personaggi entrambi ben noti alle forze dell’ordine per avere elaborato in altre vicende giudiziarie delle violentissime azioni per il recupero di crediti maturati dalla cessione di droga. Non a caso le indagini del nucleo Investigativo dei Carabinieri del comando provinciale di Roma, sono indirizzate all’ambiente del narcotraffico.

L’esame dei tabulati telefonici e delle celle agganciate dal cellulare di Vitale dovrebbe consentire di ricostruire i contatti nelle sue ultime ore di vita del pr barese. Il suo telefono infatti è scomparso, così come i documenti dell’uomo, che è stato identificato solo grazie alle impronte digitali in quanto aveva dei precedenti penali  tra il 2003 e il 2007, aveva ricevuto due condanne per traffico di stupefacenti per un totale di poco meno di otto anni di detenzione carceraria. Attualmente era imputato a processo per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio – per dei fatti criminosi avvenuti tra il 1998 e il 2004 –, e gli investigatori ritengono fosse rimasto in contatto con la criminalità organizzata barese e tramite questa con altri gruppi operanti in Campania e nel Lazio

Circostanze queste che confermerebbero l’ipotesi investigativa del sequestro di persona. Vitale aveva parlato anche con suo fratello delle preoccupazioni che aveva per quei 500mila euro di debiti , motivo per il quale non avendo sue notizie, il fratello aveva presentato una denuncia a Bari facendo però riferimento a debiti di gioco.

Ciccio Barbuto” il pr 45enne organizzatore delle serate di club cult come l’Amnesia ed il Cova Santa di Ibiza, ma anche per molte discoteche della Campania, attività con la quale probabilmente spacciava la droga acquistata, martedì era partito da Bari insieme alla sua compagna che era andata a Napoli, dalla famiglia, lui invece è arrivato a Roma per il suo ultimo appuntamento che si è concluso in via Pescaia. Da quel giorno non si è saputo più nulla. Ed il giorno dopo il suo corpo era finito dopo un volo di 15 metri sul selciato del cortile interno dell’appartamento alla Magliana. Redazione CdG 1947

Arrestato un 37enne per il volo del pr barese Francesco Vitale dal quinto piano di un palazzo alla Magliana a Roma. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Marzo 2023

La morte di Vitale si sarebbe consumata nell'ambito di una vicenda legata alla criminalità organizzata. Il sospetto sempre più fondato è che il quarantenne avesse raggiunto Roma proprio per incontrare i suoi "creditori" a cui doveva restituire mezzo milione di euro

Per la morte di Francesco  Vitale, il pr barese precipitato da un palazzo lo scorso  22 febbraio in via Pescaglia, nel quartiere Magliana,  è stato arrestato  un uomo 37enne italiano, che i Carabinieri hanno fermato, dando esecuzione ad un decreto del pm della Procura della Repubblica di Roma, perché gravemente indiziato del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione con l’aggravante del decesso della vittima.

Le indagini dei carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma hanno consentito di raccogliere gravi indizi di colpevolezza a carico dell’uomo in ordine al sequestro di persona che sarebbe avvenuto per dissidi probabilmente di natura economica, conducendo gli inquirenti all’arresto del fermato, che non è il proprietario dell’appartamento.

Sulla morte del pr barese noto come “Ciccio Barbuto” sono al lavoro i pm della DDA di Roma a conferma che la morte di Vitale si sarebbe consumata nell’ambito di una vicenda legata alla criminalità organizzata. Il sospetto sempre più fondato è che il quarantenne avesse raggiunto Roma proprio per incontrare i suoi “creditori” a cui doveva restituire mezzo milione di euro.

Vitale aveva a che fare da sempre con la droga: era un affare di famiglia, visto che era finito a processo proprio insieme al padre. Vent’anni fa il primo arresto: nel 2002, gli avevano trovato in casa 250 dosi di hashish e marijuana, 10 pasticche di metanfetamina e qualche grammo di cocaina. Si era giustificato così: “Avevo organizzato una mezza festicciola per Halloween“, visto che era il 31 ottobre. Poco dopo era stato condannato a nove mesi di detenzione. In seguito era finito di nuovo nei guai e sempre per droga, che gli costò nel 2015 l’ultima condanna in secondo grado a sei anni.

Le verifiche puntano al gruppo italo-albanese che gestisce il narcotraffico tra la Spagna e la Capitale, un’organizzazione finita al centro di tante inchieste. Vitale avrebbe fatto affari con Andrea Buonomo detto “Il profeta”, un grossista che trattava partite di centinaia di chili di droga. In una chat riportata dall’ordinanza che lo ha spedito in carcere nel 202 diceva: “Compriamo una macchina… facciamo il doppio fondo per 100 chili e iniziamo a portare 25 chili per uno“.

Nel 2021 vi era stata un’ operazione dei Carabinieri della capitale con sequestri di cocaina, hascisc e marijuana, scoprendo un legame fra le piazze di spaccio romane e la Puglia, con 11 arrestati tutti di Roma. Sette di loro vennero sottoposti a misura cautelare in carcere. Si trattava proprio di: Andrea Buonomo, Alessandro Corvesi, Daniele Carlomosti, Simone Ciotoli, Riccardo Curti, Roberta Fittirillo e Massimiliano Rasori. Altri quattro vennero arrestati in regime di domiciliari: Emiliano Alesi, Roberto Giampà, Alessandro Morelli e Tomas Notari.

Il potere di Buonomo era cresciuto dopo la morte di Fabrizio Piscitelli, noto come “Diabolik“il narcoas-ultras laziale ucciso nell’agosto del 2019. Già “inserito all’interno del sodalizio capeggiato dal più noto soggetto albanese Arben Zogu, detto Riccardino o Ricky“, referente di Diabolik a Ponte Milvio, successivamente Buonomo avrebbe esteso la sua “piazza” di spaccio stringendo alleanze con l’albanese Elvis Demce e l’ex calciatore Alessio Corvesi. E sembra che quel debito di 500mila euro, che è costata la vita a Francesco Vitale lo avesse contratto molto probabilmente proprio con questo gruppo criminale. Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Marco Carta per “la Repubblica - Edizione Roma” il 3 marzo 2023.

C’è un fermo per la morte del pr barese Francesco Vitale, precipitato dal quinto piano di un palazzo alla Magliana lo scorso 22 febbraio. É un romano di 37 anni, con precedenti, che si sarebbe trovato all’interno dell’appartamento di via Pescaglia 40, dove Ciccio Barbuto era tenuto prigioniero. Il 37enne, indagato per sequestro di persona a scopo di estorsione con l’aggravante del decesso della vittima, agli inquirenti avrebbe ammesso il suo ruolo, senza però spiegare chi si trovasse con lui.

Per ora sul registro degli indagati ci sono due persone, il 37enne, e l’inquilino dell’immobile, un italiano che ha sempre negato la sua presenza. Ma le indagini dei carabinieri ruotano intorno ai narcos capitolini della droga con cui Vitale era in contatto. Il pr barese, infatti, era indebitato per mezzo milione di euro e il sequestro lampo doveva essere un’intimidazione per costringerlo a pagare. Non è ancora chiaro, però, come sia caduto dal quinto piano.

 Una delle ipotesi è che mentre veniva pressato dai suoi sequestratori a ridosso della finestra, ci siano stati dei movimenti avventati. […] Vitale aveva a che fare con l’organizzazione criminale riconducibile al “Profeta” Andrea Buonomo, uno dei principali grossisti di stupefacenti su Roma, in passato vicino al sodalizio capeggiato dall’albanese Arben Zogu, detto Riccardino, il capo della batteria albanese di Ponte Milvio, in affari con Fabrizio Piscitelli.

Buonomo, proprio con la morte di Diabolik, avrebbe ampliato il suo raggio di azione su tutta la città, entrando in società con l’ex calciatore Alessandro Corvesi e con l’albanese Elvis Demce, anche lui legato a Zogu. I tre erano stati arrestati insieme nel 2022 nell’inchiesta Aquila Azzurra.

[…]

Il pr Francesco Vitale, morto alla Magliana rapito su commissione e torturato. Uno spacciatore fermato dai Carabinieri nega. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Marzo 2023

Adesso a dare la caccia al "commando" di picchiatori ed ai loro ai mandanti, adesso, non sono soltanto i carabinieri del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Roma, ma anche la criminalità pugliese al quale la famiglia del pr barese sarebbe legata. Suo padre, Domenico Vitale era finito a processo per una vecchia storia insieme agli uomini del clan barese dei Velluto.

Nel pomeriggio di martedì 22 febbraio, Francesco Vitale aveva salutato la sua compagna per strada “Amore, un paio di ore e ci risentiamo”, prima di salire in sella a una moto guidata da un uomo. Sono state le sue ultime parole prima del sequestro messo in atto da un “commando” che, su commissione dei narcotrafficanti della Capitale, lo hanno portato in un appartamento al quinto piano della scala D nell’appartamento in via Pescaglia, alla Magliana, per discutere di quel debito da 500mila euro, per convincerlo a recuperare e restituire i soldi in fretta.

Daniele Fabrizio, detto “Fagottino”, il 36enne fermato due giorni fa con l’accusa di sequestro di persona aggravato dalla morte della vittima, è uno spacciatore di medio livello, con precedenti per droga, molto conosciuto proprio negli ambienti malavitosi delle Magliana. Non è un “boss” dello spaccio, e sicuramente avrà agito per conto di terzi.

Fagottino” interrogato dai Carabinieri, ha negato ogni responsabilità e si è presentato oggi davanti al giudice per la convalida, ma si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere.  Gli investigatori sono arrivati a lui grazie a un incrocio di tabulati e celle telefoniche. Il suo cellulare agganciava la stessa cella di quello di Vitale, quando il telefonino del pr barese si è spento per sempre alla Magliana. 

L’ipotesi degli inquirenti continua ad essere la stessa: Vitale è stato torturato, picchiato violentemente, al punto da tentare a mezzogiorno una fuga dal balcone con un volo di 15 metri, cadendo dopo aver cercato di aggrapparsi disperatamente ai fili per stendere il bucato, venendo visto precipitare per dodici metri da una testimone. Ma per i pm che indagano Francesco Cascini e Francesco Minisci in ogni caso si è trattato di un errore imperdonabile, anche per i mandanti, che avevano commissionato solo l’operazione di riscossione crediti con i metodi tipici della malavita. E con Vitale morto hanno perso mezzo milione di euro.

Secondo gli inquirenti in quell’appartamento, ci sono state almeno tre persone, oltre alla vittima barese. E il padrone di casa, anche lui indagato, era a conoscenza di quanto stava accadendo là dentro. Adesso sono ricercati altri due uomini: quello che martedì pomeriggio è andato via in moto con martedì pomeriggio e un terzo. Non è escluso che Vitale sia arrivato all’appuntamento con dei soldi per discutere del suo debito e chiedere ancora del tempo per saldare il tutto . Un anticipo rispetto alla somma dovuta, confidando in un po’ di clemenza.

Invece “Ciccio Barbuto, alias Francesco Vitale sarebbe stato picchiato, con un pestaggio che sarebbe andato oltre il dovuto. Adesso a dare la caccia al “commando” di picchiatori ed ai loro ai mandanti, adesso, non sono soltanto i carabinieri del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Roma, ma anche la criminalità pugliese al quale la famiglia del pr barese sarebbe legata. Suo padre, Domenico Vitale assistito dall’avvocato Pasquale Loseto, che era anche il legale di suo figlio Francesco, era finito a processo per una vecchia storia insieme agli uomini del clan barese dei Velluto.

Sul banco degli imputati sedeva anche “Ciccio Barbuto”, come il pr si faceva chiamare sui social e nelle discoteche campane dove organizzava serata. Ed adesso si teme che possa partire un azione di vendetta della criminalità pugliese per riscattare la morte di Francesco Vitale. E le “antenne” dei Carabinieri si sono alzate anche a Bari. Redazione CdG 1947

Pr barese precipitato da palazzo a Roma: c'è un secondo fermato. Un 48enne romano indiziato del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione con l’aggravante del decesso della vittima. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Marzo 2023

C'è un secondo arresto nell’ambito dell’indagine relativa alla morte del pr barese Francesco Vitale, precipitato il 22 febbraio scorso in via Pescaglia, a Roma, in zona Magliana.

I Carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma hanno fermato un altro uomo, gravemente indiziato del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione con l’aggravante del decesso della vittima. Si tratta di un romano di 48 anni, a cui i militari hanno notificato un decreto di fermo di indiziato di delitto, emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma.

Il 48enne è accusato di avere sequestrato, assieme al 37enne bloccato dai militari dell’Arma nei giorni scorsi, per oltre 12 ore Vitale, la notte tra il 21 e il 22 febbraio 2023, per poi darsi alla fuga dopo la morte del pr pugliese. Il fermato, trasferito in carcere a Regina Coeli, è stato rintracciato ieri sera sulla via Pontina, a Pomezia, dal Nucleo Investigativo di Roma, in collaborazione con i colleghi del Reparto Territoriale di Aprilia e delle Compagnie di Roma Eur e Pomezia, all’esito di serrate ricerche.

Fermato uno dei sospettati sulla morte del pr barese, precipitato da un palazzo alla Magliana a Roma. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Marzo 2023

Placidi era stato fermato in compagnia proprio di Vitale a bordo di uno scooter durante un controllo della Polizia poche ore prima del sequestro per le strade di San Basilio. Il suo tatuaggio con la scritta "Acab", l'acronimo di "all cops are bastards", cioè "tutti i poliziotti sono bastardi", non era passato inosservato ai poliziotti.

Sergio Placidi, detto “Sergione” 48 anni di mestiere buttafuori nelle discoteche romane, sarebbe stato presente nell’appartamento al quinto piano alla Magliana dal quale lo scorso 22 febbraio è precipitato in circostanze misteriose sulla strada facendo un volo il pr barese, Francesco Vitale, 45 anni. Ne sono fortemente convinti i Carabinieri del Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Roma che lo hanno fermato in quanto indiziato del reato di sequestro di persona a scopo di estorsione con l’aggravante del decesso della vittima.

Placidi era stato fermato in compagnia proprio di Vitale a bordo di uno scooter durante un controllo della Polizia poche ore prima del sequestro per le strade di San Basilio. Il suo tatuaggio con la scritta “Acab“, l’acronimo di “all cops are bastards“, cioè “tutti i poliziotti sono bastardi“, non era passato inosservato ai poliziotti. Ma nonostante quel controllo casuale non aveva fatto desistere il 48enne”buttafuori” dai suoi intenti criminosi.

L’uomo, con precedenti per droga, si era reso irreperibile subito dopo la morte di “Ciccio barbuto“, questo il soprannome con cui era conosciuto dagli amici il pierre barese Francesco Vitale. Placidi, da quel momento, aveva trovato rifugio tra le case popolari del Laurentino 38, e della prima provincia di Latina, nella zona di Aprilia. Ma i carabinieri del Nucleo Investigativo di via in Selci, nel frattempo, erano riusciti a tracciare i suoi movimenti fino a tendergli mercoledì pomeriggio una trappola spettacolare, quasi da film d’azione, bloccando il traffico dei pendolari sulla via Pontina per incastrarlo. Intorno alle 18 è scattato il piano dei Carabinieri, supportati dai colleghi del Reparto Territoriale di Aprilia e delle Compagnie di Roma Eur e di Pomezia.

I carabinieri in borghese avevano prima predisposto un servizio “civetta” sulla strada statale, dopodichè hanno bloccato la strada all’altezza della stazione di servizio di Pomezia sud, in direzione Ardea, alle porte di Roma, posizionando delle auto prive di segni identificativi in senso opposto a quello di marcia, mentre le gazzelle del Nucleo Radiomobile rallentavano la circolazione fino a bloccarla, senza quindi provocare incidenti. Nel giro di qualche minuto si è formata una lunghissima coda che circolava a passo d’uomo per poi bloccarsi. In quella lunga fila di veicoli è rimasta bloccata anche l’auto su cui viaggiava Placidi, in compagnia di un’altra persona. È stato così che i carabinieri sono intervenuti per prelevarlo, portandolo a piedi fino al vicino autogrill.

Per Sergio Placidi è scattato il decreto di stato di fermo emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma., ed è stato condotto nel carcere di Regina Coeli, accusato di avere sequestrato per oltre 12 ore nella notte tra il 21 e il 22 febbraio. Secondo quanto finora ricostruito, il pierre “Ciccio barbuto” anche lui con precedenti per droga, aveva confidato ai familiari di avere contratto un grosso debito di droga da circa 500mila euro. Ed era salito a Roma per un chiarimento e restituire una parte del debito . A quel punto la malavita romana, non avendo ricevuto i soldi attesi avrebbero fatto scattare un sequestro-lampo con lo scopo di richiedere ai suoi familiari un riscatto. Probabilmente il pierre barese si è lanciato dalla finestra per sfuggire ai sequestratori. Prima di Sergione, era stato fermato Daniele Fabrizio, detto “Saccottino”  che nella convalida d’arresto, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Adesso mancherebbe anche una terza persona sul quale sono rivolte le indagini degli investigatori.

La famiglia di Francesco Vitale, assistiti dall’avvocato Pasquale Loseto, ha chiesto da una decina di giorni la restituzione della salma del figlio e il differimento dell’audizione prevista a Roma. Chi ha ordinato il sequestro di Ciccio non è ancora stato arresto. Motivo per cui hanno paura. Redazione CdG 1947

Magliana, Francesco Vitale caduto dal balcone: l'ultima telefonata alla moglie, «Per me ormai è finita, dai un bacio a nostro figlio». Fulvio Fiano su Il Corriere della sera il 17 marzo 2023.

Il pr «Ciccio Barbuto» precipitato da un palazzo  dopo il rapimento per debiti di droga: per liberarlo chiesto un riscatto di 500mila euro. I legami con l'omicidio di Fabrizio Piscitelli «Diabolik»

«Per me ormai è finita» diceva al telefono con la sua compagna Francesco Vitale, il pr di origini baresi morto precipitando da una finestra al quinto piano di un palazzo della Magliana. Era l’ultimo disperato tentativo di «Ciccio Barbuto» di sfuggire da chi lo aveva rapito e che per restituirlo vivo ai familiari chiedeva un riscatto di 500mila euro, grossomodo l’ammontare della cifra che il 45enne doveva ridare per vecchie questioni di droga. Dalle indagini che hanno già portato al fermo di Daniele Fabrizio e Sergio Placidi, e che continuano per cercare i loro complici, emerge però anche un altro dettaglio.

L’ultimatum dei rapitori scadeva alle 8 del mattino del 22 febbraio, Vitale è morto alle 11. Un dato, questo, che conforta la tesi della morte accidentale in un estremo tentativo di fuga in un momento in cui nell’appartamento di via Pescaglia 40, dove Vitale era detenuto, c’era uno solo dei suoi carcerieri. Se i suoi rapitori avessero voluto ucciderlo in quel modo — è il ragionamento degli inquirenti — non lo avrebbero fatto in pieno giorno in mezzo a palazzi pieni di potenziali testimoni. Nella telefonata della sera precedente, già malridotto per le torture subite, Vitale — usando il telefono messo a disposizione da Placidi — chiedeva alla moglie di salutargli un’ultima volta il loro figlio.

L’indagine affidata ai carabinieri del Nucleo investigativo dai pm Francesco Cascini e Minisci, pur con degli aspetti ancora da chiarire, sembra così essere una perfetta chiave di lettura di quanto accade nella criminalità romana, offrendo spunti investigativi anche per i tanti altri episodi di violenza degli ultimi mesi. Intanto è significativa la storia di Vitale, legato in passato alla banda di Alessandro Corvesi, a sua volta luogotenente di Elvis Demce, che da soldato di Fabrizio Piscitelli «Diabolik» puntava a ereditarne l’impero facendo fuori gli albanesi di Ponte Milvio che avevano accompagnato l’ascesa dell’ex capo ultrà laziale.

Il debito originario di Vitale sarebbe stato proprio con Demce e i suoi, che poi avevano ceduto la riscossione di questo credito a Placidi e agli altri soggetti da identificare. Su quali basi sia avvenuta questa cessione è da accertare. Se sia cioè un saldo di altri affari o un’investitura per un’alleanza più ampia nella geografia sempre in movimento delle associazioni criminali capitoline. La stessa che l’uccisione di Diabolik e poi l’arresto di Demce hanno rimescolato, aprendo una infinita partita di regolamenti di conti e corse ad accaparrarsi una il mercato dell’altra, imponendo la propria droga o affidandone la vendita a propri reggenti. Una strategia interpretata meglio di chiunque altro da Demce, come mostrato dal processo a suo carico — che si è fatto largo recuperando in modo violento vecchi crediti per avere una liquidità costante da reinvestire in acquisti di droga all’ingrosso per allargare i suoi mercati di riferimento — e come fatto in maniera in parte simile da Piscitelli, che a differenza dell’albanese era interessato anche al potere oltre che agli affari.

Un’aspirazione da capo che gli sarebbe costata la vita, anche se per i presunti mandanti del suo delitto (per il quale è a processo Raul Esteban Calderon) il gip ha appena disposto l’archiviazione come chiesto dalla procura per mancanza di prove: Alessandro Capriotti, Leandro Bennato e Giuseppe Molisso. Con quest’ultimo Demce ha stretto accordi per le 30 piazze di spaccio di Tor Bella Monaca. Ma Molisso è legato soprattutto al boss di camorra Michele Senese «o’ pazz», al quale proprio Diabolik diceva di ispirarsi, senza riceverne in cambio uguale stima. Piscitelli viene ucciso proprio nel territorio di riferimento di Senese (la Tuscolana), e ad omicidio avvenuto il boss commenta sprezzante in carcere con i suoi familiari: «Vi do un cucchiaino di polvere ad ognuno... ve lo mettete dentro il brodo», riferendosi alle ceneri di Diabolik. «Il delitto Piscitelli — riassume il gip nel decreto di archiviazione con una involontaria coincidenza temporale sui fatti di questi giorni — rimanda a una malavita permeata da mutevoli dinamiche criminali, fatte di alleanze discontinue e di unioni dettate da interessi economici che possono modificarsi rapidamente, tramutandosi in conflitti».  

Estratto dell'articolo di Marco Carta e Andrea Ossino per “la Repubblica - eduzione Roma” il 17 marzo 2023.

Un ultimatum scaduto. Poi la chiamata alla compagna Martina, prima del volo dal quinto piano: «Amore è finita, è finita. Salutami il piccolo» . Dietro il sequestro del pr barese Francesco Vitale, ritrovato senza vita sotto un palazzo alla Magliana lo scorso 22 febbraio, c’era una richiesta di riscatto di mezzo milione di euro, pari al debito di droga che aveva accumulato con il narcos albanese Elvis Demce.

 Per avere i soldi, i sequestratori si sarebbero messi in contatto con i familiari di Vitale che, però, sarebbe caduto cercando un tentativo estremo di fuga dalla finestra.

 A quasi un mese dalla morte del pr barese, gli investigatori, coordinati dai pm antimafia Francesco Cascini e Francesco Minisci, sono certi di aver ricostruito lo scenario dietro quello che inizialmente era stato ribattezzato come il giallo della Magliana.

[…] Il giorno prima di morire, il 45enne era venuto da Bari, insieme alla sua fidanzata per incontrare i suoi creditori. L’appuntamento però si era trasformato in un sequestro. Salito a bordo del T Max guidato da Sergio Placidi, era stato portato all’appartamento di via Pescaglia 40 dove era stato picchiato e torturato. “Sergione” non era solo.

 Insieme a lui c’erano anche Daniele Fabrizio, detto “Saccottino”, e altre due persone. Il commando improvvisato, a cui era stata affidata la riscossione del credito, aveva dato un ultimatum a Vitale: entro le 8 del mattino del 22 febbraio avrebbe dovuto saldare il debito.

 La richiesta di riscatto era stata fatta dai sequestratori direttamente ai suoi familiari. Poi a Ciccio sarebbe stata concessa un’ultima chiamata alla sua fidanzata, con l’obiettivo, forse, di metterlo ancora di più sotto pressione. Al telefono Vitale avrebbe chiesto alla donna di salutare il figlio per poi congedarsi così: «Ormai è finita, è finita». L’ipotesi degli investigatori è che Vitale sia volato dalla finestra cercando una via di fuga impossibile dall’appartamento.

[…] Dopo la sua identificazione, gli inquirenti si erano messi subito sulle tracce di Sergione. La fretta di recuperare i soldi per far ripartire subito gli affari, lo ha portato a commettere un errore strategico. Il 48enne buttafuori, infatti, prima di arrivare alla Magliana, era stato fermato a San Basilio da alcuni poliziotti insieme a Ciccio Barbuto.

 […] Poi l’8 marzo era stato fermato al termine di un inseguimento sulla Pontina. Sia Placidi che Fabrizio sono accusati di sequestro di persona a scopo di estorsione con l’aggravante del decesso della vittima. Insieme a loro è stato fermato anche il titolare dell’appartamento. Si cercano ora gli altri due complici.

Coniugi trovati morti in casa a Serranova, erano in due stanze diverse: si pensa a duplice omicidio. Marito e moglie, entrambi di circa 60 anni, sono le due . L'arma non è stata ancora trovata. L'allarme lanciato dal fratello dell'uomo che non lo vedeva arrivare al bar. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno l’1 Marzo 2023

Si rafforza l’ipotesi del duplice omicidio in relazione al ritrovamento dei corpi dei due coniugi ieri sera nel casolare di campagna in cui vivevano a Serranova, frazione di Carovigno (Brindisi). Le vittime, Antonio Calò di 70 anni, e Caterina Martucci di 64, sarebbero state ritrovate in due stanze diverse. Sui corpi ci sono ferite di arma da fuoco, arma che non è stata ancora trovata dai carabinieri che per questo tendono a escludere l’ipotesi dell’omicidio-suicidio.

Nel piccolo centro a nord di Brindisi chi conosceva Antonio e Caterina li descrive come persone riservate che poche volte andavano in paese. La zona in cui si trova il casolare non è coperta dai sistemi di video-sorveglianza. Gli investigatori hanno già ascoltato alcuni parenti delle vittime.

IL FRATELLO: NON AVEVANO NEMICI

«Lui non ha mai fatto male a nessuno. Non aveva soldi. Non so cosa sia potuto accadere. Perché hanno fatto tutto ciò? Sicuramente è stato un pazzo». E' questa la testimonianza del fratello di Antonio Calò, l’uomo trovato morto insieme a sua moglie Caterina Martucci, ieri sera nella loro abitazione a Serranova, frazione di Carovigno (Brindisi). Sui corpi ci sono ferite di arma da fuoco e al momento non è stata ritrovata alcuna arma. Gli investigatori sono quasi certi si tratti di un duplice omicidio. Gli abitanti del piccolo borgo sono increduli per quanto accaduto. «Nessuno di noi ha nemici qui e non c'era alcun tipo di dissidio. Neanche con la moglie», aggiunge il fratello del 70enne. «Gente buona e semplice», racconta un altro vicino di casa della coppia.

DUPLICE OMICIDIO , CAROVIGNO , UOMO E DONNA TROVATI MORTI. Brindisi, coppia uccisa a Serranova: il killer ha sparato alla testa. Eseguite 4 perquisizioni, anche a casa di parenti. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Marzo 2023

Sarebbe un fucile da caccia l'arma utilizzata per uccidere in casa Antonio Calò e la moglie Caterina Martucci, i cui cadaveri sono stati scoperti ieri pomeriggio poco dopo le 18 dal fratello dell’uomo. Antonio giaceva sull'uscio mentre Caterina è stata trovata in camera da letto. Quest’ultima pare stringesse tra le mani il suo telefono cellulare, probabilmente nel tentativo di chiamare qualcuno. Entrambi, da una prima ispezione, sembrano essere stati colpiti da una fucilata al capo. In casa i carabinieri avrebbero repertato due cartucce. L’arma del delitto non è stata recuperata.

Secondo una prima ricostruzione il duplice omicidio risalirebbe a circa 24 ore prima il ritrovamento dei due cadaveri. In casa infatti i militari hanno trovato la tavola imbandita per la cena ed una pentola sui fornelli. Le due vittime vivevano con la pensione sociale dell’uomo pari a 480 euro. Spesso erano i vicini ad aiutarli economicamente o facendo la spesa. Gli inquirenti escludono possa essersi trattato di un tentativo di rapina finito nel sangue sia perché in casa non c'erano segni di effrazione e l’appartamento non era a soqquadro, sia per le precarie condizioni economiche della coppia.

Sappiamo - confermano i parenti - che Antonio questo mese non aveva ancora ritirato la pensione. La notte scorsa, dopo la scoperta dei cadaveri, gli investigatori hanno eseguito 4 perquisizioni perlopiù a casa di familiari delle due vittime ed hanno ascoltato una decina di persone tra parenti ed amici della coppia. Non sono stati eseguiti esami dello stub. 

Il giallo nel brindisino. Marito e moglie uccisi a colpi d'arma da fuoco. Al momento gli inquirenti brancolano nel buio: l'ipotesi del gesto volontario è tramontata per l'assenza dell'arma del delitto. Federico Garau il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.

Sono proseguiti senza sosta per tutta la notte gli accertamenti tecnici e scientifici nella casa di Serranova, frazione di Carovigno in provincia di Brindisi, in cui sono stati rinvenuti i corpi senza vita di due coniugi uccisi a colpi d'arma da fuoco. Gli inquirenti sono al lavoro per ricostruire la scena di quello che ad ora, sulla base delle evidenze emerse, appare come un duplice omicidio.

L'allarme

Ad essere rinvenuti senza vita all'interno della propria abitazione, nella notte dello scorso mercoledì 1 marzo, sono stati Antonio Calò, di 64 anni, e la moglie Caterina Martucci, di 70. L'allarme è stato lanciato dal fratello dell'uomo, preoccupato fin da subito per il fatto di non averlo incontrato come di consueto al bar nel corso della mattinata. Non avendo più ricevuto alcuna comunicazione dal 64enne, il congiunto decide infine di andare a bussare alla porta di casa per sincerarsi che tutto sia a posto. Sono le ore 18:30, ma nessuno da dentro risponde, per cui l'uomo cerca di aprire la porta, stranamente non chiusa a chiave, e fa la macabra scoperta. Immediatamente, come riferito da Brindisi Report, contatta le autorità chiamando il 112.

Le piste

Sul luogo giungono i carabinieri del Norm della compagnia di San Vito Dei Normanni e i militari del Reparto operativo del comando provinciale di Brindisi. In loro supporto anche gli uomini della polizia locale, che transennano l'intera area per consentire agli inquirenti di operare senza il rischio di intromissioni. Inizialmente si era pensato che potesse trattarsi di un omicidio-suicidio, ma alcuni elementi emersi spingerebbero invece a privilegiare la teoria del duplice omicidio: i due coniugi sono stati uccisi in due diverse stanze, ciascuno con un singolo colpo di arma da fuoco, e sul posto non è stata rinvenuta l'arma del delitto. Questa sarebbe la prova più importante in grado di escludere la pista del gesto volontario.

Antonio Calò è stato ritrovato sull'ingresso, la moglie Caterina, invece, in camera da letto. Il fatto che le lampadine di casa fossero tutte spente ha fatto supporre che il duplice delitto sia avvenuto a un orario in cui c'era ancora piena luce. Pare poco probabile anche l'ipotesi di una rapina andata male: i due vivevano infatti coi pochi soldi di una pensione sociale e, per arrotondare, il 64enne svolgeva qualche lavoro occasionale. Antonio e Caterina, che non avevano figli, vengono descritti da parenti e amici come persone umili e buone, per cui anche l'atto di ritorsione sembra una via difficilmente percorribile, ma non viene esclusa al momento dagli inquirenti.

La casa della coppia è stata sottoposta a sequestro. Le due salme, trasferite dopo i rilievi all'obitorio del cimitero di Ostuni, restano a disposizione dell'autorità giudiziaria, in attesa di sapere se la procura della Repubblica di Brindisi, che si occupa delle indagini, disporrà o meno l'esecuzione degli esami autoptici.

Coppia uccisa a Serranova: perquisizione in casa del fratello della vittima. Sequestrato fucile da caccia, Cosimo Calò è in caserma. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 Marzo 2023

Un fucile da caccia è stato sequestrato poco fa all’interno di un capanno dove sono custoditi attrezzi da lavoro a casa di Cosimo Calò, di 83 anni, fratello di Antonio il cui cadavere insieme a quello della moglie Caterina Martucci è stato ritrovato mercoledì sera nella loro abitazione nelle campagne di Serranova, frazione di Carovigno.

I due coniugi sono stati uccisi con tre fucilate (due alla donna ed una all’uomo). Nel pomeriggio i militari sono tornati a casa di Cosimo dopo una prima perquisizione effettuata nell’immediatezza del duplice omicidio. Anche in quella circostanza era stato sequestrato un primo fucile da caccia, pare legalmente detenuto.

Attualmente Cosimo Calò si trova nella caserma dei carabinieri a San Vito dei Normanni. Sul movente del duplice omicidio non c'è ancora chiarezza, ma una delle piste battute dagli inquirenti è quella legata a dissapori in ambito familiare per questioni di terreni ed eredità. Va detto che il giorno dell’omicidio Antonio Calò, con un altro fratello, Carmelo, avevano appuntamento con un avvocato per concordare alcuni dettagli proprio in merito alla questione dell’eredità di un’abitazione lasciata ad Antonio da un altro fratello, Angelo, che è morto due anni fa.

Coppia uccisa a Serranova: fratello e nipote dell'uomo in caserma dai carabinieri. Sequestrato fucile da caccia, le indagini si concentrano su una presunta eredità. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 6 Marzo 2023

Cosimo e Vincenzo Calò, rispettivamente padre e figlio nonché fratello e nipote di Antonio Calò, l’uomo ucciso a fucilate insieme alla moglie nella sua abitazione nelle campagne di Serranova, borgata del Brindisino, sono appena entrati nella caserma dei carabinieri dove sono stati convocati dagli stessi militari. I due non sono accompagnati da alcun legale.

Ieri sera Cosimo ha subìto una perquisizione al termine della quale i carabinieri gli hanno sequestrato un fucile che a dire dell’uomo avrebbe acquistato qualche settimana fa. Non è chiaro il perché di questa nuova convocazione in caserma. Le indagini dei carabinieri sul duplice omicidio di Antonio Calò e Caterina Martucci, avvenuto mercoledì scorso con colpi di fucile, si starebbero concentrando in ambito familiare. Al centro dei presunti dissidi ci sarebbe sia l’eredità di un casolare lasciato da Angelo, un altro dei sette fratelli Calò morto due anni fa, sia un vecchio terreno di proprietà della vittima.

I due sono stati ascoltati come persone informate dei fatti e non sono stati assistiti da alcun legale. All’uscita padre e figlio non hanno voluto rilasciare alcuna dichiarazione. I due sono stati ascoltati per più di tre ore. Al momento non risulta che ci siano persone iscritte nel registro degli indagati.

IERI LA PERQUISIZIONE

Un fucile da caccia è stato sequestrato poco fa all’interno di un capanno dove sono custoditi attrezzi da lavoro a casa di Cosimo Calò, di 83 anni, fratello di Antonio il cui cadavere insieme a quello della moglie Caterina Martucci è stato ritrovato mercoledì sera nella loro abitazione nelle campagne di Serranova, frazione di Carovigno.

Brindisi, coppia uccisa a Serranova: il killer ha sparato alla testa

I due coniugi sono stati uccisi con tre fucilate (due alla donna ed una all’uomo). Nel pomeriggio i militari sono tornati a casa di Cosimo dopo una prima perquisizione effettuata nell’immediatezza del duplice omicidio. Anche in quella circostanza era stato sequestrato un primo fucile da caccia, pare legalmente detenuto.

Coniugi trovati morti in casa a Serranova, erano in due stanze diverse: si pensa a duplice omicidio

Attualmente Cosimo Calò si trova nella caserma dei carabinieri a San Vito dei Normanni. Sul movente del duplice omicidio non c'è ancora chiarezza, ma una delle piste battute dagli inquirenti è quella legata a dissapori in ambito familiare per questioni di terreni ed eredità. Va detto che il giorno dell’omicidio Antonio Calò, con un altro fratello, Carmelo, avevano appuntamento con un avvocato per concordare alcuni dettagli proprio in merito alla questione dell’eredità di un’abitazione lasciata ad Antonio da un altro fratello, Angelo, che è morto due anni fa.

Coniugi uccisi a Serranova, fermato il fratello della vittima per duplice omicidio: l'uomo ha confessato. Cosimo Calò di 84 anni ha confessato l'omicidio del fratello e della moglie. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno l’8 Marzo 2023

SAN VITO DEI NORMANNI - E’ stato sottoposto a fermo con l'accusa di duplice omicidio e porto illegale d’arma da sparo

Cosimo Calò, fratello di Antonio Calò, l’uomo ucciso a fucilate mercoledì scorso insieme alla moglie Caterina all’interno della

loro abitazione di Serranova, nel Brindisino. Lo si apprende da fonti investigative. Cosimo, con il figlio Vincenzo, la cui

posizione è ancora al vaglio degli inquirenti, si trova nella caserma dei carabinieri a San Vito dei Normanni (Brindisi).

CALO' HA CONFESSATO IL DUPLICE OMICIDIO

Ha confessato Cosimo Calò, di 84 anni, sottoposto poco fa a fermo con l’accusa di avere ucciso suo fratello Antonio e la moglie di quest’ultimo, Caterina, con alcuni colpi di fucile. I corpi dei coniugi sono stati trovati mercoledì scorso nella loro abitazione di Serranova, nel Brindisino. A quanto si apprende, Cosimo Calò sarà portato in carcere. Il movente del duplice omicidio sarebbe legato a questioni di eredità.

Coniugi uccisi a Serranova: un fucile comprato pochi giorni prima del delitto. Nuovamente ascoltato uno dei fratelli di Antonio Calò, che ha acquistato l'arma. Sentito pure il figlio ma entrambi non sono indagati. ANTONIO NEGRO La Gazzetta del Mezzogiorno l’8 Marzo 2023

SERRANOVA (CAROVIGNO) Un fucile da caccia calibro 12 acquistato pochi giorni prima del duplice delitto compiuto mercoledì scorso (proprio imbracciando un fucile da caccia) da un killer che non ha ancora un volto e un nome, artefice di tre fucilate mortali: una contro il 70enne Antonio Calò, ucciso per primo, e altre due all’indirizzo della moglie dell’uomo, la 64enne Caterina Martucci rinvenuta esanime ma con il cellulare tra le mani, forse nel disperato tentativo di chiedere aiuto.

È proprio la coincidenza di un fucile da caccia acquistato da uno dei fratelli della vittima Antonio Calò, pochi giorni prima dell’efferata esecuzione, ad aver meritato un approfondimento da parte degli investigatori. Ieri mattina, infatti, il fratello 83enne di Antonio Calò (uno dei 7 fratelli, diverso da quello che mercoledì scorso trovò i congiunti assassinati nella loro casa) è stato ascoltato per la seconda volta in meno di 24 dai Carabinieri della Compagnia di San Vito dei Normanni che indagano sul caso. E questa volta è stato sentito assieme al figlio. Entrambi come persone informate dei fatti e quindi in assenza di un avvocato, dal momento che non risultano iscritti nel registro degli indagati. Il pomeriggio del giorno precedente l’83enne era stato ascoltato successivamente ad una perquisizione domiciliare nel corso della quale, all’interno di un locale della sua abitazione adibito a deposito di attrezzi da lavoro, era stato rinvenuto un fucile da caccia all’interno di una custodia morbida dedicata.

Naturalmente sono stati disposti accertamenti sull’arma, nel tentativo di verificare attraverso le perizie balistiche se possa aver sparato di recente. Di sicuro, almeno per il momento, c’è solo che l’84enne che ha compiuto l’acquisto del fucile pochi giorni addietro avrebbe detenuto legalmente l’arma, in quanto titolare di un porto d’armi per uso sportivo.

Nel frattempo gli investigatori sono al lavoro anche per contestualizzare e mettere assieme ogni elemento riguardante presunti dissidi emersi da qualche tempo tra l’uomo ascoltato per due volte nelle ultime ore e altri due fratelli: quello ucciso e un altro, quello che mercoledì scorso a sera scoprì i due cadaveri. Alla base delle controversie - stando ai pochi elementi sfuggiti al riserbo che avvolge le indagini - potrebbe esserci una casa ereditata dalla vittima Antonio Calò circa due anni fa, a seguito della morte di un altro fratello maggiore. Un’eredità costituita anche da alcuni terreni, in parte confinanti con un suolo di proprietà dell’83enne ascoltato in queste ore, adibito in estate ad area parcheggio al servizio di una sala da ballo molto frequentata in estate. L’83enne tempo fa avrebbe chiesto - mai come in questo frangente il condizionale è d’obbligo - al fratello titolare del suolo confinante di poter in qualche modo utilizzarlo per aumentare l’estensione dell’area parcheggio a disposizione della balera. Richiesta che avrebbe incontrato un netto diniego da parte di Antonio Calò, dando vita in passato a diverbi anche piuttosto accesi durante i quali, probabilmente in preda all’ira, sarebbero volate anche offese e minacce.

Calò voleva ammazzare anche l'altro fratello. L'84enne ha provato ad andare anche a casa dell'altro parente, ma non l'ha trovato. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 9 marzo 2023

Dopo avere ucciso suo fratello e sua cognata a colpi di fucile la sera del 28 febbraio, l’84enne Cosimo Calò ha dormito poche ore e poi, alle 4.22 dell’1 marzo, è andato a casa dell’altro suo fratello, il 76enne Carmelo, ritenendolo «causa di tutti i suoi mali», intenzionato ad uccidere anche lui. Non riuscendo però a rintracciarlo, è rientrato a casa dopo circa un’ora.

A confessarlo ai carabinieri è stato lo stesso Cosimo Calò che ieri è stato fermato con l'accusa di duplice omicidio aggravato dalla premeditazione e dal legame di parentela con una delle vittime.

Calò ha confessato di avere ucciso suo fratello e sua cognata, il 69enne Antonio e la 64enne Caterina Martucci, i cui corpi sono stati trovati mercoledì 1 marzo nel casolare in cui vivevano, nelle campagne di Serranova, borgata del Brindisino. L'84enne ha spiegato che il movente del duplice omicidio è una eredità contesa, lasciata da un quarto fratello morto due anni fa, dalla quale sarebbe stato escluso.

Nel decreto di fermo si evidenzia la «pericolosità» e la «determinazione criminale» di Calò che aveva «acquistato il fucile per un preciso scopo». E viene ricostruita anche la dinamica del duplice omicidio, dal momento in cui spara una fucilata al mento a suo fratello che gli apre la porta, fino a quando raggiunge sua cognata in camera da letto e le spara due colpi di fucile alla testa.

Duplice omicidio di Serranova, parla il fratello scampato al killer: «Mi fa paura». Carmelo, fratello di Antonio Calò, ucciso a fucilate nella sua abitazione a Carovigno (Brindisi) assieme alla moglie Caterina, parla dell’altro fratello, Cosimo, accusato dell’omicidio dei due coniugi. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno Sud il 14 Marzo 2023

Mi fa paura, lui sta dentro ma non lo so fuori chi ha lasciato. Mai lo posso perdonare. I fratelli di solito si dovrebbero aiutare...”. Carmelo, fratello di Antonio Calò, ucciso a fucilate nella sua abitazione a Carovigno (Brindisi) assieme alla moglie Caterina, parla dell’altro fratello, Cosimo, accusato dell’omicidio dei due coniugi. 

Ai microfoni de La Vita in Diretta, il programma condotto da Alberto Matano su Rai1, l’uomo smentisce la lite avvenuta tra fratelli dieci giorni prima dell’omicidio e raccontata da Cosimo, affermando che l'unica discussione tra loro avvenne l'estate scorsa.

Duplice omicidio di Serranova per l'eredità, Cosimo Calò voleva ammazzare anche l'altro fratello

Dice un sacco di bugie - dichiara - perché le dice? Qual è la ragione? Non trovo un perché, sono tutte invenzioni sue. Lui non ha preso il coltello e io non avevo neanche il bastone, io difendevo mio fratello (Antonio, ndr) perché gli diceva parole che non erano vere, l’ha chiamato tante volte ‘mostro, tu non dovevi nascere’. È stata l’unica e ultima volta in cui ci siamo visti e in cui abbiamo parlato” spiega, aggiungendo che "un’azione del genere neanche una bestia la farebbe".

Coniugi uccisi a Serranova, il fratello di lui confessa: fermato Le immagini dal luogo del delitto VIDEO

Carmelo ha raccontato anche l'incontro con Cosimo, avvenuto in caserma, confermando di averlo visto trasfigurato dall'odio.

L’hanno mandato dentro la sala d’aspetto - rivela Carmelo - e mi fa: tu qua stai? Ciao! Io gli ho detto: mi devi fare una cortesia, tu non mi devi più salutare. E lui è stato zitto".

Alla domanda su quali fossero i rapporti con il nipote Vincenzo, figlio di Cosimo, Carmelo ha risposto che non esiste “nessun rapporto, lui a casa sua e io a casa mia”, spiegando che quando provò a parlargli, il nipote gli rispose "manteniamo le distanze zio", chiudendo subito dopo il telefono. 

IL TRAGICO TURBINIO DI LUCA VARANI.

Gaia Vetrano il 18 Marzo 2023 su nxwss.com 

Quando ripensiamo alle nostre giornate, per quanto confusionarie queste possano essere, mai nessuno si sofferma su quanto le scelte prese possano influire su di essa. Probabilmente, anche il nostro protagonista le avrà sottovalutate. Eppure, forse Luca Varani qualcuna di queste l’avrebbe cambiata.

A 23 anni sono molte le cose che la società già si aspetta da te. Università, studiare diligentemente e laurearsi in tempo. Riuscire a battere gli altri nella loro folle corsa verso chi riesce a raggiungere il voto più alto e la linea del traguardo più in fretta. E riuscire a conciliare la propria istruzione – per cui ci viene ribadito che i nostri genitori pagano fior fiore – con la palestra e lo sport.

Mens sana in corpore sano, va sempre ricordato. E guai a chi non si prende cura del proprio corpo. Ma, attenzione, almeno una volta alla settimana bisogna mettere piede fuori casa e non per andare a lezione, ma per uscire con gli amici. Magari ogni tanto andare a letto con qualche coetanea. Così da potersi addormentare sereni e soddisfatti della propria vita.

Ma siamo proprio sicuri che vada così per tutti? Per un giovane di origine macedoni in un’Italia del 2016 non è forse così facile. D’altro canto, quando leggiamo i racconti dei rifugiati, il tempo durante le proprie giornate è impiegato telefono alla mano.

Si rimane assorti davanti a uno schermo, niente che possa dare l’idea di star godendo a pieno della propria esistenza.

E su di loro il silenzio, i cui sinonimi sono molteplici. Come calma, quiete, ma anche assenza di rumori. Perché non ci si interroga mai su cosa voglia dire avere 23 anni ed essere un giovane proveniente dalla Macedonia ora adottato da una famiglia romana. Nessuno di noi sa cosa voglia dire nascere sapendo di vivere in un paese dove – forse – non verrai mai accettato.

Quando Luca Varani viene portato via dal campo profughi, spera che non sia così.

In contesti di degrado quali quelli in cui è cresciuto, è facile perdersi al bivio. Scegliere la strada all’apparenza più semplice, ma per cui viene sempre chiesto qualcosa di più grande in cambio. D’altro canto, la violenza è sempre stata il rifugio per chi è condannato a essere abbandonato. E scommetto che in pochi si fermino durante le loro giornate a riflettere da dove questa provenga.

Come un essere umano possa staccare l’interruttore della propria coscienza e smettere di porsi quesiti sulle proprie azioni e sugli effetti che queste possano avere sugli altri.

Come si possa imbavagliare il proprio raziocinio e costringerlo a stare chiuso in un piccolo ripostiglio nei meandri della propria mente, da cui non può scappare. Da dove i sensi di colpa non possono sentirsi.

Forse, a queste domande non possiamo e non potremo mai dare una risposta, ma possiamo interrogarci sulle nostre vite, sulle azioni da noi compiute che forse avremmo potuto evitare. Parole dette, persone conosciute.

È possibile ricondurre la somma dei propri errori a uno solo? Noi ci siamo posti questa domanda e oggi vi racconteremo una storia su cui, ancora oggi, vi sono troppi perché. Per farlo abbiamo l’aiuto delle ragazze di Criminologia in Pillole.

A volte, l’intelletto umano fa grossi scherzi. Chi da fuori può sembrare di bell’aspetto e pieno di amicizie, dentro può celare uno squilibrio mentale molto più grande. La perversione di chi ha già tutto, tranne la percezione di avere il potere. Quell’illusione effimera, sfuggevole. Di avere il controllo su ciò che di più difficile vi è da sottomettere: la natura umana stessa.

Nella Divina Commedia, Ulisse viene punito per aver oltrepassato le Colonne d’Ercole. Il confine della conoscenza umana. Nulla può placare la sua «smania», che lo spinge alla morte.

La storia di Luca Varani è un racconto di un «ardore» radicale e implacabile. Un destino bruciante di vita interrotto da due anime divorate dai vizi umani, convinte così di «divenir del mondo esperte». Nel tentativo di voler penetrare con profondità le cose, alla fine arriveranno anche loro al naufragio.

Perché il crimine, anche quello più efferato, non è mai, come si potrebbe erroneamente credere, una regressione dell’umano alla ferocia primitiva dell’animale.

Com’è noto, a Roma già durante il mese di marzo, si respira la primavera.

Manuel Foffo ha ventotto anni. Come tutte i racconti gialli che si rispettano, si sente incompreso dalla figura paterna. È un avvocato rigido e poco affettuosa nei suoi confronti. Eppure, niente di tutto quello che vi stiamo per raccontare ha a che fare con la finzione. 

A Roma, così come in tutto il resto del paese, marzo è un mese notoriamente ventoso. Durante ogni ora del giorno soffia una brezza fredda che, se accompagnata da un abbassamento delle temperature, ricorda a tutti l’inverno. Basta però guardare gli alberi pieni di foglie e lasciare che la luce bagni la pelle per sapere che l’estate sta per arrivare. Per ogni ventenne è un momento di passaggio, che segna la ripresa dell’ultimo semestre di lezioni. 

Per molti guidare è liberatorio. Roma durante le prime ore del mattino è un via va di macchine, ma di pomeriggio le strade sono un po’ più libere, tanto da consentire di poter girare con più serenità. con i finestrini abbassati, la musica a tutto volume e il vento tra i capelli.

Eppure, Manuel non è così sereno. Mentre suo padre guida non può fare a meno che guardare fisso davanti a sé, come se la decisione più giusta si delineasse alla fine della rotonda o dell’incrocio. Tra le mani, appoggiate sul grembo, stringe un lembo della sua maglietta. Ogni tanto si gira verso il finestrino, ma non proferisce alcuna parola.

Quando il babbo gli pone qualche domanda, risponde solo se strettamente necessario. Lo ascolta canticchiare qualche motivetto passato alla radio, ma nulla sembra in grado di sciogliere il nodo che ha in gola. Che gli rende impossibile persino respirare.

I due sono diritti verso il loro appartamento in via Iginio Giordani 2, da cui Foffo si era allontanato fisicamente, ma dove in quel momento la sua mente era intrappolata. In una morsa da dove è difficile scappare, o evadere.

Manuel sa di non aver premeditato nulla di ciò che aveva compiuto. Non si ritiene colpevole. Ma quando guarda il profilo del padre, sa bene di non avere scampo. Che deve essere lui a raccontare la verità. Prima ancora che siano gli altri ad additarlo come ciò che lui non è.

La sua non è una storia di rabbia, vendetta o rancore. Nulla farebbe pensare a un gesto spinto da un movente particolare. Il suo racconto è quello di un efferato e inaspettato turbinio. Che distrugge senza pietà ciò che ha intorno. Una spirale di brutale violenza, che porta con sé non solo l’innocenza di due ventenni, ma la vita di un’innocente.

Quello di Manuel Foffo è un turbine di violenza che stravolge la città di Roma, il cui simbolo è la lupa su uno sfondo arancione e rosso. Rosso come il sangue.

Nel suo appartamento, quando la polizia farà irruzione al suo interno, niente dà l’impressione che si sia appena concluso un finesettimana tra amici. Per terra c’è sporcizia dappertutto. Tracce di cocaina sui mobili, bottiglie vuote buttate a destra e a sinistra. Poi i divani storti, i cuscini buttati sul pavimento.

Qualche quadro storto e dei sacchi dell’immondizia accatastati in un angolo. Nel lavabo dei coltelli vagamente puliti, immersi nell’acqua. Nella camera da letto, sul letto matrimoniale disfatto, avvolto in un piumone arancione, trovano un corpo straziato. Con ancora un coltello conficcato nel petto, sul viso fulminato l’ultimo istante di vita.

In sottofondo, la splendida Dalida sta cantando “Ciao, amore ciao”.

Lentamente, Manuel solleva il volto. Sta tremando, le palpebre non sono perfettamente spalancate e gli occhi sono lucidi.

In meno di un istante dà il via alla sua confessione. “Abbiamo ucciso una persona e l’abbiamo torturata”. Il suo nome è Luca Varani. 

Chi è Luca Varani?

23enne apprezzato da tutti, di corporatura esile, occhi neri e sempre con un sorriso disarmante.

A volte un po’ irruento e ingenuo. Cresciuto a Roma ma di sangue macedone: Luca è infatti sopravvissuto all’indigenza nel suo paese di nascita, logorato dalla guerra. Adottato dalla lupa alla tenera età di 4 mesi vive in periferia con genitori venditori ambulanti che spesso accompagnava nella vendita di dolciumi per sagre e fiere in giro per Roma e provincia.

Come in tutte le storie d’amore dei film, conosce la sua dolce metà, Marta Gaia, all’età di 14 anni. Con la famiglia adottiva sempre presente e di supporto, Luca cresce come un bambino amato e ben voluto da tutti. Era un ragazzo giovane con il desiderio di sposarsi e di vivere con la sua ragazza, anche se consapevole delle difficoltà economiche con le quali ha sempre convissuto. 

Durante la sua vita si è sempre sentito in credito rispetto al paese in cui si è trasferito, come se fosse sempre in attesa di un riscatto che però non arrivava mai.

In seguito alla bocciatura all’istituto tecnico, si iscrive e frequenta attivamente la scuola serale Einstein-Bachelet di Roma, in cui stringe un rapporto di fiducia con uno dei suoi professori, Davide Tiffoli, che lo descrive come “un ragazzo semplice, ingenuo e buono come pochi”, che arrivava a scuola sempre in anticipo e passava il tempo prima dell’inizio delle lezioni a giocare con il suo pallone.

Racconta di lui e del tempo passato insieme alla scuola serale, che Luca frequentava distinguendosi per le sue abilità soprattutto in matematica. I due avevano un bel rapporto, solido e di profonda stima e rispetto. Ancora oggi rammarica il fatto che non sia riuscito a prendere quel diploma che prometteva sempre di ottenere “prima o poi”.

Dopo aver lasciato le scuole serali decide di trovarsi un impiego e iniziare a lavorare in una carrozzeria. Frequenta di tanto in tanto i ragazzi della ‘compagnia’ del Battistini, un quartiere periferico in cui Luca passava gran parte del suo tempo.

Qua, lontano dallo stile di vita abituale, aveva la possibilità di condurre una sorta di doppia vita segreta, nella quale aveva scelto di far uso di droghe e prostituirsi con altri uomini per guadagnare altre entrate. 

Questo stile di vita lo costringe anche ad assentarsi per ore da lavoro, inventando delle scuse con il suo datore di lavoro e con la sua famiglia per giustificare le sue assenze.

Uno stile di vita per cui, dalla sfera mediatica, sarà vittima di “victor blaming”. Può però un’esistenza turbolenta giustificare una violenza del genere? A 23 anni, Luca Varani metterà piede nell’appartamento di Manuel Foffo, da cui non ne uscirà mai più.

La spirale di violenza di Manuel e Marco

Manuel Foffo e Marco Prato hanno rispettivamente 28 e 29 anni e, quando il 5 marzo 2016 si ritrovano entrambi a casa del primo, i due non avevano una conoscenza di lunga durata, ma si erano incontrati circa due mesi prima nella notte del Capodanno del 2016 tramite amici in comune, ad una festa organizzata dallo stesso Marco Prato.

Il primo, descritto dal padre come un bambino di intelligenza superiore alla media, amante della lettura fin da piccolo e grande studioso, nonostante ciò, non conclude gli studi in giurisprudenza. Dai suoi racconti si evince che la passione per la materia era scemata con il tempo a causa dell’imposizione del padre di proseguire i suoi studi per portare avanti lo studio di famiglia. 

Il rapporto con il padre è un filo conduttore che si ripresenta durante le confidenze con l’altro autore del reato, Marco Prato, in merito al fatto che Manuel si è sempre sentito incompreso dalla figura paterna, rigida e poco affettuosa nei suoi confronti.

Dalle descrizioni di amici e conoscenti emerge che Manuel Foffo è sempre stato una persona taciturna, ombrosa e riservata con relazioni instabili.

Durante il processo Manuel Foffo ha presentato al giudice un sostanzioso fascicolo difensivo che comprendeva al suo interno la documentazione inerente accertamenti clinici che sottolineavano la sua incapacità di intendere e di volere. La tesi sottolineava come l’uso importante di alcol e droghe da parte di Manuel Foffo avesse potuto scemare o limitare grandemente la sua capacità di intendere e di volere e quindi, di conseguenza, non fosse imputabile per il reato commesso.

La relazione psichiatrica sul Foffo evidenziava che le sue alterazioni neurobiologiche di tipo irreversibile erano la conseguenza del consumo cronico di sostanze in una fascia d’età che riguarda lo sviluppo del cervello.

Durante i processi, però, viene confutata la cronica intossicazione da parte del Foffo, che non ha presentato alcun tipo di alterazione della senso-percezione come conseguenza dell’assunzione delle sostanze.

Viene inoltre evidenziata la sua capacità di intendere e di volere in quanto lo stesso aveva volontariamente e consapevolmente deciso di assumere quelle sostanze in quell’occasione, probabilmente per assecondare ancora una volta la sua ricerca di piacere.

Marco Prato è un ragazzo creativo e affascinante, alto e di buona forma fisica. Studente universitario ormai fuori corso, si guadagna da vivere organizzando serate ed eventi in vari locali alla moda della Roma bene. Riferisce di non essere mai stato adatto ad un lavoro standard, ma di aver sempre avuto sogni molto grandi con difficoltà a gestirli. 

Al tempo dell’omicidio si trova ostaggio di una gabbia fatta di pensieri e preoccupazioni, che aveva come fulcro la sua identità di genere. Ragazzo dal carattere complesso, nasce a suo dire “come bambina nel corpo di un bambino”, è cresciuto in una famiglia benestante dove era preponderante la figura femminile con la quale però aveva un rapporto difficile. Per anni si è diviso tra la Francia, terra d’origine della madre, e l’Italia.

L’enigmatico rapporto con la sua sessualità lo spinge a ricercare in continuazione qualcosa di diverso, di spingersi sempre oltre il limite. Si dichiara attratto da persone del suo stesso sesso, ma nel corso della vita ha avuto spesso frequentazioni con donne.

Durante gli interrogatori parla di sé al femminile e cambia il genere in base allo stato d’animo del discorso che affronta.

Del suo primo incontro con Foffo racconterà  che

Io e Foffo ci siamo conosciuti a Capodanno. Sono stato la sua bambolina. Foffo rifiutava il fatto che io fossi maschio. A gennaio voleva che io fossi conciata bene, mi ha portato a farmi truccare per bene da donna con plastilina, trucco, cerone, tacchi... Diceva ai truccatori che parrucca dovevano mettermi, bionda o bruna, lunga o corta... Abbiamo passato quattro giorni così, a fare sesso. E quando mi passava il trucco, mi riportava sempre da un altro truccatore o truccatrice per riconciarmi. Abbiamo fatto uso di alcolici e cocaina. Lui mi portava anche a battere. Aveva dei progetti, voleva guadagnarci su. Da gennaio a marzo, oltre a Foffo, avrò avuto un altro rapporto con un omosessuale, noioso, e un rapporto sessuale con un altro ragazzo eterosessuale

La psichiatra interpellata all’inizio delle indagini lo definisce seduttore, non evidenzia un orientamento depressivo dell’umore ma, al contrario, un’adeguata stima di sé.

La sua sindrome depressiva, che spesso lo portava a fare un uso prolungato di alcol, droghe e psicofarmaci, ha acceso in Manuel Foffo la curiosità del suo stravagante modo di fare, portandolo a lasciarsi trascinare nella realizzazione delle fantasie più contorte di Marco Prato.

La notte del 5 marzo

Terminata una festa, Manuel propone di andare nel suo appartamento per proseguire la serata. Qui lui e Prato rimangono rinchiusi per i successivi quattro giorni, a fare uso smodato di cocaina e a raccontarsi a vicenda: proprio in questa occasione iniziano ad aprirsi e a raccontarsi come non avevano mai fatto con nessuno.

Manuel racconta della relazione con suo padre, di quanto non si sia mai sentito considerato lui, sottostimato e sempre messo in secondo piano rispetto al fratello Roberto. Il padre, ai suoi occhi, è una figura rigida dalla quale non si è mai sentito ascoltato ma, al contrario, costretto a dover plasmare la sua personalità in base al volere della figura paterna.

A risultare fatali non sono semplicemente queste due personalità prese singolarmente ma l’incontro tra le parti oscure e tormentate di entrambe, che finiscono per entrare quasi in simbiosi l’una con l’altra, rinforzandosi a vicenda.  

Sotto l’effetto di una sostanza si entra infatti in uno stato di euforia tale che la persona percepisce un senso di accresciuto benessere, fiducia nelle proprie capacità e soprattutto una ridotta percezione del rischio e delle conseguenze negative dei propri agiti devianti.

Nei loro incontri i due innescano fin da subito una sorta di “contagio psichico”, dando voce alle loro perversioni più profonde fino ad arrivare a parlare di possibili violenze sessuali. Questo consiste in una trasmissione di disordini psichici che avviene da un individuo ad un altro in circostanze che favoriscono la suggestione, fino a sviluppare dei deliri.

Questi si concentrano sulle violenze che partono inizialmente da pensieri perversi fino ad arrivare all’acting out, ovvero l’espressione dei propri vissuti emotivi conflittuali attraverso la realizzazione tramite azione. Le violenze, quindi, inizieranno a concretizzarsi prima tramite la sola fantasticazione e descrizione, per poi passare alla visione di video pornografici di stupri, anche su minori, e infine arrivare alla realizzazione della stessa tramite il vero e proprio agito delinquenziale.

Luca Varani in questo contesto risulta essere una “vittima ideale” per i due giovani uomini, infatti in questa vicenda mostra possedere gran parte di quelle che la vittimologia descrive come “caratteristiche di vulnerabilità” dovute alla classe sociale di appartenenza ai loro occhi inferiore; alle debolezze economiche, in quanto Luca non essendo nato e cresciuto in una famiglia benestante era costretto a lavorare e a prostituirsi per avere introiti.

Ma anche le abitudini di vita del ragazzo; la sua costituzione fisica e la mancanza di formazione tale da permettergli di comprendere la pericolosità dei due soggetti.

Tuttavia, risulta anche una vittima “casuale” e a dimostrazione di ciò vi è il fatto che i due complici inviano lo stesso messaggio di invito alla loro “festa” a molte persone, tra cui anche la vittima, ma soltanto Luca asseconda i loro deliri criminali, ignaro della serata che lo aspetta. 

Prima dell’omicidio i due invitano nell’appartamento diversi amici: del primo si impossessano del bancomat e iniziano a prelevare soldi contro il volere del suo proprietario. Il secondo mal capitato viene invece drogato e in questa circostanza Foffo e Prato provano a coinvolgerlo in rapporti sessuali dai quali, però, riesce a sottrarsi. Infine, scelgono di chiamare la loro vittima mettendo in atto una vera e propria mattanza alla quale, però, non riescono a restituire un significato.

Entrambi finiranno per perdere il controllo sulle loro azioni fino al punto che non saranno più loro a governare la situazione che hanno creato ma sarà la situazione a governare loro.

In seguito all’omicidio, scivolano nel sonno a pochi centimetri dal cadavere e al loro risveglio entrano nel panico più totale. Soltanto in quella circostanza Marco valuterà l’ipotesi di togliersi la vita e Manuel cercherà di aiutarlo individuando l’hotel nel quale sarebbe avvenuto il suicidio.

Il rimorso per l’accaduto porta Marco Prato a tentare il suicidio con sonniferi mescolati all’alcol, ma viene trovato in tempo dalle forze dell’ordine sulle note della canzone “Ciao Amore Ciao” di Luigi Tenco nella camera numero 65 dell’Hotel San Giusto a Piazza Bologna.

Queste le parole trovate su un foglio:

“Perdonatemi, non riesco. Sono stanco, una persona orribile. Ricordate solo il bello di me. Vi amo.

Fate festa per il mio funerale, anche se vorrei cerimonia laica, fiori, canzoni di Dalida, bei (sottolineato due volte) ricordi: una festa! Dovete divertirvi!!

Chiama Private & Friends, il centro capelli a piazza Mazzini per rigenerarmi la chioma prima di cremarmi. Mettetemi la cravatta rossa, donate i miei organi, lasciatemi lo smalto rosso alle mani. Mi sono sempre divertito di più ad essere una donna.

Organizzate sempre, una volta alla settimana o al mese, una cena o un pranzo con tutti i miei cari amici e amiche che ho amato tanto. Fate sempre festa, sentitevi Dalida ogni tanto. Mettete “Ciao amore ciao” quando avete finito la festa per me e ricordatevi tutti insieme i miei sorrisi più belli.

Buttate il mio telefono e distruggetelo insieme ai due computer, nascondendo i miei lati brutti. Tenete alto il mio nome e il ricordo, nonostante quel che si dica. Non indagate sui miei risvolti torbidi, non sono belli

I processi

Quando Manuel Foffo si rivolge alle forze dell’ordine gli viene contestato concorso in omicidio aggravato e la confessione dura l’intera notte

Avevamo il desiderio di fare del male a una persona qualsiasi. Questa cosa è maturata nelle nostre menti nella notte di giovedì 

Lui ricorda di aver dato coltellate al collo, si è trattato di una morte lenta per cui la vittima avrebbe sofferto tanto. Ore di torture, in cui Luca Varani è stato colpito a più riprese con coltelli e martello e lasciato agonizzante per ore intere.

Lo abbiamo davvero torturato. Ricordo solo che la morte è sopravvenuta dopo molto tempo e Luca ha sofferto molto. Non ricordo quante coltellate aveva alla gola, è stato Marco che ha inferto la coltellata al cuore lasciando dentro il coltello, Luca era ancora vivo prima di quella coltellata

Subito dopo viene portato in custodia cautelare e posto in isolamento giudiziario nel Carcere di Regina Coeli a Roma per essere poi condannato con sentenza definitiva a 30 anni di reclusione.

Probabilmente il motivo principale per cui il Foffo si sia fatto coinvolgere nella commissione dell’omicidio è la debolezza e la noia. Davanti a una figura manipolatrice come quella di Marco Prato, un soggetto particolare, segnato da alcol e dipendenze e dalla costante ricerca del piacere in ogni sua forma, Manuel Foffo ha dimostrato una forte incapacità di sapersi arrestare davanti ad un atto così spregevole.

Dagli interrogatori emerge la confessione di Foffo davanti agli inquirenti: “È iniziato tutto da un gioco, volevamo uccidere qualcuno solo per vedere che effetto faceva...”, come per sottolineare la sua curiosità.

Una volta trovatosi nella situazione, però, Foffo ha riferito agli inquirenti di non aver provato alcun piacere, ma di esserne invece rimasto deluso:

Mentre lo colpivamo non provavo piacere però non ero in grado di fermarmi anche se ho avuto dei momenti in cui provavo vergogna per quello che facevo

Marco Prato è morto suicida nel carcere di Velletri nel 2017, poco prima dell’inizio del processo. Si è tolto la vita soffocandosi mediante un sacchetto di plastica, in attesa di essere processato per l’omicidio di Luca Varani. Tuttavia, non si è trattato del primo episodio. Marco Prato aveva già tentato il suicidio in passato perché vittima di bullismo durante l’infanzia, per questo era stato seguito da una psichiatra.

Le lettere scritte prima di morire sembrano disposizioni testamentarie in cui però chiede un funerale estroso, con musica, cravatta rossa e smalto alle mani. Spiegando inoltre che per lui la vita era diventata insopportabile e che aveva scoperto cose di sé e del mondo che non riusciva a sopportare.

In una notte di inaudita violenza ci lascia Luca Varani. Una storia dove non servono indagini per ricercare le più grandi ragioni di un tale gesto. È realmente tutta colpa della droga?

Scritto da Gaia Vetrano in collaborazione con Criminologa in Pillole

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Omicidio di Luca Varani, sette anni fa l’«abisso umano» di Marco Prato e Manuel Foffo: la storia dall’inizio. Angela Geraci su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2023

La ricostruzione di uno dei fatti di cronaca nera più feroci e disturbanti degli ultimi anni: una vittima inerme scelta a caso, nessun movente chiaro, due persone che si trasformano in torturatori e assassini

C’è un piumone arancione arrotolato in camera da letto, nasconde il cadavere di un ragazzo: nudo, con un coltello piantato nel petto, sfigurato, il volto e il torso straziati da 100 tra coltellate e martellate. Vicino a quel piumone, nella penombra delle tapparelle mezze abbassate, ci sono due giovani uomini che dormono abbracciati, uno è vestito da donna. Sono passate ore dall’uccisione di Luca Varani, 23 anni, e in quella camera con lui ci sono i suoi assassini: Marco Prato, 30 anni, e Manuel Foffo, 29.

È il 5 marzo 2016, a Roma, e fra poco tutta Italia verrà a conoscenza di uno dei delitti più feroci e disturbanti degli ultimi anni. Una storia che dà le vertigini e fa affacciare sull’«abisso umano», come l’ha definito il procuratore generale della Cassazione anni dopo.

Il primo lancio dell’Ansa è del 6 marzo, alle 9.53, sette anni fa: «Un ragazzo italiano di 23 anni è stato ucciso ieri sera in un appartamento di via Igino Giordani, nel quartiere Collatino, alla periferia di Roma. Il corpo presenta segni di violenza. I carabinieri hanno fermato due persone».

La vittima: Luca Varani

Luca è nato nell’ex Jugoslavia e ha vissuto i suoi primi giorni in un orfanotrofio. È lì che Silvana e Giuseppe Varani, venditori ambulanti di dolciumi a Roma, lo incontrano la prima volta. Il sorriso del neonato li fa immediatamente innamorare e Luca torna a casa con loro. È un bel bambino dagli occhi vispi e profondi e il sorriso aperto e dolce è la sua cifra anche quando cresce. Da quando ha 14 anni è fidanzato con Marta Gaia, sono molto uniti e innamorati ma frequentano giri di amici diversi. Luca è andato alla scuola serale e, da poco, lavora in un’officina di riparazione auto. Nelle foto che circolano di lui lo si vede sempre sorridente, con un gattino in braccio, che gioca con una foglia. Una parte della sua vita, però, è avvolta dall’ombra. Solo dopo la sua morte, chi gli voleva bene scoprirà con sgomento quel lato oscuro: Luca si vende a uomini e ragazzi in cambio di soldi e droga.

Venerdì 4 marzo, di mattina, sta uscendo per andare a lavorare quando riceve il messaggio che gli cambierà per sempre la vita. A contattarlo è Marco Prato, noto pr delle notti gay romane, che gli offre 100 euro perché partecipi a un festino con alcol e droga. Luca accetta, inventa una scusa per il suo datore di lavoro e si avvia verso via Igino Giordani, al Collatino. Da lì, da quell’appartamento al decimo piano di un palazzone color crema e ruggine, non uscirà più.

Marco Prato

Marco Prato è una personalità complessa, un 30enne che cerca il suo posto nel mondo e forse crede di averlo trovato. Viene da una buona famiglia, non è mai stato bene nel suo corpo. Prima i chili di troppo, poi i capelli che si diradano e cadono (infatti usa un parrucchino), un amore finito che gli ha fatto tentare già il suicidio e soprattutto un’identità di genere che non gli appartiene. Anche quando diventa uno dei pr più conosciuti degli eventi gay romani, Prato progetta di andare in Thailandia per iniziare il percorso di transizione che lo trasformerà in una donna. Con gli altri appare sicuro di sé e sembra avere grandi capacità di manipolazione. Gli piacciono gli eterosessuali. Ha conosciuto Manuel Foffo a Capodanno, solo tre mesi prima del delitto.

Manuel Foffo

Manuel Foffo è iscritto a giurisprudenza ed è insoddisfatto. Avrebbe scelto un’altra facoltà, ma alla fine ha seguito il consiglio del padre, Valter, proprietario di un’avviata agenzia di pratiche automobilistiche e di un ristorante. Da sempre Foffo si sente schiacciato dalla figura paterna, ha problemi con l’alcol e da poco ha ottenuto di nuovo la patente che gli era stata ritirata. Da quando il fratello si è sposato, Manuel è andato a vivere nell’appartamento di via Igino Giordani, quello al decimo piano, proprio sopra la casa in cui vive sua madre.

La notte di Capodanno la sua vita si incrocia con quella di Prato: dopo aver festeggiato tutta la notte con altre persone, i due restano da soli e dopo aver assunto droga e altro alcol, hanno un rapporto sessuale che Prato decide di filmare. Da qui inizia la caduta di Foffo. Il 29enne entra in una profonda crisi: è sicuro di essere eterosessuale, ma quella notte passata con Prato lo destabilizza. E sapere che il pr è in possesso del video, e che potrebbe diffonderlo, lo getta in uno stato di ansia perenne e lo fa sentire soggiogato in qualche modo. Per questo accetta di rivederlo, per la seconda volta in vita sua, il 2 marzo, a casa sua.

I tre giorni di buio

Negli 80 metri quadrati dell’appartamento alla periferia di Roma - soggiorno, cucina, camera da letto e bagno - Prato e Foffo iniziano da subito a chiudersi in un’altra dimensione, una dimensione in cui il tempo perde il suo senso e dentro cui esistono solo loro due. Parlano tanto, consumano più di un migliaio di euro di cocaina e non si sa quanto alcol. Non dormono, non mangiano. Prato ha portato con sé un borsone in cui ha una parrucca blu elettrico e dei vestiti da donna. Sulle unghie si mette lo smalto della madre di Foffo. I due semisconosciuti si raccontano le loro vite, le loro paure, le delusioni, i dolori. Scivolano in territori spaventosi e piano piano, nella casa sempre più sporca e buia, prende forma l’idea più inconfessabile: uccidere una persona a caso per vedere l’effetto che fa.

Le ore passano, continuano a prendere cocaina. Fuori la vita della città va avanti come sempre: il traffico, la pioggia. I titoli dei telegiornali parlano dei due italiani rapiti a luglio in Libia e liberati, della polemica sul direttore della reggia di Caserta, del giallo di O.J. Simpson che potrebbe riaprirsi, della Roma che ha vinto la sua settima partita di fila ed è al terzo posto. Intanto Prato e Foffo cercano la loro vittima. Prima di inviare il messaggio a Luca Varani, attirano nella casa altre persone che però si salvano, uno scappa dopo aver fiutato la strana atmosfera che si respira nell’appartamento. Poi tocca a Luca. Appena arriva lo fanno spogliare e gli danno da bere un cocktail con dentro un farmaco che lo stordisce. Poi iniziano a colpirlo. Martellate, colpi con due coltelli diversi, cercano di strangolarlo. Alla fine, dopo oltre due ore di torture, Varani muore dissanguato.

La confessione

Prato e Foffo si rendono conto di quello che hanno fatto. Restano ancora in casa con il corpo di Varani in camera da letto. Poi escono e fanno un giro in diversi bar, bevono ancora. Prato ha deciso che si toglierà la vita in un albergo, Foffo lo accompagna all’hotel e poi torna a casa sua. Di prima mattina accompagna la famiglia all’ospedale Gemelli, dove è morto lo zio. Quel giorno sono fissati i funerali, fuori Roma, e Foffo si avvia in macchina con i familiari. È durante il viaggio che, pressato dalle domande del padre, confessa: a casa sua c’è una persona che ha ucciso, non sa chi sia, non sa perché l’ha fatto.

Una storia che non ha senso, un delirio a cui è difficile credere. Il padre di Foffo chiama il suo avvocato e insieme avvertono i carabinieri. È la sera del 5 marzo.

La scena del crimine e l’assenza di movente

Gli inquirenti che entrano in casa di Foffo si trovano davanti una scena raccapricciante, molti fanno fatica ancora oggi a ripensare a quello che hanno visto. Prato viene trovato nella camera d’albergo in cui ha tentato di uccidersi ingerendo alcol e farmaci. Ha lasciato dei biglietti di addio per i familiari in cui, tra le altre cose, chiede che gli venga fatto un trapianto di capelli prima della cremazione e che gli venga lasciato lo smalto rosso sulle unghie. Ma Prato non è morto, portato in ospedale si riprende. E da subito non mostra segni di pentimento. A quel punto Foffo sta già raccontando tutto durante l’interrogatorio: lui e Prato hanno ucciso un ragazzo che neppure conoscevano bene, senza un vero perché. Non vendetta, non motivi economici, niente. È questo «il lucido abisso umano» di cui parlerà il procuratore generale della Cassazione, è questa l’inquietante verità che ha spinto lo scrittore Nicola Lagioia a raccontare questa storia e interrogarsi sul male (e quanto sia vicino a noi) in un libro, La città dei vivi, che poi è diventato un podcast e uno spettacolo teatrale.

Marco Prato si è tolto la vita nel carcere di Velletri nel giugno del 2017, prima della sentenza di primo grado. Ha lasciato un biglietto in cui si diceva innocente. Manuel Foffo, che aveva scelto invece il rito abbreviato, è stato condannato definitivamente a 30 anni di carcere, nel 2019. Lo scorso 23 gennaio, il giorno in cui era nato Luca Varani, la sua ragazza ha scritto un post su Facebook: «Non c’è giorno che passi senza che io pensi a te, ma solo perché non riesco a darmi pace che tu non sei più qui a illuminare il mondo con i tuoi splendidi occhi ridenti. (...) mi sembra ingiusto e impossibile pensare che ogni anno io ne compio uno in più e tu ne avrai sempre 23».

"Vi racconto il delitto di Luca Varani". Lagioia e la nostra epoca 'vittimista'. Luca Varani è stato ucciso nel 2016 ma Marco Prato e Manuel Foffo: la loro storia è nel libro e nel podcast "La città dei vivi" di Nicola Lagioia. Angela Leucci il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.

La città dei vivi” di Nicola Lagioia è un libro intenso. Da un lato per lo stile raffinato con cui l’autore ha raccontato la vicenda, dall’altro per la vicenda in sé, quella di un vero omicidio. Nessun nome dei protagonisti è stato modificato: questo romanzo racconta la verità delle “carte”, delle confessioni, delle indagini.

E la verità è che il 4 marzo 2016 Roma vegliò bellissima e muta su uno degli omicidi più cruenti della cronaca degli ultimi anni, quello del 23enne Luca Varani. Per quel crimine fu condannato a 30 anni Manuel Foffo, 28 anni all’epoca dei fatti, mentre l’altro imputato, Marco Prato, 29 anni, che già all'indomani del delitto aveva provato a togliersi la vita, si suicidò in carcere alla vigilia della prima udienza.

Luca cercava di affacciarsi al domani, faceva studi serali, aveva una fidanzata che amava molto, Marta Gaia. Si era tatuato il suo nome. La notte in cui ha subito torture e violenze da Prato e Foffo, reduci da svariate ore di abuso di droghe, era stato contattato con un sms, non sapeva cosa lo aspettava.

Il caso ha colpito moltissimo l’immaginario collettivo, forse per la giovane età dei protagonisti, forse per l’efferatezza della dinamica omicidiaria. Anche lo scrittore premio Strega Nicola Lagioia fu catturato da questa storia, tanto da raccontarla appunto ne “La città dei vivi”, un romanzo diventato poi un podcast. “Bisogna continuare a riflettere, a raccontare”, dice Lagioia a IlGiornale.it.

Lagioia, cosa l'ha colpita dell’omicidio Varani, tanto da decidere di raccontarne la storia in primis in un romanzo/verità?

È quello che cerco di spiegare, e di spiegarmi, in quasi 500 pagine di libro. Quindi mi è un po’ difficile riassumerlo qui. La letteratura, almeno spero, prova a dare conto di urgenze che, espresse in altre forme, risulterebbero solo contraddittorie o inesprimibili”.

Si è avvalso di documentazione e della partecipazione di giornalisti, come ad esempio Chiara Ingrosso. Perché ha ritenuto meglio raccontare una vicenda nella sua connotazione reale e non fictional?

Ho letto gli atti. Ho incontrato tantissime persone legate al fatto. Mi sono confrontato con giornaliste come Chiara Ingrosso, con cui c’è stata una grande sintonia, e la stessa urgenza di cui parlavo sopra. In certi casi la letteratura può provare a indagare la realtà, dunque a usare tutta la sua forza retorica (i suoi strumenti conoscitivi, perfino il proprio codice emotivo), pur rinunciando alla finzione, allo scopo di gettare su quella realtà una luce che altrimenti non cadrebbe. La realtà, per essere letta, ha bisogno dello storico, del filosofo, del sociologo, dello psicologo, dello psichiatra, del teologo, e qualche volta persino di uno scrittore”.

Nel podcast come nel libro, Roma non è solo uno sfondo, ma quasi un personaggio che vive e respira. Che ruolo ha una città nel destino delle persone, o meglio in ciò che diventano?

Non credo che Roma sia responsabile per ciò che è avvenuto. Certo, però, è una città che forgia caratteri e tipi umani, come tutte le grandi città. Quindi la sua influenza è sul ‘come’ più che sul ‘cosa’. C’è un modo di sentirsi liberi, o falliti, che è squisitamente romano. Così come ci si sentirebbe liberi o falliti, in maniera diversa, a Parigi o a Tokyo”.

C’è un episodio del podcast, come d’altra parte accade tra le pagine del romanzo, in cui si racconta in particolare chi era Luca Varani. Quanto crede esista oggi il rischio che la centralità della vittima si perda nella narrazione?

Non credo che la vittima perda centralità, oggi, nel discorso pubblico. Il problema è piuttosto la vocazione vittimaria di tutti noi. Per una vittima reale (Luca Varani) ci sono 1000 aspiranti vittime che non sono tali, o non sono solo tali. Ci sentiamo vittime, e non pensiamo mai che siamo noi quelli in grado di poter fare del male. Crediamo di essere in credito di qualcosa, non ci sentiamo mai in debito. Rivendichiamo i nostri diritti, mai i nostri doveri. Questo è un problema. Se ci sentiamo tutti vittime, poi va a finire che le vittime vere non le vediamo più, o si confondono nel mucchio”.

"Vi racconto il mio Luca ucciso a martellate..."

Cosa resta oggi, a 7 anni di distanza, dei tre protagonisti di questa vicenda?

Luca Varani è morto. Marco Prato si è suicidato in carcere. Manuel Foffo sta scontando la galera. Il mio pensiero va alle loro famiglie. Ci penso spesso, con dolore”.

A volte è accaduto che romanzi e altre opere che trattavano di crimini realmente accaduti fossero sotto accusa: secondo alcuni creerebbero il mito del criminale d’ispirazione alle nuove generazioni. Cosa ne pensa?

La letteratura indaga da sempre il male. Da Sofocle a Shakespeare. Ci interessa il crimine perché lì si annida la parte di noi che non riusciamo a correggere, la violenza che non riusciamo a strapparci di dosso, il fallimento del nostro essere umani. Continuare a interrogarsi significa non perdere di vista il male. Se lo perdi di vista, il male non scompare, diventa un oggetto di rimozione, e quindi continua a fare danni senza che tu te ne renda più conto. Bisogna continuare a riflettere, a raccontare”.

Pierpaolo Panzieri ucciso a Pesaro con 13 coltellate, fermato un amico d’infanzia in Romania: la pista della lite per denaro. Alfio Sciacca (ha collaborato Enea Conti) su il Corriere della Sera il 23 Febbraio 2023

Il sospettato era fuggito con l’auto del padre, titolare di un noto albergo in centro. È stato bloccato in treno durante un normale controllo di polizia

Lo hanno fermato in Romania, durante un controllo di polizia. Aveva appena lasciato l’auto rimasta senza benzina ed era salito su un treno convinto di poter continuare la sua fuga, ma ieri sera gli è stato notificato un mandato di cattura europeo per omicidio. Michael Alessandrini, 30 anni, è accusato di aver ucciso con almeno 13 coltellate il vecchio amico di infanzia Pierpaolo Panzieri, 27 anni, ucciso lunedì sera nella sua casa nel centro di Pesaro.

In attesa di poterlo interrogare (per il trasferimento in Italia passeranno almeno 10 giorni) resta misterioso il movente del delitto. Sicuramente lunedì sera i due amici sono stati assieme nella casa in cui la vittima si era trasferita da poche settimane. Ad un certo punto è scoppiata una lite e Alessandrini avrebbe afferrato un coltello con il quale ha cominciato a colpire Panzieri. Questo avrebbe provato a sottrarsi a tanta furia, cercando rifugio nel bagno di casa. Ma qui è stato finito con una serie di micidiali fendenti, uno dei quali gli ha reciso la carotide.

Ma cosa ha scatenato questa violenza? Nella prima fase delle indagini alcune fonti avevano parlato del presunto assassino come di un soggetto con problemi di dipendenza dal gioco. Ciò aveva lasciato supporre che il denaro potesse essere la causa scatenante del delitto. Forse Alessandrini aveva chiesto soldi all’amico e di fronte al rifiuto avrebbe cominciato a colpirlo. Un’ipotesi sulla quale ora gli inquirenti frenano. «Non abbiamo ancora interrogato il sospettato — afferma una fonte di polizia —, non c’è ancora un quadro chiaro di quel che è avvenuto lunedì e dunque tutte le ipotesi sono in campo».

La vittima era al di sopra di ogni sospetto. «Il classico bravo ragazzo», dicono amici e conoscenti. Pierpaolo Panzieri lavorava con il padre e il fratello Gianmarco nel negozio per la vendita di materiale edile della famiglia. «Mio fratello era amato da tutti, non riesco a capire perché sia stato ucciso in modo così atroce», si dispera il fratello. La sua grande passione era la musica e suonava vari strumenti, anche nel conservatorio Rossini, vicino alla sua nuova abitazione. Una passione che condivideva con il presunto assassino, figlio del titolare di un noto albergo, sempre in centro a Pesaro. Disperati e increduli anche i familiari di Michael Alessandrini che lavorava nell’albergo del padre. «Un ragazzo attento e benvoluto dai clienti — racconta una dipendente — a noi non risulta che fosse affetto da ludopatia o avesse problemi di soldi».

Sul luogo del delitto gli inquirenti e la Scientifica hanno trovato più di una traccia che lo inchioda. A partire dal Dna su bicchieri e stoviglie della cena consumata insieme all’amico. Il delitto sarebbe avvenuto dopo le 21. A quell’ora infatti Pierpaolo ha fatto una telefonata alla madre. Da questi indizi già martedì era partita la caccia al principale sospettato, che dopo il delitto è scappato a piedi portando con sé il coltello e il cellulare di Pierpaolo. È poi tornato a casa, ha arraffato 500 euro e ha preso la Renault Clio del padre, tentando la fuga. Tracciando i movimenti dell’auto gli uomini della Mobile di Pesaro hanno scoperto che martedì all’alba è arrivato a Trieste, ha passato il confine con la Slovenia per poi raggiungere la Romania. Dove è stato fermato grazie alla collaborazione con il Servizio di Cooperazione internazionale di Polizia e con l’ufficiale di collegamento presso l’ambasciata a Bucarest.

Omicidio di Pierpaolo Panzieri a Pesaro, il presunto killer alla tv romena: «Perché l'ho ucciso? Lo dirò al giudice». Enea Conti su il Corriere della Sera il 23 febbraio 2023

Michael Alessandrini preso dopo la fuga in Romania verrà rimpatriato, gli amici della vittima: «Era instabile». Lo zio: voglio giustizia senza pietà

«Perché l’ho ucciso? Lo dirò dopo al giudice». Le parole, pronunciate ai microfoni di una giornalista romena, sono di Michael Alessandrini, il trentenne pesarese fermato in Romania, mentre era a bordo di un treno, dopo una fuga durata un giorno e mezzo, con l’accusa di aver ucciso Pierpaolo Panzieri, assassinato nel suo bilocale con tredici coltellate la sera di lunedì 19 febbraio. Alessandrini - che deve rispondere di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e dai futili motivi - tuttavia, non sarebbe stato ancora sentito dal giudice della Corte d’Appello di Timisoara, la città in cui è detenuto sotto l’occhio vigile degli agenti della Polizia di Stato locale che lo ha terrà in custodia in fino alla convalida del mandato di arresto europeo emesso dal gip di Pesaro. Un iter che si concluderà entro dieci giorni con il rimpatrio.

La presunta ludopatia e il movente

Secondo le prime indiscrezioni Michael Alessandrini soffrirebbe di ludopatia e problemi psichici (sua madre avrebbe parlato di una sua presunta bipolarità diagnosticatagli da bambino)  ma dalle indagini è emerso che il trentenne non è neppure seguito dai servizi sanitari. Anche per quel che riguarda la ludopatia non sono emersi riscontri concreti. Elementi che infittiscono il giallo sul movente. Su questo aspetto le indagini della Procura vanno avanti, mentre l’autopsia sul cadavere di Pierpaolo Panzieri in programma nel pomeriggio di giovedì 23 febbraio è stata rinviata al prossimo lunedì.

La fuga

A suggerire agli inquirenti che Michael Alessandrini fosse fuggito dall’Italia dopo la morte di Panzieri erano stati i suoi stessi genitori. Il padre è il gestore di un noto albergo del centro di Pesaro e il figlio, la sera di lunedì era sparito così come era sparita la sua Renault Clio. Per la cronaca, Panzieri e Alessandrini avevano cenato insieme la sera dell’omicidio. La stretta collaborazione delle Forze di Polizia rumene ha poi permesso di individuare il presunto killer a bordo dell’auto in Romania dopo un controllo stradale. Pierpaolo Panzieri viveva in via Gavelli da appena due settimane, nel cuore del centro storico a pochi passi dal conservatorio intitolato a Gioacchino Rossini il celebre compositore a cui Pesaro diede i natali. Il giovane si era trasferito da Baia Flaminia, una frazione meno centrale del capoluogo marchigiano e la maggior parte dei nuovi vicini lo conosceva appena di vista. 

La cena e l'allarme

Panzieri era appassionato di musica - era un polistrumentista - amava giocare a calcetto con gli amici e trascorrere con loro il suo tempo libero al “Salotto Cavour” e al Circolo Mengaroni. Era anche un instancabile lavoratore, con il fratello e il padre gestiva l'azienda di famiglia, la Taglio Cemento srl di Monteciccardo. Era stato proprio il fratello a rinvenire il cadavere, nel bagno del bilocale di via Gavelli dopo aver sfondato la porta. Erano le 9 del mattino di martedì 20 febbraio e a quell'ora l'assassino era in fuga da almeno nove ore. L’allarme era scattato perché il ventisettenne non si era presentato in azienda di prima mattina come suo solito e nessuno dei familiari riusciva a mettersi in contatto con lui. I primi accertamenti medici hanno permesso di stabilire l'orario della morte di Pierpaolo Panzieri, che risalirebbe all'incirca alla mezzanotte di lunedì. colpi sono stati inferti con un coltello dalla punta sottile che il killer ha poi fatto sparire assieme al telefono cellulare della vittima. 

L'amicizia tra Alessandrini e Panzieri

Ma chi è il presunto killer? Michael Alessandrini, trentenne originario di Pesaro, conosceva la vittima da quando entrambi erano bambini. Panzieri e Alessandrini si frequentavano spesso, alcuni dipendenti dell’hotel gestito dal padre hanno raccontato di averli visti insieme anche di recente proprio nei locali dell’albergo che dista pochi passi dal bilocale in cui è stato rinvenuto il cadavere del ventisettenne. L'addetta alla portineria dell’hotel ha raccontato di aver cenato con Michael Alessandrini la sera prima dell'omicidio. «Sembrava tranquillo, aveva detto, e nulla lasciava presagire quello che sarebbe accaduto».

Gli amici della vittima: «Alessandrini era instabile» 

Del trentenne la signora ha delineato un ritratto distante da quello emerso durante le indagini secondo cui Alessandrini sarebbe affetto da ludopatia e problemi psichici. «Sapeva tre lingue, era benvoluto e molti clienti dell’albergo si erano affezionati a lui». Un ritratto tuttavia ben lontano da quello degli amici della vittima, che al contrario puntano il dito contro Alessandrini. «Lui era molto strano. Molto instabile, spesso ossessivo e impulsivo ma Pierpaolo gli voleva comunque molto bene», spiegano alcuni coetanei che conoscevano Pierpaolo Panzieri. Intanto i genitori della vittima hanno nominato un legale, l’avvocato Paolo Biancofiore del foro di Pesaro. Al momento, chiusi nel dolore, non vogliono rilasciare dichiarazioni. 

Lo zio: «Spero in una giustizia rapida e senza pietà»

Lo zio della vittima Alessandro Del Prete ha invece affidato a Facebook il suo sfogo. «Spero tu possa trovare al più presto l'assoluta lucidità mentale, che possa farti vivere il resto della tua ignobile e deprecabile vita con la consapevolezza di essere una m...a totale», ha scritto attaccando Michael Alessandrini. «Non ti posso purtroppo augurare lo stesso dolore che hai provocato ai genitori e al fratello - scrive ancora lo zio - perché solo chi perde un figlio o un fratello può provarlo. Mi auguro solo che la giustizia attenui, se mai possibile, lo strazio di una famiglia, che tu hai condannato ad un'esistenza inammissibile per qualsiasi essere umano, con una sentenza rapida, giusta, decisa e senza pietà. La stessa pietà che tu non hai avuto nei confronti di un tuo coetaneo, un tuo amico, un tuo simile».

Il mistero della morte di Stefano Gonella. Un Dna riapre le indagini del «caso Meredith» di Bologna.  Amelia Esposito su il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2023

Lo studente del Dams, 26 anni, fu ammazzato nel 2006 con quattro coltellate in un appartamento da un uomo ancora senza identità

In un appartamento da fuorisede alla periferia di Bologna, il 24 settembre 2006, è stato ammazzato un ragazzo. Il suo nome era Stefano Gonella: lo ha ucciso con quattro coltellate un uomo che non ha un’identità. Non ancora. La speranza si riaccende quasi 17 anni dopo grazie a un Dna. Il profilo genetico del suo assassino. E si torna a indagare.

Quando la Polizia scientifica entra nella camera di Stefano all’alba di quella domenica si trova davanti al teatro di una lotta. Nulla — le lenzuola, i cuscini, le scarpe, gli oggetti della vita quotidiana di un ragazzo come tanti — è dove dovrebbe essere. Ovunque, macchie di sangue. E quel corpo. È il corpo di chi ha provato a difendersi, ha lottato, ma ha perso: le gambe sul letto, il busto e la testa sul pavimento. Siamo al 23 di via Passarotti, zona Corticella, a due passi dalla più celebre Bolognina. Stefano, 26enne di Piario (Bergamo), era uno studente e un lavoratore. Da quel giorno, Bologna ha il suo «caso Meredith»: un universitario ucciso in una città universitaria. Solo che qui non c’è sesso, niente droga, imputate attraenti, riflettori. Non c’è un movente. Non c’è un’arma. Non c’è un assassino.

Stefano era iscritto al Dams, faceva il portiere di notte in un hotel per non pesare troppo sulle tasche della sua famiglia, che pure non se la passava male. Parlava bene l’inglese, la lingua della sua fidanzata Verity, il tedesco e lo spagnolo. Amava il reggae. Nel caos della sua camera ci sono un cappellino con i colori della Giamaica, ciondoli etnici e bonghi, poster di Bob Marley. C’è la vita di un ragazzo che ha lasciato le valli bergamasche per scivolare più a sud, nella città dotta, ma soprattutto godereccia e libera. È un sabato il 23 settembre 2006 e, come da copione «vita da studente fuorisede», Stefano trascorre la serata con gli amici in via del Pratello, la via delle osterie. Nel 2010, quando si proverà a dare una svolta a un’inchiesta partita con il piede sbagliato, il traffico telefonico del fiume umano che quella sera si era riversato in via del Pratello verrà passato al setaccio. I numeri incrociati con i telefonini attivi lungo il tragitto dalla via della movida a via Passarotti: quello che si suppone la vittima abbia fatto per tornare a casa, verso le 4 del mattino. È allora che una telecamera lo riprende camminare da solo con una birra in mano. L’assassino lo aspettava a casa? Oppure lo ha incontrato per strada? L’analisi delle utenze è un buco nell’acqua. La mamma, i fratelli e il papà di Stefano, che ora non c’è più, smettono di sperare. Lassù, in Val Seriana, nessuno crede più che quel paesano fuggito in una città forse troppo libertina, troppo gaudente e quindi troppo pericolosa, possa avere giustizia.

Quando la pm Maria Gabriella Tavano chiude con una richiesta di archiviazione il fascicolo, in mano, dunque, ha poco e niente. Ma c’è un identikit. Il volto di un uomo con i capelli lunghi, lisci e neri, 1.80, magro, il viso un po’ squadrato e la fossetta sul mento, circa 30 anni. Lo ha visto uscire in fretta dall’appartamento di via Passarotti l’inquilino di Stefano, un Erasmus spagnolo, svegliato, ma non in tempo per intervenire, dal trambusto e dalle grida. È l’assassino di Stefano. La sua impronta genetica era in mezzo alle decine di Dna isolati nella camera del massacro. Ma all’epoca è servito a poco. Le indagini scientifiche, però, hanno fatto passi da gigante. E nel 2016 è stata istituita la banca dati nazionale del Dna, dove presto verrà inserito anche quello dell’assassino di Corticella. La speranza è che si possa trovare, subito, o in futuro, una corrispondenza.

Da adnkronos.com il 3 giugno 2023.

No all'archiviazione del procedimento sulla morte di Tiziana Cantone, la 31enne trovata morta il 13 settembre 2016 a Mugnano (Napoli) dopo la diffusione online di alcuni suoi video e foto hard. 

L'avvocato Gianluca Condrò, difensore di Maria Teresa Giglio, madre di Tiziana Cantone, ha proposto al gip del Tribunale di Napoli Nord l'opposizione contro la richiesta di archiviazione del procedimento nei confronti di ignoti per il reato di omicidio presentata dal pm della Procura aversana.

Quella presentata lo scorso 2 maggio è la seconda richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Napoli Nord dopo quella del 10 novembre scorso, a seguito della quale il giudice ha accolto l'opposizione proposta dalla madre di Tiziana Cantone, disponendo ulteriori indagini. Secondo la madre, Tiziana Cantone non si sarebbe suicidata. 

La difesa ha evidenziato alcuni mancati approfondimenti non svolti nell'immediatezza del ritrovamento del corpo; secondo i consulenti della persona offesa inoltre, la posizione in cui è stata trovata Tiziana Cantone, con un foulard al collo a sua volta annodato a un attrezzo ginnico, e l'altezza dell'attrezzo ginnico stesso non escludono l'ipotesi di asfissia da strangolamento.

La difesa si dice "perplessa" dall'attività svolta dalla Procura di Napoli Nord nei 90 giorni di ulteriori indagini indicate dal gip, in particolare dalla "più totale inerzia rispetto all'esecuzione degli approfondimenti tecnici sollecitati". 

Secondo l'avvocato Condrò è "oltremodo necessaria la prosecuzione delle indagini preliminari" con la nomina di un tecnico che "analizzando l'attrezzo ginnico possa accertare se la morte di Tiziana possa essere avvenuta con le modalità ipotizzate dal pm, e dunque se la panca ancora oggi presente sul luogo dei fatti, per le sue caratteristiche fisiche e strutturali, sia idonea a cagionare la morte di una persona". 

Il legale chiede quindi al gip "l'avocazione delle indagini al procuratore generale della Corte di Appello" e di "ordinare la prosecuzione delle indagini".

Il dramma di Tiziana Cantone, suicida dopo i video hard, non è chiuso. Fulvio Bufi su Il Corriere della Sera l’08 aprile 2023

La giovane si impiccò nel 2016 perché non era riuscita a fermare la diffusione su Internet di alcuni filmati erotici. La madre non ha mai smesso di lottare, convinta che la figlia sia stata uccisa. E ora sul corpo, mostrato e violato infinite volte, sarà fatta l’autopsia

A sinistra Tiziana Cantone con il suo cane. Quando si è uccisa, distrutta dalle conseguenze della diffusione di video hard di cui era protagonista, aveva 33 anni

La macchina per fare ginnastica in casa era diventata una forca. La pashmina penzolava ancora, Tiziana invece no, lei non penzolava più. Era adagiata senza più respiro, senza più vita. Troppo tardi in famiglia avevano capito che cosa stesse succedendo dietro la porta chiusa della tavernetta. L’avevano soccorsa e liberata dal cappio che si era stretta al collo, ma ormai non serviva più a niente. Il suo volto di donna giovane adesso era soltanto spento. Non raccontava più nulla. Non la storia di una ragazza che voleva essere libera di andare dove tanti pensano sia troppo oltre, ma non aveva capito che lei stessa, poi, quella libertà non avrebbe saputo gestirla né sopportarne il costo. E non raccontava più nemmeno il dolore, il pentimento, la vergogna, il sogno impossibile di cancellare il passato.

Tiziana Cantone era nata nel 1983 a Casalnuovo, in provincia di Napoli

La pietà che non arriva

Le emozioni non restano sul volto di chi muore. Resta soltanto il corpo. E forse proprio per un senso di pietà verso quel corpo, per evitarne l’ultima esposizione nel rito gelido dell’esame medico legale, dopo l’infinito abuso di sguardi e commenti e malignità, il magistrato decise di lasciarlo alla famiglia, di non imporre l’autopsia. Sembrava tutto tragicamente lineare: Tiziana si era uccisa. La scena lo raccontava e la sua storia lo spiegava. Era il 13 settembre del 2016, e sarebbe dovuto finire tutto quel giorno.

La battaglia della madre

Lei per un anno aveva chiesto in ogni modo di essere dimenticata: rivolgendosi alla giustizia, cambiando nome, cambiando città, chiudendosi in casa. Alla fine si era illusa che soltanto il gesto più estremo le avrebbe dato pace. E invece non è mai finito niente. Tiziana è ancora dappertutto. Nel web che ciclicamente ne rilancia le immagini. Nelle battaglie legali di sua madre che non si rassegna al suicidio e vuole dimostrare un omicidio finora negato da qualsiasi indagine. Nelle cronache che puntualmente riportano qualunque vicenda a lei collegabile. E ora anche qui, su queste pagine. Perché forse l’unico modo per chiudere questa storia è riprenderla dall’inizio e provare a disinnescarla togliendo dal racconto tutte le ipocrisie, i non detto e pure gli ammiccamenti che la tengono in piedi da sette anni.

Maria Teresa Giglio, madre di Tiziana Cantone, sulla panchina rossa a lei dedicata, simbolo della lotta alla violenza contro le donne

L’inizio della storia

Tiziana Cantone era nata nel 1983 a Casalnuovo, in provincia di Napoli, e cresciuta nel suo paese con la mamma Maria Teresa e la nonna Carmela, ma senza il padre, che se ne andò da casa quando lei era piccolissima e non si occupò mai più della figlia. Infanzia e adolescenza come tanti, liceo classico, poi Giurisprudenza lasciata a metà.

Quando non ha ancora trent’anni conosce Sergio Di Palo, un imprenditore più grande di lei con il quale inizia una relazione e una breve convivenza. E qui inizia anche la sua storia, quella finita sul web e poi nella tragedia. Tiziana e Sergio frequentano un giro di scambisti, o qualcosa del genere. Perché non si tratta di veri e propri scambi di coppia. Il sito attraverso il quale fissano incontri a scopo esclusivamente sessuale ha una caratteristica specifica: l’uomo offre la propria compagna agli occasionali partner.

Tiziana e Sergio lo fanno di comune accordo, così come condivisa è la scelta che Tiziana venga filmata durante i rapporti sessuali. Nessuna maschera a coprirle il viso, nessun ricorso a quei programmi che sfocano e rendono irriconoscibili. Nelle immagini appare una bella ragazza con i capelli neri e gli occhi verdi in scene né più né meno che da film porno.

Tiziana con l’ex fidanzato Sergio De Palo

Il gioco fuori controllo

«È il nostro gioco», sono soliti ripetersi i due. Ma Tiziana ancora non sa che quel gioco presto le sfuggirà di mano e diventerà un macigno che finirà per schiacciarla. Il primo passo lo fa proprio lei, mandando via WhatsApp sei video a cinque amici. Tutto il resto, invece, non si scoprirà mai chi lo ha fatto, ma i filmini di Tiziana cominciano a circolare.

Il primo sarà anche il più famoso, il più cliccato, quello che diventerà virale. Si vede lei che durante un atto sessuale si rivolge a qualcuno, non inquadrato, e gli dice: «Stai facendo un video? Bravo». Questa frase le rimarrà attaccata addosso come una condanna all’ergastolo. Tra i ragazzi diverrà un tormentone, finirà pure nel videoclip di un cantautore. È l’inizio della giostra, che da quel momento girerà sempre più veloce intorno a Tiziana. Dalle chat tra amici la storia rimbalza sui social, e i frame - pubblicabili - del video vengono utilizzati per creare meme su qualsiasi argomento. Sempre con il volto di Tiziana e le sue parole.

E questo è soltanto ciò che vedono tutti, o almeno che tutti ammettono di aver visto. Poi c’è l’altro livello, quello che non va su Facebook ma riempie i siti porno. E lì non c’è lo sfottò né il doppio senso. Lì c’è la suddivisione per sezioni, e quei video diventano tra i più cliccati della categoria “amatoriale”, tra le preferite dagli appassionati dell’hard.

Le denunce

Il gioco è diventato pesante, insostenibile. Tiziana si illude di fermarlo denunciando i cinque amici ai quali aveva inviato le immagini: pensa sia stato qualcuno di loro a dare il via alla diffusione nel web. Intanto va in crisi il rapporto con il fidanzato e la ragazza torna a vivere con la madre, anche se con Sergio non interromperà mai i contatti. Anzi, è proprio a lui che un giorno invia una sua foto con un sacchetto di plastica infilato sulla testa. Lo avverte che sta per farla finita, e lui riesce a dare l’allarme e Tiziana viene salvata. Ma ormai è crollata.

Nessun diritto all’oblio

Non esce più da casa perché in strada si sente osservata, additata. Pensa che in tanti la riconoscano e probabilmente ha ragione. Attiva la procedura per cambiare cognome e assumere quello della madre, Giglio, poi si trasferisce per un periodo da parenti fuori dalla Campania. Ma prima di tutto si rivolge a un legale per far rimuovere dal web tutto ciò che la riguarda, non soltanto i video porno. Sarà un’altra cosa che le ricadrà addosso, l’ultima. Agli inizi del settembre 2016 l’avvocato di Tiziana fa circolare la notizia di un successo clamoroso. Il giudice civile impone a Facebook «l’immediata cessazione e rimozione dalla piattaforma del social network di ogni post o pubblicazione contenente immagini (foto e/o video) o apprezzamenti riferiti» alla Cantone. Tiziana ha sconfitto il gigante del web. Davide che abbatte Golia e tutto il rosario delle iperboli sulle vittorie a sorpresa dei piccoli contro i grandi. E invece Tiziana non ha vinto proprio niente. Il suo avvocato non mente, ma racconta solo una piccolissima parte della verità. È vero che Facebook è condannato a far sparire qualunque cosa riguardi la ragazza, ma è vero anche che questo è l’unico punto accolto dal tribunale. Che invece respinge le istanze riferite a Yahoo, Google e YouTube e stronca la rivendicazione di diritto all’oblio avanzata dalla Cantone. «Non si ritiene che rispetto al fatto pubblicato sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività alla conoscenza della vicenda», scrive il giudice. E in un altro passaggio del suo provvedimento dichiara «evidentemente inammissibile in sede cautelare» il risarcimento danni chiesto dalla ragazza e per di più addossa a lei l’onere delle spese legali per il procedimento appena chiuso: ventimila euro.

L’indagine

Altro che clamoroso successo. Per Tiziana è una mazzata terribile, dalla quale non si riprende più. Passano pochi giorni e un pomeriggio va a chiudersi nella tavernetta della villetta della zia a Casalnuovo e si impicca.

A questo punto sulla sua tragedia dovrebbe apparire la parola «Fine», e invece no. I titoli di coda finiscono per prendere quasi più spazio dell’intera storia. La Procura di Napoli Nord avvia una indagine per induzione al suicidio, un reato complicato da dimostrare e ancora più difficile da attribuire a qualcuno. E infatti l’inchiesta non approda a nulla e viene archiviata. Così come viene archiviata l’indagine avviata sugli amici ai quali Tiziana aveva inviato i suoi video. Loro non c’entrano niente con la diffusione delle immagini sui siti porno, stabilisce il pm. Che li scagiona dalle accuse e incrimina per calunnia Sergio Di Palo, ispiratore, secondo il magistrato, della denuncia presentata dalla fidanzata contro gli amici. Se Tiziana non fosse morta sarebbe incriminata anche lei.

L’ipotesi dell’omicidio

Ma il colpo di scena deve ancora arrivare. Teresa Giglio non accetta l’idea del suicidio. Si affida a un team specializzato in casi altamente mediatici (per intenderci: quelli di cui si parla di più in tv) che alimenta le sue convinzioni. Per la mamma e i presunti esperti che ha ingaggiato, Tiziana è stata uccisa. I consulenti di Teresa sostengono che il solco sul collo era incompatibile con quello che avrebbe dovuto lasciare la pashmina trasformata in cappio. E anche che la sciarpa era troppo leggera per reggere il peso della ragazza. Si spingono fino a sostenere che qualcuno ha manomesso il telefono di Tiziana dopo la sua morte, quando tutti gli apparati telematici della ragazza erano nelle mani di Procura e carabinieri. In pratica ipotizzano un inquinamento delle prove da parte degli investigatori.

Tutti elementi che riempiono una nuova denuncia presentata in Procura e dalla quale scaturisce un’altra indagine. E sulla scena di questa storia infinita ricompare il corpo di Tiziana. Ora l’inchiesta è per omicidio, e il pm deve far fare quello che non fu fatto nel settembre del 2016: l’autopsia, e dispone quindi l’esumazione dei resti della ragazza. Fa anche altre attività investigative, la Procura, ma non trova nessun riscontro all’ipotesi dell’omicidio. Anzi, tra gli atti disposti dal pm c’è anche una “autopsia psicologica” affidata a una docente universitaria, giunta alla conclusione che Tiziana Cantone si sia uccisa.

Il corso della giustizia

La nuova inchiesta si conclude con la richiesta al gip di archiviazione del procedimento, ma la Procura apre anche una indagine per associazione a delinquere, frode processuale, calunnia e truffa nei confronti dell’intero staff ingaggiato a suo tempo da Teresa Giglio, che nel frattempo ha cambiato avvocato e pure consulenti, affidandosi a due autorità della medicina legale come i professori Vittorio Fineschi e Aniello Maiese. Ed è proprio sulla base della loro perizia che il nuovo avvocato della mamma di Tiziana si oppone all’archiviazione. E mentre anche Sergio Di Palo è uscito da questa storia, completamente assolto dall’accusa di calunnia, Tiziana Cantone continua a stare al centro della scena. Perché il gip respinge la richiesta della Procura e proroga di altri novanta giorni le indagini per omicidio. E dispone una perizia sulla macchina ginnica, sulla pashmina e sulla posizione in cui fu ritrovato il corpo di Tiziana. Il corpo. Sempre il corpo di Tiziana. Usato, mostrato, sfruttato, consumato, sbeffeggiato, violato, annientato, seppellito, riesumato, indagato. Guardato. Perché i video della ragazza ancora circolano sul web, anche se mille volte sono stati bloccati e rimossi. L’ultimo (di cui si ha notizia) comparve nel maggio scorso, ed era accompagnato da questo messaggio: «The leaked video of the late Tiziana, that is committed suicide after his video was released on the Internet. They have been removed. Until now! Enjoy the movie!». «Il video trapelato della defunta Tiziana, che si è suicidata dopo che il suo video è stato diffuso su Internet. Erano stati rimossi. Finora! Goditi il film!». Enjoy.

Estratto dell’articolo di Leandro Del Gaudio per “il Messaggero” il 16 febbraio 2023.

La panchetta ginnica, il foulard, la posizione della donna trovata morta. Sono questi i punti su cui il giudice ha deciso di vedere chiaro, con un provvedimento che riapre il caso legato alla morte di Tiziana Cantone, la giovane morta suicida dopo la diffusione sul web di alcuni suoi video hot. […] il giudice del Tribunale di Napoli Nord […] decide di accogliere la richiesta della difesa […] della madre di Tiziana, che si era opposta alla richiesta di archiviazione inoltrata mesi fa dalla Procura […] il giudice […] dispone novanta giorni per fare verifiche sulla «panchetta», vale a dire l'attrezzo ginnico rinvenuto all'interno dell'appartamento di Mugnano, al quale Tiziana venne trovata impiccata.

 Ma anche sul foulard usato a mo' di cappio. A leggere le conclusioni del giudice, c'è la volontà di andare a fondo, a partire dalla nomina di un perito che, «analizzando l'attrezzo ginnico, il foulard e la posizione in cui la Cantone è stata ritrovata, possa, mediante esperimento giudiziale, accertare la compatibilità dei reperti con un decesso per asfissia da impiccagione».

[…] potrebbe esserci anche un «esperimento giudiziale», per verificare la capacità della panchetta di reggere al peso di un corpo in contrazione. […] Siamo nel 2016, quando Tiziana Cantone si accorge che alcuni video privati sono stati trasmessi sui social. Finisce al centro di una sorta di gogna mediatica. La sua vita è distrutta […] È il 13 settembre del 2016, quando Tiziana viene trovata morta all'interno della tavernetta di Mugnano. Da allora, vengono avviati vari filoni investigativi che non riescono, però, a indicare il nome del responsabile della diffusione dolosa di video privati. Tre anni fa, una prima svolta investigativa, quando la Procura di Napoli nord decide di indagare per omicidio doloso, fino a riesumare il corpo di Tiziana.

[…] una consulenza […] ha evidenziato alcune criticità emerse in questi anni. Parliamo della «inidoneità del foulard e dell'attrezzo ginnico per suicidarsi, nonché l'anomala posizione in cui il corpo veniva rinvenuto (con gambe incrociate e piegate)», su cui oggi il giudice chiede chiarezza. Inevitabile, a questo punto, formulare alcune domande: la panchetta ginnica era fissata al pavimento? Il foulard era teso al massimo, come dovrebbe essere nel caso di una impiccagione?

 Un corpo che si contrae, anche se mosso da un istinto suicida, riesce a trascinare a terra una panca di appena un metro e mezzo di altezza? Una vicenda amara, che fa i conti con una serie di punti critici nella primissima fase delle indagini: la mancanza dell'autopsia, nonostante una chiara indicazione da parte del medico legale, che avrebbe potuto fare chiarezza sulla natura del solco rinvenuto (e fotografato) all'altezza del collo di Tiziana. Fatto sta che dopo sette anni dalla morte della 31enne, si torna al punto di partenza: Tiziana si è realmente uccisa, non reggendo psicologicamente la diffusione dei video online? O è stata uccisa da qualcuno che temeva di finire al centro delle sue denunce? […]

Tiziana Cantone, il giudice accoglie la richiesta della madre: disposte nuove indagini sulla panchetta e sul foulard. Elena Del Mastro su Il Riformista il 15 Febbraio 2023

Tiziana Cantone fu trovata morta nella sua casa a Mugnano, provincia di Napoli, il 13 settembre del 2016. Sin da subito si ipotizzò che la ragazza si fosse tolta la vita dopo la diffusione virale in rete di alcuni video intimi girati con il compagno e finiti in chat e sul web. Il gip del Tribunale di Napoli Nord, Raffaele Coppola ha chiesto ulteriori indagini, in particolare su una panca ginnica, per comprendere se poteva reggere il peso del corpo, e sul foulard, che non era in tensione massima. Il giudice ha accolto l’opposizione proposta dalla madre Maria Teresa Giglio contro la richiesta di archiviazione del procedimento nei confronti di ignoti per il reato di omicidio. Altri novanta giorni per riaprire l’inchiesta e fare luce sulla morte della ragazza.

Secondo quanto riportato dall’Agi, il giudice ha accolto l’opposizione alla richiesta di archiviazione, seguendo il ragionamento difensivo degli avvocati Luca Condro’, Stefano Marcialis ed Emiliano Iasevoli, che avevano posto l’attenzione su alcune anomalie emerse al termine delle indagini. Partendo appunto dalla posizione di Tiziana Cantone, in ginocchio e con le gambe incrociate, che, secondo la difesa, non è tipica di un suicida, e il fatto che il presunto cappio con il foulard era legato a una panchetta ginnica che non avrebbe retto alle oscillazioni provocate dal peso del corpo.

Quanto Tinizana fu trovata morta si pensò subito al suicidio collegando l’evento alla dolorosa diffusione diventata virale di video privati. Per questo motivo non fu effettuata l’autopsia. Ma la mamma non ha mai creduto a questa ipotesi e si è sempre battuta per conoscere la verità. La mamma ha sempre ritenuto che, come messo nero su bianco dal biologo forense Vincenzo Agostini, e riportato dall’Ansa, che il foulard non potesse aver ucciso per strangolamento Tiziana, e che la posizione del corpo rendeva impossibile il “penzolamento con conseguente asfissia”.

Per il Gip Coppola, “lo stato scheletrico del corpo, riesumato nel maggio 2021 a distanza di cinque anni dalla morte rende impossibile qualsivoglia valutazione sulle consulenze di pm e parte offesa”, ovvero sulle perizie medico-legali fatte sui resti della 31enne; mentre hanno valore le consulenze relative alla dinamica della morte, che hanno messo in dubbio l’ipotesi del suicidio, tanto che, scrive il Gip, “si può ipotizzare una metodica asfittica riconducibile a strangolamento al pari di un soffocamento da suicidio“. Determinante anche quanto fatto notare dai consulenti nominati dai tre avvocati di Teresa Giglio, ovvero i medici-legali Vittorio Fineschi e Aniello Maiese, secondo cui i consulenti della Procura avrebbero omesso di effettuare in sede di autopsia l’esame sulla cosiddetta “vitalità del solco”, che può dire se la morte è causata “da una meccanica di impiccamento o strangolamento”.

Dunque per il gip la tesi del suicidio non prevale su quella dell’omicidio, per cui la Procura deve effettuare “nuove indagini nel termine di 90 giorni e nominare un perito che, analizzando l’attrezzo ginnico, il foulard e la posizione in cui la Cantone è stata trovata, possa, mediante esperimento giudiziale, accertare la compatibilità di essi con un decesso per asfissia da impiccagione”. Per la mamma di Tiziana è una piccola buona notizia, una soddisfazione: “La giustizia non consiste nell’essere neutrali tra giusto e sbagliato, ma scoprire ciò che è giusto e sostenerlo, ovunque si trovi, contro ciò che è sbagliato e narrato falsamente. L’ho sempre detto e lo ripeto: a Dio l’ultima parola. Solo Lui sa qual è la vera verità”, ha scritto su Facebook nell’annunciare il prosieguo delle indagini.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto dell’articolo di Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 10 marzo 2023.

Una donna italiana di 32 anni è stata trovata impiccata lo scorso 22 gennaio nella cella in cui era rinchiusa da appena un giorno all’interno del carcere Fleury-Mérogis di Parigi. E questa è per il momento l’unica certezza che si ha sulla sorte di Gilda Ammendola, appartenente a una famiglia di imprenditori di Portici, in provincia di Napoli, e madre di una bambina di sette anni.

 In realtà le autorità francesi dubbi non ne hanno: ritengono che la donna si sia uccisa e che l’autopsia eseguita a Parigi nelle scorse settimane abbia fornito tutte le possibili conferme a questa tesi. Diversa è invece l’opinione dei familiari di Gilda e del legale al quale si sono rivolti, l’avvocato Domenico Scarpone.

Scartano completamente l’ipotesi del suicidio e sperano che alle stesse conclusioni arrivi l’inchiesta aperta dalla Procura di Roma, competente per le indagini su presunti reati commessi nei confronti di italiani all’estero.

 Il pubblico ministero al quale è stata affidata, Eugenio Albamonte, ha aperto un fascicolo contro ignoti per induzione al suicidio e ha disposto una nuova autopsia. «E questa volta — dice l’avvocato degli Ammendola — parteciperà anche un nostro perito, cosa che invece è stata assolutamente impossibile quando l’esame medico-legale è stato eseguito in Francia».

I parenti di Gilda non credono che la donna si sia uccisa perché proprio il 22 gennaio scorso, quando poi in cella fu trovato il corpo ormai senza vita, ricevettero una telefonata da un funzionario del carcere che li invitava a spedire alla Ammendola un pacco con vestiario, biancheria e altri effetti personali chiesti espressamente da lei.

 […] Ciò che non trapela né dall’avvocato Scarpone né dai familiari, è perché e da chi Gilda Ammendola potrebbe essere stata uccisa. Anzi, il legale e la famiglia non forniscono nemmeno elementi utili a capire per quale motivo la donna fosse in carcere a Parigi. Né confermano le notizie che rimbalzano dalla capitale francese secondo le quali la donna sarebbe stata arrestata lo scorso luglio in aeroporto perché trovata in possesso di droga.

Accusata di traffico di stupefacenti, aveva ottenuto rapidamente la scarcerazione, restando però in libertà vigilata a disposizione delle autorità transalpine. Nei mesi successivi non ha quindi mai potuto lasciare Parigi, e quando il processo nei suoi confronti è arrivato a conclusione — evidentemente con una condanna — è stata nuovamente arrestata e trasferita a Fleury-Mérogis per scontare la pena. Questo accadeva il 21 gennaio. […]

Jolanda, la escort uccisa, e la supplica della sorella: «Se il killer è Zenatti, sua moglie dica dove è sepolta». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2023.

Mantova, Jolanda Holgun Garcia fu assassinata nel 2003, pochi mesi dopo strangolata un'altra prostituta. Per Enrico Zenatti la Procura ha chiesto l’ergastolo. I familiari chiedono la verità

ROVERBELLA (Mantova). Johanna Holgun Garcia lavora come avvocato negli Stati Uniti. Ma qui parla come sorella: sorella di Jolanda, che si prostituiva in casa e che fu assassinata nel 2003; cadavere mai ritrovato, forse sepolto proprio nelle estese campagne mantovane. Attraverso il Corriere, e insieme al fratello Guillermo, Johanna invia un messaggio a un’altra donna: Mara Savoia, la moglie di Enrico Zenatti, il quale per il delitto, e anche per il successivo omicidio del 2004 di una seconda prostituta, Luciana Lino de Jesus, aveva trascorso tre anni in carcere prima dell’assoluzione in Corte d’Assise, salutata in paese dal prete con le campane a festa e con un pellegrinaggio a casa dell’uomo appena tornato libero: abbracci, pianti, salumi, bottiglie di vino a celebrare il momento.

Gli Holgun Garcia, originari di Cali, in Colombia, poggiano sulla coscienza di Mara, sui suoi rimorsi nel caso in cui sappia di un corpo privo di funerali e degna sepoltura; Maria aveva sì difeso il marito anche fornendo alibi falsi in occasione dei due delitti, ma dopo l’uccisione nel dicembre 2021 della propria mamma (l’imputato è di nuovo Zenatti, la Procura ha chiesto l’ergastolo) ha rivoluzionato l’esistenza. Non più silenziosa ma decisa sostenitrice del marito a costo di conseguenze penali, bensì la scelta, non senza fatica e d’accordo con i due figli, forse anzi da essi spronata, di costituirsi parte civile nel processo per l’assassinio della madre. Al netto della verità giudiziaria sugli omicidi di Jolanda e Luciana, di 38 e 29 anni — una verità che rende inutili le sicurezze dei poliziotti allora impegnati nella caccia a Zenatti, per loro l’unico colpevole —, per meglio comprendere dobbiamo tornare indietro.

Il 55enne Enrico Zenatti è stato sempre impiegato nel negozio di ortofrutta della moglie, erede di una ricca e potente famiglia di proprietari terrieri. La stessa mamma, ai cronisti in cerca di informazioni aveva confessato di come il suo Enrico fosse un notorio frequentatore di escort. Infatti di lui, negli ultimi giorni prima di scomparire, aveva parlato Jolanda nelle telefonate con la sorella (gli Holgun Garcia sono difesi dai legali Maurizio Milan e Mirko Zambaldo, mai domi nonostante l’enorme distanza temporale); nelle conversazioni, la escort, che come Lina, nata in Brasile, riceveva in piccoli appartamenti a Verona, aveva ammesso le paure per certi strani atteggiamenti, ossessivi e violenti, di un uomo assidua presenza nel suo bilocale. Ovvero Zenatti.

Gli investigatori ne avevano cristallizzato la presenza costante nella quotidianità delle prostitute, di giorno e di sera, non escludendo ulteriori escort vittime freddate e rimaste ignote; avevano evidenziato l’improvvisa interruzione nelle numerose telefonate a Jolanda e Lina in contemporanea con i loro decessi; avevano interrogato una terza prostituta che aveva confermato di conoscere Zenatti il quale, nei giorni successivi allo strangolamento di Lina, aveva cominciato vagare per il Nord Italia pieno di banconote, servendosi unicamente dei taxi per spostarsi da una città all’altra. A tradirlo, era stata una telefonata a casa che aveva permesso di localizzarlo.

Ora, il messaggio della sorella e del fratello di Jolanda appare più come una preghiera, una supplica; gli Holgun Garcia hanno la certezza che persone a contatto con Zenatti siano a conoscenza quantomeno di elementi utili; non escludono che a Roverbella possiedano informazioni anche soggetti esterni alla famiglia, magari in ambito religioso dati i forti legami esistenti, o magari nei clienti del negozio di ortofrutta e nei centri all’ingrosso tra Mantova e Verona dove Zenatti andava per acquistare prodotti da rivendere, così tenendosi un pretesto per raggiungere le prostitute. Insomma Johanna e Guillermo, che abita in Colombia, sperano nella segnalazione di un anonimo.

Il Corriere ha dialogato con i poliziotti che videro il corpo straziato di Lina e invano vagarono alla ricerca dei resti di Jolanda: quegli omicidi, irrisolti con la scarcerazione di Zenatti e l’assenza di altri imputati, sono dei fantasmi che compariranno in eterno, ed è per questo che più d’uno ancora vorrebbe ri-approfondire i casi. L’assai cattolica Johanna si appella però dapprima con insistenza, seguendo un moto dell’animo, all’altrettanto profonda cattolica Mara Savoia: «Non viva più nel devastante tormento di un cadavere in balìa degli animali. Lo faccia per sé, per i figli, per Jolanda, per tutte le donne assassinate. Lo faccia».

"Chi ha ucciso Pozzi?". Il giallo di Affori, tra piste non battute e accuse alla figlia. È andato avanti per anni il procedimento giudiziario a carico di Simona Pozzi, accusata del delitto del padre, il commerciante di scarpe Maurizio Pozzi. Al processo è stata scagionata dall'accusa di omicidio volontario e la procura non ha fatto ricorso. La donna è stata prosciolta (per intervenuta prescrizione) anche dall'accusa di averne ordinato il pestaggio. E oggi l'avvocato di Pozzi si chiede: "Perché non hanno cercato altri colpevoli?" Angela Leucci il 9 Marzo 2023 su Il Giornale.

Un giallo senza colpevoli. Maurizio Pozzi venne trovato cadavere il 5 febbraio 2016 all’interno del suo appartamento ad Affori, il quartiere milanese. Inizialmente si ipotizzò un malore, ma poi l’autopsia rilevò che l’uomo, 69enne commerciante di scarpe, era stato colpito 8 volte con un corpo contundente alla testa, forse un martello.

Per questo crimine fu indagata e poi rinviata a giudizio la figlia Simona Pozzi. Il movente, secondo gli inquirenti, era economico: nei conti di famiglia c’era un ammanco di 750mila euro. Ma gli avvocati di parte hanno sempre avversato quest’ipotesi. “Un movente insussistente”, lo liquida a IlGiornale.it l’avvocato della donna, Filippo Carimati. Simona andò a processo con rito abbreviato ma venne assolta.

Tuttavia su di lei pendeva, fino alla fine del 2022, un’altra accusa. Quella di essere stata, nel 2013, la mandante di un’aggressione subita dal padre a Piazzatorre, nell’Alta Val Brembana. La mano di quell’aggressione era stata trovata in Pasquale Tallarico, condannato per questo crimine, ma che a processo aveva puntato il dito contro Simona. Tallarico aveva affermato di essere stato assoldato al prezzo di 3mila euro, aggiungendo che Simona gli avrebbe chiesto del veleno, ma Tallarico le avrebbe consegnato solo acqua sporca, e che la donna somministrasse al padre dosi di tranquillanti. Simona Pozzi, inizialmente condannata a 4 anni di reclusione, poi è stata prosciolta in appello anche dalle accuse di lesioni, con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. In altre parole la donna non ha responsabilità non solo per l'omicidio, ma neppure per l'aggressione del 2013.

Avvocato Carimati, che idea vi siete fatti su quello che è accaduto a Maurizio Pozzi?

È una domanda che ovviamente ci siamo posti ripetutamente io e il mio collega, l’avvocato Franco Silva, che ha condiviso la difesa di Simona Pozzi. Non siamo stati in grado di dare una risposta”.

Vi siete fatti un’idea?

Abbiamo avuto l’impressione che le indagini si siano orientate a senso unico nei confronti di Simona Pozzi e che non abbiano invece valutato adeguatamente ipotesi alternative, che pure avevamo suggerito anche nella fase delle indegini preliminari. Gli inquirenti sono partiti da alcune intercettazioni telefoniche di malavitosi, intercettazioni che avrebbero trovato conferma nell’episodio di Piazzatorre: questo ha indirizzato definitivamente le indagini. La vicenda si è svolta in un contesto della zona di Affori e di alcuni soggetti malavitosi che sono soliti commettere reati d’altro genere anche ai danni delle attività commerciali”.

La sua assistita crede che si giungerà mai a una soluzione del giallo?

Anche lei non riesce a farsene una ragione. Dice: mio padre, che io sappia, non aveva nemici. Però, a dire il vero, abbiamo rilevato alcuni atteggiamenti insoliti di Maurizio Pozzi: a volte usciva dal negozio per rientrare a casa, ma ci metteva più tempo del necessario. Cosa facesse in quel tempo non è mai stato indagato fino in fondo”.

Avete chiesto agli inquirenti?

Abbiamo sempre sollecitato indagini in tal senso, anche per capire quali fossero le conoscenze e le frequentazioni dell’uomo, che sembrava essere un solitario, ma in realtà nella sua vita aveva avuto tanti interessi e intratteneva relazioni. Per esempio era stato dirigente di una società sportiva, non era un solitario”.

Naturalmente puntavate all’assoluzione, cosa che è avvenuta per l’omicidio. Per le lesioni è intervenuta la prescrizione. Non crede che, in generale, l’istituto della prescrizione possa rappresentare una “macchia” per coloro che, come la sua assistita, professano la propria innocenza?

Quando c’è una sentenza definitiva, non si può dire che la persona che ha beneficiato del termine prescrizionale sia colpevole. Si tratta di una scelta tecnica, processuale, cui non si può rinunciare, soprattutto in presenza di elementi che a nostro avviso non sono stati valutati correttamente. Poi nel caso di specie va ricordato che per i fatti di Piazzatorre del 2013 il pubblico ministero aveva chiesto la condanna di Simona per tentato omicidio mentre il tribunale, dopo aver derubricato il reato, l'ha ritenuta colpevole per lesioni gravi. Quindi, prescrizione a parte, la decisione che è stata impugnata solo dalla difesa, ha smentito la tesi accusatoria”.

Giallo nella casa di Affori: per l'autopsia è un omicidio

Quali sentimenti hanno attraversato la sua assistita, in lutto e al tempo stesso accusata di un delitto?

Gli stati d’animo di Simona Pozzi sono stati vari. Lei ha un carattere molto forte e tende a controllare le emozioni. Le è stato contestato di essere la mandante dell'omicidio del padre, un'accusa durissima. Ha passato momenti davvero difficili per la perdita e perché è stato messo in dubbio il rapporto che aveva col padre. Simona Pozzi e il padre avevano rapporti molto stretti, non ci sono stati dissidi significativi tra loro. Pranzavano ogni giorno assieme, portavano a spasso il cane, passeggiavano, lui seguiva la nipotina. Per Simona Pozzi è stata una prova difficile”.

Avete sempre sostenuto che l’ipotesi di reato poggiava su un movente sbagliato: Simona Pozzi non avrebbe ricevuto nessun beneficio economico dalla morte del padre. Può dirci di più?

Il movente economico l’abbiamo sempre contestato, perché non aveva nessun significato. Che nel corso degli anni ci siano stati investimenti sbagliati da parte di Simona Pozzi è vero, tuttavia quelle somme non erano andate altrove come qualcuno aveva ipotizzato. Gioco d’azzardo e stupefacenti non sono mai stati dimostrati, anzi è stato accertato il contrario. Il movente economico si è rivelato insussistente”.

Perché c’era un ammanco allora?

Da un’analisi dei conti correnti sulle spese sostenute, i soldi, provenienti da conti cointestati di cui Simona aveva la disponibilità, sono sti spesi nella gestione del negozio che registrava perdite in un momento difficile per tutti gli esercizi commerciali di quartiere. Poi le spese per la famiglia, anzi per le famiglie di Simona e dei genitori nel corso degli ultimi anni. Si può gestire male un negozio ma questo non basta a sostenere il movente dell'omicidio. Poi è inverosimile che Maurizio Pozzi non ne fosse a conoscenza di tale situazione, perché era molto attento e presente in negozio”.

Dopo tante vicissitudini giudiziarie, chi è e cosa fa oggi Simona Pozzi?

Simona Pozzi continua a gestire il suo negozio, si sta impegnando molto in questa attività. Ha introdotto una nuova categoria merceologica, quella dell'abbigliamento. E per quanto ne so le cose stiano funzionando”.

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” l’11 gennaio 2023.

Soldi. Un milione di euro. Dietro la morte dell'attore Paolo Calissano («Palermo Milano solo andata»; «La dottoressa Giò»; «Cucciolo»; «Vivere» e molti altri) una lenta spoliazione del suo patrimonio per mano di un amico, il suo fiduciario, l'avvocato civilista della Genova bene Matteo Minna.

 Un destino, quello dell'attore di soap e film d'azione, condiviso da altre quattro persone, se si considera che la Procura di Genova indaga su cinque casi in tutto, ciascuno dei quali scaturirebbe dal reato di circonvenzione d'incapace. Paolo Calissano (ma anche le altre, presunte vittime) si sarebbero trovate in una posizione di assoluta debolezza rispetto a Minna, tutore, legale, amico affezionato dell'attore così come degli altri. Da quanto è stato possibile ricostruire, in seguito alla notifica di una proroga d'indagine da parte dei pm genovesi, l'avvocato avrebbe effettuato una lunga serie di prelievi sul conto corrente dell'attore, documentata ora dai finanzieri di Genova per la Procura. Comportamenti seriali dunque.

Ora la precisazione, necessaria per comprendere meglio il contesto nel quale avrebbe agito Minna, riguarda il passato di Calissano che, nel 2005, era incappato in una condanna con patteggiamento a 4 anni per cessione di sostanze stupefacenti nei confronti della ballerina Ana Lucia Bandeira Bezerra, morta in seguito a overdose di cocaina nel suo appartamento. La fragilità dell'uomo esplode in quel periodo solitario e complicato. In quella fase, la famiglia dell'attore decide di rivolgersi all'amico civilista Minna, subito investito dell'autorità di amministratore di sostegno del patrimonio. I guai cominciano in seguito.

Al punto che, poco prima della sua morte, avvenuta a Roma dove Paolo era costantemente impegnato in un dialogo (non sempre costruttivo) con le case di produzione alla ricerca di nuovi soggetti interessanti, il 29 dicembre 2021, il suo capitale si era assottigliato di circa un milione di euro. Motivo scatenante per indurre a un gesto definitivo?

 Di certo si sa che Paolo non è morto per droga. Lo ha rivelato in un'intervista al Corriere il fratello Roberto Calissano, imprenditore genovese che, assistito dall'avvocato penalista Santina Ierardi, ha fatto luce su quanto accaduto: «Il pm (romano, ndr ) che ha indagato per undici mesi sulla sua morte aveva disposto un esame tossicologico molto approfondito. La conclusione è stata che mio fratello non è morto a causa di stupefacenti, ma per un'intossicazione da farmaci antidepressivi». Suicidio con ogni probabilità, anche se la parola, al confronto con la vitalità di cui era portatore Paolo, appare inaccettabile per i familiari.

Ora l'inchiesta genovese, anticipata martedì sulle pagine de Il Secolo XIX è arrivata a una svolta. Minna, assistito dai suoi difensori Maurizio Mascia ed Enrico Scopesi, sarà ascoltato a breve dai magistrati. Nell'inchiesta è ipotizzato anche il reato di peculato. Sulla vicenda interviene Roberto Calissano che, assieme a Ierardi, dice: «Siamo turbati dalla fuga di notizie deflagrata mentre la Procura genovese stava effettuando la propria ricognizione. Ma ora ci aspettiamo che il lavoro svolto porti, il prima possibile, a informazioni certe. Ci auguriamo di raggiungere la verità sulla morte di Paolo».

L’ex tutore di Paolo Calissano indagato per peculato e circonvenzione di incapace. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Gennaio 2023.

I familiari dell'attore hanno presentato un esposto contro l'avvocato Matteo Minna: "Spariti 70mila euro". Secondo altre fonti la cifra scomparsa si aggirerebbe attorno al milione di euro

L’avvocato Matteo Minna, come anticipato dal quotidiano “Il Secolo XIX”, secondo gli inquirenti avrebbe prelevato illegittimamente circa 70mila euro dai conti bancari dell’artista. Secondo altre fonti la cifra sarebbe molto più cospicua e i prelievi arriverebbero in totale vicini al milione di euro. Sono stati i familiari di Paolo Calissano ad accorgersi degli ammanchi, e presentare un primo esposto, in cui si ipotizzava il peculato. Lo scorso dicembre, quando la procura di Roma ha chiuso le indagini sulla morte, ha integrato la denuncia ipotizzando anche la “circonvenzione d’incapace”. Il fascicolo è in mano al pubblico ministero genovese Francesco Cardona Albini e all’aggiunto Vittorio Ranieri Miniati.

Sarebbe circa un milione la somma sparita dai conti di Paolo Calissano e su cui si concentrano le indagini dei militari del nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza. Soldi che l’attore avrebbe guadagnato attraverso la partecipazione a diverse società. Una di queste è stata la Autopark V maggio srl, poi liquidata. “È una fase delicata delle indagini – spiega l’avvocato Santina Ierardi che assiste i familiari dell’attore – e non commentiamo nulla”. Tra le operazioni al vaglio degli inquirenti ci sono una decina di bonifici partiti nel corso del 2019 da un conto intestato a Paolo Calissano e destinati a Minna, per spese e finanziamenti della Autopark. Ma a fronte di questi bonifici nella contabilità della società risulterebbero stanziamenti molto inferiori provenienti da Calissano.

Per chi accusa Minna, le cifre sono troppo alte e in generale il contesto in cui sono state versate le somme è quello di un rapporto sempre più stretto fra Calissano e il suo amministratore avv. Matteo MInna. Lo stesso legale, ha ricordato al Secolo XIX  come il suo rapporto con Calissano sia durato cinque lustri e che “rispetto a qualsiasi accusa mi difenderò nelle sede opportune”. Redazione CdG 1947

Alessandro Fulloni per corriere.it il 10 Gennaio 2023.

Un patrimonio che si sarebbe progressivamente assottigliato. Una serie di prelievi sospetti di danaro dai conti correnti. E l’ipotesi della circonvenzione d’incapace. La Guardia di finanza di Genova indaga da alcune settimane sulla gestione del patrimonio di Paolo Calissano, l’attore genovese la cui carriera si concluse a Roma il 30 dicembre 2021, quando fu trovato morto nel suo appartamento alla Balduina all’età di 54 anni. Ucciso, secondo gli inquirenti capitolini, da un’intossicazione da farmaci antidepressivi.

Ma proprio negli anni che hanno preceduto la morte — racconta il Secolo XIX nell’edizione odierna —, stando all’oggetto degli accertamenti degli investigatori, il patrimonio dell’attore si sarebbe progressivamente assottigliato. Per questo al centro delle verifiche vi sarebbe la gestione delle finanze dell’attore (La dottoressa Giò, General Hospital, Vivere, per citare alcune sue fiction ma anche Palermo Milano solo andata e Cucciolo tra i film interpretati durante la sua carriera) da parte dell’amministrazione di sostegno, disposta dal tribunale di Genova nel 2006. Secondo il quotidiano genovese l’ipotesi di reato su cui indagano le Fiamme Gialle, attraverso l’analisi di una serie di documenti già acquisiti, è quella di circonvenzione di incapace.

A dare il via alle verifiche degli inquirenti è stata una denuncia presentata in Procura dai familiari di Calissano. Nell’esposto si parla di chi, per 13 anni, ha ricoperto il ruolo di amministratore di sostegno dell’attore, l’avvocato Matteo Minna, ora assistito dai colleghi Maurizio Mascia ed Enrico Scopesi. «Per 15 anni sono stato anche il legale di Paolo Calissano — ha detto proprio Minna, contattato dal Secolo, senza entrare nel merito delle accuse -. Se i parenti hanno mosso delle contestazioni nei miei confronti, replicherò a queste nelle sedi opportune». Quanto al legale che affianca la famiglia Calissano, Santina Ierardi, non ha rilasciato dichiarazioni.

 Quella di Calissano è stata una carriera sempre in bilico tra talento, lampi di popolarità e fortuna e poi quella caduta in una fatto di droga, quando — il 25 settembre del 2005 — nella sua abitazione a Genova Ana Lucia Bandeira Bezerra, cittadina brasiliana di 31 anni, ballerina, stroncata da un’overdose di cocaina. Un errore regolarmente pagato patteggiando quattro anni e con un lungo periodo in comunità. Quanto alla morte, giorni fa l’inchiesta lunga e complicata della Procura di Roma si è chiusa con una richiesta di archiviazione.

Al Corriere, Roberto Calissano, fratello di Paolo, imprenditore, assistito proprio dalla penalista genovese Santina Ierardi, aveva detto di voler «liberare la memoria di Paolo dallo stigma della tossicodipendenza». Il pm che ha indagato per undici mesi sulla sua morte «aveva disposto un esame tossicologico molto approfondito. La conclusione è stata che mio fratello non è morto a causa di stupefacenti, ma per un’intossicazione da farmaci antidepressivi». Sempre al Corriere, Roberto aveva anche parlato di «indagini aperte presso altre Procure» e ora, appunto, si apprende di quella avviata a Genova. Filtra pochissimo dall’inchiesta condotta dal nucleo di polizia economico finanziaria e coordinati dal sostituto procuratore Francesco Cardona Albini.

Gli accertamenti si starebbero concentrando, secondo quanto raccontato dal Secolo, sul ruolo dell’attore all’interno di un paio di società. Una di queste è la Autopark V maggio srl, finita con una liquidazione. Al vaglio una decina di bonifici partiti nel corso del 2019 da un conto intestato a Calissano. E destinati, come riportato nelle causali, a Minna, per spese e finanziamenti della Autopark. Un totale di circa 70 mila euro. «Altri ne seguiranno. Ma, a fronte di questi emolumenti — si legge nell’accurato resoconto dei cronisti genovesi Marco Fagandini e Tommaso Fregatti— nella contabilità della società risulterebbero stanziamenti molto inferiori provenienti da Calissano» sempre più legato all’amministratore di sostegno — sarebbe l’elemento contenuto nella denuncia — al punto da allontanarsi dai suoi affetti. Ma per i parenti lo scenario sarebbe unicamente questo: appunto, quello della circonvenzione d’incapace.

«Paolo Calissano si è suicidato, la droga non c’entra»: parla il fratello Roberto. Storia di Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 27 dicembre 2022.

Brevi lampi di fortuna e più di uno squarcio di autentico talento: la vita dell’attore Paolo Calissano (La dottoressa Giò, General Hospital, Vivere, per citare alcune sue fiction ma anche Palermo Milano solo andata e Cucciolo tra i film interpretati durante la sua carriera) si conclude a Roma il 30 dicembre 2021, quando viene trovato morto nel suo appartamento alla Balduina. Dal suo curriculum riaffiorano storie giudiziarie risalenti ai primi anni Duemila, come la morte per droga dell’amica Ana Lucia Bandeira Bezzerra nel suo appartamento di Genova. Un errore regolarmente pagato con un lungo periodo in comunità, ma divenuto una macchia in un ambiente, quello dello spettacolo, poco incline a tolleranza e comprensione. Ma allora la morte di Calissano fu un dramma della solitudine? Un’inchiesta lunga e complicata della Procura di Roma, che oggi si chiude con una richiesta di archiviazione, raggiunge verità (parzialmente) consolatorie. A parlarne è Roberto Calissano, 54enne fratello di Paolo, imprenditore, affiancato dal suo avvocato, la penalista genovese Santina Ierardi: «Vorrei liberare la memoria di Paolo dallo stigma della tossicodipendenza», dice per prima cosa.

In che modo?

«Il pm che ha indagato per undici mesi sulla sua morte aveva disposto un esame tossicologico molto approfondito. La conclusione è stata che mio fratello non è morto a causa di stupefacenti, ma per un’intossicazione da farmaci antidepressivi».

Questo ci porta ad altre considerazioni...

«Quella sera Paolo accettò il rischio di morire, molto probabilmente».

Paolo Calissano è morto suicida?

«Mai avrei pensato di dirlo, ma credo sia andata così. È molto doloroso per me ammetterlo».

Si spiega per quale ragione un’indagine per omicidio colposo non ha raggiunto alcun punto fermo ed è avviata verso l’archiviazione. E se si fosse ipotizzata l’istigazione al suicidio?

«Quell’indagine ha fatto un pezzo di strada. Nel frattempo ne sono state aperte altre presso altre Procure. Ma, certo, se si fosse indagato sulle diverse possibili motivazioni relative alla morte e sul suo stato d’animo, forse, si sarebbe sciolto questo enigma».

Che ipotesi di reato hanno formulato gli altri pm?

«Ci siamo impegnati a non rivelarlo prima della conclusione, ma basti sapere che sono state ricostruite le difficoltà patrimoniali di Paolo».

Il corpo fu trovato dalla sua ex compagna Fabiola Palese, un’imprenditrice di Roma

.«Fabiola fa parte dei nostri affetti, il suo dolore è stato fortissimo. Allora si disse perfino che Paolo fu ritrovato in stato di decomposizione. Oggi l’indagine ha chiarito che in realtà era morto da poco, nella notte fra il 29 e il 30 dicembre. L’abbandono è stata una fantasia di alcuni media».

Paolo lavorava in quel periodo?

«Non riusciva a lavorare. Aveva scritto tre sceneggiature. Le ho lette. Sono molto belle. Una era autobiografica, raccontava una storia in una comunità, La foresta dei pini d’argento. Mio fratello era capace, appassionato...».

I suoi limiti?

«L’ingenuità, un eccesso di fiducia nel prossimo. Forse anche un po’ di permalosità».

Ricorda l’ultima volta che lo ha sentito?

«Il 19 dicembre. Era giù. Non gli feci abbastanza domande, forse. Tutto rimase nella sfera del non detto».

Non poteva sapere. Fra i suoi crucci qual era il più ricorrente?

«Aspirava al diritto all’oblio. Invece i motori di ricerca continuavano a risputare fuori quell’episodio legato al consumo di stupefacenti. Non riusciva a liberarsene. Lavorare era diventato impossibile. Perciò almeno oggi, dopo la sua morte, vorrei che fosse fatta un’operazione verità nei suoi confronti».

(ANSA il 14 marzo 2023) Fu vittima di una vendetta, Michele Coscia, ucciso il 9 luglio del 2006 a Napoli durante i festeggiamenti per la vittoria dell'Italia ai mondiali, solo per avere involontariamente colpito il fratellino dei suoi assassini con la bandiera che stava sventolando. A fare luce sulla vicenda sono stati i carabinieri della Compagnia Vomero, coordinati dalla Procura di Napoli, che oggi hanno notificato due arresti ai fratelli Luigi e Nicola Torino, 45 e 43 anni, il secondo già detenuto, entrambi figli del capo dell'omonimo clan ritenuto dalla DDA legato alla famiglia malavitosa dei Lo Russo.

I due fratelli rintracciarono Coscia e lo uccisero malgrado la presenza di molte altre persone, due delle quali rimasero anche accidentalmente ferite. Determinanti per fare luce sulla vicenda sono state le dichiarazioni di un testimone oculare, che era in compagnia della vittima: l'uomo disse che il ragazzino venne colpito mentre era seduto su uno scooter, davanti a un bar di corso Chiaiano. Il ragazzino reagì insultando Coscia il quale colpì il parabrezza del motociclo, rompendolo.

 L'amico di Coscia offrì anche un risarcimento da 100 euro, ma il ragazzino rifiutò i soldi. Dopo un breve passaggio a casa l'amico di Coscia tornò davanti al bar dove vide il ragazzino indicare a delle persone che erano insieme con lui su tre scooter colui che l'aveva colpito e rotto il parabrezza dello scooter: una di queste, poi identificata, cominciò a sparare diversi colpi di pistola contro Coscia, ferendo alle gambe un altro amico della vittima e una ragazza. Dall'autopsia emerse che la Coscia era stato raggiunto da ben sette proiettili.

Anticipazione dalle “Iene” il 13 marzo 2023.

Domani, martedì 14 marzo, in prima serata, su Italia 1, a “Le Iene” l’intervista al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni sul caso di cronaca avvenuto il 2 luglio 1983, noto come il “massacro di Ponticelli”.

 La trasmissione “Le Iene presentano: Inside” ieri sera ha dedicato un’intera puntata all’inchiesta di Giulio Golia e Francesca Di Stefano dal titolo “Mostri o Innocenti?”, in cui sono state ripercorse le tappe della vicenda. A seguire alcuni stralci dell’intervista alla Premier Meloni, che andrà in onda integralmente domani.

“Mi ha ufficialmente convinto ad occuparmene.  – Ha dichiarato la Premier Meloni alle telecamere de Le Iene - Fermo restando che le sentenze si rispettano e che abbiamo rispetto per la Magistratura. Mi ha colpito il caso, mi hanno colpito loro e mi colpisce il fatto che, semmai fosse così, c’è un altro colpevole. In uno Stato giusto se hai degli elementi oggettivi affronti eventuali errori. È possibile che magari esca fuori qualcosa che prima non c’era.”

 Giulio Golia le ha inoltre consegnato una chiavetta Usb con il video della puntata speciale trasmessa ieri: “Grazie, me lo studio e vedo cosa si può fare.”, ha risposto la Premier.

I fatti: Quaranta anni fa Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, due bambine di 7 e 10 anni, furono violentate, torturate, uccise, e infine date alle fiamme. Un delitto efferato e brutale, che sconvolse non solo Napoli ma l’Italia intera, e che, dopo due mesi di indagini e tre anni di processi, condannò all’ergastolo Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo. I tre, appena maggiorenni all’epoca dei fatti, sostennero dal primo momento di essere innocenti.

Oggi, dopo aver scontato la pena, continuano a dichiararsi vittime di quello che potrebbe essere uno dei più clamorosi errori giudiziari del nostro paese. Un caso questo che ha attirato anche l’attenzione della Commissione Parlamentare Antimafia che ha, di recente, sollevato parecchi dubbi sulle indagini svolte che l’hanno portata a valutare una possibile revisione del processo di condanna. Secondo l’analisi della Commissione, infatti, sulla vicenda potrebbe essere calata l’ombra della criminalità organizzata.

(ANSA il 12 marzo 2023) - Torna su Italia 1, domenica 12 marzo in prime time, "Inside" con l'inchiesta delle Iene Giulio Golia e Francesca Di Stefano dal titolo "Mostri o Innocenti?", interamente dedicata alla vicenda di cronaca avvenuta il 2 luglio 1983, nota come il "massacro di Ponticelli".

 Quaranta anni fa Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, due bambine di 7 e 10 anni, furono violentate, torturate, uccise, e infine date alle fiamme.

 Un delitto efferato e brutale, che sconvolse non solo Napoli ma l'Italia intera, e che, dopo due mesi di indagini e tre anni di processi, condannò all'ergastolo Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo.

I tre, appena maggiorenni all'epoca dei fatti, sostennero dal primo momento di essere innocenti. Oggi, dopo aver scontato la pena, continuano a dichiararsi vittime di quello che potrebbe essere uno dei più clamorosi errori giudiziari del nostro paese.

 Il caso, ricordano le Iene, ha attirato anche l'attenzione della Commissione Parlamentare Antimafia che ha, di recente, sollevato parecchi dubbi sulle indagini svolte che l'hanno portata a valutare una possibile revisione del processo di condanna.

Secondo l'analisi della Commissione, infatti, sulla vicenda potrebbe essere calata l'ombra della criminalità organizzata. L'inchiesta delle Iene annuncia contenuti esclusivi fatti di "nuove testimonianze che sembrano ribaltare la narrazione fatta fino a questo momento, interviste a testimoni, inquirenti e documenti inediti in cui la trasmissione è entrata in possesso".

Le Iene News l’11 marzo 2023. Massacro di Ponticelli: mostri o innocenti? Stasera dalle 20.30 su Italia1 torna "Le Iene presentano Inside"

Stasera dalle 20.30 su Italia1 torna "Le Iene presentano Inside". Il primo appuntamento è con l'inchiesta di Giulio Golia e Francesca Di Stefano sul massacro di Ponticelli e sul caso di Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo. Condannati per la storia terribile di due bambine seviziate, violentate e uccise nel 1983 a Napoli, potrebbero essere vittime di uno dei più clamorosi errori giudiziari della storia italiana

Stasera dalle 20.30 su Italia1 torna “Le Iene presentano Inside” con l’inchiesta di Giulio Golia e Francesca Di Stefano dal titolo “Mostri o Innocenti?”, interamente dedicata alla vicenda di cronaca avvenuta il 2 luglio 1983, nota come il “massacro di Ponticelli”.

Quaranta anni fa Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, due bambine di 7 e 10 anni, furono seviziate e uccise, e infine date alle fiamme. Un delitto efferato e brutale, che sconvolse non solo Napoli ma l’Italia intera e che, dopo due mesi di indagini e tre anni di processi, vide condannati all’ergastolo Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo. I tre, appena maggiorenni all’epoca dei fatti, sostennero dal primo momento di essere innocenti. Oggi, dopo aver scontato la pena, continuano a dichiararsi vittime di quello che potrebbe essere uno dei più clamorosi errori giudiziari del nostro paese. Si tratta di un caso questo che ha attirato anche l’attenzione della Commissione parlamentare Antimafia che ha di recente sollevato parecchi dubbi sulle indagini svolte. Si è parlato anche di una possibile revisione del processo. Secondo l’analisi della Commissione, infatti, sulla vicenda potrebbe essere calata l’ombra della criminalità organizzata.

Con contenuti esclusivi fatti di nuove testimonianze che sembrano ribaltare la narrazione fatta fino a questo momento, interviste a testimoni, inquirenti e documenti inediti di cui la trasmissione è entrata in possesso, Giulio Golia e Francesca Di Stefano ripercorrono le tappe di quanto accaduto alla luce delle tante domande che non trovano ancora risposta. Dalle denunce dei tre imputati nei confronti delle forze dell’ordine all’arresto di alcuni testimoni sentiti a pochi giorni dal duplice omicidio, fino alle eventuali piste alternative che all’epoca dei fatti potrebbero essere state sottovalutate.

Il massacro di Ponticelli, 40 anni fa l'omicidio di Barbara e Nunzia (7 e 10 anni): trovate carbonizzate e abbracciate. Vincenzo Esposito su Il Corriere della Sera il 12 marzo 2023

Una storia che non ha mai fine: le piccole vittime, i tre ragazzi, condannati, che si sono sempre dichiarati innocenti, i dubbi sulle indagini. E ora anche l'Antimafia chiede di riaprire il caso

Nunzia Munizzi, 10 anni, e Barbara Sellini, 7 anni

La puzza di bruciato arriva da un canalone nascosto in un sottopasso. Sopra una strada mai terminata che il clan usa per le corse clandestine dei cavalli. Sotto una discarica a cielo aperto che di tanto in tanto viene incendiata. I fumi tossici inondano i casermoni popolari e la gente chiude finestre e balconi nonostante il caldo asfissiante. Rione Incis di Ponticelli, un inferno nell'ex quartiere operaio alla periferia est di Napoli.  Quella notte però la puzza è diversa, bisogna andare a vedere. Dalla sera precedente ronde fatte di ragazzi e abitanti del rione cercano  due bambine, sparite nel nulla, Barbara Sellini, 7 anni, e Nunzia Munizzi di 10.  I ragazzi seguono l'odore acre e il fumo e si ritrovano davanti a una scena da vomito: quel che resta delle piccole è lì tra sterpaglie e rifiuti. Una nuvola di mosche a coprirle. Nessuno si avvicina ai corpi carbonizzati. Avvertono i più grandi che chiamano i carabinieri. Nel caldo umido  del 3 luglio del 1983, ha inizio una storia che a distanza di quaranta anni è avvolta dal mistero e dove ancora non si sa chi siano i buoni e chi i cattivi.

L'autopsia: opera di un sadico

Le due bimbe erano abbracciate, come se avessero voluto darsi forza l'una con l'altra nel momento della morte. Ma l'apparenza inganna. Chi le ha uccise le ha torturate a lungo e poi ha ricomposto i corpi in un triste abbraccio prima di cospargerli di benzina e darli alle fiamme. La perizia medico legale  stabilisce che le piccole  erano state ferite più volte con un coltello a serramanico, e che una delle due, Nunzia, aveva subito violenza sessuale. A compiere l'atroce delitto secondo il medico sarebbe stata una sola persona che ha poi deciso di eliminare due testimoni scomodi con un "colpo di grazia". Al cuore per Nunzia, al polmone per Barbara che forse è rimasta agonizzante per lunghi minuti. Il quartiere è sotto choc, la caccia al colpevole è anche "privata" ma nessuno sa nulla. Iniziano le indagini e i carabinieri ascoltano soprattutto i bambini, le persone più vicine a Barbara e Nunzia. 

I piccoli testimoni 

La prima ad essere ascoltata è  Antonella Mastrillo, compagna di banco di Nunzia Munizzi. Poche ore prima alla mamma di Barbara aveva rivelato alcune cose che nessuno sapeva. E così sulla scena immaginaria del delitto  compare una 500 blu. La sera del 2 luglio, più o meno alle 18, Antonella ha visto Barbara e Nunzia allontanarsi dal quartiere e salire su una Fiat 500 blu, nei pressi della pizzeria La Siesta. Pochi giorni dopo, gli inquirenti scoprono che all’appuntamento doveva andare  anche un'altra bambina,  Silvana S., ma la nonna insospettita, l'aveva chiusa in casa, salvandole, alla fine, la vita. La bimba, ascoltata a sua volta, dice ai carabinieri che quella sera avevano appuntamento con un ragazzo grande che voleva comprare loro un gelato.  Non era la prima volta che Barbara e Nunzia si vedevano con "Gino" che guidava   una  500 blu. Era forte Gino, loro lo chiamavano Tarzan, e aveva i capelli  biondi e un sacco di lentiggini. I carabinieri iniziano subito la caccia.  Lo trovano Tarzan. Fermato e interrogato, dice di essere disoccupato e di arrangiarsi con lavoretti, come quello di venditore ambulante che lo aveva portato anche nel rione Incis di Ponticelli. Per lavoro era stato lì anche nel pomeriggio del 2 luglio. Un testimone? No,  proprio  quel giorno non era insieme al "collega" che lo accompagnava di solito. Dice anche  di aver par­cheggiato la sua macchina, una Fiat 500 blu con un fanale rotto, nella stessa strada  in cui sono sparite Nunzia e Barbara, e che era poi tornato a casa  intorno alle 17.30-18. Non solo, a domanda risponde di essere attratto dai  bambini e di fare uso e abuso di alcool. Nunzia e Barbara? Lo aveva letto sui giornali cosa era successo e  aveva visto anche le foto dei loro corpicini abbracciati. Ma le immagini dei corpi delle bambine non furono mai diffuse, né tantomeno pubblicate dai giornali. Come faceva Gino a sapere che erano abbracciate?  Sarebbe stato per tutti il principale indiziato, ma così non fu. E per ragioni, oggi,  incomprensibili.   L’auto di Tarzan non fu mai sequestrata e non fu mai arrestato, malgrado la moglie avesse smentito il suo alibi: a casa era tornato alle 21 e non alle 18.  Tarzan pochi mesi  prima dell’omicidio delle  bimbe, era stato accusato di violenza su un bambino, e addirittura aveva tentato di stuprare la sorella Angela dopo averla accoltellata. Gli inquirenti lo lasciano stare, ma non la sua coscienza. Tarzan si lancia da una finestra nel 1986. Ma questa è un'altra storia. O forse la stessa. 

I fratelli testimoni

Tarzan di cognome fa Anzovino e di nome Luigi. È fratello di Ernesto che a sua volta rende testimonianza ai carabinieri e dice di aver visto Nunzia e Barbara parlare più volte con un ragazzo grande che ovviamente non è il fratello. E nell'intreccio di testimonianze e coperture compare anche quella di Carmine Mastrillo, è il fratello maggiore di Antonella, la bimba che vide per ultime Nunzia e Barbara. Viene più volte interrogato in caserma ma farfuglia e non dice nulla.  Però il ragazzo in cella "confessa" a un elemento di spicco della camorra di Ponticelli poi pentito, Mario Incarnato, l'accusatore di Enzo Tortora,  di sapere tutto e fa tre nomi: Ciro Imperante, Luigi Schiavo e Giuseppe La Rocca, ragazzi disoccupati e spuntati quasi dal nulla.   Contro di loro  non ci sono prove, né testimonianze dirette, ma solo la parola del pentito. A cui   Mastrillo avrebbe raccontato che quel sabato 2 luglio i tre si sarebbero presentati all'Eco Club di Volla, una specie di discoteca, a pochi chilometri dal rione Incis, dove Mastrillo faceva il Dj. Lì, tra birre e musica i ragazzi gli avrebbero raccontato la loro bravata appena arrivati, alle 20.30: soltanto un'ora e mezza dopo la scomparsa delle piccole. Tante cose non tornano: nessuno degli accusati ha una 500 blu e nessuno li ha visti sul posto dell'omicidio. Inoltre l'unico che ha il fisico da Tarzan è Luigi Schiavo, però non è biondo e ha una folta capigliatura di riccioli neri. Ma non serve a nulla. I tre ragazzi vengono arrestati il 3 settembre del 1983, interrogati. Come i  familiari. I loro nomi non valgono più nulla. Per tutti sono diventati "i mostri di Ponticelli". 

L'Antimafia: il caso va riaperto

A quaranta anni di distanza potrebbe ora riaprirsi il giallo  e quello che si era sempre sospettato all’epoca dei fatti potrebbe rivelarsi la verità: le bambine furono  uccise da un personaggio della camorra coperto dal suo clan e i tre innocenti mandati in pasto agli inquirenti per far trovare subito i colpevoli. La Commissione Antimafia, che nella passata legislatura ha svolto una sua indagine con una serie di audizioni, ha chiesto a gennaio  di fare luce sul massacro di Ponticelli. La Commissione ha accertato che all’epoca vi furono carenze investigative, possibili depistaggi della camorra e l’ombra dell’errore giudiziario.  Giuseppe La Rocca, Luigi Schiavo e Ciro Imperante oggi, dopo la condanna all'ergastolo e benefici di pena,  sono uomini liberi, e continuano a dirsi innocenti. «Il massacro rischia di essere una storia di sole vittime, le due bambine e i tre ragazzi, all’epoca 20enni», ha detto la deputata Stefania Ascari, prima firmataria della relazione sul duplice omicidio approvata all’unanimità dalla Commissione Antimafia a settembre, allo scadere della scorsa legislatura. Secondo Ascari ci sono gli elementi per chiedere la revisione del processo: «Ritengo che si tratti di un grave errore giudiziario». Un ruolo chiave nella vicenda l’hanno avuto i pentiti, e testimoni che hanno raccontato cose diverse. In una conferenza stampa alla Camera, Luigi Schiavo ha detto che «in caserma persone in borghese mi hanno torturato, fatto girare sulla sedia per disorientarmi, dato da bere acqua e sale, colpito con un frustino per cavalli». «Si doveva accontentare l’opinione pubblica. Ma non avete fatto giustizia per le bambine», ha aggiunto Giuseppe La Rocca, «voglio la verità, lo dovete fare per le nostre famiglie e per i genitori delle bambine morte». La fine anticipata della legislatura ha interrotto l’indagine della Commissione, quindi non ha consentito di accertare quale sia stato il ruolo della camorra e dei pentiti, se ci siano stati depistaggi per coprire il vero colpevole. Ma il caso ora sta prepotentemente venendo alla ribalta (stasera anche una puntata speciale de Le Iene) e potrebbe rivelarsi come il più grande errore giudiziario della storia della Repubblica italiana. A credere fermamente nell'innocenza dei tre imputati è l'ex giudice Ferdinando Imposimato che già nel 2012 con un dossier di 1400 pagine chiese la revisione del processo assieme ai legali Eraldo e Francesco Stefani. Ma allora come nel 1983 era più facile avere colpevoli certi per un tale efferato delitto che ammettere un errore giudiziario. Quindi non accadde nulla.  E oggi? Giuseppe La Rocca, Luigi Schiavo e Ciro Imperante hanno "pagato" il loro presunto conto con la giustizia. Sono liberi e potrebbero tacere. Ma da uomini liberi gridano la propria innocenza. 

Quando la tv diventa tribunale. Il massacro di Ponticelli, alle Iene indagini show sull’omicidio di Nunzia e Barbara a distanza di 40 anni. Elena Del Mastro su Il Riformista il 14 Marzo 2023

Barbara Sellini aveva sette anni, Nunzia Munizzi dieci quando il 2 luglio 1983 furono trovate morte e i loro corpicini bruciati: erano state seviziate e poi gettate nel nulla. Un terribile delitto a sfondo sessuale per il quale furono arrestati nel giro di poco e condannati all’ergastolo Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo, che all’epoca dei fatti avevano appena 18 anni e tutta la vita davanti. I tre sono stati scarcerati dopo 27 anni nel 2010. Da sempre gridano la loro innocenza. Per tre volte hanno chiesto la revisione del processo, ma nessuno li ha mai ascoltati. Le Iene, 40 anni dopo quell’efferato omicidio, 13 dopo la scarcerazione dei tre, hanno deciso di indagare. E Giulio Golia, come sempre, lo ha fatto a modo suo. Con metodi quanto meno, talvolta, contestabili. Non si mette in discussione la voglia di verità che i tre ragazzi chiedono e devono assolutamente avere. Se la giustizia stabilirà che hanno pagato ingiustamente devono essere risarciti, anche se purtroppo nessuno gli potrà mai restituire la loro vita che un errore giudiziario potrebbe avergli portato via.

Il lungo servizio de Le Iene (più di 3 ore) andato in onda domenica sera ripercorre tutta la vicenda, intervista, o meglio interroga, i testimoni dell’epoca e porta nel piccolo schermo il solito tribunale televisivo. Giulio Golia e la sua squadra restano infatti pur sempre giornalisti e non magistrati anche se talvolta gli prende un po’ la mano e lo dimentica. Ripercorre le indagini, le carte ufficiali, le testimonianze, i luoghi e tutto e alla fine identifica anche il colpevole: Corrado Enrico, che all’epoca dei fatti fu sotto indagine per molestie sessuali compiute su una bambina e su una donna. Finì anche in carcere per questo.

Bisogna precisare subito che l’indagine condotta da Le Iene ha il merito di aver fatto emergere quanto all’epoca fossero state fatte indagini in maniera goffa e superficiale, si fossero alternati 4 diversi magistrati a coordinare le indagini, ci fossero state piste non approfondite, metodi violenti per estorcere le informazioni e quanto più di tremendo si possa immaginare. Ma Golia e i suoi non sono giudici e le telecamere nascoste non possono sostituire l’aula di un tribunale. Golia, persuaso di sapere chi è il colpevole di quella faccenda accaduta 40 anni fa, di cui disgraziati protagonisti chiedono verità da sempre, decide di andare a casa sua, da Corrado Enrico. Non lo trova: è morto ad agosto. C’è la moglie che però dal primo momento sembra sorpresa: non è a conoscenza del vero motivo per il quale suo marito era stato arrestato. Infatti, quando Golia le chiede perché il marito era stato arrestato, lei risponde: “Era ubriaco e ha dato addosso alla polizia e così lo hanno fatto stare sei mesi dentro”. La signora sapeva che il marito era stato attenzionato per la morte di Barbara e Nunzia e quando lei gli aveva chiesto spiegazioni, lui aveva negato. E aveva continuato a farlo anche sul letto di morte. Almeno questa è la verità della donna che aggiunge che in casa ci sono sempre stati tante bambine perché avevano due figlie e i loro amichetti frequentavano la loro casa e mai aveva visto qualcosa di strano.

Allora Golia decide di mostrare alla signora il verbale in cui il marito confessava le aggressioni e le molestie. La donna trasale: “A me tutte queste cose non mi risultano, come mai a me l’avvocato non me lo ha detto mai?”. Probabilmente Golia ha svelato alla moglie di quest’uomo una verità tremenda che lui stesso le aveva tenuto nascosto per tutta la vita, riuscendoci. Anche se quell’uomo risulterà essere il colpevole della morte di Barbara e Nunzia, potrà pagare? Certamente no, ma a farlo adesso è certamente sua moglie e la sua famiglia. “Mi fa male”, dice la donna a Golia e piange. “Mi dispiace che lei sta piangendo ma lei deve capire anche me che sono in imbarazzo dall’inizio. Però è una ferita dell’epoca, è una ferita, secondo me, per voi per 40 anni. La scoperta di alcune cose poi…”. E lei risponde durissima: “Di avere avuto a che fare con un mostro?”. Addolorata racconta: “Quante pietre messe dentro le scarpe…”. E racconta di una vita difficile passata tra botte e lacrime. “Magari avessi saputo tutte queste cose allora… perciò adesso sto male. Se fosse stato per me avrei fatto la signora, sarebbe stato in carcere e ora sarebbe uscito pure. Però ne sarei uscita con dignità. Così come ne esco? Con la testa nella m***a”. Tutto questo è stato ripreso dalle telecamere nascoste. Fortunatamente andato in onda con voce contraffatta e volto oscurato. Almeno.

La stessa cosa è successa anche a Carmine Mastrillo, il super testimone che all’epoca accusò i tre ragazzi. La sua posizione è controversa ma certo è che è un uomo che soffre di grave disabilità (non ha una gamba da quando aveva 8 anni) che si è visto piombare Le Iene a casa sua che insinuano che abbia mentito imbeccato dal pentito Mario Incarnato. A un certo punto il fratello si arrabbia e chiede “ma state pure registrando qua? È una vera presa in giro”. E Golia dice che no non lo è. Mastrillo dice “mi sto innervosendo, basta. Vuoi vedere che adesso sono io il colpevole?” E continuano le riprese con la telecamera nascosta. Golia gli mostra anche un video girato dai tre da lui accusati e poi dice: “Noi il nostro lo abbiamo fatto, con onestà”. Interviene il fratello “Ti ha detto basta adesso andate”. Alle proteste di Golia che è pur sempre a casa di un privato, riprendendo di nascosto, il fratello spiega: “Gli stai dicendo (insinuando,ndr) che ha cambiato faccia dopo aver visto il video dei tre, ndr)”. Il video finisce con le rivelazioni di Arcibaldo Miller il pm che chiuse le indagini.

Ma una nuova puntata dell’inchiesta arriva persino a Giorgia Meloni che in un’intervista (che andrà in onda durante la trasmissione settimanale) ha detto: “Mi ha ufficialmente convinto ad occuparmene. Fermo restando che le sentenze si rispettano e che abbiamo rispetto per la Magistratura“. L’ennesima stortura di come funziona la giustizia in Italia. Ci voleva Giulio Golia? E ancora: “Mi ha colpito il caso, mi hanno colpito loro e mi colpisce il fatto che, semmai fosse così, c’è un altro colpevole – ha detto Meloni, come si legge in un comunicato della trasmissione con uno stralcio dell’intervista che sarà mandata in onda integralmente domani –. In uno Stato giusto se hai degli elementi oggettivi affronti eventuali errori. È possibile che magari esca fuori qualcosa che prima non c’era“. Golia le ha inoltre consegnato una chiavetta usb con il video della puntata speciale trasmessa ieri: “Grazie, me lo studio e vedo cosa si può fare”, ha risposto la premier. La giustizia italiana deve funzionare davvero così?

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Nuovi dubbi sui responsabili. Barbara e Nunzia, le bimbe uccise nel massacro di Ponticelli: e se i tre operai fossero innocenti? Viviana Lanza su Il Riformista il 16 Settembre 2022

Due bambine uccise in maniera brutale; tre imputati condannati che da sempre si professano innocenti e per tre volte hanno chiesto la revisione del processo; il dubbio che quello del cosiddetto “massacro di Ponticelli” sia un caso tutt’altro che risolto. Le conclusioni dei lavori della Commissione antimafia sull’omicidio di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, le bambine di 7 e 11 anni assassinate il 2 luglio 1983, riportano la vicenda sotto i riflettori.

Secondo la Commissione, sarebbe opportuno proseguire con le audizioni «al fine di approfondire il legame che la camorra, e in particolare i pentiti, hanno avuto in questo caso» e verificare «se sono state esercitate pressioni al fine di nascondere qualcosa o coprire il vero colpevole di questo efferato delitto». Un delitto particolarmente feroce. «Una delle storie più cruente che il nostro Paese ricordi», per dirla con le parole della deputata Stefania Ascari, la componente della Commissione che ha coordinato i lavori e secondo la quale c’è il rischio che questa brutta pagina possa coincidere con «uno dei peggiori errori giudiziari della nostra storia recente». In 49 pagine di testo, più 24 allegati, sono racchiuse le conclusioni del lavoro a cui, con la Ascari, hanno partecipato Luisa D’Aniello e Giacomo Morandi.

«Le sentenze si rispettano ma si devono poter commentare – ha detto ieri nel corso della conferenza stampa a Palazzo San Macuto -. Abbiamo sentito i tre ragazzi, oggi adulti, condannati per l’omicidio e marcati per sempre come “mostri”, e abbiamo acquisito un’enorme documentazione mettendo in luce tutta una serie di elementi che, se riletti con diverse tecniche di riscontro delle prove, appaiono decisamente inverosimili. Ci auguriamo una revisione del processo che possa portare ad una verità reale».

Attorno al massacro di Ponticelli risultano addensate versioni spesso modificate, ritrattazioni, testimonianze dubbie, al punto da mettere in seria discussione la condanna inflitta ai tre operai Giuseppe La Rocca, Ciro Imperante e Luigi Schiavo, accusati di aver seviziato e ucciso Barbara e Nunzia, e di vare dato fuoco ai loro corpi. Ai tre operai si arrivò dopo mesi di indagini impantanate. Furono le dichiarazioni di Carmine Mastrillo, fratello di un’amichetta delle due bambine scomparse, a dare la svolta all’inchiesta, ma ciò accadde solo dopo che Mastrillo (che inizialmente aveva ammesso di non sapere nulla), portato nella caserma Pastrengo di Napoli, incontrò il pentito Mario Incarnato, ex reggente della Nuova camorra organizzata su Ponticelli.

Per la Commissione antimafia, dunque, si è ancora in tempo per approfondire un possibile ruolo di “suggeritore” di Incarnato, che «conosceva bene il territorio dove si sono svolti i fatti e da cui provenivano tutti i testimoni». In quel periodo, tra l’altro, la pressione mediatica sulla vicenda era fortissima al punto che intervenne anche l’allora presidente Sandro Pertini e il fenomeno del pentitismo era un fenomeno nuovo, c’erano meno regole e i pentiti venivano talvolta «coinvolti attivamente nella risoluzione dei casi ed utilizzati quale fattore intimidatorio per convincere testimoni a fare dichiarazioni e indiziati a confessare». Di qui i dubbi sulla genuinità del supertestimone del caso di Ponticelli e la proposta di revisionare il processo.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Due bambine abusate e uccise. La camorra “sceglie” 3 ragazzi, la fame di mostri fa il resto. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2023.

Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo sono i ragazzi ritratti nelle foto. Ho pensato e chiesto di mostrare i loro volti nonostante siano in manette. Ho chiesto anche di non pixellarli perché li dovete vedere: se innocenti, avrebbero ingiustamente trascorso 30 anni in carcere

Nelle tre immagini affiancate il momento degli arresti, da sinistra, di Giuseppe La Rocca, Ciro Imperante e Luigi Schiavo giudicati nell’83 i responsabili dello stupro e della morte di due bambine napoletane: i tre “mostri” del quartiere Ponticelli

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 14 aprile. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una o più foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»

Il 2 aprile 2006 il quotidiano Cronache di Napoli portava fuori dal 41bis un appello dei boss detenuti a Viterbo, (apparentemente) indirizzato ai rapitori del piccolo Tommaso Onofri, sequestrato a Parma: «Liberatelo e nessuno vi toccherà». Ho denunciato questo titolo molte volte perché il suo scopo era quello di creare consenso attorno ai boss, che mai hanno davvero rispettato le vite dei bambini. L’elenco dei minori uccisi dagli affiliati è lunghissimo, lungo è quello dei minori utilizzati per confezionare dosi, spacciare in strada, fare da sentinelle e da sicari. Ricordate questo dettaglio, perché nella storia che sto per raccontarvi è centrale. Giulio Golia e Francesca Di Stefano hanno condotto un’importantissima inchiesta per Le Iene che dovete vedere.

«TORNIAMO AL 1983, SIAMO A PONTICELLI, NAPOLI. L’EX BOSS ORIENTA L’INDAGINE PER CHIUDERE PRESTO IL CASO»

Come lo stesso Golia afferma a inizio trasmissione ( Massacro di Ponticelli: mostri o innocenti? ), probabilmente vi troverete davanti a uno dei più clamorosi errori giudiziari avvenuti nel nostro Paese, che avrebbe portato alla condanna all’ergastolo di tre innocenti. Ciro Imperante, Giuseppe La Rocca e Luigi Schiavo sono i tre ragazzi ritratti nelle foto di questa settimana. In accordo con questo giornale, ho deciso di mostrare i loro volti nonostante siano in manette. Voglio spiegare questa scelta. Imperante, La Rocca e Schiavo oggi sono uomini liberi, ma hanno deciso di raccontare in tv la vicenda giudiziaria che li ha coinvolti da giovanissimi perché chiedono, per l’ennesima volta, la revisione del processo.

Ho chiesto di non pixellare i loro volti perché li dovete vedere: se venisse provata la loro innocenza, avrebbero ingiustamente trascorso 30 anni in carcere al posto di qualcun altro, per responsabilità di chi ha condotto le indagini e di chi le ha manipolate. Tutto inizia il 2 luglio 1983 nel quartiere napoletano di Ponticelli, abitato da persone semplici e perbene, sede di una piazza di spaccio importante. Due bambine, Barbara Sellini e Nunzia Munizzi, vengono rapite e abusate. I loro corpi, bruciati, verranno trovati a pochi chilometri da casa. Inizia una gara tra polizia e carabinieri che non collaborano, seguono piste diverse, giungono a conclusioni diverse, interrogano decine di persone con metodi che ricorderebbero quanto è accaduto a Stefano Cucchi. Mentre Golia ripercorre la vicenda, la sensazione forte è quella di trovarsi immersi in una tempesta perfetta.

«CHE COSA SUCCESSE NELLA PROCURA DEL CASO TORTORA E NELLA CASERMA PASTRENGO. UN’INCHIESTA DELLE IENE ACCUSA»

Una procura, quella di Napoli del tempo, che da poche settimane aveva arrestato Enzo Tortora, in balia di magistrati affamati di carriera e ubriachi di fama; una caserma dei carabinieri, la Pastrengo di Napoli, in cui non era ben chiaro che ruolo giocassero i pentiti di camorra, liberi di circolare, intimidire, dettare legge in un luogo che mai avrebbe dovuto essergli accessibile. E infine un’opinione pubblica che ha sempre sete di vendetta. Che vuole il mostro e lo vuole subito. Questa responsabilità dobbiamo prendercela! Manca qualcosa, però. Ricordate il dettaglio iniziale sulla camorra che, per ottenere consenso, vendica i delitti sui bambini? Ebbene, la camorra non tocca i tre ragazzi in carcere; anzi, ci tiene a fargli sapere che possono stare tranquilli; che seppur accusati di aver commesso un delitto efferato le cui vittime sono due bambine, a loro non verrà torto un capello. Ma come fa la camorra a sapere che Imperante, La Rocca e Schiavo sarebbero innocenti? Perché, secondo quanto emergerebbe da uno studio attento degli atti processuali, sarebbe stato proprio l’ex boss di Ponticelli, il pentito Mario Incarnato, “di casa” alla Pastrengo, dove venivano svolti gli interrogatori, a indirizzare l’accusa verso i tre ragazzi. Il motivo? Chiudere il caso e riportare la pace nel quartiere. Con polizia, carabinieri e magistrati in giro, la piazza di spaccio si ferma, i cantieri aperti dopo il terremoto del 1980 non possono lavorare. Sull’altare degli affari criminali, sarebbero stati immolati tre innocenti, con l’aiuto di chi avrebbe dovuto lavorare per una verità giudiziaria che si avvicinasse alla verità dei fatti, non a quella che faceva comodo a tutti. Giulio, ho raccolto il tuo appello, spero sia utile.

L'angelo della morte tra Satana e vendetta. Alfonso De Martino è stato condannato all’ergastolo per le morti di tre pazienti, avvenute tra il 1990 e il 1993, ma il bilancio potrebbe essere decisamente superiore. Massimo Balsamo il 24 Agosto 2023 su Il Giornale.

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 La passione per l'esoterismo

 Scommesse sulle morti, furti e aggressioni

 Alfonso De Martino, l'infermiere satanico

 La condanna

Negli ultimi trent'anni in Italia sono stati registrati sei casi di angeli della morte, quella particolare categoria di serial killer che si riscontra nell'ambiente medico e/o ospedaliero. Una delle storie meno note è quella di Alfonso De Martino, ribattezzato dalla stampa "l'infermiere satanico" e riconosciuto colpevole di tre omicidi tra il 1990 e il 1993. Per un quarto decesso fu prima condannato e poi assolto. Ma secondo molti esperti - polizia ma anche colleghi - il bilancio potrebbe essere decisamente superiore, considerando i diciassette anni di carriera come infermiere.

La passione per l'esoterismo

Classe 1943 di Salerno, Alfonso De Martino inizia a svolgere la professione di infermiere negli anni Settanta. Sposato e padre di due figli, si fa notare per la sua dedizione al lavoro, che lo porta ad affrontare con una certa regolarità i doppi turni. Ma non solo. C'è anche un altro lato del campano che non passa inosservato: la sua passione per l'esoterismo.

Alfonso De Martino si reca nell'ospedale di Albano Laziale vestito completamente di nero, indossando anelli e ciondoli con evidenti simboli satanici. Uno stile - ma anche un atteggiamento - ambiguo che presto innesca l'antipatia tra i colleghi. "Iettatore" e "menagramo", alcune delle definizioni riportate da Ruben De Luca nel suo "Serial killer". Con il passare dei mesi, viene indicato come un uomo "strano", da qualcuno persino pericoloso.

Scommesse sulle morti, furti e aggressioni

Passano gli anni, ma Alfonso De Martino continua a tenere un comportamento piuttosto controverso. Dalle immagini diaboliche scarabocchiate ai disegni ricchi di simbologie sataniche, passando per le "previsioni" delle morti. L'infermiere infatti pronostica i decessi nell'ospedale di Albano Laziale, fino a goderne in caso di "successo". Qualcuno riferirà persino di scommesse clandestine con i colleghi sulla morte dei pazienti del suo reparto.

E ancora, furti e ruberie. Alfonso De Martino viene infatti accusato di furto di denaro o di altri preziosi da alcuni pazienti e dai loro familiari. Viene inoltre pizzicato a rubare materiale medico (garze, siringhe e così via) e medicinali. Un primo segnale d'allarme è datato 1983: l'infermiere salernitano aggredisce un collega senza un motivo e tenta di strangolarlo. Necessario l'intervento della polizia per ripristinare la normalità.

Alfonso De Martino, l'infermiere satanico

Alfonso De Martino si trasforma nell'"infermiere satanico" nel 1990, quando decide di soddisfare i suoi desideri di morte. Per compiere i suoi delitti nel reparto di medicina generale dell'ospedale di Albano Laziale, l'angelo della morte salernitano usa una miscela di Pavulon (farmaco miorilassante a base di curaro) e Citrosil (un comune disinfettante). Tre moventi lo avrebbero spinto a uccidere: derubare i pazienti, ottenere poteri speciali secondo il credo satanico e vendetta nei confronti di chi aveva un conto in sospeso.

Il cammino criminale di Alfonso De Martino si interrompe il 26 giugno del 1993, data dell'arresto. Qualche mese prima, il 17 febbraio, l'infermiere era stato pizzicato da una dottoressa del nosocomio che lo aveva visto immettere sostanze non prescritte dai medici nella flebo di Enrico Tabacchiera, paziente malato in fase terminale di tumore cervello morto pochi minuti dopo. Sempre il 17 febbraio era morto il suo compagno di stanza, il sessantenne Ludovico Moretti, sofferente di epilessia.

La condanna

Gli inquirenti accendono i riflettori sul passato di Alfonso De Martino e analizzano le cartelle cliniche dei pazienti deceduti dal 1990 nel suo reparto. Spuntano un centinaio di persone, ma il conto viene circoscritto a una decina. Svolti gli esami autoptici del caso, vengono segnalati quattro casi sospetti (da uno verrà scagionato). Viene esclusa la pista economica, mentre non spuntano prove a certificare senza ombra di dubbio l'appartenenza a una setta. Dal canto suo, l'infermiere salernitano si professa innocente e arriva a negare la passione per il satanismo.

Il 9 marzo del 1995 Alfonso De Martino viene condannato all’ergastolo, a un anno di isolamento e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. La sentenza viene confermata in secondo grado e in Cassazione: senza frutti la battaglia condotta dall'avvocato Carlo Taormina per richiedere la revisione del processo. Massimo Balsamo

"Volevo che tutti accorressero": l'angelo della morte e quelle morti sospette. Condannata per 5 omicidi commessi nel 2004, l'"infermiera killer", come fu ribattezzata, Sonya Caleffi potrebbe aver ucciso in realtà 18 persone. Massimo Balsamo il 23 Giugno 2023 su Il Giornale.

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 L'infanzia

 Le difficoltà dell'adolescenza

 La carriera da infermiera

 Sonya Caleffi, l'angelo della morte di Lecco

 L'arresto

 La condanna e il ritorno in libertà

Ha ucciso almeno cinque persone (ma il conto in realtà potrebbe salire a diciotto) e tecnicamente dobbiamo parlare di serial killer. Ma Sonya Caleffi non ha niente a che fare con assassini brutali come Ed Gein o Jeffrey Dahmer. Nessuna fame di sangue, nessuna ossessione sessuale da soddisfare, nemmeno una tentazione sadica. Le motivazioni profonde del perché ha ucciso vanno ricercate nei conflitti della sua esistenza. Il suo è uno dei purtroppo numerosi casi di angeli della morte, ovvero di assassini seriali che agiscono nell’ambiente medico o ospedaliero.

L'infanzia

Sonya Caleffi nasce a Como il 21 luglio del 1970, figlia di un impiegato delle pompe funebri e di una casalinga. Una bimba molto tenera, dolce, con un sogno nel cassetto fin da piccolissima: fare l’infermiera per dedicarsi alle altre persone. Un obiettivo da sempre nel suo cuore e coltivato nel tempo, dunque. Sulla sua infanzia le notizie a disposizione sono scarne, ma non vengono segnalati particolari traumi oppure eventi in grado di sconvolgerle la vita. Tutto normale, tutto in ordine.

Le difficoltà dell'adolescenza

L’infanzia serena, ma l’adolescenza no. A dodici anni accusa i primi problemi di ansia per i mutamenti corporei - è già quasi una donna - mentre tra i tredici ed i quattordici anni manifesta i primi sintomi riconducibili alla depressione. Diventa sempre più volubile, cambia spesso taglio e colore dei capelli. Un anno più tardi inizia a soffrire di anoressia. Una situazione molto delicata, che spinge la giovane a sottoporsi a una cura psichiatrica duratura che non abbandonerà mai più.

La carriera da infermiera

Tra alti e bassi, Sonya Caleffi conduce una vita tutto sommato normale dal punto di vista relazionale e nel 1993 trova l’amore: si sposa con un falegname di Cernobbio. L’amore però non ha vita lunga: un anno più tardi arrivano separazione e divorzio. La donna instaura una serie di relazioni occasionali, rapporti di breve durata, fino a quando incontra un radiologo. Va a convivere con lui a Tavernerio, nel comasco.

Terminati gli studi, Sonya intraprende il sogno di diventare infermiera professionale. Dal 1990 al 1993 frequenta i corsi, ottiene il diploma e inizia a lavorare. Un desiderio che si trasforma in realtà, ma gli inizi non sono semplici: non lega con i colleghi, è introversa e taciturna. E soprattutto è molto insicura, vive con il terrore di sbagliare qualcosa e al minimo problema entra in crisi, tra pianti e reazioni scomposte.

Dal 1994 al 2000 Sonya Caleffi lavora nel reparto di endoscopia dell'ospedale Valduce di Como ma continua ad affrontare grossi problemi dal punto di vista personale. È sempre in cura dallo psichiatra e prende farmaci molto pesanti, che la costringono a inanellare molte assenze. Nel 2000 viene licenziata e decide di prestare servizio tra ospedali (in particolare al Sant'Anna) e case di cura del comasco, senza però trovare stabilità. Nel 2002 prova a farla finita con un incidente stradale, ma riporta ferite non gravi e nulla più. Tra il 2002 e il 2004 tenta l'estremo gesto altre tre volte.

Sonya Caleffi, l'angelo della morte di Lecco

Nel 2004 Sonya Caleffi vince un concorso e viene assunta all’ospedale Manzoni di Lecco, dopo aver superato senza problemi i test psico-attitudinali. Si contraddistingue per cordialità e professionalità, anche se non mancano episodi particolari, come scatti d’ira, in particolare quando non riesce a restare da sola nelle stanze dei pazienti.

Il motivo è semplice, Sonya Caleffi si trasforma nell’angelo della morte di Lecco: inizia a uccidere i pazienti nel nosocomio attraverso iniezioni d’aria, insufflate in vena attraverso la flebo del braccio: 40-50 centimetri cubici di aria, anche con somministrazioni ripetute. In questo modo il paziente va in embolia gassosa, il volto diventa cianotico e le labbra blu. Fino alla dissociazione meccanica del cuore.

Una volta entrata in azione e causata l’emergenza, Sonya Caleffi si mette a disposizione dei medici. Ma l’8 novembre del 2004 commette un errore: viene infatti pizzicata dai parenti di Maria Cristina, 99enne ricoverata per una bronchite con difficoltà respiratorie. La donna muore, ma l’ospedale vuole fare chiarezza e ordina l’esame autoptico. L’ennesimo decesso imprevisto all’ospedale Manzoni. I familiari si scagliano contro la Caleffi: trovano il suo comportamento freddo e assurdo, sono certi che abbia commesso qualche errore.

L'arresto

Tra il 1° settembre e l’8 novembre del 2004 – quando Sonya Caleffi è in servizio – l’ospedale Manzoni conta diciotto decessi di pazienti anziani. Un aumento anomalo che insospettisce i sanitari. La donna viene arrestata il 15 dicembre e confessa di aver ucciso cinque persone: Maria Cristina, Biagio La Rosa, Teresa Lietti, Ferdinando Negri ed Elisa Colomba Riva. La donna è quasi sollevata al pensiero di essere stata beccata.

Sonya Caleffi afferma di aver avvertito il bisogno di sentirsi importante e di non aver praticato l’eutanasia. Chiede perdono e fa mea culpa:“Io praticavo quegli interventi perché mi piaceva che tutti accorressero in tempo a salvare i pazienti”, la sua versione. La trentaquattrenne descrive con estrema precisione la modalità degli omicidi e racconta tutto, senza risparmiarsi. Ma c’è di più: dopo la notizia delle morti di Lecco, l’amministrazione dell’ospedale Sant’Anna di Como inizia a indagare sugli otto decessi avvenuti durante il periodo di servizio di Sonya Caleffi. Stesso discorso per le altre strutture. L'inchiesta verrà archiviata il 28 novembre 2005.

Harold Shipman, il Dottor Morte che sconvolse la Gran Bretagna

La condanna e il ritorno in libertà

Sonya Caleffi il 18 dicembre 2004 viene trasferita al Sant’Anna di Como, nel reparto detenuti, mentre l’11 febbraio 2015 viene trasferita all’Opg di Castiglione delle Stiviere. A marzo la donna ritratta la confessione e sostiene di non ricordare più di avere ucciso. Il 14 dicembre 2007, Sonya Caleffi viene condannata per cinque omicidi (Maria Cristina, Biagio La Rosa, Teresa Lietti, Ferdinando Negri, Elisa Colomba Riva) e due tentati omicidi (Giuseppe Sacchi, Francesco Ticli) a una pena di venti anni di reclusione. Il 3 marzo 2008 la Corte d’assise d’appello di Milano conferma la condanna.

Scontati quattordici anni tra San Vittore e Bollate, il 25 ottobre 2018 Sonya Caleffi viene rilasciata. Afferma di essere pentita: “Sono cambiata, sono un’altra persona. Quello che desidero adesso è solo un po’ di normalità”. Al suo fianco, come sempre, i due genitori.

Rosa Bronzo, la serial killer di Vallo della Lucania che sterminò trenta neonati. Giuseppe Galzerano ricostruisce una storia avvenuta nel Cilento a metà dell’Ottocento e di cui si erano perse del tutto le tracce. Gabriele Bojano su Il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2023

Oggi la definiremmo una serial killer, con tutto quel carico di riprovevole, ma a volte anche morbosa, attenzione che soggetti simili suscitano nell’opinione pubblica. Ma nel Cilento arretrato e degradato di fine ‘800 Rosa Bronzo fu invece da tutti appellata come l’“ammazzabimbi”, la donna che uccise e incenerì nel forno alcuni bambini e bambine del suo paese, Vallo della Lucania. Una vicenda dai risvolti agghiaccianti di cui oggi abbiamo notizia grazie alle ricerche effettuate da uno scrittore ed editore che si è sempre fatto guidare dal fiuto giornalistico, Giuseppe Galzerano. Rosa Bronzo – l’ammazzabimbi di Vallo della Lucania è il titolo del libro che Galzerano ha scritto e pubblicato mettendo assieme tutti i ritagli di giornale apparsi sulla stampa del tempo. L’unico cruccio dell’autore è non essere riuscito ad entrare in possesso dell’incartamento processuale, introvabile anche all’Archivio di Stato di Napoli, che avrebbe consentito di certo una ricostruzione ancora più analitica e dettagliata sul comportamento della donna, l’accusa, la difesa, il processo, gli interventi degli avvocati e le motivazioni della sentenza.

La storia

Veniamo ai fatti: nel 1878 il Cilento vive in condizioni di drammatica miseria, come riferisce nel discorso alla Camera l’onorevole Giuseppe Romano, intervenendo a proposito dell’attentato di Giovanni Passannante a re Umberto I, avvenuto a Napoli il 17 novembre 1878: «nel Cilento – dice – il contadino mangia pane di ghiande, il Cilento sta nel periodo anteriore a Cerere, e quando il povero contadino è agli estremi della sua vita, non si dice che gli hanno dato l’olio santo, ma si dice che lo hanno messo a pane di grano!» . Di Vallo della Lucania, invece, qualche anno dopo, lo studioso pugliese Cosimo De Giorgi scriverà: «Ha tutti gli inconvenienti delle grandi città, senza goderne i vantaggi». All’epoca degli orrendi crimini compiuti Vallo conta una popolazione di circa 5.000 abitanti. In via Valenzani abita Rosa Bronzo, una povera donna che – suo malgrado – per azioni riprovevoli, assurgerà alla ribalta nazionale ed europea. Ha 47 anni all’epoca dei fatti e una vita già segnata: nel 1869 finisce in galera per furto, nel carcere di Napoli, e pur volendo fare “rivelazioni” sul brigante Michele Notaro di Pollica (oggi la chiameremmo “collaboratrice di giustizia”) non viene ritenuta da questore e prefetto di Napoli credibile. Nel carteggio dell’epoca è financo definita “prostituta”. Alla fine però viene scarcerata per insufficienza di prove. Nel 1873 Rosa va in sposa a un contadino di 23 anni da cui non ha figli. Sono di questi anni altri episodi di bambini maltrattati o addirittura uccisi di cui i giornali, anche alcuni quotidiani americani, riferiscono particolari raccapriccianti che potrebbero aver fatto scattare nella mente della donna lo spirito di emulazione. È l’8 ottobre 1877 quando il Roma dà notizia di un caso di figlicidio: «A Vallo (Salerno) la contadina Rosa Bronzo, sgravatasi il 28 settembre ultimo di un bambino, lo strangolò barbaramente, aggiungendo al disonore l’infamia». È solo l’inizio, appena tre giorni dopo, il quotidiano napoletano torna sull’argomento e lo dettaglia in modo più chiaro: quella donna «dava ad intendere ai suoi concittadini che adempiva al pietoso ufficio di raccogliere i neonati ripudiati dai loro genitori per recarli all’ospizio dei trovatelli in Salerno». Ma in realtà le “infelici creature”, nate fuori dal matrimonio e affidate dalle mamme all’assassina per un compenso tra le 10 e le 30 lire, in mancanza della Ruota comunemente chiamata, non sarebbero mai giunte a destinazione e «le indagini sulla condotta della Bronzo giunsero ad assodare che certo avea soffocato un bambino nel forno di sua casa, ed un altro cadavere di bambino in putrefazione fu trovato nel fondo di un sotterraneo della medesima casa».

La strage dei bambini

Un anno dopo, sempre il Roma, parla di “una strage di bambini” e dell’uso di oppio per far tacere i piccoli che piangevano continuamente. Quando in un sottoscala appartenente a Rosa vennero rinvenuti dei teschi e addirittura una mamma riconobbe il suo figlioletto dai pochi resti umani e da un pannolino in cui lei stessa l’aveva avvolto, Rosa Bronzo si dichiarò innocente, disse che non sapeva niente di quei cadaveri, che era vittima di calunnie e denunciò un testimone. L’“ammazzabimbi” è ormai in prima pagina su tutti i giornali dell’epoca, ne scrive La Gazzetta Piemontese, antenata dell’attuale “La Stampa”, persino Le Figaro a Parigi e il Corriere della Sera, nell’edizione del 29 dicembre 1879, definendola “fabbricatrice di angeli”: «Rosa Bronzo – annota il giornalista – esercitava il mestiere di raccogliere in casa sua una quantità di neonati illegittimi per spedirli poi nella casa di maternità di Salerno, dietro determinato compenso. La perversa donna faceva morire d’inedia i bambini, o con libazioni profuse di papavero, e taluni anche li strozzava. Si narra che circa trenta di queste creature furono a lei consegnate dal 1875 fino a tutto il 1877, e quasi tutte furono sottoposte a quello strazio per causa di lucro». Dal Corriere della Sera, infine, si apprende anche che la donna fu condannata ai lavori forzati a vita dalla Corte di Assise di Vallo della Lucania. Una notizia però che confligge con quella di altri giornali che hanno parlato sempre della Corte di Assise di Napoli. Ma questa, ai fini del racconto, è solo un dettaglio. Resta il mistero sul perché dell’agire di Rosa Bronzo, sul suo processo, sulla sua detenzione e sulla sua morte

Ricostruita la vicenda perduta nella memoria avvenuta nel Cilento a metà ‘800. Rosa Bronzo, la terribile storia dell’“ammazzabimbi”: la serial killer di neonati di Vallo della Lucania. Elena Del Mastro su Il Riformista il 15 Febbraio 2023

Storie inquietanti di assassini dall’800 ne arrivano tantissime. Prendono più il sapore di leggende, eppure hanno fatto parte della cronaca come Mary Cotton Annie, la killer britannica che uccise 21 persone con l’arsenico a metà ‘800. E anche in Italia, nello stesso periodo, precisamente nel Cilento c’è stato un personaggio dello stesso calibro: si chiamava Rosa Bronzo, e a restituire la sua storia alla memoria è stato Giuseppe Galzerano che ne ha ricostruito la storia in un libro a partire da quanto scrissero i giornali del tempo. La chiamavano “L’ammazzabambini di Vallo della Lucania”, nome che dà il titolo al libro. Di lei pararono le cronache non solo in Italia ma anche all’estero.

La vicenda è collocata nel poverissimo Sud Italia del 1878, in un Cilento che verte in condizioni di drammatica miseria. A Vallo della Lucania vive Rosa Bronzo, ha 47 anni e presto finisce in carcere a Napoli per furto. Ha provato anche ad essere una sorta di “collaboratrice di giustizia” della prima ora, proponendo rivelazioni sul brigante Michele Notaro di Pollica in cambio di uno sconto di pena. Secondo quanto riportato nella storia narrata dal Corriere della Sera, non venne ritenuta però affidabile. Viene scarcerata per insufficienza di prove.

È l’8 ottobre 1877 quando il Roma dà notizia di un caso di figlicidio: “A Vallo (Salerno) la contadina Rosa Bronzo, sgravatasi il 28 settembre ultimo di un bambino, lo strangolò barbaramente, aggiungendo al disonore l’infamia”. Per poi ritornare sul caso pochi giorni dopo spiegando che la donna non ebbe mai figli ma che “dava ad intendere ai suoi concittadini che adempiva al pietoso ufficio di raccogliere i neonati ripudiati dai loro genitori per recarli all’ospizio dei trovatelli in Salerno”. La verità era un’altra: i bambini affidategli da mamme che non potevano tenerli venivano raccolti da Rosa che in cambio di denaro se ne disfaceva dicendo che li avrebbe portati all’orfanotrofio. Ma lì non arrivarono mai: “le indagini sulla condotta della Bronzo giunsero ad assodare che certo avea soffocato un bambino nel forno di sua casa, ed un altro cadavere di bambino in putrefazione fu trovato nel fondo di un sotterraneo della medesima casa”.

Solo un anno dopo i giornali parlavano di “strage di bambini” e dell’uso di oppio per far tacere i piccoli che piangevano continuamente. Furono trovati in un sottoscala teschi e resti dei bambini. Una mamma riconobbe un pannolino in cui aveva avvolto il bambino. Ma Rosa Bronzo si dichiarò innocente. Disse che non sapeva niente di quei cadaveri, che era vittima di calunnie e denunciò un testimone. La stampa nazionale e internazionale iniziò a parlarne definendola anche “fabbricatrice di angeli”.

Rosa Bronzo – c’è scritto sul Corriere della Sera del 29 dicembre del 1879 – esercitava il mestiere di raccogliere in casa sua una quantità di neonati illegittimi per spedirli poi nella casa di maternità di Salerno, dietro determinato compenso. La perversa donna faceva morire d’inedia i bambini, o con libazioni profuse di papavero, e taluni anche li strozzava. Si narra che circa trenta di queste creature furono a lei consegnate dal 1875 fino a tutto il 1877, e quasi tutte furono sottoposte a quello strazio per causa di lucro”. La donna fu condannata ai lavori forzati a vita. Poi nulla più, e la memoria di fatti così agghiaccianti si perse nel tempo.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Ragazzo 29enne originario di Torre Canne muore a Shanghai. Le autorità cinesi: «Suicidio», la famiglia chiede approfondimenti. Il giovane Marcello Vinci viveva in Cina da ormai cinque anni. La madre ha pubblicato su Facebook un appello per ottenere informazioni dagli amici del figlio. OTTAVIO CRISTOFARO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Marzo 2023

 È giallo su una vicenda dai contorni poco chiari, che ha come protagonista un giovane 29enne originario di Torre Canne trovato senza vita a Shangai. Sua madre pare l’abbia sentito al telefono per l’ultima volta domenica 5 marzo, poi il martedì la telefonata dei Carabinieri della stazione di Pezze di Greco (frazione di Fasano) con la comunicazione della tragedia, arrivata per il tramite delle autorità e del consolato cinese. La tragedia pare sia avvenuta lunedì 6 marzo.

Marcello Vinci lavorava in Cina, a Shangai da 5 anni, e si era inserito molto bene in quel contesto. È stato trovato morto ai piedi di un grattacielo a Shanghai, lasciando sgomenti i suoi familiari e i suoi amici. La sua famiglia vive a Torre Canne (Br), sua mamma è originaria di Martina Franca (Ta), mentre suo padre di Fasano (Br).

La versione che sarebbe stata fornita alla famiglia parla di una caduta dal trentacinquesimo piano di un grattacielo. Un’ipotesi che sembrerebbe non convincere; per capire cosa sia successo a Marcello Vinci occorre riportare il suo corpo in Italia, ma non sarà facile.

Il ragazzo si era laureato all’Istituto di studi internazionali con una tesi sul Dragone che veste Made in Italy e nel 2017 si era trasferito in Cina. Dai pensieri postati su Facebook emerge che il ragazzo aveva patito in maniera particolare le restrizioni legate al Covid. Il 10 novembre scorso, rientrato in Cina dopo un week-end trascorso a casa, in Italia, scriveva: «Mentre voi vivete senza mascherine da anni, io mi preparo a fare l’ennesima quarantena. Tengo a precisare che sono stato rinchiuso 2 settimane tra luglio e agosto, 27 giorni in 30 giorni totali nel mese di settembre, una settimana a ottobre e avevo finito l’ultima quarantena di 7 giorni 3 giorni fa». In un altro, post, il 6 dicembre 2022, affermava: «L'unico desiderio sotto l’albero è che questo sia il mio ultimo anno in Cina».

Bisognerà districarsi tra le complesse norme cinesi per riavere, in qualche modo, il cadavere. Soprattutto bisogna evitare che il suo ritorno in Italia avvenga solo dopo la cremazione, che in Cina è pratica assai diffusa. Per questo i legali della famiglia sono da giorni al lavoro per riportare subito in Italia il corpo di Marcello, mettendo in moto una fitta rete di relazioni tra la Farnesina e l’Ambasciata cinese. 

Sgomento anche a Martina Franca (Ta) la città della madre di Marcello Vinci. Secondo le autorità cinesi il giovane professionista si sarebbe suicidato, ma i conti non tornano e la famiglia chiede di fare luce.

Il mistero di Marcello morto a Shanghai. La mamma: "Diteci cosa è successo". Il 30enne lavorava nella moda. L'appello social della famiglia. Tiziana Paolocci il 14 Marzo 2023 su Il Giornale.

«L'unico desiderio sotto l'albero è che questo sia il mio ultimo anno in Cina».

Marcello Vinci, interprete ventinovenne che viveva e lavorava a Shangai, aveva affidato la sua preghiera profonda ai social. Invece in Italia non tornerà più. Il giovane è stato trovato senza vita il 5 marzo dalla autorità cinesi, che hanno avvertito la sua famiglia, che vive a Fasano, senza però fornire alcun dettaglio. Ed è da allora che nel paese, come a Martina Franca, dove il 28enne aveva studiato ed era cresciuto, ci si interroga e si cerca un perché alla tragedia, dal momento che è giallo fitto sulle cause del decesso.

Per cercare una ragione, che potrebbe solo in minima parte attutire il dolore, mamma Angela ha lanciato un appello su Facebook. «Mi rivolgo agli amici che hanno avuto contatti con Marcello tra il 5 e il 6 marzo - si legge -per chiedere umilmente di fornirmi ogni minimo dettaglio, potrebbe essere di gran aiuto alle indagini».

Marcello si era laureato all'Istituto di studi internazionali con una tesi sulla Cina che veste Made in Italy. Dal 2017 risiedeva e lavorava proprio lì come interprete, occupandosi di relazioni internazionali per Micilo, un'azienda esportatrice di moda made in Italy. Tra le sue passioni c'era la fotografia.

Dai pensieri postati su Facebook emerge che il ragazzo, però, aveva patito in maniera particolare le restrizioni legate al Covid. Il 10 novembre scorso, rientrato in Cina dopo un week-end trascorso in Italia, si era lasciato andare a uno sfogo. «Mentre voi vivete senza mascherine da anni, io mi preparo a fare l'ennesima quarantena - aveva scritto su Facebook -. Tengo a precisare che sono stato rinchiuso 2 settimane tra luglio e agosto, 27 giorni in 30 giorni totali nel mese di settembre, una settimana a ottobre eavevo finito l'ultima quarantena di 7 giorni 3 giorni fa».

Il 6 dicembre 2022 ha scritto poi quel post, con cui si augurava di tornare entro l'anno seguente a vivere stabilmente nel suo paese di origine.

Sui social in queste ore si stanno moltiplicando gli appelli degli amici a sostegno della famiglia: «Chiunque sa qualcosa, si faccia immediatamente sentire». Scrivono anche i professori e i compagni di liceo, il classico linguistico sperimentale Tito Livio di Martina Franca che la vittima aveva frequentato da ragazzo. E poi la sua fidanzata, che non vuole lasciarlo andare: «Di te non voglio parlare al passato perché tu sei entrato nella nostra vita e da là non esci più».

Distrutto, annientato, anche Antonio, il padre di Marcello: «Ci sono Angeli in Paradiso e demoni sulla terra, che mi hanno ammazzato il mio piccolo grande uomo. Rip Marcellino».

Estratto dell’articolo di Claudio Tadicini per corriere.it il 12 luglio 2023.

Ci sono due indagati per omicidio per la morte del dj salentino Ivan Ciullo, in arte Dj Navi, 34enne, trovato impiccato ad un albero nelle campagne di Acquarica del Capo il 22 giugno di 8 anni fa. 

Il pubblico ministero Donatina Buffelli ha infatti cambiato il capo d’imputazione (istigazione al suicidio) nei confronti di un 63enne con cui Ivan aveva avuto una tormentata relazione sentimentale, iscrivendo nel registro degli indagati - oltre allo stesso 63enne - anche un 50enne, amico e collega dello sfortunato disk jockey di Presicce.

[…]  La svolta nelle indagini confermerebbe quindi quanto sostenuto dai genitori del ragazzo, mamma Rita e papà Sergio, da sempre convinti che il ragazzo non si sia tolto la vita, ma che sia stato ucciso. 

Il giallo sulla morte del 34enne, speaker di Radio Salentuosi, ebbe inizio la mattina del 22 giugno 2015, quando fu trovato impiccato con il cavo di un microfono ad un ulivo nelle campagne, alla periferia del paese. Una lettera d'addio ritrovata in auto lasciò pochi spazi ai dubbi degli inquirenti dell'epoca.

Bollata sin da subito come suicidio, la morte del 34enne non ha però mai convinto i familiari, che per due volte si sono opposti a questa versione dei fatti, arrivando anche a denunciare alla procura di Potenza - per omissione d'atti d'ufficio - il precedente pubblico ministero titolare dell'indagine, per il quale il procedimento fu poi archiviato senza opposizione. 

Nel corso degli anni, le perizie dei consulenti di parte avrebbero fatto emergere diverse incongruenze rispetto al suicidio. Si sarebbe trattato, piuttosto, di un suicidio simulato: alcuni segni sul collo sarebbero ritenuti compatibili con uno strangolamento, ma non con il cavo utilizzato per l'impiccagione; i piedi di Ivan toccavano terra ed il corpo era semi-flesso, come se fosse stato appeso; accanto all'albero, poi, c'era uno sgabello, che sarebbe servito al 34enne per impiccarsi, privo di impronte e con i piedi non penetrati nel terreno.

I dati dei gps dell'auto e dei suoi cellulari, inoltre, rivelarono che Ivan non era solo. Mentre quello del veicolo rilevava l'ultima posizione, alle 17.13 del 21 giugno 2015, in località “Calìe” (dove il dj fu poi trovato privo di vita la mattina successiva), quello di uno dei telefonini collocava il cellulare in via delle Rimembranze, a Taurisano, peraltro alle 19.09, orario ritenuto compatibile con quello della sua morte. Lo stesso cellulare, ritrovato nelle tasche del dj, inoltre, sarebbe stato utilizzato fino alle 20.14, prima di essere spento. […]

Acquarica, dj trovato impiccato: pm si astiene, sarà sostituito. Deciderà se andare avanti o chiedere l’archiviazione, l’ennesima, per il caso di Ivan Ciullo, il dj salentino trovato impiccato a un albero di ulivo all’alba del 22 giugno 2015. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Marzo 2023

Sarà un nuovo pm a decidere se andare avanti o chiedere l’archiviazione, l’ennesima, per il caso di Ivan Ciullo, il dj salentino trovato impiccato a un albero di ulivo all’alba del 22 giugno 2015 nelle campagne di Acquarica del Capo, morto suicida secondo la Procura, strangolato per la sua famiglia.

Nei giorni scorsi i legali dei famigliari di Ciullo avevano avanzato al procuratore capo di Lecce richiesta di sostituzione del pubblico ministero Maria Vallefuoco perchè il magistrato risulta parte offesa in un processo in corso davanti al tribunale di Potenza per una presunta aggressione subita nel suo ufficio nel settembre 2019. Si tratta di un procedimento penale in cui sono imputati i genitori di Ivan, Rita Bortone e Sergio Martella. Per questo, secondo i legali richiedenti, il magistrato avrebbe dovuto astenersi già da tempo per incompatibilità personale. E lo scorso 7 marzo il procuratore ha comunicato l’astensione del pm annunciando l’assegnazione del procedimento a un altro magistrato, il terzo, che dovrà occuparsi del caso.

Al nuovo pm toccherà il compito di presentate le proprie deduzioni sulle risultanze dell’incidente probatorio in cui i periti del gip hanno avvallato l’ipotesi suicidaria sostenuta dalla Procura, mentre quelli della famiglia sono arrivati a una diversa conclusione.

Salento, svolta nell'inchiesta per la morte del dj Ivan Ciullo. Il dj fu trovato impiccato ad Acquarica del Capo nel 2015. Cambia il reato ipotizzato nel nuovo fascicolo d’inchiesta: non più istigazione al suicidio ma omicidio. Due gli indagati. REDAZIONE ONLINE l''11 Luglio 2023 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

Arriva la svolta per il caso di Ivan Ciullo, il dj salentino trovato impiccato ad un albero di ulivo all’alba del 22 giugno 2015, nelle campagne di Acquarica del Capo, in Salento. Cambia il reato ipotizzato nel nuovo fascicolo d’inchiesta passato dopo il cambio di due pm ad un terzo magistrato, Donatina Buffelli.

Non più istigazione al suicidio ma omicidio. Nel nuovo fascicolo d’inchiesta compaiono due indagati. Si tratta dell’uomo con cui Ivan ebbe una tormentata relazione sentimentale, finora l’unico indagato nel procedimento e di un cantante musicista del posto, che collaborava col dj. 

La nuova contestazione di omicidio, così come da otto anni stanno cercando di provare i genitori di Ivan, Rita e Sergio, permetterà l’espletamento di due accertamenti irripetibili, fondamentali per l’esito delle indagini e riguarderà una perizia sulla memoria del computer portatile e del cellulare in uso alla vittima. Indagine finalizzata al recupero dei dati contenuti nell’hard disk risultato danneggiato e malfunzionante secondo il perito della Procura a cui venne affidata una prima valutazione già nel 2015 e nel 2016. Ivan aveva 34 anni. Per i periti della famiglia sarebbe stato strangolato per poi successivamente essere impiccato ad un albero per simulare il suicidio. 

Morte del dj Ivan Ciullo in Salento, la svolta nel giallo dopo otto anni: «Non fu suicidio», due indagati per omicidio. Claudio Tadicini su Il Corriere della Sera 11 luglio 2023

Il pubblico ministero ha cambiato il capo di imputazione: sospetti su un 63enne con il quale il dj avrebbe avuto una relazione e un 50enne 

Ci sono due indagati per omicidio per la morte del dj salentino Ivan Ciullo, in arte Dj Navi, 34enne, trovato impiccato ad un albero nelle campagne di Acquarica del Capo il 22 giugno di 8 anni fa. Il pubblico ministero Donatina Buffelli ha infatti cambiato il capo d’imputazione (istigazione al suicidio) nei confronti di un 63enne con cui Ivan aveva avuto una tormentata relazione sentimentale, iscrivendo nel registro degli indagati - oltre allo stesso 63enne - anche un 50enne, amico e collega dello sfortunato disk jockey di Presicce. 

Il pm ha disposto anche l’esecuzione di alcuni accertamenti irripetibili di natura tecnica, che riguarderanno il personal computer ed il cellulare di Ciullo. L’incarico verrà conferito il prossimo 14 luglio.  La svolta nelle indagini confermerebbe quindi quanto sostenuto dai genitori del ragazzo, mamma Rita e papà Sergio, da sempre convinti che il ragazzo non si sia tolto la vita, ma che sia stato ucciso. 

La storia

Il giallo sulla morte del 34enne, speaker di Radio Salentuosi, ebbe inizio la mattina del 22 giugno 2015, quando fu trovato impiccato con il cavo di un microfono ad un ulivo nelle campagne, alla periferia del paese. Una lettera d'addio ritrovata in auto lasciò pochi spazi ai dubbi degli inquirenti dell'epoca. Bollata sin da subito come suicidio, la morte del 34enne non ha però mai convinto i familiari, che per due volte si sono opposti a questa versione dei fatti, arrivando anche a denunciare alla procura di Potenza - per omissione d'atti d'ufficio - il precedente pubblico ministero titolare dell'indagine, per il quale il procedimento fu poi archiviato senza opposizione.

Nel corso degli anni, le perizie dei consulenti di parte avrebbero fatto emergere diverse incongruenze rispetto al suicidio. Si sarebbe trattato, piuttosto, di un suicidio simulato: alcuni segni sul collo sarebbero ritenuti compatibili con uno strangolamento, ma non con il cavo utilizzato per l'impiccagione; i piedi di Ivan toccavano terra ed il corpo era semi-flesso, come se fosse stato appeso; accanto all'albero, poi, c'era uno sgabello, che sarebbe servito al 34enne per impiccarsi, privo di impronte e con i piedi non penetrati nel terreno.

I dati dei gps dell'auto e dei suoi cellulari, inoltre, rivelarono che Ivan non era solo. Mentre quello del veicolo rilevava l'ultima posizione, alle 17.13 del 21 giugno 2015, in località “Calìe” (dove il dj fu poi trovato privo di vita la mattina successiva), quello di uno dei telefonini collocava il cellulare in via delle Rimembranze, a Taurisano, peraltro alle 19.09, orario ritenuto compatibile con quello della sua morte. Lo stesso cellulare, ritrovato nelle tasche del dj, inoltre, sarebbe stato utilizzato fino alle 20.14, prima di essere spento.

Il mistero sulla morte del ragazzo riguardava anche una presunta lettera d'addio (scritta al computer) trovata nella sua auto, con la scritta “X MAMMA E SERGIO” realizzata interamente a stampatello e che, come accertato da una perizia grafologica, fu scritta di suo pugno dallo stesso dj. Una busta strappata e in parte pinzata, che secondo la famiglia sarebbe stata usata in un'altra circostanza e quindi riutilizzata in occasione dell'omicidio di Ivan. 

Dj trovato impiccato a un albero, ci sono due indagati per omicidio. Redazione Lecce Prima l'11 luglio 2023

L’ipotesi originaria era di istigazione al suicidio. Ora cambia il reato e al vaglio della magistratura c’è anche la posizione di un ex collaboratore. Disposta una perizia su computer e cellulare del 34enne deceduto nel giugno del 2015

Ennesimo colpo di scena nell’intricata inchiesta sulla morte di Ivan Ciullo, il dj di Racale 34enne che fu trovato impiccato a un albero di ulivo nella campagna di Acquarica del Capo all’alba del 22 giugno del 2015. Da istigazione al suicidio, ora s’indaga per omicidio, e gli indagati diventano due. Oltre al nome dell’uomo con cui Ciullo aveva avuto una tormentata relazione sentimentale, la nuova titolare del fascicolo, la sostituta procuratrice Donatina Buffelli, subentrata alla collega Maria Vallefuoco, ha iscritto anche il nome di un cantante con cui lo stesso Ciullo aveva collaborato.

La loro iscrizione è stata un atto dovuto per consentire agli stessi interessati di poter partecipare, nominando propri consulenti di parte, agli accertamenti peritali disposti dalla pm sul computer e sul telefono del dj.

A svolgerli sarà un esperto informatico, Salvatore Filograno di Manduria, dopo che nella giornata di venerdì prenderà formalmente l’incarico.

I genitori di Ciullo, Rita Bortone e Sergio Martella, non hanno mai creduto nell’ipotesi del suicidio e in questi anni hanno combattuto duramente, attraverso i loro avvocati Paolo Maci e Gianluca Tarantino, affinché il caso non venisse archiviata

L'omicidio della Milano da bere: così Terry Broome uccise il rampollo. Nel 1984 la modella Usa uccise Francesco D'Alessio: la sua è una storia di abusi, violenza e redenzione in una delle epoche più felici per l'Italia. Rosa Scognamiglio e Angela Leucci il 14 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’omicidio

 Chi era Terry Broome

 La vicenda giudiziaria

La storia dell’omicidio commesso dalla modella Terry Broome è una di quelle vicende di cronaca che restano, per chi c’era, sopite nell’immaginario collettivo. Alla fine del 2022 è tornata in auge per via di un episodio della trasmissione Cronache criminali, di cui sono autrici Flavia Triggiani e Marina Loi, e la produzione di Verve Media Company e Rai Approfondimento. La vicenda è molto affascinante, perché raccoglie in sé la nostalgia degli anni ’80, quel mondo patinato che Bret Easton Ellis svelò come tutt’altro che fatato, umanità che si incontrano e si scontrano sotto l’abuso di droghe, un lutto per una famiglia ma anche la riabilitazione carceraria per chi fu riconosciuta come colpevole.

“Gli anni ’80 - chiarisce a IlGiornale.it Triggiani - segnano l'inizio di una rinascita dopo le lotte politiche e il terrorismo rosso che avevano caratterizzato il decennio precedente. Mi piace dire che Milano stava 'riaccendendo i motori’. E in questa ripartenza la moda faceva da volano per la ripresa economica e sociale, non solo della città meneghina, ma per l'intero Paese. Parallelamente, negli ambienti del jet set milanese, si creò un sottobosco dove il divertimento veniva spesso associato al consumo di droghe e alcol. Nel contesto di quella mondanità fatta di eccessi e sregolatezza si inserì il caso di Terry Broome”.

L’omicidio

La notte del 26 giugno 1984 Terry Broome, modella 26enne originaria del South Carolina, uccise con tre colpi di pistola il 40enne Francesco D’Alessio, figlio di un noto avvocato e proprietario di scuderie. La sera precedente si erano incontrati in una discoteca-epicentro della Milano da bere, il Nepentha. D’Alessio, dopo un primo approccio rifiutato dalla donna, si sarebbe avvicinato al tavolo della modella, in quel momento con il proprio fidanzato, la sorella Donna e il fidanzato di lei, e avrebbe affermato pubblicamente che Broome avrebbe partecipato a un’orgia di 6 persone durante una festa nella casa del finanziere Claudio Cabassi.

Broome era all’epoca impegnata sentimentalmente con Giorgio Rotti, un gioielliere con cui entrò in contrasto a causa di quelle dichiarazioni la stessa notte. I due rientrarono infatti al residence in cui viveva la modella e litigarono: Rotti decise di lasciarla e si riprese l’anello di fidanzamento.

Nella notte Broome, rimasta sola, iniziò a bere e ad assumere cocaina, girovagando per la sua abitazione. Trovò una pistola - una Smith & Wesson .38 Special - di proprietà di Rotti, regolarmente registrata come accade a chi fa un mestiere connesso con oggetti di valore come appunto i gioiellieri, e si recò in un appartamento di Cabassi in cui era certa di trovare D’Alessio.

Questi era in compagnia di una modella, Laura Marie Roiko, ma si appartò con Terry Broome credendo che avesse cambiato idea, che volesse avere un rapporto sessuale con lui. Broome però tirò fuori invece la pistola ed esplose due colpi dapprima in aria, per poi essere attaccata da D’Alessio che cercò di fermarla: fu a quel punto che esplosero i tre colpi letali, uno colpì l'uomo all’addome e uno alla testa. La modella uscì dalla stanza e dapprima consolò Roiko, che si era molto spaventata, e poi fuggì a Zurigo con l’aiuto dell’ex Rotti. Quest’ultimo, quando venne ascoltato dagli inquirenti, disse dove si trovava Broome, che quindi fu arrestata e tradotta in Italia.

Chi era Terry Broome

Broome era una giovane modella giunta in Italia anni prima con l’“esercito” di coetanee aspiranti mannequin giunte dagli Stati Uniti. Una volta nel Belpaese venne quasi travolta dall’edonismo reaganiano che si respirava nella nazione e soprattutto nella sua capitale economica dell’epoca, Milano. Ma insieme alla vita patinata arrivarono le droghe, nello specifico la cocaina, quasi uno status symbol in quel momento storico: consumarla significava che si era arrivati al top.

Su di lei però pesava un passato di abusi. Il padre di Broome, un reduce della guerra in Vietnam, era un alcolista violento. In più la giovane era stata vittima di uno stupro di gruppo a 16 anni: la madre ha sempre negato che quest’orrore fosse avvenuto, mentre il padre le disse che se l’era meritato.

"Terry Broome - racconta Triggiani - aveva un passato molto drammatico ed era una donna con un'evidente fragilità emotiva. La sua vita era punteggiata da una serie di sofferenze, su tutte, lo stupro di gruppo che aveva subito quando era ancora adolescente. La notte del delitto aveva abusato di droghe e alcol, per cui la sua mente era annebbiata. Non era in sé e, purtroppo, durante un'accesa discussione con Francesco D'Alessio, partirono dei colpi di pistola che uccisero il 40enne”.

La vicenda giudiziaria

Nel 1986 quello a Terry Broome fu ritenuto “il processo dell’anno”. “Attorno a questa vicenda - aggiunge Triggiani - si sviluppò un interesse mediatico che oserei definire morboso. Del resto era il riflesso distorto della Milano di quegli anni, fatta di eccessi e mondanità. Era un ‘mix esplosivo’ di ingredienti di cui, fino a quel momento, si conosceva ben poco. Possiamo dire che il caso di Terry Broome squarciò il velo su ciò che avveniva in alcuni ambienti dell'alta imprenditoria milanese”.

Da Dahmer al Dandi: quei criminali troppo affascinanti sullo schermo

La modella apparve durante le udienze serena e struccata, dando di sé un’immagine che colpì positivamente l’opinione pubblica. Ma c’era una persona morta, una famiglia in lutto per Francesco D’Alessio. C'era un reato. E sebbene le perizie attestarono che Terry Broome fosse semi-inferma di mente, a causa dell’assunzione di alcol e cocaina, fu comunque condannata a 15 anni di carcere per l’omicidio di D’Alessio, poi ridotti in appello a 12 anni e mezzo.

Nonostante in seguito avrebbe forse percepito la propria detenzione come effettivamente riabilitativa - fu molto sollevata, avrebbe detto al suo legale, di non essere stata giudicata negli Usa, dove per questo tipo di reati c’era la pena di morte - Broome tentò due volte il suicidio nel carcere di San Vittore e poi in quello di Pavia. Nel 1989 la modella tornò in semilibertà, e fu scarcerata nel 1992, l’anno che cambiò completamente l’Italia. Tornò negli States, lasciandosi definitivamente il passato alle spalle.

“Terry Broome - conclude la regista - era perseguitata da Francesco D'Alessio che, per utilizzare un termine più attuale, le faceva stalking. Probabilmente, con gli strumenti di denuncia che ci sono adesso, non avrebbe pensato di 'farsi giustizia' da sola e, forse, questa tragica vicenda avrebbe avuto un epilogo diverso”.

Davide Cesare «Dax», vent'anni fa l'omicidio: la storia della «notte nera» di Milano. Giuseppe Scuotri su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023

Il 16 marzo 2003 venne ucciso con tredici coltellate il ventiseienne Davide Cesare, conosciuto dagli amici come Dax. Il suo omicidio, avvenuto all’incrocio tra via Brioschi e via Zamenhof, si lascerà dietro una lunga scia di scontri e tensioni

È bastato uno sguardo, da un capo all’altro della strada. Federico, Mattia e Giorgio Morbi, tre simpatizzanti di estrema destra, scrutano Davide Cesare, Alex Alesi, Fabio Zambetta e Davide Brescancin, militanti del centro sociale Orso di Milano. 

Aspettano da giorni l’occasione per vendicare un’aggressione subita. Volano insulti, poi comincia lo scontro. 

Sembra di essere negli anni di piombo, ma è il 16 marzo 2003. A farne le spese quella notte è Davide Cesare, per gli amici «Dax». 

Il ventiseienne, padre di una bambina di 5 anni e mezzo, viene ucciso con tredici coltellate. 

Il suo omicidio si lascerà dietro una lunga scia di scontri e tensioni, segnando una delle pagine più buie nella storia recente del capoluogo lombardo, da molti definita semplicemente «la notte nera».

La vittima 

Davide Cesare ha 26 anni e una vita divisa tra lavoro, famiglia e attivismo politico. È cresciuto a Rozzano con papà Angelo, mamma Rosa e due fratelli più piccoli, Daniele e Claudio. La sua militanza è cominciata nel ’95 tra le file di un gruppo giovanile di destra, Studenti in rivolta.

Gli amici lo descrivono come un gigante buono: «Su di lui puoi sempre contare, non ti fa pesare le sue grane perché è troppo occupato a risolvere quelle degli altri». E di prove, nella vita, ne ha affrontate diverse. Sei anni fa Wendy, la sua fidanzata, ha dato alla luce una bambina, Jessica. In quel momento, Dax ha deciso di abbandonare gli studi da ragioniere per mantenere la sua nuova famiglia: si è trasferito a Ghedi, il piccolo centro del Bresciano dove viveva la compagna, lavorando come operaio e camionista per varie imprese. Qui ha iniziato a frequentare la sezione locale di Rifondazione Comunista.

Quando la relazione con Wendy è terminata, due anni fa, Dax è tornato a Milano. Ora divide un appartamento con alcuni amici e ha un impiego in un’azienda siderurgica di Vimodrone. Nel poco tempo libero va a trovare la figlia e frequenta l’Orso, un’officina occupata in via Emilio Gola, a pochi metri dal Naviglio Pavese. Con i compagni del centro sociale è possibile vederlo spesso passeggiare nella zona tra via Brioschi e via Zamenhof.

Federico, Mattia e Giorgio Morbi 

La famiglia Morbi abita in un condominio a poche decine di metri da quell'isolato. Giorgio, 53 anni, è un dipendente della Sea, l’azienda che gestisce gli aeroporti di Malpensa, Linate e Orio al Serio. È sposato con Liliana e ha due figli, Federico e Mattia, di 29 e 17 anni. I ragazzi sono artigiani: gestiscono un laboratorio di pelletteria nel quartiere. Nessuno tra loro è iscritto a formazioni politiche, ma le loro simpatie per l’estrema destra non sono un mistero: in casa sono esposti diversi oggetti che rimandano al Ventennio, tra cui un busto in bronzo di Mussolini. Federico e Mattia vanno in giro con il look tipico degli skinhead: bomberone e capelli rasati quasi a zero. Persino il loro cane di famiglia, un rottweiler di ottanta chili, è stato chiamato Rommel, come il generale nazista. Proprio il nome dato all’animale sarà la scintilla della drammatica catena di eventi che porterà alla morte di Dax.

L’antefatto 

È la sera di lunedì 10 marzo. Federico è uscito con Rommel al guinzaglio. È solo, nel breve tragitto da casa sua al parchetto passa  in via Zamenhof. Qualcuno lo sente chiamare il cane. Quel particolare tradisce la sua appartenenza politica. «Ma che nome gli hai dato? Nazista!». Vola qualche insulto, ma la cosa finisce lì e il ragazzo prosegue per la sua strada. Dopo pochi minuti, Federico viene raggiunto e aggredito a calci e pugni da un gruppo di ragazzi. Sono almeno in dieci, dirà alla polizia il giorno dopo. Riporta lesioni di lieve entità, viene medicato al pronto soccorso e dimesso. Si rimetterà completamente in cinque giorni, ma quell’episodio lo segna. Quella storia non finirà lì.

L’aggressione

La settimana passa senza particolari sussulti. Arriva il 16 marzo, una domenica sera come tante, i locali del Ticinese sono pieni. Federico e Mattia escono di casa, seguiti dopo pochi minuti dal padre con Rommel. Davide sta passando quelle ore in compagnia di tre amici dell’Orso. Attorno alle 23.30, i due gruppi si incrociano su via Zamenhof: si riconoscono, partono gli insulti. «Fascista!», «Comunista!». La situazione degenera in pochi minuti, i fratelli Morbi tirano fuori i coltelli. Federico colpisce Davide con tredici fendenti: sei alla schiena, sei al torace, uno fatale alla gola. Lui barcolla, poi si accascia privo di sensi sul marciapiede. 

Nello scontro restano feriti anche Antonino «Alex» Alesi, raggiunto da otto coltellate, e Fabio Zambetta, colpito in modo più lieve alla spalla sinistra e alla schiena. La furia dei Morbi sui tre malcapitati, bersagliati con calci e pugni anche se sanguinanti e riversi a terra, si placa solo al sopraggiungere di altre persone.

Richiamati dalle urla, decine di ragazzi si ammassano attorno ai feriti. Dopo pochi minuti arrivano anche le forze dell’ordine. C’è tensione: gli agenti faticano a tenere il cordone di sicurezza, volano insulti e spintoni. I mezzi di soccorso sono rallentati dalla strada ostruita, cosa che accende ancor di più gli animi. Alla fine i sanitari si districano a fatica tra la folla e caricano i ragazzi sull’ambulanza. I Morbi nel frattempo si sono allontanati, ma nella ressa c’è chi li ha riconosciuti. Di nuovo, c’è chi ha ben impresso un particolare: un cane di nome Rommel.

Gli scontri al San Paolo 

Mentre l’ambulanza corre verso l’ospedale San Paolo, in città i telefoni dei militanti di estrema sinistra iniziano a suonare. «Hanno accoltellato un ragazzo dell’Orso, scendi!», il passaparola è veloce ed efficace. I primi a presentarsi al pronto soccorso, presidiato da alcune pattuglie di polizia e carabinieri, sono gli amici delle vittime. Diventano quaranta, in meno di un’ora sono quasi un centinaio. Molti cercano di entrare, chiedono con insistenza dei loro compagni. Al San Paolo, però, Dax è arrivato senza vita. Leggendo la situazione, i medici tentano di non far filtrare subito la notizia, finché dall’edificio non esce un ragazzo che grida: «È morto, è morto!».

Questa volta basta poco: qualche provocazione, uno spintone di troppo e il nervosismo della folla esplode in uno scontro aperto. Le forze dell’ordine, inizialmente sopraffatte numericamente, chiamano rinforzi e caricano i presenti. Persone coperte di sangue entrano nel pronto soccorso in cerca di cure e riparo, nascondendosi anche dietro le barelle dei pazienti in attesa. Alla fine si conteranno decine di feriti da entrambe le parti. La situazione si calma solo intorno alle 2 con l’arrivo della Digos: incoraggiati dall’avvocato Mirko Mazzali, molti dei presenti iniziano a collaborare, raccontando agli agenti cos’hanno visto in via Brioschi.

L’arresto 

Sono le cinque del mattino. Il campanello di casa Morbi suona con insistenza. È la Digos: le testimonianze raccolte in poche ore sono bastate a individuare in Giorgio, Federico e Mattia i responsabili dell’aggressione. I tre capiscono subito e fanno poche storie: «Ieri sera siamo stati aggrediti, stai calma», dicono a Liliana che, incredula e spaventata, resta sola in casa con Rommel. Per la seconda volta, il nome del rottweiler si è rivelato una traccia fondamentale per arrivare ai suoi padroni, a cui vengono sequestrati degli abiti macchiati di sangue e una serie di oggetti che rimandano al ventennio.

Una città col fiato sospeso 

Nei giorni successivi su Milano cala una cappa di tensione. Omicidi politici, rossi contro neri: paure che sembravano sopite da decenni serpeggiano di nuovo tra le strade del Ticinese. Sono in molti a temere che la spirale di violenze e ritorsioni possa durare a lungo. Segnali e pretesti non mancano: nel quartiere appaiono numerose scritte contro la famiglia Morbi e il 18 marzo, per un curioso caso, è in programma una manifestazione per ricordare Fausto e Iaio, due militanti di sinistra uccisi venticinque anni prima. In quest’occasione Rosa Piro, la madre di Davide, tenta di placare gli animi: «Al sangue non si risponde col sangue», dirà ai tanti giovani presenti. Un appello, questo, che ha continuato a rinnovare in ogni occasione.

Il processo 

In tribunale, intanto, gli imputati scelgono la formula del rito abbreviato. Il maggiore dei fratelli Morbi consegna ai magistrati una lettera in cui confessa di aver ucciso Davide e chiede perdono per le proprie azioni. Le sentenze arrivano un anno dopo, nel maggio del 2004: Federico viene condannato a sedici anni e otto mesi di reclusione. Suo padre Giorgio, riconosciuto colpevole del tentato omicidio di Antonino Alesi, a tre anni e quattro mesi di carcere. La sentenza più mite è quella emessa dal Tribunale dei minori per Mattia: tre anni di messa in prova in una comunità di recupero. Alla famiglia Cesare, rappresentata da Mirko Mazzali e Giuliano Pisapia, viene riconosciuto un risarcimento complessivo (mai versato dagli imputati) di 350 mila euro.

L’eredità di Dax 

Oggi è possibile imbattersi in Dax un po’ dovunque a Milano. Il suo nome e il suo volto campeggiano nei murales lungo la Darsena e su volantini e striscioni di tante manifestazioni di sinistra, come quelle in programma in sua memoria il 16, 17 e 18 marzo. La sua è un’eredità complessa, non sempre condivisa, in cui l’aspetto ideologico rischia di prevalere su quello umano. 

«È complicato dire se sia stato un omicidio politico nel senso stretto del termine – afferma Mirko Mazzali –. È vero che i Morbi non avessero alcuna affiliazione politica, ma nessuno tiene in casa un busto di Mussolini per caso. Al di là di tutto, mi piace pensare che il nome di Davide oggi rappresenti valori positivi. Lo scorso otto marzo, ho sentito un corteo femminista gridare "Dax è vivo e lotta insieme a noi". Erano ragazzine che all’epoca dei fatti non erano ancora nate. Mi è rimasto impresso. Vuol dire che se ne parla ancora, che il ricordo resiste ed è diventato un simbolo».

Il fallimento, il podere conteso, l’amante e la morte di Tino, ucciso con un bitter avvelenato. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023

Fu una delle storie più discusse degli Anni 60, con partiti di innocentisti e colpevolisti: da una parte la moglie della vittima; dall’altra il suo amante, che prima di uccidere il rivale aveva cercato di “comprarla”

«Caro signore, poiché avremmo intenzione di lanciare questo nuovo aperitivo, offrendole la rappresentanza nella sua zona, ci permettiamo di disturbarla con l’invio di un campione. Provi ad assaggiarlo. Un nostro incaricato verrà a trovarla per conoscere il suo parere. Vogliamo sapere se è di suo gusto e se l’ha trovato gradevole al palato». Il nome sul pacco era quello di Tranquillo Allevi, detto Tino, un mansueto commerciante in latte e formaggi novarese. Da due anni, Tino viveva con la moglie Renata e i due figli ad Arma di Taggia, un posto lontano dalle risaie scelto per rifarsi una verginità dopo un fallimento e qualche litigio coi fratelli per un podere conteso.

Era il 1962, l’ingenuità è peccato senza epoca: convinto di essere conosciuto dalla San Pellegrino come imprenditore capace, Allevi pensò di aver pescato la carta vincente. «Tino era un buono, magari un po’ facilone», dicevano gli amici. Certo: la scatola non originale e imbottita di trucioli, la bottiglia chiusa manualmente, l’etichetta Bitter ritagliata e incollata avrebbero dovuto insospettire. Non lui. La sera seguente la consegna, il 25 agosto, Tino chiamò i soci Arnaldo e Isacco per farsi una bevuta gratis, con quel nuovo prodotto destinato a invadere bar e circoli di tutta Italia e - chissà - a fargli finalmente guadagnare un bel po’ di soldi.

Il mistero

Pochi minuti dopo, per i viottoli di Arma, tre uomini accalorati si contorcevano dal dolore. Li soccorse un vigile urbano, lì per lì convinto di avere a che fare con degli ubriaconi ma Allevi diceva che no, che gliela «avevano fatta». Era stato avvelenato. Gli altri si salvarono con una lavanda gastrica, lui morì dopo qualche ora: il referto autoptico rilevò una quantità di stricnina letale e i carabinieri partirono da quella bottiglia, malamente inscatolata, per tentare di capire chi avesse desiderato la morte di Tino. Il timbro indicava l’ufficio postale della stazione centrale di Milano, con data 23 agosto. Troppo poco. Ma l’atteggiamento di Renata Lualdi, la vedova, non passò inosservato. Troppo composta, come se si aspettasse che il marito potesse essere nei peggiori pensieri di qualcuno. Ammise di aver avvertito della scomparsa un estraneo, tale Renzo Ferrari. Veterinario e vicesindaco di Barengo, il paesino di Giampiero Boniperti, quattro case nelle campagne di Novara. Da anni, curava le mucche dell’azienda Allevi e, siccome la donna era «isolata, sola e trascurata» - parole del dottore - si era fatto carico anche delle sue lacune sentimentali. Di più: i due erano stati scoperti in atteggiamenti intimi sul greto del fiume Terdoppio proprio dal defunto marito e quel precipitoso trasferimento in riva al mare suonava come una fuga, nel tentativo di svincolare la signora Renata dalle attenzioni di Ferrari.

Delitto passionale

Era una pista sostanziosa per un omicidio definito «passionale». I carabinieri convocarono Ferrari a Sanremo e gli chiesero conferma della relazione, ammessa tra una fitta maglia di reticenze per minimizzare un rapporto clandestino che andava avanti da sei anni. Sì, Lualdi era una sua conquista ma una delle tante. Sì, la frequentava anche dopo l’allontanamento da Novara, si era trovato una consulenza dalle parti di Imperia. No, non era amore ma solo attrazione fisica. Il 23 agosto Ferrari era a Milano ma per un fugace impegno all’università. Venne arrestato. Servì più di un anno per impacchettare un atto di accusa per omicidio pluriaggravato, Ferrari gridava la sua innocenza dicendo che «solo un matto» avrebbe potuto architettare un delitto del genere. Forse, era sufficiente uno sciocco: l’imputato sparpagliò indizi ovunque. Il farmacista di Momo, il paese accanto a Barengo, testimoniò che Ferrari era passato a comprare sei fiale di stricnina. «Per curare un cavallo, anzi no, un maiale e una mucca» del tale allevatore, i cui animali vennero esaminati senza rinvenire tracce del farmaco. La carta usata per compilare il biglietto di invito ad assaggiare il Bitter era identica a quella in uso al Comune di Barengo; il messo ricordò di aver visto Ferrari chiuso in ufficio per ore a battere a macchina con la sua Olivetti Lexicon 80. Sequestrato, l’aggeggio venne identificato come la fonte della lettera. L’etichetta San Pellegrino sulla bottiglia proveniva da una rivista di settore per veterinari.

La vedova nel mirino

Ciononostante, la stampa si buttò sulla storia soffermandosi sullo smalto per unghie «grigio lunare e il rossetto adolescenziale color pesca» della vedova e, non si sa come, riuscì a creare due partiti di forza diseguale: alcuni colpevolisti e tanti, invece, che più ancora di credere all’innocenza di Ferrari lamentavano l’inaccettabile condotta morale di Renata Lualdi. Per loro, era quello il vero reato che aveva condotto Tino alla morte. I fotografi la seguivano ad Arma mentre faceva la spesa, le facevano la posta sotto casa. La gente la insultava per strada dandole della sgualdrina, quando non dell’assassina. Al paese di Ferrari, per contro, i cronisti comprovavano l’ampia solidarietà verso l’imputato, colpevole al più di aver aggiunto ai suoi trofei di caccia la donna sbagliata. Dopo lunghi silenzi e una costituzione di parte civile contro l’amante assassino, la donna al processo reagì: «Ho fatto le stesse cose di molte altre. L’unica differenza è che, di me, si sa tutto». Raccontò di essersi sposata per provare a sistemarsi e che Tino, la sera, non le faceva mai fare niente: «Alle nove di sera cascava sempre dal sonno». Ecco perché si era buttata nelle braccia di quel cascamorto, divenuto sempre più assillante con gli anni; ma mai poteva pensare che Ferrari potesse arrivare ad ammazzarle il marito. In aula, tra una sigaretta e uno sbadiglio, l’accusato arrivò a rispondere a un’inviata che si lamentava della stanchezza: «Sono un medico, se vuole ho un rimedio: una notte con me e vedrà, dormirà tranquilla».

La grazia di Cossiga

Prese trent’anni in primo grado e l’ergastolo in appello, da scontare prima a Pianosa poi in Emilia dove, da semilibero, lavorò in Parmalat. Nel 1981 chiese la grazia e, cinque anni dopo, il presidente Cossiga gliela riconobbe. Andò a morire di ictus nella casa di famiglia, due anni più tardi. Durante un’udienza, la sorella della vittima aveva spiegato di aver ricevuto una confidenza da Allevi, poco prima della morte. Che quel veterinario gli aveva proposto di lasciargli «in uso» la moglie a tempo indeterminato, così recita l’atto, in cambio di quattro milioni di lire: mezzo milione di euro, con la rivalutazione.

ALMA SHALABAYEVA (di Claudio Sebastiani e Angela Rotini) (ANSA giovedì 19 ottobre 2023)

Assoluzioni tutte annullate e un nuovo processo d'appello da celebrare a Firenze: è la decisione della Cassazione sulla vicenda giudiziaria di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, espulsa verso il Kazakhstan nel 2013 insieme alla figlia Alua e poi entrambe tornate in Italia.
Una sentenza che annulla quella della Corte d'appello di Perugia, che assolse gli imputati con la formula "perché il fatto non sussiste", la quale a sua volta aveva ribaltato il giudizio di primo grado e dispone un nuovo esame del procedimento che coinvolge tra gli altri i poliziotti Renato Cortese e Maurizio Improta, che nel maggio del 2013 guidavano la squadra mobile e l'ufficio immigrazione della questura di Roma, nonché alcuni loro collaboratori dell'epoca.

Accolto quindi il ricorso della procura generale del capoluogo umbro guidata da Sergio Sottani. Oltre a Improta e Cortese, nel processo sono coinvolti l'allora giudice di pace Stefania Lavore (il coinvolgimento della quale ha portato il fascicolo a Perugia per competenza), gli ex funzionari della mobile romana Luca Armeni e Francesco Stampacchia e quelli dell'ufficio immigrazione Vincenzo Tramma e Stefano Leoni. Era il 28 maggio del 2013 quando Alma Shalabayeva venne fermata dalla polizia mentre si trovava in una villa a Casalpalocco, a Roma, dove gli agenti stavano cercando il marito, il dissidente kazako Mukhtar Ablyazov.

Alla donna venne contestato il possesso di un passaporto falso e, pochi giorni dopo, fu espulsa insieme alla figlia di sei anni. Entrambe vennero imbarcate e fatte partire su un aereo diretto in Kazakistan. Espulsione revocata il 5 luglio, dopo che Ablyazov si era appellato all'allora premier Letta. Pochi giorni dopo la procura di Roma aprì un'inchiesta su presunte irregolarità nell'espulsione di Shalabayeva, fascicolo poi assegnato per competenza ai pm di Perugia.

Nel dicembre del 2013 l'allora ministro degli esteri, Emma Bonino, riuscì ad ottenere il rientro in Italia delle due espulse alle quali venne riconosciuto lo status di rifugiate. Per i giudici di primo grado il trattenimento di Alma Shalabayeva e della figlia Alua, fu un evento che "sarebbe preferibile definire un 'crimine di lesa umanità" e rappresentò "una ipotesi di patente violazione dei diritti fondamentali della persona umana".

Di diverso avviso i giudici d'appello che nella motivazione della sentenza di assoluzione hanno sostenuto come fosse "radicalmente insostenibile" che la polizia italiana avesse concorso alla "deportazione" di Alma Shalabayeva e della figlia Alua. Decisione impugnata dalla procura generale che ha contestato la decisione assolutoria ritenendo che la sentenza "appare viziata" per avere dichiarato innocenti gli imputati, "senza procedere al riascolto di testimoni di accusa, ritenuti tutti inattendibili". Ora il nuovo processo è da celebrare a Firenze, in quanto Perugia ha una sola sezione di Corte d'appello. 

CASO SHALABAYEVA. “Un romanzo senza prove”. La corte d’Appello fa a pezzi il processo al superpoliziotto Cortese. Enrico Bellavia su L’Espresso il 15 Marzo 2023

L’uomo che catturò Provenzano era stato condannato a cinque anni per il rimpatrio della moglie del sedicente dissidente kazako Ablyazov. Depositate le motivazioni dell’assoluzione arrivata in secondo grado. L’investigatore si era dovuto dimettere da questore di Palermo

«Lunare, incomprensibile», «radicalmente insostenibile», «nulla di dimostrato». In 345 pagine di motivazioni, la corte d’Appello di Perugia, presieduta da Paolo Micheli fa a pezzi la sentenza di condanna in primo grado per sequestro di persona dei poliziotti protagonisti, loro malgrado, del cosiddetto caso Shalabayeva.

Si tratta della vicenda che costò la poltrona da questore di Palermo al superpoliziotto Renato Cortese, oggi a capo dell’ufficio ispettivo del Viminale. L’uomo che aveva catturato il boss Bernardo Provenzano fu infatti travolto dall’accusa e condannato in primo grado, il 14 ottobre 2020, dal tribunale presieduto da Giuseppe Narducci, a cinque anni, prima di vedersi riabilitato in appello, ma soltanto il 9 giugno dell’anno scorso.

La storia ruota intorno al rimpatrio in Kazakistan, nel maggio 2013 della moglie e della figlia del sedicente dissidente Muktar Ablyazov, latitante in ambito internazionale. A maggio del 2013 a Roma fu condotta una perquisizione nella villa di Casal Palocco a Roma dove si riteneva che il ricercato si trovasse. L’irruzione non diede l’esito sperato. Ma tra le persone presenti, la moglie, presentò un documento che appariva palesemente contraffatto e si accreditò come Alma Ayan. Per questa ragione, priva di un titolo regolare per rimanere in Italia, fu accompagnata al Centro di identificazione ed espulsione, il Cie di Ponte Galeria, e da lì rimpatriata con la figlia su un aereo che l’ambasciata kazaka aveva noleggiato per l’occasione. Mai la donna, né i suoi legali esibirono i documenti autentici, né fu richiesto asilo politico.

L’espulsione avvenne secondo una procedura legittima e perfettamente aderente alla legge, ribadiscono ora in più passaggi i giudici d’appello.

Ma torniamo all’estate del 2013: a rimpatrio avvenuto deflagrò la bomba mediatica innescata dalla famiglia di Ablyazov e largamente accolta dall’opinione pubblica. L’idea prevalente fu che in ossequio a un regime dispotico, allora in ottimi rapporti con Putin, il Viminale avesse svenduto la sovranità nazionale consentendo la deportazione di una donna e di una bambina in un Paese canaglia. Era il tempo del governo delle larghe intese di Enrico Letta e il bersaglio era il ministro dell’Interno Angelino Alfano. Quest’ultimo, per cavarsi d’impaccio, confinò il presunto scandalo nel recinto di un vuoto di comunicazioni verso il suo Gabinetto da parte della polizia.

Il capo dello staff del ministro diede le dimissioni, ma, mancato il bersaglio principale, la polemica non cessò. L’indagine, aperta a Roma, dalla stessa procura che aveva dato il nulla osta al rimpatrio della donna, passò a Perugia quando, dopo la pronuncia della Cassazione che si espresse per l’illegittimità del rimpatrio, fu indagata la giudice Stefania Lavore chiamata a esprimersi sul trattenimeto al Cie di Alma Shalabayeva.

Alla fine, cessato il clamore, in assenza di pesci grossi, le vittime della tempesta rimasero l’allora capo della Squadra Mobile di Roma, Cortese, l’allora dirigente dell’ufficio immigrazione Maurizio Improta, quattro loro collaboratori e la giudice.

Fino alla sentenza di primo grado i contraccolpi furono relativi. Cortese arrivò a guidare la questura di Palermo, Improta quella di Rimini, ma quando il tribunale raddoppiò le richieste dell’accusa, le cose cambiarono e iniziò un calvario fatto di attesa di giustizia e sostanziale inattività. Con il peso di un’accusa odiosa e lo stigma consacrato nella sentenza di primo grado di aver svenduto il proprio giuramento alla Costituzione.

Ma nulla di quanto sostenuto dal tribunale «sta in piedi», sostengono invece i giudici di appello. Che sottolineano come «fuori dai romanzi» e dentro un processo penale vi sia bisogno di prove. Che qui sono mancate. La vicenda kafkiana descritta dal tribunale secondo il quale Cortese e soci avrebbero obbedito agli ordini di superiori per compiacenza resta non solo indimostrata ma illogica. Dal momento che manca la motivazione. Perché avrebbe dovuto compiacere i kazaki, «stendere un tappeto rosso dinanzi alle pretese illegittime o addirittura illecite, dei diplomatici dì un Paese che - sia detto con il dovuto rispetto - non era di certo una super-potenza sul piano degli equilibri politici internazionali?», si chiede la corte d’Appello. Dal momento che ammesso che avessero voluto acquistare benemerenze verso i superiori «di titoli per fare carriera essi ne avevano già, di benpiù elevata consistenza e validi». «Rimanendo al Cortese (che, in difetto di prove su regie di livello superiore, dovrebbe risultare il vertice italiano della congiura), è seriamente sostenibile che, compiacendo i kazaki con i quali avrebbe agito d'intesa, egli poté pensare di diventare meritevole di incarichi di maggior prestigio rispetto a quello che aveva?

O non è, piuttosto, ben più logico ipotizzare che divenne poi questore di Palermo per ben altre, note, legittime e incontestabili ragioni, pacificamente preesistenti?».

Domande, volutamente lasciate in sospeso per bollare la ricostruzione di primo grado come qualcosa che «rasenta l'assurdità».

La vicenda Shalabayeva sta tutta nella scelta di Alma che «fu clamorosamente arbitro del proprio destino, perché soltanto decidendo di esibire uno dei documenti validi di cui era titolare e che invece rimase nelle sue tasche (o in quelle dei suoi difensori) avrebbe subito bloccato qualsivoglia piano malevolo che oggi pretende di descrivere come ordito ai suoi danni su scala internazionale».

Passando in rassegna gli argomenti del tribunale, i giudici di appello li demoliscono in sequenza, contribuendo a smontare il profilo da dissidente che Ablyazov si era dato.

I giudici insistono poi sulle contraddizioni emerse già in primo grado. La più vistosa è che fu proprio Cortese, in teoria artefice del complotto, a indicare all’avvocato della donna il nome del pm che stava seguendo il caso del passaporto e al quale rivolgersi nell’eventualità di impedire il rimpatrio.

Demolito pure l’argomento fatto proprio dal tribunale secondo il quale non fu Alma Shalabayeva a insistere su un nome palesemente falso ma la polizia a voler confondere le acque non rappresentando con sufficiente chiarezza che la donna era proprio la moglie di Ablyazov così da ingannare l’autorità giudiziaria. «Dove sono il nascondimento, il sotterfugio, la volontà di trarre in inganno, se solo un minus habens avrebbe potuto non comprendere che quella donna era senz'altro la compagna del latitante sfuggito alla cattura, già identificata in passato come Alma Shalabayeva ma che ora insisteva pervicacemente nel sostenere di chiamarsi Alma Ayan, usando un passaporto con pagine strappate, caratteri non originali e strafalcioni in inglese?», scrivono i giudici. Che concludono: «Pare alla Corte, in buona sostanza, che - prima ancora di essere infondato - questo profilo dell'accusa sia oggettivamente lunare e incomprensibile, già in termini di elementare buon senso».

Reggio Emilia, morto nel pozzo: “Fine disumana di Giuseppe Pedrazzini per colpa loro”

I fratelli e i familiari di Giuseppe Pedrazzini dopo l’esito dell’autopsia: "Non l’avranno gettato dentro vivo, ma non l’hanno curato a dovere"

Toano (Reggio Emilia), ilrestodelcarlino.it 20 marzo 2023 - Ogni volta che emergono nuovi dettagli legati alla tragica vicenda che ha portato all’incomprensibile morte del 77enne Giuseppe Pedrazzini di Cerrè Marabino (Toano), per i familiari dell’anziano scomparso significa rinnovare il dolore per una ferita mai chiusa. "Una fine disumana", dicono; la cui responsabilità, al di là delle ricostruzioni fatte dal punto di vista legale con riferimento a questo o a quel reato, per i parenti stretti del defunto, ricade sulla stessa famiglia della vittima: la figlia Silvia con il marito Riccardo Guida e la moglie Marta Ghilardini. L’anziano fu ritrovato morto in fondo a un pozzo vicino a casa l’11 maggio 2022; il pozzo era chiuso con un pesantissimo disco di pietra.

Da quanto emerso nelle scorse ore l’autopsia parrebbe aver escluso il reato più grave, quello dell’omicidio, in quanto i referti degli esami confermerebbero la morte naturale.

"Personalmente devo dire di non aver mai avuto il coraggio di pensare che mio cognato l’avessero buttato nel pozzo vivo – afferma la cognata Paola –; è un fatto inimmaginabile, da fuori di testa. Nessuno di noi parenti si è costituito come parte civile, ci auguriamo che la giustizia faccia il suo corso e che faccia emergere la verità sull’ultimo periodo di vita di Giuseppe. Siamo stati coinvolti fin dall’inizio delle indagini sulla scomparsa di Giuseppe e proprio per questo abbiamo ritenuto opportuno tutelarci con la nomina di un legale, però noi aspettiamo solo il risultato del processo, sarà ancora lungo, vogliamo sapere come è morto".

I fratelli Pedrazzini e i nipoti – che si sono sempre sostenuti a vicenda con lo spirito fraterno tipico di una famiglia all’antica molto unita, che si è trovata di fronte a una tragedia inaudita – chiedono soltanto di conoscere come sia morto Giuseppe a 77 anni. "Quali malattie? – incalzano –.Non hanno mai chiamato il dottore per farlo curare e anche per questo loro sono responsabili". "Certo, non l’avranno buttato vivo nel pozzo – prosegue la cognata – però era a casa loro, evidentemente non l’hanno curato. Non ci hanno mai fatto sapere nulla; anzi a noi parenti, quando cercavamo di avere notizie, ci dicevano che stava bene e non ci facevano mai parlare al telefono con lui. Era segregato, ci raccontavano un sacco di storie fino alla macabra scoperta del pozzo. Ormai è passato un anno, mio marito e gli altri fratelli non trovano neanche più la forza di parlare del fratello Giuseppe, la fine che ha fatto resta per loro un tormento, qualcosa di disumano e inconcepibile".

La moglie di Pedrazzini, Marta Ghilardini, indagata assieme alla figlia e al genero per omicidio, truffa ai danni dello Stato (avrebbero indebitamente continuato a percepire la pensione) e occultamento di cadavere, ha l’obbligo di firma. Gli altri due indagati, invece – assistiti dall’avvocato Ernesto D’Andrea che ha già annunciato la richiesta di scarcerazione – sono detenuti in carcere. "La mia assistita – spiega il suo legale, Rita Gilioli – ha una posizione diversa rispetto a figlia e genero: non aveva bisogno della pensione del marito per sopravvivere, ha la sua pensione e immobili di proprietà. Ha collaborato con la giustizia e nelle sue dichiarazioni aveva già detto che Pedrazzini era morto l’8 marzo di morte naturale e che non gli era stato somministrato nulla per accelerare la morte. L’autopsia gli ha dato pienamente ragione. E così viene confermata la sua collaborazione".

Giuseppe Pedrazzini trovato morto nel pozzo: non è stato ucciso. La figlia e il genero sono in carcere. Mauro Giordano e Margherita Grassi su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2023.

A Toano (Reggio Emilia) l'anziano di 77 anni venne trovato cadavere: anche la moglie è indagata insieme alla coppia per sequestro, omicidio e soppressione di cadavere: il corpo venne coperto con una lastra di pietra

Giuseppe Pedrazzini è deceduto per «morte naturale improvvisa» ed è risultato negativo ai test tossicologici. Queste le considerazioni finali del dottor Franco Marinelli, incaricato dal sostituto procuratore Piera Cristina Giannusa di eseguire l’autopsia sul corpo del 77enne trovato cadavere lo scorso 11 maggio in un pozzo profondo 8 metri e coperto da una lastra di pietra del peso di 144 chili, sul retro dell’abitazione di famiglia a Cerrè Marabino di Toano. 

L'esito dell'autopsia: è stata una morte naturale

Da quanto trapela rispetto all’esito dell’esame, il decesso dell’uomo «è da collocarsi tra il 18 febbraio e il 17 marzo 2022» ed è conseguito ad un «evento funzionale cardiaco aritmico» insorto su un grave quadro di problematiche generalizzate, tra le quali forti dolori muscolari. A metà dello scorso dicembre la Cassazione aveva respinto il ricorso della difesa della figlia e del genero dell’uomo, indagati per sequestro, omicidio e soppressione di cadavere così come la moglie del 77enne. Silvia Pedrazzini e Riccardo Guida sono quindi tornati in carcere, Marta Ghilardini ha l’obbligo di firma e dimora. 

L’avvocato della coppia, Ernesto D’Andrea, è in attesa delle motivazioni della decisione della Suprema Corte per capire come muoversi. Ai tre è contestato di aver tenuto l’uomo segregato in casa per diverse settimane per poi sbarazzarsi del cadavere gettandolo nel pozzo e sono indagati anche per truffa ai danni dello Stato perché avrebbero continuato per qualche mese a percepire la sua pensione. «Attendo la comunicazione delle motivazioni della Suprema Corte – ha spiegato D’Andrea ad alcune testate locali – e poi farò immediatamente una nuova istanza di scarcerazione al Gip di Reggio. Alla luce di quanto è emerso dall’autopsia, il quadro dell’indagine muta in modo significativo. Pertanto, è evidente che le esigenze cautelari (il pericolo di reiterazione del reato, ndr) che trattengono tuttora in carcere i miei assistiti si sono completamente sgretolate. Devono riacquisire la piena libertà».

Estratto dell’articolo di Valentina Errante per “il Messaggero” il 3 aprile 2023.

Tutti ignari. Nessuno sapeva. Per la procura, non solo la moglie, Arianna Iacomelli, e il fratello Tommaso, che pure avevano beneficiato delle elargizioni di Massimo Bochicchio ed erano finiti indagati per riciclaggio, erano all'oscuro delle truffe milionarie del broker. Ma persino il suo socio, Sebastiano Zampa, per il quale era stata ipotizzata la truffa, era «un ignaro strumento nelle mani di Bochicchio».

 Così il pm Alessandro Di Taranto, chiuso il filone principale dopo la morte di Bochicchio, ha deciso di chiedere l'archiviazione per tutte e tre le posizioni. Adesso gli avvocati Paola Severino e Cesare Placanica, che rappresentano una trentina di vittime, dall'allenatore Antonio Conte ai calciatori Stephan El Shaarawy e Patrice Evra, avranno venti giorni di tempo per opporsi all'archiviazione. Un passo che sembra scontato. […]

Per il pm, Zampa, socio del broker dal 2014, non sapeva, perché quando erano già partite le indagini si rivolgeva preoccupato a Bochicchio che lo rassicurava […] E il pm conclude: «Zampa appare un ignaro strumento nelle mani di Bochicchio, al pari di altri soggetti, per esempio Rodolfo Errani, per la formazione della formale dirigenza di veicoli esteri riconducibili a Bochicchio e comunque per la raccolta di denaro da investitori ingolositi da importanti profitti, senza che se ne possa dimostrare la sussistenza dell'elemento psicologico del reato».

La stessa cosa vale per la moglie e il fratello. Sulla Iacomelli il pm chiarisce che, sebbene avesse «ricevuto da Bochicchio due bonifici dell'importo di 520mila euro e 70mila euro (entrambi nel 2020 ndr) nel periodo in cui si palesava la progressiva insolvenza del broker, che, pur continuando a svolgere l'attività di raccolta di capitali in Italia, prendeva tempo a fronte delle richieste di restituzione dei capitali investiti da altri soggetti», non emergono elementi dai quali risulti la consapevolezza della donna dell'attività posta in essere dal marito che, anzi, al telefono la rassicurava.

Rimangono, però, sotto sequestro 10 milioni di euro circa, poca cosa rispetto agli 80 milioni svaniti. Sarà il Tribunale civile a stabilire se debbano essere assegnati alle vittime della truffa. Poi c'è il patrimonio nel Regno Unito, con il procedimento aperto davanti alla Corte di Londra che, su richiesta dei truffati, ha congelato altri beni, non ultimo l'appartamento di 200 metri quadrati a Holland Park. E gli avvocati delle parti offese non sembrano disposti a mollare.

Massimo Bochicchio, processo estinto «per morte del reo»: ai creditori non saranno restituiti i soldi investiti. Redazione Roma su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2023.

Resta aperto  solo il filone d'indagine «per istigazione al suicidio»: qualcuno spinse il broker a schiantarsi contro un muro dell'aeroporto dell'Urbe, forse per vendetta?

Non vedranno un centesimo di quanto investito i tanti nomi noti che hanno riposto la loro fiducia in Massimo Bochicchio, il broker morto alle 11.30 di domenica 19 giugno sulla Salaria in un incidente di moto:  il 5 ottobre scorso i giudici della VII sezione collegiale del Tribunale di Roma hanno dichiarato estinto il processo «per la morte del reo». Il broker doveva rispondere delle accuse di esercizio abusivo della professione e riciclaggio, ma ora i settanta milioni dovuti a nomi importanti della società e dello sport, una consistente rappresentanza del bel mondo romano, resteranno per sempre per parecchi vip solo un brutto ricordo. 

Neanche la moglie, l'ex miss Italia Arianna Iacomelli, risponderà di quanto accaduto (chiesta l'archiviazione anche per lei e per Tommaso Bochicchio, fratello di Massimo, indagati con il broker defunto per truffa): ha infatti rinunciato all'eredità. Dovrà lasciare l'appartamento al Salario dove viveva con i figli, ma su di lei nessuna ulteriore pretesa. La vedova chiede anche il dissequestro di una somma di circa 500mila euro e di oggetti appartenenti ai figli. 

Resteranno a bocca asciutta in tanti, dunque, fra cui i calciatori Stephan El Shaarawy e Evra. Nel caso dell'allenatore Antonio Conte,  gli vennero restituiti da Bochicchio oltre venti milioni investiti con un assegno, che però le fiamme gialle hanno ritenuto falso e comunque «mai accreditato». I soldi, hanno scoperto gli investigatori, venivano depositati attraverso due società nei conti di Bochicchio, e da lui, scrivono i giudici, dirottati «a favore del fratello Tommaso e della moglie per spese personali». Un vero e proprio sistema di smistamento, che aveva portato a indagare i due familiari per truffa: inchiesta finita anch'essa su un binario morto a causa del decesso del broker.

Resta aperto, a questo punto, solo il filone d'indagine «per istigazione al suicidio»: qualcuno spinse il broker a schiantarsi contro un muro dell'aeroporto dell'Urbe, forse per vendetta? L'indagine prosegue, mentre per cause naturali è morto il perito che era stato incaricato dalla Procura di cercare tracce utili nei dispositivi mobili del broker. Ora il compito è passato ai finanziari, impegnati a far luce sul giallo che sembra non avere fine. 

Massimo Bochicchio, processo estinto e clienti vip a bocca asciutta: nessun risarcimento alle vittime del broker. Redazione su Il Riformista il 18 Marzo 2023

I clienti vip di Massimo Bochicchio, il broker casertano morto lo scorso 19 giugno in via Salaria a Roma, dopo un incidente in moto, resteranno con la bocca asciutta e non vedranno un centesimo dei soldi investiti in virtù del rapporto di fiducia col broker.

Lo hanno deciso i giudici della VII sezione collegiale del Tribunale di Roma, che hanno dichiarato estinto il processo “per la morte del reo”, accusato di esercizio abusivo della professione e riciclaggio. Alla sbarra c’era lo stesso Bochicchio, che doveva rispondere delle accuse di esercizio abusivo della professione e riciclaggio, così come la moglie Arianna Iacomelli e Tommaso Bochicchio, fratello di Massimo, indagati con il broker defunto per truffa.

Per quest’ultimi due è stata chiesta l’archiviazione: la moglie del broker, ex miss Italia, ha infatti rinunciato all’eredità e su di lei non vi sarà dunque alcuna pretesa economica da parte dei clienti dello scomparso marito.

Per i tanti clienti di Bochicchio, tra cui in particolare molti nomi noti del mondo dello sport come l’allenatore Antonio Conte, i calciatori Patrice Evra e Stephan El Shaarawy, i procuratori sportivi Federico Pastorello e Luca Bascherini, non ci sarà alcun risarcimento.

Tutti speravano di avere indietro almeno parte dei 70 milioni di euro che avevano affidato al broker nativo di Capua per investimenti vari, presentandosi come parte civile nel processo.

L’unica indagine che resta in piedi è quella per “istigazione al suicidio”, con gli inquirenti che hanno ancora aperto il fascicolo: qualcuno ha forse spinto Bochicchio a schiantarsi contro un muro dell’aeroporto di Roma?

Un giallo infinito quello del broker: subito dopo l’incidente erano infatti spuntate ‘teorie del complotto’ su una possibile morte inscenata da parte del broker, un modo per sfuggire alle maglie della giustizia e dei suoi stessi clienti, salvo poi accertare definitivamente che quel corpo carbonizzato sulla Salaria fosse effettivamente il suo.

Da Sarno alla provincia di Avellino. Coppia scomparsa sull’Apecar, Grazia trovata morta e il marito in stato confusionale: è giallo. Redazione su Il Riformista il 19 Marzo 2023

Una vicenda misteriosa con tante domande che devono trovare ancora risposta. È quella della coppia di coniugi ottantenni di Sarno, città in provincia di Salerno nota anche per esser stata colpita dalla grave frana del 1998 costata la vita a 137 persone, che a bordo di un Apecar ha percorso almeno quaranta chilometri perdendosi poi in una zona di montagna della provincia di Avellino.

Da sei giorni non si avevano più notizie dei coniugi, fino a quando giovedì sera l’uomo è stato trovato in stato confusionale e con un forte trauma cranico  una zona di montagna dell’Avellinese, tra Taurano e Monteforte.

La moglie, Grazia Prisco, è stata invece rinvenuta priva di vita nel pomeriggio di venerdì dai cani molecolari del soccorso alpino della Guardia di Finanza in località Arco di Rienzo a Baiano, in provincia di Avellino: il cadavere era in una zona isolata e in alta quota.

Per ora il compagno della donna, ricoverato in ospedale, ha detto agli inquirenti di non ricordare nulla e non è stato in grado di spiegare cosa sia accaduto in questi giorni di vuoto, durante i quali si sono perse le tracce della coppia. L’uomo sarebbe solo riuscito a dire che si erano recati in montagna ma rispetto a tutto ciò che è accaduto dopo dice di non ricordare nulla.

Dichiarazioni ora al vaglio degli inquirenti, per una vicenda che ha ancora molti punti oscuri: perché i due si sono messi in viaggio senza avvisare familiari e amici, e perché a bordo di un “trabiccolo” come una Apecar? Cosa è accaduto di preciso sulla montagna di Arco di Rienzo, nel comune irpino di Baiano, dove l’Apecar si è fermato nella notte tra giovedì e venerdì?

Qualche risposta potrebbe arrivare già dall’autopsia disposta dalla Procura di Avellino sul corpo di Grazia Prisco per stabilire le cause della morte dell’anziana 80enne.

L’Ansa sottolinea che l’immagine dell’Apecar è stata registrata dalle telecamere pubbliche e private installate nel territorio di Monteforte Irpino: arrivati nei pressi di Baiano, anche a causa del buio, potrebbero essersi persi dopo aver imboccato la strada che conduce in montagna

A prendere piede è in particolare l’ipotesi di un guasto al mezzo: l’uomo sarebbe quindi andato in cerca di aiuto lasciando la compagna nell’Apecar. Quest’ultima poi si sarebbe allontanata per alcune centinaia di metri, dove è stata poi ritrovata senza vita.

In attesa che migliorino le condizioni di salute dell’anziano sopravvissuto, gli inquirenti potrebbero ricostruire la vicenda anche ascoltando eventuali familiari e conoscenti della coppia.

Ero a casa mia”. È giallo sulla morte di Grazia Prisco. Francesca Galici il 19 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il cadavere della donna è stato trovato in una zona montuosa in provincia di Avellino a giorni di distanza dalla scomparsa ma l'uomo che era con lei non ricorda più nulla

C'è un giallo attorno alla morte di Grazia Prisco, l'anziana trovata senza vita a diversi giorni dalla scomparsa da Mugnano del Cardinale, in provincia di Avellino, il giorno 11 marzo. Il cadavere era poco distante dal luogo in cui era stata trovata l'Apecar sulla quale viaggiava assieme a un uomo. È stato lui, in stato confusionale, a lanciare l'allarme non riuscendo più a rintracciarla. L'uomo si troverebbe ancora ricoverato in ospedale ma sono tanti i tasselli del puzzle che mancano per la ricostruzione di questo caso, del quale si sta occupando anche Alessandro Politi per Storie italiane, il programma del mattino di Rai 1. Il giornalista è riuscito a intercettare in esclusiva la moglie dell'uomo e anche lo stesso uomo che si trovava con Grazia Prisco in montagna. Il servizio andrà in onda domani su Rai1.

"È andato a fare una passeggiata ed è finito così. Erano amici", sostiene la donna, aggiungendo che il marito ha accompagnato la signora Prisco a fare una passeggiata per "pietà", essendo lei sola. Il giornalista, quindi, ha chiesto alla moglie dell'uomo cosa lui le avesse raccontato di quella giornata ma la donna non ha saputo rispondere: "Non parlava, non stava bene. La polizia l’ha portato all’ospedale". La donna ha riferito ad Alessandro Politi che suo marito le avrebbe raccontato che la notte in cui si è verificata la scomparsa di Grazia Prisco, lui piangeva perché si era perso e non riusciva più a ritrovare la strada. I due non si sarebbero dovuti trovare lì, dove poi sono stati rintracciati l'uomo e il cadavere della donna. E, infatti, la moglie del conducente dell'Apecar a domanda diretta del giornalista sul perché i due si trovavano lì, risponde: "E chi lo sa...".

La donna pare non essere in grado di fornire molte informazioni anche perché, come riferisce lei stessa a Politi, è separata in casa da suo marito, che però, stando al racconto della moglie, non avrebbe avuto una relazione con Grazia Prisco, essendo loro solo amici. "Ha 84 anni, lei ne aveva 81", spiega la donna. La moglie, poi, insiste sul fatto che il marito possa aver perso la memoria, "il cervello non ragiona più". A suo dire, da qualche mese avrebbe iniziato ad avere episodi di smemoratezza, tanto che lo avrebbe anche visitato un medico.

"Non capisce niente più", dice la donna, avanzando l'ipotesi che questo episodio possa aver aggravato la sua condizione. "Si dimenticava qualche cosa ma ora non ricorda nulla", prosegue la moglie, che esclude qualunque responsabilità in capo al marito per la morte di Grazia Prisco. Alessandro Politi è riuscito anche a sentire l'uomo ricoverato, che ha confermato di non avere ricordi di quella giornata o, almeno, così ha lasciato intendere al giornalista: "La signora Grazia non stava con me quella sera. Non so dove sia, non so se è morta. Io quella sera ero a casa mia".

Enrico Marro per repubblica.it il 29 Dicembre 2022.

Prima ha ucciso la madre di 84 anni, poi ci ha provato anche con il padre che di anni ne ha 89. Era una furia Diletta Miatello, 51 anni, un passato da vigilessa, una laurea in Psicologia.

Il movente della sua furia

Voleva soldi, li pretendeva. Al culmine del suo baratro interiore, con un matrimonio alle spalle e il figlio affidato al padre, era rimasta anche senza lavoro. E riteneva che dovessero essere ancora i genitori a mettere fine alle sue difficoltà economiche. 

Secondo i carabinieri del Reparto operativo di Padova è questo il movente del massacro scoperto martedì in tarda mattinata, in una villetta bifamiliare di San Martino di Lupari, a nord della provincia di Padova. 

Le parole del padre

Maria Angela Sarto, ex insegnante elementare, era una maschera di sangue quando Chiara, l’altra figlia, l’ha trovata riversa a terra nella sua camera da letto, ormai senza vita. In soggiorno c’era il marito Giorgio Miatello, un tempo agente di commercio: aveva ferite profonde sul volto e sulla testa, ma con un filo di voce è riuscito a biascicare che a ridurlo in quel modo era stata la figlia maggiore.

 La fuga e poi la spesa

Diletta Miatello, dopo averlo colpiti ripetutamente con oggetti contundenti trovati in casa, tra cui un vaso e i relativi cocci, è fuggita al volante della sua Panda e ha provato a rifugiarsi in un albergo di Romano D’Ezzelino, in provincia di Vicenza. 

Ha preso una stanza e poi è uscita a fare la spesa”, ha raccontato il titolare dell’hotel Cubamia, ribadendo più volte di non averla vista particolarmente scossa. 

Il carcere con l'accusa di omicidio

Gli investigatori dell’Arma sono arrivati a lei grazie ai dati delle telecamere di videosorveglianza all’ingresso del paese, che hanno rilevato la targa della Panda mettendo subito in evidenza il passaggio della vettura ricercata. E quando, verso le 15.30, hanno bussato alla porta della sua camera lei si è consegnata senza opporre resistenza, senza dire una parola. 

L’esplosione di violenza, secondo i carabinieri, sarebbe da inserire in una cornice di progressiva instabilità psicologica della cinquantunenne, fermata nella notte con l’accusa di omicidio volontario e poi condotta in carcere. 

I problemi psicologici

Sembra proprio una vita spaccata in due quella di Diletta Miatello, con un prima e un dopo. Ma soprattutto con una serie di punti interrogativi che riguardano il detonatore in grado di scombinare fino a quel punto un’esistenza tranquilla. Aveva vinto il concorso da vigilessa, era stata ritenuta idonea a portare un’arma e poi era anche riuscita a laurearsi lavorando. La famiglia se l’era costruita in seguito alla relazione con un collega della polizia locale. Sembrava tutto perfetto, fino a che qualcosa dentro di lei non si è rotto.

Diletta Miatello, bugie alla badante dopo il delitto: «Torna domani, i miei dormono ancora». San Martino di Lupari, così l'ex vigilessa avrebbe depistato la donna di servizio dopo aver ucciso sua madre Maria Angela Sarto e ferito gravemente suo padre Giorgio. Roberta Polese (ha collaborato Rashad Jaber) su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

«Questa mattina ho bevuto il caffè con i miei, mi hanno detto di riferirti che non servono le pulizie oggi, hanno dormito male, sono tornati a letto, vai pure a casa». Sono le 8 del mattino del 27 dicembre, e con queste parole dette alla badante dei genitori, inizia il tentativo di depistaggio di Diletta Miatello. La badante se ne va (qui il suo racconto), non sa che dietro a quella porta ci sono una donna morta e un uomo agonizzante. Diletta Miatello, cinquantunenne ex vigilessa, è stata fermata con l’accusa di omicidio volontario della mamma Maria Angela Sarto, 84 anni, e del tentato omicidio del padre Giorgio Miatello, che lotta ancora tra la vita e la morte in Rianimazione a Padova. Ha ferite plurime sul capo e al volto, escoriazioni e il naso rotto. È intubato, la sua vita è appesa a un filo.

Lei in carcere a Verona, i genitori massacrati

Ora Diletta è in carcere a Verona, difesa dall’avvocata Elisabetta Costa. Venerdì 30 dicembre comparirà davanti al gip, nei prossimi giorni ci sarà l’autopsia sul corpo di Maria Angela. La vittima, trovata morta nel suo letto, aveva il volto tumefatto, graffiato da tanti piccoli tagli, ai piedi di Maria Angela sono stati trovati cocci di ceramica sul pavimento, probabilmente è stata colpita da un vaso o un altro suppellettile. Colpito con cocci di ceramica anche Giorgio, trovato in cucina ancora vivo. Quando la secondogenita Chiara Miatello, 48 anni, entra in casa alle 12 del 27 dicembre, Giorgio è agonizzante e alla figlia avrebbe fatto il nome della sorella Diletta, forse per attribuirle la responsabilità dei fatti. In casa non ci sono segni di effrazione, la persona che li ha aggrediti aveva le chiavi. Per il medico legale Rafi El Mazloum l’aggressione avviene tra le 20 del 26 dicembre e le 6 del mattino dopo.

In cura al centro di salute mentale

L’attenzione si sposta su Diletta, la primogenita, in cura al centro di salute mentale di Cittadella e con un precedente per furto all’Oviesse, archiviato, nel 2020. Tre gli elementi che la incastrano: le parole che quella mattina Diletta dice alla badante dei due anziani, la sua fuga in auto mentre viene scoperta l’aggressione ai genitori, e le parole dette d’impeto da Chiara alla badante dopo il ritrovamento dei corpi: «È stata Diletta». Ai carabinieri e al pm Marco Brusegan il compito di ricostruire i dettagli del delitto.

La mattina maledetta

Martedì mattina Franca va nella villetta a schiera di via Galilei a San Martino di Lupari alle 8 per le pulizie. Non ha le chiavi, trova la porta chiusa, suona e nessuno le risponde, comincia a battere sulle finestre. Silenzio. È invece spalancata la porta della casa di Diletta, che abita nella porzione di casa accanto. La donna sente Franca che chiama, si presenta davanti a lei e le dice di andare via, perché poco prima i genitori le avrebbero riferito che quel giorno non sarebbero servite le pulizie. Alle 10 passa a casa Chiara Miatello, sorella minore di Diletta, vede chiuso, chiama Franca e le chiede come mai non fosse lì a fare le pulizie. Franca le riferisce la conversazione con Diletta, Chiara sa che i genitori ogni tanto dormono poco, non trova nulla di strano in quelle parole. Franca alle 11.30, torna ancora a casa degli anziani coniugi: la porta è ancora chiusa, come pure le imposte. Nessuno risponde. Inizia a telefonare a Maria Angela, a Giorgio. Telefonate a vuoto. A quel punto nota che le luci del soggiorno sono accese, pensa ad un malore. In tutto questo di Diletta non vi è alcuna traccia. La badante chiama ancora Chiara: «Vieni, qui è successo qualcosa», le dice. Chiara passa a casa sua a Cittadella a prendere le chiavi, arriva in via Galilei. Nel frattempo Franca se ne va per preparare il pranzo al marito.

Chiara scopre l’accaduto e suo padre accusa Diletta

Alle 12 Chiara apre la porta di casa e si ritrova davanti a una scena che difficilmente dimenticherà. Il padre è a terra agonizzante, le sussurra il nome dell’altra sorella, la quarantottenne sale di corsa le scale, trova la mamma esanime a letto. Chiama i carabinieri: «C’è sangue dappertutto, correte». La casa è in disordine, evidentemente c’è stato un litigio. Poi chiama Franca al telefono, ripete «mamma, mamma, mamma». E poi le dice una frase: «È stata Diletta». Nel frattempo Diletta non si trova, la fotografa un telelaser a romano D’Ezzelino, la sua auto viene segnalata all’albergo Cubamia di Romano. I carabinieri la trovano e la portano in caserma. Alle 17 la donna compare davanti al pm Marco Brusegan: non dice una parola, appare fredda e distaccata, viene formalizzata l’accusa e chiamata l’avvocata Elisabetta Costa. La donna viene sottoposta al test tossicologico per capire la presenza di farmaci o droghe. Alle 24 per lei si aprono le porte del carcere di Verona. Sono in corso accertamenti per rintracciare sangue nei suoi vestiti e anche a casa sua. Dalle 8 del mattino alle 12, quando Chiara entra in casa e scopre i genitori, Diletta ha avuto 4 ore di tempo per lavare le prove, forse pensava di aver ucciso anche il padre. I carabinieri stanno cercando tracce di sangue ovunque. Le due abitazioni e la stanza d’albergo sono sequestrate.

Diletta Miatello, chi è l’ex vigilessa accusata di aver ucciso la madre e tentato l’omicidio del padre. Il fermo nella notte. La 51enne e il giallo di San Martino di Lupari (Padova): la sorella l’ha accusata di essere l’assassina e nella notte è arrivato il fermo del pm. Dopo aver lasciato la divisa il momento buio e la depressione. Roberta Polese su Il Corriere della Sera il 28 dicembre 2022

Diletta Miatello e, a destra, la madre: Maria Angela Sarto. L’anziana aveva 84 anni

Nei confronti di Diletta Miatello, ieri notte, il sostituto procuratore di Padova, Marco Brusegan, ha disposto il fermo per omicidio e tentato omicidio. Lei, da quanto si è appreso, in relazione al delitto non ha fatto alcuna ammissione. Ma chi è questa donna, accusa di aver ucciso l’anziana madre e tentato di fare lo stesso con il padre? La vita di Diletta Miatello fatta di gioie e fallimenti, non è poi diversa da quella di tante donne della sua età. Recentemente però qualcosa si è rotto: Diletta entra in depressione, dimagrisce molto, tenta il suicidio. Intanto suo figlio cresce con l’ex marito, che in queste ore è a Roma in vacanza.

La storia di Diletta Miatello: la divisa, il figlio e le dimissioni

Le radici della cinquantunenne, accusata dalla sorella Chiara di essere l’assassina della madre e di aver tentato di uccidere il padre, sono a Bassano. Maria Angela, uccisa ieri a 84 anni, era insegnante alle elementari, il padre rappresentante. Insieme alla sorella più piccola Chiara, Diletta ha vissuto a lungo una vita tranquilla. Da ragazza studia all’istituto alberghiero Giuseppe Maffioli di Castelfranco poi, dopo il diploma, tenta con successo il concorso per entrare nella polizia municipale e ottiene il suo primo incarico ad Asolo. Nel frattempo i suoi genitori vanno in pensione e si trasferiscono a San Martino di Lupari, mentre la sorella Chiara va a vivere a Cittadella. Ad Asolo, Diletta conosce suo marito, anche lui agente della polizia locale. «Era una ragazza in gamba - la ricorda il suo ex comandante Gianni Novello, ora in pensione - parlava poco, non diceva mai nulla a sproposito. Nel 2009 ha deciso di rinunciare all’incarico e dimettersi, aveva avuto un bambino e dopo il rientro dalla maternità aveva lavorato qualche anno, ma voleva stare con il piccolo. Nel frattempo stava affrontando anche una separazione». Chi la conosce bene, però, dice anche che già a quel tempo la donna aveva cominciato a dare segnali di cedimento emotivo, e che non fosse più idonea a lavorare nel corpo della polizia locale.

La separazione e la candidatura alle elezioni di Bassano e alle Regionali

Mentre il figlio è ancora piccolo, Diletta e il marito quindi si separano. Il bambino, che oggi è un ragazzo, ora vive stabilmente con il padre. Nel 2009 la donna si lascia coinvolgere nella politica e si candida alle Comunali di Bassano, l’anno dopo il suo nome compare nella lista Liga Veneto Autonomo (in appoggio al candidato governatore Bortolussi) alle Regionali: prende pochissimi voti. Nei suoi post sui social non ne parla mai, il suo tentativo di mettersi in politica probabilmente è stato fatto senza molta convinzione.

La ricerca di lavoro e l’ultimo annuncio pubblicato il 25 dicembre

Intanto Diletta trova casa a Felette, nel Vicentino, fa lavori saltuari. Nel 2013 si iscrive a Psicologia a Padova e nel 2016 prende il diploma di laurea magistrale. Il lavoro per lei resta sempre un’incognita. In qualche post su Facebook riferisce di avere lunga esperienza nel settore della ristorazione. Il suo annuncio più strano è quello fatto alle 16.30 del giorno di Natale, tre giorni fa: «Buongiorno ho un diploma all’Ipssar G. Maffioli, conosco inglese, francese e spagnolo. Ho un’ esperienza ventennale nel settore della ristorazione come barmaid, barista. Cerco lavoro, sono libera da impegni familiari e automunita. Valuto anche altre proposte purché siano serie. Vivo a 7 km da Castelfranco Veneto. Ringrazio anticipatamente chiunque potrà aiutarmi». È strano mettersi a cercare lavoro il 25 dicembre, evidentemente l’argomento «lavoro» era stato al centro di una qualche discussione familiare.

Le tensioni in famiglia e i cambiamenti della donna

Dal 2020 la donna era andata a vivere nella piccola porzione di bifamiliare accanto alla casa dei genitori, lasciando il suo appartamento a Felette. Pare che i tre discutessero spesso anche di soldi. I lavori molto saltuari di Diletta e quel nipote lontano preoccupavano non poco i genitori. Negli ultimi mesi Diletta dimagrisce fino a sfigurarsi, chi la conosce dice che era diventata maniaca della pulizia e dell’ordine. Sui social ha vari profili in cui appare sempre in modo diverso, unica costante i personaggi tv di Morticia e Mercoledì della famiglia Addams, che ripropone continuamente. Nei suoi post ogni tanto se la prende con chi non la capisce, ma Diletta nasconde bene il suo disagio. Eppure la sicurezza con cui la sorella Chiara ha indicato Diletta come colpevole dell’omicidio della madre lascia intendere che le tensioni familiari non fossero poi un segreto. E di sicuro il comportamento di Diletta non depone a suo favore. La cinquantunenne sarebbe sparita con la sua Panda rossa proprio mentre la sorella Chiara scopriva il cadavere della mamma e il padre in fin di vita.

L’albergatore che l’ha vista: «Ha preso la camera e sembrava tranquilla»

Verso le 13.30 la donna si è presentata alla reception dell’albergo Cubamia a Romano d’Ezzelino. «Sembrava tranquilla - spiega il gestore Zeno Modenese - è arrivata qui vestita con un piumino lungo, aveva delle borse in mano (si era fermata in un supermercato a fare la spesa, ndr) e ha chiesto di potersi fermare due notti, mi ha dato il documento ed è salita in camera. Poi sono arrivati i carabinieri: hanno riconosciuto l’auto in cortile». Intanto sui siti rimbalzava la notizia della madre morta e il padre in fin di vita. E questa è una delle tante cose che Diletta che è stata chiamata a spiegare al magistrato nel lungo interrogatorio.

Padre, madre, fratello: la prima strage in famiglia del dopoguerra. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2023.

Un film in uscita racconta la storia di Franco Percoco, autore nel 1956 del delitto che traumatizzò un’Italia ancora scossa ma con il sogno della ripresa. Le radici del male in una situazione complessa e nei disordini mentali del killer. Che non furono capiti

In un appartamento di via Celentano, poco fuori Bari vecchia, c’era un ragazzo che stava male. Da quando aveva memoria di sé. Si chiamava Franco Percoco; suo padre, Vincenzo, era impiegato nelle ferrovie e, negli anni della ricostruzione dopo la guerra, tra binari da posare e linee da elettrificare, in famiglia lo si vedeva di rado. Mamma Eresvida era casalinga e vagheggiava un futuro da dottore per l’unico figlio che non le stava ancora levando sonno e serenità. I Percoco avevano altri due eredi: Vittorio, il maggiore, nonostante l’estrazione borghese e l’educazione ricevuta in casa, era un cleptomane conclamato e faceva dentro-fuori dal carcere. Giulio, invece, era affetto dalla sindrome di Down e necessitava di assistenza continua. Appena maggiorenne, Vittorio si era portato appresso il tredicenne Franco in una delle sue imprese balzane: calarsi con una scala di fortuna sul balcone del piano di sotto, spaccare la finestra e rubare bottiglie di spumante e fichi per spassarsela un po’.

Da sinistra, Vincenzo Percoco, padre dell’omicida, la moglie Eresvida. E sotto Franco Percoco, l’assassino, e il fratello più piccolo Giulio. Il delitto avvenne a Bari nella notte tra il 20 e il 21 maggio 1956

Cattivo fratello

Il capobanda, per cumulo di pene, si era preso otto anni di reclusione; Franco, salvato dalla non imputabilità per l’età, si ritrovò l’adolescenza tagliata in due. Da un lato, la normalità - il liceo scientifico, gli amici, lo svago - dall’altra, una situazione famigliare devastata: un fratello in galera, l’altro disabile, una madre comprensibilmente allo stremo che, peraltro, riversava sull’unico figlio “normale”, così diceva, tutte le aspettative di realizzazione e riscatto. Marcello Introna è l’autore di Percoco , testo riedito da Mondadori dal quale Pierluigi Ferrandini ha tratto il film Percoco- Il primo mostro d’Italia , domenica in anteprima e in concorso al Bari Film Festival. Esce nelle sale il 13 aprile. A entrambi va il merito di aver ripreso dal passato una storia raccapricciante: quella del primo massacratore familiare di cui si diede conto sui giornali italiani.

Il turco”

Franco non era un ragazzo come gli altri, lo sembrava. Salvo quando i vicini lo chiamavano “il turco” perché, di punto in bianco, si comportava in maniera strana, insensata, inspiegabile. Come un estraneo che arrivasse da chissà dove. Il peso di dover sostituire i fratelli, riempire carenze affettive ed emotive lo attanagliava e, da “turco” che era, passò di grado per divenire “l’esaurito” quando il medico gli diagnosticò la nevrastenia, insieme alla sifilide che gli era rimasta come ricordo dalla relazione con una prostituta di cui si era invaghito, fuggendo e rubando cose della madre per regalarle al suo amore. Le vicissitudini di Franco Percoco hanno “lavorato” per anni nella sua mente senza esagerate manifestazioni esterne finché il suo mondo non è crollato in una sera. Condannato a sua volta per furto, dopo un mezzo tentativo di suicidio sui binari di Milano Centrale, era rientrato a casa a Bari finalmente libero dall’amato e odiato Giulio - internato per un paio di anni in manicomio - ma dai vent’anni in poi il disturbo mentale iniziò ad agire nel profondo. Riuscì a diplomarsi e a iscriversi a ingegneria, sostenendo pure un paio di esami ma i tremori, i dolori alla testa e le esplosioni di ira si facevano sempre più frequenti. Al suo amico più intimo, Vincenzo Bellomo, l’aveva confessato più volte: odiava i genitori, li riteneva responsabili del suo malessere. Neanche l’amore di Tina Tezzi, sorella della fidanzata di Bellomo, riuscì a offrirgli pace e conforto. Partito per la leva militare e cacciato per frode, era solo in attesa di una spinta.

La strage

La notte tra il 20 e il 21 maggio del 1956 Franco Percoco, dopo essersi sfogato con il fratello carcerato per le continue richieste materne di essere di più e meglio di ciò che era (e un tentativo di Vittorio di mediare con la madre affinché smettesse di assillarlo) si diede coraggio scolando una bottiglia di cognac. Afferrò un coltello in cucina. Poi, come narra Introna, «fissò i suoi genitori addormentati, la madre sulla sinistra, vicino alla vetrata che affacciava su via Celentano, il padre a destra, accanto al trumò su cui foto di morti e qualche gioiello senza particolare valore ardevano al luccichio fioco di un lumino elettrico. Scelse la sinistra». Dopo aver ucciso padre e madre tranquillizzò il fratello, svegliato dal trambusto: Giulio in quel periodo era tornato a vivere con i suoi. Fu ammazzato con 38 coltellate.

La gita fuori porta

Ferrandini fa partire il suo racconto di Percoco - interpretato da un credibile Gianluca Vicari - proprio nelle prime ore del mattino dopo la strage, quando passò a prendere l’amico Massimo Boccasile e la fidanzata Tina per una gita fuori porta. Aveva terminato da poco il lavoro: per rinchiudere il corpo del padre nell’armadio aveva dovuto disarticolarne i femori; la madre l’aveva sepolta sotto coperte e materassi, per il fratello si accontentò di una coperta. Aveva lavato i pavimenti, si era tolto i vestiti insanguinati, fasciato una ferita alla mano e iniziato, senza soste né altre cerimonie e preparando i panini per la scampagnata, un’altra vita. Libera dalle oppressioni, “disinfettata” dal peso ammorbante della madre, del padre, del fratello e dei loro fardelli che lui sentiva di non poter più reggere. Era talmente sereno e rinfrancato che i giorni dopo la mattanza furono i più spensierati di sempre. Disse a chi pretendeva notizie e spiegazioni che la famiglia era partita per una vacanza e che gli aveva lasciato dei soldi. Organizzava feste a tema alcol e sesso con Bellomo e le due loro ragazze, celebrando all’eccesso la vita a un muro di distanza dalla carneficina.

Dodici giorni

Del caso Percoco si scrisse solo dopo una dozzina di giorni, quando i vicini presero a lamentarsi per il tanfo: l’escamotage dei deodoranti sparsi per le camere e la copertura delle fessure sulle pareti non funzionava più. Il 9 giugno, la Gazzetta del Mezzogiorno aprì sulla strage di Bari. Insospettito dalla prolungata assenza dei genitori e dalle lamentele per l’odore di decomposizione, un vicino aveva chiamato i carabinieri e la strage era stata scoperta. Il cadavere decomposto del padre era caduto addosso al militare che aveva aperto l’armadio della camera da letto, spedendolo in neurologia per choc da orrore; la stanza della morte era in condizioni indicibili. L’arma del delitto, il coltello da cucina, era avvolto in un panno e chiuso in una scatola.

L’ASSASSINO FU CONDANNATO A 30 ANNI: USCITO DAL CARCERE, SI SPOSO’ E MORI’ A TORINO. AVEVA 70 ANNI, NESSUNO SI RICORDAVA PIU’ DI LUI

Ischia, ultima isola di libertà

Franco Percoco venne catturato all’albergo Felix di Ischia quello stesso pomeriggio. Vestito elegante, era sul divano della sala tivù e stava preparando la fuga in Marocco: aveva letto di sé in cronaca. La sua vicenda ha tratti in comune con quella di Ferdinando Carretta, il “bravo ragazzo di Parma” che nel 1989 sterminò la famiglia e poi, però, andò a vivacchiare mangiando scatolette e facendo consegne a domicilio a Londra. Percoco trascorse la latitanza in lussi e regali per sé e la sua donna: alberghi, cene, un giradischi, una macchina fotografica, liquori, vestiti. Al presidente del tribunale disse che i suoi genitori si opponevano al suo «intenso desiderio di una vita brillante». Due giovani e valenti avvocati riuscirono a mitigare l’ergastolo in primo grado con una sentenza a trent’anni, poi definitiva per il ritiro del ricorso in Cassazione, fondata su un vizio di mente che neppure la neonata psicofarmacologia moderna faticò a riscontrare.

Un “cattivo impasto”

La pozza di mostruosità e squilibrio in cui agì Percoco venne riassorbita dal boom economico; quando lasciò il carcere, nel 1977, nessuno si ricordava di lui. Nella cronaca dei quotidiani torinesi fa capolino un rigo nel 2001: Percoco Franco, di anni 70. Defunto il 14 febbraio. Si era trasferito nel capoluogo piemontese nel 1981, era sposato, pensionato, non aveva avuto figli. Forse ricordava quel passaggio della sentenza in cui, alla ricerca di un movente, i giudici avevano azzardato un «cattivo impasto dei plasmi generativi», un difetto del Dna che aveva generato, da due persone perbene, un fuorilegge cronico, il primo pluriassassino d’Italia.

Film sul primo stragista familiare d'Italia, una storia vera. Percoco – Il primo mostro d’Italia, pronto il trailer con la manduriana Mara Spinelli. La Redazione su La Voce di Manduria venerdì 24 marzo 2023

E’ stato pubblicato ieri il trailer ufficiale del film “Percoco – Il primo mostro d’Italia”, un true crime psicologico sulla prima strage familiare italiana del ‘900 realmente accaduta a Bari, dove nel cast compare l’attrice manduriana Mara Spinelli nella parte della maitresse del bordello frequentato dal mostro (nella foto estratta dal trailer).  

Percoco - il primo Mostro d’Italia, film scritto e diretto da Pierluigi Ferrandini, sarà presentato il 26 marzo in anteprima mondiale al Bari International Film&TV Festival 2023, nella sezione competitiva ItaliaFilmFest/Nuovo cinema Italiano. Il film, una produzione Altre Storie con Rai Cinema, prodotto da Cesare Fragnelli, con il contributo di Regione Puglia | Apulia Film Commission e con il sostegno del MiC, sarà in anteprima sul grande schermo dal 13 aprile, in attesa dell’uscita italiana come evento speciale solo il 17, 18 e 19 aprile, grazie alla distribuzione theatrical di qualità firmata Altre Storie.

Nella notte tra il 26 e il 27 Maggio 1956, in una Bari agli albori del boom economico, Franco Percoco, proveniente da una famiglia piccolo-borghese, compie la prima strage familiare nella storia d’Italia del Novecento,  uccidendo con un coltello da cucina i genitori e il fratello minore e convivendo per dieci giorni con i loro cadaveri in casa. Un crimine che ha sconvolto l’opinione pubblica, che Ferrandini ha scelto di raccontare nel suo true crime psicologico Percoco - il primo Mostro d’Italia,  tratto dal romanzo Percoco di Marcello Introna (edito da Mondadori). Il film si concentra su un preciso arco temporale: i giorni successivi al crimine, quei giorni ‘felici e dannati’ in cui  Franco, il ‘bravo ragazzo’ di sempre, è finalmente libero di vivere e divertirsi in assenza dei genitori, mentre emerge a poco a poco il ‘mostro’ che si cela nella sua mente. 

Nel cast Gianluca Vicari, nel ruolo di Franco Percoco, affiancato da Giuseppe Scoditti, Rebecca Metcalf, Federica Pagliaroli, Laura Gigante, Francesca Antonaci, Fabrizio Traversa, Antonio Monsellato, Pinuccio Sinisi, Raffaele Braia, Pietro Naglieri, Chiara Scelsi, Elena Cantarone, Michele Mirabella e la bravissima Mara Spinelli. La fotografia è stata  affidata a Filippo Silvestris, il suono a Piero Parisi,  il montaggio a Mauro Ruvolo. Le musiche originali sono di Christian Lindberg, la scenografia è di Walter Caprara e i costumi sono a cura di Magda Accolti Gil. La delegata di produzione Altre Storie è Francesca Schirru.  

La storia vera del primo stragista familiare italiano del Novecento: Franco Percoco.  Nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1956, a Bari, stermina la sua famiglia con un coltello da cucina e inizia una nuova vita: da studente universitario a ricco viveur, assaporando tutte le gioie del suo mirabile tempo, quello del boom economico, vivendo dieci giorni con i cadaveri dei suoi genitori e di suo fratello murati in casa. Nessun omicida aveva mai convissuto così a lungo con le sue vittime fino a quel momento. Vedi qui sotto il trailer.

Bari, la storia di Franco Percoco, il primo «mostro» d'Italia, in anteprima mondiale al Bif&st. Autore della prima strage familiare nella storia del Novecento, uccidendo con un coltello da cucina i genitori e il fratello minore. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 marzo 2023

Nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1956, in una Bari agli albori del boom economico, Franco Percoco, proveniente da una famiglia piccolo-borghese, compie la prima strage familiare nella storia d’Italia del Novecento, uccidendo con un coltello da cucina i genitori e il fratello minore e convivendo per dieci giorni con i loro cadaveri in casa. È la storia di «Percoco - il primo mostro d’Italia», film scritto e diretto da Pierluigi Ferrandini, che sarà presentato il 26 marzo in anteprima mondiale al Bari International Film&TV Festival 2023, nella sezione competitiva ItaliaFilmFest/Nuovo cinema Italiano.

Il film, una produzione Altre Storie con Rai Cinema, prodotto da Cesare Fragnelli, con il contributo di Regione Puglia | Apulia Film Commission e con il sostegno del MiC, sarà in anteprima sul grande schermo dal 13 aprile, in attesa dell’uscita italiana come evento speciale solo il 17, 18 e 19 aprile, grazie alla distribuzione theatrical di qualità firmata Altre Storie.

È la storia di un crimine che ha sconvolto l’opinione pubblica, che Ferrandini ha scelto di raccontare nel suo true crime psicologico, tratto dal romanzo «Percoco» di Marcello Introna (Mondadori). Il film si concentra su un preciso arco temporale: i giorni successivi al crimine, quei giorni 'felici e dannati' in cui Franco, il 'bravo ragazzo' di sempre, è finalmente libero di vivere e divertirsi in assenza dei genitori, mentre emerge a poco a poco il 'mostrò che si cela nella sua mente.

Nel cast Gianluca Vicari, nel ruolo di Franco Percoco, affiancato da Giuseppe Scoditti, Rebecca Metcalf, Federica Pagliaroli, Laura Gigante, Francesca Antonaci, Fabrizio Traversa, Antonio Monsellato, Pinuccio Sinisi, Raffaele Braia, Pietro Naglieri. La fotografia è stata affidata a Filippo Silvestris, il suono a Piero Parisi, il montaggio a Mauro Ruvolo. Le musiche originali sono di Christian Lindberg, la scenografia è di Walter Caprara e i costumi sono a cura di Magda Accolti Gil. La delegata di produzione Altre Storie è Francesca Schirru.

Nel film su Percoco non solo la strage, ma l’ipocrisia familiare. Dietro un gesto di inaudito orrore può esserci la follia pura e semplice, o solo la fragilità scaturita da dinamiche familiari per quanto all’apparenza affettuose e accudenti, o le aspettative di un sistema sociale che richiede performance per taluno inarrivabili. ANNAMARIA TOSTO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Aprile 2023.

Esce nelle sale il film Percoco-Il primo mostro d’Italia per la regia di Pierluigi Ferrandini, prodotto da Altre Storie e RAI Cinema, con il sostegno della Regione Puglia e dell’Apulia Film Commission. Ripropone la storia drammatica dell’omicidio consumato a Bari dal ventiseienne Franco Percoco che, la notte del 27 maggio 1956, accoltellò padre, madre e fratello minore e ne nascose i cadaveri in una stanza dell’abitazione dove continuò a vivere per molti giorni a seguire, apparentemente indifferente all’accaduto.

Un film inquietante quanto la storia che racconta.

Contrariamente al bellissimo romanzo di Marcello Introna (Percoco, per i tipi di Mondadori) cui si ispira, il regista rinuncia a ricostruire le vicende di Franco Percoco precedenti l’omicidio: il film ha inizio che la strage familiare è già avvenuta.

È una scelta cinematografica da cui non solo scaturisce, per restare dall’inizio alla fine, la tensione necessaria a sostenere il ritmo, volutamente lento con cui sono raccontati i giorni susseguenti l’omicidio; ma anche determinante per concentrare l’attenzione intorno al cuore della vicenda e ad aprire subito l’interrogativo: perché?

Si tratta della domanda che si pone impellente non solo per il caso Percoco ma per tanti degli omicidi consumati all’interno della famiglia senza un movente apparente: perché ha ucciso Annamaria Franzoni, perché ha ucciso Erika De Nardo?

Il film, che nulla racconta della vita di Franco Percoco e neppure della sua famiglia, affidando a pochi flashback frammenti del passato, non dà risposta; lascia aperte tutte le opzioni possibili.

Dietro un gesto di inaudito orrore può esserci la follia pura e semplice, o solo la fragilità scaturita da dinamiche familiari per quanto all’apparenza affettuose e accudenti, o le aspettative di un sistema sociale che richiede performance per taluno inarrivabili.

O, forse, il niente. Questa la risposta più agghiacciante, quella che inquieta più di ogni altra perché dice che il «mostro» non è un diverso, non è «altro» da noi. È la banalità del male, quella che mette in crisi ognuno perché nessuno può ritenersene esente.

In questa rinuncia a proporre una soluzione, l’aspetto più interessante e maturo di un film che non è, dunque, una semplice crime story ma una riflessione intorno alla complessità dell’uomo. Ad essa rinvia la splendida recitazione dell’attore protagonista che, volutamente, evoca l’interrogativo di fondo: una maschera costantemente ambigua, spietata e nello stesso momento sofferente di un dolore muto che si manifesta solo nella richiesta finale di aiuto.

Il mistero del gesto resta enfatizzato anche dalla colonna sonora che, a dir poco disturbante, si fa espressione del disagio di Percoco, ne evoca continuamente l’alienazione rispetto al reale, aggiunge all’immobilità dello sguardo una voce che viene dal profondo e che sembra il grido rauco di un animale ferito.

Nella impeccabile ricostruzione di una Bari di metà del ventesimo secolo come degli ambienti interni dove si consuma la tragedia, si trovano sollecitazioni visive intorno alla vicenda che, anche grazie a questo, assume la valenza emblematica del momento storico in cui si svolge.

Mentre si leggono ancora i segni dell’epoca buia del fascismo e della guerra, si avvertono i richiami della rinascita economica, premonitori del nuovo sistema sociale e culturale destinato a soppiantare la prima. E così una regia, sensibile e colta, fa in modo che alle contraddizioni intime di Percoco facciano eco quelle di un’epoca di transizione.

La mentalità piccolo borghese di una famiglia in attesa di riscatto sociale ad opera dell’unico figlio apparentemente «brillante», intrisa dell’ipocrisia che porta a cancellare letteralmente l’esistenza degli altri due perché l’uno in carcere l’altro malato, il perbenismo delle ragazze da marito che vorrebbero i fidanzati in chiesa con loro la domenica, la prostituzione come costume sociale indifferente alla dignità della donna sostituiti dall’etica del consumismo, dalla ricerca del benessere ad ogni costo, della libertà intesa come possibilità di conseguire tutto e subito.

La storia di un crimine feroce nella narrazione di Ferrandini si fa, dunque, anche riflessione più generale sulle dinamiche familiari, sociali, economiche e sull’evoluzione dei costumi nel Paese.

Con ciò il film ha saputo restituire anche quella valenza «traumatica» che il delitto Percoco ebbe nella città di Bari e dare ragione del fatto che, malgrado il succedersi di altre vicende criminali sanguinose ed altrettanto efferate, sia rimasto vivido in tanti il ricordo del «mostro di via Celentano» e dell’eccidio da lui consumato.

Pugliesi il regista (al suo primo lungometraggio dopo una serie di bellissimi documentari), il produttore e buona parte del cast che affianca mirabilmente il protagonista, il film conferma su quali e quante risorse la nostra regione possa contare; talenti da sostenere adeguatamente, eccellenze cui assicurare i mezzi e la visibilità necessaria perché, all’interno di un progetto culturale ambizioso, quale è quello fin qui immaginato e perseguito dalle nostre amministrazioni locali, il cinema pugliese possa essere riconosciuto a livello nazionale ed internazionale ed andare ad accrescere il contributo di qualità di cui è portatore.

La storia di Ferdinando Carretta: la famiglia sterminata, la fuga, la confessione in tv. «E se i miei non potessero sentire». Nicolò Bertolini su Il Corriere della Sera giovedì 9 novembre 2023.

Il mistero sul destino della famiglia, la fuga a Londra, la confessione a «Chi l'ha visto?», la condanna, l'ospedale psichiatrico: tutte le tappe del delitto raccontato questa sera su Rai2 in «Delitti in famiglia»

È uno dei casi di cronaca nera più celebri e raccontati degli ultimi 40 anni. Stiamo parlando della vicenda della famiglia Carretta, scomparsa da Parma nell’agosto 1989. Il ritrovamento del camper dei Carretta in un parcheggio di Milano, durante una puntata della trasmissione «Chi l’ha visto?», favorì il proliferare delle fantasie più ardite. Le segnalazioni di chi avvistava i Carretta nei luoghi più impensabili del mondo si moltiplicarono. Secondo l'ipotesi più accreditata, il ragionier Giuseppe Carretta aveva sottratto dei fondi neri all'azienda in cui lavorava e portato la famiglia in una sperduta isola dei Caraibi. 

La svolta nelle indagini

La svolta nelle indagini, condotte inizialmente da un giovane Antonio Di Pietro, arrivò un decennio dopo. Ferdinando Carretta, il figlio maggiore di Giuseppe e Marta Chezzi, fu rintracciato a Londra. Confessò il triplice omicidio di genitori e fratello davanti alle telecamere della Rai, fu processato e giudicato incapace di intendere e di volere. Carretta, il protagonista di questa storia, è morto l'1 giugno di quest’anno, portandosi via tanti segreti. Una storia di cui torna a parlare la puntata del programma «Delitti in famiglia» in onda su Rai2 giovedì 9 novembre.

L'omicidio del 4 agosto 1989

Ferdinando Caretta, classe ’62, litigava spesso con la famiglia. Anche per motivi banali. Maturò così l’idea di uccidere i genitori e il fratello minore con una pistola semiautomatica acquistata in un’armeria di Reggio Emilia. Il 4 agosto 1989 sparò ai familiari, uccidendoli, e nascose i corpi nel bagno. A seguire, indisturbato, procedette alla pulizia minuziosa della scena del crimine e, il giorno seguente, si liberò dei tre cadaveri occultandoli nella discarica di Viarolo, vicino a Parma. I corpi non furono mai più ritrovati, e nemmeno l’arma del delitto. Si creò dunque un alone di mistero su dove fosserfinita la famiglia Carretta, in particolare dopo il ritrovamento del camper a Milano. Alcuni ipotizzarono che fossero fuggiti, altri che si fossero trasferiti in un «paradiso fiscale», altri ancora che fosse capitato loro qualcosa di tragico. 

Rintracciato in Inghilterra nel 1998

Dopo anni di silenzio, Ferdinando fu rintracciato in Inghilterra nel 1998. «Era stato fermato dalla polizia a Londra, poi dai giornalisti e infine da me. Ero lì per “Chi l’ha visto?” e fu proprio a me che confessò per primo il triplice omicidio». Questo il ricordo di Giuseppe «Pino» Rinaldi, inviato di «Chi l’ha visto?»: lo ha raccontato al Corriere quando Carretta è morto. Nel 1998, dopo un controllo della polizia, Carretta risultò scomparso dall’Italia e fu segnalato all’Interpol che inviò un poliziotto e un carabiniere che andarono ad incontrarlo. In loro presenza raccontò che si era allontanato dall’Italia con i familiari, avevano litigato e loro erano partiti a loro volta per una meta sconosciuta.  

La confessione a «Chi l’ha visto?»

A Rinaldi, invece, Carretta confessò tutt'altro. Il giornalista aveva girato il mondo (in particolare il Centro America) alla ricerca della famiglia scomparsa ma non aveva trovato nulla. Fino ad allora. «Parlai molto con lui come avevano già fatto molti colleghi giornalisti, discutendo anche su dove fosse il resto della famiglia» ricorda Rinaldi. «Ci fu un momento in cui Carretta abbassò gli occhi, poi li rialzò e mi disse: “E se i miei non potessero sentire”. Continuammo a parlare e dopo tre ore mi raccontò per filo e per segno tutto quello che era successo. Del triplice omicidio e dell’occultamento dei cadaveri e delle prove. La consapevolezza che dicesse la verità arrivò da un particolare: la descrizione dell’odore della morte». Rinaldi capì che il ricordo era vero. «”Ti va di fare un’intervista?” gli chiesi» prosegue il giornalista. «Lui mi rispose di sì e prima di ripartire per l’Italia girammo il video di un’ora e dieci minuti che andò in onda su “Chi l’ha visto?”». Tutta Italia a quel punto sapeva dov'era finita la famiglia Carretta.

Il processo a Ferdinando Carretta

Nel 1999 la Corte d’Assise di Parma riconobbe Carretta colpevole di triplice omicidio: ritenuto incapace di intendere e volere, venne rinchiuso nell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere. Dopo la riabilitazione nella residenza sanitalia psichiatrica «Podere Rosa», nel febbraio 2004 ottenne la semilibertà e due anni dopo lasciò l'Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Terminato il periodo di detenzione si trasferì  a Forlì, nell'abitazione comprata con il ricavato della vendita della casa in cui aveva massacrato la sua famiglia. Una nuova quotidianità scandita dal lavoro in una cooperativa. 

La morte avvenuta a 61 anni

Nel 2015 il ritorno in libertà. Ferdinando Carretta fu trovato morto in casa l'1 giugno 2023 , a 61 anni. Ancora Pino Rinaldi: «Mi disse: “Non sono morte tre persone quel giorno ma quattro”. Non passava giorno senza che il pensiero andasse alla madre al padre e al fratello. Io penso si fosse pentito».

Pino Rinaldi, l’uomo a cui Carretta confessò i delitti: «Capii che non mentiva quando descrisse l’odore della morte». Nicolò Bertolini su Il Corriere delle Sera il 2 Giugno 2023

Il giornalista di «Chi l'ha visto?» nel 1998 a Londra intervistò l'uomo che risultava scomparso. A lui confessò il triplice delitto del fratello e dei genitori:  «La sua morte mi ha gelato il sangue, si era pentito dei tre omicidi»

 «Ferdinando Carretta era stato fermato dalla polizia a Londra, poi dai giornalisti e infine da me. Ero lì per “Chi l’ha visto?” e fu proprio a me che confessò per primo il triplice omicidio». Questo il ricordo di Giuseppe «Pino» Rinaldi, inviato di «Chi l’ha visto?»: un lungo monologo tra riflessioni, pensieri e sul dolore nascosto dietro una vicenda storica per la cronaca nera italiana che ha segnato un’epoca. Aveva 27 anni Ferdinando Carretta quando, il 4 agosto 1989, uccise nella casa di famiglia il fratello minore, Nicola, e i genitori: Giuseppe e Marta Chezzi. Ferdinando aveva avuto un rapporto difficile con i familiari e le liti erano quasi all’ordine del giorno. Decise quindi di comprare una pistola semiautomatica in un’armeria e sparò ai tre. Poi iniziò a ripulire la casa per cancellare ogni traccia del delitto. Il giorno dopo fece sparire i cadaveri portandoli nella discarica di Viarolo, vicino a Parma. I corpi non furono mai ritrovati.

Carretta avvistato a Londra e l'arrivo dei giornalisti

Perché parte di questa storia l’ha scritta proprio lui, Rinaldi. Ferdinando Carretta era già stato fermato a Londra, un’altra volta ma evidentemente la polizia aveva inserito i dati nel modo sbagliato e non era risultato nulla a suo nome. Ma quella volta nel 1998 venne digitato correttamente il nome e il cognome nel computer della polizia e Carretta risultò scomparso dall’Italia e fu segnalato all’Interpol che inviò un poliziotto e un carabiniere che andarono ad incontrarlo. In presenza della polizia lui raccontò che si era allontanato dall’Italia con i famigliari, avevano litigato e loro erano partiti a loro volta per una meta sconosciuta. 

Le indagini di Pino Rinaldi sulla famiglia scomparsa

Questa la versione ufficiale che viene raccontata all’Interpol da Carretta. La notizia esce, viene raccontata anche agli organi di stampa. E a Londra arrivano i giornalisti. Lui a loro ripete la stessa versione che aveva dato all’Interpol e nessuno si preoccupò. «Io, con il mio operatore Gianlorenzo Gregoretti, arrivai ultimo – racconta Rinaldi – Arrivammo a casa di Carretta e iniziammo a parlare». Rinaldi aveva girato il mondo (in particolare il Centro America) alla ricerca dei Carretta ma non aveva trovato nulla. Fino ad allora. «Parlai molto con lui, mi diede la stessa versione che aveva dato agli altri giornalisti e io chiesi a Carretta se volesse fare un appello ai genitori a tornare, mi disse di no. Chiesi se potessi farlo io a nome suo e mi rispose di no. Ero perplesso». 

La confessione degli omicidi e della fuga a «Chi l'ha visto»

Poi ci fu il momento che a suo modo segnò la storia della televisione italiana e di quella vicenda di cronaca. «Abbassò gli occhi, poi li rialzò e mi disse - ricorda ancora Rinaldi - E se loro non potessero sentire». In quel momento mi gelò il sangue. Continuammo a parlare e dopo tre ore mi raccontò per filo e per segno tutto quello che era successo. Del triplice omicidio e dell’occultamento dei cadaveri e delle prove. La consapevolezza che dicesse la verità arrivò da un particolare: la descrizione dell’odore della morte». Rinaldi capì che il ricordo era vero. L’inviato restò a Londra con Carretta che alternava momenti di calma a momenti in cui si chiudeva in se stesso. «Dopo dieci anni, aveva confessato a me (e quindi al mondo intero) la verità di questo triplice delitto e io avevo paura facesse una qualche sciocchezza». 

Rinaldi: «Lo convinsi a costituirsi in Italia»

Durante quei giorni Giuseppe Rinaldi e l’operatore non girarono un centimetro di pellicola con il massimo rispetto per Ferdinando. Rinaldi cercò di convincerlo a consegnarsi a Scotland Yard non riuscendoci però lo convinse a tornare in Italia e a costituirsi. «Ti va di fare un’intervista? gli chiesi – racconta Rinaldi - Lui mi rispose di sì e prima di ripartire per l’Italia facemmo il video di un’ora e dieci minuti celebre del caso che andò in onda su “Chi l’ha visto?”. Mi furono scritte un sacco di cattiverie, che io lo volevo portarlo in trasmissione, ma quando mai? Arrivammo a Roma, lui andò a Parma, confessò tutto quanto e il giorno dopo andava in onda l’intervista su “Chi l’ha visto?”». 

Il rapporto proseguito anche negli anni successivi

In questi anni Giuseppe Rinaldi e l’assassino si sono sentiti varie volte e si sono anche incontrati. «Quando ho saputo che era morto mi si è gelato il sangue nuovamente» spiega Rinaldi. E poi parla dell’avvocato di Ferdinando: «Luigi Antonio Comberiati che mi ha detto che ora era un uomo libero, aveva risolto con la giustizia. Ogni tanto andava a fare terapia psichiatrica e all’uomo di legge diceva che era felice, dopo essere stato a Forlì tanti anni. Mi disse una volta “Non sono morte tre persone quel giorno ma quattro”. Non passava giorno che il pensiero andava alla madre al padre e al fratello. Io penso si fosse pentito».

(ANSA l'1 giugno 2023) - È morto a Forlì, dove viveva da quando era tornato in libertà, Ferdinando Carretta, che nel 1989, a Parma, uccise i genitori e il fratello. Venne rintracciato solo nove anni dopo, quando si era trasferito in Inghilterra. 

Carretta aveva 61 anni e abitava a Forlì, in una casa che aveva acquistato con l'eredità della famiglia. Lavorava per una cooperativa sociale e a quanto si apprende era malato da tempo. 

Carretta dal 2015 era tornato in libertà e anziché rientrare nella sua Parma aveva deciso di restare a Forlì, acquistando una casa. Viveva nel quartiere Ronco, peraltro uno dei più colpiti dalle alluvioni dei giorni scorsi. A dare l'allarme è stato un vicino di casa che non lo vedeva da qualche giorno: quando i vigili del fuoco sono entrati in casa hanno trovato il cadavere. La morte risalirebbe a qualche giorno fa.

Ferdinando Carretta è morto a 61 anni: uccise a Parma i genitori e il fratello. Matteo Riberto su Il Corriere della Sera l'1 Giugno 2023

Carretta abitava a Forlì, in una casa che aveva acquistato con l'eredità della famiglia 

È morto a Forlì, dove viveva da quando era tornato in libertà, Ferdinando Carretta, che nel 1989, a Parma, uccise i genitori e il fratello. Venne rintracciato solo nove anni dopo, quando si era trasferito in Inghilterra. Carretta aveva 61 anni e abitava a Forlì, in una casa che aveva acquistato con l'eredità della famiglia. Lavorava per una cooperativa sociale e a quanto si apprende era malato da tempo. 

Il delitto

Aveva 27 anni Ferdinando Carretta quando, il 4 agosto 1989, uccise nella casa di famiglia il fratello minore, Nicola, e i genitori: Giuseppe e Marta Chezzi. Ferdinando aveva avuto un rapporto difficile con i familiari e le liti erano quasi all’ordine del giorno. Decise quindi di comprare una pistola semiautomatica in un’armeria e sparò ai tre. Poi iniziò a ripulire la casa per cancellare ogni traccia del delitto. Il giorno dopo fece sparire i cadaveri portandoli nella discarica di Viarolo, vicino a Parma. I corpi non furono mai ritrovati. L’8 agosto Carretta riuscì quindi a incassare un assegno da cinque milioni nella banca del padre, falsificandone la firma. Usò la stessa strategia per prelevare un milione dal conto del fratello. A quel puntò tentò di sparire. In primis abbandonò il camper della famiglia in un parcheggio di Milano, simulando così un allontanamento volontario di tutta la famiglia; lui compreso. Poi espatriò nel Regno Unito, a Londra. 

Le indagini e il processo

La trasmissione «Chi l’ha visto?» si occupò della sparizione della famiglia. E una svolta emerse durante una puntata: un telespettatore chiamò segnalando un camper in un parcheggio di Milano; mezzo che si rivelò poi essere quello della famiglia Carretta. Da quel momento le indagini si fecero sempre più intense. Nel 1998 Carretta, che lavorava come pony express a Londra, fu fermato durante un controllo della polizia. L’agente prese le generalità di quell'uomo che risultava nell'elenco delle persone scomparse: segnalò quindi il nominativo a Scotland Yard e vennero  informate le autorità italiane. Quando il procuratore della Repubblica si recò in Inghilterra per sentirlo, Ferdinando Carretta disse di non veder la famiglia dal 1989. Ma successivamente, in un’intervista rilasciata a un giornalista di «Chi l’ha visto?», Carretta ammise il delitto. Vennero quindi allertate le autorità e venne riportato in Italia per il processo. Nel 1999 la Corte d'assise di Parma lo riconobbe come il responsabile del triplice omicidio. Fu però ritenuto che, al momento del delitto, non fosse in grado di intendere e volere e venne quindi rinchiuso in un ospedale psichiatrico. Nel 2004 ottenne la semilibertà.

Cronaca nera. Muore a 61 anni Ferdinando Carretta: sterminò la famiglia nella casa di Parma. L'uomo si trovava a Forlì, città in cui ha trascorso gli ultimi nove anni in licenza-esperimento all'interno di una comunità. Federico Garau l'1 Giugno 2023 Su Il Giornale.

Ferdinando Carretta è morto quest'oggi a Forlì all'età di 61 anni. Il suo nome è divenuto tristemente noto per il massacro compiuto nella casa di famiglia di Parma, dove uccise a colpi di pistola entrambi i genitori, Giuseppe e Marta (rispettivamente di 53 e 50 anni) e il fratello minore Nicola (di 23 anni).

Cosa accadde

Uno degli aspetti più singolari della vicenda, tuttavia, è che il pluriomicida riuscì per anni a tenere nascosta la strage. La prima ipotesi che circolò allora, per motivare la sparizione improvvisa della famiglia, fu una fuga programmata ai Caraibi, ritenuta la patria degli scomparsi: il padre lavorò per oltre 30 anni come contabile in una rinomata azienda vetraria, per cui si ipotizzò la sottrazione di non ben precisati fondi neri con l'obiettivo di ottenere una vita agiata.

"Li ho uccisi tutti io" E il killer ammise in tv la mattanza in famiglia

Il piano di Carretta naufragò nel novembre del 1998, quando fu rintracciato a Londra, dove lavorava come pony express: fermato per un controllo, fu identificato da un poliziotto. Inizialmente l'uomo negò di essere a conoscenza del destino dei suoi familiari, poi, in modo del tutto inatteso, confessò tutto dinanzi alle telecamere di "Chi l'ha visto?". Carretta rivelò dettagli che solo l'omicida poteva conoscere, e spiegò di aver trasportato i cadaveri in una discarica di Viarolo, alla periferia di Parma. Ciò nonostante, tuttavia, nè i corpi nè l'arma del delitto furono mai ritrovati dagli inquirenti.

La pena

Il 61enne è venuto a mancare a Forlì, città in cui ha trascorso gli ultimi nove anni in licenza-esperimento all'interno di una comunità, nella quale svolgeva la mansione di impiegato presso una cooperativa sociale. Prima di questo aveva scontato sette anni e mezzo nell'ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (Mantova). E questo per via del fatto che era stato assolto dai reati a lui ascritti in quanto ritenuto totalmente incapace di intendere e di volere all'epoca dei fatti. In virtù di ciò, nel maggio del 2015, il magistrato di sorveglianza di Bologna accolse, pur con certe prescrizioni, la richiesta di libertà avanzata da Cesare Menotto Zauli, legale di Carretta.

"Certamente mi sono pentito di quello che ho fatto", ammise il pluriomicida durante un'intervista. "Ho rovinato non solo la mia vita, ma quella dei miei genitori, di mio fratello e dei miei parenti. La gente non ha niente da temere nei miei confronti, perché quello a cui guardo io è di fare una vita tranquilla, di lavorare, fare una vita normalissima". "Vorrei che questa cosa non fosse mai successa" aggiunse, "quello che ho fatto non lo avrei mai dovuto fare. La gente deve giudicare, io accetterò sempre qualsiasi conseguenza".

La vendita della casa del massacro

Suscitò più di qualche polemica la notizia della vendita, da parte sua, della casa in cui avvenne il massacro, un appartamento di 120 mq sito al primo piano di una palazzina in via Rimini: Carretta riuscì a ottenere 200mila euro, dopo aver stretto un accordo con le sorelle della madre circa la divisione dell'eredità. Dopo di che , coi proventi, acquistò la sua casa di Forli. "Ha scontato la sua pena, mi auguro solo che ora sia una persona serena ed equilibrata", disse allora la zia Paola Carretta, unica rimasta in vita dopo la morte di Adriana e Carla Chezzi, sorelle di Marta. "I corpi però' non sono stati scoperti e non riesco a darmi una spiegazione logica".

Scena del crimine. “Né serial killer né pista cimiteriale”: il mistero del “collezionista di ossa” della Magliana. Nel 2007 nel quartiere Magliana di Roma venne trovato uno scheletro perfettamente composto che corrispondeva ai resti di 5 persone, oltre i documenti di un anziano scomparso 4 anni prima. Rosa Scognamiglio e Angela Leucci il 2 Giugno 2023 Su Il Giornale.

Per gentile concessione di Chantal Milani 

Tabella dei contenuti

 La scoperta

 L’attribuzione

 Il mistero

Serial killer o “collezionista d’ossa”? La vicenda della scomparsa di Libero Ricci si intreccia con un insolito ritrovamento, quello di uno scheletro bruciato, le cui ossa appartenevano a 5 diverse persone, nei pressi dei documenti dell'anziano romano. Una sorta di macabra “composizione” che ha sollevato tanti interrogativi, tutti rimasti senza risposta, per via dell’archiviazione dell’indagine. La dottoressa Chantal Milani ha ricostruito uno dei volti di queste 5 persone, partecipando a un progetto promosso dal Commissario Straordinario per le Persone Scomparse in capo al Ministero dell’Interno per identificare corpi rimasti senza nome. Antropologa e odontologa forense, Milani è stata coinvolta dai professori Vittorio Fineschi e Luigi Cipolloni che si sono occupati del caso.

Secondo Milani, è difficile immaginare che questo caso sia quello di un serial killer. “Quella del serial killer è l'ipotesi che ritengo meno probabile - chiarisce a IlGiornale.it - È una 'ricostruzione di uno scheletro' singolare, ma non ci sono altri casi simili correlati o episodi di scomparse correlabili. Un eventuale approfondimento in quella direzione necessiterebbe di un lavoro più sistematico, ma ‘pour parler’ mi sembra fuori dall’insieme di elementi che caratterizzano l’operato di un serial killer”.

La scoperta

Il nome “Magliana”, a Roma, evoca le storie più nere della cronaca nera, dal Canaro ai crimini della Banda della Magliana. In questo quartiere, in via Pescaglia, nel primo pomeriggio del 27 luglio 2007 ci fu un intervento dei Vigili del Fuoco per placare un incendio. Quando le pompe dell’acqua cessarono la loro azione, furono ritrovati in quei pressi dei documenti e delle chiavi di un uomo scomparso anni prima e uno scheletro bruciato, anche se il suo teschio era apparso più spostato rispetto alle altre ossa ai soccorritori.

Il documento e le chiavi appartenevano a Libero Ricci, un artigiano che aveva lavorato in Vaticano, scomparso il 31 ottobre 2003 all’età di 77 anni. Ricci abitava con la moglie alla Magliana, nella zona Portuense, come riporta il sito della Polizia Penitenziaria, e quel giorno era uscito per fare una passeggiata. Gli inquirenti si orientarono subito sull’ipotesi che lo scheletro appartenesse allo scomparso, ma la verità era ben oltre all’immaginazione. Preliminarmente è giusto precisare che il responsabile della composizione non fu sicuramente Ricci secondo gli inquirenti: l'anziano, che già una volta aveva tentato un allontanamento, temendo a torto che le sue condizioni di salute pesassero sui suoi cari, soffriva di demenza senile e non aveva conoscenze di anatomia tali da compiere quell'azione. In altre parole chiunque sia il "collezionista" sicuramente non fu Libero Ricci.

“Prima della ricostruzione del volto - continua Milani, che ha lavorato sul teschio di una donna, denominata F1 che componeva lo scheletro - mi sono occupata di riprendere lo studio di quelle ossa. Passaggio preliminare inevitabile. La ricostruzione infatti è l'ultimo anello di una catena di analisi antropologiche. Il primo step è sempre la stesura del profilo antropologico che emerge attraverso l’analisi dei resti umani. Perché le ossa, anche solo attraverso analisi conservative, quindi non distruttive come può invece essere il Dna, spesso ci danno molte informazioni: ci dicono se si tratta di un uomo o una donna, l’età, la statura o la costituzione, e così via. A volte anche le condizioni di vita in cui ha vissuto”.

Non solo. “I casi di resti incompleti e commisti, quindi di più individui come in questo caso, non sono mai semplici. In questo caso siamo partiti avvantaggiati da una buona base di analisi già fatte all’epoca: dal sapere che, ad esempio, quel cranio appartenesse con certezza a una donna. In realtà un cranio mostra molti indicatori del sesso dell’individuo, quindi anche senza analisi genetica, la morfologia di quel cranio mostrava comunque caratteristiche prevalentemente femminili. Altri dettagli mi hanno permesso di confermare o rivalutare anche età e costituzione fisica. Questo insieme di elementi costituisce il profilo antropologico che mi aiuta a scegliere i corretti 'spessori di tessuti molli' fra tutti quelli presenti in letteratura. Questi vanno poi collocati in precisi punti anatomici del cranio e servono come guida per modellare muscoli e, strato dopo strato, tutti i tessuti fino alla cute”.

L’attribuzione

La procura di Roma aprì un fascicolo per omicidio e occultamento di cadavere, l’inchiesta fu affidata al pm Marcello Monteleone. Era giunta infatti sul posto la Squadra Mobile, tutto era stato repertato. Qualcosa da subito però non quadrava: i famigliari di Ricci non riconobbero come suoi alcuni vestiti e le scarpe ritrovati vicino allo scheletro. Così viene effettuato un esame del Dna, che nel 2010 dà esito negativo: nessuna delle ossa trovate appartenevano a Ricci, ma a 5 differenti persone, 3 donne e 2 uomini.

Le analisi successive furono affidate, come riporta "Chi l’ha visto?", all’Istituto di Medicina Legale di Roma insieme al laboratorio "Circe" del dipartimento di scienze ambientali di Caserta, dell’Università di Napoli, che risalirono alla data indicativa della morte e all’età delle 5 persone i cui resti erano stati “accomodati” per formare uno scheletro, come si trattasse di un solo individuo.

“È tutto eseguito al computer, ma non c’è niente di automatico - racconta Milani in merito alla ricostruzione del volto effettuata da lei nel 2023 - dopo aver ottenuto dalla Tac una copia virtuale del cranio, ogni singola componente anatomica, muscolo e centimetro di cute deve essere modellata in ambiente virtuale dall’operatore. La ricostruzione del volto si basa sul principio che il cranio, come la gran parte delle strutture anatomiche, presenta elementi fortemente caratterizzanti la persona a cui è appartenuto. Di conseguenza, i tessuti molli che si appoggiano su di esso e lo 'vestono' manifesteranno un insieme di proporzioni, forme e dettagli del cranio sottostante, che in parte emergeranno anche nel volto finale”.

All’epoca del ritrovamento si ricorse all’analisi del radiocarbonio “Bomb Spike”. Venne stabilito che: “Il teschio e la spina dorsale sono di una donna tra i 45 e i 55 anni (F1). È deceduta tra il novembre 2002 e il novembre 2006. Altre ossa (F2) appartengono a un’altra donna, più giovane, tra i 20 e i 35 anni, morta tra il novembre del 1992 e il febbraio del 1998. I resti della terza donna (F3), anche lei giovane, tra i 35 e i 45 anni, ne datano il decesso tra l’aprile del 1995 e il dicembre del 2000. Il primo maschio (M1) aveva tra i 40 e i 50 anni quando è morto tra il febbraio 2002 e l’ottobre 2006. Il secondo (M2) aveva tra i 25 e i 40 anni, ed è morto tra il febbraio 1986 e l’ottobre 1989”.

Milani ha ricostruito appunto il volto di F1. “Il risultato è stato l’elaborazione di un volto di donna basata su un insieme di metodi scientifici e ipotesi ragionate - dice ancora Milani - La base scientifica è data dalle tecniche di ricostruzione ormai rodate dalla comunità scientifica nel corso degli anni e che porta a ottenere un volto glabro. Si aggiungono inevitabilmente dei dettagli ipotetici come colore di occhi e capelli, 'trucco e parrucco’ per intenderci, che vengono scelti su ragionamenti statistici di massima legati al tipo di popolazione (o in altri casi giudiziari da eventuali indizi che possono essere trovati sulla scena del crimine). In questo caso questi indizi erano scarsi, tant'è che ho prodotto più versioni (capelli chiari, scuri, lunghi, corti). Il volto che emerge non vuole essere inteso come la fotografia esatta dell’individuo, ma un volto che è compatibile con quel cranio e può essere suggestivo, mirando a richiamare l’attenzione di un osservatore che può riconoscerne anche solo alcuni aspetti”.

Ma c’è anche un altro dettaglio molto misterioso: questa donna individuata come F1 presentava parte del Dna mitocondriale - che unisce gli individui per linea materna - in comune con Libero Ricci: in altre parole poteva essere una sua parente indiretta, forse un’antenata in linea femminile. Il giallo è davvero fitto, soprattutto se si considera che i documenti di Ricci potrebbero essere stati ritrovati in quel luogo per una mera casualità.

Il mistero

Diversi famigliari di scomparsi contattarono “Chi l’ha visto?”, per cercare di capire se alcune di quelle ossa appartenessero ai propri cari. Tuttavia l’inchiesta, non essendo riuscita a sciogliere il giallo, fu archiviata a marzo 2011 dal gip Nicola Di Grazia su richiesta del pm Monteleone. Si spera che la ricostruzione del volto compiuta da Milani possa permettere il riconoscimento da parte di un parente: “Magari! Anche se sono un po' perplessa riguardo ad alcuni aspetti del caso in generale. Quello del 'collezionista di ossa' è un caso sicuramente eclatante nel quale è molto singolare l’attenzione nella disposizione delle ossa. È tuttavia un caso in cui credo non possano essere ancora escluse le ipotesi più semplici, ripartendo da una nuova interpretazione di alcuni dati”.

Due furono le ipotesi principali percorse dagli inquirenti. La prima: quei resti sarebbero stavano relativi agli omicidi commessi da un serial killer. Tuttavia mancavano delle azioni rituali e ripetute e tra un presunto omicidio e l’altro sarebbe intercorso troppo tempo. La seconda: chi aveva composto lo scheletro in quel modo sarebbe stato un trafugatore di cimiteri. Venne effettuato, per sicurezza, anche il confronto con il Dna di Emanuela Orlandi, ma il test diede esito negativo. Improbabile anche l'ipotesi che quello fosse una sorta di "cimitero" della Banda della Magliana.

Lo shampoo al cervello e le torture: il "sogno" e il delitto del "Canaro"

“Il marsupio con il portafoglio, che è stato trovato nei pressi della discarica prossima a un campo rom, contiene i documenti di Libero Ricci - illustra Milani - ma questo potrebbe anche essere un reperto casuale ed essere stato gettato lì fra i rifiuti anche in tempi successivi. Che il Ricci avesse in comune col cranio una determinata origine, si è parlato di origini ebraiche parecchio indietro nel tempo, può essere una cosa comune a molti individui soprattutto per quel che attiene alla popolazione ebraica nel territorio laziale. Poi vi sono le analisi che sono state eseguite sulle ossa e che non rilevarono tracce di zinco, circostanza che ha portato gli inquirenti a escludere la pista cimiteriale. Risultato che però rischia di portare fuori strada. Se fosse stata rilevata la presenza di zinco avrei potuto pensare a una realtà cimiteriale, ma la sua assenza potrebbe essere, invece, un cosiddetto ‘falso negativo’”.

Il dettaglio dello zinco non è da sottovalutare: “Se non c'è zinco può darsi semplicemente che il frammento prelevato non sia entrato in stretto contatto con componenti in zinco della cassa. La datazione inoltre non deve essere mai presa nuda e cruda come esce dal laboratorio, ma necessita di alcuni ‘fattori di correzione’ e di interpretazione. Fu fatto un gran bel lavoro all’epoca, ma inevitabilmente alcune tecniche e conoscenze di 15 anni fa sono inferiori a quelle di oggi. Se questa piccola 'ricognizione' non invasiva un domani potesse essere affiancata da qualche ulteriore analisi di laboratorio, magari potrebbe aggiungersi qualche altro tassello. Chissà”.

Anche il professor Cipolloni ritenne nell’indagine dell’epoca improbabile la pista cimiteriale per diverse ragioni. Innanzi tutto le morti di questi individui sono stati datati tra il 1986 e il 2006, quindi è difficile che le ossa si presentassero naturalmente scarnificate. È molto probabile che comunque il processo di scheletrizzazione non fosse completo: alcune parti delle ossa presentavano lesioni compatibili a morsi di animali. Inoltre questa pista dovrebbe dar conto dell’ipotesi che lo scheletro sia stato composto sul luogo del ritrovamento.

LA VEDOVA NERA: MILENA QUAGLINI.

Gaia Vetrano il 25 Febbraio 2023 su nxwss.com

Nella storia del crime italiano, quello della Vedova Nera è uno dei racconti meno conosciuti. Eppure, nella narrazione della violenza sulle donne, Milena Quaglini è un nome che spicca.

Ma facciamo un passo indietro, di un bel po’ di anni. Quando la Grecia non era costituita da città, ma da polis. Quando la guerra era un affare sporco, per soli uomini. Le donne non sono fatte per sporcarsi le mani, né con il fango né con il sangue. Eppure, le dispute più grandi sono combattute proprio a causa dell’amore – o del possesso – del virgineo candore di una di queste.

Ritornare agli anni in cui la donna era custode del focolare e della prole. Un oggetto di trattative, venduta in matrimonio al primo ricco offerente. Dobbiamo fare un passo indietro a quando non esisteva il concetto di femme fatale. Di moglie ribelle e adultera. Di assassina.

Quando Agamennone vede per la prima volta Clitemnestra, matrona greca sposata con Tantalo, rimane folgorato dalla sua beltà. Dai ricci capelli neri, la pelle bianca come il latte. Il fisico sodo, le dita esili. Lui, re dell’Argolide, la vuole per sé. Così, come se fosse la ricompensa migliore di un bottino, uccide il marito e il figlio. Poi, la violenta.

Agamennone è un uomo moderno, da un ego smisurato, per quegli anni. Sempre pronto ad anteporre il suo lavoro da guerriero alla sua famiglia e alla sua casa. 

Clitemnestra ha ben poche ragioni per amare il suo nuovo marito. Un uomo che, per la narrazione dei suoi contemporanei, rimane un combattente che, per volere del fato, ha la sfortuna di incontrare la scellerata che ne causerà la morte.

Il mito ci porta attraverso una storia disturbante, quella di una donna sottratta dalla sua casa e dalla sua terra e diventata premio di un uomo pronto a partire per la guerra. Ma, prima della volta di Troia, Agamennone compie un crimine che viene dimenticato da tutti, tranne che da Clitemnestra stessa: uccide Ifigenia, sotto consiglio dell’oracolo Calcante.

La prole delle violenze che aveva subito perde la vita per favorire una guerra da lei non voluta.

La flotta greca, grazie al sacrificio di Ifigenia, può finalmente partire da Aulide. Un delitto mosso per ottenere il favore di Artemide, divinità contro cui Agamennone aveva compiuto un torto: dopo aver ucciso una capra, si era vantato di essere un cacciatore più bravo della Dea.

Ifigenia, tratta in inganno, agghindata per sposarsi con il bellissimo Achille, muore sotto i flebili raggi del Sole a causa di un atto di tracotanza da lei non compiuto. La guerra di Troia è più importante di lei.

Eppure, questo darà vita a un moto di odio che divorerà l’animo della madre. A Clitemnestra, per ragioni di guerra, viene sottratto il frutto del suo ventre. Ma lei non è la moglie devota, che abbassa la testa davanti ai soprusi di un marito che, mentre lei patisce il lutto, sfoga i suoi ormoni in guerra.

Tornato da Troia, tronfio di orgoglio per la vittoria, porta con sé la sua nuova concubina: Cassandra, figlia del re di una città ormai rasa al suolo, Priamo.

Ma anche Clitemnestra è una donna moderna. Certo, non per i suoi contemporanei. No, lei non accetta il suo ruolo di fedele compagna, che sta zitta mentre il marito fa ciò che vuole, e aspetta trepidante il suo ritorno. Non ha niente a che vedere con Penelope, che attende per vent’anni Ulisse, mentre questo vaga per il Mediterraneo, divertendosi all’occorrenza con Circe e Calipso.

Dopo il gesto di estremo egoismo del marito, Clitemnestra prende come amante il cugino di questo, Egisto. Fa allontanare il figlio, Oreste, e dà in sposa Elettra a un contadino.

Ai giorni nostri, sarebbe forse Agamennone un uomo determinato e ambizioso, mentre Clitemnestra una malvagia adultera? Forse una cagna, termine con cui nell’Antica Grecia le donne venivano etichettate. Oreste ed Elettra, fratello e sorella di Ifigenia, difendono comunque il padre.

Agamennone sceglie di abbandonare la famiglia e le responsabilità da questa dovute ma viene comunque legittimato e protetto dai figli.

Clitemnestra, in un periodo di odio verso il genere femminile, decide di non chiudere gli occhi davanti ai soprusi subiti. Abbandona il luogo dove la società la imprigiona, il gineceo, e rinuncia a essere madre. Si stacca dai suoi figli e medita la vendetta, compiendo la più grande nefandezza.

Adornata da maschi alpha, i cosiddetti uomini eroi, sempre accompagnati dalla spada. In un’epoca dove alle donne spettava solo l’uso dei mestoli da cucina, o del telaio, Clitemnestra è la prima a impugnare un’arma.

Al suo rientro, Agamennone non trova una moglie amorevole, felice di vederlo. Ma un inganno. Lo stesso nel quale era caduta Ifigenia. Nella casa in cui dovrebbe essere al sicuro, lontano dalla guerra, viene pugnalato da Clitemnestra in bagno. Fuori, nella sala principale, i suoi compagni lo attendono per un banchetto in suo onore, destinati anche loro a morire. 

Clitemnestra lo decapita con l’aiuto di Egisto, infliggendo da sola l’estrema condanna per le sue colpe. Prima tra tutte quella di averla scelta come compagna e averla sottratta da una vita felice con Tantalo.

Persino in punto di morte, Clitemnestra non cambierà mai idea. Non si pentirà della sua scelta. Sarà suo figlio, Oreste, frutto del suo seno, a ucciderla. Una madre adirata. Il sacrificio di una innocente. La morte di un guerriero – talvolta padre – che aveva a sua volta portato devastazione nella vita di molte altre persone. E, infine, la vendetta. Una famiglia divorata dal desiderio di vendetta.

Milena Quaglini la conosce molto bene. Ha provato sulla sua pelle il brivido – forse adrenalinico – che si prova quando si crede di avere il totale potere su una persona. 

La sua è una storia particolare. Segnata da eventi atipici, che mai nessuno identificò come seriali.

Un racconto che inizia dalla fine, dal carcere di Vigevano.

Da una semplice cella, divorata dall’umido. Dove il sole entra debolmente, come a dover chiedere il permesso, dalla piccola grata sul tetto. Le cui pareti, bianche e color crema, sono ormai più scure, per via dello sporco e della polvere.

Milena vive lì ormai da sei lunghi anni. Conosce quel luogo a fondo. Le è familiare il suono dell’acqua che scorre nelle tubature. Ricorda a stento cosa voglia dire vivere all’aria aperta, con la pelle baciata dal Sole, che ora può vedere a stento. Le rimane solo la possibilità di ascoltare dalla finestra il rumore del vento.

Così come le manca il bruciore e il sapore dell’alcol, da cui è dipendente. E l’odore metallico del sangue.

A stento riesce a riascoltare, nel suo cervello, le vivide memorie delle sue due bimbe, che male si accoppiano con le urla di disperazione e di follia che, ogni tanto, echeggiano per i corridoi.

Se questa è vita Milena non lo sa. Ma sa bene che non può scappare. Sa di non essere un’assassina perché non si rende conto di uccidere. Eppure, ciò che la attende è il vuoto.

La sua storia inizia dalla fine. Dalla notte del 16 ottobre 2001 quando, la guardia carceraria, entra nella sua cella e la trova appesa al tetto con un lenzuolo stretto al collo. Il suo battito cardiaco è troppo lento da permetterle di sopravvivere. La portano in pronto soccorso dove ammira per l’ultima volta le angosce gorgogliare nella sua mente e prendere il posto della vita e del respiro.

Milena Quaglini, in punto di morte, ricorda solo le crisi isteriche ed epilettiche, le paralisi agli arti e le perdite di memoria di cui soffre.

Ma ancora più importante, conosce soltanto cos’è la vendetta. Un piatto che va servito freddo, come la lama di un coltello. 

Il confine tra il bene e il male

Il senso di colpa è un sentimento potente. Soprattutto quando è pesante e prepotente come un’incudine sulla coscienza. A maggior ragione se si è consapevoli del fatto che il delitto commesso non è stato premeditato ma che non c’è alcuna via di scampo.

La confessione può diventare un punto da cui ripartire per trattare la pena. Allo stesso tempo, l’omicida sa che è stato costretto a compiere quel gesto. Che la vendetta era necessaria. Forse, quando la Quaglini decise di chiamare la Polizia per denunciarsi, lo fece proprio per colpa di questo.

Forse, nel 1957, così come oggi, per l’uomo risulta confortevole distinguere nettamente il bianco dal nero. La vita dalla morte. Ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Vittime da carnefice. Eppure, la linea che li separa può risultare terribilmente sottile. Così come quella che delinea amore da dipendenza.

Quando si apre il dizionario e si cerca una definizione di serial killer, ciò che ne si evince è un assassino che non compie un omicidio isolato ma che, al contrario, ne compie una serie in un arco di tempo più lungo.

Milena Quaglini può solo risultare memento e perfetta rappresentazione di ciò. 

Nel 1957 nasce a Pavia una bimba sfortunata. Frutto di un’esistenza difficile, fatta da abusi, violenze e botte. Quelle che le infliggeva il padre alcolizzato. La madre è fin troppo debole di carattere per tener testa alla morbosa gelosia del marito, che la tiene bloccata a casa, e le restituisce solo schiaffi e lividi.

A condividere questo destino sono in tante. Eppure, Milena ha il coraggio di scappare e, a 19 anni va via di casa, dopo essersi diplomata in ragioneria.

Si stabilisce tra Como e Lodi, dove lavora saltuariamente come cassiera, badante e donna delle pulizie. Si mantiene a fatica, ma passa comunque dei mesi felici al fianco di un uomo gentile e premuroso, con cui decide di sposarsi e di mettere al mondo un figlio, Dario. Milena è innamorata: sono anni di tranquillità, con una figura stabile che la capisce.

La loro favola è tuttavia destinata a durare poco. Il marito si ammala infatti di diabete e muore in poco tempo. Milena rimane sconvolta da questo lutto, che le porta via la tanto agognata felicità. Ora le sembra irraggiungibile. Solo l’alcol può avvicinarla a quella sensazione di allegria che ormai risulta essere solo un ricordo.

Nuovamente è costretta a spostarsi e a cambiare comune di residenza, portando con sé un bagaglio di sofferenze e traumi sempre più grande.

Stavolta a San Martino Siccomario, dove conosce e si sposa con Mario Fogli, un camionista con anche lui problemi con l’alcol. Una persona prevaricatrice, ossessiva e patologicamente gelosa, tanto da costringere Milena a lasciare il lavoro, perché spaventato dalla possibilità che questo potesse tradirla con un suo collega. “Donna che lavora, donna che tradisce” diceva Fogli.

Mario è molto aggressivo, e riversa il suo carattere pessimo anche sul posto di lavoro, venendo cacciato più e più volte. Si sente un fallito e sfoga la sua frustrazione sulla Quaglini.

Con lui litiga spesso: per il lavoro, per la gestione del denaro, o riguardo il figlio Dario, che Mario caccia di casa. In comune avevano soltanto l’attivismo politico con la Lega Nord e due figlie. Poi rimangono solo le botte, le umiliazioni e i problemi economici. Solo tramite la pittura, Milena riesce a sfogare le sue sofferenze. Tale e quale a sua madre, pure lei subisce. Lei è il vero problema, lei la sbagliata, non Fogli.

Sei una lurida alcolizzata, non sai lavare, stirare, pulire o educare i tuoi figli. Per di più, l’ansia del futuro la tormenta. Mario non riesce a garantire una stabilità economica alla Quaglini così, quando gli ufficiali giudiziari si presentano per richiedere un pignoramento dei beni sull’uscio del loro appartamento a Broni, in provincia di Pavia, decise di separarsi e di andare ad abitare ad Este, con le due figlie più giovani.

Milena ha bisogno di soldi e inizia così a lavorare in una palestra e come badante per l’anziano Giusto Dalla Pozza, un ottantatreenne apparentemente gentile, che le presta 4 milioni di lire. Quando le viene offerta questa cifra, la donna accetta immediatamente.

Ciò che la Quaglini ignora è che vi è sempre un confine oscuro tra la bontà e la cattiveria delle persone. Ma sta per averne un assaggio sulla sua pelle.

La verità occulta

Il sole è sorto da un pezzo sulla cittadina di Este. Sono le 18.30 del 25 ottobre del 1995 e ancora fa un freddo tollerabile. Qualcuno sta andando in chiesa per la messa, qualcun altro fa merenda in un bar, altri si dirigono al lavoro.   

Tra il grande via vai di macchine e persone per le strade, anche un’ambulanza, che si dirige verso l’appartamento di Dalla Pozza, in via Schiavino numero 8. Nell’ingresso per terra macchie di sangue, che proseguono per tutte le scale. Poi, il corpo del padrone di casa, riverso a terra supino. Il cranio fracassato e la materia grigia che fuoriesce da questo.

La casa è nel caos: sangue ovunque, dall’ingresso alla cucina. Segni di colluttazione dappertutto. E poi vestiti accatastati sul materasso, il comodino spostato e la finestra in vetro in frantumi. Risulta verosimile come, dalle indagini effettuate sulle macchie rinvenute sugli stipiti, Giusto abbia sbattuto la testa contro uno spigolo e sia successivamente caduto.

Sugli indumenti di Dalla Pozza si trovano delle tracce di sangue coagulato, presenti anche sulle pareti. Come se qualcuno lo avesse trascinato. Si presume, dal fatto che vi sono dei segni anche sulla mensola all’ingresso, che la vittima sia riuscita ad alzarsi ma non a chiedere aiuto. Forse, barcollando, è a stento arrivato sull’uscio, cascando poi dalle scale.

Dalla Pozza viene portato in ospedale in coma. Morirà qualche giorno dopo. La donna ad aver dato l’allarme è proprio la badante, Milena Quaglini.

Come racconta ai Carabinieri, l’anziano aveva spesso problemi di deambulazione. Quando è arrivata a casa sua per cucinargli la cena l’ha trovato così. Secondo la sua testimonianza, sul tavolo della cucina si trovava una chiave inglese a pappagallo. Forse, l’arma del delitto. 

La sua versione dei fatti insospettisce però gli inquirenti: non risultano le chiamate che avrebbe effettuato al 113. Inoltre, racconta di non aver visto Giusto per almeno un paio di giorni, nonostante quanto affermino gli altre condomini, che la vedono nel palazzo addirittura il ventiquattro ore prima.

L’incuria, la sporcizia, il disordine, fanno insospettire tutti sul ruolo della donna in quella abitazione. Milena, turbata, ripete di aver assistito qualche giorno prima a un episodio analogo. Qualcuno avrebbe spinto Dalla Pozza giù dalle scale per non restituirgli i soldi che gli aveva prestato.

Ma non si trovano prove necessarie per seguire la pista dell’omicidio colposo. Giusto Dalla Pozza, per l’autopsia, muore a causa di un malore seguito poi dalle fratture provocate dalla caduta per le scale. Il caso viene archiviato come incidente domestico.

La verità su Giusto rimarrà occulta per cinque lunghi anni.

Milena Quaglini: l’angelo sterminatore

Morto Giusto, la Quaglini è costretta a tornare da Mario. I due ricominciano a convivere, dato che le due figlie non sono felici a causa della separazione. Ma il rapporto tra i due va sempre a peggiorare. 

Tra litigate, violenze fisiche e urla, il rumore della televisione è solo un sottofondo. Un continuo fondersi di fiction, varietà e giochi: i classici programmi del palinsesto del venerdì sera. In forno c’è la torta al cioccolato che Milena ha appena finito di preparare, da brava mamma, per le sue bambine.

Anche quella sera lei e Fogli hanno discusso, durante la cena. Forse a causa della stanchezza, Mario è subito andato a letto. Sarà rimasto giusto un quarto d’ora sul divano, ignorando la Quaglini.

Verso mezzanotte rimane solo la donna, seduta sul tavolo in legno della cucina con un bicchiere di brandy in mano. L’ennesimo della serata. Per quanto, infatti, si sforzi a bere di meno, da quando è ritornata a casa del suo ex-marito non riesce a smettere. Senza di questo non potrebbe essere tranquilla, ma anzi spaventata, dal suo compagno.

Così, passa la notte insonne, a osservare suo marito dormire, avvolta dalle tenebre. Lo scoccare delle lancette dell’orologio si fa sempre più pesante, così come i pensieri nella testa di Milena. 

Il giorno dopo è domenica 2 agosto. Fuori fa caldo ed è una bella giornata. Il Sole splende e l’aria è pulita. Molti dei condomini si stanno divertendo a ripulire il proprio appartamento. Altri sono a mare, a godersi gli ultimi giorni della bella stagione, che a Pavia non dura molto,

Tra i pochi rimasti a casa c’è la famiglia della Quaglini. Milena è infatti nuovamente seduta al tavolo della cucina quando le due bambine si svegliano. Ha delle profonde occhiaie e neanche tanta voglia di mangiare. Davanti solamente una tazzina di caffé, un’aspirina per il mal di testa e la bottiglia di brandy della sera prima, ormai vuota. Ogni tanto guarda con apprensione le bambine, che ricambiano gli sguardi premurosi.

Quando le chiedono dov’è papà, risponde che è fuori a sbrigare delle commissioni, ma che sta tornando a casa. Le due piccole vanno poi a sedersi di fronte al divano, per guardare la televisione. La più piccola, quella di cinque anni, le chiede come mai ci sia un tappeto che pendola dalla finestra, con un cumulo di rifiuti ai piedi.

La Quaglini si alza in piedi e raccomanda alla due di non toccarlo, con la voce tremante. “La mamma ha appena finito di lavarlo, state attente e non avvicinatevi“, ripete a oltranza. Le due annuiscono. Poi Milena le abbraccia, stringendole a sé. Dà a ognuna di loro un bacio sulla fronte.

Prende il telefono di casa tra le mani. Ha il magone in gola ma sa che è la cosa giusta. Ha dovuto farlo e, adesso, questo è l’unico modo per ottenere una pena minore così da poter tornare prima dalle sue figlie.

Piano piano, le dita, tremanti, premono due volte il numero uno e poi il due. Dall’altra parte della cornetta il vicebrigadiere di turno al centralino, Luigi de Montis. Il respiro è pesante, la voce interootta dai singhiozzi.

A questo, Milena dirà: “Ho ammazzato mio marito”.

Le tre vittime della Vedova Nera

Al telefono, la Quaglini racconta per filo e per segno i dettagli del delitto.

Sono le 22.30 dell’1 agosto quando, prima di andare a dormire, Mario riempie nuovamente di botte Milena. Ormai è di routine, ma non sa che questi schiaffi alimentano ormai da giorni la natura mostruosa che la Quaglini cova dentro di sé.

L’alcol la nutre più del cibo, la disseta più dell’acqua. E’ più confortevole di un abbraccio e diventa un consigliero fidato. Nei suoi bicchieri è ormai solita scogliere anche pasticche di psicofarmaci. Un mix letale, che aveva più volte usato sperando di arrivare alla morte. 

Quella sera, inspiegabilmente, Milena Quaglini capisce di non meritarsi tutto questo. La luna illumina tutta la stanza. Tra le sue dita, le corde delle tapparelle le trasmettono una scarica lungo tutta la spina dorsale. Per la prima volta sente il controllo tra le mani.

Cautamente si avvicina a Mario, che dorme beato. Con quella corda lega prima tra loro le sue caviglie, poi i polsi, infine il collo. In gergo tecnico si tratta del nodo scorsoio. Più banalmente, lo incapretta.

Sentendo il respiro mancare, il marito spalanca gli occhi e si dimena, cadendo dal letto. Nuovamente le dà della poco di buono e le ordina di liberarlo. Lo fa urlando e rischia di svegliare l’intero vicinato, comprese le figlie. Così Milena prende in mano una lampada e lo colpisce alla nuca. Poi afferra il portagioie, presa da una furia incontrollabile, e glielo sbatte addosso ripetutamente.

Non soddisfatta alza un piede e lo schiaccia contro il collo di Mario. Poi impugna uno degli estremi della corda e, con tutta la sua forza la tira verso di sé. Il corpo di questo si irrigidsce e il volto si fa sempre più gonfio. Un ultimo sospiro esce fuori dalle sue labbra.

Passano i minuti e Milena ritorna in sé. Gli chiede, anzi lo supplica di svegliarsi. Ma è ormai troppo tardi. Mario Fogli è morto.

Il suo corpo lo avvolge, come una mummia, in dei sacchetti di plastica, e lo nasconde sotto il tappeto.

Ciò che stupirà gli inquirenti è il fatto che, nonostante l’omicidio del marito, Milena continui a ripetere di essere la vittima.

Nell’aprile del 99′ la Quaglini viene condannata dal Tribunale di Voghera a quattordici anni ma l’avvocato Licia Sardo riece a far abbreviare la condanna, sfruttando le condizioni di semi-infermità mentale. La pena diventa di sei anni e otto mesi da scontare agli arresti domiciliari.

La spediscono così da una comunità di recupero e l’altra, da cui viene sempre cacciata perchè continua comunque a bere.

Chiunque sembra rifiutarla: nessuno vuole in casa Milena Quaglini, una killer alcolizzata. La prigione non è però un posto per una donna come lei, che finalmente ha scoperto cosa voglia dire essere libera, oltre che avere il controllo su un uomo.

Mario Fogli non sarà l’ultimo. 

Il 24 ottobre dello stesso anno, le Forze dell’Ordine si addentrano nell’Oltrepò pavese. C’è freddo, vento e umido. Oltre a un sottile strato di nebbia, tipica delle zone.

Un odore acre e nauseante proviene dalla concimaia di una villetta del luogo. Al suo interno il cadavere in posizione fetale di un uomo, rannicchiato. Un letto di mosche ronza sopra di esso, attirato dall’avanzato stato di decomposizione in cui si trova.

Sulla scena del crimine vengono ritrovati un salva-slip, dei capelli e una scatola di sonniferi vuota. In più, la fiat della vittima, Angelo Porrello, è sparita.

Dal confronto della targa, gli inquirenti hanno la conferma di chi sia il colpevole. Qualche settimana prima, a bordo della stessa auto, avevano trovato Milena Quaglini, evasa dai domiciliari.

Nervosa, nega più volte di avere a che fare con la morte di Angelo. Ma sono molte le prove a inchiodarla, prima tra tutte la scatola di ipnogeni, gli stessi che usa lei secondo la sua cura psichiatrica.

La Sardo la interroga una seconda volta. Quando le viene chiesto se c’entra con il delitto di Porrello, Milena ghigna, poi abbassa leggermente il capo e lo avvicina a quello dell’avvocato, seduto di fronte a lei. In un sussurro, dà il via alla confessione.

Angelo Porrello è un cinquantatreenne longilineo e ben impostato in cerca di una compagna a cui affittare una stanza di casa sua. Una donna di massimo quarant’anni disposta a svolgere dei lavoretti domestici. L’uomo ha appena finito di scontare il carcere per abuso su minori: aveva violentato le sue figlie.

Ma, quando Milena accetta l’offerta, di cui aveva letto su un giornale, ignora questo dettaglio. In fondo è proprio quello che cerca, un luogo dove scontare gli arresti domiciliari.

La Quaglini è così minuta. Ha gli occhi grandi e scuri. Le mani esili. Le labbra poco pronunciate e il sottile naso all’insù. Sembra quasi un angelo, dall’aspetto infantile. Porrello ne viene conquistato: appena può prova a baciarla, afferrandola per la gola, ma viene respinto. Angelo non accetta il rifiuto e la trascina per i capelli.

Inerme, Milena non può reagire quando viene lanciata sul letto. È sovrastata dall’altro, che le blocca i polsi sopra la testa. Le schiaccia le ossa del bacino e dello sterno con le sue e le strappa via la camicia. Poi le abbassa i pantaloni.

Presa dalla paura, ma anche dalla rassegnazione, mormora un’ultima sommessa preghiera. In preda a un orgasmo, l’uomo le si accascia addosso, prima di violentarla una seconda volta. Poi, si tira su l’intimo e si siede sul divano, mentre le ordina un caffè.

La donna recupera i sensi, ma non la lucidità, che è stata annebbiata. Mentre barcolla si dirige verso la cucina.. Una a una scioglie le pasticche del suo sonnifero nella bevanda, insieme ad abbondante zucchero. Angelo non si accorge di nulla, e ingurgita in un colpo la bevanda bollente che, sin da subito, gli provoca nausea e spossatezza. La testa vortica troppo velocemente. Prova ad aggrapparsi al collo della donna, ma crolla sul pavimento,

Milena a quel punto lo spoglia, lo infila nella vasca, e lascia scorrere l’acqua, affogandolo. Dopo trenta minuti, Porrello è immerso tra acqua tiepida, vomito e feci.

Eppure, quello di Porrello non è l’unico omicidio che confessa, ma anche quello di Giusto Dalla Pozza. Il suo Pigmalione che, quel giorno di ottobre del 95′ prova ad afferrarla da un braccio e a buttarla sul letto. Alla richiesta dell’uomo di restituirle in natura il denaro prestato, Milena si ribella. Afferra la lampada e lo colpisce alla nuca.

L’accusa si serve di nuove perizie psichiatriche che dimostrano che Milena Quaglini è assolutamente capace di intendere e di volere. Viene quindi mandata in carcere, dove morirà suicida in attesa del processo per l’omicidio di Porrello.

Termina qui la storia di Milena Quaglini. Una storia di abusi e sofferenze. Di depressione e dipendenze. Di sangue. Il racconto di una vita spezzata dal troppo dolore subito. Della prima vittima in Italia a diventare da vittima, una carnefice.

Della storia di Milena rimane solo il ricordo della sua voce e del suo viso d’angelo, divorato dalla vendetta.

Scritto da Gaia Vetrano 

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passione e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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"Punisco i maschi": e Milena divenne la vedova nera dell'Oltrepò. Tre uomini uccisi dopo violenze e abusi sessuali, ma resta ancora qualche dubbio sull'effettivo bilancio delle vittime di Milena Quaglini. Massimo Balsamo l'1 Giugno 2023 Su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L'infanzia e il vero amore

 La (breve) nuova vita

 Il secondo matrimonio

 La prima vittima

 La vedova nera del Pavese

 Il terzo omicidio

 La morte

“Non sopporto chi mi usa violenza, così punisco i maschi violenti uccidendoli”: una frase che riassume alla perfezione chi era Milena Quaglini, la vedova nera del Pavese. I maltrattamenti, gli abusi sessuali, le umiliazioni: tante le sofferenze affrontate, tante le angherie da vendicare. Traumi originati dalla figura paterna e mai sanati. Le serial killer donne non sono molte, per questo motivo risaltano spesso più degli uomini: lei e Leonarda Cianciulli sono le assassine seriali italiane più conosciute. E condividono un aspetto macabro: il dubbio sull’effettivo bilancio delle vittime. Secondo molti esperti, la Quaglini potrebbe aver lasciato dietro di sé almeno un’altra morte.

L'infanzia e il vero amore

Milena Quaglini nasce il 25 marzo del 1957 a Mezzanino, nella pianura dell’Oltrepò pavese, alla destra del Po. Il padre è un alcolista dedito alla violenza nei confronti della moglie e delle due figlie. Un uomo prepotente, geloso e ossessivo. Le violenze rivestiranno un ruolo fondamentale nella formazione della personalità di Quaglini, fino alla detonazione nell’età adulta. La madre invece è una casalinga che non riesce ad affrancarsi dalla ferocia del marito.

La (breve) nuova vita

Diplomatasi in ragioneria a Pavia, a 19 anni Quaglini decide di scappare di casa e inizialmente si guadagna da vivere come cassiera, badante e donna delle pulizie, spostandosi prima a Como e poi a Lodi. Una fuga dettata dalla necessità di libertà – le violenze del padre non erano più sopportabili – ma anche dall’amore. Milena Quaglini infatti conosce un uomo che ha quindici anni più di lei, lo sposa e dal loro amore nasce un figlio. Tutto procede a gonfie vele, ma purtroppo l’uomo si ammala e muore in maniera improvvisa.

Il secondo matrimonio

Dopo la morte del marito, Milena Quaglini decide di tornare a Pavia. Va ad abitare a Travacò e inizia a partecipare attivamente alla politica, fondando l’associazione “Donne padane della Lega”. Passa qualche mese e conosce un altro uomo, Mario Fogli. Dopo un'assidua frequentazione, i due decidono di fare sul serio e convolano a nozze. Dopo il sì in municipio però qualcosa si rompe. La vita di coppia cambia radicalmente, Fogli la obbliga a lasciare il lavoro per timore di tradimenti e la quotidianità è sempre più monotona.

Nonostante ciò, Milena Quaglini e il marito diventano genitori di due figli, uno dietro l’altro. Ma le difficoltà economiche sono incombenti – l’uomo lavora saltuariamente – tanto che un giorno arriva a casa l’ufficiale giudiziario per effettuare un pignoramento. La donna non sapeva di una sentenza di fallimento e scoppia l’ennesimo violento litigio. A gettare benzina sul fuoco inoltre è il rapporto tutt’altro che roseo tra Fogli e il primo figlio di Milena, nato dal primo matrimonio. Stufa ed esausta, la donna dice basta: sì alla separazione e via, alla volta del Veneto.

La prima vittima

Milena Quaglini insieme al primo figlio e a una delle due figlie avute da Fogli parte alla volta del Veneto, dove inizia a lavorare come collaboratrice domestica e portinaia in una palestra. Una delle case frequentate è quella dell’anziano Giustino Della Pozza, professione usuraio e prima vittima della vedova nera. È il 25 ottobre del 1995: la Quaglini aveva chiesto 4 milioni di lire in prestito all’83enne per comprare il motorino al figlio. Dopo aver pattuito le modalità della restituzione, Della Pozza pretende delle prestazioni sessuali.

Milena Quaglini però non accetta l’offerta dell’usuraio, memore delle violenze subite durante l’infanzia. Di fronte all’ennesima molestia di Della Pozza, la donna lo colpisce alla testa con la lampada di un comodino. Poi lascia l’abitazione e vi fa ritorno tre ore dopo, fingendo di trovare il corpo privo di sensi dell’anziano e contattando il 118. L’uomo muore dopo qualche giorno, nessun sospetto sulla Quaglini: le autorità collegano il delitto all’ambiente criminale, complice l’attività da strozzino della vittima.

La vedova nera del Pavese

Milena Quaglini decide dunque di tornare nel Pavese, a Broni a casa del marito, con l’obiettivo di provare a ricostruire la famiglia. Ma la donna non sta bene – soffre di crisi depressive – ha problemi con l’alcol e le cose tra le mura domestiche non vanno per il meglio. Il coniuge continua a umiliarla e a essere violento, arrivando a torturare il primo figlio. Tensioni, litigi e botte.

Più forte mentalmente dopo il primo omicidio, Milena Quaglini dice basta. Il 2 agosto del 1988 vede il marito addormentato sul letto e ne approfitta per stordirlo con un cofanetto di legno. Poi lo lega e lo strangola con la corda di una tapparella. Successivamente, porta il cadavere sul balcone e lo lascia avvolto in un tappeto. Le figlie, 5 e 8 anni, non si accorgono di niente. La donna spiega che è andato via per lavoro.

Ma il peso è difficile da sopportare: il giorno dopo chiama i carabinieri per confessare quanto accaduto. Racconta le liti, le botte, le brutali aggressioni. Ripercorre anche i tentati suicidi a causa di questa situazione insostenibile. A darle man forte, le testimonianze della madre, della sorella, delle figlie e di alcuni vicini di casa. Milena Quaglini viene condannata a 14 anni di carcere con attenuanti e le viene riconosciuta la semi-infermità mentale. Dopo un anno dietro le sbarre, la donna viene trasferita in una clinica del Pavese per seguire un programma di disintossicazione dall’alcol.

Il terzo omicidio

Nella clinica scelta per disintossicarsi Milena Quaglini incontra un uomo che si offre di ospitarla nella sua casa di Bressana per gli arresti domiciliari. Dopo qualche giorno però scappa, convinta che anche lui voglia abusare di lei, e risponde a un annuncio su una rivista per un posto di domestica in una casa di Bascapè. La Quaglini incontra così Angelo Porrello, tornitore di 53 anni appena abbandonato dalla moglie e dalle tre figlie. Un uomo con parecchi scheletri nell’armadio – a partire dalla condanna a sei anni di reclusione per violenza sessuale su minori.

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Il 6 ottobre Milena Quaglini firma il suo terzo omicidio. Dopo due giorni di convivenza, Porrello prima la assale fisicamente e poi la violenta. L’uomo prova un altro approccio sessuale, ma la Quaglini riesce a fermarlo e ad allontanarsi con la scusa di fare un caffè. Ma nella tazzina del 53enne scioglie dieci pasticche di sonnifero Halcion e alcune pasticche di un antidepressivo. L’uomo se ne accorge quando ormai è troppo tardi: il mix è già entrato in circolo. Milena Quaglini prova a nascondere il cadavere in un letamaio poco distante dall’abitazione a cancellare le tracce. Il corpo verrà rintracciato dopo venti giorni ma nessuno pensa subito alla vedova nera del Pavese.

Milena Quaglini torna dunque a casa dell'uomo che si era offerto di ospitarla per i domiciliari, ma deve fare i conti con un imprevisto. Dopo essere stata pizzicata fuori casa di notte due giorni prima, il 7 ottobre rimane fuori casa senza chiavi e verso mezzanotte contatta i vigili del fuoco. Insieme ai pompieri arrivano i carabinieri, che optano per la revoca definitiva degli arresti domiciliari. La donna torna dunque nel carcere femminile di Vigevano. Nel frattempo viene trovato il corpo di Porrello e le indagini portano a galla la verità: l'uomo conosceva molto bene Milena Quaglini. Dopo aver negato ogni responsabilità, la vedova nera del Pavese confessa.

La morte

Il 13 ottobre del 2000 si conclude il processo per l’omicidio di Mario Fogli: i giudici riconoscono il vizio parziale di mente e dimezza la condanna, da 14 a 6 anni e 8 mesi. Il 2 febbraio del 2001 Milena Quaglini viene condannata a 1 anno e 8 mesi per eccesso colposo di legittima difesa nel processo per la morte del signor Giusto. Il 16 ottobre 2001, alla vigilia della sentenza per l’omicidio di Angelo Porrello, la Quaglini decide di farla finita: all’1.50 viene trovata impiccata a una corda nella sua cella. Nonostante il repentino intervento dei sanitari, per lei non c’è niente da fare: alle 2.15 di quella notte i medici non possono fare altro che constatarne il decesso.

I segni compatibili con i colpi di un fucile. È un giallo la morte del dottor Pucillo, l’autopsia cambia tutto: “Non è stata una mucca, si indaga per omicidio”. Redazione su Il Riformista il 25 Marzo 2023

Lorenzo Pucillo era stato trovato morto mercoledì scorso, in un terreno di sua proprietà a Pescopagano, piccolo comune in provincia di Potenza. Si era pensato all’attacco di un bovino, fatale, che aveva stroncato la vita del medico 70enne, molto noto nella comunità, medico sociale del Picerno, club calcistico che milita il Lega Pro, Girone C. Qualcosa che somigliava a un incidente in qualche modo. E invece l’autopsia ha rimesso tutto in discussione: ora si indaga per omicidio.

Il cadavere di Pucillo era stato visto mercoledì mattina scorsa da un agricoltore della zona, in contrada Bosco delle Rose, che ha avvertito subito i carabinieri. Il corpo era stato trasportato dapprima all’Ospedale di Pescopagano, successivamente a Potenza per procedere con l’autopsia disposta dalla Procura della Repubblica per far luce sulle cause della morte del medico. L’esame autoptico si è svolto ieri, in mattinata.

Durante gli esami sul corpo dell’uomo sarebbero stati rinvenuti segni compatibili con colpi di arma da fuoco, in particolare di un fucile. L’anatomopatologo, ha scritto l’Ansa, ha riportato la presenza di ferite da arma da fuoco in più punti del torace. Le indagini hanno preso così tutta un’altra piega. Nelle prossime ore potrebbero essere ascoltate alcune persone per ricostruire le ultime ore di vita del medico. Le indagini proseguono con il massimo riserbo. Pucillo era da tre anni responsabile medico della società di calcio lucana. Si era laureato a Napoli in Medicine e Chirurgia e si era specializzato in Medicina dello sport. Era anche iscritto all’albo dei Medici Chirurgi di Avellino e a quello degli Odontoiatri.

La squadra scenderà oggi pomeriggio in campo contro il Gelbison con il lutto al braccio. “Professionista esemplare e uomo ‘spogliatoio’, il Dottor Pucillo, classe 1953, ha ricoperto il ruolo di Responsabile Sanitario dell’AZ Picerno dalla stagione 2020/2021, distinguendosi sempre per la strenua e infaticabile etica del lavoro coniugata ad un’unica e ammirevole cifra umana, qualità tutte che lo hanno portato a essere stimato professionalmente e, al contempo, a essere lodato umanamente”, aveva scritto in un comunicato la società in un post di “estremo dolore e tristezza” per la morte di Pucillo. “Buon viaggio carissimo Doc!”.

Gli inquirenti stanno allargando il cerchio delle indagini tra i conoscenti del professionista per risalire a un possibile movente. L’intera comunità di Pescopagano, dove il medico risiedeva, è sgomenta per l’accaduto. Sul posto sono intervenuti i Carabinieri della Compagnia di Melfi guidati dal capitano Carmine Manzi, insieme ai militari dell’Arma della Stazione di Pescopagano.

Il giallo del medico ucciso in Basilicata. Omicidio Lorenzo Pucillo, fermato un uomo: “Litigi per ragioni di vicinato”. Redazione su Il Riformista il 28 Aprile 2023 

A uccidere il medico Lorenzo Pucillo si era pensato in prima battuta potesse essere stata una mucca, una delle sue mucche. E invece no, era stato un efferato omicidio per il quale oggi è stato fermato un uomo su ordine della Procura della Repubblica di Potenza. L’omicidio, consumato nelle campagne di Pescopagano, piccolo centro in provincia di Potenza, sarebbe avvenuto dopo “pregressi litigi per ragioni di vicinato”. È il primo fermo nel caso dell’omicidio che si è consumato nel paesino in Basilicata, al confine con la provincia di Avellino, che da subito era apparso come un giallo.

Pucillo aveva 70 anni, era medico sociale del Picerno, club calcistico che milita il Lega Pro, Girone C. Da tre anni era responsabile medico della società di calcio lucana. Si era laureato a Napoli in Medicine e Chirurgia e si era specializzato in Medicina dello sport. Era anche iscritto all’albo dei Medici Chirurgi di Avellino e a quello degli Odontoiatri. Da ormai diversi anni Pucillo si era dedicato a una sua grande passione: l’allevamento di mucche podoliche.

Il suo cadavere era stato ritrovato in campagna, in contrada Bosco delle Rose, lo scorso 21 marzo. Il corpo era stato trasportato dapprima all’Ospedale di Pescopagano, successivamente a Potenza per procedere con l’autopsia disposta dalla Procura della Repubblica per far luce sulle cause della morte del medico. Le prime ipotesi dell’attacco di un bovino erano state smentite già al presidio ospedaliero sul luogo del delitto: sul corpo dell’uomo erano state ritrovate le ferite compatibili con i colpi di un’arma da fuoco, almeno un colpo di fucile.

“Un gravissimo omicidio, volontario, feroce, efferato”, aveva dichiarato in conferenza stampa il procuratore distrettuale antimafia di Potenza, Francesco Curcio che aveva lanciato una sorta di appello ai giornalisti in conferenza stampa. “Chi sa parli. Il diritto alla sicurezza deve essere sicuramente garantito dallo Stato, ma vi deve essere una consapevole collaborazione da parte di tutti i cittadini. C’è poi un dovere di solidarietà, calandosi anche nei panni della vittima e dei familiari”. Le indagini non avevano escluso alcuna pista: quella passionale, quella familiare, che però da subito erano sembrate perdere fondamento. Il terreno stesso e l’attività di allevamento erano state collegate all’efferato delitto. Si era parlato di avvertimenti alla vittima in passato.

A Picerno dicevano di non averlo mai visto teso, sempre il sorriso e la battuta pronta. In paese,  a Pescopagano, il sindaco e i concittadini ai giornalisti sul posto escludevano responsabilità a carico di qualche compaesano. Oggi pomeriggio la notizia dell’arresto del gravemente indiziato G. B. E.. Le indagini si erano servite di  raccolta di testimonianze, intercettazioni, rilievi su armi e la comparazione del DNA. L’arma del delitto è stata sequestrata e G.B.E. avrebbe reso “piena confessione” secondo Lapresse.

Fermato il presunto omicida del medico di Pescopagano: ha confessato. L’omicidio è avvenuto dopo «pregressi litigi per ragioni di vicinato». REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 aprile 2023.

Un uomo è stato fermato dai Carabinieri, su ordine della Procura della Repubblica di Potenza, perché ritenuto responsabile dell’omicidio di Lorenzo Pucillo, medico sociale del Picerno (quadra della serie C), avvenuto il 21 marzo scorso nelle campagne di Pescopagano, in provincia di Potenza.

L’omicidio è avvenuto dopo «pregressi litigi per ragioni di vicinato».

L’uomo fermato dai Carabinieri è Giovanni Battista Errico: nei suoi confronti i militari hanno eseguito un decreto di fermo emesso dalla Procura della Repubblica di Potenza, che lo considera «gravemente indiziato» di omicidio aggravato.

Il cadavere di Pucillo fu trovato il 22 marzo: in un primo tempo, si ipotizzò che il medico fosse stato travolto e ucciso da un bovino appartenente al suo allevamento. Successivamente, fu scoperta una ferita d’arma da fuoco causata da un fucile.

Al fermo di Errico - che «ha reso piena confessione» - si è arrivati dopo «complesse indagini»: interrogatori di vicini, parenti e conoscenti di Pucillo, esami del dna e rilievi su armi (una delle quali è stata sequestrata perché è quella usata per commettere l’omicidio).

La Procura della Repubblica potentina ha sottolineato «con particolare amarezza il clima omertoso» in cui si sono svolte le indagini. Il movente dell’omicidio è stato rintracciato nei litigi fra Errico e Pucillo «per ragioni di vicinato, dovuti verosimilmente allo sconfinamento delle mandrie della vittima nei terreni dell’indagato».

A Specchia provincia di Lecce. Ucciso a bastonate e gettato nel pozzo, sospetti sul fratello della vittima. La Redazione de La Voce di Manduria sabato 25 marzo 2023.

Un’altra probabile lite familiare all’origine di un omicidio consumato nel Salento. A Specchia, provincia di Lecce, un uomo è stato fermato dalla polizia sospettato di aver ucciso a bastonate il fratello di 79 anni e di aver gettato il corpo in una cisterna dell’acqua piovana.

Ad allertare le forze dell’ordine sarebbe stato un testimone che al telefono avrebbe dichiarato di aver visto il corpo di un uomo in una pozza di sangue e vicino a lui una persona con un bastone in mano.

Da una prima ricostruzione pare che la vittima stesse arando il terreno quando sarebbe sopraggiunto il fratello che lo avrebbe colpito. Ancora da accertare, tuttavia, se il 79enne sia deceduto a causa delle bastonate e poi gettato nella cisterna oppure se sia caduto nel tentativo di mettersi in salvo. Sulla base delle testimonianze raccolte, il fratello della vittima sarebbe stato fermato poco dopo le 14. Al momento si trova nel commissariato di Taurisano per essere ascoltato. 

Cadavere nel pozzo, prima di morire la lite col fratello. La segnalazione: “C’era un uomo con un bastone”. La vittima è Vincenzo Scupola, 79enne di Specchia: sarebbe stato colpito a bastonate. In caserma il fratello più giovane, con il quale le liti sarebbero state frequenti. A cura di Biagio Chiariello sabato 25 marzo 2023 su Fanpage.

 Sarebbe stato ucciso al culmine di una lite e poi gettato in un pozzo. È la macabra scoperta effettuata in tarda mattinata a Specchia, nel Capo di Leuca, in provincia di Lecce, dove il cadavere di un anziano del posto, Vincenzo Scupola, 79enne, è stato trovato all’interno di una vasca per la raccolta delle acque piovane in un podere situato lungo la strada comunale San Demetrio.

L'uomo avrebbe litigato con il fratello, più piccolo di 10 anni, in una località che sorge nei pressi della strada provinciale 374 che collega Taurisano a Miggiano. Sul posto, nei pressi di strada comunale Fontanelle, sono arrivati gli agenti di polizia del commissariato di Taurisano. Ed è spettato proprio a loro il rinvenimento, che non è stato certo casuale.

Il pubblico ministero sta ascoltando proprio il congiunto, che presentava a sua volta segni evidenti di una colluttazione. Stando alle ricostruzioni il 79enne sarebbe stato colpito alla testa a bastonate, come raccontato dal testimone che ha chiesto l'intervento della Polizia sul posto: secondo la prima ispezione cadaverica alla quale è stato sottoposto Scupola sul volto sono state rinvenute numerose tumefazioni e ferite. Sarà comunque l'autopsia a fare maggiore chiarezza.

Poco distante dal corpo è stato trovato il trattore dell'uomo e i gambali e questo fa ipotizzare che l'omicidio sia maturato mentre l'uomo era al lavoro nei campi di sua proprietà. Del bastone invece nessuna traccia.

Non è chiaro se la vittima sia stata gettata nel pozzo dal fratello o se sia caduto dopo l’aggressione nel tentativo di lavare il sangue dalla testa. Le frizioni tra i due fratelli erano comunque note.

Sul posto, un podere che evidentemente il 79enne curava, oltre ai poliziotti (che hanno richiesto l’intervento della scientifica per i rilievi) sono intervenuti carabinieri, vigili del fuoco del distaccamento di Tricase, il pubblico ministero di turno presso la Procura di Lecce, Simona Rizzo, il medico legale, per una vicenda che ha fin da subito assunto i contorni di un vero e proprio giallo.

Specchia, l’omicidio scaturito da una lite tra i due fratelli. Parola alla Procura. Il cadavere di Vincenzo Scupola trovato in una cisterna: decisiva l’autopsia. VINCENZO SPARVIERO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 marzo 2023.

Ha trascorso la sua prima notte in carcere Nicola Scupola, 70 anni di Specchia, accusato di aver ucciso il fratello Vincenzo (più grande di lui di nove anni), mettendo fine in modo tragico all’ennesimo litigio tra i due, che ormai da anni non si sopportavano più.

Motivi del contendere, come spesso accade nelle liti famigliari, questioni di interesse. In particolare, avendo due terreni confinanti, i fratelli Scupola avrebbero spesso litigato proprio per questioni legate a tali terreni.

Specchia, cadavere di un 79enne in una cisterna. Fermato il fratello della vittima: accusato di omicidio. Lite per i terreni di famiglia 

Una vicenda, comunque, dai contorni ancora tutti da chiarire riguardo soprattutto la dinamica del tragico fatto di sangue e anche sull’esatto movente. Nicola Scupola, dopo essere stato a lungo interrogato, è finito in manette in stato di fermo che - a breve - potrebbe tramutarsi in arresto, non appena la sostituto procuratore Simona Rizzo avrà in mano quanto le serve per chiedere l’ordinanza di custodia cautelare. Difeso dagli avvocati Cristiano Olinas e Sergio Annesi, difficilmente Nicola Scupola potrà dimostrare che si sia trattato di un «incidente» o che magari non avesse alcuna intenzione di uccidere ma magari dare solo una «lezione» al fratello maggiore. Scupola, infatti, non ha confessato l’omicidio anche se ha ammesso di aver colpito il fratello con un bastone: circostanza, peraltro, in qualche modo avallata anche da alcune testimonianze.

Il vicino che ha chiamato i carabinieri, ad esempio, ha riferito di aver visto un uomo armato di bastone e un altro per terra, sollecitando subito l’intervento delle forze dell’ordine. I poliziotti al loro arrivo non hanno trovato sul posto Nicola Scupola, ma in una cisterna nell’agro di Specchia hanno invece trovato il cadavere del fratello. A quel punto, il principale indiziato era proprio l’agricoltore finito poi in manette, che - come si diceva - ha ammesso subito, alla presenza del magistrato e del dirigente di Polizia Salvatore Federico, la violenta lite avuta con il fratello e di aver colpito lo stesso con un bastone. Tuttavia, al momento, non è chiaro se la vittima sia stata gettata nel pozzo dal presunto omicida o se sia magari caduta in acqua dopo l’aggressione. Su questi elementi, Nicola Scupola non si sarebbe soffermato o - comunque - non ha inteso chiarire del tutto. Ora, si tratta anche di capire se le bastonate in testa si sia rivelate fatali per il fratello, come riscontrato da un primo esame del cadavere dal medico legale Alberto Tortorella. Solo l’autopsia potrà chiarire ogni aspetto di questa vicenda, magari insieme con le testimonianze raccolte dai poliziotti nei momenti immediatamente successivi al loro arrivo in quella zona di campagna.

Una lite banale, come tante tra proprietari di terreni confinanti. Nessuno avrebbe potuto immaginare, però, che i due fratelli potessero arrivare a tanto. Il fermato ha cercato di dimostrare si essere stato addirittura costretto a difendersi e per questa ragione avrebbe usato il bastone, trovato per caso in campagna.

Specchia, cadavere di un 79enne in una cisterna. Fermato il fratello della vittima: accusato di omicidio. Il ritrovamento dopo una segnalazione telefonica fatta da una persona che ha raccontato di aver visto un uomo in una pozza di sangue per terra vicino ad una cisterna, e accanto a lui un secondo uomo con in mano un bastone. su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Marzo 2023

Il cadavere di un uomo di 79 anni, Vincenzo Scupola, è stato trovato rinvenuto poco in una cisterna per la raccolta di acqua piovana in una zona di campagna a Specchia, nel Salento. Il rinvenimento del corpo è avvenuto dopo una segnalazione telefonica fatta a commissariato di polizia da una persona che ha raccontato di aver visto un uomo in una pozza di sangue per terra vicino ad una cisterna, e accanto a lui un secondo uomo con in mano un bastone.

Sul posto ci sono gli agenti del locale commissariato e i carabinieri della scientifica con i vigili del fuoco. Si sta attendendo l'arrivo del magistrato di turno. Prima di rimuovere il corpo, bisognerà svuotare la cisterna che è poco profonda ed interrata. Si ipotizza che il movente sia in una lite finita male: a quanto si apprende il fratello della vittima, che ha una decina d'anni di meno, è stato condotto in commissariato.

SUL VOLTO DELLA VITTIMA TUMEFAZIONI E FERITE

I vigili del fuoco hanno terminato le operazioni per recuperare il corpo di Vincenzo Scupola trovato morto in una cisterna a cielo aperto nelle campagne di Specchia. L’identificazione è stata confermata dalla sorella arrivata sul posto.

A quanto emerso da un primo esame compiuto dal medico legale Alberto Tortorella, la vittima aveva sul volto numerose tumefazioni e ferite tali da confermare l'ipotesi che, come riferito da un testimone, l’uomo sia stato picchiato con un bastone. Al momento il bastone non è stato trovato.

Sarà l’autopsia a stabilire se l’uomo sia morto in seguito al pestaggio o perché affogato nella cisterna che è profonda un metro e mezzo ed è piena di acqua fino ad un metro. Poco distante è stato trovato il trattore dell’uomo e i gambali e questo fa ipotizzare che l’omicidio sia maturato mentre l’uomo era al lavoro nei campi di sua proprietà.

Il fratello più giovane è tuttora in commissariato a Taurisano dove viene interrogato dalla pm Simona Rizzo alla presenza di un difensore.

IL FRATELLO DELLA VITTIMA SOTTOPOSTO A FERMO

A conclusione dell’interrogatorio protrattosi fino a sera, è stato sottoposto a fermo con l'accusa di omicidio e condotto in carcere Nicola Scupola, di 70 anni, fratello Vincenzo il cui corpo è stato trovato oggi in una cisterna in un fondo nelle campagne di Specchia.

A quanto si è appreso, l’uomo avrebbe ammesso di avere ucciso il fratello durante una lite scoppiata per la gestione dei terreni di famiglia. Avrebbe anche detto di avere colpito il fratello per difendersi dopo essere stato aggredito da lui.

Il sangue, i cani, il vialetto buio: l'agguato di Sabaudia resta un mistero. Vincenzo Mosa nel 1998 fu colpito da un solo proiettile sparato alle spalle con un fucile caricato a cartucce calibro 12, quelle utilizzate solitamente per la caccia al cinghiale. Ignazio Riccio il 28 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’omicidio

 Le prime indagini

 Chi era Vincenzo Mosa

 Il ricordo

Una grande macchia di sangue, già in parte assorbita dal terreno umido, si trovava a diversi centimetri dal corpo, posizionato a pancia in giù vicino al cancello della villetta di via dello Scorpione, in zona Colle Piuccio a Sabaudia. Questa la scena che, venticinque anni fa, si è presentata agli occhi dei carabinieri. La sera del 2 febbraio 1998 fu ritrovato il cadavere dell’avvocato Vincenzo Mosa, 41 anni, personaggio locale di spicco nella lotta all'usura e al racket.

Al suo attivo oltre cento processi che lo rendevano un legale stimato e molto ricercato. Mosa aveva numerosi interessi: in particolare si occupava di politica militando nelle file del Movimento Sociale Italiano. A distanza di così tanti anni, nessuno sa chi lo ha ammazzato e il suo omicidio resta uno dei tanti misteri italiani irrisolti.

L’omicidio

Quella sera d’inverno, resa ancora più uggiosa da una leggera ma fastidiosa pioggerellina, Mosa non immaginava di avere un appuntamento con la morte. L’avvocato si era recato nell’abitazione estiva di Sabaudia per prelevare i due cani che teneva in giardino. Aveva detto alla moglie Eleonora che li avrebbe riportati nella casa di Roma dove viveva con la famiglia, ma quella è stata l’ultima telefonata che ha fatto alla donna.

Superato il cancelletto d’ingresso, Mosa fu colpito da un solo proiettile sparato alle spalle, da una siepe adiacente, con un fucile caricato a cartucce calibro 12, quelle utilizzate solitamente per la caccia al cinghiale o per assaltare i furgoni blindati. Un’arma potente che non diede scampo al legale. Il 41enne si accasciò al suolo con il viso poggiato sul terreno bagnato e un enorme buco aperto nella schiena. Il medico legale accertò che il corpo senza vita era rimasto in quella posizione, sotto la pioggia, per circa quattro ore, prima che la colf, avvisata dalla moglie, si affacciasse nel vicoletto per verificare se l’avvocato era ancora in casa.

Le prime indagini

Al loro arrivo i carabinieri impiegarono molto tempo prima di raggiungere il cadavere, dato che i due cani, spaventati, impedivano a chiunque di avvicinarsi al loro padrone senza vita. Gli inquirenti, fin dall’inizio, hanno brancolato nel buio non essendoci nessun testimone oculare. Il lampione che illuminava l’ingresso, posto sulla stradina laterale in una salita alquanto isolata, poi, non funzionava, forse disattivato dall’assassino. Il parco, invece, era sprovvisto di telecamere di videosorveglianza, che al quel tempo erano ancora poco utilizzate.

Tra le numerose piste battute dagli investigatori prese piede il movente personale. Non si sarebbe trattato di una vendetta degli strozzini, non dell’azione dei criminali laziali, bensì di una storia di tradimento. A essere iscritto nel registro degli indagati fu Mauro Chiostri, un istruttore di canoa, che avrebbe avuto una relazione clandestina con la moglie di Mosa. L’avvocato, che si sarebbe accorto della tresca, avrebbe minacciato lo sportivo arrivando una volta anche a schiaffeggiarlo. Questo bastò ai giudici per incriminarlo, salvo poi assolverlo, dopo due gradi di giudizio, nel 2002. Chiostri ha sempre dichiarato di aver intrattenuto con la donna solo rapporti di natura sessuale e di non essere mai stato coinvolto sentimentalmente.

Chi era Vincenzo Mosa

L’avvocato Mosa, quattro figli, era sposato in seconde nozze con Eleonora. Prima di essere ucciso, aveva l’incarico di dirigere l’ufficio legale dello Snarp, il sindacato antiusura. Il legale operava soprattutto nel territorio di Sabaudia, a quel tempo stretto nella morsa del malaffare e del racket. Più volte era stato minacciato per la sua opera a favore delle vittime dell’usura, tanto da sentire il bisogno di chiedere il porto d'armi, che non gli era stato concesso. Tutti però sapevano che Mosa con sé aveva sempre una pistola.

L'avvocato assisteva come parte civile le persone vessate dalla banda della Magliana e da altre pericolose organizzazioni criminali e per questo, molto probabilmente, temeva per la sua vita. Eppure, nonostante questi elementi così evidenti, gli inquirenti non sono mai riusciti a trovare una pista credibile e la vicenda dell’avvocato antiusura di Sabaudia è finita nel dimenticatoio.

È incredibile che quel delitto sia rimasto impunito”. Uno degli ultimi ad aver parlato con Mosa fu Francesco Petrino, presidente onorario dello Snarp. Il giorno in cui l’avvocato fu assassinato lo sentì al telefono. “Come sindacato ci siamo impegnati fin da subito per sostenere coloro che seguivano le indagini - afferma a IlGiornale.it - ma con il passare degli anni di questa vicenda non si è saputo più nulla. Anche la famiglia ha preferito il silenzio. Della moglie di Mosa non ho notizie, mentre sono a conoscenza del fatto che uno dei suoi figli è diventato avvocato come lui. Quando ci sentimmo quel pomeriggio concordammo di mangiare una pizza insieme. Questa è l’ultima cosa che ricordo di lui in vita".

Petrino ha un pensiero fisso. “Nessuno mi toglie dalla testa - spiega - che la morte di Mosa sia avvenuta in conseguenza della sua attività professionale. Non ho mai creduto, anche quando sembrava si fosse individuato il colpevole, che si trattasse di una questione personale. Ho fatto diverse ipotesi agli inquirenti ma, a quanto pare, non sono mai state prese in considerazione”.

Petrino elenca le azioni promosse dallo Snarp per contrastare il fenomeno dell'usura. "Come sindacato non ci siamo mai fermati e, negli anni, abbiamo avanzato una serie di proposte di legge in materia, alcune delle quali oggi sono norme in vigore. Tra gli ultimi suggerimenti ci siamo occupati anche delle case all'asta, studiando un provvedimento che potrebbe permettere alle persone interessate di impugnare i possibili abusi e le eventuali prevaricazioni derivanti dall'attuale sistema bancario".

Giuseppe Mosa, figlio della vittima

Uno dei figli del legale oggi fa lo stesso mestiere del padre. Giuseppe Mosa, 40 anni, è specializzato in diritto civile, diritto del lavoro e diritto amministrativo. "Quando è stato ucciso venticinque anni fa – racconta– mio padre era all'apice del successo. Oggi, a distanza di così tanto tempo dal suo omicidio, è ancora ricordato da tanti colleghi del Tribunale di Latina che spesso incontro per la mia attività professionale. Molti di loro lo considerano ancora un modello da seguire”.

Confessione a sorpresa di Alessandro. "Veleno nella pasta per uccidere i miei". Confermati i 30 anni. Il patrigno morì, poi le accuse alla madre. Tiziana Paolocci il 28 Marzo 2023 su Il Giornale.

Ha ammesso quello che tutti sapevano già. Di aver ucciso il patrigno e di aver tentato di fare lo stesso con la mamma, perché i due avevano deciso di essere più severi, chiudendo i cordoni della borsa.

Così per Alessandro Leon Asoli, oggi 21enne, è stata confermata in appello la condanna a trent'anni già ricevuta in primo grado dalla Corte d'Assise. Il 15 aprile 2021 il giovane aveva cucinato un piatto di pennette al salmone, condito con veleno e lo aveva servito ai due. Loreno Grimaldi, 56 anni, il compagno della madre, era morto, sdraiato sul divano della sua casa a Ceretolo, in provincia di Bologna, mentre Monica Marchioni si era salvata.

I giudici della corte d'Assise, nel descrivere quel giorno, avevano parlato di «sequenza da vero film dell'orrore e di dolorosissimo, autentico dramma». Ma il 21enne si era dichiarato sempre innocente, puntando il dito contro la mamma: aveva provato a convincere la corte che era stata lei ad uccidere Grimaldi in preda a una crisi depressiva, senza essere però creduto.

Ieri, invece, ha ammesso di aver messo in quel piatto di pennette nitrito di sodio. «Oggi voglio dire la verità - ha detto il 21enne - Sono stato io ad aver fatto quello di cui mi accusano. Mi dispiace parlare solo ora, non l'ho fatto prima perché avevo paura. Voglio assumermi le mie responsabilità e chiedere scusa alle persone a cui ho fatto del male. Spero che mia madre possa perdonarmi e di poter avere una seconda possibilità».

Monica Marchiori se l'era vista brutta ed era stata ricoverata in ospedale per un mese. «Mi diceva quella notte hai rovinato tutto, non riesco a togliermelo dalla mente - aveva raccontato li qualche tempo dopo - mio figlio voleva l'eredità. Non lo considero più mio figlio e la sua voce mi fa ancora paura». La poveretta si salvò per aver mangiato solo una minima parte di pasta, ma fu aggredita dal figlio che tentò di soffocarla dopo aver provato a farle bere acqua contaminata.

Il compagno, invece, non ce l'aveva fatta, perché era rimasto solo dopo aver mangiato la pasta e si era spento lentamente. Alessandro, infatti, per impedire alla madre di chiamare i soccorsi, aveva finto di essere deluso dal fatto che non avesse gradito le pennette preparata da lui e si era rinchiuso in camera. Lei era corsa a consolarlo e questo aveva ritardato quell'allarme che avrebbe potuto salvare la vittima. Poi, aveva iniziato a star peggio e a quel punto il figlio aveva cercato di ucciderla. Ma era fuggita. «Non sono soddisfatto, io ero d'accordo con la Procura e la Procura generale: questi gravissimi fatti meritavano l'ergastolo - ha commentato ieri l'avvocato Marco Rossi, che assiste la madre di Alessandro -. Non andavano concesse le attenuanti generiche perché i fatti sono troppo gravi».

«Ossessionato» da Santa: killer e persecutore non si pente dopo 32 anni. Chiesto l’arresto per il 63enne Dimauro, oggi ai domiciliari. GIOVANNI LONGO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Marzo 2023

Bari - Dal 1991, quando uccise Santa Scorese, sino ad oggi, quando è finito ai domiciliari con l’accusa di stalking, non è cambiato molto. Giuseppe Dimauro, 63 anni, continua ad essere «ossessionato» da Santa e dalla sua famiglia. Quasi che il «tempo trascorso e le cure cui era stato sottoposto non avessero avuto alcuna influenza su di lui». È uno dei passaggi chiave dell’ordinanza con la quale il gip del Tribunale di Bari Giuseppe Battista ha disposto i domiciliari nei confronti dell’uomo, accusato di atti persecutori. La vittima questa volta è Rosa Maria Scorese, 59 anni, sorella di Santa. Dal femminicidio avvenuto a Palo del Colle il 16 marzo 1991, all’arresto per stalking sono trascorsi esattamente 32 anni.

Come anticipato ieri dalla Gazzetta l’indagato sarebbe tornato a tormentare la vita della famiglia Scorese con lettere, messaggi audio chat sui social dal contenuto inquietante, provocando nella quotidianità di Rosa Maria Scorese e della sua famiglia, paura per la loro incolumità, e un perdurante stato di ansia. Nei suoi confronti, ricordiamo, nel 1992 venne emessa una sentenza di non luogo a procedere per vizio totale di mente. Dieci anni in un manicomio criminale, una ulteriore proroga, un periodo di libertà vigilata e, dal 2014, nessuna restrizione.

Adesso, nel mirino dei carabinieri coordinati dalla Procura di Bari almeno cinque tra mail, messaggi su messanger e messaggi audio inviati tra giugno e settembre 2022. «Se Santa mi avesse pregato di non ucciderla, quella sera, non l’avrei uccisa», ha scritto Dimauro. In quelle comunicazioni l’uomo mostra «attenzione per i movimenti e gli spostamenti» della sorella di Santa, contesta la Procura. In quei messaggi, precisa di avere ucciso la congiunta con 4 anziché 14 coltellate, le consiglia di rivolgersi al prof. Churk, genetista americano con l’obiettivo di «far rinascere la vittima», attraverso un non meglio precisato trattamento di maternità surrogata utilizzando il Dna preso dalle cellule delle ossa. Una proposta ovviamente delirante che spaventa Rosa Maria. L’uomo viene bloccato su Messenger. E per un po’ sembra finire lì sino a quando, siamo a fine gennaio, l’indagato lascia la provincia di Bolzano per trasferirsi a Cassano in una Rsa. Palo del Colle, adesso, diventa improvvisamente e pericolosamente troppo vicina.

Il giudice nell’ordinanza evidenzia una «autentica ossessione dell’indagato rispetto alla persona offesa che riflette» quella a suo tempo «coltivata nei confronti di sua sorella Santa, sfociata nel suo brutale omicidio», si legge nelle carte. Insomma, «così come il Dimauro trent’anni fa voleva per sé» Santa «non accettando il suo rifiuto, dopo un così lungo arco temporale ha ora sposato le sue morbose attenzioni sulla sorella Rosa Maria, proponendole la clonazione di santa».

Nella richiesta di arresto giunta sulla scrivania del giudice il giorno prima - la rapidità della decisione è forse un elemento indice del rischio potenziale corso dalla persona offesa - la Procura evidenzia tra l’altro: «Preoccupa non solo l’oggetto della richiesta rivolta alla persona offesa di sottoporsi a pseudo trattamenti di maternità surrogata che non hanno alcun fondamento, men che meno scientifico, ma soprattutto le modalità insistenti di tale richiesta e - non meno - il contenuto delle missive dove non emerge alcun comportamento di resipiscenza ma al contrario quasi un’intimazione a rispondere, a tenere con lui contatti, questo anche di fronte al silenzio della vittima». Ovvero, nessun pentimento per ciò che commise allora.

Infine, «l’indagato non ha mostrato alcun segnale di ravvedimento rispetto all’omicidio, ma al contrario ha iniziato a porre in essere comportamenti persecutori questa volta nei confronti della sorella della vittima di femminicidio e questo è accaduto a distanza di numerosissimi anni».

Il tempo passa, Dimauro non è cambiato.

Bari, il killer di Santa Scorese ritorna dopo 32 anni e tormenta la sorella. L'uomo è stato arrestato ed ora è ai domiciliari in una Rsa. Dalle lettere la sua ossessione per la donna uccisa dopo tre anni di persecuzioni. LEONARDO MAGGIO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Marzo 2023

PALO DEL COLLE (Bari) - Nel 1991 uccise Santa Scorese dopo tre anni di molestie. Trentadue anni dopo si ripresenta per molestare e tormentare Rosa Maria Scorese, oggi 59enne, sorella della vittima: «Se Santa mi avesse pregato di non ucciderla, quella sera, non l’avrei uccisa» le scrive. Con questa accusa, atti persecutori, è finito ai domiciliari in una Rsa di Cassano Murge Giuseppe Di Mauro, 64 anni, lo stalker-assassino di Santa Scorese, accusato di azioni persecutorie adesso anche nei confronti di Rosa Maria Scorese, sorella maggiore della vittima.

L’uomo, stando alle indagini coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe tornato a tormentare la vita della famiglia Scorese attraverso lettere, audiomessaggi e chat sui social dal contenuto equivoco ed inquietante, ingenerando progressivamente nella quotidianità di Rosa Maria Scorese e della sua famiglia, paura per la loro incolumità, oltre a un perdurante stato di ansia e timori capaci di costringerla a modificare abitudini e stili di vita.

Ma procediamo per ordine. Le molestie di Di Mauro, sempre stando alle indagini, ricominciano nel giugno dello scorso anno, quando l’uomo inviava ad una cugina, omonima di Rosa Maria Scorese, una lettera in cui riemergeva una evidente ossessione per Santa Scorese ma anche una certa attenzione per i movimenti e gli spostamenti della sorella Rosa Maria.

Nella stessa lettera Di Mauro avrebbe anche precisato di aver ucciso Santa con quattro coltellate, non quattordici, ribadendo testualmente che se Santa «mi avesse pregato di non ucciderla, quella sera, non l’avrei uccisa».

Nelle settimane successive alla lettera, Di Mauro sarebbe tornato all’azione, cercando in varie maniere di contattare Rosa Maria Scorese sui suoi profili social senza ottenere risposta e sino ad essere bloccato. Con un intento persecutorio analogo a quello già utilizzato nei confronti di Santa Scorese. Perseguitando cioè Rosa Maria per costringerla ad ascoltare le sue richieste intimandole risposte.

A preoccupare e provocare sconcerto anche le ripetute richieste di Di Mauro che chiedeva a Rosa Maria Scorese di sottoporsi ai trattamenti di maternità surrogata di una presunta scuola americana, una fantomatica terapia sperimentale per far «rinascere» Santa attraverso il suo clone.

Ad aggravare la situazione e a generare nuovi timori, il fatto che il 4 marzo scorso, Giuseppe Di Mauro si trasferiva in una Rsa di Cassano Murge dalla provincia di Bolzano dov’è stato residente per tutti questi anni. Una località poco distante da Palo del Colle, da lui facilmente raggiungibile perché dotato di patente e mezzo proprio.

Partita la denuncia di Rosa Maria Scorese sono state avviate le indagini dei Carabinieri che, per prima cosa, non hanno riscontrato nei comportamenti di Di Mauro e nella documentazione allegata alla denuncia e nei contenuti delle lettere inviate, nessun segnale di ravvedimento rispetto all’omicidio. Sottolineando, anzi, a distanza di trent’anni, un atteggiamento morboso ed ossessivo indirizzato questa volta proprio nei confronti della sorella della vittima.

Negli anni successivi alla morte di Santa, la Chiesa Cattolica ha avviato il processo per la sua beatificazione e Rosa Maria Scorese non si è persa d’animo, girando e presenziando per scuole, centri antiviolenza, associazioni laiche e cattoliche di tutta Italia, per raccontare la sua storia di violenza e di dolore e rivendicare con forza il suo impegno contro la violenza di genere nel nome della sorella. Per questo, secondo gli inquirenti, il pericolo che Rosa Maria Scorese possa essere oggetto di atti violenti e persecutori del Di Mauro è ancora più concreto e attuale. Anche la Santa Messa del 15 marzo scorso, celebrata nella Chiesa Spirito Santo di Palo del Colle in occasione del 32° anniversario della morte di Santa è stata motivo di ansia e preoccupazione per la famiglia Scorese, presidiata dalle forze dell’ordine per motivi di sicurezza. Sino al giorno dopo, 16 marzo, quando il giudice per le indagini preliminari firmava l’ordinanza disponendo l’arresto ai domiciliari di Di Mauro e interrompendo finalmente un incubo.

Con una differenza. Dalla lettura degli atti e, in particolare, dagli esiti della perizia del 1991, si evinceva che all’epoca dell’omicidio Di Mauro fosse affetto da patologie psichiatriche. Per questo veniva prosciolto da ogni accusa condotto al ricovero in manicomio giudiziario sino alla libertà vigilata. Ora la situazione è cambiata. Le diverse relazioni predisposte dai medici e dagli specialisti che negli ultimi anni hanno avuto in cura Di Mauro hanno evidenziato un quadro patologico in miglioramento avendo portato a compimento il suo percorso riabilitativo, con un quadro clinico stabile, privo di elementi capaci di escludere la sua capacità di intendere e di volere. Persona punibile, dunque, e assoggettabile alla misura cautelare emessa. Non solo. A Di

Mauro è stato anche imposto il divieto di comunicare con soggetti diversi dagli altri ospiti della struttura, il divieto di utilizzo di qualsiasi pc e mezzo di comunicazione telefonica, fissa o mobile di proprietà e presente nella Rsa. Nonché l’applicazione del braccialetto elettronico con l’avvertenza che, qualora non prestasse il suo consenso all’attivazione, gli potrà essere applicata la custodia cautelare in carcere.

L'uomo ora è ai domiciliari in una Rsa a 20 km dal luogo dell'omicidio. Il ritorno del killer di Santa Scorese, dopo 32 anni Giuseppe Di Mauro tormenta la sorella: “Puoi clonarla, ti dico dove andare”. Redazione su Il Riformista il 28 Marzo 2023

Se Santa quella sera mi avesse pregato di non ucciderla, non l’avrei uccisa”, avrebbe scritto il suo assassino Giuseppe Di Mauro a 32 anni dall’omicidio della 23enne di Palo del Colle, nella provincia di Bari, uccisa con quattordici coltellate dopo averle teso un agguato sul portone di casa il 16 marzo 1991.

Santa Scorese nel 1988 era una giovane attivista cattolica che voleva diventare missionaria. In quel periodo incontra per caso quello che poi sarebbe diventato il suo assassino, Giuseppe Di Mauro, che ne diventa ossessionato tempestandola di lettere e telefonate per costringerla a stare con lui, arrivando anche a minacciarla di morte se non avesse assecondato la sua volontà.

Un tormento che prosegue per tre anni e che vede nel mezzo di questo comportamento che oggi rientrerebbe nel reato di stalking (che ancora non esisteva), anche un tentativo di stupro avvenuto nel 1989.

Alla protezione di Santa quindi ci pensano familiari e amici. Soprattutto il padre Piero, poliziotto, la scorta ovunque e non la lascia mai da sola. Una sera di marzo, però, Santa decide di tornare a casa senza protezione da una riunione dell’Azione cattolica. Di Mauro la ferma sul portone e la colpisce con il coltello quattordici volte. Inutile la corsa e il ricovero al Policlinico di Bari.

Durante il processo per l’omicidio a Di Mauro vengono riconosciute patologie psichiatriche, viene prosciolto dalle accuse e ricoverato in un ospedale psichiatrico fino alla libertà vigilata. E, dopo essere rientrato in Puglia da Bolzano, paziente di una rsa di Cassano Murge – a 20 chilometri da Palo del Colle -, è finito ora ai domiciliari con l’accusa di atti persecutori nei confronti della sorella della vittima, Rosamaria.

Così ricomincia l’incubo per la famiglia Scorese. La scorsa estate Di Mauro avrebbe inviato una lettera a una cugina della sua vittima, Rosamaria (omonima della sorella di Santa) nei cui scritti sarebbe evidente una particolare attenzione per i movimenti proprio della sorella che dopo l’omicidio di Santa nel 1991 è stata impegnata in campagne di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne.

Di Mauro dopo aver scritto la lettera avrebbe cominciato a contattare ripetutamente la sorella di Santa con messaggi e vocali senza mai ottenere risposta. In uno di questi messaggi, avrebbe chiesto a Rosamaria di sottoporsi a maternità surrogata per far “rinascere” Santa. Così la famiglia Scorese è ripiombata nell’incubo di 32 anni fa e ha fatto l’unica cosa possibile, denunciare Di Mauro.

I carabinieri non hanno riscontrato nei comportamenti dell’assassino alcun segno di pentimento per l’omicidio e hanno sottolineato l’atteggiamento “morboso e ossessivo” nei confronti di Rosamaria, tanto che il 15 marzo scorso, in occasione della messa celebrata per il 32esimo anniversario della morte di Santa, la Chiesa Spirito Santo di Palo del Colle era presidiata dalle forze dell’ordine per motivi di sicurezza.

E appena 24 ore dopo la funzione un’ordinanza del gip di Bari ha disposto i domiciliari per Di Mauro nella stessa rsa in cui è ospite, aggiungendo però il divieto di comunicare con soggetti diversi dagli altri pazienti e di utilizzare computer o telefoni.

La tragedia di Santa ebbe una grande eco mediatica e colpì nel profondo la chiesa cattolica che nel 1999 aprì il processo per la beatificazione e la canonizzazione della giovane. La sua storia nel 2019 è anche diventata un docu-film con la regia di Alessandro Piva dal titolo Santa Subito che ha ottenuto un premio alla quattordicesima edizione della Festa del cinema di Roma.

Redazione

Greta Spreafico, svolta nelle indagini sulla scomparsa della cantante di Erba: c’è un indagato, ecco chi è. Storia di Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 marzo 2023.

A dieci mesi dalla sua scomparsa ci sarebbe una svolta nelle indagini sulla scomparsa di Greta Spreafico, la cantante 53enne di Erba che il 4 giugno 2022 è svanita nel nulla da Porto Tolle, provincia di Rovigo. Ora la procura di Rovigo starebbe indagando su un sospettato e non più a carico di ignoti. A rivelarlo l’investigatore Ezio Denti nella trasmissione Iceberg di Telelombardia, condotta da Marco Oliva. Non si conosce il nome di questa persona e nemmeno il reato contestato anche se verosimilmente potrebbe trattarsi di omicidio e non più di sequestro di persona.

Nessuna pista resta però tutt’ora esclusa. Tra le ipotesi più accreditate da parte degli investigatori c’è quella del sequestro di persona o di un allontanamento volontario, fino a quella che Greta si possa essere tolta la vita. Il nuovo sviluppo potrebbe far ora propendere per l’ipotesi di omicidio. Tutta la vicenda resta ancora nel mistero. Secondo la ricostruzione fatta da Repubblica, Greta era arrivata a Porto Tolle all’inizio di maggio 2022 per occuparsi da vicino della vendita di un appartamento lasciatole dal nonno. Ma il 6 giugno, all’appuntamento dal notaio, non si è mai presentata.

Video correlato: Svolta su Greta, la cantante sparita: c'è un indagato (Mediaset)

E così il fidanzato, Gabriele Lietti, ha fatto scattare l’allarme. Si conoscevano da 30 anni i due, il loro primo incontro era avvenuto grazie alla passione per la musica. Poi avevano iniziato il rapporto sentimentale e presto si sarebbero dovuti sposare. E’ a lui che è indirizzato l’ultimo messaggio di Greta inviato alle 3 di notte della sera in cui poi è scomparsa: “Ti amo e ti voglio un mondo di bene. Buona notte”. Il cellulare della donna poi è stato trovato sul tavolo della casa che avrebbe dovuto vendere. Il fidanzato ha sin da subito manifestato dubbi sulla veridicità del messaggio, sospettando che qualcun altro potesse averlo scritto.

L’ultimo ad aver visto Greta prima che si perdessero le sue tracce è stato un uomo che la cantante aveva conosciuto su Facebook. Il 3 giugno lui e Greta si erano incontrati e avevano trascorso la serata insieme, girando per diversi locali di Porto Tolle. L’uomo agli investigatori aveva raccontato di averla trovata turbata. Greta veniva fuori da un periodo molto difficile in cui aveva dovuto affrontare la malattia e viveva in uno stato di ansia permanente. Si era anche rivolta a un investigatore privato sostenendo di temere per la propria incolumità. Quella sera lei gli avrebbe chiesto di restare insieme ma lui era stanco e aveva preferito tornare a casa, dove è rientrato poco dopo le 2 del mattino.

La 53enne è svanita nel nulla il 4 giugno 2022. Greta Spreafico, svolta nelle indagini sulla scomparsa della cantante di Erba: c’è un indagato. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Marzo 2023

A dieci mesi dalla sua scomparsa ci sarebbe una svolta nelle indagini sulla scomparsa di Greta Spreafico, la cantante 53enne di Erba che il 4 giugno 2022 è svanita nel nulla da Porto Tolle, provincia di Rovigo. Ora la procura di Rovigo starebbe indagando su un sospettato e non più a carico di ignoti. A rivelarlo l’investigatore Ezio Denti nella trasmissione Iceberg di Telelombardia, condotta da Marco Oliva. Non si conosce il nome di questa persona e nemmeno il reato contestato anche se verosimilmente potrebbe trattarsi di omicidio e non più di sequestro di persona.

Nessuna pista resta però tutt’ora esclusa. Tra le ipotesi più accreditate da parte degli investigatori c’è quella del sequestro di persona o di un allontanamento volontario, fino a quella che Greta si possa essere tolta la vita. Il nuovo sviluppo potrebbe far ora propendere per l’ipotesi di omicidio. Tutta la vicenda resta ancora nel mistero. Secondo la ricostruzione fatta da Repubblica, Greta era arrivata a Porto Tolle all’inizio di maggio 2022 per occuparsi da vicino della vendita di un appartamento lasciatole dal nonno. Ma il 6 giugno, all’appuntamento dal notaio, non si è mai presentata.

E così il fidanzato, Gabriele Lietti, ha fatto scattare l’allarme. Si conoscevano da 30 anni i due, il loro primo incontro era avvenuto grazie alla passione per la musica. Poi avevano iniziato il rapporto sentimentale e presto si sarebbero dovuti sposare. E’ a lui che è indirizzato l’ultimo messaggio di Greta inviato alle 3 di notte della sera in cui poi è scomparsa: “Ti amo e ti voglio un mondo di bene. Buona notte”. Il cellulare della donna poi è stato trovato sul tavolo della casa che avrebbe dovuto vendere. Il fidanzato ha sin da subito manifestato dubbi sulla veridicità del messaggio, sospettando che qualcun altro potesse averlo scritto.

L’ultimo ad aver visto Greta prima che si perdessero le sue tracce è stato un uomo che la cantante aveva conosciuto su Facebook. Il 3 giugno lui e Greta si erano incontrati e avevano trascorso la serata insieme, girando per diversi locali di Porto Tolle. L’uomo agli investigatori aveva raccontato di averla trovata turbata. Greta veniva fuori da un periodo molto difficile in cui aveva dovuto affrontare la malattia e viveva in uno stato di ansia permanente. Si era anche rivolta a un investigatore privato sostenendo di temere per la propria incolumità. Quella sera lei gli avrebbe chiesto di restare insieme ma lui era stanco e aveva preferito tornare a casa, dove è rientrato poco dopo le 2 del mattino.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Stefano Dal Corso, il suo fu davvero un suicidio? La sorella chiede di conoscere la verità. Stefano Dal Corso venne trovato morto nella sua cella del carcere di Oristano e il suo caso fu archiviato come suicidio per impiccagione. Federica Palman su Notizie.it il 28 Marzo 2023

Secondo la sorella Marisa, “Stefano Dal Corso non avrebbe mai fatto una cosa del genere”

Secondo la legale Armida Decima “l’esame autoptico è doveroso per la tutela dei diritti di tutti”

Anche Ilaria Cucchi e Luca Blasi sostengono la famiglia Dal Corso

Il 12 ottobre 2022, Stefano Dal Corso, 42 anni, venne trovato morto nella sua cella del carcere di Oristano. Secondo quanto detto alla sorella e riportato sui verbali, Dal Corso fu rinvenuto impiccato. Per la procura non ci fu bisogno di un’autopsia e il caso venne archiviato come suicidio.

Sul caso sono però rimasti molti dubbi e la famiglia di Stefano Dal Corso sta ora raccogliendo i soldi necessari per far effettuare un’autopsia come perizia di parte. A fanpage.it, la sorella Marisa e la legale Armida Decina hanno raccontato la battaglia che hanno deciso di intraprendere per conoscere la verità su quel che è accaduto.

Secondo la sorella Marisa, “Stefano Dal Corso non avrebbe mai fatto una cosa del genere”

Marisa Dal Corso, che abita nel quartiere Tufello del Municipio Roma III, dove anche Stefano viveva, ha ricordato la chiamata con cui venne informata della morte del fratello. “Mi arriva una telefonata, mi dicono: ‘È il carcere di Oristano, le passiamo il parroco. che vuole parlare con lei’. Lui mi dice: ‘Signora, volevo comunicarle, purtroppo, che suo fratello ci ha lasciati‘. Inizialmente sono rimasta un attimo… perché, ho pensato, è scappato? Ho chiesto cosa fosse successo, che avesse fatto, mi hanno detto: ‘Non lo sappiamo, è stato trovato in cella senza vita, impiccato‘”, ha raccontato.

Secondo la famiglia Dal Corso, sono però diversi i particolari che non tornano: perché non ci sono foto del ritrovamento del corpo? Come fece Stefano a confezionare il capo con cui togliersi la vita, dato che nella cella non erano presenti né indumenti né lenzuola strappati? Come si impiccò, se la distanza con il letto sottostante era troppo poca per lasciarsi cadere? Perché sul letto non vennero trovate tracce di quanto successo? Perché Stefano si tolse la vita, dato che non aveva mai dato segnali di disperazione e dopo poche settimane sarebbe uscito dal carcere? Inoltre, secondo il legale della famiglia, è molto difficile confermare la rottura dell’osso del collo come causa del decesso, come è riportato sulla cartella medico-legale, senza effettuare un’autopsia.

Marisa Dal Corso sostiene che “Stefano non avrebbe mai fatto una cosa del genere. È impossibile, ha una figlia di 7 anni. Lo sentivamo, stava bene. Io conosco mio fratello, so che non può essere andata così. So che c’è dell’altro e vorrei sapere se c’è dell’altro. Penso che sia un mio diritto. Perché quindi non lasciar fare un’autopsia che non lascerebbe dubbio su quanto è accaduto in carcere e metterebbe in pace la mia anima?“. Dal Corso era rientrato in carcere per scontare una pena residua e si trovava in Sardegna per assistere a un’udienza.

Secondo la legale Armida Decima “l’esame autoptico è doveroso per la tutela dei diritti di tutti”

Io chiaramente mi attivai subito per chiedere copia della relazione medico-legale e copia dell’album fotografico. Entro in possesso di tredici foto. La prima cosa che notai è che mancava una foto di come Stefano è stato trovato. A Marisa viene detto che Stefano viene trovato con un piede sul letto. Ora è evidente che l’altezza che noi abbiamo tra letto e la finestra non è sufficiente a spezzarsi l’osso del collo. E poi il letto è perfettamente integro, non una pedata sul letto. E soprattutto il letto è tutto fatto, non vedo lenzuola rotte, è tutto a posto”, ha spiegato Armida Decina, che ha aggiunto come i segni rinvenuti sul corpo di Dal Corso possano far pensare che le cose andarono diversamente rispetto a quanto stabilito: “Queste foto presentano su un braccio un livido molto evidente da presa. Poi c’è un segno sul collo che potrebbe non essere compatibile con l’impiccagione“.

Noi vogliamo solamente conoscere e capire cosa sia successo a Stefano il 12 ottobre. Qui nessuno sta accusando nessuno. Vogliamo che siano ricostruite le ore precedenti la morte di Stefano, e riteniamo che l’esame autoptico sia doveroso per la tutela di tutti e il diniego da parte della procura sia inspiegabile”, ha concluso Decina.

Anche Ilaria Cucchi e Luca Blasi sostengono la famiglia Dal Corso

Tra i sostenitori della famiglia Dal Corso, c’è Luca Blasi, assessore alla Cultura del Municipio di Roma III. “L’autopsia è evidentemente l‘unico strumento che può fugare ogni ombra su quanto è accaduto a Stefano. Quindi il nostro appello intanto è a non lasciare sola la famiglia Dal Corso e raccogliere i soldi necessari ad effettuare l’esame autoptico. Poi il Municipio come ente di prossimità non farà mancare il suo sostegno nel chiedere che si faccia chiarezza sulla morte di un cittadino mentre si trovava sotto la tutela e la custodia dello Stato“, ha dichiarato.

Anche Ilaria Cucchi, senatrice di Alleanza Verdi Sinistra che tanto si era battuta per far luce sulla morte del fratello Stefano in carcere, si è occupata del caso. “In base agli elementi che mi sono stati consegnati, e che sono anche all’attenzione degli uffici competenti, mi chiedo per quale motivo si sia ritenuto di non dover procedere con l’esame autoptico sul corpo di Stefano Dal Corso. Risulterebbe, da quanto mi viene segnalato, che le cause del decesso non appaiono chiare. La famiglia non crede nel suicidio in quanto il detenuto Stefano Dal Corso, al quale mancavano pochi mesi per concludere la pena, parlava di futuro con loro proprio qualche giorno prima del decesso. Sarebbe a mio avviso opportuno, anzi doveroso, mettere in essere tutte le iniziative per dare risposta ai legittimi dubbi che questo caso solleva. Va fatta l’autopsia, a garanzia di tutti. O forse qualcuno ritiene che non ne valga la pena per quel detenuto?”, ha detto.

Estratto dell’articolo di Enrico Ferro per “la Repubblica” il 31 marzo 2023.

Una donna di 31 anni con un proiettile conficcato in testa. I suoi due figli, di 8 e 11 anni, che, disperati, chiamano aiuto. Il vicino di casa che la soccorre per primo. Il marito al lavoro. E l’arma del delitto che non si trova.

 Sono gli elementi chiave del giallo di Ariano nel Polesine, campi, nebbia e campanili nel punto in cui la provincia di Rovigo sfiora quella di Ferrara.

Lì martedì pomeriggio è stata trovata ancora agonizzante Rkia Hannaoui, casalinga di origini marocchine sopravvissuta per qualche ora dopo che qualcuno le ha sparato in testa. È morta in seguito all’ospedale, dopo una Tac cerebrale con un esito inequivocabile: presenza di un corpo estraneo metallico.

[…]

La donna viveva con la famiglia al piano terra di una villetta bifamiliare, in cui al piano superiore vive il proprietario, Giacomo Stella. […]

[…]

 Il delitto di questa donna, però, sfugge alla comprensione collettiva.

Il marito, Lebdaoui Asmaoui, si trovava al lavoro. […] È lui a testimoniare del buon rapporto che intercorre con il proprietario della casa. «È il padrone che mi dà la casa, abita sopra il nostro appartamento, e noi viviamo lì da circa sei anni. È una brava persona, gioca con i bambini e stiamo bene tutti».

I primi a dare l’allarme sono stati proprio i figli. Le loro grida hanno attirato l’attenzione di Giacomo Stella, che è sceso di corsa. «Sono andato a soccorrerla ma non c’era niente vicino al suo corpo. Ho pensato che avesse battuto la testa, poi quando l’ho girata mi sono accorto che c’era il sangue sulla nuca». Il sangue usciva da un piccolo foro, talmente piccolo che avevano pensato fosse provocato dalla caduta.

La Tac ha confermato invece la presenza di un oggetto metallico ma più che un proiettile gli investigatori del colonnello Emilio Mazza pensano possa trattarsi di un pallino da fucile. E infatti alcune armi sono state sequestrate proprio al vicino di casa che, biascicando poche parole, annuncia di essersi rivolto a un avvocato. Anche lui rischia di finire nell’elenco dei sospettati

 […]

La 32enne è morta in ospedale. Colpita alla testa da un proiettile, mamma trovata in fin di vita in casa dai figli piccoli: “Aiutateci, sta morendo”. Redazione su Il Riformista il 29 Marzo 2023

È morta nel pomeriggio di mercoledì dopo aver lottato per la vita per ore, ricoverata in ospedale con ferite alla testa: quando i medici l’hanno sottoposta ad una Tac, hanno scoperto la presenza di un corpo compatibile con un proiettile nel cranio. Sono le condizioni gravissime di una 32enne di origine marocchina, Rkia Hannaoui, vittima probabilmente di omicidio nella sua abitazione nel Delta del Po, nelle campagne di Ariano Polesine (Rovigo), al confine tra Veneto ed Emilia Romagna.

La 32enne casalinga è stata trovata con una ferita alla testa intorno alle 16 di martedì 28 marzo: era riversa sul pavimento della cucina quando i suoi due figli di 11 e 8 anni l’hanno trovata in una pozza di sangue. I due bambini, come riferisce il Corriere del Veneto, sono corsi dai vicini di casa in cerca di aiuto e da lì è partita la richiesta di soccorsi, con l’arrivo del Suem 118 che ha trasportato la donna in ospedale.

Nella struttura sanitaria era poi giunto il marito, che non era in casa al momento del fatto. Inizialmente l’ipotesi degli inquirenti e degli stessi medici era quella di un incidente domestico, fino alla scoperta del proiettile tramite Tac: in casa le forze dell’ordine non hanno trovato alcuna pistola o arma da fuoco. Rkia Hannaoui è stata dichiarata cerebralmente morta da una commissione medica.

Ora dunque la pista che si segue è quella dell’omicidio, avvenuto con un colpo di pistola o comunque un’arma da fuoco sparato da uno sconosciuto. Le indagini sono coordinate dalla Procura di Rovigo, che le ha delegate ai carabinieri: al momento non vi sono indagati né sospettati, un caso dunque al momento avvolto nel più totale mistero.

La stradina in cui la famiglia viveva, in un casolare di campagna che si trova in via Fine, è stata transennata dalle forze dell’ordine: fino alla tarda notte di martedì la Scientifica dei Carabinieri ha lavorato per effettuare i rilievi.

Rovigo, colpita in testa da un proiettile. «Aiuto, la mamma sta morendo». Natascia Celeghin e Tommaso Moretto su Il Corriere della Sera il 28 marzo 2023.

A lanciare l'allarme ad Ariano Polesine sono stati i figli piccoli della 32enne, di 8 e 11 anni. Il vicino ha chiamato i soccorsi. La donna è gravissima ma è ancora viva

Giallo nel Delta del Po per un presunto tentato omicidio: una donna di 32 anni di origine marocchina è stata trovata in fin di vita dai figli minorenni, nella loro abitazione in via Fine, nelle campagne di Ariano Polesine (Rovigo), vicino a un ramo del Po che traccia il confine tra Veneto ed Emilia-Romagna. La scoperta della donna in gravi condizioni sarebbe avvenuta attorno alle 16 del 28 marzo. La 32enne, casalinga, è stata trovata ferita alla testa e, solo dopo gli accertamenti medici, una volta condotta all’ospedale, si è scoperto che potrebbe essere stata raggiunta da un colpo di pistola alla testa. La Tac avrebbe evidenziato la presenza di un corpo compatibile con un proiettile nel cranio. Ora si trova ricoverata in ospedale, gravissima. In casa vicino alla donna non è stata trovata nessuna pistola o altra arma da fuoco.

Il proiettile nel cranio

A trovare la loro madre riversa sul pavimento della cucina, i figli di 11 e 8 anni. Sono corsi subito dal vicino di casa a chiedere aiuto. L’uomo ha chiamato prontamente il 118. Il Suem 118 è intervenuto e ha trasportato d’urgenza la donna in ospedale. Con lei ora c'è il marito, che non si trovava in casa al momento del fatto. Solo dopo gli esami medici sarebbe stata accertata la presenza di un proiettile all’interno del cranio della donna. La Tac ha svelato la causa della ferita: non si trattava di un incidente domestico, come poteva sembrare all’inizio, ma di qualcosa di ben più grave, un presunto tentato omicidio avvenuto con un colpo di pistola o comunque un’arma da fuoco sparato non si sa da chi.

Nessun sospettato

Scattate le indagini dei carabinieri coordinate dalla Procura di Rovigo. Al momento non ci sono indagati e neanche sospettati su chi possa aver sparato alla donna nel casolare di campagna che si trova in via Fine, ad Ariano Polesine, una stradina immersa nei campi e collocata tra la strada regionale 495 e la Provinciale 44. È tutto ancora avvolto nel mistero: cosa sia accaduto esattamente nella località del Basso Polesine lo stanno ricostruendo gli inquirenti. Il tratto di strada che conduce al casolare immerso è stato transennato per consentire lo svolgimento delle indagini condotte dal Nucleo investigativo dei carabinieri. La Scientifica dei militari dell’Arma ha lavorato fino a notte fonda per effettuare i rilievi e così trarre qualsiasi dettaglio utile a chiarire fatti.

Rovigo, il giallo della morte di Rkia. Il marito: «Nessuno l’ha uccisa, è stato solo un incidente». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2023

La procura procede per omicidio, l'ipotesi del proiettile. L'uomo: «Il bimbo l'ha vista cadere e battere la testa sul fornello». Il vicino: «Le mie armi sequestrate? Tutto falso»

A sinistra, in alto, il padrone di casa Giacomo Stella. Sotto, Asmaoui Lebdaoui, a destra la moglie Rkia

«Non credo che mia moglie sia stata uccisa e neppure che abbia un proiettile nella testa: si è trattato solo di un incidente...». Asmaoui Lebdaoui allarga le braccia. Siamo nel cortile dell’abitazione di suo fratello, immersa nella campagna di Ariano Polesine (Rovigo), a una manciata di chilometri dalla casa (ora sotto sequestro) in cui sua moglie Rkia è morta martedì pomeriggio. Il fisico asciutto, le mani rovinate dal lavoro nei campi, Asmaoui è un uomo che non lascia trasparire emozioni: parla, affiancato da alcuni familiari, mentre i suoi due bambini di 8 e 10 anni giocano a rincorrersi. «Stanno bene - assicura - con loro non c’è più la madre, ma finché ci sono io non avranno problemi». È la prima volta che svela pubblicamente la sua verità. Un racconto lucido, a volte quasi scocciato, ma che non fa altro che complicare ulteriormente il mistero sul decesso della trentaduenne di origini marocchine.

«La mamma è caduta ed è morta»

I carabinieri indagano per omicidio e, secondo la procura di Rovigo, Rkia è morta «a seguito di ferimento alla testa presumibilmente a causa di un proiettile». La conferma definitiva, però, potrà arrivare soltanto dall’autopsia in programma nelle prossime ore. Ma a scompaginare le carte, ci pensa Asmaoui che al momento della morte di sua moglie non era in casa. «Stavo lavorando nei campi. Intorno alle 16.30 mi ha telefonato mio figlio maggiore. Mi ha detto: “La mamma è caduta ed è morta”. L’ho saputo così». Il bambino è lì accanto e ascolta tutto, annuendo, senza che nessun adulto valuti l’opportunità di allontanarlo. Anzi, viene coinvolto dal cugino, che gli chiede dove si trovasse quando la madre è crollata sul pavimento. «Io ero in giardino che chiudevo le buche con Giacomo» risponde.

«È crollata mentre video-chiamava la madre»

Giacomo Stella è il padrone di casa, e abita al piano di sopra: se qualcuno si fosse intrufolato nella palazzina per aggredire Rkia, probabilmente lui se ne sarebbe accorto. Ma chissà. Asmaoui Lebdaoui, intanto, continua a raccontare: «Mia moglie era in cucina e aveva in mano il telefonino perché stava video-chiamando sua madre, che si trova in Marocco. Il bambino più piccolo era con lei. È stato lui a raccontarmi che all’improvviso la mamma è crollata a terra, come per un malore, e ha sbattuto la nuca sul fornello. Lui si è avvicinato allo schermo e ha detto alla nonna: “Mamma è caduta”. Poi è corso ad avvisare il fratellino più grande, che mi ha telefonato». Non c’è altro: secondo il marito, Rkia è morta così. Niente omicidio, nessun giallo. Solo un banale incidente domestico. E il proiettile nella testa? «Io non ci credo. Devo incontrare i medici per capire cosa c’è di vero in questa storia del proiettile, ma non ci sono armi in casa». Di nuovo, il nipote si rivolge ai due bambini: voi avete sentito il rumore di uno sparo? Entrambi scuotono la testa.

Le armi del padrone di casa

In realtà, qualcuno che custodiva delle armi era presente, quel pomeriggio: Giacomo Stella, l’anziano del piano di sopra, è un cacciatore. I carabinieri gli avrebbero sequestrato i fucili ma pare che all’appello manchi una pistola, regolarmente denunciata. Indiscrezioni, che però lui smentisce: «Sono stupidaggini inventate per vendere giornali: non mi hanno sequestrato nulla e non mi manca niente». La sua versione collima con quella del marito di Rkia: «È successo che i bambini sono tornati da scuola alle 12.40 - spiega - e la mamma è uscita per accoglierli. Tutto come al solito. Più tardi, quando sono corsi a chiamarmi, sono entrato in casa e l’ho trovata a terra. Attorno a lei non c’era niente: solo girando il corpo ho visto il sangue che usciva dalla nuca».

Un foro piccolo

Il foro è piccolo: se davvero è un proiettile, quel frammento rilevato nella testa di Rkia dalla Tac eseguita nel reparto di Rianimazione di Rovigo (dove la donna è arrivata già in fin di vita), allora significa che è stata uccisa da una pistola di piccolo calibro. Quando gli si chiede del suo vicino di casa, Asmaoui Lebdaoui scuote la testa: «Lui ci vuole bene, ci consideriamo parte della stessa famiglia. È impossibile che abbia fatto del male a mia moglie: Giacomo è una brava persona, ci regala le uova, spesso gioca con i bambini...».

«Voglio la verità»

Rkia e la sua famiglia abitavano in quell’appartamento al piano terra di via Fine, ad Ariano, da circa otto anni. Lei casalinga, lui che tira avanti facendo il bracciante nei campi e raccattando qualche lavoro saltuario. «Era una brava donna - racconta - tutti erano gentili con lei. Siamo stati due mesi in Marocco: l’intera famiglia, dall’8 dicembre fino al 10 febbraio. E quando siamo tornati pareva tutto come al solito: lei che si occupava dei bambini, io che uscivo presto per andare a lavorare». Fino a martedì, quando la telefonata del loro bambino gli annunciava che nulla sarebbe stato più come prima. Solo alla fine del suo racconto, Asmaoui sembra cedere alla commozione: «Voglio che qualcuno mi dica finalmente la verità».

Uccisa a coltellate in casa, fermato il marito: “Aveva chiamato il figlio per salvarsi”. Vito Califano su Il Riformista il 30 Marzo 2023

È stata uccisa a coltellate nella sua abitazione. Aveva 60 la donna di Terni morta oggi pomeriggio nella casa dove viveva a via del Crociera, in zona Borgo Rivo. Per l’omicidio la Polizia di Stato ha fermato il marito della donna. Sul posto è intervenuta la Squadra Mobile, la Scientifica e la Swuadra Volante.

Stando a quanto riporta l’Ansa il femminicidio si sarebbe consumato al culmine di una lite. E sempre secondo le prime ricostruzioni la stessa vittima avrebbe telefonato al figlio 25enne per chiedere aiuto. Il giovane, che stava lavorando a Bolsena, avrebbe lanciato l’allarme. È stato portato in Questura.

La donna, come suo marito, era albanese. Si tratta del secondo femminicidio in Umbria in pochi giorni. Lo scorso martedì 28 marzo, un uomo e una donna, di 66 e 56 anni, erano stati trovati morti in casa a Tuoro sul Trasimeno. La donna era stata trovata morta, in casa, uccisa per strangolamento. L’uomo impiccato in giardino. Gli inquirenti avevano ipotizzato la dinamica dell’omicidio-sucidio.

Le indagini sono coordinate dalla Procura di Terni.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

"Ha sbattuto la testa…". La ricostruzione del vicino sulla morte della mamma di Rovigo. Il vicino e padrone di casa di Rkia Asmaoui è stato il primo a intervenire per tentare di soccorrere la donna, trovata riversa nel suo appartamento. Francesca Galici il 2 Aprile 2023 su Il Giornale.

È ancora giallo sulla morte di Rkia Asmaoui, la donna di origine marocchina trovata agonizzante nella sua casa dai figli piccoli. La donna è morta dopo qualche ora in ospedale a causa di un possibile proiettile nel cranio ma ancora non è stato individuato il suo assassino né la dinamica. Le indagini sono in corso per risalire al colpevole e le forze dell'ordine si muovono a 360 gradi per capire cosa possa essere successo nella sua casa di Ariano Polesine (Rovigo). Alessandro Politi, giornalista che si sta occupando del caso per Storie italiane, è riuscito a intervistare il vicino di casa della vittima, il primo che è accorso alle urla dei bambini.

"È morta perché ha sbattuto la testa. È caduta perché è andata in 'svanimento' (svenimento, ndr). È caduta perché stava senza mangiare, per il Ramadan", ha detto il padrone di casa che vive sopra l'appartamento della vittima, come si legge in un'anticipazione dell'intervista pubblicata dall'agenzia Ansa. "Rantolava, era un rantolo di morte quello lì. Non l'ho toccata", ha detto l'uomo, confermando di aver chiamato i carabinieri per chiedere aiuto, ma senza mai toccare la donna, come da indicazione dei soccorritori prima delle loro indicazioni. A quel punto, seguendo quanto gli veniva riferito dai medici al telefono, l'uomo racconta di aver tentato un massaggio cardiaco sulla donna: "L'ho fatto ma stavo scoppiando dallo sforzo, ho 80 anni... Non rispondeva...".

Stando al suo racconto, quando ha girato la donna di fianco il sangue era già coagulato, segno che qualunque cosa fosse successa, Rkia Asmaoui era riversa sul pavimento da tempo. "Ho visto sangue ma non era un buco", racconta ancora il padrone di casa, confermando ad Alessandro Politi che i carabinieri gli hanno sequestrato 4 fucili per condurre le indagini e fare le analisi necessarie. "La bufala è che dicono che io ho una pistola. Non altre armi", ha proseguito l'uomo, smentendo le notizie circolate negli ultimi giorni ma successivamente confermando di aver consegnato ai carabinieri anche una pistola, negando con forza che possa essersi trattato di un incidente causato dall'incauta custodia dell'arma, perché maneggiata dai bambini.

L'uomo sostiene che "quello della Tac non è un proiettile. Ha preso l'angolo del fornello, verrà fuori quello. Chi vuoi che vada a sparare a quella ragazza che, poverina, non parlava con nessuno? Sono convinto di questo. Era una brava ragazza. È caduta perché stava senza mangiare".

"Non dico niente...". È giallo sulla morte di Rkia, la mamma di Rovigo. Rkia Asmaoui è stata trovata in fin di vita nella sua abitazione con un proiettile in testa ed è morta poco dopo: ignoto l'autore dell'omicidio. Francesca Galici il 30 Marzo 2023 su Il Giornale.

È giallo ad Ariano Polesine, in provincia di Rovigo, dove una donna è stata trovata in fin di vita dai suoi due bambini. Dopo alcune ore di agonia, purtroppo la vittima non ce l'ha fatta ed è morta in ospedale. Rkia Asmaoui, 32enne di origine marocchina, è stata trovata riversa sul pavimento della cucina dai figli di 8 e 11 anni che hanno dato l'allarme ma per lei non c'è stato niente da fare. Ora le forze dell'ordine indagano sulle dinamiche e sul movente di quello che sembrerebbe essere un omicidio: il fascicolo è stato aperto ma per il momento senza indagati, in attesa di avere maggiori elementi. Alessandro Politi, giornalista del programma Rai Storie Italiane, ha intervistato in esclusiva il marito della donna ma anche il vicino di casa, che ha rilasciato nuove dichiarazioni. Il servizio andrà in onda domattina su Rai1 ma ilGiornale.it può anticipare alcuni stralci di conversazione.

"Non posso dire niente perché devo vedere il mio avvocato. Io non c'entro niente", dice il vicino di casa al telefono con Politi. È stato lui il primo ad accorrere quando i figli della donna hanno trovato per primi la madre e a offrire il primo soccorso. "Dovete lasciarmi stare", ha proseguito, evidentemente infastidito dalla presenza dei tanti giornalisti che si stanno interessando al caso, rompendo la quiete di provincia di Ariano Polesine. "Non sento molto bene, ho la memoria che non va", dice l'uomo negando di aver sentito il colpo di arma di fuoco. Il signore, inoltre, nega anche che sia sparita una delle pistole che deterrebbe regolarmente presso la sua abitazione: "Non è sparito niente, lasci stare".

Il giornalista ha raggiunto telefonicamente anche il marito della donna, anche lui straniero, per cercare di capire qualche dettaglio in più sul mistero che avvolge la morte di sua moglie. "Ero da mio fratello", ripete l'uomo, sostenendo che non fosse a casa sua nel momento in cui qualcuno ha sparato a sua moglie, uccidendola. L'abitazione in cui la donna è stata trovata agonizzante è stata ora posta sotto sequestro, quindi l'uomo è stato costretto a lasciarla insieme ai suoi due figli ma al telefono con Politi sembra non avere idea di cosa possa essere successo alla donna. "Quando sono tornato da lavoro ho saputo che mia moglie era caduta e che l'ambulanza l'ha portata a Rovigo", dice il marito al giornalista, senza però rispondere alla domanda su quali fossero i suoi rapporti con la moglie. Ovviamente, Alessandro Politi fa notare al vedovo che sua moglie non è caduta ma è stata colpita da un proiettile: "Ma va là, non lo so, non lo so".

L'uomo sembra non credere che sua moglie possa essere stata uccisa: "Che il medico di Rovigo dica la verità". Politi ha insistito affinché il marito spiegasse quali fossero i reali rapporti tra loro e solo successivamente ha dichiarato che tra loro non ci sarebbero stati attriti e che sarebbe stata una famiglia normale, in cui lui lavorava fuori e lei in casa. "Non dico niente, tutto apposto", dice il marito negando che possano esserci stati attriti di vicinato. Niente, quindi, secondo lui, può aver giustificato la morte della donna, che quando è arrivata l'ambulanza presso la sua abitazione è stata ritrovata con un proiettile in testa. Quel che colpisce del marito è la sua apparente tranquillità, anche nel racconto dello stesso in merito al momento in cui gli hanno comunicato la morte di sua moglie: "Eh vabbè, è andata...".

Rkia, morta con un proiettile in testa: l’ipotesi che il colpo sia partito a uno dei figli per un tragico gioco. Andrea Priante e Tommaso Moretto su Il Corriere della Sera il 3 Aprile 2023

Rovigo, donna trovata morta con un proiettile in testa: la pistola è stata rinvenuta in giardino e il padre ha un alibi. Al vaglio il ruolo del vicino

Un tragico gioco è l’ipotesi che si sta facendo strada nelle ultime ore tra gli investigatori che indagano sulla morte di Rkia Hannaoui, la trentaduenne marocchina mamma di due bambini colpita da un proiettile alla testa martedì 28 marzo ad Ariano Polesine nel Rodigino. 

Chi c'era in casa

In casa al momento dello sparo partito dalla cucina c’erano i due figli di 8 e 10 anni oltre a Giacomo Stella, l’anziano che vive al piano di sopra. Dopo il ritrovamento martedì mattina dell’arma del delitto sepolta nei dintorni della casa il giallo sembra ormai a una svolta. Lo scenario che si sta facendo strada è che a conoscere la verità sia almeno uno dei due bambini, forse il più piccolo, e che non è escluso possa inavvertitamente aver avuto un ruolo attivo nella vicenda. Nei giorni scorsi al vicino di casa Giacomo Stella erano stati sequestrati i fucili da caccia regolarmente detenuti ma pare mancasse all’appello proprio una pistola. 

Gli alibi del marito

Qualche giorno dopo il delitto il marito della vittima, aveva relegato la morte a un banale incidente. Lui quel pomeriggio era al lavoro (avrebbe quindi un alibi) e ai famigliari ha raccontato di essere uscito alle 13.40, lasciando la moglie a casa con i bambini, e di aver raggiunto alle 14 la sede della Romea Rottami, azienda rodigina che si occupa di recuperare materiale ferroso. Pare stesse cercando parti di motore, per aggiustare un veicolo. L'autopsia ha escluso che il colpo di pistola sia stato esploso a distanza ravvicinata. In una nota, la Procuratrice della repubblica di Rovigo, Manuela Fasolato, aveva riferito che l'esame sul cadavere ha riscontrato un foro d'ingresso nella tempia sinistra, riconducibile a un proiettile calibro 22. Il proiettile è stato poi trovato nella parte destra del cranio. La magistratura ha disposto ulteriori accertamenti di carattere balistico sul calibro e la compatibilità del proiettile con le armi recuperate. La magistratura ha aperto un fascicolo di indagine contro ignoti per omicidio, dopo che una prima Tac aveva evidenziato la presenza sul capo della donna di un foro compatibile con un colpo di arma da fuoco.

I ruoli da valutare

Se dovesse essere dimostrato qualche tipo di coinvolgimento da parte dei minorenni andrà vagliata anche il ruolo del padre che potrebbe avere raccontato dell'incidente in buona fede o perché effettivamente non conosceva i fatti o per proteggere i due figli.

Il tragico incidente nel Polesine. Omicidio della mamma di Rovigo, la svolta terrificante: “È stato il figlio di 8 anni”. Vito Califano su Il Riformista il 4 Aprile 2023

Svolta sorprendente e terrificante quella ipotizzata da chi sta indagando sulla morte di Rkia Hannaoui, la donna uccisa da un colpo di arma da fuoco alla testa nel polesine. Omicidio che era diventato un vero e proprio giallo. Gli investigatori ipotizzano che a esplodere quel colpo fatale sia stato il figlio di otto anni della donna. Secondo quanto riporta l’Ansa il bambino avrebbe utilizzato la pistola del padrone di casa – il locatore dell’appartamento – procurata non si sa al momento come, sarebbe entrato in casa e maneggiando l’arma avrebbe fatto partire in qualche maniera il colpo mortale.

La Procura di Rovigo aveva aperto un fascicolo per omicidio contro ignoti. La donna, casalinga, 31 anni, era stata dichiarata morta il 29 marzo, un giorno dopo il suo ritrovamento nel soggiorno dell’abitazione in cui viveva. Il marito della donna, il 52enne marocchino Lebdaoui Asmaoui, aveva sempre definito la morte della moglie come un incidente domestico, a seguito di un malore. L’uomo era al lavoro quando si è consumata la tragedia, quando la donna era in casa con i figli di 8 e 10 anni.

A lanciare l’allarme, a chiamare i carabinieri, era stato un uomo anziano che vive nell’appartamento al piano superiore di quello in cui viveva la vittima, proprietario di quell’abitazione. All’uomo i carabinieri avevano sequestrato alcuni fucili di caccia e lui stesso aveva a sua volta confermato la tesi dell’incidente. La magistratura ha disposto ulteriori accertamenti di carattere balistico sul calibro e la compatibilità del proiettile con le armi recuperate.

A provocare la morte della donna “un foro d’ingresso nella regione temporale sinistra riconducibile ad un proiettile in metallo integro, cal 22 (salvo maggiore approfondimento balistico), poi rinvenuto in regione temporo-parietale destra e avviato agli accertamenti balistici; tale proiettile ha attinto la regione del cranio della vittima con direzione fronto-occipitale, da sinistra verso destra, caudo-craniale” come si legge in una nota della Procura. Soltanto questa mattina era stata ritrovata una pistola, in un terreno nei pressi dell’abitazione dove la donna abitava con il marito e i due figli. Dall’esame autoptico sul corpo era emerso che il colpo non era stato esploso da distanza ravvicinata.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Estratto dell’articolo di Enrico Ferro per repubblica.it il 4 aprile 2023.

Un tragico gioco dei due bambini di 8 e 11 anni: con il passare delle ore si fa largo l’ipotesi che Rkia Hannaoui sia morta a seguito di un fatale incidente. I suoi due figli potrebbero essere riusciti a mettere le mani sulle armi incustodite, maneggiandole poi senza rendersi conto delle conseguenze.  […]

 L’autopsia sul cadavere della donna aveva confermato l’esito della tac cerebrale eseguita poche ore dopo il suo ritrovamento, sanguinante e incosciente, nel soggiorno di casa: è stato un colpo d’arma da fuoco, probabilmente calibro 22, a uccidere la giovane mamma trovata morente nella cucina della sua abitazione, nelle campagne di Ariano Polesine. E di proiettile aveva parlato la Procura di Rovigo fin dall’inizio. […]

Ma sarà difficile compiere questo accertamento per un errore commesso fin dal primo intervento: il corpo della donna è stato trasportato in ospedale dal 118 e la scena non è stata cristallizzata. I carabinieri, infatti, sono stati messi in allerta dai sanitari del 118 solo due ore dopo, quando con la tac è emersa la presenza del proiettile in testa. Con un gap del genere ricostruire una traiettoria balistica potrebbe risultare impossibile.

Un’altra informazione rilevante che emerge dall’autopsia è che la pallottola non è stata esplosa a distanza ravvicinata. La trentunenne è stata uccisa da un proiettile esploso da lontano, alle sue spalle, che è entrato dalla nuca e si è fermato all’interno della testa, dietro la fronte. […]

Rkia, il racconto del vicino: «La pistola era in un cassetto che non poteva aprire un bambino». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 5 aprile 2023.

Rovigo, l'anziano vicino di casa della mamma morta, parla della sua arma nascosta in un comodino

«Era in camera mia, la pistola...». Giacomo si sbraccia, agita la testa, bestemmia. Quest’anziano vicino di casa della famiglia di Rkia, la 32enne di origini marocchine ammazzata nell’appartamento del piano di sotto, fa di tutto per allontanare da sé le ombre che per una settimana l’hanno circondato. È a lui, pensionato con la passione per la caccia, che i carabinieri avevano sequestrato i fucili subito dopo che la Tac aveva evidenziato un proiettile nella testa della donna. E fin da subito era saltato fuori che all’appello mancava la sua pistola calibro 22, detenuta regolarmente. 

«Sapevano più di quanto dicevano»

Ora si scopre che è proprio con quell’arma che Rkia è stata ammazzata, probabilmente dal figlio minore, di otto anni (il fratello più grande ne ha appena dieci) che, dopo averla presa, s’è messo a giocarci in casa. È stato un incidente, ed è evidente che non si può addossare al piccolo la responsabilità di quanto accaduto: il colpo è partito per errore, in cucina, e ha centrato la mamma alla tempia sinistra. «L’ho pensato fin dall’inizio che quei bambini sapessero più di quello che dicevano. Bastava parlarci. E il loro papà secondo me non sospettava nulla: se poi verrà fuori che ha mentito l’avrà fatto solo per coprire i suoi bambini, per proteggerli» racconta l’anziano al Corriere di prima mattina, appena diffusa la notizia che lunedì sera i carabinieri avevano trovato l’arma del delitto sepolta sotto pochi centimetri di terra, appena al di là della recinzione che separa il giardino della bifamigliare da un campo seminato di fresco. «Quando ieri ho visto che la tiravano fuori, non ci credevo... Ora mi interrogheranno di nuovo ma io, quello che avevo da dire, l’ho detto». 

L’abitazione è in una zona isolata dalla campagna polesana. L’anziano e la famiglia di Rkia si facevano compagnia a vicenda. «Ci vuole bene - ha raccontato nei giorni scorsi il marito della vittima - Giacomo gioca con i bambini, ci regala le uova...». Una vita semplice, promiscua, coi piccoli liberi di entrare e uscire dalle due abitazioni. Qualche dettaglio in più, Giacomo l’ha raccontato in un’intervista che andrà in onda oggi a Storie Italiane, su Rai Uno. Dettagli importanti. «La pistola era in sicurezza in camera mia, nel cassetto del comodino. Era lì ma poi io non ho più guardato: sono passati i giorni, ed ecco che sono arrivati i carabinieri, hanno preso i fucili» spiega prima di adombrare nuovi sospetti. Perché, assicura, quel cassetto non era facile da aprire: «I bambini potevano prendere la pistola e portarla via, ma ad aprirlo dev’essere stato qualcun altro. E anche a fare il buco per nasconderla, qualcuno dev’essere stato. Non credo siano stati i bambini, penso ci sia la complicità di un adulto...». Chissà. 

La posizione dell'anziano

Di certo c’è che i carabinieri sono convinti di aver chiuso il «giallo»: il piccolo avrebbe fatto tutto da solo, senza l’aiuto del fratellino maggiore, tanto meno del papà o di altri adulti. È probabile che la procura di Rovigo chieda presto conto all’anziano della scarsa cautela con la quale gestiva quella calibro 22. «Si procede per accertare le responsabilità colpose di terzi in ordine alla omessa custodia dell’arma con i relativi proiettili», spiega il procuratore capo Manuela Fasolato. Tradotto fuor di linguaggio tecnico, significa che le indagini sono in corso per chiarire se fosse conservata in un posto sicuro e lui, da cacciatore esperto, sa bene cosa sta rischiando. Non è da escludere, quindi, che il suo sottolineare la difficoltà, per dei bambini, di arrivare a impossessarsi della sua pistola sia anche un modo per scrollarsi di dosso ogni responsabilità. Eppure Giacomo sale in sella alla sua bicicletta e scuote la testa. Si dice sicuro: «È stato un incidente. Ma per “tirare” con quelle pistole lì, mica sono capaci i bambini...». 

Estratto dell'articolo di Francesco Moscatelli per “La Stampa” il 5 aprile 2023.

[…] Non c'è nessun mistero dietro la fine di Rkia Hamaoui, la donna di 32 anni ritrovata a terra con una ferita alla testa una settimana fa nella cucina della sua casa di Ariano Polesine, in provincia di Rovigo, e morta dopo un giorno di ricovero in ospedale.

 Nessun giallo. Nessun killer. Anche se l'autopsia ha confermato quello che era emerso dal primo esame del medico legale e da una Tac, e che aveva portato la procuratrice della Repubblica Manuela Fasolato ad aprire un'indagine contro ignoti per omicidio: a uccidere Rkia è stata una pallottola esplosa da una certa distanza. Un proiettile calibro 22 che le ha perforato la tempia sinistra.

 Erano stati i due figli di 8 e 11 anni a dare l'allarme al vicino e padrone di casa, Giacomo Stella, 81 anni, che dopo aver avvisato Asmaoui Lebdaoui, il marito di Rkia che in quel momento si trovava in un paese vicino per lavoro, aveva chiamato il 118 e i carabinieri.

 A Stella, che vive nell'appartamento proprio sopra quello della famiglia di origine marocchina, erano poi stati sequestrati quattro fucili da caccia, regolarmente denunciati. All'appello, però, mancava un'altra arma detenuta dall'uomo, una pistola.

[…]  A sparare accidentalmente sarebbe stato il più piccolo dei bambini che insieme al fratello maggiore stava maneggiando la calibro 22, lasciata incustodita in un capanno del giardino. I carabinieri guidati dal colonnello Maurizio Bianucci, comandante del nucleo operativo di Rovigo, l'hanno ritrovata lunedì sera sotto pochi centimetri di terra, in un fosso che separa la villetta a due piani in cui viveva Rkia da un campo. L'hanno nascosta i bambini in preda al panico? Qualcuno li ha aiutati?

 Davanti alla villetta a due piani incastrata fra l'argine del Po di Goro e i campi, ieri, c'erano parcheggiate le auto di amici e parenti venuti a portare il loro sostegno al signor Stella. Tutti lo descrivono come stanco, stremato da questi giorni di indagini, e con pochissima voglia di parlare. Lui si limita a ripetere quello che dice da giorni: «Non ho fatto niente, niente. Non vedo l'ora che spariscano tutte queste telecamere e tutti questi giornalisti. Lasciatemi in pace». […]

Rkia uccisa per gioco dal figlio: il vicino di casa indagato per concorso in omicidio colposo. Andrea Priante e Antonio Andreotti su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2023

Rovigo, l'uomo, 81 anni, raggiunto da un avviso di garanzia. All'accusa si aggiunge l'omessa custodia delle armi: la pistola da cui è partito il colpo era conservata in un cassetto di casa sua

Concorso in omicidio colposo. È l'ipotesi di reato per la quale è indagato Giacomo, l'anziano vicino di casa di Rkia, la 32enne polesana di origini marocchine raggiunta da un proiettile alla testa esploso per sbaglio dal figlio di 8 anni martedì 28 marzo scorso. Giunta in ospedale in condizioni disperate, la donna è morta il giorno successivo. Come rivelano fonti qualificate al Corriere del Veneto, all'uomo, 81 anni, è stato notificato un avviso di garanzia dai carabinieri. All'accusa di concorso in omicidio colposo si aggiunge anche la violazione dell'articolo 20 bis della legge 110 che punisce l'omessa custodia delle armi.

La calibro 22 e la ricostruzione

Giacomo nel pomeriggio di martedì scorso era stato il primo a intervenire in soccorso della donna, subito allertato dai due bimbi di Rkia, di 8 e 10 anni. In questi giorni le indagini avevano portato lunedì sera al ritrovamento dell'arma del delitto, una pistola calibro 22, sepolta in sotto pochi centimetri di terra appena fuori dalla bifamiliare in cui vivevano la famiglia della vittima e, al piano superiore, il pensionato. A lui i carabinieri avevano subito sequestrato i fucili da caccia e, stando alla ricostruzione degli investigatori, il bimbo avrebbe preso di nascosto la pistola dal comodino della camera dell'81enne. La morte di Rkia è stata l'epilogo di un gioco: il figlio minore avrebbe impugnato l'arma mentre si trovava in cucina con la mamma quando è partito il colpo che l'ha raggiunta alla testa.

Il vicino: «La pistola era in sicurezza»

Se il minore vista l'età non è imputabile, in queste ore i carabinieri proseguono le indagini per escludere responsabilità da parte degli adulti, a cominciare proprio dall'81enne. È in questo quadro che va a inserirsi l'avviso di garanzia firmato dal sostituto procuratore di Rovigo Maria Giulia Rizzo, che ha costretto l'indagato a rivolgersi a un avvocato anche per presentare, se lo riterrà, una memoria difensiva. Nei giorni scorsi il vicino aveva raccontato: «La pistola era in sicurezza, nel cassetto del comodino. Un bambino poteva portarla via ma non sarebbe stato in grado di aprire il cassetto. Per farlo serviva l'aiuto di un adulto». Ma non è escluso che quelle parole servissero ad allontanare da sé ogni responsabilità: Giacomo, da cacciatore esperto, sa bene quanto rigide siano le regole relative alla custodia delle armi. 

Le ipotesi sul ruolo del vicino

Ora rimane ancora da chiarire in che cosa consista effettivamente il concorso dell'anziano nell'omicidio colposo commesso dal bambino: ha aiutato concretamente il figlio di Rkia nelle fasi successive allo sparo, magari contribuendo a nascondere l'arma, oppure, più semplicemente, il suo «concorso» sta proprio nel fatto di aver inconsapevolmente reso accessibile quella pistola calibro 22 ai piccoli vicini di casa?

Omicidio di Stefania Rota, le ultime due telefonate del cugino il giorno del delitto e le bugie alle amiche. Il gip: «Così voleva nascondere di averla uccisa». Giuliana Ubbiali su Il Corriere della Sera il 15 Maggio 2023.

Ivan Perico, in carcere con l'accusa di aver ucciso la cugina Stefania Rota, la chiamò l'11 febbraio alle 13.13 e alle 14.36.  Nell'ordinanza: «Violento, pericoloso, senza pietà»

L'11 febbraio, quando Stefania Rota viene uccisa, il cugino Ivano Perico (più conosciuto come Ivan) le telefona due volte. Insiste. Una alle 13.13, per  520 secondi e la seconda alle 14.36 di 5 secondi. 

Le due chiamate nel giorno del delitto

Così annota il gip Massimiliano Magliacani nell'ordinanza con cui l'ha messo in carcere, come chiesto dal pm Letizia Ruggeri. L'11 febbraio è ritenuto il giorno del delitto (il suo diario personale si ferma a quel giorno e sul tavolo aveva lo scontrino della spesa), ma la donna venne ritrovata il 21 aprile, nella sua casa di via XI Febbraio, a Mapello, a pochi metri da quella del cugino. Lui è stato arrestato sabato 13 maggio.

Dalla scorsa estate 109 chiamate

 Le telefonava spesso, 109 volte dalla scorsa estate. Dopo l'11 febbraio più nulla. Eppure, oltre che telefonarle si frequentavano. Più persone li  vedevano andare a camminare insieme. Ma non è lui a cercarla e a dare l'allarme, dopo che la donna non si vede più in giro. Sono le amiche.

Le bugie alle amiche di lei

 Anzi, quando due di loro vanno a cercare Stefania, senza trovarle, citofonano a lui, che risponde: «È via per lavoro». Una delle due torna con il marito, la settimana prima di Pasqua e lui ripete: «Torna dopo Pasqua». Invece, intanto, ne sono convinti gli investigatori, per depistare le ricerche della donna lui le sposta l'automobile che lei lasciava sempre nel vialetto di casa o in garage. Lo fa anche pochi giorni dopo che l'amica di Stefania era andata a chiederne notizie insieme al marito. 

Fratture al cranio, all'osso ioide e la ferita al volto

Come l'ha uccisa l'assassino? Il medico legale parla di più fratture al cranio,  una ferita al volto, e altre fratture all'osso ioide. 

«Violento e senza pietà»

Perico ha «una personalità violenta e pericolosa», scrive il gip. Nel suo comportamento ravvisa «l'assenza di qualsiasi pietà ed empatia per la persona uccisa, anche solo per il suo cadavere».  

Narcotizzato e soffocato nel bidone con l'acido: i killer di Andrea La Rosa e il movente economico. Andrea La Rosa scomparve la sera del 14 novembre 2017. L’unica traccia lasciata fu una mazzetta di banconote. Dopo un mese la scoperta: era stato ucciso. Per l’omicidio furono condannati un conoscente e la madre. Francesca Bernasconi Rosa Scognamiglio il 16 Maggio 2023 su Il Giornale.  

Tabella dei contenuti

 La scomparsa

 Le prime indagini

 Quell'appuntamento la sera della scomparsa

 I sospetti degli inquirenti

 "Andrea La Rosa è stato ucciso"

 Un delitto premeditato

Una serata passata al campo della sua squadra di calcio. Un appuntamento poco dopo e, alla fine, il nulla. Di Andrea La Rosa, ex giocatore di calcio e dirigente sportivo, si perse ogni traccia la sera del 14 novembre 2017 e per settimane il suo rimase un caso di scomparsa avvolto nel mistero. Poi la scoperta agghiacciante: Andrea era stato ucciso. Per l’omicidio vennero condannati il conoscente Raffaele Rullo e la madre di questi Antonietta Biancaniello, che insieme avevano architettato un piano diabolico che portò alla morte di La Rosa.

Un gesto premeditato e studiato nei minimi dettagli. "Alla base c'è una profonda ignoranza dei sentimenti e del rispetto della vita umana", ha commentato a ilGiornale.it il luogotenente dei carabinieri Giulio Buttarelli, che si occupò del caso. Madre e figlio, attualmente in carcere, sono stati condannati in via definitiva all’ergastolo.

La scomparsa

"Da 20 giorni nessuno ha più notizie di Andrea La Rosa, manager 35enne scomparso senza lasciare traccia". A distanza di oltre due settimane, giornali e telegiornali parlavano della misteriosa sparizione del direttore sportivo del Brugherio calcio. Nessuno aveva sue notizie e nessuno poteva sapere cosa fosse realmente accaduto a La Rosa.

L’ultima volta in cui era stato visto era il 14 novembre 2017, un martedì. Prima di cena, Andrea La Rosa era andato a prendere la fidanzata Estella all’uscita dal lavoro. Quella sera alle 20 avrebbe dovuto andare al campo di calcio del Brugherio, per la presentazione del nuovo allenatore. L’impegno al campo di calcio terminò intorno alle 21.30. Per la restante parte della serata La Rosa informò la fidanzata circa i suoi spostamenti: l’ultimo messaggio le arrivò intorno alle 22.10, quando si trovava in via Cogne a Quarto Oggiaro. Da quel momento, di Andrea La Rosa si perse ogni traccia: l’uomo scomparve nel nulla.

Le prime indagini

Quella sera Andrea La Rosa aveva mostrato alla fidanzata delle mazzette di banconote nascoste nei calzini. Si trattava di circa 8000 euro. L’uomo li aveva sistemati a mo’ di parastinchi e aveva rivelato di doverli consegnare a una persona. Successivamente, quando gli investigatori perquisirono la casa di La Rosa, trovarono un foglio di carta: "Era il testo di una mail inviata ad Estella, ma su cui vi erano appuntate varie somme di denaro, che poi accertiamo essere dei prestiti che Andrea fa ad alcuni soggetti. Sono persone che noi abbiamo sentito e che ci hanno confermato di aver ricevuto dei soldi in prestito che corrispondevano alle cifre riportate a penna sull’e mail", spiegò il maresciallo dei carabinieri Pasquale Afeltra, nel documentario Il mistero del calciatore. Un totale di 64mila euro, prestati ad amici e conoscenti.

E fu proprio intorno ai soldi che i carabinieri iniziarono a indagare, analizzando il conto bancario del ragazzo scomparso, per individuare eventuali movimenti di denaro sospetti. Nel frattempo si cercarono di ricostruire anche gli spostamenti di La Rosa e di rintracciare la sua auto, una Audi A3 grigia. Le prime verifiche diedero esito negativo. Poi la svolta. "Una delle telecamere più importanti che analizziamo è quella nei pressi di via Cogne", spiegò il maresciallo Afeltra. Quella videocamera infatti riprese il passaggio della macchina di Andrea La Rosa alle 22.09 del 14 novembre.

Quell'appuntamento la sera della scomparsa

Ma la macchina di La Rosa non era la sola. Davanti all’Audi A3 sfrecciava un’altra automobile: era quella di Raffaele Rullo, un conoscente dell’uomo scomparso che con lui aveva appuntamento proprio dopo l’impegno al campo da calcio. A rivelarlo era stata la fidanzata Estella. A lei La Rosa aveva parlato di un incontro tra i due quella sera. Il motivo? A detta della donna, i due si sarebbero dovuti incontrare proprio a causa dei soldi che l'ex calciatore aveva nascosto nei calzini. Ma, secondo Rullo, l’appuntamento era stato fissato perché si sarebbe voluto confidare circa il rapporto con la fidanzata.

La sera della scomparsa Rullo chiese a La Rosa di raggiungerlo al McDonald’s di Viale Certosa e, una volta arrivato lì, lo invitò a seguirlo. I due, quindi, raggiunsero via Cogne, la zona dove una delle telecamere analizzate dagli inquirenti aveva ripreso le autovetture dei due ragazzi. Proprio in quella zona abitava la madre di Rullo, Antonietta Biancaniello, che disse di essere scesa in strada con il cane e di aver visto il figlio parlare con La Rosa.

I sospetti degli inquirenti

Nonostante la segnalazione di una possibile presenza straniera, un dettaglio portò i sospetti degli inquirenti a concentrarsi intorno all’ultima persona che aveva visto La Rosa prima della scomparsa: Raffaele Rullo. Il suo nome, infatti, compariva nella lista trovata dai carabinieri in casa del calciatore. A fianco al nome di Raffaele Rullo erano segnati 30mila euro. Ma l’uomo non aveva mai accennato a quel debito. A quel punto i carabinieri iniziarono a monitorare Rullo con delle intercettazioni ambientali. Rullo, sposato con due figli, conduceva una vita che sembrava al di sopra delle sue possibilità economiche. A renderla possibile sarebbero state le truffe che l’uomo metteva in atto ai danni delle assicurazioni automobilistiche.

Anche le dichiarazioni della madre di Rullo, relative all’ultimo avvistamento di La Rosa, lasciarono dubbiosi gli inquirenti. Antonietta Biancaniello disse di aver visto il calciatore salire su una macchina con targa straniera, ma questa affermazione non ebbe alcun riscontro. "Quasi tutte le strade in allontanamento da via Cogne erano monitorate da telecamere - spiegò il maresciallo Afeltra nel documentario - e nessuna ha catturato il passaggio di un’auto riconducibile a quella descritta dalla Biancaniello". Questo portò i carabinieri a concludere che quella macchina non fosse mai esistita.

Ad alimentare i sospetti verso madre e figlio intervennero anche le analisi effettuate sul traffico telefonico del cellulare di La Rosa. Dopo l’ultimo messaggio inviato alla fidanzata alle 22.10, in cui l'atleta le rivelava la sua posizione in via Cogne, il cellulare dell’uomo perse la connessione. Qualche ora dopo, all’1.35, il segnale si riattivò per qualche istante e mostrò la sua presenza nella stessa zona in cui sembravano attivi anche Rullo e la madre. Poi, pochi minuti dopo, una videocamera riprese l’auto di Rullo in uscita da via Cogne. Così Antonietta Biancaniello e Raffaele Rullo divennero i sospettati numero uno per la scomparsa di Andrea La Rosa.

"Andrea La Rosa è stato ucciso"

A quel punto, come spiegato a ilGiornale.it dal luogotenente Giulio Buttarelli, i carabinieri decisero di "pedinare la signora Biancaniello". Le intercettazioni infatti avevano catturato una conversazione tra la donna e il titolare di un magazzino, a proposito di qualche oggetto ingombrante che doveva essere recuperato. Così, alle 11 del 14 dicembre 2017, Antonietta Biancaniello uscì da casa, diretta al magazzino. Dietro la Lancia Y della madre di Rullo procedevano i carabinieri.

Una volta che la donna giunse al magazzino, sulla sua automobile venne posizionato con un muletto un bidone blu, poi coperto con dei cartoni. "Dopo aver caricato il bidone all’interno dell’auto e aver percorso qualche chilometro - ha raccontato Buttarelli - fece una cosa che ci spiazzò: parcheggiò la macchina in doppia fila e si fermò al bar a prendere un caffè". Un comportamento anomalo per una donna che poteva avere un cadavere nel bagagliaio: "Per questo pensammo che potevamo aver preso un granchio".

Una volta risalita in auto, la donna continuò per la sua strada. "Decidemmo di farla fermare da un’altra pattuglia, facendo passare l’accertamento come un controllo di routine su strada", ha spiegato Buttarelli. Una volta bloccata la Lancia Y della donna, i carabinieri portarono il bidone in caserma per controllarne il contenuto. E lì trovarono il cadavere di Andrea La Rosa. Il calciatore era stato ucciso.

Un delitto premeditato

Secondo la ricostruzione fatta dagli inquirenti, La Rosa venne attirato in una trappola ben ordita da Raffaele Rullo e da Antonietta Biancaniello. La coppia killer infatti aveva già predisposto tutto il necessario per compiere l’omicidio: "Dall’analisi dei file riscontrammo che c’era stata una chiara pianificazione del delitto", ha rivelato alla nostra redazione il luogotenente Buttarelli.

"Mamma e figlio killer spietati. Ecco come li abbiamo incastrati" 

Raffaele Rullo aveva cercato su Internet “parole come ‘acido’, ‘acido forte’, ‘ascia’, ‘motosega’, ‘teli protettivi’”. Non solo. "Riuscimmo a ricostruire che, più di una volta, Rullo aveva disdetto l’incontro con La Rosa perché non aveva a disposizione tutto il materiale per dare seguito al piano criminale". Prima dell’appuntamento con La Rosa, Rullo si era procurato il fusto in cui venne ritrovato il corpo, diverse taniche di acido cloridrico, che sarebbero potute servire per eliminare ogni traccia del cadavere, e dei potenti narcotici. L’uomo inoltre aveva acquistato una motosega che, secondo gli inquirenti, sarebbe dovuta servire per il depezzamento del corpo, i cui tentativi (non riusciti) vennero rilevati a livello della gola della vittima. "Andrea La Rosa fu narcotizzato con le benzodiazepine - ha ricostruito il luogotenente Buttarelli, riportando le conclusioni del medico legale - e morì per soffocamento causato da due fattori, per inalazione dei fumi dell'acido e per la costrizione all'interno del bidone in cui era stato chiuso".

Per l’omicidio di Andrea La Rosa, Raffaele Rullo e Antonietta Biancaniello vennero condannati all’ergastolo per omicidio pluriaggravato, soppressione di cadavere e tentato omicidio, nonostante l’intenzione della madre di prendersi tutta la colpa. Nello stesso processo, madre e figlio vennero accusati e condannati anche per un’altra vicenda: il tentato omicidio di Valentina Angotti, allora moglie di Raffaele Rullo. Nelle motivazioni che accompagnavano la sentenza di Appello, il giudice definiva Rullo come "ideatore, istigatore, e forse determinatore del tentato omicidio di Valentina Angotti, al solo scopo di incassare i soldi dell’assicurazione che lui stesso aveva stipulato sulla vita della moglie". Anche per l'omicidio La Rosa il movente sarebbe da ricercare nei soldi, quelli che la vittima aveva prestato a Rullo e che lui non aveva intenzione di restituire.

La Corte di Cassazione ha reso definitiva la condanna nell’aprile del 2022, sottolineando come la sentenza di appello fosse stata "chiara nell’evidenziare l’assenza di qualunque disturbo di origine mentale o psichico" e di attribuire a Rullo una "piena capacità di intendere e di volere".

Omicidio Andrea La Rosa, parla il carabiniere che indagò sul calciatore ucciso. Il cadavere del 35enne fu ritrovato all'interno di un fusto di gasolio contenente acido. Per il delitto dell'ex calciatore del Brugherio calcio sono stati condannati all'ergastolo Antonietta Biancaniello e Raffaele Rullo. Rosa Scognamiglio il 31 Marzo 2023 su Il Giornale.

"Sin da subito ipotizzammo l'omicidio e la soppressione di cadavere. Nei giorni antecedenti al delitto, Raffaele Rullo aveva fatto alcune ricerche su internet: parole come 'acido', 'ascia', 'motosega'. Mamma e figlio avevano messo a punto un piano criminale". A parlare è il luogotente del Comando Provinciale di Milano Giulio Buttarelli che si occupò delle indagini sull'omicidio di Andrea La Rosa, l'ex calciatore 35enne ucciso nella notte tra il 14 e il 15 novembre del 2017. Il cadavere fu ritrovato all'interno di un fusto di gasolio contenente acido, circa un mese dopo la presunta scomparsa.

Per il delitto furono condannati all'ergastolo Raffaele Rullo, un conoscente della vittima, e la madre Antonietta Biancaniello. La sentenza, emessa a novembre del 2020 dalla Corte d'Assise d'appello di Milano, è stata confermata dalla Cassazione ad aprile 2022. Oltre all'omicidio di La Rosa, mamma e figlio sono stati condannati anche per il tentato omicidio di Valentina Angotti, l'allora moglie dell'imputato.

Maresciallo Buttarelli, quando cominciò a occuparsi della scomparsa di Andrea La Rosa?

"Quando Andrea La Rosa scomparve, la sera del 14 novembre 2017, la madre si trovava fuori città. Sicché fu la zia a denunciare la scomparsa del nipote alla compagnia di San Donato Milanese. Io appresi la notizia dal monitoraggio delle segnalazioni sulle persone scomparse e già il 17 novembre prendemmo contatti con i colleghi di San Donato per avere dei dettagli in più e poi il giorno seguente venimmo incaricati dal dottor Fusco di seguire l’indagine, quindi dal 18 novembre ".

Quale fu il dettaglio che destò immediatamente sospetti?

"Senza dubbio quello relativo al mazzetto di banconote, ottomila euro, che Andrea aveva messo nei calzini, a mo 'di parastinchi, la sera della scomparsa".

Cosa le fece pensare?

"Che sicuramente c'era qualcosa che non tornava in questa storia e dunque non poteva trattarsi di una scomparsa intesa come un allontanamento volontario".

Quale fu la mossa successiva?

"Dopo una serie di accertamenti, decidemmo di interrogare Raffaele Rullo, quello che doveva essere un amico di Andrea, che era già stato sentito dai colleghi di San Donato poiché risultava tra le ultime persone ad aver visto La Rosa la sera della scomparsa".

Che raccontò Raffaele Rullo?

"Rullo raccontò che la sera del 14 lui e Andrea si erano visti aggiungendo che La Rosa 'era nervoso' perché aveva alcuni problemi con la fidanzata".

Aggiunse altro?

"No. Ma fece l'errore, per fortuna, di tirare in ballo la madre".

Cioè?

"Quando si recò dai carabinieri di San Donato, portò con sé anche sua madre, Antonietta Biancaniello. Quindi, il 25 novembre, decidemmo di sentire anche lei".

Cosa disse Antonietta Biancaniello?

"Che la sera del 14 novembre aveva visto il figlio parlare animatamente sotto casa, a Quarto Oggiaro, con un ragazzo. Poi, quando il figlio era andato al lavoro, aveva notato quest'uomo (Andrea La Rosa, ndr) salire su una vettura con una 'targa gialla', quindi lasciò intendere che si trattasse di un'auto straniera".

Notò delle incongruenze nei racconti di mamma e figlio?

"Sì. Sì erano messi d'accordo sul canovaccio principale, ma non sui dettagli della versione ufficiale da raccontare ai carabinieri. E da lì capimmo subito che mamma e figlio erano coinvolti nella scomparsa di Andrea La Rosa".

Quando avete avuto la certezza che si trattava di un omicidio?

"Il 4 dicembre facemmo una nota alla procura della Repubblica in cui già avevamo ipotizzato l'omicidio e la soppressione del cadavere. Poi, con l'autorizzazione del procuratore aggiunto Eugenio Fusco, che coordinava le indagini insieme alla collega Maura Ripamonti, eseguimmo due accertamenti importanti, uno dei quali tramite la Apple. Andrea aveva un iPhone e quindi chiedemmo all'azienda se il suo telefono fosse collegato a qualche server. Ci fu comunicato che lo smartphone di Andrea risultava spento da poco dopo l'una della notte tra il 14 e il 15 novembre e non si era più riacceso. Il dato restituiva una certezza, cioè che La Rosa non si era mai spostato da Quarto Oggiaro".

E l'altro accertamento?

"Riguardava Rullo. Acquisimmo tutti i dati relativi alle navigazioni internet effettuate da Rullo nell'azienda presso cui lavorava col proprio account".

Cosa saltò fuori?

"Dall'analisi dei file di log riscontrammo che c'era stata una chiara pianificazione del delitto. Peraltro le ricerche fatte sul web da Rullo andavano di pari passo con l'evoluzione di una chat aperta che aveva con Andrea La Rosa in cui si parlava di soldi".

Che tipo di ricerche faceva Rullo?

"Cercava parole come 'acido', 'acido forte', 'ascia', 'motosega', 'teli protettivi'. Per giunta riuscimmo a ricostruire che, più di una volta, Rullo aveva disdetto l'incontro con La Rosa perché non aveva a disposizione tutto il materiale per dare seguito al piano criminale".

Quando fece l'ultima ricerca?

"Alle 2.39 del 14 novembre. Cercò su internet 'come calcolare il volume di un corpo umano' perché l'intento iniziale di Rullo era quello di infilare il cadavere di Andrea all'interno di un bidone e riempirlo di acido sperando che si corrodesse al punto da essere irriconoscibile o si decomponesse del tutto".

Quando ha capito che nel piano per eliminare Andrea La Rosa era coinvolta anche la madre di Rullo?

"Avevamo già dei forti sospetti sin dall'inizio. I dubbi divennero certezza quando intercettammo una conversazione tra mamma e figlio. Nella telefonata Rullo disse alla madre che doveva restituire per suo conto un oggetto a Leroy Merlin. Al quel punto, predisponemmo il servizio di pedinamento sulla Biancaniello e scoprimmo che l'oggetto da restituire era una motosega. Riscontrammo che Rullo l'aveva comprata durante il periodo di ricerche sul web, quando aveva considerato l'ipotesi di depezzare il cadavere, soluzione a cui poi rinunciò. E infatti la restituì al negozio".

Come siete arrivati alla svolta?

"Avevamo piazzato delle ambientali nella macchina di Rullo. Dalle intercettazioni emerse il fatto che aveva preso i soldi da Andrea La Rosa la sera della scomparsa. Il dettaglio saltò fuori durante un'accesa discussione con la moglie Valentina e da lì capimmo quale poteva essere stato il movente del delitto".

Quale fu il passaggio successivo?

"Rullo e la madre andavano e venivano da un magazzino fuori città. Quindi chiedemmo alla stazione competente del territorio di fare un controllo in quel posto pensando di trovare l'auto di Andrea, ma non fu così".

E poi?

"Un giorno il gestore del magazzino telefonò alla signora Biancaniello per dirle che doveva liberare il locale da un ingombrante. A quel punto la donna chiamò il figlio e Raffaele le spiegò come caricare questo oggetto, un bidone, all'interno della vettura. Nel frattempo scoprimmo anche che Rullo aveva affittato un box dove all'interno poi trovammo 24 litri di acido".

A quel punto cosa avete fatto?

"Decidemmo di pedinare la signora Biancaniello. Dopo aver caricato il bidone all'interno dell'auto, e aver percorso qualche chilometro, fece una cosa che ci spiazzò".

Ovvero?

"Parcheggiò la macchina in doppia fila, col cadavere nel baule, e si fermò al bar per prendere un caffè. Pensammo che potevamo aver preso un granchio perché, chiaramente, era abbastanza anomalo quel comportamento per una persona che verosimilmente poteva avere un uomo morto in auto. Non potendo intervenire, altrimenti avremmo rischiato di mandare tutto all'aria, decidemmo di farla fermare da un'altra pattuglia facendo passare l'accertamento come un controllo di routine su strada".

Cosa disse Biancaniello quando la fermarono?

"Disse che in quel bidone c'erano dei residui di olio del marito defunto. I colleghi lo tirarono fuori dal baule e notarono che la parte superiore era stata tagliata e il coperchio sigillato col nastro americano grigio. Io ero al telefono con un collega, mi disse che sentiva 'un odoraccio'. Una volta in caserma aprimmo il bidone: all'interno c'era il cadavere di Andrea. Dunque chiedemmo a un'altra pattuglia di fermare immediatamente Raffaele Rullo e accompagnarlo in caserma".

Cosa raccontarono mamma e figlio?

"Biancaniello si accollò tutta la responsabilità del fatto mentre il figlio faceva il 'finto tonto'. Addirittura finse stupore e sbigottimento quando gli dicemmo di aver trovato il cadavere dell'amico 'scomparso' nell'auto della madre".

Come uccisero Andrea La Rosa?

"C'era un taglio sulla gola di Andrea che lasciava intendere un tentativo di depezzamento, ma la ferita non era mortale. Andrea La Rosa fu narcotizzato con le benzodiazepine e morì per soffocamento causato da due fattori, per inalazione dei fumi dell'acido e per la costrizione all'interno del bidone in cui era stato chiuso".

Dopo l'arresto, emerse anche che Rullo aveva tentato di uccidere la moglie. Come lo avete scoperto?

"Durante le indagini sulla scomparsa di La Rosa, intercettammo una conversazione tra Rullo e la moglie Valentina in cui emerse che lei aveva avuto una sorta di incidente. Un giorno, dopo l'arresto, decidemmo di sentirla a verbale. Le chiesi chiarimenti al riguardo e la donna, mostrandomi dei tagli sui polsi, disse di aver tentato il suicidio ma di non ricordare nulla".

E poi?

"Insospettiti, acquisimmo gli atti dell'intervento chirurgico a cui fu sottoposta il giorno del presunto suicidio e scoprimmo che su entrambi i polsi c'era una lesione del tendine pari al 90%. A rigor di logica, ci sembrò del tutto inverosimile che una persona, da sola, riuscisse a procurarsi delle ferite così profonde su entrambe le braccia. Da lì scoprimmo che, in realtà, c'era stato un tentativo di omicidio da parte di Rullo e sua madre nei confronti di Valentina".

Perché avevano inscenato il suicidio?

"Raffaele era un truffatore. Nell'estate precedente al delitto di La Rosa, aveva rivalutato la polizza vita alla moglie. La nuova assicurazione interveniva anche in caso di suicidio. Ed il motivo per cui Rullo, assieme alla madre, aveva inscenato il tentato suicidio della donna. Una mera questione di soldi".

Qual era il rapporto tra mamma e figlio?

"A parer mio, la madre era succube del figlio e ha fatto di tutto per difenderlo. Mentre Raffaele era uno che 'non si sporcava le mani'. Una persona arida e avida, a cui interessavano solo i soldi".

Rullo e la madre sono stati condannati all'ergastolo per l'omicidio di Andrea La Rosa. Lei testimoniò al processo. Cosa ricorda?

"Rullo tentò di arrampicarsi sugli specchi inventando scuse che non stavano né in cielo né in terra. Credo, anzi ne sono certo, che a lui abbia dato più fastidio essere colto in castagna, perché si reputava uno furbo e scaltro, che la condanna all'ergastolo".

Crede che potrà mai ravvedersi?

"A parer mio, no. Alla base c'è una profonda ignoranza dei sentimenti e del rispetto della vita umana. La psichiatria che lo periziò in carcere disse a chiare lettere che è un manipolatore. Non avrà mai un sussulto di coscienza".

Estratto dell’articolo di Luca Pernice per corriere.it il 3 aprile 2023.

È stato arrestato in Senegal l'uomo di 43 anni accusato dell'omicidio di Valentina Tarallo, la ragazza di 28 anni, originaria di Orta Nova, uccisa a sprangate l'11 aprile del 2016 a Ginevra. Le impronte dell'uomo, senegalese, erano state trovate sulla mazza utilizzata per uccidere la giovane. Cosi dopo sette anni di indagini e ricerche il presunto assassino è stato arrestato alla periferia di Dakar.

In questi anni gli investigatori si erano recati più volte nel Paese africano, ma l'uomo era riuscito sempre a scappare utilizzando diverse identità. Valentina Tarallo, originaria di Orta Nova, viveva a La Loggia, comune metropolitano di Torino e, dopo essersi laureata in Biotecnologie, si era trasferita a Ginevra dove lavorava come ricercatrice, nell’ospedale universitario dove studiava una cura per le malattie rare.

Qui aveva conosciuto il ragazzo senegalese con cui aveva iniziato una relazione. Dopo qualche tempo, come raccontarono anche alcuni amici della ragazza, l'uomo era diventato troppo geloso tanto che Valentina lo aveva lasciato. Il senegalese però avrebbe preso male l'allontanamento della giovane e così, la sera dell'omicidio, ha atteso Valentina Tarallo sotto la sua abitazione in Avenue de la Croisette, a poca distanza dall’ospedale dove lavorava, e l'ha aggredita con una spranga colpendola più volte. L'uomo è poi fuggito con un bus: fuga ripresa da alcune telecamere di sicurezza.

La giovane ricercatrice aveva 28 anni. Valentina uccisa a sprangate sotto casa, 7 anni dopo arrestato il fidanzato: era fuggito in Senegal. Elena Del Mastro su Il Riformista il 3 Aprile 2023

Ci sono voluti 7 anni per riuscire a individuare e arrestare l’uomo che l’11 aprile 2016 avrebbe impugnato una spranga e ucciso Valentina Tarallo, 28 anni, sotto casa sua a Ginevra. La giovane era una ricercatrice originaria di Orta Nova, in Puglia. Gli investigatori, 7 anni dopo, hanno fermato l’uomo con cui all’epoca aveva una relazione, accusato di aver commesso l’omicidio. Le impronte dell’uomo, senegalese, erano state trovate sulla mazza utilizzata per uccidere la giovane. È stato individuato nella periferia di Dakar. Negli anni l’uomo, ricercato, era sempre riuscito a sfuggire all’arresto cambiando identità.

A ricostruire la vicenda è il Corriere della Sera. Valentina, dalla Puglia si era trasferita a Torino per studiare Biotecnologie. Dopo la laurea si era trasferita a Ginevra dove lavorava come ricercatrice per le malattie rare. Aveva conosciuto proprio a Ginevra il ragazzo senegalese con cui aveva iniziato una relazione. Ma poi l’uomo era diventato sempre più geloso e possessivo. Un rapporto malato. Valentina aveva trovato però il coraggio di lasciarlo. Forse lui non aveva preso bene quella decisione e per questo motivo potrebbe aver deciso di aggredirla.

L’avrebbe aspettata quella sera dell’11 aprile di 7 anni fa sotto casa, la sera, di ritorno dal lavoro con una spranga in mano. Quando l’ha vista ha iniziato a colpirla più volte fino a lasciarla a terra. Poi è fuggito a bordo di un autobus lasciando perdere le sue tracce. Inutile anche il tentativo di un collega che poco dopo era intervenuto in suo soccorso. Valentina è morta per le ferite riportate. Il senegalese, 43 anni, negli anni della fuga avrebbe anche vissuto in Italia dove avrebbe sposato un’italiana. Anche lei lo aveva denunciato per maltrattamenti.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Il caso di Terry Broome.

Estratto dell'articolo di Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 12 aprile 2023.

Sono passati quasi quarant'anni, in fondo è cambiato poco, quasi nulla.

All'epoca per sballarsi c'era la cocaina; spariva nelle narici dei rampolli della città, pronti a sedurre a colpi di stupefacenti la preda di turno, oggi troneggia la ketamina e altre droghe dello stupro che incantano i freni inibitori, anestetizzano le difese psicologiche e cancellano la memoria della vittima.

 Nella Milano da bere e da sniffare ci si ritrovava nelle discoteche, uno dei templi era il Nephenta, eretto lì in piazza Diaz, tre minuti ed eri già ai piedi della Madoninna. Oggi vanno più di moda certe feste, i roof all'ultimo piano di certi alberghi cinque stelle e soprattutto le terrazze private. 

 (...)

Le notti eccessive Una tesi che ritroviamo anche in un altro caso clamoroso, sempre ambientato in questa lussuosa Milano drogata, di eccessi ed estremi, arricchimenti e aride compensazioni sociali. Questa volta non è un caso di abusi sessuali ma di omicidio, entrato nell'almanacco dei processi del secolo scorso.

 Come sempre tutti ricordano il nome del carnefice, ovvero quello di Terry Broome, trasformatasi in una notte da seducente fotomodella a gelida assassina. Pochi o nessuno, invece, ha memoria della vittima che si chiamava Francesco D'Alessio, rampollo della Milano Bene.

La storia si sviluppa lungo otto anni e si conclude il 12 febbraio del 1992 quando il tribunale di sorveglianza di Brescia indica la liberazione anticipata della donna. Broome rimpatria negli Stati Uniti, sparendo dai radar dell'attenzione mediatica e dell'opinione pubblica nel nostro paese. Fino a quel giorno e per anni i riflettori sono stati puntati solo su di lei. Sia durante le indagini, sia durante i processi, tra perizie e testimonianze, la concessione della semilibertà, e, ancora, le lezioni in una scuola privata di Bergamo per provare a porsi un nuovo orizzonte di vita. 

(...)

Il labirinto milanese Proprio per questo era sbarcata all'aeroporto di Milano, convinta che anche lei, bella, giovane e furba potesse a soli 26 anni, conquistare il mondo. In realtà più che sfilate, book fotografici, spot pubblicitari e cover di riviste patinate, Broome era caduta nella cocaina del labirinto meneghino. Tanta cocaina, un fiume di droga che la travolge e sconnette: è una discesa, girone dopo girone, negli abissi peggiori.

 Terry conosce Giorgio Rotti, un ambizioso gioielliere di trent'anni che la conquista. I due si piacciono, frequentano gli stessi ambienti, nasce un feeling e decidono di andare a vivere insieme. Ma la relazione non è certo di quelle tradizionali, tranquille da Mulino Bianco. Entrambi sono euforici della vita, entrambi affrontano ogni giorno nuovo con energie senza fine, entrambi attraggono l'attenzione degli altri. Soprattutto Terry per la sua bellezza e per quell'accento americano.

Di lei però si infatua anche Francesco D'Alessio, quarant'anni, un uomo che oggi, dopo essersi sposato e poi separato, vuole provare a riscrivere la propria vita. Riprovarci, a riaprire l'album dei sogni da riempire con le immagini più belle. Francesco ci crede e in questo, certo sarà aiutato da suo padre, l'avvocato Carlo, facoltoso imprenditore italiano, titolare di una delle scuderie più famose del Paese.

 Nel mondo dei cavalli Carlo è soprannominato "il re del galoppo", con la sua scuderia Cieffedi ha conquistato trofei, titoli e successo. Il figlio Francesco ama i locali alla moda, dal Nephenta ai club della città. Lì ritrova le fotomodelle che sfilano sulle passerelle della città ma incontra le belle ragazze anche nelle feste private come quella dannata sera di tarda primavera quando il suo destino si incrociò con quello di Terry Broome. Il party è organizzato dal blasonato finanziere e immobiliarista Claudio Cabassi: ricchi commercianti, qualche nobile, imprenditori di successo e, sempre e ovunque, bellissime ragazze.

Il sesso e i dettagli Quella notte d'Alessio conosce Terry, ci prova ma la fotomodella consuma un rapporto sessuale con il proprietario di casa. Un episodio che delude d'Alessio tanto che lo stesso quando rincontrerà qualche sera dopo la ragazza al Nephenta, lo confiderà al fidanzato Giorgio Rotti, sostenendo che l'americana era solita avere rapporti sessuali con più uomini nello stesso momento.

 Francesco si spinge nei dettagli e svela a Giorgio che la fidanzata avrebbe partecipato a un'orgia durante la festa di Cabassi. Rotti, ovviamente, non la prende bene, rinfaccia a Terry le confidenze ricevute, lei nega ma lui decide di lasciarla e chiede indietro l'anello di fidanzamento. I due litigano fino a quando Giorgio manda a quel paese la ragazza e se ne va a letto.

 È la notte del 25 giugno. Terry continua a bere, sniffa cocaina, gira per casa, curiosa, rovista nei cassetti fino a quando non trova una pistola, una Smith & Wesson calibro 38. È furibonda, delusa e sconvolta, una notte in bianco, i litigi, le urla, il progetto del matrimonio finito in frantumi. Sono le sei e mezza del mattino quando Terry telefona a Francesco, gli dice che vuole chiarire, che le voci che girano sono solo cattiverie.

Francesco è a casa, nel suo bell'appartamento del centralissimo quartiere Magenta, si sta divertendo con Laurie Marie Roiko, una ragazza di 21 anni. Accetta l'incontro e così Terry lo raggiunge. I due chiacchierano, ascoltano della musica. Riprendono a consumare cocaina e poi non si sa con certezza cosa accade perché l'assassina è l'unica testimone di quanto accade in camera. Lei sostiene di essersi sentita offesa da una brusca richiesta di un rapporto sessuale, aggravata dall'insinuazione di Francesco di chiamare altri uomini in modo che potesse divertirsi di più.

 La giovane Laurie Marie ricorderà in aula, a processo, di aver sentito uno sparo, seguito da un altro per poi vedere per un attimo Francesco che cercava di togliere l'arma dalle mani della fotomodella. Ma la testimone non potrà raccontare tutto perché si era nascosta, impaurita dagli altri spari.

La fuga Terry scappa, torna a casa, svela a Giorgio quanto ha appena fatto, fa le valigie e corre in aeroporto. Compra il biglietto per il volo per Zurigo ma viene fermata dagli agenti nello scalo svizzero e rimpatriata in Italia. Broome confessa. In carcere, i periti, gli psichiatri l'ascoltano, la donna racconta un episodio di violenza patito da adolescente, riporta i suoi rapporti con gli uomini e la droga. Gli specialisti concludono che Broome quando ha ucciso era incapace di capire quanto stesse accadendo per la sua soggezione alle sostanze stupefacenti. Insomma, il consiglio dei periti del giudice è quello di ritenere l'assassina parzialmente incapace di intendere e volere.

A sorpresa, l'ipotesi non viene accolta dalla Corte che condanna la fotomodella a 14 anni di carcere: siamo di fronte a un'intossicazione acuta di cocaina e non cronica, senza riflessi sull'imputabilità. Fa invece discutere la scelta di non considerare la premeditazione: seppur armata, l'americana non era andata da Francesco per ucciderlo ma semplicemente per essere ascoltata e chiarire che tutti la devono rispettare.

 Il colpo di scena arriverà nel 1987 in appello: si riconosce il vizio parziale con riduzione a 12 anni e sei mesi di reclusione. Papà Carlo chiede verità e giustizia, ritiene impossibile che suo figlio non sia riuscito a disarmare la ragazza, ipotizza che possano esserci state altre persone con lei, ma l'ipotesi non viene approfondita.

Il caso di Vittoria Nicolotti e Rosa Vercesi.

 Vittoria Nicolotti e Rosa Vercesi, due donne e un delitto passionale. Verità inaccettabile nel 1930. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera l’11 Aprile 2023

La mattina del 19 agosto una donna venne trovata nuda nel suo letto strangolata e vittima di un gioco erotico

Il delitto fu scoperto una mattina di agosto del 1930 in corso Matteotti - che, per ragioni storiche di cui è superfluo discorrere, conservava il suo nome precedente, vale a dire corso Oporto. A sua volta nominato così perché Carlo Alberto di Savoia là era spirato, nel 1849, da esule. La portinaia del palazzo, salita al quinto piano con un’abitante dello stabile, trovò stranamente socchiusa la porta di casa Nicolotti; la signorina, attesa dal datore di lavoro in mattinata, non si era fatta vedere. Giunte in camera da letto, trovarono il corpo della giovane Vittoria Nicolotti steso sul materasso. Era svestita; qualcuno le aveva gettato addosso una copertina. Era morta. Sul corpo, i segni di una lotta selvaggia: lividi, morsi, contusioni, graffi e aloni bluastri sul collo. La stanza era a soqquadro.

Vittoria Nicolotti

La vittima non era persona che conducesse una vita rischiosa: trentenne, inusualmente per i tempi ancora nubile, lavorava come modista in un negozio di biancheria e viveva per conto suo. Il padre era mancato tempo prima, la mamma si era trasferita sul Lago Maggiore e il fratello faceva il capostazione in Val di Susa. L’ipotesi del ladro scoperto in nottata dalla Nicolotti che, invece di darsela a gambe, si era azzuffato con lei fino ad ammazzarla per strozzamento, cozzava con il contesto e le testimonianze: l’assassino si era mosso con sicurezza, senza forzare porte e portoni. Il titolare delle indagini, il cavalier Ciminelli, portò in blocco amici e parenti di Vittoria in questura e, da più di una bocca, uscì un nome inatteso: Rosa.

Rosa Vercesi

Era Rosa Vercesi, una donna molto diversa dalla timida e ossuta vittima. In dialetto era il classico dunùn, una giovane signora ben piantata, forzuta nelle braccia e particolarmente disinvolta nel carattere. Di estrazione umile, posseduta dalla smania di scalare i pioli del benessere, si era inventata cento attività più o meno lecite. Aveva frequentato pure gente malfamata, tanto da costringere i suoi genitori ad allontanarla da casa; dopo aver provato a guadagnarsi da vivere come donna delle pulizie, lavapiatti e magazziniera, si era sistemata presso un agente di cambio, il signor Gilli. L’odore dei soldi l’aveva traviata, tanto da essere cacciata e denunciata per furto dal datore di lavoro; frattanto, si era trovata un impiego analogo e procacciava clienti e affari per il suo nuovo titolare ricevendo gente a un tavolino del Caffè Ligure.

I testimoni

Gli agenti si precipitarono a casa della Vercesi perché più di una persona giurava che l’ultima serata in vita, la Nicolotti l’avesse trascorsa con quella sua amica tanto chiacchierata. Chi l’aveva vista la sera del delitto, chi il mattino successivo in quello stesso isolato. La visita ebbe effetti deflagranti per la posizione di Rosa: ferita e malconcia, come reduce da una lotta, tentò goffamente di coprirsi, in piena estate, con una pelliccia. La versione della Vercesi, secondo cui era ruzzolata giù dalle scale cercando le chiavi di casa, non convinse nessuno e venne direttamente sbattuta alle Nuove, accusata di omicidio volontario. Al processo, pasticciò sull’alibi e pure su quelle ferite, divenute improvvisamente il doloroso ricordo di una gita di passione sul Po con un suo non meglio definito amante.

Il processo

Nel corso delle udienze, mentre il dramma di Torino si prendeva la scena sui giornali, Rosa Vercesi fece di tutto per farsi condannare. Sveniva continuamente («a comando», commentava sarcasticamente la pubblica accusa), annunciava o praticava scioperi della fame e della sete di brevissima durata; quando si sentiva in forze, era solita inveire dalla gabbia contro qualunque testimone la indicasse come probabile colpevole. Come la giornalaia, che rammentava di averle venduto una copia della Gazzetta del Popolo la mattina del ritrovamento del corpo; o l’amico, che sapeva dei valori custoditi dalla Nicolotti, in buona parte spariti dall’appartamento. E lei si fece ulteriormente del male, scrivendo una cartolina ai genitori – debitamente intercettata – in cui forniva istruzioni per far sparire gioielli dalla plafoniera di un lampadario nella sua casa di via Madama Cristina. Erano proprio quelli di proprietà della vittima. In un’altra missiva dal tono aggressivo, si rivolse alla procura torinese perché pretendeva la immediata consegna dei suoi guanti più eleganti, ritenuti necessari per proseguire in presenza la udienze.

Il cuore segreto del processo Vercesi, tuttavia, non fu l’accertamento della responsabilità: che l’autrice del delitto fosse effettivamente l’imputata, era solare. Semmai, tutte le parti del processo cincischiavano o, come si direbbe a Torino, bamblinavano sul movente. Ci giravano intorno e non ne parlavano. Per l’etica ipocrita e perbenista della Torino in mano ai fascisti, che due donne potessero coltivare un rapporto intimo era fatto tanto scandaloso da non poter essere ammesso da nessuno: neppure dall’accusata, né tantomeno utilizzato dal suo difensore per tenere la linea di un omicidio scaturito da un gioco erotico o, comunque, non aggravato dallo scopo di rapina, né premeditato. Circostanze che la donna avrebbe ammesso al suo avvocato solo dopo anni di prigionia, nell’imbastire una delle tante richieste di grazia respinte dal presidente della Repubblica.

La relazione

In verità, Rosa e Vittoria si amavano segretamente, e da anni. Non di rado, consumavano insieme stupefacenti che la vittima si procurava in viaggi oltreconfine, per poi abbandonarsi al desiderio. Quella notte, il gioco coi sensi alterati poteva essere degenerato. Ma era meglio un ergastolo, che quella verità. L’accusa chiese e ottenne il carcere a vita, contestandole un assassinio progettato per sottrarre gioielli. «Non sono stata io» non funzionò, come strategia difensiva. Condannata al fine pena mai nel 1932, Rosa Vercesi scontò quasi trent’anni. Quando riguadagnò la libertà, Torino era un altro mondo. Il Duce era morto, l’Italia liberata, c’erano la televisione, le automobili, gli elettrodomestici, la modernità. Di lei, un’anziana curvata da una vita trascorsa nelle galere di Trani per aver ucciso la compagna, ci si era dimenticati. Morì nell’81 e non se ne accorse nessuno.

Verona, duplice omicidio: trovati uccisi marito e moglie, arrestato il figlio. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2023

Si tratta di Giampaolo Turazza e Vilma Vezzaro. La polizia dopo aver interrogato a lungo il figlio della coppia di anziani lo ha arrestato

Un duplice omicidio è stato scoperto nel tardo pomeriggio di martedì 25 aprile nel quartiere Borgo Roma a Verona. Si tratta di una coppia di anziani, che avrebbero tra i 73 e i 75 anni: i nomi delle vittime sono Giampaolo Turazza e Vilma Vezzaro. Stando a quanto emerso della prime ore di indagini sarebbe stato arrestato il figlio, accusato del duplice delitto.

Il ritrovamento dei due corpi: il figlio sentito dalla polizia

I cadaveri di marito e moglie sono stati trovati all'interno dell'appartamento dove abitavano. Il delitto risalirebbe a lunedì 24 aprile, ma è stato scoperto solo il giorno dopo. La coppia ha un figlio 55enne che nel pomeriggio si sarebbe presentato alla Guardia di Finanza, che successivamente avrebbe avvisato la polizia: l'uomo dopo essere stato sentito lungamente dagli agenti sarebbe stato fermato. Sul posto sono intervenuti gli investigatori della Squadra mobile e i tecnici della Scientifica per una lunga serie di rilievi. 

Le indagini della polizia sul luogo del duplice omicidio

La polizia ha raccolto le prime testimonianze e, secondo quanto si è appreso, dai riscontri non emergono elementi per ipotizzare che uno dei due coniugi abbia commesso il delitto per poi compiere un gesto estremo. La Procura di Verona mantiene un riserbo strettissimo sulle indagini, che in questa prima fase sembrerebbero dunque concentrarsi sul figlio. 

Le testimonianze dei vicini di casa

Secondo quanto raccontato da alcuni testimoni la sera precedente al ritrovamento dei due corpi  ci sarebbe stata una discussione tra il figlio e i genitori: a quanto risulta il 55enne frequentava spesso l'appartamento dei genitori per prendersi cura di una gatto che viveva nel cortile del condominio. 

Duplice omicidio a Verona, il racconto di Osvaldo alla coinquilina: «Così ho ucciso mamma e papà». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023.

Verona, parla la donna che ospitava l'assassino dei genitori adottivi: «Con me era gentile ma ciò che ha fatto è orribile» 

Mi ha detto: «Stasera li ho uccisi. Ho ucciso mia mamma e mio papà”». Sara L. si accende l’ennesima sigaretta sul terrazzino di casa sospeso sopra il degrado di una strada del quartiere di Veronetta, alle porte della città. Ha 44 anni, un tatuaggio sul collo, il volto scavato, il corpo magrissimo. Trasmette un senso di totale fragilità, come fosse sul punto di rompersi. «Non so se ce la faccio a raccontare…». Per capire perché Giampaolo Turazza e sua moglie Wilma Vezzaro – due pensionati benestanti, lui ex barista, lei impiegata della camera di commercio - siano stati ammazzati, si può partire da questo appartamento spoglio che da circa un mese e mezzo era diventato l’alloggio di Osvaldo, 54 anni, che la coppia aveva adottato quand’era appena maggiorenne e lavorava come cameriere nella pizzeria che gestivano all’epoca. Wilma e Giampaolo lo adoravano e l’hanno cresciuto come fosse davvero quel figlio che non avevano mai avuto. Un figlio «difficile», con la vita segnata da problemi di droga e – di conseguenza – da quelli con la giustizia: guida sotto l’effetto di stupefacenti e, nel 2019 in Germania, pare fosse finito invischiato in un’inchiesta per traffico di sostanze. A stento riusciva a tenersi un impiego: qualche anno fa in un pastificio, poi come operaio. Ma era sempre a corto di soldi. Da quando Turazza aveva lasciato il condominio dei genitori, a poca distanza dal centro di Verona, ufficialmente risultava risiedere in via Vianello, la strada fittizia che viene assegnata ai senza fissa dimora. In realtà, era diventato il coinquilino di Sara. 

«Alle 5 del mattino mi ha fatto un racconto orribile»

«L’ho conosciuto qualche settimana fa in un bar – spiega la donna – e gli ho offerto di venire a vivere qui: ho pensato che potessimo darci una mano a vicenda... Dormiva sul divano, in cambio mi doveva dare un po’ di soldi, visto che adesso lavorava per un’impresa di pulizie». Dice che Osvaldo le è sempre sembrato un brav’uomo, nonostante i problemi. «Credo sniffasse cocaina, ma non so dove prendesse il denaro per comprarla. Ad ogni modo non è mai stato violento. Anzi, a suo modo, era pronto ad aiutare gli altri». Sara apre un vecchio armadio in salotto: ci sono i vestiti e gli oggetti personali di Turazza. «Che ne faccio, ora di tutta questa roba? In casa non la voglio...». Poi riprende a raccontare. «Lunedì sera è arrivato con un taglio sulla mano. Mi ha detto di esserselo procurato al lavoro, gli ho creduto e ho preso il disinfettante per medicargli la ferita. Pareva tranquillo, e sono andata a dormire». A quell’ora l’operaio aveva già ucciso entrambi i genitori e si era cambiato gli abiti. «Alle 5 del mattino ha cominciato a bussare alla porta della mia camera, forse si era “fatto” di qualcosa: “Sara, ho bisogno di parlarti”, mi ha detto». La coinquilina gli ha aperto ed è rimasta ad ascoltare la confessione di come quel figlio ha ammazzato mamma e papà. Un racconto a tratti assurdo, dove Turazza ha mescolato verità e bugie, quasi a voler nascondere all’amica il mostro in cui si è trasformato. «Mi ha spiegato che sua madre stava cucinando e, per scherzare, gli ha sventolato davanti un coltello da cucina. Ma nel farlo l’ha ferito alla mano, per errore». È per questo che avrebbe perso il controllo. Sara comincia a ripetere le parole usate dall’assassino, come a volerle allontanare da sé: «Ho preso il coltello da cucina e le ho tagliato la gola. Ma lei era ancora viva. A quel punto è arrivato papà, urlando, e io allora gli ho piantato il coltello e l’ho ucciso davanti agli occhi di mamma. E poi è morta anche lei».

«Voleva uccidersi ma l'ho convinto a costituirsi»

È andata così. O almeno questa è l’unica parte della confessione che risulta credibile. Sara, intanto, esce di nuovo sul terrazzino per prendere fiato. «Quando ha finito di dirmi quelle cose, ero sconvolta. Ho preso la bottiglia e mi sono ubriacata per stordirmi. Avrei voluto cancellare tutto. Mi sono risvegliata nel pomeriggio e Osvaldo era ancora in casa. Ho pensato avesse fame e ho preso un ananas ma lui ha afferrato il coltello e se l’è puntato al petto per suicidarsi. Ci ho messo un po’ a convincerlo a non farlo. Gli ho detto che invece doveva consegnarsi e lui mi ha risposto che ci stava già pensando». Sono usciti insieme. «Siamo arrivati alla caserma della guardia di finanza, qui vicino, e ci abbiamo girato intorno tre volte senza che nessuno ci chiedesse cosa ci stessimo a fare, lì davanti. Poi lui si è deciso, ha preso il telefonino e ha composto il numero per emergenze». È finita così: pochi minuti dopo, Turazza si è fatto arrestare. E ora Sara infila la testa tra le mani. «Mi spiace per lui, ma quello che ha fatto resta una cosa orribile». 

Chi è Osvaldo Turazza, l'uomo che ha confessato il duplice omicidio dei genitori a Verona. Francesco Sergio su Il Corriere della Sera il 26 Aprile 2023.

Con impieghi saltuari e appartemente senza casa pressava madre e padre con richieste di denaro dettate dalla tossicodipendenza. Un vicino: «Mai sentito litigi ma aveva problemi». Un'altra voce: «Era sempre gentile»  

Da una parte l'uomo gentile, sempre disponibile, che accompagna le signore anziane in ascensore. Dall'altra, la dipendenza dalla droga, con le continue richieste di soldi agli anziani genitori e i precedenti penali legati proprio allo stupefacente, oltre che a reati contro la persona. È un ritratto a tinte contrastanti quello del veronese Osvaldo Turazza, il 54enne costituitosi martedì 25 aprile alla guardia di finanza, confessando il duplice omicidio dei genitori: Giampaolo Turazza, 75 anni, e Wilma Vezzaro, 73, uccisi a coltellate la sera prima nel loro appartamento al secondo piano di una palazzani di via Aquileia, quartiere Borgo Roma. 

Bianco e nero

«Veniva sempre a chiedere soldi ai genitori. Doveva un'importante somma anche a me», dice con gli occhi lucidi Rosa, vicina dei coniugi Turazza, confermando come il figlio della coppia scomparsa fosse una persona problematica. Dall'altra parte, una delle inquiline del terzo piano sottolinea invece come fosse «gentilissimo: mi accompagnava sempre in ascensore quando ci incontravamo di sotto e mi vedeva in difficoltà col bastone. A me non ha mai chiesto soldi». 

Il «triste» movente

Si nascondereebbe proprio dietro le frequenti richieste di denaro dettate dalla tossicodipendenza di Osvaldo Turazza il movente del delitto. Turazza aveva lavori saltuari e risulta senza fissa dimora. Da tempo non viveva più con i genitori ma, come confermato dagli investigatori, manteneva «con loro rapporti per soddisfare le esigenze quotidiane». Dopo aver uccio madre e padre, Osvaldo avrebbe vagato per la città per una notte e un'altra mezza giornata, prima di chiamare, verso le 17 di martedì, la guardia di finanza e confessare il doppio delitto. 

Visto dai vicini

Sullo stesso pianerottolo dei Turazza, al secondo piano del palazzo, vive il ghanese August Biney Sam. «Ogni tanto lo vedevo arrivare in bici. Sempre da solo, al massimo con un'amica, ma mai con altra gente. Nell'ultimo periodo l'avrò visto quattro o cinque volte... Una volta era seduto con la ragazza sulla panchina dove la signora Wilma dava da mangiare ai gatti . Un uomo che mi è parso sempre tranquillo», dice. Ancora: «Non ho mai visto o sentito litigi con i genitori ma penso avesse delle difficoltà. La signora Wilma qualche volta mi aveva chiesto di aiutarlo a trovare lavoro e di pregare per suo figlio. Poi, nell'ultimo periodo, mi aveva detto che aveva trovato occupazione per tre mesi come magazziniere». Altra voce: «Lo ricordo come un uomo gentilissimo; stava un po' qua, un po' con la fidanzata – racconta un'altra inquilina della palazzina, che si chiede, preoccupata, che fine faranno i gatti della signora Wilma, ora che i padroni non ci sono più. Un'altra vicina aggiunge: «I Turazza erano due bravissime persone. Il figlio era sempre qua. Non abitava più qui, ma era sempre dai genitori». 

Il quartiere e il rosario

I condomini, qui, sono ancora sotto choc: tutti conoscevano Giampaolo e Wilma e volevano bene alla coppia, tanto da chiamare nelle scorse ora la parrocchia di Gesù Divino Lavoratore chiedendo a don Andrea Ronconi di poter celebrare, oggi e domani, un rosario per i coniugi. «Inizialmente volevano riunirsi in preghiera sotto il palazzo – spiega il sacerdote  – ma c'è il problema del cantiere edile e, quindi, verranno qui in parrocchia. Non conoscevo Giampaolo e Wilma personalmente ma sono volti che avevo incrociato. Quello di Osvaldo, invece, non lo ricordo. C'è sgomento e tristezza nel quartiere per quanto accaduto».

Indaga la Procura. Precipita dal quarto piano, giallo sulla morte di una 22enne romana a Bosa: a casa con lei l’ex fidanzato. Redazione su Il Riformista il 24 Aprile 2023 

È morta nel pomeriggio di lunedì la ragazza romana di 22 anni, Giada Calanchini, che nella notte di domenica è caduta dal quarto piano di una palazzina nel centro di Bosa, comune di 7mila abitanti sulla costa Nord occidentale della Sardegna, in provincia di Oristano.

La giovane, sottoposta a un intervento d’urgenza all’ospedale San Francesco di Nuoro, non ce l’ha fatta ed è stata dichiarata morta dai medici.

Secondo quanto ricostruito dai carabinieri, delegati alle indagini da parte della Procura di Oristano col fascicolo aperto dal sostituto procuratore Marco De Crescenzo, la tragedia sarebbe avvenuta intorno all’1:30 di domenica.

La ragazza aveva trascorso una serata assieme ad alcuni amici e all’ex fidanzato, un 25enne del posto, al Bosa Beer fest. L’allarme è stato dato da alcuni passanti che hanno visto il corpo della ragazza a terra e hanno chiamato il 118. Le condizioni della giovane sono apparse subito gravissime e dopo averle prestato le prime cure, il personale del 118 l’hanno trasportata all’ospedale di Nuoro.

Al momento dell’incidente la 22enne romana e l’ex fidanzato erano assieme in casa: il giovane è stato già sentito dai carabinieri, ma sul contenuto della sua versione dei fatti per il momento c’è stretto riserbo da parte degli investigatori. La Procura della Repubblica di Oristano ha anche posto sotto sequestro l’appartamento, per consentire minuziosi accertamenti

L’Agi riferisce che Calanchini era stata impegnata sino a poco tempo fa come cameriera in un locale e di recente aveva trovato lavoro in un market della cittadina della Planargia. La sua famiglia aveva acquistato a Bosa un appartamento e lei aveva deciso di trasferirsi negli anni scorsi.

L’Ansa invece, stando a proprie fonti, sottolinea che la pista più battuta attualmente è quella del suicidio: l’ipotesi più accreditata dagli investigatori, secondo l’agenzia stampa, è che i due abbiano litigato o non siano riusciti a ricomporre la loro relazione. 

Estratto da open.online il 25 aprile 2023. Giada Calanchini, 22 anni di Roma, è morta cadendo da un terrazzo a Bosa in provincia di Oristano. È precipitata dal terrazzo al terzo piano di un edificio in via Ginnasio nel centro storico sulla costa nord occidentale della Sardegna, dopo una serata trascorsa in compagnia di amici e dell’ex fidanzato Nicola T., il padrone di casa. Giada Calanchini è deceduta dopo 12 ore di agonia all’ospedale San Francesco di Nuoro e un tentativo disperato dei medici di salvarle la vita con un intervento chirurgico eseguito dalle équipe di Neurochirurgia e Chirurgia generale. Il tutto è accaduto verso l’1.30 della notte tra domenica e lunedì, in una Bosa vestita a festa per la rassegna “Bosa Beer fest” che ogni anno riempie le stradine del borgo turistico sul fiume Temo. 

La dinamica

Il corpo della 22enne è stato notato a terra da alcuni passanti che hanno subito chiamato il 118, poco prima che sopraggiungesse il suo ex. La procura di Oristano, con il sostituto Marco De Crescenzo, ha aperto un fascicolo. Le indagini sono affidate ai carabinieri della stazione di Bosa e della compagnia di Macomer, al comando del tenente colonnello Giuseppe Castrucci. 

L’abitazione del 25enne dove è avvenuta la tragedia è stata posta sotto sequestro.  

(...)

Il corpo

Nonostante la corsa disperata al San Francesco di Nuoro e un intervento chirurgico durato diverse ore, la ragazza è morta alle 14 all’uscita dalla sala operatoria. Troppo gravi le ferite riportate dopo un volo di una decina di metri. La ragazza ha subito un trauma cranico, un trauma toracico e addominale, oltre che diverse fratture agli arti. La giovane, originaria di Roma, era stata impegnata sino a poco tempo fa come cameriera in un locale. Di recente aveva trovato lavoro in un market della cittadina della Planargia. La sua famiglia aveva acquistato a Bosa un appartamento e lei aveva deciso di trasferirsi negli anni scorsi. L’abitazione del fidanzato è stata posta sotto sequestro. Ora si cercano i messaggi tra gli ex fidanzati di questi ultimi giorni e gli eventuali contatti telefonici. 

Il fidanzato Nicola T.

Il fidanzato Nicola T., 25 anni, ha detto agli inquirenti che la ragazza si è uccisa. Lui sembra essere l’unico testimone diretto dei fatti. Ieri è stato ascoltato a lungo dagli investigatori. Ha sostenuto di aver cercato di persuadere fino all’ultimo Giada Calanchini dal togliersi la vita. Il padre della 22enne romana ha detto al Messaggero che «forse lei voleva impressionare quel ragazzo» con cui la relazione era finita.

(...) "La loro era stata una storia difficile, complicata. Giada ci teneva tanto. Aveva provato a ricostruirla nell’ultimo anno. Lo so, io ero il confidente di mia figlia. So quanto lo amasse. È stato un gesto plateale da parte di mia figlia che, forse, non voleva spingersi davvero a tanto. Penso che la situazione le sia sfuggita di mano». 

Nella storia, secondo il genitore, «c’erano difficoltà, ma lei ci credeva tanto. Forse non è stata in grado di accettare che non andava e forse si è spinta a tanto per fare impressione su di lui».

Estratto dell'articolo di Rinaldo Frignani per roma.corriere.it il 26 aprile 2023.

Istigazione al suicidio. È il reato per il quale Nicola Tanda, operaio di 25 anni residente a Bosa, in provincia di Oristano, è indagato per la morte dell'ex fidanzata romana Giada Calanchini, di 22, precipitata domenica notte dalla sua abitazione nel centro della cittadina sarda e morta dopo 12 ore all'ospedale San Francesco di Nuoro. La decisione è stata presa dalla procura di Oristano «come atto dovuto» per poter eseguire una serie di accertamenti nel suo appartamento, sequestrato dai carabinieri. 

(…) 

Il padre di Giada: «Era una ragazza felice»

Per i carabinieri della compagnia di Macomer, così come per la procura, quello di Giada, commessa in un supermercato a Bosa dopo essersi trasferita tre anni fa da Roma in Sardegna, è comunque un gesto non autoconservativo, e quindi volontario. Dello stesso avviso Massimiliano Calanchini, padre della giovane, che si è recato in Sardegna e che proprio al Corriere ha detto mercoledì: «I funerali di mia figlia saranno celebrati qui a Bosa dove aveva tanti amici. Era una ragazza felice, l'unico problema era stata la sua relazione con questo ragazzo. Non era andata bene, lei voleva tornare con lui. Ma Nicola non ha fatto niente, non è colpa sua. Semmai è di noi genitori che non abbiamo insegnato abbastanza a nostra figlia di non commettere gesti impulsivi e plateali». 

La serata di Nicola e Giada

Nel corso del sopralluogo nell'appartamento i carabinieri verificheranno anche altri aspetti della vicenda. Lì Nicola e Giada si erano incontrati di nuovo dopo aver partecipato con altri amici nel corso della serata di domenica al Bosa Beer Fest nel centro della cittadina. Il 25enne, incensurato,  aveva organizzato una cena alla quale ha preso parte anche l'ex. Si erano lasciati da un anno ed entrambi avevano altre frequentazioni, ma Giada voleva tornare insieme con Nicola, e glielo avrebbe detto ancora una volta proprio domenica notte. La discussione fra i due è proseguita per alcuni minuti, fino a quando la 22enne si è affacciata dal terrazzo con porticato ed è caduta di sotto.

Giada Calanchini morta dopo la caduta dal terrazzo: l'autopsia conferma il suicidio. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023.

Il legale dell'ex fidanzato Nicola Tanda: «Piange da quattro giorni». Sabato i funerali a Bosa

Le ferite sul corpo di Giada Calanchini, la 22enne romana morta a Bosa nella notte tra domenica e lunedì in seguito alla caduta dal terzo piano della casa dell'ex fidanzato sono compatibili con il suicidio. È quanto si evince dall'autopsia eseguita oggi dal medico legale Roberto Demontis all'ospedale San Martino di Oristano. 

Giada e la caduta compatibile con il suicidio

Per il medico, che si è riservato di fare un sopralluogo sabato mattina nella palazzina di via Del Ginnasio dove è avvenuta la tragedia, la caduta della ragazza è coerente con le dichiarazioni rese dall'ex fidanzato, il 25enne bosano Nicola Tanda. È caduta dal parapetto in maniera verticale, dopo che la cintura alla quale si era aggrappato il ragazzo per trattenerla si è rotta. Un volo verticale che escluderebbe quindi la spinta. Tanda è indagato dalla Procura di Oristano per istigazione al suicidio, ma si tratta di un atto formale per permettere gli accertamenti sull'immobile sequestrato e sui telefonini. 

A Bosa il funerale della 22enne

Oggi, giovedì 27 aprile, il giovane, assistito dagli avvocati Vittorio Delogu e Annalisa Soggiu, ha consegnato spontaneamente alla Procura il suo cellulare. «Nicola è assolutamente collaborativo così come lo sono i genitori di Giada, vicini al ragazzo che piange ininterrottamente da quattro giorni - ha detto l'avvocato Delogu -. Né noi né la famiglia di Giada abbiamo nominato consulenti di parte per l'autopsia, siamo tutti assolutamente convinti che si sia trattato di una disgrazia. Una tragedia che ha investito sia Giada, una ragazza innamorata di Bosa e di Nicola tanto da non riuscire a concepire la sua vita senza quell'amore durato anni». Il funerale della ragazza, proprio per rispettare il suo amore per la cittadina in cui era andata a vivere, si terrà a Bosa probabilmente sabato pomeriggio.

Cinzia Santulli: storia della fisioterapista di Aversa uccisa con 41 coltellate. Il processo sul delitto del Casertano nel 1990 fu uno dei più controversi della storia italiana. Ecco perché Ludovico Santagata fu assolto a Napoli dall'omicidio ma condannato nel civile a versare una cifra simbolica. Ignazio Riccio il 4 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’omicidio

 L’indagine

 Le ultime ore di vita

 L’alibi (smentito) di Santagata

 Il rinvio a giudizio e la prima assoluzione

 Il quadro psicologico dell’imputato e la seconda assoluzione

 Il cortocircuito giudiziario

 La condanna in sede civile e il risarcimento di una lira

Quando i carabinieri entrarono nell’appartamento di via Leonardo da Vinci ad Aversa, uno dei centri economici più importanti della provincia di Caserta, e si trovarono davanti agli occhi il cadavere di Cinzia Santulli, 30 anni, non immaginavano che le loro indagini avrebbero dato il via a uno dei processi più controversi e contestati della giustizia italiana. Un caso senza precedenti che ancora oggi fa discutere. Sono trascorsi decenni dal giorno dell’omicidio di Cinzia Santulli, ma il ricordo dell'ingiustizia è ancora vivo nella mente dei familiari e degli abitanti del luogo. La 30enne fu barbaramente assassinata con quarantuno coltellate nella sua abitazione il pomeriggio del 24 novembre 1990, anche se il cadavere fu scoperto dalla madre solo la mattina successiva. Per quell’efferato delitto nessuno ha pagato, anche se in realtà un killer, condannato solo in sede civile, dopo anni di dibattimenti nei tribunali è stato individuato. Si tratta di Ludovico Santagata, allora 26enne, il quale non ha scontato neppure un giorno di carcere per effetto di una singolare e complessa vicenda giudiziaria. L’unico indiziato dell’omicidio di Cinzia Santulli è stato assolto per insufficienza di prove in sede penale, ma condannato in sede civile al pagamento di un risarcimento dal valore di una lira.

L’omicidio

Cinzia Santulli fu trovata morta dalla madre la mattina del 25 novembre 1990. La donna, non avendo notizie della figlia dal giorno prima, decise di recarsi a casa sua. Avendo le chiavi dell’appartamento al centro di Aversa aprì la porta d’ingresso e provò a chiamarla. Non ricevendo risposta si precipitò di scatto in camera da letto.

È come se avesse avuto un’intuizione. Quando oltrepassò la porta infatti trovò il corpo senza vita di Cinzia a pancia in giù e in una pozza di sangue”. Raffaele Santulli è uno dei fratelli della vittima ed è un avvocato. È lui che ha seguito, fin dall’inizio, l’iter processuale dimostrando una tenacia e una forza di volontà fuori dal comune nel tentativo di scoprire la verità.

Il legale ha accettato di raccontare la storia di sua sorella, aiutandoci a mettere insieme i tanti tasselli della delicata vicenda. “A Cinzia furono inferte ben quarantuno coltellate – dice Santulli a Il Giornale.it – un delitto atroce e inumano che portò gli inquirenti a pensare subito a un assassino con problemi psichici”. A finire sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori fu Ludovico Santagata, che aveva avuto una breve relazione sentimentale con la donna. La conosceva bene e in quell’appartamento c’era stato già tante altre volte.

L’indagine

I carabinieri del nucleo operativo e radiomobile di Aversa trovarono il cadavere di Cinzia Santulli che giaceva bocconi sul pavimento. La donna indossava i jeans, una maglietta e aveva ancora le pantofole ai piedi. Il corpo, su cui non ci sarebbe stata violenza sessuale, presentava numerose ferite da taglio e le tracce di sangue, oltre che in camera da letto, furono rilevate in più zone dell’appartamento. La porta d’ingresso della casa però non era stata forzata e le stanze erano in perfetto ordine. Ciò fece pensare agli inquirenti che Santulli conoscesse l’assassino. Molto probabilmente fu lei stessa ad aprire la porta al suo carnefice, inconsapevole di cosa sarebbe accaduto di lì a poco.

Le ultime ore di vita

Il pubblico ministero incaricato di seguire la vicenda, il sostituto procuratore Francesco Jacone, si preoccupò di ricostruire le ultime ore di vita della donna. Il 24 novembre Cinzia aveva pranzato a casa della madre e verso le 15 era ritornata nell’appartamento di via Leonardo da Vinci dove abitava da sola. Poco dopo aveva telefonato a un’amica per concordare un’uscita insieme. Si sarebbero dovute incontrare alle 17 per recarsi a Caserta.

L’idea era di fare shopping con altri amici, ma Cinzia a quell’appuntamento non è mai arrivata. Ciò non destò sospetti perché spesso capitava che non si presentasse agli incontri senza dare spiegazioni. Il suo lavoro di fisioterapista nella palestra gestita insieme all’altro fratello, Paolo, un ex parlamentare di Forza Italia, la prendeva molto e a volte capitavano urgenze da sbrigare. La vita privata di Cinzia Santulli non aveva segreti. Uscita da un lungo fidanzamento di undici anni, alla fine del 1989 ebbe una breve relazione con Ludovico Santagata, separato con un figlio.

L’alibi (smentito) di Santagata

L’uomo fu ascoltato dai giudici nelle fasi iniziali dell’indagine, fornendo un alibi che non convinse mai del tutto gli inquirenti. “Santagata dichiarò di aver trascorso il pomeriggio a casa – racconta l’avvocato Santulli – e che dopo pranzo, verso le 17.30, era sceso per telefonare ai cugini di Arco Felice, poiché aveva intenzione di andare a far loro visita”. Poi disse di aver trascorso tutto il tempo, fino a sera tarda, con i familiari, i quali confermarono l’alibi. “Peccato che due testimoni – continua il fratello della vittima – affermarono di aver visto Santagata nelle vicinanze dell’abitazione di Cinzia in orari compatibili con il momento in cui la donna fu assassinata”.

Il rinvio a giudizio e la prima assoluzione

Raccolti tutti gli elementi a disposizione, il pubblico ministero decise di rinviare a giudizio Santagata, con l’accusa di omicidio premeditato di Cinzia Santulli e porto illegittimo di arma da taglio. Al termine del processo di primo grado, che si concluse il 26 febbraio del 1994, l’imputato fu assolto. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere richiamò l’articolo 530, secondo comma, del codice di procedura penale, ovvero la vecchia insufficienza di prove.

Il quadro psicologico dell’imputato e la seconda assoluzione

Nel corso del processo però emerse in maniera chiara che Santagata avrebbe sofferto di disturbi psicologici. Furono gli stessi giudici a tratteggiare un profilo ambiguo dell’imputato, definito “anaffettivo, abulico e bizzarro”. Eppure la Corte di Assise di Napoli, il 23 dicembre 1997, confermò l’assoluzione di primo grado. “Eravamo fiduciosi che nel corso del procedimento d’appello – evidenzia Raffaele Santulli – si sarebbero approfonditi altri aspetti in precedenza sottovalutati, ma così non fu”. Tra questi anche la testimonianza in tribunale dell’ex moglie di Santagata che aveva confermato il comportamento strano dell’uomo, il quale, in passato, era arrivato anche a picchiarla. Tutto questo non servì a ribaltare il giudizio dei magistrati.

Il cortocircuito giudiziario

A quel punto l’avvocato Santulli e i fratelli chiesero al pg di ricorrere in Cassazione, ricevendo una doccia gelata inaspettata. “Produssi dodici pagine di motivazioni – ricorda il fratello della vittima – per illustrare quelli che per noi erano gli errori commessi fino a quel momento in sede processuale. Il procuratore generale Antonino Demarco, il 6 maggio 1998, scrivendo una semplice paginetta, rigettò inspiegabilmente il nostro ricorso”.

Fu quella la pietra tombale sul processo penale. Grazie alla decisione assunta dal procuratore non era più possibile perseguire penalmente Santagata. Il probabile assassino non avrebbe mai scontato neppure un giorno di carcere. “E così è stato – osserva con amarezza l’avvocato Santulli – dato che poi l’imputato è stato condannato in sede civile”.

La condanna in sede civile e il risarcimento di una lira

Ludovico Santagata fu incriminato sulla base di un alibi che non ha convinto gli inquirenti e fu assolto sia in primo grado (in base al secondo comma dell'art. 530, la vecchia insufficienza di prove), sia dalla Corte di Assise di Appello di Napoli. Quest'ultima sentenza è passata in giudicato in quanto il pg si rifiutò di presentare ricorso in Cassazione come richiesto dalla famiglia Santulli. Il fratello della vittima non si arrese, il suo obiettivo era dimostrare che quella sentenza non era giusta. Per fare ciò, l’unica strada sarebbe stata ricorrere in Cassazione, solo ai fini civili, chiedendo in maniera simbolica il risarcimento di una lira. “La vita di mia sorella non aveva prezzo – spiega il legale – la somma irrisoria era necessaria per far partire il procedimento”.

L’intuizione provocò il colpo di scena: la Cassazione cancellò la sentenza di proscioglimento ai soli effetti civili, rimettendo la causa al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per un nuovo giudizio. Un riconoscimento implicito che gli elementi di colpevolezza di Santagata erano più che fondati.

La sentenza del tribunale civile, emessa l’8 maggio 2002, entrò nel merito della vicenda, riconoscendo anche una superficialità di giudizio nei confronti dei magistrati che avevano precedentemente assolto Santagata, il quale venne dichiarato colpevole dell’omicidio di Cinzia Santulli e condannato a versare alla famiglia della vittima il risarcimento di una lira, anzi di un centesimo di euro, visto che intanto si era passati alla nuova moneta.

L’avvocato fece affiggere in città un manifesto in cui richiamava, a caratteri cubitali, la sentenza. Santagata produsse anche ricorso, ma la sua richiesta fu rigettata. Una vittoria a metà, ma pur sempre una vittoria quella incassata dalla coriacea famiglia Santulli, tanto che l’avvocato Raffaele avrebbe poi detto nella trasmissione televisiva della Rai Chi l’ha visto?: “È poco, ma comunque è qualcosa”.

Marzia Capezzuti, Anna Vacchiano a Chi l’ha Visto: «Siamo tutti orchi cattivi». Segnalò le violenze sulla ragazza uccisa. Gennaro Scala su Il Corriere della Sera il 26 Aprile 2023

Il padre della 29enne torturata e uccisa: «La ragazza ha avuto il coraggio di parlare, ma avrebbe potuto farlo prima» 

«Siamo tutti orchi cattivi, non solo mia mamma, tutti. Perché questa ragazza si poteva salvare». Sono le parole di Anna, 22 anni, ai microfoni di Chi l’ha Visto?, intervista precedente agli arresti e andata in onda solo ora. È la figlia di Barbara Vacchiano e la sorella del minorenne arrestato per l’omicidio della 29enne Marzia Capezzuti, il cui cadavere fu trovato in un casolare abbandonato nella zona di Pontecagnano-Faiano. 

Di Marzia, Anna ha un ricordo tenero: «La mattina mi portava il caffè. Lei mi diceva che mi vedeva come la sorella più piccola. Se ti vedeva che stavi male ti veniva vicino. Era una ragazza che non meritava questo. Io ci ho vissuto insieme e chiedo scusa da parte di mia mamma… ma le scuse non la riporteranno indietro. Si deve pagare ora per gli abusi, per i maltrattamenti e per l’omicidio. Io non sono per la legge, la mia famiglia è pregiudicata. Sono per la giustizia e questa ragazza se la merita».

Anche Anna è indagata per maltrattamenti, anche se dalla sua segnalazione è iniziata l’indagine che ha portato all’emissione del provvedimento cautelare nei confronti della donna 46enne, del compagno 37enne Damiano Noschese e di un loro figlio 15enne.

«Io non l’ho toccata neanche con un dito – afferma, poi risponde alle decine di messaggi aggressivi sui social, dove viene chiamata anche assassina –. Non sanno come sono andate le cose». Poi specifica che i maltrattamenti sono iniziati l’ultimo anno: «L’ultima volta che l’ho vista era febbraio o marzo. Io, era un anno che non vivevo più in quella casa». Quando le viene chiesto: «Hai visto le foto, qualcuno l’ha picchiata?», Anna non risponde, guarda in alto. Poi prende fiato: «Una volta volevo portarla in ospedale. Era gennaio o febbraio. Marzia prima ha detto di sì. Poi di no. Io penso che la ragazza abbia subito le violenze e i maltrattamenti. Io non vivevo più lì da un anno e ci andavo ogni tanto. E ogni volta che ci andavo, in quella casa, Marzia non c’era». Sono parole difficili da pronunciare, per giunta mettendoci la faccia. 

«Posso prendere le distanze da mia madre, non dai miei fratelli. Non posso andare contro la mia famiglia – aggiunge Anna -. Quella ragazza io volevo salvarla e non ci sono riuscita. Una volta ho visto un episodio brutto… Ho visto Marzia ingerire un mozzicone di sigaretta». E chi è stato? «L’orco cattivo».  

I genitori Ciro e Laura – assistiti dall’avvocato Nicodemo Gentile - presenti in trasmissione, hanno ascoltato l’intervista. Ciro Capezzuti ha affermato: «Da padre, da genitore, da essere umano, dico che in parte mi dispiace per questa ragazza che comunque è indagata, ma sotto il profilo umano capisco che era a sua volta vittima della madre. Alla ragazza dico, se è veramente dispiaciuta, che ora prenda le distanze. E avrebbe potuto farlo prima».

È stata una videochiamata a svelare tutto. Una videochiamata fatta dal fratello ad Anna in cui il ragazzo – di appena 15 anni – afferma: «È finita, l’amm affugat» (l'abbiamo soffocata, ndr). Poi la ragazza dice: «Tu? L’hai uccisa tu? Io speravo che non avessi fatto niente, tu sei piccolino». E il fratello incalza: «Non devi dire niente».

Era come una schiava, Marzia. Picchiata, torturata. Marchiata a fuoco come un animale di proprietà. Dietro la schiena aveva due lettere, V e B, le iniziali di Barbara Vacchiano. Anna, la figlia di Barbara, aveva chiesto aiuto. Di lei il giudice Alfonso Scermino riferisce che è l’unica che avrebbe mantenuto la sua umanità. 

Tua madre sa che sei stata tu a parlare? «Non se lo aspetterebbe mai e quando lo saprà mi odierà. Io non sono orgogliosa di lei, io ero succube di mia madre come i miei fratelli» riferisce Anna. «Io cosa posso dire al padre e alla madre di Marzia? - aggiunge -. Solo scusa. Posso dire a loro di fare a me quello che mia madre ha fatto a Marzia? Più di dire: pago io le colpe di mia madre, non posso fare. Ma sappiano che non è stata sempre sola, che accanto a lei ha avuto anche qualcuno che le voleva bene. Meglio essere morta che stare in quella casa». 

Il padre di Marzia, Ciro, è scettico: «Io sono una persona di fede, peccatore come tutti i cristiani, e so riconoscere quando uno dice la verità. Io prendo le distanze da questa ragazza e gli attribuisco, se non le stesse responsabilità… io non le credo». 

C’è da dire che è Anna ad aver aperto uno squarcio nel muro di omertà che si viveva in quella casa dell’orrore, denunciando la madre e raccontando tutto prima al centro antiviolenza e poi alla Procura di Salerno. Le sue segnalazioni, fatte prima con telefonate anonime, erano state dapprima sottovalutate. Anna invitava ad andare a perquisire quella casa, a vedere lo sgabuzzino in cui veniva tenuta la ragazza.

Nicodemo Gentile, avvocato della famiglia di Marzia Capezzuti, ha affermato: «Prima che Marzia sparisse pare che girassero già delle immagini sulla condizione della ragazza. Spero che su questo si faccia chiarezza. In quello sgabuzzino qualcuno ci doveva andare, perché di Marzia parlava tutto il paese – poi aggiunge -. In pochi casi c’è una carrellata così grave di reati. Il giudice parla di abominio e usa una locuzione terribile: soluzione finale». 

Marzia Capezzuti, il racconto dell'orrore. I testimoni: «Capelli strappati e denti spezzati, dormiva nell'urina». Titti Beneduce su Il Corriere della Sera il 26 Aprile 2023

Stasera di nuovo a «Chi l'ha visto?» i genitori della giovane disabile torturata e uccisa a Pontecagnano, nel Salernitano. Nell'ordinanza notificata ai suoi aguzzini la ricostruzione delle torture. 

Otto marzo 1993, otto marzo 2022: è morta nel giorno del suo 29esimo compleanno Marzia Capezzuti, la ragazza disabile assassinata in un casolare di Pontecagnano Faiano, in provincia di Salerno, dopo essere stata sottoposta a ogni genere di torture. Di tutto questo sono accusate tre persone, arrestate dai carabinieri nelle scorse settimane dopo circa un anno di indagini: sono Barbara Vacchiano, di 46 anni, il compagno, Damiano Noschese, di 37, e un loro figlio appena quindicenne. Il caso era stato a lungo seguito dalla trasmissione di Rai 3 «Chi l'ha visto», che torna a occuparsene nella puntata di stasera, 26 aprile. Le inviate di un'altra trasmissione Rai, «La vita di diretta», sono state aggredite nel corso di un reportage da Pontecagnano.

L'arrivo a Pontecagnano nel 2014

La vita di Marzia non è stata facile. Nata a Milano da genitori che si sono separati poco dopo la sua nascita, Laura e Ciro, ha trascorso molti anni in case famiglia. Presto sono apparsi chiari i segni del suo disagio psichico, per i quali la giovane è stata successivamente dichiarata invalida al 100 per cento; le è stata anche assegnata una pensione. Nel 2014 conosce sui social Antonio, un suo coetaneo di Pontecagnano e, nonostante l'opposizione del padre, decide di trasferirsi dalla Lombardia alla provincia di Salerno all'insaputa dei genitori. Per due anni il padre e la madre, con i quali Marzia ha un rapporto molto conflittuale, non hanno sue notizie. Nel 2016, dopo un  appello a «Chi l'ha visto?», la ritrovano a Pontecagnano in compagnia di Antonio. Marzia sta abbastanza bene e sembra serena.

L'incontro con Barbara Vacchiano

La situazione non cambia fino alla fine del 2017: gli assistenti sociali del Comune fanno visita regolarmente a Marzia e Antonio e li trovano sereni; i due hanno fittato un appartamento e conducono una vita tranquilla, grazie alla pensione di lei e al lavoro di raccolta di rottami di ferro svolto da lui. Ma tra novembre e dicembre di quell'anno qualcosa cambia: Marzia conosce Barbara Vacchiano e Damiano Noschese che, come Antonio, sbarcano il lunario raccogliendo rottami di ferro. Da un giorno all'altro si trasferisce in casa di Barbara, nella palazzina popolare di via Verdi 24 che di lì a poco diventerà la sua prigione, lascia Antonio e si fidanza con Alessandro, fratello di Barbara, tossicodipendente. 

Il progressivo isolamento di Marzia

Alessandro non piace alla madre di Marzia: quando la coppia va a farle visita in Lombardia, Laura lo caccia di casa e lui, per vendicarsi, dà fuoco a una coperta stesa sul balcone. È in questo momento che la storia di Marzia prende una piega drammatica. La giovane, che vive in casa di Barbara, viene progressivamente isolata: le tolgono il telefono, incassano i soldi della sua pensione. I genitori della giovane disabile si fidano, pur non conoscendo di persona la famiglia Vacchiano - Noschese e non avendo mai visto la casa di Pontecagnano in cui Marzia vive. Una circostanza sottolineata dal gip di Salerno Alfonso Scermino, che ha emesso l'ordinanza cautelare notificata ai due.

La morte di Alessandro

Gli assistenti sociali sono molto preoccupati per i cambiamenti nella vita di Marzia, succube della famiglia che la ospita, forse addirittura costretta a fornire prestazioni sessuali a quanti vivono in quella casa. Il 7 novembre 2019 Alessandro Vacchiano muore di overdose: lo trovano esanime in piazza Garibaldi, a Napoli. Fa uso di oppiacei da molto tempo e non c'è alcun dubbio che la sua morte sia dovuta a quello: eppure Barbara incolpa Marzia e la crudeltà nei confronti della ragazza aumenta. 

Le torture

I racconti dei testimoni sono agghiaccianti: Marzia era «trattata come una schiava, insultata, picchiata, privata della possibilità di lavarsi e di cambiarsi, costretta a indossare abiti smessi dai suoi ospiti e a dormire su un materasso sporco di urina dei cani, chiusa in cantina quando arrivavano i carabinieri per controllare uno dei figli di Barbara Vacchiano che era agli arresti domiciliari»: l'ordinanza cautelare, nella quale sono confluite le testimonianze di decine di persone, è un lungo elenco di torture cui per anni Marzia è stata sottoposta. La giovane disabile desiderava fumare, ma le negavano le sigarette. Lei raccoglieva mozziconi sulle scale e «una volta, per punirla, la costrinsero a ingoiarne uno acceso». Le tagliavano i capelli con un rasoio o glieli strappavano. Barbara le strappò un dente con una pinza. Era obbligata a tirare lo sciacquone dopo che gli altri abitanti della casa avevano fatto i loro bisogni fisiologici

L'allarme

Di lì a poco i contatti tra Marzia e i genitori si interrompono: Barbara fa credere loro che la giovane non viva più con lei e continua a incassare la sua pensione. Le torture inflitte a Marzia sono di dominio pubblico e infatti nel febbraio del 2022 una conoscente della Vacchiano segnala il caso a uno sportello antiviolenza di Pontecagnano, che a sua volta informa i carabinieri. 

La scomparsa e il ritrovamento del corpo

Alla vigilia del suo compleanno, di notte, Marzia viene caricata in macchina e portata via dalla casa di via Verdi. Alcuni vicini la sentono gridare: «Dove mi portate? È buio!». Il corpo viene ritrovato il 25 ottobre in un casolare abbandonato. Il quindicenne indagato, in una videochiamata alla sorella su Instagram, confessa: «Abbiamo finito, l'abbiamo affogata». E si fa il segno della croce.

"Da un anno non vivevo più lì". Omicidio Marzia Capezzuti, le parole della figlia di Vacchiano: “Meglio sottoterra che a casa, qui siamo tutti orchi”. Redazione su Il Riformista il 27 Aprile 2023

“Qui siamo tutti orchi cattivi, non solo mia mamma, tutti, anche io. Perché questa ragazza si poteva salvare”. A parlare è Anna Vacchiano, 22 anni, figlia di Mariabarbara Vacchiano arrestata la scorsa settimana insieme al compagno Damiano Noschese e al figlio 15enne per l’omicidio di Marzia Capezzuti, la 29enne milanese trapiantata per amore nel Salernitano nel 2017, pochi anni prima dell’inizio del suo incubo.

Giovane “fragile e vulnerabile”, come la descrivono i pm, Marzia ha vissuto anni di inferno prima di essere ammazzata il 7 marzo del 2022 in un casolare di Montercorvino Pugliano e ritrovata dopo mesi, il 25 ottobre dello stesso anno. Un cadavere irriconoscibile a causa delle violenze subite e degli oltre sette mesi di distanza dal decesso. Cadavere identificato grazie a un frammento del palmo della mano e a un dente ritrovato sul luogo del delitto. Capezzutti sarebbe stata uccisa per la pensione di invalidità che percepiva (817 euro mensili) e perché sarebbe stata ritenuta responsabile della morte prematura del fidanzato, fratello di Mariabarbara Vacchiano.

Nel corso della trasmissione Chi l’ha visto?, andata in onda il 26 aprile, è stata mostrata una intervista della giovane 22enne, rilasciata nelle settimane precedenti agli arresti ma pubblicata soltanto adesso. Parole agghiaccianti quelle della ragazza che descrive un contesto familiare dove tutti i tre fratelli, lei compresa, erano succubi della madre. Marzia “meglio sottoterra che in quella casa” dove veniva trattata da schiava.

Vacchiano è indagata per maltrattamenti ma grazie a una sua segnalazione sono partite le indagini che hanno fatto luce sulla scomparsa prima e sul brutale omicidio poi di Marzia Capezzuti. Omicidio emerse oltre all’attività investigativa di carabinieri e procura, anche da una videochiamata tra la 22enne e il fratello 15enne: telefonata, dove non c’è l’audio, per cui è stata ricostruita dal labiale e tradotta dal dialetto campano, dove quest’ultimo spiegava alla sorella, sotto choc, l’orribile fine della ragazza milanese, affetta da “disturbo della condotta in ritardo mentale di media gravità“.

Per Anna Vacchiano, che ha denunciato la madre e si è rivolta a un centro antiviolenza, i maltrattamenti subiti da Marzia sarebbero iniziati durante l’ultimo anno di vita ma “io non l’ho toccata neanche con un dito. L’ultima volta che l’ho vista era febbraio o marzo. Io, era un anno che non vivevo più in quella casa”.

Indagati per l’omicidio anche il figlio maggiore di Mariabarbara Vacchiano e due conoscenti che erano in casa la sera in cui Capezzuti sarebbe stata portata via. “Io non sono per la legge – ha proseguito – perché la mia famiglia è pregiudicata, ma sono per le cose giuste. Non butto mia mamma nella spazzatura, o domani, se è stata lei, o qualcun altro, pagherà. Questa ragazza come minimo deve avere giustizia”.

Infine aggiunge: “Non vado fiera di mia mamma mi sono schifata, anzi mi metto vergogna a dire che è mia mamma. Prima mi dicevo orgogliosa, perché mi ha cresciuto. Io ci ho messo la faccia, io ho la coscienza pulita, ma è una cosa più grande di me”.

Da ansa.it il 28 aprile 2023.

Il cadavere di un uomo è stato ritrovato stamattina a Rasciada, in una caletta poco prima di Lu Bagnu, nella costa di Castelsardo, nel golfo antistante l'Asinara. 

I militari della Capitaneria di Porto Torres, i carabinieri della stazione di Castelsardo e i vigili del fuoco, sono accorsi sul posto e stanno verificando se il corpo possa essere quello di Davide Calvia, il sub sassarese di 38 anni scomparso il 12 aprile nel Golfo dell'Asinara nel naufragio della barca con cui, insieme al cugino, Giovannino Pinna - trovato vivo a 24 ore dall'incidente - stava facendo una battuta di pesca.  

Alberto Pinna per il “Corriere della Sera” il 28 aprile 2023.  

«Era con lui nella barca affondata. Soltanto Giovannino sa che cosa è accaduto e chi ha fatto del male a mio fratello. Perché tace? È ora che parli». Nadia è la sorella di Davide Calvia, il pescatore che si credeva annegato fra Stintino e Castelsardo e che invece — così trapela dall’autopsia — potrebbe essere stato ucciso a bastonate prima che la barca affondasse. Giovannino Pinna è il cugino di Davide e Nadia, sbattuto dalle onde su una spiaggia dopo un giorno e una notte in balìa del mare in tempesta. Vivo per miracolo, con i polmoni pieni d’acqua, mani e piedi consumati dal gelo, ma senza un graffio. 

«È ancora sotto choc, quando starà meglio dirà tutto ai magistrati» assicura il suo avvocato. Naufragio o delitto? Per ora è «giallo». […] Quel pomeriggio del 12 aprile il mare è appena increspato e la Guardia costiera di Porto Torres riceve una richiesta di soccorso: «La barca sta affondando, indossiamo le mute e i salvagenti».

Giovannino Pinna fornisce nome, cognome e posizione: fra Stintino e Fiumesanto, «vedo le ciminiere della centrale elettrica». Motovedette e elicotteri in pochi minuti sono là: nessun uomo in mare né natante alla deriva. Alla bonaccia subentra il Maestrale e la notte successiva la bufera scaraventa Pinna su una spiaggia della marina di Sorso, lontano da Fiumesanto. Dieci giorni dopo, oltre Sorso, affiora un corpo senza vita: Davide Calvia.

[…] Il 12 aprile viene denunciato il furto di una piccola barca ormeggiata a Porto Torres, in prossimità della banchina viene ritrovata la moto di Pinna e Calvia: le telecamere dello scalo marittimo inquadrano due sagome che si aggiravano sul molo. Nella barca c’erano tre mute e salvagenti simili a quelli che indossavano i due cugini, il telefono cellulare dal quale è partito l’Sos che ha agganciato una cella lontana da Fiumesanto e vicina, invece, al luogo in cui Pinna è stato ritrovato.

La barca? Il relitto? Introvabili. Poi l’autopsia: torace schiacciato, traumi plurimi; non compatibili con l’urto contro uno scoglio o un ostacolo né con un naufragio. Sospetti che s’incrociano con racconti di pescatori di frodo sorpresi a depredare reti e palamiti e «puniti» da chi li aveva calati. Infine i dubbi di Nadia Calvia: «Giovannino sta meglio; ricorderà se la barca l’hanno rubata o gliel’hanno prestata... Erano soli o c’era qualcun altro che ha fatto del male a mio fratello? Non lo accuso, ma perché non parla?».

"L'ho ucciso perché ero geloso". Il portuale di Genova confessa l'omicidio. Filippo Giribaldi, portuale della Culmv e figura di spicco dell'associazione 'no vax' Libera piazza, ha confessato l'omicidio di Manuel De Palo: "L'ho ucciso per gelosia". Rosa Scognamiglio il 26 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La confessione del portuale

 L'avvocato del 43enne: "Sotto l'effetto di crac"

 Vecchie ruggini

 Il comunicato di CasaPound

"Sì, l'ho ucciso". La confessione di Filippo Giribaldi, portuale della Culmv e figura di spicco dell'associazione 'no vax' Libera piazza, accusato dell'omicidio di Manuel De Palo, è arrivata nella notte tra sabato e domenica, a poche ore dal delitto di Genova. Stando a quanto trapela dalla questura, come riporta Repubblica, l'indagato è apparso fin da subito molto "collaborativo" con gli inquirenti. Il suo legale, l'avvocato Paolo Scavazzi, ha spiegato all'Adnkronos che l'assistito era "completamente fuori testa, reduce dall'assunzione continuata di crac per 4 giorni". Intanto, CasaPound ha diffuso una nota stampa con cui si precisa che la vittima "non era un militante" dell'organizzazione da diversi anni.

La confessione del portuale

Il movente dell'omicidio, avvenuto ieri sera (domenica 25 aprile), sarebbe del tipo passionale. Il presunto assassino ha spiegato di aver aperto il fuoco contro Manuel Del Palo, 37 anni, per motivi di gelosia. "Ero geloso - ha detto il 43enne durante l'interrogatorio davanti alla pm Eugenia Menichetti - frequentavo una donna che da qualche settimana frequentava anche Di Palo. Era stata lei a dirmi che voleva liberarsi di lui e del suo amico. Loro la vedevano e le davano la droga". In casa della donna, dove è partita la lite, poi culminata in via Polleria, gli investigatori della squadra mobile hanno trovato un chilo di cannabis. Filippo Giribaldi dovrà essere interrogato anche dal gip per la convalida che però non è stata ancora fissata.

L'avvocato del 43enne: "Sotto l'effetto di crac"

Il legale del 43enne ha spiegato che l'assistito avrebbe agito sotto l'effetto di crac: "Ha detto di essersi allontanato in un primo momento dall'abitazione della donna convinto che la vittima e l'amico che si trovavano lì avessero chiamato i carabinieri. - ha chiarito ad Adnkronos l'avvocato Paolo Scavazzi - Non solo. Al pubblico ministero ha detto di aver creduto che a inseguirlo fosse proprio un carabiniere". Quanto alla eventuale matrice politica del delitto, poi puntualmente e fermamente smentita dalle parti in causa, il legale ha precisato: "Casapound nella vicenda non c'entra nulla - ha sottolineato il legale - Di mezzo c'è una donna, pare grande amica del mio assistito, che gli aveva fatto credere di essere stata resa succube della vittima e dell'amico che era con lui. Non solo. Al magistrato ha detto di non aver capito che chi lo inseguiva era il tale che ha ucciso. Di Palo lo avrebbe raggiunto sul luogo dove è accaduto il fatto. Lì ci sarebbe stata una colluttazione, il mio assistito sarebbe stato colpito dalla vittima con un pugno e a quel punto avrebbe sparato".

Vecchie ruggini

Stando alle dichiarazioni dell'avvocato Scavazzi, tra Manuel De Palo e Filippo Giribaldi c'erano già dei dissapori: "Tra loro c'era stata già qualche discussione in passato ma questa volta lui avrà voluto fare un intervento un pochino più energico. Non è andato sicuramente per ammazzare, diversamente non avrebbe sparato prima al muro. Piuttosto si sarebbe presentato sotto casa della ragazza come avvertimento". Quanto all'arma del delitto, una calibro 22, il legale ha concluso: "Dice (Giribaldi ndr) di averla trovata qualche anno fa sulle alture di Genova", ha concluso il legale.

Il comunicato di CasaPound

Sulla scorta delle notizie trapelate nelle ultime ore, CasaPound ha diffuso una nota stampa in cui prende la distanza dai fatti rilanciati dai media: "Diffidiamo chiunque dall'accostare CasaPound alla vicenda e agiremo di conseguenza in caso contrario, per tutelare la comunità - si legge nella nota - Manuel non era militante di CasaPound ormai da diversi anni. Troviamo semplicemente vergognoso e deplorevole che media e politici sfruttino un evento tragico come la morte di un ragazzo per speculare su quanto avvenuto. Oltre tutto, tentando anche di agitare ipotesi di droga e spaccio, colpendo un'intera comunità, già umanamente toccata da quanto accaduto".

(ANSA il 29 aprile 2023) - Ruoterebbe intorno alla droga l'indagine dei carabinieri per l'omicidio maturato oggi pomeriggio a Oleggio (Novara) dove un uomo di 46 anni, di Castelletto sopra Ticino, un altro paese della provincia novarese - la distanza tra due è di una ventina di chilometri - è stato ferito mortalmente da un residente del luogo, un 65enne fermato poco dopo dai militari.

Nell'appartamento del presunto omicida, in un quartiere di edilizia popolare di Oleggio, in via Cantoni, è stata trovata della cocaina, circa 80 grammi. Le indagini devono ancora chiarire molti aspetti della vicenda, ma da una prima ricostruzione a casa del 65enne si sarebbero presentati, oggi, prima la figlia della vittima, giovanissima ma maggiorenne, e poi il padre.

Quest'ultimo avrebbe raggiunto la ragazza proprio per tutelarla, ma il motivo della presenza della donna a Oleggio resta ancora da appurare. Sulla soglia dell'appartamento si sarebbe acceso un violento diverbio dei due uomini ed è possibile che il 65enne abbia rivolto delle molestie o delle offese alla giovanissima donna, secondo quanto risulta da una testimonianza, circostanza peraltro non confermata, almeno per ora, dai carabinieri. Il padre, intervenuto per difendere la ragazza, è stato colpito a un fianco con un coltello o con un'altra arma che non è stata ritrovata dai carabinieri.

Ha fatto qualche metro e poi si è accasciato al suolo. Soccorso dal 118, è stato portato all'ospedale Maggiore di Novara dove è morto poco dopo l'arrivo al pronto soccorso. Nel frattempo, i carabinieri hanno fermato il 65enne, accusato ora di omicidio. Nel suo passato ci sarebbero precedenti di polizia e per vicende legate alla droga. L'uomo non avrebbe confessato il delitto, nella notte proseguono gli interrogatori e i vari riscontri dei carabinieri di Oleggio e del comando provinciale di Novara.

L'omicidio nel novarese: fermato un uomo. Avances alla figlia, padre la difende e viene ucciso a coltellate sul pianerottolo. Vito Califano su Il Riformista il 29 Aprile 2023

È ancora da chiarire la dinamica dell’omicidio a coltellate che si è consumato ieri nel tardo pomeriggio a Oleggio, in provincia di Novara. Michele Bonetto aveva 46 anni, è morto, accoltellato durante una lite. I carabinieri hanno fermato un uomo. Si chiama Vincenzo Lasco e ha 65 anni. Ha trascorso la notte in carcere. L’aggressione si è consumata asulle scale del condominio della zona Peep in cui vive l’uomo fermato. Indagano i carabinieri.

La vittima abitava a Castelletto sopra Ticino. L’uomo fermato aveva precedenti, di recente aveva subito una condanna in primo grado per tentata estorsione, porto abusivo di armi e spaccio di droga. Secondo Novara Today Bonetto si sarebbe recato a casa di Lasco per chiarire delle questioni ancora tutte da accertare. Forse maturate nel giro della droga. Nell’appartamento in via Cantoni è stata trovata della cocaina, circa 80 grammi.

Prima dell’uomo però, riporta l’Ansa, presso l’appartamento era arrivata la figlia di Bonetto, giovanissima ma maggiorenne. “Quest’ultimo avrebbe raggiunto la ragazza proprio per tutelarla, ma il motivo della presenza della donna a Oleggio resta ancora da appurare. Sulla soglia dell’appartamento si sarebbe acceso un violento diverbio dei due uomini ed è possibile che il 65enne abbia rivolto delle molestie o delle offese alla giovanissima donna, secondo quanto risulta da una testimonianza, circostanza peraltro non confermata, almeno per ora, dai carabinieri”.

Sarebbe stato a questo punto che Bonetto, intervenuto per difendere la figlia, sarebbe stato accoltellato, colpito al fianco. L’uomo avrebbe fatto qualche metro e si sarebbe accasciato al suolo. Bonetto è stato soccorso dal 118, trasportato all’ospedale Maggiore di Novara dov’è morto poco dopo l’arrivo in pronto soccorso. Aveva perso molto sangue. L’ipotesi che era circolata insistentemente all’inizio era stata quella dell’uomo intervenuto per difendere la figlia da delle avances, molestie, una pista che al momento sembra superata.

La dinamica dell’omicidio resta però al momento tutt’altro che chiara. Sul posto sono arrivati i carabinieri di Novara e di Oleggio. L’arma del delitto non è stata ancora ritrovata. L’uomo è stato fermato in casa, non ha confessato il delitto. È accusato di omicidio.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

"Quella sostanza misteriosa che può dirci cosa è accaduto a Liliana Resinovich". Data della morte, modalità della morte e 8-idrossi-chinolina: nel giallo della triestina c'è molto da vagliare. Ne parla l'esperta Paola Calabrese. Angela Leucci il 22 Settembre 2023 su Il Giornale.

Da quando è stata riaperta l’inchiesta sulla morte di Liliana Resinovich, non si placano le perplessità relative alle prime indagini, che hanno lasciato nell’opinione pubblica molti interrogativi. Resinovich scomparve da Trieste la mattina del 14 dicembre 2021, per poi essere ritrovata cadavere tre settimane più tardi nel boschetto dell’ex ospedale psichiatrico triestino. L’autopsia ha stabilito che la donna dovrebbe essere morta per scompenso cardiaco a ridosso della data di ritrovamento. Il corpo era avvolto in sacchi neri, con due sacchi per la spesa intorno alla testa, tenuti da un cordino lasso: nessuna impronta però è stata trovata, neppure quelle della stessa Resinovich. Nell’organismo sono state trovate tracce di una sostanza misteriosa, l’8-idrossi-chinolina. Le prime indagini sono durate oltre un anno, dopo di che è stata chiesta l’archiviazione per suicidio. Ma l’opinione pubblica non crede al suicidio, e i famigliari - il marito Sebastiano Visintin, il fratello Sergio e la nipote Veronica Resinovich - hanno presentato opposizione all’archiviazione le indagini sono state riaperte. Al momento si sa che si sta tornando su molti dettagli esaminati dalle prime indagini e alcune persone sono state attenzionate dagli inquirenti, tra cui Visintin e il sedicente amante, Claudio Sterpin. Paola Calabrese, docente di chimica, farmacologa e youtuber per il proprio canale Giallo & Nero i colori del crimine ne ha parlato con ilGiornale.it.

Dottoressa Calabrese, cos’è l’8-idrossi-chinolina?

È una sostanza che è stata rilevata in tracce nel corpo di Liliana. La perizia mi colpì subito, perché è una sostanza che normalmente non ci dovrebbe essere nel corpo umano, è particolare ed è difficile da reperire. Di base si trova in prodotti per la cosmesi o antifungini, veniva utilizzata come agrofarmaco ma è stata tolta dal commercio e ora si può richiedere solo con partita Iva. Per cui mi chiedo: possibile che esista una ricevuta, una tracciabilità per essa? Ci dovrebbe essere”.

E poi?

Torniamo un attimo sui prodotti per la cosmesi: l’8-idrossi-chinolina è contenuta in creme depilatorie, acqua ossigenata e creme per le scottature. Viene smaltita entro 24 ore, massimo 36. Ho escluso tantissime possibilità: a casa di Liliana non c’erano creme per scottature, così come la sostanza non potrebbe essere stata acquistata come farmaco per le piante perché ci vuole la partita Iva. In merito alle creme depilatorie, è difficile immaginare che Liliana utilizzasse questo tipo di prodotti, perché lei era rigorosa e attenta a evitare sostanze sintetiche e farmaci. Tra l’altro le creme depilatorie presentano diverse avvertenze e controindicazioni. Per esempio non si può usare la crema depilatoria e poi andare in piscina o in sauna, cosa che lei doveva fare il giorno dopo essersi depilata”.

Cosa potrebbe dire del giallo l’8-idrossi-chinolina?

Secondo me, per esempio, dove Liliana potrebbe essere stata tenuta. Io ipotizzo che Liliana sia morta il 14 dicembre, non per suicidio ma per mano di qualcuno che, prima di portarne il corpo nel boschetto, l’abbia tenuta da qualche parte. Probabilmente Liliana è stata tenuta vicino a quella sostanza: se è così, la sostanza magari è stata richiesta da qualcuno che aveva una piccola attività che ne richiedesse l’utilizzo. Sarebbe quindi interessante andare a vedere chi potrebbe usare l’8-idrossi-chinolina: non è qualcosa che io o lei possiamo avere in casa”.

Perché può essere così importante risalire alla data della morte?

La data della morte potrebbe aiutarci a capire se si tratta di suicidio oppure no. Parlando per ipotesi, poniamo che lei sia morta il 14 dicembre. Se Liliana fosse morta in quella data, e quindi si fosse diretta nel boschetto in quella data per suicidarsi, il corpo avrebbe dovuto essere in un altro stato di decomposizione e le persone che frequentano per lavoro o vivono nella zona se ne sarebbero accorte molto prima per l’odore e per l’arrivo di animali selvatici. Questa ipotesi quindi si può scartare”. 

E allora come sarebbe morta il 14 dicembre, sempre ragionando per ipotesi?

È molto più plausibile, a mio avviso che sì, Liliana sia morta quel giorno, ma il suo cadavere sia stato spostato. Il corpo era tuttavia ben conservato, il che mi fa supporre lo spostamento e la conservazione in un frigo. Tutto questo ci fa pensare che non si sia suicidata. Ma si può valutare anche un’altra ipotesi, e cioè che lei non sia morta né il 14, ma pochi giorni prima del ritrovamento. Questa ipotesi non è compatibile con le mie idee. Che qualcuno l’abbia tenuta da qualche parte e che lei poi sia scappata, o lasciata andare, per morire nel boschetto lo ritengo improbabile”.

È più plausibile che Resinovich si sia suicidata, sia morta per un malore a seguito di una colluttazione o sia stata uccisa?

Per me, è stata una colluttazione seguita dalla morte. Non credo che chi era con lei, e l’ha aggredita, volesse ucciderla. Credo fosse una persona molto arrabbiata e dall’aggressione verbale è passata a quella fisica. E potrebbe esserle venuto in quel momento lo scompenso cardiaco che figura nell’autopsia, ma potrebbe essere accaduto anche uno svenimento importante durante l’aggressione, e l’altra persona potrebbe non essersi resa conto di un battito presente anche se debolissimo, quindi Liliana non sarebbe stata soccorsa e sarebbe morta”.

Che cosa ne pensa dell’ipotesi del congelamento?

Potrebbe essere stato un frigo con una temperatura tenuta tra 0 e 2°C. L’ipotesi del congelamento non è da escludere, dato che gli inquirenti stanno lavorando su enzimi - che prendono l’acronimo di Shad - che si trovano nel tessuto muscolare e potrebbero dare risposte sul congelamento. Ma è qualcosa al momento ancora al vaglio”.

Cosa ci dice degli insetti intorno al corpo?

Vicino al suo corpo sono state trovate delle formiche morte. Mi sono chiesta: come sono morte? Sono venute a contatto con l’8-idrossi-chinolina?”.

Cosa ci dice l’assenza di impronte? Le impronte possono essere lavate via con la pioggia?

Le impronte non si lavano con la pioggia, perché hanno del grasso e possono essere eliminate solo con una sostanza lipofila, che scioglie il grasso. I chimici dicono: il simile scioglie il simile. Quindi la pioggia non può lavare le impronte digitali perché la base delle impronte è la lipofilia”.

Quindi potrebbe aver agito qualcuno che indossava guanti in lattice, che molti avevano in casa durante la pandemia?

Potrebbe essere stato questo, sì”.

In uno dei suoi video ha criticato aspramente il gossip. Non crede che abbia tenuto alta l’attenzione per la sensibilizzazione sull’opinione pubblica verso la ricerca della verità?

Attenzione sì, sensibilizzazione no. Credo che il gossip, di per sé, sia qualcosa di molto superficiale. Non risveglia la coscienza dell’opinione pubblica, risveglia la curiosità. Temo che il gossip in senso stretto abbia orientato la gente a chiedersi della situazione sentimentale di Liliana, non a desiderare la verità sulla morte”.

Estratto dell’articolo di Angela Leucci per ilgiornale.it il 24 luglio 2023.

Nominato il nuovo perito medico-legale che proverà a far luce sulla misteriosa morte di Liliana Resinovich. Si tratta, come riporta Il Piccolo, di una delle maggiori figure dell’antropologia forense in Italia: Cristina Cattaneo, direttrice e co-fondatrice del laboratorio di antropologia e odontologia forense Labanof, oltre che docente all’Università di Milano e perito in altri casi intricati di omicidio, da Yara Gambirasio a Elisa Claps, fino a Saman Abbas. 

Liliana Resinovich scomparve da Trieste il 14 dicembre 2021, venendo inquadrata dalle telecamere di sorveglianza lungo la strada fino a piazzale Gioberti. Fu ritrovata morta tre settimane più tardi nel boschetto dell’ex ospedale psichiatrico triestino: secondo l’autopsia sarebbe morta per uno scompenso cardiaco, tuttavia il suo corpo fu ritrovato avvolto da sacchi di plastica - con un cordino lasso intorno al collo, mentre molte lesioni erano visibili sul volto - e sulla scena del crimine non c’erano impronte, neppure le sue.

Così la procura di Trieste, dacché ha respinto la richiesta di archiviazione per suicidio […], ha dato mandato a Cattaneo per la sua super perizia, affinché “accerti le lesioni riscontrate la loro origine, il mezzo che le ha prodotte, la datazione, e ogni altro elemento utile a qualificare il decesso quale conseguenza di un'azione e suicidaria o di un fatto attribuibile a terzi”. Si sta quindi indagando per omicidio e al lavoro, oltre a Cattaneo ci sono altri notevoli consulenti di parte, come il professori Vittorio Fineschi, nominato dal fratello della scomparsa Sergio Resinovich, e l’ex generale dei Ris Luciano Garofano, nominato invece dal vedovo Sebastiano Visintin.

Pare tuttavia che ci sia almeno una persona iscritta nel registro degli indagati, ma ancora non ci sono certezze in merito. C’è chi ipotizza che come atto dovuto, oppure per false dichiarazioni ai pm, potrebbe essere raggiunto da un avviso di garanzia il sedicente amante Claudio Sterpin. Oppure, sempre come atto dovuto, lo stesso Sebastiano Visintin. “Mi aspetto di ricevere un avviso di garanzia - ha commentato quest’ultimo a Il Piccolo - non mi meraviglierebbe, credo sia un atto dovuto per poter svolgere determinate indagini. Non sono preoccupato, sono sempre stato collaborativo, l'importante è che finalmente si faccia chiarezza”.

Visintin si augura inoltre che la perizia di Cattaneo “chiarisca una volta per tutte quello che è successo, se [Liliana] si è tolta la vita o se qualcuno l'ha uccisa. […] La riesumazione del cadavere? Se ritengono sia determinante per chiarire alcuni aspetti non mi posso opporre. Certamente per me sarebbe molto doloroso”.

Liliana Resinovich, disposta perizia sul corpo: affidata a luminare dei casi Yara Gambirasio, Cucchi e Claps. Redazione Web su L'Unità il 24 Luglio 2023 

La morte di Liliana Resinovich continua a essere avvolta nel mistero. Ma intanto la Procura di Trieste ha affidato una nuova perizia all’antropologa forense Cristina Cattaneo: all’esperta il compito di svelare ogni piccolo dettaglio su quella misteriosa morte e soprattutto di capire se si sia trattato di un suicidio o di un omicidio. Una perizia medico-legale che sarà fondamentale per fare finalmente chiarezza sulla morte dlela 63enne scomparsa da casa a Trieste il 14 dicembre del 2021 e ritrovata cadavere il 5 gennaio del 2022 nel parco dell’ex Opp a San Giovanni.

Le nuove indagini dopo che il gip Luigi Dainotti non ha accolto la richiesta di archiviazione del caso disponendo ulteriori approfondimenti di indagine, e ha conferito l’incarico di stendere una nuova consulenza medico-legale che “accerti le lesioni riscontrate – queste le prescrizioni del gip – la loro origine, il mezzo che le ha prodotte, la datazione, e ogni altro elemento utile a qualificare il decesso quale conseguenza di un’azione e suicidaria o di un fatto attribuibile a terzi”. La notizia è riportata oggi sul quotidiano Il Piccolo di Trieste.

Docente all’Università di Milano e direttrice del Labanof, il Laboratorio di antropologia e odontologia forense da lei fondato assieme al collega Marco Grandi nel 1995, Cattaneo avrà tempo fino a dicembre per completare gli accertamenti. L’esperta è una dei massimi esperti forensi in materia. Già in passato si è occupata di casi di grande rilievo come quelli di Yara Gambirasio, David Rossi, Stefano Cucchi e Elisa Clasps solo per citarne alcuni. Nel giallo della morte della 63enne entra anche un altro professionista, l’ex generale dei Ris Luciano Garofano, nominato consulente dal marito della vittima, Sebastiano Visintin. Tra i consulenti del fratello di Liliana Resinovich, Sergio, c’è Vittorio Fineschi, anche lui tra gli scienziati forensi di maggior fama a livello nazionale, tra i più citati stilata dall’International Journal of Legal Medicine.

Secondo quanto riportato dall’Agi, si rincorrono voci sull’iscrizione di almeno una persona nel registro degli indagati. Dagli ambienti investigativi non arrivano conferme, ma neppure secche smentite. In Procura le bocche restano cucite. “Mi aspetto di ricevere un avviso di garanzia – ha detto al quotidiano di Trieste Sebastiano Visintin – non mi meraviglierebbe, credo sia un atto dovuto per poter svolgere determinate indagini”, così’ Visintin: “Non sono preoccupato, sono sempre stato collaborativo, l’importante è che finalmente si faccia chiarezza”. Quanto alla nuova perizia medico-legale, il marito di Lilly auspica che “chiarisca una volta per tutte quello che è successo, se si è tolta la vita o se qualcuno l’ha uccisa. Mi auguro che le conclusioni siano coerenti, che non lascino ulteriormente spazio a dubbi. La riesumazione del cadavere? Se ritengono sia determinante per chiarire alcuni aspetti non mi posso opporre. Certamente per me sarebbe molto doloroso”.

Redazione Web 24 Luglio 2023

Il ritrovamento di Lilly è stato una messa in scena. La sua morte fa male”. Angela Leucci il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.

Fulvio Covalero, amico di Liliana Resinovich, fornirà il suo Dna agli inquirenti: “Atto dovuto”

Tra le persone per cui la procura chiederà un confronto del Dna - in particolare per quanto riguarda il cordino che le teneva blandamente dei sacchi sulla testa - nel caso della morte di Liliana Resinovich, c’è un amico e vicino di casa, Fulvio Covalero. Questi, nel tempo, ha sviluppato delle teorie sul caso che si sono mostrate molto vicine a ciò che è stato trovato dagli inquirenti, ed è stato forse il primo degli amici a provare a cercarla perlustrando Trieste.

La scomparsa e la morte di Resinovich presentano ancora molti punti oscuri, per cui la procura di Trieste sta indagando ora per omicidio, dopo aver lavorato per oltre un anno sull’ipotesi di suicidio. Della donna si persero le tracce il 14 dicembre 2021, mentre il suo corpo venne ritrovato tre settimane più tardi in un’area boschiva dell’ex ospedale psichiatrico triestino. Il cadavere era avvolto in sacchi di plastica e il volto si presentava tumefatto, come se la donna fosse stata colpita.

Covalero, in una passata puntata di Quarto Grado, quando le hanno parlato del confronto con il suo Dna ha risposto: “Finalmente”. Cosa intendeva?

“Credo che sia un atto dovuto in un’indagine seria. Tra l’altro mi sta benissimo per allontanare i dubbi che qualcuno potrebbe aver avuto su di me. Mi auguro che guardino i tabulati, che facciano tutte le verifiche che credono. Il pensiero non mi turba affatto”.

In altre interviste ha esposto la sua teoria: Resinovich sarebbe morta a causa di un malore seguito a un litigio violento. Ora la procura ha aperto un fascicolo per omicidio. Crede ancora si sia trattato di un litigio, oppure pensa che Liliana Resinovich sia stata uccisa?

“Non c’è stato nulla da un anno a questa parte che mi abbia fatto cambiare idea. Non è emerso niente di nuovo. Non capisco come si possa uccidere una persona volutamente procurandole uno scompenso cardiaco acuto senza l’intervento, per esempio, di una sostanza iniettata”.

Non si sa se si procederà alla riesumazione del corpo, ma ci sarà la perizia medico-legale. È possibile che ci siano state sviste nell’autopsia?

“Non posso escluderlo. Sicuramente nel referto ci sono delle lacune, soprattutto in relazione alla data della morte. In quel punto è stato decisamente lacunoso”.

Durante l’ospitata a Quarto Grado sembrava che lei pensasse che il sedicente amante Claudio Sterpin stia coprendo qualcuno. Perché?

“Non lo penso e non lo so se sta coprendo qualcuno. Però non ha fatto nulla per non attirare i sospetti su di sé, fin dal primo momento: per mezz’ora di ritardo di Liliana, ha detto che sarebbe andato a procurarsi un alibi. Per mezz’ora di ritardo io inizio a innervosirmi, posso spazientirmi, se mi preoccupo telefono agli ospedali, ma non penso a costruirmi un alibi. Il mio atteggiamento sarebbe questo e credo di chiunque altro”.

L'uomo ha rivelato di recente l'esistenza di presunti luoghi di incontro con Resinovich. Secondo lei, perché Sterpin sta parlando solo ora degli immobili di cui Resinovich avrebbe avuto le chiavi?

“Non saprei. Forse inizialmente voleva tenere segreta la cosa, forse si augurava che il caso venisse archiviato come suicidio e quindi non se ne sarebbe parlato più. Quando si è reso conto che le indagini continuavano, magari temendo che emergesse questa storia, ha preferito raccontarla spontaneamente”.

Cosa pensa delle dinamiche relative al ritrovamento del corpo? Nei giorni scorsi è stato ritrovato un pezzo di catenina che una cugina ha riconosciuto essere di Resinovich.

“Non so cosa dire… Io dissi oltre un anno fa: ‘Non sopporto l’idea che Liliana possa essere buttata in un bosco come spazzatura”. Quando è stata trovata in un bosco, all’interno di inutili sacchi neri - perché non hanno ragione di esserci - mi sembra quasi che io abbia scritto il copione e qualcuno abbia pensato di metterlo in scena”.

Resinovic, parla l'amico: "Io sulla scena del crimine a 70 metri da Lilly”

Le opposizioni dei famigliari hanno fatto sì che le indagini venissero riaperte, ma è stato invocata, nel comunicato della procura, più riservatezza nei talk show. Cosa ne pensa?

“Ognuno si regola un po’ come vuole. Certamente non possono imporre che non se ne parli, e poi ognuno è coinvolto emotivamente in base alla propria sensibilità e al bene che voleva a Liliana. È difficile restare inebetiti e non dire una parola su questa morte strana, allucinante. Ho bisogno di parlare di questo, di far sentire la mia voce, perché mi ha fatto male che sia scomparsa in questo modo”.

Il legale del fratello, l'avvocato Nicodemo Gentile, ha invocato più centralità della vittima. Qual è il suo ricordo più bello di Resinovich?

“Non c’è un ricordo preciso. Nel ’74, nel ’75 lei era la più giovane della compagnia, io il più vecchio. Eravamo in un gruppo di amici e facevamo le feste in casa, per Capodanno, a Carnevale. Mettevamo degli impianti artigianali per ballare in oratorio. Per me è sempre rimasta quella ragazza di 16 anni, non ho mai visto cambiamenti in lei, anche se poi chiaramente con il passare del tempo è diventata più matura”.

Sebastiano e Claudio: chi sono i due uomini in lite del caso Resinovich. Nella vicenda della morte di Liliana Resinovich ci sono due uomini a piangerla, oltre alla famiglia d'origine: il marito Sebastiano Visintin e il sedicente amante Claudio Sterpin. Angela Leucci l'11 Giugno 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Chi è Sebastiano Visintin

 Chi è Claudio Sterpin

 Perché il suicidio non sembra una possibilità

 Perché le relazioni potrebbero far pensare al suicidio

Nel caso della scomparsa e della morte di Liliana Resinovich ci sono due uomini che l’opinione pubblica ha conosciuto nel tempo, da quel 14 dicembre 2021, quando la donna fece perdere traccia di sé. Si tratta di due uomini mai indagati, uno dei quali ha anche un alibi inattaccabile per quella mattina. La donna venne ritrovata cadavere tre settimane più tardi nel boschetto dell’ex ospedale psichiatrico di Trieste. Nei prossimi giorni la procura si pronuncerà sulla richiesta di archiviazione per suicidio e le opposizioni presentate dai famigliari: il fratello Sergio Resinovich seguito in quanto parte civile dall'avvocato Nicodemo Gentile, la nipote Veronica Resinovich, il marito Sebastiano Visintin.

Chi è Sebastiano Visintin

Sebastiano Visintin ha 73 anni, è un fotografo in pensione e il vedovo di Liliana Resinovich. I due si sono amati per 30 anni e l’uomo ha testimoniato la loro relazione in tantissimi scatti e filmati: la coppia era infatti appassionata di viaggi e sport all’aria aperta. Pare che la loro relazione sia stata contrastata dalla famiglia di lei, ma alla fine i due si sono sposati ugualmente.

Visintin ha un alibi per il giorno della scomparsa: stava effettuando dei giri di consegna, perché per arrotondare la pensione si dedicava all’affilatura di coltelli per alcuni esercenti della zona. Il marito ha raccontato degli ultimi attimi con Lilly Resinovich: i due avrebbero fatto colazione e lei sarebbe rimasta in casa, in attesa di uscire, per poi salutarsi dalla finestra con due peluche, una routine romantica che pare condividessero da sempre. Dopo di lui, la donna è stata vista da una fruttivendola e dall’occhio di alcune telecamere di sorveglianza poste nelle vie triestine.

Chi è Claudio Sterpin

Claudio Sterpin, 83 anni, è un ex maratoneta. Dal giorno della scomparsa, afferma di essere l’amante di Liliana Resinovich. L’uomo, che ha mostrato in tv e agli inquirenti i messaggi criptici scambiati con la scomparsa, aveva avuto da giovane una relazione con lei e da alcuni mesi sarebbe tornato a frequentarla, ufficialmente per un aiuto in casa, segretamente, stando al suo racconto, in qualità di nuovo futuro compagno.

Sterpin ha infatti affermato più volte che Resinovich sarebbe stata in procinto di lasciare il marito, al quale avrebbe anche cercato una nuova abitazione. La ricerca di una casa e delle informazioni sul divorzio furono rintracciate dagli inquirenti nelle parole digitate su Google dalla donna sui suoi smartphone. Tuttavia il marito smentisce, dicendo che Resinovich volesse cercare una casa più grande per loro due, eventualità confermata da un’amica che le rispose: “Cosa te ne fai di una casa più grande? Goditi la pensione”. 

Claudio Sterpin ha esposto una serie di teorie su cosa potrebbe essere accaduto alla donna che amava, parlando anche della presenza di un presunto sicario. Che Resinovich possa essere stata bersaglio di violenza è l’ipotesi che ricorre nell’opposizione dei famigliari: il volto della donna era tumefatto e presentava versamenti di sangue, sebbene gli inquirenti abbiano liquidato il tutto, per il momento, legandolo a una caduta contro un albero. Inoltre Sterpin ha annoverato alcuni luoghi che sarebbero stati il loro “nido d’amore”: la sede di un’associazione sportiva, una soffitta e una cantina nel centro di Trieste.

Infine Sterpin è stata l’ultima persona, come evidenziato dai tabulati telefonici, a parlare con Resinovich. L’uomo ha raccontato che quella mattina si sarebbero dovuti incontrare per il consueto aiuto in casa, ma lei chiamò per dire che avrebbe fatto tardi: sarebbe dovuta passare di un negozio di telefonia, al quale però non è mai arrivata.

Perché il suicidio non sembra una possibilità 

In molti casi di cronaca nera torna utile l’autopsia psicologica, che cerca di spiegare lo stato d’animo di una persona per capire che si è tolta la vita. Nelle ultime immagini, Liliana Resinovich appare triste e Visintin ha spiegato che ogni tanto la donna avesse l’abitudine di andare a stendersi sul letto. Sterpin ha anche parlato in passato di come Resinovich gli avesse esposto una teoria sul suicidio: la donna avrebbe affermato che, a suo avviso, il suicidio non avrebbe dovuto essere plateale, ma effettuato in camera da letto, con dei farmaci. Eppure è proprio la platealità del ritrovamento, la non spiegazione fornita sulle lesioni, i sacchi neri su cui non ci sono impronte, neppure della scomparsa, a remare contro l’ipotesi di suicidio.

“Vi dico perché Liliana Resinovich non si è uccisa"

E l’impossibilità a eseguire un’autopsia psicologica: le foto non possono essere una prova di cosa lei pensasse o sentisse. Le affermazioni sulla personalità di Resinovich fornite dai famigliari e da Sterpin sono infatti in qualche modo contrastanti. Da un lato c’è chi parla di una donna remissiva, tranquilla, dall’altro chi parla di una donna fortemente volitiva, che aveva scelto di studiare e lavorare per essere indipendente, e che aveva scelto di sposare un uomo sgradito dalla famiglia. Per questo l’opinione pubblica ritiene il suicidio un’ipotesi davvero remota e sono in tanti a sperare che si faccia luce su questa morte al momento inspiegabile.

Perché le relazioni potrebbero far pensare al suicidio 

Nelle opposizioni viene chiesto anche di far luce sulle relazioni della donna con i vari attori del caso: è utile o porta verso l’ipotesi suicidiaria? La possibilità che Resinovich fosse divisa tra due uomini e che la donna potesse essere lacerata nell’intimo ha dato adito all’opinione pubblica di pensare che in effetti si sia suicidata. Ma le prove di quest’ipotesi non ci sono, anzi i fatti, soprattutto quelli inerenti al ritrovamento del corpo, conducono alla speranza di una proroga delle indagini. In attesa della decisione della procura di Trieste in tanti chiedono a gran voce verità e, nel caso ci sia stata violenza sulla donna, giustizia.

L'avvocato della famiglia: “Vi dico perché Liliana Resinovich non si è uccisa". Il presidente dell'associazione Penelope Nicodemo Gentile parla dell'opposizione all'archiviazione dell'indagine della procura di Trieste sulla morte di Liliana Resinovich: "Quei segni sul volto vanno interpretati". Angela Leucci il 14 aprile 2023 su Il Giornale.

Nonostante la procura di Trieste abbia chiesto l’archiviazione del caso di Liliana Resinovich, convinta che si tratti di un suicidio, permangono in gran parte dell’opinione pubblica copiose perplessità. La donna, un’ex impiegata della Regione in pensione, scomparve infatti la mattina del 14 dicembre 2021, venendo ritrovata cadavere tre settimane più tardi nel boschetto nei pressi dell’ex ospedale psichiatrico triestino. Il corpo avvolto in sacchi neri, la testa - con diverse lesioni ed ecchimosi - nei sacchetti per la spesa, stretti con un “cordino lasso”. Senza documenti, senza smartphone, senza le chiavi di casa - ma solo con un mazzo “di riserva”.

La procura aprì da subito due fascicoli: uno per suicidio, l’altro per sequestro di persona. Perché Liliana Resinovich, quel 14 dicembre, fu inquadrata da diverse telecamere di videosorveglianza, per poi svanire nel nulla. La procura però non ha sciolto il nodo della data della morte, e sia la famiglia di origine, “capeggiata” dal fratello Sergio Resinovich, sia il marito Sebastiano Visintin hanno presentato opposizione all’archiviazione.

Il fratello Sergio in particolare si è avvalso della consulenza di due esperti, medici legali e docenti universitari, Vittorio Fineschi e Stefano D’Errico. Secondo questi, le possibili lacune potrebbero trovare risposta nell’ipotesi di occultamento del cadavere, nel non escludere che il corpo sia stato congelato, nelle tempistiche dilatate degli esami effettuati sul corpo di Resinovich. Tanto che Fineschi si era pronunciato così: “Dire che non ci sono prove che sia stato un omicidio non basta a dire che sia un suicidio”.

Abbiamo ancora la possibilità di cercare una verità che non è stata ancora sicuramente scritta”, commenta Nicodemo Gentile, avvocato e presidente dell’associazione Penelope, che sta affiancando Sergio Resinovich e la sua famiglia nella “ricerca della verità, ma facendo un percorso rispettoso di tutte le parti ma soprattutto rispettoso della verità”.

Avvocato Gentile, perché conoscere il giorno della morte di Liliana Resinovich potrebbe essere importante per capire cosa sia accaduto?

Conoscere il giorno della morte è fondamentale per ricostruire in modo pieno, analitico e attento una verità che altrimenti rimane sospesa. È importante per capire gli eventuali alibi delle persone interessate da questa vicenda, e quindi verificare chi avrebbe potuto in qualche modo entrare in contatto con Liliana sia il giorno 14 sia, se si è dell’idea che sia morta qualche giorno prima del ritrovamento, a gennaio 2022. L’idea che Lilly abbia girovagato per oltre 20 giorni per Trieste e dintorni, avendo creato una sorta di vita parallela, rientra tra quelle ipotesi che vanno fuori, a nostro avviso, tenuto conto di chi era Lilly, tenendo conto che non aveva soldi, green pass o possibilità”.

Cinema Eros, riemerge l’identikit di un terzo killer: «Basso e tarchiato». Il podcast del Corriere. Alessandra Coppola su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2023

A quarant’anni dal rogo della sala a luci rosse di Milano in cui morirono sei persone, il mistero di un ragazzo che era assieme ai due amici assassini e non è mai stato individuato 

Riemerge dal vecchio rapporto di polizia ingiallito. Tra due fogli di carta protocollo, l’etichetta scritta a penna, le veline, i ritagli di giornale, le copie carbone. Un telegramma con «precedenza assoluta» spedito da Mantova, il 5 aprile 1984, dall’allora questore di Milano al ministero dell’Interno e a otto città coinvolte nelle indagini. «Seguito precedenti segnalazioni voce ‘organizzazione Ludwig’, comunicasi che pomeriggio ieri 4 corrente, presso locale casa circondariale, at presenza sostituto procuratore Repubblica Milano, dr. Enzo La Stella, estesi svolta ricognizione personale confronti nominati Furlan Marco et Abel Wolfgang da parte nr. 4 testimoni nota strage del 14.5.83 Cinema Eros di Milano. Punto».

Il messaggio si riferisce ai due ventenni fermati il mese precedente mentre tentavano di dar fuoco alla discoteca Melamara di Castigione delle Stiviere, nel Mantovano, e quindi detenuti. La dinamica era sembrata molto simile a quella di altri attentati rivendicati dalla sigla neonazista Ludwig e in particolare all’ incendio del cinema a luci rosse Eros Sexy Center, il 14 maggio 1983, su viale Monza a Milano, in cui erano morte sei persone. Le foto dei due ragazzi sono state, allora, pubblicate sui giornali con un invito esplicito ad eventuali testimoni a farsi avanti. All’appello degli inquirenti hanno risposto in quattro ed erano stati condotti in carcere per il confronto. 

«At termine, solamente teste C. Cosimo, proprietario del cinema Eros habet riconosciuto in Furlan Marco individuo che per due volte, circa 20 giorni prima episodio delittuoso, aveva acquistato nr.3 biglietti ingresso. Punto. In tali circostanze Furlan era accompagnato da giovane riconosciuto da teste per Abel Wolfgang et da altro giovane più basso et tarchiato punto». 

Dunque, già nell’aprile 1984, c’è un filo diretto che lega i due ragazzi a Ludwig e vi associa da subito la presenza di un terzo uomo. Non è un’ipotesi azzardata. Tre persone aveva notato la cassiera Jolanda fuggire dal cinema prima dell’incendio, ma aveva inforcato gli occhiali da presbite e le erano apparsi sfocati; tre persone aveva visto «con la coda dell’occhio» il proiezionista Filippo nello stesso momento, aveva chiesto loro perché corressero, l’avevano rassicurato con un «Niente, niente…» oramai di spalle, quindi erano esplose le fiamme. 

Tre persone erano state scorte dagli spettatori, tra cui Guido B., durante l’intervallo del film «Lyla, profumo di femmina», muoversi nervosamente tra la sala e l’ingresso. Cosimo C. però è l’unico che li ha fissati nella memoria, in due momenti precedenti, probabilmente durante i sopralluoghi per la strage, e li ha indicati: non due ma tre. 

Il processo alla coppia di amici per i delitti di Ludwig, però, progressivamente accantona la ricerca di un terzo uomo, e nel 1991 vengono condannati i soli Abel e Furlan per 10 dei 15 delitti rivendicati dalla sigla (oramai hanno scontato la pena e sono liberi, Wolfgang gravemente malato). 

Ora questo podcast, a 40 anni esatti dal rogo del Cinema, con nuovi documenti riporta l’attenzione sulla possibilità di complici e fiancheggiatori mai individuati. In particolare, le carte del nuovo processo per la strage di piazza della Loggia a Brescia, ricostruendo l’ambiente di provenienza dell’imputato Marco Toffaloni, arrivano a tracciare una connessione con i due amici killer, disegnando attorno a questi ragazzi un ambiente estremista e fanatico, una sorta di setta esoterica neonazista, ossessionata dal fuoco, dai riti purificatori, dalla missione di redimere il mondo, proprio come professava Ludwig. E se il terzo killer basso e tarchiato venisse anche lui da lì?

Morte di Sissy Trovato Mazza, il «processo» 6 anni dopo. La collega: «Io non l’ho uccisa». Alberto Zorzi su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2023

Venezia, la calunnia di una detenuta porta il giallo in aula. Il padre: «Vogliamo la verità»

Quel processo che non c’è mai stato e forse mai ci sarà – perché la procura di Venezia l’ha sempre ritenuto un suicidio – è iniziato il 10 maggio dopo oltre sei anni. Anche se la vicenda della morte di Maria Teresa Trovato Mazza, per tutti Sissy, arriva in aula dalla parte «opposta»: ovvero per l’ipotesi di calunnia contro una detenuta che avrebbe accusato una poliziotta penitenziaria di essere responsabile del delitto. «Non ho mai detto di aver ucciso Sissy», ha detto però l’agente in aula di fronte al giudice Marco Bertolo. Il caso è quello ben noto della poliziotta del carcere della Giudecca trovata con un colpo di pistola in testa l’1 novembre 2016 in un ascensore dell’Ospedale civile di Venezia e poi rimasta in coma fino al 12 gennaio 2019 quando si era spenta a nemmeno trent’anni. 

Le versioni discordanti

Per il pm Elisabetta Spigarelli (che, va detto, è subentrata a una collega a indagini già iniziate) si è sparata lei, anche perché non ci sarebbero elementi della presenza di un’altra persona. I parenti di Sissy, a partire dal padre Salvatore che era in aula anche il 10 maggio («vogliamo solo la verità», dice), da sempre invece sostengono che sia stato un omicidio o che comunque qualcosa non torni. A gennaio 2020 però ecco il colpo di scena: una detenuta rivela alla comandante della Penitenziaria che un’agente le avrebbe confessato di aver ucciso Sissy «puntandole la pistola al collo e sparando». E a quel punto viene organizzata una «trappola», per cercare di farglielo ripetere. E proprio di questo episodio si è parlato in aula, tra versioni discordanti. 

Quelle parole in carcere

L’incontro sarebbe avvenuto in una stanza del carcere, mentre due agenti origliavano da quella vicina. Nel verbale reso subito dopo, la detenuta aveva detto che l’agente aveva confessato. Una delle «spie» in aula ha detto di aver sentito dire alla collega «io voglio solo morire», dopo che l’esca aveva detto che avrebbe voluto sapere la verità sul caso. La presunta omicida (difesa dagli avvocati Stefania Pattarello e Marco Marcelli, è parte offesa, ma non parte civile) ha invece sminuito quella frase: «È un mio modo di dire, intendevo che avrei fatto di tutto per sapere la verità». Ma poi le fu tolta la pistola per il timore di istinti suicidi e venne congedata per un mese. Su questo si innesta poi una relazione redatta dalla comandante e contestata dalla stessa agente-testimone – «le avevo detto di specificare meglio delle cose, ma mi disse che tanto si capiva: sono stata ingenua a firmarla lo stesso» – e degli screzi tra agente sotto accusa e imputata perché la prima non le aveva fatto consegnare un regalo a un’altra detenuta e aveva respinto le sue avances.

«Quella mattina ho bevuto il caffè con Sissy»

Inoltre, su domanda dell’avvocato Mauro Serpico, che difende l’imputata, è emerso che la detenuta aveva saputo anche che la stessa agente, insieme a un’altra, aveva picchiato Sissy qualche settimana prima. Resta il fatto che non risulta che l’agente accusata sia uscita dal carcere quella mattina dell’1 novembre. «Non è possibile uscire da soli, serve almeno la complicità di un collega», ha detto un’altra testimone. La calunniata ha negato: «Quella mattina ho bevuto il caffè con Sissy, poi lei è andata in ospedale da sola. Io sono rimasta in infermeria fino alle 13». 

I delitti di Alleghe: la catena di omicidi che 90 anni fa macchiò il paesino delle Dolomiti. Giuseppe Scuotri su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2023.

Belluno, il 9 maggio 1933 in un albergo di Alleghe fu trovata una ragazza morta. Sarà l’inizio di lunga scia di sangue legata alla famiglia Da Tos, su cui verrà fatta luce dopo 27 anni grazie a un carabiniere e a un giornalista 

Le vittime dei delitti di Alleghe

È la mattina del 9 maggio del 1933. La quieta primavera di Alleghe, borgo di 1.700 anime affacciato su un lago tra le Dolomiti bellunesi, è squarciata da un fatto di sangue. In una stanza dell’Albergo Centrale giace il corpo senza vita della 19enne Emma De Ventura. A dare l’allarme è Adelina Da Tos, figlia di Fiore Da Tos ed Elvira Riva, i proprietari della struttura. Sono passati novant’anni. Quella morte sarà l’inizio di una lunga scia di sangue sulla quale verrà fatta luce solo dopo 27 anni, grazie a un’inchiesta del giornalista Sergio Saviane e alle incredibili indagini sotto copertura di Ezio Cesca, vicebrigadiere dei carabinieri. Entrambi, all’epoca dei fatti, non avevano nemmeno trent’anni. Il loro lavoro porterà, nel 1960, all’arresto e alla condanna di Adelina Da Tos, suo fratello Aldo, suo marito Pietro De Biasio e un amico di famiglia, Giuseppe Gasperin. 

Emma De Ventura, la prima vittima

Uno strano suicidio

Quel martedì Emma De Ventura lo sta passando, come al solito, rassettando le stanze degli ospiti dell’albergo. Lavora da circa otto mesi come cameriera al Centrale, struttura che giganteggia sulla piazza principale di Alleghe. Di bell’aspetto e dal carattere allegro, Emma è fidanzata con il camionista Emilio Ganz, che passa spesso a trovarla in paese. Quell’impiego, secondo chi la conosce, serve anche a mettere da parte una dote in vista del matrimonio. Sono le 10 del mattino. Due anziani conversano animatamente su una panchina di fronte all’hotel. Scorgono Emma affacciata a una finestra. Ha l’aria spensierata. Sta canticchiando un motivo in voga all’epoca, «Miniera». Passa circa mezz’ora e le urla di Adelina Da Tos irrompono sulla piazza silenziosa e assolata: «È successa una disgrazia, Emma è morta». La giovane viene trovata bocconi sul pavimento della stanza numero 6, quella dove dorme Fiore, con la gola tagliata. Su una mensola è adagiata una boccetta di tintura di iodio, chiusa. Sul comodino, ad alcuni metri dal corpo, è poggiato un rasoio insanguinato. Sul posto arrivano i carabinieri, il segretario locale del fascio Raniero Massi e il medico condotto. Esaminano il corpo e confermano la ricostruzione fornita dai Da Tos: si è trattato di un suicidio per motivi amorosi. Emma, distrutta da una presunta rottura con Emilio, avrebbe ingerito la tintura per avvelenarsi ma, non sopportando il dolore, si sarebbe data il colpo di grazia con la lametta. Una tesi che verrebbe confermata dal ritrovamento, nella stanza della ragazza, di una lettera incompleta indirizzata al fidanzato. La ricostruzione dei fatti non convince i genitori della morta. Secondo loro, la figlia non aveva motivi per uccidersi e non ci sono prove di un litigio col fidanzato. Ad alimentare ulteriori dubbi è la posizione in cui vengono trovati gli strumenti del suicidio: difficile pensare che, dopo aver ingerito veleno ed essersi tagliata la gola, Emma abbia avuto il tempo di chiudere la boccetta, poggiare il rasoio sul comodino e poi tornare al centro della stanza. I De Ventura chiedono di riaprire le indagini, ma l’autopsia conferma la tesi di un gesto estremo: nello stomaco della 19enne vengono trovate tracce di tintura di iodio. 

Carolina Finazzer, la seconda vittima

La donna del lago

Dopo la morte di Emma, sospetti e pettegolezzi sulla potente e temuta famiglia Da Tos serpeggiano per giorni tra gli abitanti di Alleghe. Con l’arrivo dell’estate e dei turisti, però, la vita sembra tornare alla normalità. Il successivo 25 novembre Aldo Da Tos, proprietario della macelleria del paese, sposa Carolina Finazzer, una 25enne di un paese vicino. I due partono per il viaggio di nozze, che però viene interrotto improvvisamente dopo appena una settimana. Al suo ritorno, Carolina appare turbata. Telefona alla madre, chiedendole di passare a prenderla il prima possibile. Non vuole rimanere lì, e deve dirle una cosa importante. Il giorno successivo, il 4 dicembre, due ragazzini stanno pattinando sul lago ghiacciato. Ad un certo punto, notano qualcosa galleggiare tra due barche ormeggiate in una zona libera dal ghiaccio. Sembra la carcassa di un animale. Incuriosito, il più piccolo si avvicina. Un brivido lo coglie: è un corpo umano. Il volto di una ragazza affiora dalle acque del lago. È Carolina Finazzer. Sul posto accorrono, di nuovo, i Da Tos e le autorità locali. Aldo Da Tos non appare troppo sorpreso dalla morte della sposa. Soffriva di sonnambulismo, dice ai presenti, e doveva essere caduta nel lago quella notte, durante uno dei suoi attacchi. La spiegazione soddisfa le forze dell’ordine. Ulteriori analisi riveleranno l’assenza di acqua nello stomaco della 25enne e la presenza diversi ematomi sul collo, ma non parte alcuna indagine. Quei segni, spiega il medico, sono i primi effetti della decomposizione. Eppure, il corpo ha passato le poche ore tra il decesso e il suo ritrovamento nell’acqua gelata. C’è chi mormora, ma anche questa volta nessuno osa contestare la versione ufficiale dei fatti. Tutto ricade nell’oblio. 

I coniugi Del Monego, terza e quarta vittima

Due spari nella notte

Passano tredici anni. La notte del 17 novembre 1946, i coniugi Luigi e Luigia Del Monego, gestori dello spaccio Enal e della panetteria di Alleghe, stanno tornando a casa dal lavoro. Imboccano, come d’abitudine, il vicolo La Voi. Quella notte, la stradina è avvolta da un’inconsueta oscurità: uno dei lampioni è in frantumi sul selciato. Improvvisamente, il silenzio è rotto da due colpi d’arma da fuoco. Nessuno si allarma. Nel primo dopoguerra giravano molte armi, non era raro che i ragazzini sparassero per gioco in aria, anche di notte. I corpi dei Del Monego vengono ritrovati alle sei del mattino dal fruttivendolo Angelo De Toffol. Le forze dell’ordine pensano a una rapina finita male: dalla borsa di Luigia è stato sottratto l’incasso della sera precedente. Del fatto viene accusato un criminale già in fuga dalla giustizia, Luigi Verocai. Arrestato, viene però dichiarato innocente nel 1949. 

Sergio Saviane nel 1998

Un’inchiesta giornalistica

Il giorno dopo il doppio delitto, la notizia della morte dei Del Monego arriva al 23enne Sergio Saviane. Rimane turbato. Lui è di Castelfranco Veneto e ad Alleghe ci ha passato molte estati. Conosceva tutti in paese, compresa la coppia. Gli tornano in mente le serate passate a bere con Luigi e, in particolare, alcuni commenti che l’uomo, dopo molti bicchieri, faceva talvolta sulla «coscienza sporca» dei proprietari dell’Albergo Centrale. Che la morte dei Del Monego sia legata a questo dettaglio? Questo interrogativo gli rimane in testa. Saviane, all’epoca, è un aspirante giornalista. Alcuni anni dopo, quando viene assunto settimanale romano «Il lavoro illustrato», propone al caporedattore di approfondire quella storia. Così, il 27 marzo 1952, torna ad Alleghe per indagare. Fa domande a tutti, ma riceve solo risposte evasive. Solo due persone, a mezza voce, lo spronano ad andare fino in fondo: la sorella di Luigi Del Monego, Annetta, e il barbiere del paese, Cecchine. «Qui regna il terrore, devi agire con cautela. Scrivi tutto», gli dice quest’ultimo. Il 20 aprile Saviane pubblica un articolo intitolato «La Montelepre del nord». Quel soprannome non è suo: in quel modo sono soliti riferirsi ad Alleghe gli abitanti del Bellunese, col nome del paesino siciliano in cui operò il bandito Giuliano. Nel pezzo suggerisce che la morte dei Del Monego sia legata a quelle di Emma De Ventura e Carolina Finazzer, e che siano tutti omicidi commessi dalla stessa mano. Le reazioni non tardano ad arrivare. «Tutti i giornali del Veneto e alcuni di Roma mi accusarono di aver offeso il buon nome di Alleghe», racconterà anni dopo Saviane. Pur non essendo mai stati citati, Aldo e Fiore Da Tos querelano il giornalista, che viene condannato a otto mesi di carcere con la condizionale e al pagamento di 700mila lire.

Un’indagine sotto copertura

Tra le persone che leggono l’articolo c’è un giovane vicebrigadiere dei carabinieri, Ezio Cesca. Anche lui, di stanza nella vicina Auronzo, aveva sentito dei tifosi locali parlare di Alleghe come della Montelepre del nord. Inizia a indagare e trova i primi riscontri delle tesi di Saviane. Nei paesi della vallata più di una persona gli dice che, in confidenza, Luigia Del Monego sosteneva di aver visto «cose terribili» la sera della morte di Carolina Finazzer. Così, nel 1956, chiede e ottiene dal suo superiore il permesso di riaprire il caso. Va ad Alleghe sotto copertura per alcuni anni, fingendosi un ragazzo in cerca di lavoro. Solo pochi fidati complici sanno chi sia davvero. Le sue ricerche lo portano presto a individuare due persone che potrebbero sapere qualcosa: Giuseppe Gasperin, un amico dei Da Tos noto in paese come «Bepin Boa», e Corona Valt, un’anziana che abita nel vicolo La Voi, dove sono stati uccisi i Del Monego. Per arrivare alla donna, di carattere molto schivo, Cesca inizia a corteggiare la sua figlioccia. I due si fidanzano e arrivano fino alla proposta di matrimonio. Così, il carabiniere ha l’opportunità di frequentare casa Valt e conquistare la fiducia della vecchia Corona. Una sera, finalmente, gli rivela quel che aveva visto la notte del 17 novembre 1946. «Fui svegliata dagli spari. Mi avvicinai alla finestra e vidi tre persone, una delle quali era sicuramente Giuseppe Gasperin». In un’altra occasione, l’anziana aggiungerà: «Se parlo, mi fanno fuori». Per spingere Gasperin a confessare, Cesca escogita un trucco: gli offre da bere e gli rivela di avere un conto da regolare per cui servono uomini capaci a sparare. L’uomo, annebbiato dall’alcol, si vanta di aver già fatto cose del genere in passato. È la confessione che il militare aspettava. Il giorno dopo, con una scusa, lo fa convocare in caserma e lo arresta, rivelando la sua identità. Durante l’interrogatorio, dopo un maldestro tentativo di depistare le indagini, Gasperin fa i nomi di Aldo Da Tos e Pietro De Biasio. Anche loro vengono arrestati, seguiti dopo alcuni mesi da Adelina. Fiore Da Tos ed Elvira Riva, citati nelle confessioni, sono intanto morti di vecchiaia.

La soluzione del mistero

Dai resoconti dei quattro imputati emerge una storia che sembra uscita dalla penna di Agatha Christie. Adelina ammette di aver ucciso Emma De Ventura con un solo colpo di rasoio, inscenando poi un finto suicidio. Aveva una relazione col marito Pietro, dice agli inquirenti. Tutta la famiglia Da Tos era stata complice di quella messinscena. Aldo, da sempre il meno scaltro del gruppo, era rimasto scosso dalla morte della cameriera, di cui era infatuato. Per distrarlo, il padre gli aveva combinato, nel giro di pochi mesi, un matrimonio lampo con Carolina Finazzer. Durante la luna di miele, però, Aldo aveva incautamente rivelato alla sposa quel terribile segreto di famiglia. Carolina, scossa, aveva chiesto di interrompere il viaggio. Tornata col marito ad Alleghe, dava l’idea di voler dire tutto alla madre. Bisognava chiuderle la bocca in fretta. La sua sorte era stata decisa nel giro di poche ore, in un concilio di famiglia. Dopo cena, la ragazza era stata raggiunta in camera e strangolata dai Da Tos. Anche nel suo caso, era poi stato architettato un falso suicidio. C’era stato però un intoppo. Quella notte, mentre stava trasportando il corpo di Carolina al lago, Aldo era stato visto da due fidanzati che rientravano a casa da una festa: Luigi e Luigia Del Monego. Per anni, la coppia non aveva detto nulla per paura di ritorsioni. Dopo la fine della guerra, erano però iniziate le prime timide confidenze ai conoscenti. Una di queste, Luigi l'aveva fatta a un giovane impiegato dello spaccio Enal, Giuseppe Gasperin, che aveva rivelato tutto ai Da Tos. All’agguato del 17 novembre avevano preso parte, oltre a Gasperin, Aldo Da Tos e Pietro De Biasio. L’8 giugno 1960, i giudici condannano Gasperin a trent’anni di carcere e i fratelli Da Tos e De Biasio all’ergastolo. Le sentenze saranno confermate in tutti i gradi di giudizio. 

Il vicolo La Voi, dove furono uccisi i coniugi Del Monego

Un quinto omicidio?

Qualche interrogativo, nonostante tutto, rimane. Durante il processo, tiene banco più volte l’ipotesi che a quella catena di omicidi manchi qualche anello. Durante i suoi anni in incognito, Ezio Cesca aveva appreso da alcuni alleghesi una curiosa spiegazione sul movente dell’omicidio di Emma De Ventura. La cameriera non sarebbe stata uccisa per gelosia, ma perché, pochi giorni prima della sua morte, sarebbe venuta a sapere dell’esistenza di un figlio illegittimo di Elvira Riva, presentatosi al «Centrale» per ottenere la sua parte di eredità e fatto sparire dai Da Tos. Ad alimentare il sospetto, ci sarebbe il modo in cui si interrompe la lettera lasciata incompiuta da De Ventura: «Vidi arrivare una macchina che si fermò un momento e io conobbi subito che era…». Nonostante i tanti dettagli emersi e le ricerche degli inquirenti, l’esistenza di questa persona non è mai stata dimostrata. La storia degli omicidi e del processo è stata raccontata da Saviane in un libro, «I misteri di Alleghe», pubblicato nel 1964. Una rilettura alternativa degli atti giudiziari, che contesta le conclusioni di Saviane e mette in dubbio la responsabilità dei Da Tos, è stata avanzata nel 2008 nel volume «I delitti di Alleghe: le verità oscurate» di Toni Sirena. Secondo l’autore, che ha studiato le carte e i resoconti dell’epoca, la famiglia del «Centrale» sarebbe stata vittima di un clamoroso errore giudiziario, dettato anche dalla grande distanza temporale tra i fatti e l’inizio del processo. Le morti del 1933 non sarebbero, secondo Sirena, degli omicidi, e il duplice delitto del 1946, slegato dagli avvenimenti precedenti, sarebbe quindi stato compiuto da un’altra mano. Al di là di alcune zone d’ombra, oggi come allora Alleghe resta una placida e amata meta turistica. Sulle domande senza risposta e le leggende prevale il suo eterno presente di bellezza, sopravvissuto incolume a una storia drammatica e ai tanti fantasmi che, da quel 9 maggio 1933, hanno cominciato a emergere dalle acque del suo lago.

I MISTERIOSI OMICIDI DI ALLEGHE.

Gaia Vetrano il 15 Aprile 2023 su nxwss.com

Miei cari lettori, se fino a oggi vi abbiamo raccontato perlopiù di casi celebri, oggi vi portiamo ad Alleghe, nel cuore delle Dolomiti Bellunesi.

Non è certo facile scrivere un romanzo giallo che risulti accattivante. In ogni storia che si rispetti, il luogo dove si verifica la vicenda rimane marchiato da un omicidio eclatante. Il caso che vi raccontiamo oggi ha tutti gli elementi necessari: un’ambientazione suggestiva e inquietante legata alla storia e come protagonisti personaggi eroici e tragici. Personalità scolpite nelle colline bellunesi.  

Una cittadina atipica, fatta di silenzi immortalati nella gelida atmosfera. Una località turistica di montagna, un contesto naturale unico. Cupa, per chi non è abituato a luoghi del genere ma al caos metropolitano.

D’altro canto, poche cose in Europa hanno la bellezza delle Dolomiti, da poco Patrimonio Unesco. Queste perle rocciose attraversano più regioni: Veneto, Friuli e Trentino Alto-Adige. Alle pendici di queste si adagiano poi delle immense distese di acqua. Scenari da sogno.

Alleghe si erge ai piedi del monte Civetta, che d’inverno si tinge di bianco, ed è bagnata dall’acque di un enorme lago. C’è chi qui ci va in bicicletta. Entra nei bar, nelle osterie, e sente parlare solo del campanile sommerso. Oppure dei delitti che, tra gli anni 30’ e 60’ si sono verificati davanti a queste coste. 

Per chi vive ad Alleghe in questi anni, il rintocco della campana non è un suono qualsiasi, ma quello del richiamo di una presenza ancora più potente e spaventosa, quella della Morte.

Il lago di Alleghe nasce nel 1771 in seguito a una frana che ha ostruito il corso del torrente Cordevole. Con il freddo pungente si trasforma in un enorme lastra di ghiaccio, su cui i più piccoli si divertono a pattinare, mentre i più coraggiosi preferiscono andare a sciare.

Tra una cioccolata calda sorseggiata davanti al camino, le pagine di giornale riportano parole agghiaccianti. Per gli abitanti di Alleghe il freddo pervade le loro vite. Non a causa delle basse temperature, ma per la paura.

Quello del campanile sommerso dal lago è un suono che non si può sentire, ma lo si può immaginare. Nessuno sa chi sia il colpevole della morte di cinque diverse persone nella cittadina. Eppure, sembrano essere collegati. Un killer si muove per le strade. Nessuno è al sicuro.

Tutto ha inizio da una banale bottiglietta di tintura di iodio. Da una mattina di sole e di preparativi in vista dell’estate. Da una giornata qualsiasi per chi vive tra le montagne. Vedete, la storia che vi racconteremo oggi ha diversi protagonisti. Alleghe è solo la cornice: al suo interno seguiremo le indagini di un semplice brigadiere dei carabinieri, Ezio Cesca, in servizio ad Auronzo, tra le montagne.

Il caso di cui si interessa si trasforma in una vera ossessione. I pezzi non tornano, qualcosa ad Alleghe non va. 

Incominciamo dal nostro prologo: è l’8 maggio 1933.

La nostra storia parte da una giovane di 20 anni. Immaginatevela seduta a un tavolo: davanti a lei c’è una lettera. Il mittente è il suo fidanzato e la missiva è un po’ sgrammaticata. Ma ha anche un tono preoccupato. Le ultime parole lasciano infatti un po’ di domande.

«Mentre guardavo dalla finestra vidi arrivare una macchina. Si fermò un momento e io conobbi subito che si trattava di…»

La lettera si interrompe qui, così il nostro prologo. Facciamo ora un salto di un paio di ore: è il 9 maggio 1933.

Al centro di Alleghe vi è un albergo: l’Albergo Centrale. Questo è di proprietà della famiglia Da Tos. Qui si trovano tutti i personaggi principali della nostra storia: Emma de Ventura, la domestica; Adelina Da Tos, la figlia dei proprietari; Pietro De Biasi, il marito di questa; Fiore Da Tos, il patriarca della famiglia; Elvira, sua moglie; Aldo, il figlio minore e proprietario della macelleria di famiglia.

È da quell’albergo che all’improvviso la tranquillità della famiglia Da Tos viene distrutta, così come quella di Alleghe. Sono le 11:30 quando Adelina, la figlia del proprietario, scende le scale turbata incomincia a gridare, affacciandosi verso la piazza. I clienti e l’intero staff sono preoccupati e si chiedono cosa sia successo.

Quando i dipendenti e l’intera famiglia salgono al piano di sopra, trova nella camera numero sei dei piani centrali, immersa nel buio, un corpo riverso a terra. Accesa la luce lo spettacolo è raccapricciante.

È una donna, e indossa la divisa delle cameriere dell’hotel. Il grembiule, un tempo bianco, è ora sporco di sangue. Così come la moquette. La mano sinistra è piegata sotto la vita, l’altra accanto al busto.

Quello è un volto familiare. Quelli non sono i capelli, i lineamenti, le labbra, gli occhi di una sconosciuta. No, riversa per terra, con la gola squarciata da un rasoio, c’è Emma, la cameriera. L’autrice della lettera di cui vi raccontavamo poco prima.

Chissà cosa vide Emma da quella finestra. Lei non ce lo dirà mai.

Capitolo 1. L’amore tormentato di Emma

Sul posto arrivano i carabinieri, il medico e anche le autorità del luogo. Naturalmente, l’ipotesi che venne subito posta è quella del suicidio. Una bottiglietta di tintura di iodio desta subito i sospetti degli inquirenti. Il volto di Emma ne è cosparso.

Infine il rasoio, con cui la giovane avrebbe posto fine alle sue sofferenze. Ingerita la tintura, non sopportando il dolore, avrebbe deciso di tagliarsi la gola. Un suicidio che continua a destare sospetti.

Qualcuno fa notare come la bottiglietta sia ancora chiusa e riposta su una mensola. Mentre il rasoio è appoggiato su un comodino, ad almeno sei passi dal cadavere. Come se qualcuno lo avesse riposto lì.

Cosa ha fatto la povera Emma? Plausibile che si sia tagliata la gola e poi abbia posato l’arma al suo posto. Un po’ improbabile. Ma poi, perché suicidarsi? Per l’amore che prova nei confronti del suo fidanzato, un camionista di Caprile. La mattina prima questo era passato da Alleghe ma non si era neppure fermato da casa.

Per altri, alcuni testimoni, Emma quella mattina era tranquillissima. Nessuno si sarebbe aspettato un tale gesto. Tra questi anche un barbiere che lavorava in una baracca di legno di fronte l’albergo. Insieme ai suoi clienti, la mattina del 9 maggio la sentono addirittura cantare. Allegra e tranquilla li saluta dalla terrazza dell’albergo.

Per i carabinieri e le autorità questo non importa: suicidio. Eppure, non è l’amore tormentato di Emma a preoccupare i cittadini di Alleghe.

Capitolo 2. Carolina la “sonnambula”

Il 4 dicembre 1933 il lago di Alleghe è illuminato dal Sole. Fa freddo, ma all’aperto c’è quel calore sufficiente per poter girare per la cittadina senza congelare. Il cielo è terso: non ci sono nuvole all’orizzonte ma solo la cima e la funivia del monte Civetta.

Gli alleghesi, operosi e frenetici, già la mattina si occupano di tagliare la legna o di spargere il sale sull’asfalto dopo l’ennesima nevicata. Nei pressi della riva del lago, soprattutto, la messa in sicurezza è complicata.

Vicino all’imbarcadero sul lago c’è tanto via vai. Tra chi spala la neve, chi si occupa di sistemare le attrezzature di sicurezza per salire sul lago per quando, a causa del freddo, si formerà il ghiaccio.

Poi, un urlo squarcia il silenzio e la quieta di Alleghe.

«Aiuto! C’è una donna nel lago!»

La figura è una persona nota. Tutti la conoscono perché, d’altro canto, ci saranno più o meno mille abitati. Sulla riva del lago, accanto al piccolo molo, si radunano tutti i passanti.

La giovane indossa una camicia da notte leggera, con i bordi ricamati. Una massa di capelli neri le copre il viso, ma appena viene ripescata, la sua identità è chiara a tutti: è Carolina Finazzer. Figlia di una famiglia agiata, la nuova compagna del figlio del macellaio del paese, il rispettabile Aldo Da Tos.

I due erano appena tornati dalla luna di miele, esattamente il giorno dopo e, per coloro che si ritrovano davanti al molo, fa impressione vedere la ragazza in questo stato. La pelle, prima bianca, ora è gonfia, piena di vesciche dal colore violaceo e ispessita. Le dita sono rossastre.

Nuovamente arrivano gli inquirenti. Nuovamente l’ipotesi che prende corpo è quella del suicidio. Carolina era depressa: quella notte si era quindi voluta allontanare dalla camera dove alloggiava con il marito e si era gettata nel lago. Forse non era neppure cosciente, perché vittima di sonnambulismo.

Secondo, infatti, le voci che circolavano, Aldo e Carolina erano tornati dalla luna di miele prima del previsto, e lei aveva recentemente chiamato la madre chiedendole di venirla a prendere ad Alleghe.

Eppure, quel suicidio è strano. Quando il corpo di Carolina viene esposto per il funerale, qualcuno nota delle macchie rosse sul collo della giovane. Sembrano delle dita, che già qualcuno aveva notato durante l’autopsia. Per il medico legale sono solamente dei segni dovuti alla putrefazione.

Qualcuno si oppone a questa versione. Infondo Carolina è stata trovata poche ore dopo il suo omicidio. Per le condizioni con cui è stata trovata, immersa nell’acqua fredda e coperta da uno strato di ghiaccio, è difficile pensare a una possibile putrefazione del corpo.

Nuovamente, il caso viene archiviato come suicidio. E se Caterina nel lago ci sia stata spinta?

Capitolo 3. La condanna del giusto

Passano gli anni, almeno tredici. Di Emma e Carolina non si parla da un po’.

Ad Alleghe è tornata la routine quotidiana. La tragedia collettiva della Seconda Guerra Mondiale fa passare in secondo piano i misteriosi suicidi che si sono verificati in quegli anni.

Arriviamo al 18 novembre 1946. In piena notte, i coniugi Del Monego, Luigi e Luigia, detti rispettivamente “Gigio” e la “Balena” – a causa della sua stazza – stanno tornando a casa. Tira vento e i due non vedono l’ora di rientrare Insieme si sentono al sicuro. Conoscono bene le strade di Alleghe e amano la loro cittadina.

Assieme gestiscono uno spaccio ENAL, ossia l’Ente Nazionale Assistenza Lavoratori, che in tempi difficili come quelli del Dopoguerra offre intrattenimento e spacci alimentari per i lavoratori del luogo. Questo è anche un luogo di ritrovo, dove si beve e si chiacchiera.

Assieme hanno l’incasso: 100mila lire, che non sono poche per il tempo. Entrati nel vicolo La Voi compare davanti a loro un’ombra. I due si fermano, hanno capito cosa sta succedendo. Per diversi secondi nessuno dice niente. I due coniugi si stringono la mano e chiudono gli occhi.

Poi, la figura davanti a loro solleva la pistola. I coniugi vengono uccisi a sangue freddo. Il giorno dopo giacciono a terra. Le 100 mila lire sparite.

Luigi Verocai, un latitante evaso dal carcere prima della condanna in contumacia per un altro omicidio, viene individuato come sospettato, ma si rivela subito innocente.

Anche qui per gli inquirenti non c’è alcun dubbio: omicidio con scopo di rapina. Di questi tempi è normale. Ennesimo caso archiviato. Eppure, per molti sembrerebbe più un agguato.

Due suicidi e un omicidio: i misteri di Alleghe continuano a intricarsi ma un personaggio nuovo sta per introdursi.

Nel 1953 il giornalista Sergio Saviane di Castelfranco Veneto scrive un articolo riguardo i misteri di Alleghe, luogo che frequenta a partire degli anni 30’. Vecchio amico proprio di Gigio e Gigia che, prima di morire, gli raccontarono del campanile e delle storie di Emma e Caterina. Con i due aveva un grande rapporto.

Ciò che Luigi ripeteva spesso era che qualcuno, ad Alleghe, avesse la coscienza sporca. Non volle mai dire chi.

A partire già dalla morte della prima, Saviane si mostra incuriosito. Accumula testimonianze e fa domande, capendo come le morti degli anni Trenta siano collegate. Ascolta le chiacchiere della gente e si rende conto di come, sotto sotto, nessuno creda alle ipotesi di suicidio. Piuttosto, qualcuno parla di omicidio.

Sergio Saviane è ancoraun giovane che sogna di diventare giornalista. A Roma lavora per il Settimanale Illustrato, per cui decide di condurre un’inchiesta approfondita. Gli alleghesi mostrano omertà. Si sentono incalzati. Parla con i Da Tos, che preferiscono non proferire alcuna parola.

Nel 1952 appare il suo primo articolo: “La Montelepre del Nord”. Paragona Alleghe alla Montelepre siciliana del bandito Giuliano, ricca di omertà. Saviane mette su carta tutti i sospetti che aveva riguardo i quattro omicidi. Per Sergio i quattro omicidi sono collegati.

Per gli abitanti del posto è un tradimento, ma Sergio non si ferma. Così viene addirittura querelato da alcuni cittadini, compresi i Da Tos. Il processo per lui va male: alcuni dei suoi testimoni non si presentano, altri parleranno contro di lui. Per gli alleghesi, Saviane ha raccontato solo bugie.

Il giudice lo condanna per diffamazione con mezzo stampa. Rimarrà otto mesi in carcere.

Capitolo 4. Il curioso Cesca

Saviane è un ciarlatano. Sui misteri di Alleghe torna il silenzio.

Eppure, sta ora per entrare in scena un altro personaggio. Curioso e ostinato, che davvero sembra uscito da un romano. parliamo di Ezio Cesca. Di un giovane brigadiere dei Carabinieri in servizio presso Auronzo. Brillante e intuitivo, ma soprattutto disposto ad ascoltare e a sapere di più riguardo i quattro delitti di Alleghe. 

Cesca ha letto dell’articolo di Saviane, e vuole ora provare che sì, vi è un collegamento. Così ne parla con il suo superiore, il maresciallo Domenico Uda, e ottiene da questo il permesso di cominciare un’indagine. Per questo, si trasferisce nella cittadina.

È un forestiero disposto a tutto per sbrogliare la matassa. Quindi finge di essere un giovane di passaggio e si fa assumere come operaio.

La sera frequenta le osterie del luogo. Ascolta delle leggende che si raccontano in giro e ogni tanto pone domande. La sua è un’indagine informativa ad ampio raggio.

Così, salta fuori che i del Monego sarebbero stati uccisi per qualcosa che avevano visto. Che Elvira da Tos, in punto di morte, avrebbe continuato a ripetere che la sua famiglia nascondesse qualcosa. Esce fuori un nome: Giuseppe Gasperin.

Il metodo di indagine di Cesca è rischioso e richiede tempo. Fino a che non riesce a diventare amico di Gasperin. Bevono ed escono assieme. Ezio riesce a ottenere la sua fiducia a tal punto che gli confida che in vicolo La Voi abita un’anziana che sa qualcosa riguardo la morte dei del Monego.

Questa si chiama Corona Valt. Come fare però a farla parlare? Per ottenere le confidenze Cesca arriva al punto di fidanzarsi con la nipote. Costruisce una sua vita parallela ad Alleghe, riuscendo a conquistare l’amore della signora Volt, che lo tratta come un parente. La donna gli confida che la notte in cui furono assassinati Gigio e Gigia c’erano tre persone nel vicolo.

Due sono scappate nei campi e di questi non si sa niente. La terza è passata dalla sua finestra: è proprio Giuseppe Gasperin.

Cesca ha la conferma che questo c’entra in questa storia. Così, Ezio gli dice di avere per le mani un lavoretto losco che potrebbe fruttare una bella cifra. Serve gente che abbia già sparato. Giuseppe abbocca: accetta subito il lavoro, affermando di aver già usato una pistola, e di aver ucciso.

Ezio rivela a quel punto la sua vera identità, e dall’interrogatorio di Gasperin escono fuori tutti i nomi dei colpevoli dei delitti. Pochi giorni dopo le camionette dei carabinieri arrivano ad Alleghe.

Pietro de Biasio e Aldo Da Tos sono i primi arrestati per i misteri di Alleghe. Nel giro di pochi mesi finirà con loro anche Adelina.

I fatti cominciano a chiarirsi.

Quel 9 maggio 1933 è stata Adelina Da Tos a uccidere Emma.

Per gelosia, dice la da Tos durante gli interrogatori. Eppure, gli inquirenti sostengono sia perchè la cameriera ha visto qualcosa di strano. Per Cesca addirittura sarebbe stato Fiore Da Tos a ordirnare il delitto.

Il suicidio sarebbe stato inscenato. Tutta la famiglia era d’accordo sul mantenere il segreto, ma Aldo Da Tos non la pensava allo stesso modo. Tra tutti era il più debole ed ingenuo. Inoltre, era anche innamorato di Emma.

Così, i familiari decidono di dargli moglie. Fiore contatta una famiglia ricca della città, e combina il matrimonio con Carolina.

I due vanno a Roma. Insieme si sentono in sintonia. A tal punto che Aldo, considerandola ormai parte della famiglia, le racconta dell’omicidio di Emma. Carolina, scioccata dal racconto, chiede di ritornare ad Alleghe, dove chiamala madre supplicandola di tornare a casa.

Davanti ai membri dei Da Tos fa finta di niente, ma ciò non basta. Fiore ha già capito, sa che non starà in silenzio riguardo la storia di Emma. Per questo, sanno che devono ucciderla. All’esecuzione, questa volta, dovrà partecipare anche Aldo.

Quest’ultimo con l’aiuto di Fiore, Pietro e Adelina. Quando la coppia di sposini rientrerà in camera, gli altri membri della famiglia saranno dietro l’angolo, pronti ad aiutare Aldo durante l’agguato. Dopodiché gettano il suo corpo nel lago.

Qualcuno però li vede mentre camminano con il cadavere di Carolina sulla spalla: sono Gigio e Gigia Del Monego. Tredici anni dopo vengono uccisi, forse perchè avevano deciso di raccontare la verità. Eppure, dal vicolo usciranno vivi solo i tre assassini: Gasperin, Pietro e Aldo.

Saviane aveva ragine. Il processo si tiene nel 1960. L’8 giugno condannano a trent’anni Giuseppe Gasperin, all’ergastolo i membri della famiglia Da Tos.

Eppure, rimane un dubbio: per quale motivo vienne uccisa Emma. Cosa aveva visto? Realmente per gelosia?

C’è un altro dubbio. Fiore Da Tos, prima di conoscere Elvira, era solo un comune bracciante. I due si innamorano e si sposano, nonstante lei sia incinta di un altro uomo. Quando viene il momento, abbandonano il figlio a Milano. Giovanni, per Fiore, è solo un bastardo a cui sono anche costretti a pagare il mantenimento.

Due testimoni raccontarono di aver visto qualcosa di terribile dentro la macelleria di Aldo, poco prima che Emma morisse. Nello specifico una cesta piena di carne, dove si intravedeva una mano. Di chi poteva essere? Forse di Giovanni, figlio illegittimo di Elvira venuto a reclamare una parte della sua eredità?

Riguardo questi dubbi non sapremo mai nulla.

La storia dei misteri di Alleghe è stata raccontata da Saviane in un libro. Oggi l’Albergo Centrale esiste ancora. Dalle sue camere si può sentire, ogni tanto, il rintocco delle campane.

Scritto da Gaia Vetrano 

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Ghira, Guido e Izzo: dove sono oggi i killer del Circeo. Le evasioni, l'odio per Colasanti: «Farà la fine della Lopez...» Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera martedì 28 novembre 2023.

Stasera su Rai 1 gli ultimi episodi della serie tv Circeo. Che fine hanno fatto i tre protagonisti del massacro: uno è sepolto in Marocco (forse), l'altro ha ucciso di nuovo, il terzo finì ad allevare polli a Panama

L'Italia oggi si commuove e s'indigna sul tema femminicidi, emergenza più che mai attuale, ma scolpito nella memoria di tutti è rimasto il ricordo dei tre «signorini» della Roma bene, i «bravi ragazzi» che s'insanguinavano le mani di crimini orrendi e nella pausa tra uno stupro e l'altro correvano a casa per cenare con mamma e papà. Andrea Ghira, Gianni Guido e Angelo Izzo: nel 1975 torturarono e stuprarono per 36 ore Rosaria Lopez e Donatella Colasanti. Poi, credendole entrambe morte, caricarono i corpi nel bagagliaio di una Fiat 127, convinti di farla franca. Rosaria Lopez, annegata nella vasca da bagno, non era sopravvissuta alle sevizie, mentre Donatella Colasanti si salvò miracolosamente, fingendosi morta anche lei.

La storia rivive nella serie tv «Circeo»

La serie tv Circeo, in prima serata su Rai 1 martedì 28 novembre con gli ultimi episodi, ricostruisce la storia del massacro e dei processi che ne seguirono. Che fine hanno fatto Ghira, Guido e Izzo? Quello contro i tre aguzzini fu  un processo storico, che si concluse con una condanna esemplare, tra gli applausi delle femministe. Ma è stata anche la storia successiva - le coperture dei colpevoli, le evasioni, le revisioni della pena sollecitate da congrui assegni, i permessi premio ingiustificati - a fare di quelle 36 ore di disumana violenza l'episodio di cronaca più sconvolgente del secondo dopoguerra.  

Ghira subito in fuga 

Che fosse un crimine premeditato lo si capì fin da subito: la stessa sera del 30 settembre 1975 in cui i gemiti di Donatella Colasanti nel baule della 127 parcheggiata in viale Pola portarono l'orrore nelle case di tutti gli italiani, uno del terzetto mancò all'appello. Mentre i carabinieri trascinavano Izzo e Guido in ospedale per il faccia a faccia con la sopravvissuta, il capo della banda cresciuto in un delirio di agi e onnipotenza, quell'Andrea Ghira che citava Nietzsche per nobilitare i suoi impulsi efferati e si dichiarava seguace del boss dei marsigliesi, Jacques Berenguer, stava già stipando i vestiti in valigia. 

«La stronzetta farà una brutta fine»

Direzione: Spagna. Dove di lì a poco, grazie ai pregressi contatti legati alla militanza nell'estrema destra, si sarebbe arruolato nel Tercio, la legione straniera spagnola, sotto il falso nome di Massimo Testa de Andres. Il padre Aldo, imprenditore edile ed ex campione olimpico di pallanuoto, e la madre Cecilia («Il mio cuore di mamma non sente nulla», dichiarerà ai giornali), furono sospettati di averlo aiutato. Lui, di certo, non lavorava, ma di soldi ne maneggiava tantissimi. «Cari amici, non vi preoccupate per la mia latitanza - scrisse a Izzo e Guido in una lettera spedita quella notte, prima di sparire - ho circa 13 milioni di lire. Per quanto riguarda quella stronzetta, farà la fine della Lopez. State calmi e a presto».  

I precedenti dei massacratori

I coniugi Ghira non potevano dire di non aver avuto segnali: il 22enne ex allievo del liceo classico Giulio Cesare, teorizzatore del «male assoluto» come scorciatoia all'affermazione sociale, oltre a essere stato denunciato per lesioni, pestaggi e «adunanze sediziose», aveva scontato un paio d'anni di galera per una rapina a mano armata commessa nel 1973 in casa di un ingegnere. Con lui c'era Izzo, a sua volta condannato per lo stupro di due ragazzine, una delle quali, il 2 marzo 1974, costretta a un rapporto sessuale con la pistola puntata alla testa. 

Lo stesso Izzo che, anni dopo, sintetizzerà così a Franca Leosini la sua Weltanschauung: «Le donne per noi erano pezzi di carne, non persone». E che, in altre interviste, spiegherà: «Eravamo guerrieri. Rapinavamo, stupravamo, uccidevamo. Questa era la nostra mentalità. Unico vincolo: la nostra amicizia». 

Il solo incensurato, Gianni Guido, figlio di un alto funzionario di banca, cresciuto in una sontuosa villa al quartiere Trieste, nonostante la partecipazione attiva al massacro beneficiò dell'essere un tantino meno spietato, del trovarsi un gradino al di sotto nella Scala della malvagità, oltre che delle coperture che vedremo.

Il processo a Latina: tre ergastoli

E veniamo ai processi. Il dibattimento che andò in scena a partire dal 30 giugno 1976 davanti alla Corte d'assise di Latina, seguito con il cuore in gola da un'Italia ammirata dalla grinta dell'avvocata Tina Lagostena Bassi e dalla forza d'animo di Donatella, che ripeté minuto per minuto le torture patite, è finito nei libri di storia in quanto evento mediatico-giudiziario e insieme politico: i volti sprezzanti dei «bravi ragazzi», le manifestazioni delle femministe sempre presenti alle udienze, l'adesione di intellettuali e personalità di primo piano alla richiesta corale di giustizia posero le basi di un lungo percorso che vent'anni dopo, nel 1996, avrebbe finalmente portato alla legge sul riconoscimento della violenza sessuale come "crimine contro la persona" e non più "contro la morale". 

La sentenza di ergastolo a carico dei due imputati  presenti in aula (Izzo e Guido) e del terzo in contumacia (Ghira) fu pronunciata dal presidente della Corte il 26 luglio in un'aula stracolma, che piangeva lacrime di gioia. Da quel momento Donatella diventò la paladina dei diritti di tutte le donne. Ma per lei il tempo di nuove lacrime - di incredulità e sconforto - sarebbe giunto presto...

La prima evasione e l'appello 

Un'altra costante della saga criminale sono stati i secondini che fingevano di non vedere e le famiglie che brigavano per far uscire di galera i due rampolli, mentre il terzo si trovava in terra iberica. Guido e Izzo già nel gennaio 1977 tentarono l'evasione dal carcere di Latina: furono bloccati e in seguito ricevettero altri 4 anni di condanna. 

All'episodio non fu dato il dovuto peso. Tre anni dopo, il 28 ottobre 1980, al termine del processo d'appello, i giudici decisero di chiudere un'occhio sul meno impresentabile (o il più abbiente) dei tre: l'ergastolo venne confermato al latitante Ghira e all'allucinato Izzo, e fu ridotto a 30 anni a Guido, il «guerriero» che la sera del massacro si era preso una pausa, aveva fatto una volata a Roma per mettersi a tavola con i genitori e farsi servire la cotoletta dalla cameriera in livrea, e poi era tornato a Villa Maresca a seviziare, stuprare, uccidere. 

Guido fugge, le femministe insorgono

La sentenza di secondo grado suscitò sgomento nell'opinione pubblica: secondo le motivazioni dei giudici, Guido meritava le attenuanti in quanto  «si accostò al delitto per la prima volta», per aver scritto una lettera alla Corte nella quale manifestava «un certo pentimento» e per il risarcimento di 100 milioni di lire versato ai parenti di Rosaria (a Donatella ne furono offerti 45, ma lei rifiutò sdegnata). 

Passati tre mesi, però, il desiderio di espiare era già dissolto: il 25 gennaio 1981 Guido evase davvero dal carcere di San Gimignano - davanti al quale la mattina dopo le femministe innalzarono il cartello «Scappa Guido, scappa Ghira... Animo Izzo, basta la lira!» - e da quel momento (mentre i genitori venivano indagati per aver corrotto una guardia), iniziò la sua fuga nei Paesi amici: Argentina, dove fu arrestato e riuscì ancora a scappare, e Panama. 

Un'incredula Donatella, il 30 settembre 1983, giorno in cui la Cassazione confermò il verdetto d'appello, sbottò davanti ai cronisti: «Tutti sanno dove si trovino oggi Ghira e Guido, ma nessuno si preoccupa di fare qualcosa per acciuffarli. Che Paese è mai questo?»

L'Internazionale Nera e l'allevamento di polli

L'ombra di entità occulte, a metà strada tra il mondo criminale e l'eversione nera, ha rappresentato un altro snodo cruciale. L'Ansa il 28 maggio 1994 diede notizia dell'arresto di Guido a Chorrera, un centro agricolo a 30 chilometri da Panama, mentre «era con una donna». 

Catturato per il Circeo? No, peggio. L'indagine della questura di Milano e della Criminalpol, basata su intercettazioni telefoniche e sul pedinamento di alcuni sodali, era scaturita dall'inchiesta sulle stragi di piazza Fontana (1969) e di Brescia (1974) aperta dal giudice milanese Guido Salvini. L'antefatto era stata un'altra evasione dei «bravi ragazzi», stavolta di Izzo, non rientrato in carcere ad Alessandria dopo un permesso premio nell'agosto 1993. 

Ebbene, proprio partendo dagli accertamenti sul killer dagli «occhi a palla» la polizia era risalita a complicità nell'estrema destra, tali da delineare la presenza di un'«Internazionale nera» impegnata nella protezione dei latitanti, sul modello della famigerata «Odessa» che negli anni '40 aveva coperto la fuga di criminali nazisti. 

Sta di fatto che l'ergastolano Guido, prima dell'arresto e del ritorno nelle carceri italiane, a Panama se l'era cavata: sotto falso nome aveva messo su un grande allevamento di polli, nuova avventura imprenditoriale dopo il trasferimento dall'Argentina, dove per anni, con l'alias Andrea Mariani, aveva lavorato nel commercio di autovetture.

Ghira dalla zia a Lourdes

Meno bene, nel frattempo, era andata ad Andrea Ghira. Il capo dei pariolini inizialmente aveva trovato riparo in Francia, a Lourdes, da una zia che gestiva una struttura per persone disabili, e poi in un kibbutz  israeliano. Ma già dal giugno 1976, secondo i successivi riscontri, si era arruolato nella caserma del Tercio di Melilla, l'enclave spagnola in Marocco. 

La carriera nella legione straniera fu coronata dai gradi di caporalmaggiore, fino a che, nel 1993, venne espulso per possesso di stupefacenti e si ritrovò senza coperture. Il «guerriero» esaltato dal mito del superuomo morì per overdose l'anno seguente e fu sepolto, almeno ufficialmente, nel cimitero di Melilla: una tomba semplice, un rettangolo bianco con una croce nera, e il cartello con nome, grado e data di nascita, posticipata di un paio d'anni. 

Il mistero della morte di Ghira

Ma era davvero lui il «Berenguer» regista del martirio delle due «borgatare» nella villa di papà? La reale identità parve certificata dall'esame delle impronte digitali e dai rilievi del Dna svolti nel 1995,  anche se sia Donatella («Sono solo chiacchere per depistare») sia Letizia Lopez, la sorella («Strano: come mai il consolato di Spagna non ha avvisato l'Italia della morte di questo ragazzo?»), avanzarono il dubbio di una messinscena per regalare una seconda vita all'aguzzino. Il corpo era di un parente con un Dna compatibile? Negli anni seguenti Ghira o suoi sosia furono avvistati in Brasile, Kenya, Sudafrica, e persino a Roma, secondo una foto acquisita dai carabinieri, fino a trasformarlo in una figura evanescente, quasi leggendaria. 

Il bis criminale di Izzo 

Molto presente sulla scena criminale, invece, si mantenne Angelo Izzo, che da ragazzino smilzo e sessualmente complessato si era trasformato  in un omone sempre più spiritato. Dopo l'evasione del 1993 dalla quale era partita l'indagine sull'«Internazionale nera» e la sua cattura a Parigi, fu riportato in Italia e restò in galera 11 anni, aspettando l'occasione buona, che puntualmente arrivò. Nel 2005, beneficiato da un altro permesso, uscì dal carcere di Campobasso per lavorare in regime di semilibertà con una cooperativa, e ricambiò la cortesia. 

A suo modo, con un'altra mattanza. Il 28 aprile 2005 uccise moglie e figlia di Giovanni Maiorano, un pentito della Sacra corona unita che aveva conosciuto in carcere. Le due donne, Maria Carmela Linciano e la 14enne Valentina, furono legate, soffocate e sepolte da Izzo nel cortile di una villetta a Mirabello Sannitico, a dimostrazione che l'attitudine criminale non era minimamente mutata. Il bis criminale innescò una dura polemica tra i tribunali di sorveglianza di Campobasso e di Palermo, che si rimpallarono la paternità della decisione, e fu accolto da Letizia Lopez (qui una sua video-intervista) con sbigottimento e furore: «Cos'altro mai dovrà succedere perché le istituzioni di questo Paese si decidano a difenderci da chi ci ammazza?»

Che fine hanno fatto

Ci avviamo al termine di questo viaggio da incubo. Cosa fanno adesso i carnefici? Andrea Ghira giace e tace, ammesso sia davvero sepolto in Marocco o al contrario non sia tornato libero sotto mentite spoglie, novello Adriano Meis. Gianni Guido, dopo 14 anni di prigione senza evasioni e un affidamento in prova ai servizi sociali, con la Caritas, dal 25 agosto 2009 è tornato libero, scegliendo un profilo bassissimo: scansa i fotografi, non appare sui social, fa il pensionato di lusso probabilmente a Roma, in incognito. Chissà a quanti è capitato di averlo a fianco al bancone di un bar, davanti a un caffè, senza riconoscerlo. 

Resta Angelo Izzo con il suo fardello di tre donne morte ammazzate sulla schiena, che dal penitenziario di Velletri (Roma) dove sconta i due ergastoli vorrebbe far credere di essere cambiato, di appassionarsi alla scrittura, persino di essere capace «di innamorarsi». Se qualcuno gli dà ascolto, Izzo riparte con le sue pseudo-rivelazioni sui misteri d'Italia o sulla scomparsa della 17enne Rossella Corazzin (Cadore, 1975), e non rimpiange il fallimento del matrimonio-lampo (2010-2011) con la giornalista Donatella Papi («mi ha raccontato fatti gravissimi per la nostra Repubblica, ma non voglio farmi complice»), della quale inquieta anzitutto il reiterarsi del nome di battesimo. 

Il monito di Donatella e il parallelo con Giulia

Settembre 1975-novembre 2023: cos'è cambiato? Fa impressione pensare che Filippo Turetta, l'assassino di Giulia Cecchettin, abbia gli stessi 22 anni e la stessa faccia all'apparenza pulita che aveva nel 1975 Andrea Ghira, il regista del massacro del Circeo. Ghira, Guido e Izzo caricarono i corpi di Rosaria Lopez e Donatella Colasanti nel portabagagli della Fiat 127, Turetta ha sollevato da terra il corpo sanguinante di Giulia e l'ha infilato nel baule della sua Fiat Grande Punto. Nelle ore in cui l'Italia piange la vittima di un altro killer «che sembrava tanto gentile» e addirittura «dormiva abbracciato all'orsacchiotto», cuore e mente tornano quindi alla sopravvissuta di Villa Maresca. Donatella Colasanti morì il 30 dicembre 2005: un tumore al seno non le diede il tempo di assistere alla seconda condanna all'ergastolo di Izzo. «Battiamoci per la verità», furono le sue ultime parole. Una donna autentica e tenace, ironica, coraggiosa, che in queste settimane abbiamo imparato ad amare in tv, nei panni della bravissima attrice che l'ha riportata in vita mezzo secolo dopo, tragica icona di un'emergenza purtroppo ancora attuale. (fperonaci-rcs.it)

Circeo, la storia del massacro: le vittime, gli assassini della «Roma bene», il mistero su Andrea Ghira. «Come dormono bene queste...». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera martedì 14 novembre 2023.

Un crimine che sconvolse l'Italia e che questa sera rivive nella serie tv «Circeo» alle 21,30 su Rai1. Il 29 e 30 settembre 1975 Andrea Ghira, Gianni Guido e Angelo Izzo sequestrarono, violentarono e uccisero Rosaria Lopez. L'amica Donatella Colasanti si salvò fingendosi morta

«Come dormono bene queste!», «Zitti, a bordo ci sono due morte…» E giù risate. Agghiacciante. Per 36 ore consecutive le avevano massacrate a calci e pugni, drogate, torturate, trascinate con una cinghia al collo, stuprate, e ora si sganasciavano. Un cinismo misto a ferocia pari a quello dei peggiori criminali della storia, il killer dello Zodiaco, Jack lo Squartatore e tutti gli altri, con la differenza che loro erano "bravi ragazzi". È la storia orribile del massacro del Circeo. Il 29 e 30 settembre 1975 tre studenti, Andrea Ghira, Angelo Izzo e Gianni Guido, rapirono, violentarono e torturarono le giovani Rosaria Lopez e Donatella Colasanti. La prima morì, la seconda si salvò miracolosamente fingendosi morta. Erano i tempi del divorzio, dell'aborto, dell'emancipazione delle donne, quando il più aberrante dei delitti sconvolse l'Italia. 

I tre aguzzini 

La sera del 30 settembre 1975 una Fiat 127 bianca correva sulla Pontina, direzione Roma. A bordo tre ventenni cresciuti in zona Parioli e iscritti al liceo classico in un istituto cattolico, il San Leone Magno. Tre nomi destinati a diventare emblema del male, già noti per numerose scorribande delinquenziali e simpatizzanti di destra: Andrea Ghira, 22 anni, figlio di un imprenditore famoso in gioventù come campione di pallanuoto; Angelo Izzo, ventenne, iscritto a Medicina; Gianni Guido, diciannovenne, aspirante architetto. «Eravamo guerrieri, quindi stupravamo, rapinavamo, rubavamo. Questo era la mentalità che ci univa», dirà Izzo. Il terzetto stava rincasando dopo la mattanza: la musica dell'autoradio era al massimo, sulla colonna sonora de "L'esorcista", e le vittime le avevano stipate nel portapacchi, dopo averle ammazzate. Tutte e due, pensavano... E invece no: una s'era salvata fingendosi morta. Si chiamava Donatella Colasanti e aveva una cascata di capelli ricci, mentre l'amica Rosaria Lopez, viso tondo, angelicato, non aveva retto alle violenze, e ormai era un fagotto inerte, impacchettato in una coperta. 

Le vittime 

Eccolo, il primo femminicidio entrato nella memoria collettiva di un intero Paese, grazie alle immagini della tv in bianco e nero: il massacro del Circeo -  dal 14 novembre raccontato nella serie "Circeo", con Greta Scarano, in onda su Rai1 - ha segnato un'epoca e alimentato sentimenti diversi: rabbia, sdegno, desiderio di crescita civile. Fu un delitto di classe, innanzitutto. Generazioni di ragazze si sono identificate e commosse, pensando a loro. Amiche fin da bambine, abitanti alla Montagnola, quartiere popolare e impiegatizio di Roma Sud, Donatella Colasanti, 17 anni, studentessa, e Rosaria Lopez, di 19, barista, provenivano entrambe da famiglie semplici. Passavano insieme i pomeriggi. Leggevano fotoromanzi. Rosaria, ultima degli otto figli di un impiegato del catasto emigrato dalla Sicilia negli anni Cinquanta, sognava di fare cinema e aveva già assaporato il gusto della ribalta, partecipando a un provino, senza successo, per «Giulietta e Romeo» di Zeffirelli. Erano solari, ingenue.

La trappola davanti al cinema

I tre pariolini le avevano agganciate un paio di giorni prima al bar del «Fungo», il serbatoio-ristorante dell'Eur frequentato dalle comitive di teenager, e tra una Coca Cola e una battuta erano riusciti a strappare un appuntamento per lunedì 29 settembre, alle 15.30, davanti al cinema Ambassade della Montagnola. Si erano presentati solo Izzo e Guido, però. Armati delle peggiori intenzioni. In tasca avevano le chiavi della villa al mare di Ghira, che li avrebbe raggiunti dopo. «Che dite, ragazze, se invece del cinema andiamo a una festa a Lavinio? È più divertente...» avevano proposto, sfoderando il sorriso migliore. Donatella e Rosaria avevano accettato, non avevano motivi di sospetto. Parlando di Lavinio, ben più vicino a Roma del Circeo, i due avevano puntato a rassicurarle. Ed erano entrati in azione.  All'epoca non esistevano i cellulari. Durante il viaggio, Izzo si fermò per telefonare al fisso di Villa Moresca, per accertarsi che fosse vuota, che non ci fosse qualche domestica, e poi a Ghira, per dargli il via libera. «Forza, vieni anche tu! Noi siamo lì tra poco».

L'arrivo nella villa degli orrori

Le 18:30 del 29 settembre 1975. Dopo un'ora di macchina in cui continuarono a scherzare e fare i simpatici, l'incubo si materializzò non appena il duo Izzo-Guido aprì la porta della villa in località Punta Rossa, facendo strada a Rosaria e Donatella. Sarà proprio quest'ultima, al processo, a spiegare come gettarono la maschera: «I due si svelano subito e ci chiedono di fare l’amore, rifiutiamo, insistono e ci promettono un milione ciascuna. Rifiutiamo di nuovo. A questo punto Guido tira fuori una pistola e dice: ‘Siamo della banda dei Marsigliesi, quindi vi conviene obbedire, quando arriverà Jacques Berenguer non avrete scampo, lui è un duro, è quello che ha rapito il gioielliere Bulgari’. Capiamo di essere in trappola e scoppiamo a piangere…»

Trentasei ore di sevizie

Le violenze, descritte in ogni dettaglio negli atti giudiziari e nelle cronache dei giornali, lasceranno l'Italia sgomenta. Per 36 ore – sera del 29 settembre, tutta la notte, giornata successiva – i massacratori, diventati nel frattempo tre con l'arrivo di Ghira nei finti panni del capo dei marsigliesi,  non diedero scampo alle sventurate. Rosaria e Donatella continuavano a implorare di essere liberate, ma invece che indurli a pietà la loro disperazione faceva schizzare sangue dagli occhi. Le spogliarono, chiusero in bagno nude, sbeffeggiarono per le origini popolari, obbligarono ad assumere droga, seviziarono, stuprarono. «Ragazzi, vado a casa e torno...» Accadde anche questo, nel mezzo delle torture: Guido si assentò per non fare preoccupare i genitori, andò a Roma, cenò con loro - giudizioso come il figlio che tutti vorrebbero avere - e in tarda serata tornò al Circeo. Notte di orrori, l'alba, la mattina seguente. Fino a che Donatella riuscì ad afferrare il telefono per chiamare la polizia, e scattò la furia assassina: Rosaria fu affogata nella vasca da bagno; Donatella presa a sprangate, trascinata sul pavimento con una cintura al collo, colpita ripetutamente alla testa e abbandonata lì così, perché pareva morta. I corpi furono presi di peso e collocati nel retro della Fiat 127 del padre di Guido. Ecco, siamo tornati sulla Pontina: «Come dormono bene queste!», «Zitti, a bordo ci sono due morte…»

Il ritrovamento: «C'è un gatto in una 127...»

Arrivarono a Roma all'ora di cena del 30 settembre, Ghira, Guido e Izzo. E avevano un certo appetito. «Mangiamoci una pizza, poi decidiamo cosa fare di quelle», propose uno dei tre. Parcheggiata l'auto in via Pola, al Nomentano, si allontanarono senza temere di essere scoperti, e per lei fu la salvezza. Donatella Colasanti iniziò a battere con i pugni sul bagagliaio, per richiamare l’attenzione. Gemeva, piangeva, tentava di urlare ma le era rimasto un filo di voce. Alle 22.50 un metronotte se ne accorse e girò l'allarme al 112. «Cigno, cigno... C’è un gatto che miagola dentro una 127 bianca in via Pola», fu la comunicazione della Sala operativa alle "gazzelle" in servizio nella zona di Villa Torlonia. Tramite le radio sintonizzate sulle stesse frequenze, l’Sos arrivò anche a un fotoreporter, Antonio Monteforte, che volò sul posto. Fu lui a scattare la foto più famosa della cronaca nera del secondo Novecento: Donatella mentre emerge dal baule della 127, spalle nude e occhi neri sgranati, incredula di essere viva. 

Due arrestati e un latitante: il processo

Il resto della storia - il medico legale che certificò la morte di Rosaria per annegamento, il ricovero della sopravvissuta in ospedale per ferite in tutto il corpo e la frattura del naso, le prime indagini, l'arresto di Angelo Izzo e Gianni Guido già nella notte, la contemporanea fuga di Andrea Ghira, la lunga istruttoria - darà lavoro ai cronisti ancora per mesi, anni. Donatella Colasanti, difesa da un’avvocata famosa, Tina Lagostena Bassi, si costituì parte civile al processo contro i carnefici. Le associazioni femministe non saltarono un'udienza ed esultarono al momento della lettura della sentenza. Il 29 luglio 1976 la Corte d’assise di Roma condannò tutti all'ergastolo: Gianni Guido e Angelo Izzo presenti in aula, Andrea Ghira in contumacia.

Ghira in fuga, morto (forse) a Melilla

Ma non era finita. La storia di Ghira diventò un sequel inquietante del massacro del Circeo: condannato al carcere a vita, eppure mai entrato in cella, grazie a importanti coperture.  Secondo la successiva ricostruzione, il giovane fanatico del fascismo e della gesta dei marsigliesi riuscì a fuggire subito in Spagna, dove prese il falso nome di Massimo Testa de Andres e si arruolò nella legione straniera. Poi si spostò a Melilla, l’enclave iberica in Marocco, dove morì per overdose nel 1994 e fu sepolto. La vera identità - alla quale però la famiglia Lopez non crede, convinta che sia ancora in vita sotto falso nome - verrà scoperta nel dicembre 2005, con l'esame del Dna.

Guido, pentimento e benefici

Intanto, nella sentenza d'appello emessa nel 1980, il solo Guido aveva beneficiato di una riduzione di pena (dall'ergastolo a 30 anni), in virtù delle parole di pentimento e del versamento alla famiglia Lopez di 100 milioni di lire come risarcimento. Ma non gli era bastato. Il pariolino che mentre ammazzava non era mancato alla cena con mamma e papà voleva di più: la libertà. Nel 1981 era evaso dal carcere di San Gimignano per rifugiarsi anche lui all'estero, prima a Buenos Aires e poi a Panama, dove, nelle vesti di un insospettabile commerciante di autovetture, era stato catturato nel 1994 e da lì estradato in Italia. Erano seguiti anni di carcerazione dura, ma passati in fretta: nel 2009, dopo la trafila della buona condotta, degli sconti di pena e delle uscite in affidamento ai servizi sociali, Gianni Guido ottenne la libertà definitiva. Cosa che sarebbe riuscita a anche a Izzo, se non si fosse di nuovo lordato le mani di sangue...

La nuova carneficina di Angelo Izzo

La storia del terzo della banda è da manuale di psicopatologia criminale. A fine 2004, nonostante l’ergastolo, Angelo Izzo ottenne dal tribunale di sorveglianza la semilibertà. E poco dopo, in preda alla sua compulsione («Sono stato un predatore, stuprare e uccidere era come rubare gioielli», ha raccontato in seguito), approfittò dei permessi per ammazzare altre due donne, Maria Carmela Linciano, 49 anni, e Valentina Maiorano, di 14, moglie e figlia di un pentito della Sacra Corona Unita, conosciuto in cella a Campobasso. Era il 28 aprile 2005. Dopo averle legate e soffocate, le seppellì nel cortile di una villetta. Un altro doppio femminicidio senza che, stavolta, nessuna potesse salvarsi. Seguirono roventi polemiche sulla giustizia troppo permissiva e nel gennaio 2007, al termine di un processo dall'esito scontato, la nuova condanna all’ergastolo del criminale spiritato, con gli occhi fuori dalle orbite.

Il testamento di Donatella

Donatella Colasanti, però, non ebbe il tempo di rivedere Izzo in galera: quello stesso anno si era ammalata e perse la nuova battaglia. Morì a 47 anni, il 30 dicembre 2005, nell’ospedale oncologico Regina Elena di Roma, per un tumore al seno. La sua tenacia e la memoria dei fatti, del massacro durato 36 ore a Villa Moresca e dell'ultima ora di viaggio in cui sentiva scherzare gli assassini dal portabagagli della Fiat 127, erano risultate decisive nel processo contro gli aguzzini. Le sue ultime parole prima di morire furono: «Battiamoci per la verità».

Letizia Lopez: «Ci ammazzano ancora»

Oggi, oltre alla memoria di un'intera nazione, delle vittime restano due giardini pubblici a Roma, con i loro nomi sulle targhe all'ingresso: Rosaria Lopez e Donatella Colasanti. Uno in zona Grotta Perfetta, dove abitava la ragazzina che voleva fare l'attrice e dove vive ancora la sorella maggiore, e l'altro pochi isolati più in là, in via Costantino. Letizia Lopez, pensionata 72 enne, ha avuto la vita segnata da un altro lutto, la perdita del compagno, Ugo, in un incidente stradale, ma non si è mai tirata indietro nelle battaglie civili. Il dolore è stato per lei fonte di impegno e di speranza da trasmettere alle nuove generazioni. Ai giornalisti che continuano a chiamarla (qui l'intervista al Corriere per la serie "Che fine hanno fatto") risponde con un misto di rabbia e passione: «È passato quasi mezzo secolo e continuano ad ammazzarci, questo è il punto centrale, ve ne rendete conto? Sono delusa? Sì, tanto. Ditemi cosa è cambiato. La società è rimasta immobile e a monte c'è un problema mai evidenziato a sufficienza: la mancata sensibilizzazione dei maschi. Ai sit-in, alle manifestazioni, alle commemorazioni di mia sorella io continuo a vedere solo donne, mi spiegate perché?» Rosaria, Donatella e quei tre "bravi ragazzi". Accadeva 48 anni fa. Difficile darle torto. (fperonaci-rcs.it)

Angelo Izzo, la storia. Minacce, violenze, omicidi, due evasioni. E l’ultima confessione a cui nessuno ha voluto credere. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera l'11 novembre 2023.

In seguito alla condanna per i fatti del Circeo, Izzo è condannato al fine pena mai. Nel 2004 ottiene la semilibertà dal carcere di Campobasso

Il 1 ottobre 1975 quando Angelo Izzo, 20 anni, viene fermato per l’omicidio di Maria Rosaria Lopez e il tentato omicidio di Donatella Colasanti ha già un suo significativo curriculum penale. Tre anni prima i genitori di uno studente lo hanno denunciato per aver minacciato il figlio con una pistola. L’anno successivo, siamo nel 1973, è arrestato per rapina assieme ad Andrea Ghira (altro imputato del massacro del Circeo: condannato, latitante, morto in Spagna nel 1994), ma viene prosciolto per insufficienza di prove. Nel maggio di quell’anno aveva inoltre ottenuto la libertà vigilata dopo una condanna a due anni e mezzo con la condizionale per lo stupro di due ragazzine.

Intanto ha sulle spalle la militanza nei gruppi eversivi della destra nazifascista che rappresentano una costante della sua vita. In seguito alla condanna per i fatti del Circeo, Izzo, è condannato al fine pena mai. Dopo due tentate evasioni, nel 1993, approfittando di un permesso premio, riesce ad espatriare in Francia. Lo arresteranno nuovamente a Parigi poco tempo dopo. Nel dicembre 2004 ottiene la semilibertà dal carcere di Campobasso per andare a lavorare nella cooperativa «Città futura».

Ed è lì, a Ferrazzano, che, ormai cinquantenne, uccide Maria Carmela Linciano e Valentina Maiorano, moglie e figlia di un affiliato della sacra Corona Unita. Viene condannato così al secondo ergastolo. Nel 2009 sposa in carcere la giornalista Donatella Papi ma non durerà. Nel 2013 gli viene imposto l’isolamento diurno per il cumulo dei due ergastoli e tre anni trascorrono così.

Izzo, tuttavia, ha ancora energie e nel 2021 le spende per riferire alla commissione parlamentare antimafia fatti che riguardano la scomparsa della diciassettenne Rossella Corazzin di cui dice di conoscere circostanze e moventi. La minorenne sarebbe stata vittima di una cerimonia di iniziazione di affiliati alla massoneria e ancora una volta alla destra eversiva. Le sue dichiarazioni però non riaprono il caso chiuso dalla magistratura nel 2016.

Angelo Izzo, il pluriomicida e assassino del Circeo: «Sono stato un predatore, stuprare e uccidere era come rubare gioielli». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera l'11 novembre 2023.

In carcere con un doppio ergastolo, racconta gli orrori della sua vita di ieri, insieme alla quotidianità di oggi. «Sto per laurearmi in Legge. Mi sono innamorato di una ragazza giovane e bellissima, quando lei ha chiuso ho avuto ischemie e stati d’ansia»

Angelo Izzo al momento dell’arresto per la strage del Circeo: era il 1°ottobre 1975 e aveva da poco compiuto vent’anni. Qui sopra Izzo a 55 anni, a processo a Campobasso nel giugno 2010 per aver infangato la memoria delle vittime del massacro di Ferrazzano

Angelo Izzo sconta un doppio ergastolo per tre omicidi che hanno segnato la cronaca giudiziaria d’Italia (uno più degli altri: il massacro del Circeo) ma la sua militanza criminale va oltre con stupri, rapine, evasioni compiute in vari periodi della sua vita.

Condannato all’ergastolo per l’omicidio della diciannovenne Rosaria Lopez (1975) assieme allo stupro e al tentato omicidio dell’amica di Rosaria Donatella Colasanti - sevizie condivise con Andrea Ghira e Gianni Guido - Izzo ottiene la semilibertà nel 2004. Mesi dopo, nella primavera del 2005, strangola Maria Carmela Linciano e la figlia quattordicenne Valentina Maiorano moglie e figlia di un ex affiliato della Sacra Corona Unita che seppellisce sotto un metro di terra e calce a Ferrazzano (Campobasso). È nuovamente arrestato e condannato a un secondo ergastolo. Scrive ma non pubblica. Parla ma non collabora produttivamente. Fornisce contributi a delitti maturati negli ambienti della destra eversiva (è il caso della violenza contro l’attrice Franca Rame nel 1987) e offre la sua versione perfino sull’omicidio di Piersanti Mattarella accusando i Nar Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini.

In questa intervista, realizzata anche grazie al suo difensore, l’avvocato Rolando Iorio, la consapevolezza del male compiuto si mescola alla lealtà nei confronti dell’uomo che è stato e alle vecchie ideologie di estrema destra.

La prima pagina del Corriere d’informazione del 1°ottobre 1975 con la notizia delle due ragazze trovate nel baule dell’auto dopo essere state sequestrate, drogate, seviziate e picchiate selvaggiamente. L’occhiello del titolo rivela una lettura ancora non chiara della dinamica dei delitti

Le sue vittime Rosaria Lopez più Maria Carmela Linciano e Valentina Maiorano sono donne. Angelo Izzo lei si definirebbe un predatore?

«Potrà sembrare assurdo ma considero gli autori dei femminicidi dei miserabili. Mi danno idea di quei tipi che pigliano gli schiaffi al bar, poi vanno a casa e se la prendono con le loro donne, magari con i figli. Quando ero ragazzo ho commesso stupri e ho ucciso alcune donne ma l’ho fatto con lo stesso spirito con cui mi potevo impadronire di denaro o gioielli. Odio la società patriarcale. Chiunque mi conosce sa che non ho niente del misogino. Detto questo forse in un’età della mia vita sono stato un predatore».

Nella sua vita ha seguito un codice? Oppure si definirebbe un cane sciolto all’interno di un sistema criminale?

«Credo di aver avuto sempre un mio personalissimo codice. Un tempo ero orgoglioso di essere stato un estremista di destra romano degli anni Settanta. Mi piacevano molto i marsigliesi di Albert Bergamelli e la “banda delle belve” di Paolo Oldofredi ma ora di quel mondo non c’è più niente. Anche la malavita romana è finita. Deboli, drogati e sempre pronti a tradirsi. Non parliamo di camorristi e mafiosi. Sono gente che a parole dà un valore sacro al vincolo associativo, nella realtà fratelli di sangue si sgozzano per un malinteso o per una partita di droga, ci sono picciotti abbagliati dal denaro che cambiano continuamente bandiera, boss in rapporti con i servizi segreti. Per non sembrare un vecchio nostalgico di tempi e regole che magari esistevano solo nella mia testa devo dire che mi piacciono i cinesi e i nigeriani, ragazzi seri».

L’avvocato Tommaso Mancini, Donatella Colasanti e l’avvocata Tina Lagostena Bassi durante un’udienza del processo che porterà in primo grado alla condanna all’ergastolo per Izzo e Giovanni Guido e all’ergastolo in contumacia per Ghia. In Appello la pena per Guido verrà modificata in 30 anni di carcere

Lei si autoaccusa dell’omicidio di Rossella Corazzin, la 17enne scomparsa nel Cadore (era il 1975), ma non tutti sono stati disposti a crederle.

«A premessa devo dire che non ho partecipato al rapimento né all’omicidio di Corazzin. Ne ho parlato nell’ambito di una confessione di una serie di reati fra cui parecchi omicidi. Comprendo che i giudici, a distanza di tanto tempo, hanno problemi a trovare riscontri. I miei eventuali coimputati, i vari Ghira, Viccei, Esposito, sono tutti deceduti. Quindi va bene così. Volevo mettere un punto per cominciare una vita diversa e avendo confessato tutto non sono più ricattabile da nessuno».

Villa Ghira, luogo del massacro del Circeo, avvenuto la notte del 29 settembre del 1975, in un’immagine d’archivio. L’abitazione si trova a Punta Rossa, nel comune di San Felice

Lei è ritenuto una persona molto intelligente, così sostiene anche il suo avvocato. Quali sono le radici del male?

«Non ho alcun dubbio: sono stato per troppi anni prigioniero dei miei spettri, di un’immagine superomistica di me, di una “comunità fantasma” a cui credevo di dover rendere conto. La madre di tutti gli errori e orrori che ho commesso è lì».

Che effetto le fa essere considerato un mostro?

«Onestamente il cosiddetto stigma sociale non mi pesa. Anche perché ogni volta che sono uscito dal carcere non ho mai incontrato problemi. Forse è triste da dire ma ho l’impressione che i rapporti sociali sono regolati solo dalla quantità di denaro che possiedi».

Sul massacro del Circeo da cui tutto ha avuto origine sono stati scritti libri e realizzati film. Lei vive questo con compiacimento?

«Ho collaborato alla stesura del libro della giornalista Amenta (Ilaria Amenta, Io sono l’uomo nero, RaiLibri) e mi sono compiaciuto del successo di vendite che ha avuto, ho ricevuto centinaia di lettere di sconosciuti lettori quindi sarebbe ipocrita dire che ne sono irritato. Però se escludiamo i libri di Selvetella (Yari Selvetella, Uccidere ancora , Newton Compton Editori) e di Trabalzini (Rosalba Trabalzini, La rabbia , Meltemi) gli altri libri sull’argomento, per non parlare dei film e dei serial televisivi, li ho trovati banali e se hanno annoiato me che nutro un interesse particolare per la storia figuriamoci gli altri...».

Cos’è la rabbia per lei?

«La rabbia è un sentimento che purtroppo ben conosco. Ne ho letto una descrizione a proposito di letteratura nel bel libro di Pino Cacucci In ogni caso nessun rimorso (Feltrinelli). Quando Jules Bonnot, l’inventore delle rapine in banca con l’automobile, l’anarchico illegalista della Belle Èpoque maledice la rabbia nel suo testamento scritto al volo, mentre era assediato, prima di cadere sotto i proiettili dei flic (poliziotti francesi, ndr ). La rabbia di quando non riesci a distogliere lo sguardo da ciò che percepisci come ingiustizia, quando ti si ghiacciano le viscere, sto citando a memoria dopo molti anni che l’ho letto, perché mi sono riconosciuto in quel sentimento. Conclude “peggio per me, peggio per voi, peggio per tutti”. La rabbia è distruttiva. Ci sto ancora lavorando sul controllo della rabbia».

«ERO IN BALIA DEI MIEI SPETTRI, DI UNA COMUNITA’ FANTASMA E DI UN’IMMAGINE SUPEROMISTICA DI ME A CUI VOLEVO RENDERE CONTO»

Lei ha trascorso anni di carcere. Ora sta scontando due ergastoli a Velletri. Come vive oggi?

«Per quanto strano possa sembrare quando ero più giovane in carcere mi divertivo. Ora mi pesa di più e mi annoio molto. Cerco di riempire le mie giornate studiando: mi manca un solo esame per terminare il corso di laurea in legge. Leggo molto specie libri sull’attualità. Ho avuto modo di praticare yoga e il Qi Gong e quindi faccio un po’ di esercizio fisico. Inoltre cucino che è un impegno giornaliero, faccio anche qualche partita a carte e amo conoscere e discutere con i miei compagni di sventura. Cerco di restare attivo e non abbattermi mai».

Libri che ha letto e che le sono piaciuti?

«In carcere ho letto tantissimo però diciamo che i libri che hanno avuto una grossa influenza su di me e come si dice “mi hanno cambiato la vita” sono La condizione umana sulla rivolta del 1927 a Shangai di Andrè Malraux e I proscritti sull’epopea dei corpi franchi di Ernst Von Salomon».

Rolando Iorio, nato ad Avellino nel 1973, è l’avvocato difensore di Angelo Izzo da una decina d’anni. è anche difensore di Felice Maniero, “faccia d’angelo”, l’ex boss della mala del Brenta

Si è dato un obiettivo all’interno del perimetro carcerario?

«Sto scrivendo un libro che vorrebbe essere la continuazione di Io sono l’uomo nero, nel quale raccontare le esperienze carcerarie dal 1975 al 1984 nelle carceri speciali, i permessi e altro fino al mio nuovo arresto a Parigi nel 1993. Naturalmente però in carcere l’unica cosa seria è la speranza di rimettere un piede fuori e quindi il mio principale obiettivo è cercare di ottenere i benefici penitenziari. Ho fatto 18 anni e posso ragionevolmente sperarci».

«ALL’OMICIDIO DI ROSSELLA, NEL 1975, NON PARTECIPAI. MA HO DETTO QUANTO SAPEVO. CAPISCO CHE I GIUDICI HANNO FATICATO A TROVARE RISCONTRI...»

Il carcere impedisce una vita normale. Lei ha detto di essersi sentito una “vittima” in questi anni...

«Non ci penso spesso ma per esempio il processo a Latina per l’omicidio del Circeo fatto dopo pochi mesi, sostenuto da una traballante istruttoria, in cui non si è accertato nulla, in presenza di una folla tumultuante in aula in cui non ci è stata concessa la perizia psichiatrica, in cui mi è stato rifiutato il confronto con l’accusatrice... Vi sembra che abbia ottenuto giustizia? Tuttavia ho commesso nella mia vita tante e tali ingiustizie che credo sia una specie di legge del contrappasso».

Quali persone le hanno insegnato qualcosa?

«Ho imparato da tutti quelli che ho incontrato. Se però devo indicare un fratello maggiore credo sia un gangster romano della vecchia scuola: Danilo Abbruciati (tra i capi della banda della Magliana, ndr ) è stata la figura adulta che quando ero ragazzo mi ha insegnato, come dicono gli inglesi, grace under pressure , a sorridere della vita nei momenti difficili. L’amicizia per me è un sentimento fondamentale. Ho molti amici e anche amiche sia fuori che dentro. Loro sanno chi sono e il bene che gli voglio».

Si è mai innamorato?

«C’è una cosa di cui un po’ mi vergogno. Quando ho divorziato da Donatella Papi, ex signora Fanfani, ho preso corrispondenza con una ragazza molto giovane, bellissima in tutti i sensi. Ci siamo scritti per un paio di anni e io me ne sono innamorato. Forse era tutta una fantasia visto che era un rapporto virtuale. Ma lei ha fatto breccia nel mio cuore. Poi la cosa è finita. E io sono stato malissimo, anche fisicamente. Può sembrare incredibile ma ho avuto delle ischemie, stati d’ansia e confusionali. Può sembrare una cosa da vecchio patetico ma c’è una scena nel film Angelo Azzurro (di Joseph Von Sternberg, ndr ) in cui il dignitoso professore per amore si mette a fare “chicchirichì” in pubblico. Ho sempre pensato che fosse un poverino ma invece ora penso che poverino sia colui che non ha mai provato un sentimento così forte da mettersi a urlare “chicchirichì”».

"Donatella Colasanti fece la differenza". Gli "sfasci" e l'"Uomo nero" del Circeo. La giornalista Rai Ilaria Amenta ha scritto un libro, "Io sono l'uomo nero" in cui confluiscono parti dei diari di Angelo Izzo, uno dei tre autori del massacro del Circeo. Angela Leucci il 29 Settembre 2023 su Il Giornale.

Ci sono 36 ore, tra il 29 e il 30 settembre 1975, che sono passate alla storia più nera come il massacro del Circeo. In quelle 36 ore tre giovani - descritti a turno come “pariolini”, estremisti politici, ragazzi di buona famiglia che avevano frequentato la scuola cattolica - picchiarono, stuprarono e seviziarono due ragazze di età poco inferiore alla loro. Alla fine ne uccisero una, Rosaria Lopez, annegandola nella vasca da bagno. L’altra, Donatella Colasanti, si finse morta e riuscì a sfuggire all’asfissia cui i tre aguzzini l’avevano sottoposta: morì nel 2005 per un tumore al seno, dopo essersi battuta tutta la vita per la giustizia e per le donne.

Quei tre giovani si chiamano Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido. Furono condannati tutti all’ergastolo. Ghira, latitante dalla prima ora, non fece mai un giorno di carcere, per poi morire di overdose negli anni ‘90 mentre era arruolato nella Legione Straniera. Guido, che evase per due volte dal carcere, ha terminato la sua pena nel 2009. Izzo, durante un periodo in regime di semilibertà, nel 2005 uccise a Ferrazzano, in Molise, una donna, Maria Carmela Linciano, e la figlia 14enne di questa, Valentina Maiorano. Nel 2023 parte dei diari di Izzo sono confluiti nel volume curato dalla giornalista Rai Ilaria Amenta “Io sono l’uomo nero”. L'autrice ne parla con IlGiornale.it.

Dottoressa Amenta, da dove viene il titolo?

“Il titolo nasce da un’idea che fa riferimento al nero come ‘colore’ della cronaca, ma c’è anche la connotazione politica, quella dell’estrema destra, sebbene in realtà Angelo Izzo e i suoi sodali abbandonarono molto presto l’ideologia politica, per diventare lentamente ma inesorabilmente una vera e propria organizzazione criminale”.

Com’è entrata in possesso di questi diari?

“Ne sono entrata in possesso in maniera del tutto fortuita. Un giorno mia madre stava male: ho dovuto sbrigare delle pratiche burocratiche per la sua salute e ho incontrato un operatore, Danilo, con il quale entrai in confidenza. Mi disse che un altro suo assistito era stato in galera con Angelo Izzo e gli aveva dato dei diari. Mi chiese se avessi voluto leggerli. Ho scoperto in quei diari una pagina di storia: Izzo racconta e si racconta partendo dall’inizio, a partire dagli anni ’60, uno spicchio di Roma che poi è arrivata a compiere il massacro del Circeo con grande dovizia di particolari - lui è ossessionato dai dettagli - e come si sia arrivati a quel delitto”.

In che senso?

“Queste persone erano nate e cresciute in un certo ambiente, conservatore, facoltoso, ma poi cominciarono a girare con moto - che non avrebbero potuto neppure guidare - pistole, e commettere inizialmente piccoli crimini, come furti di motorini, per poi passare alle banche e ai sequestri, e quelli che Izzo chiama ‘sfasci’, ovvero la violenza contro le ragazze. Perché per loro le ragazze o sono prede o sono compagne. Il massacro del Circeo è l’apice di un’escalation. Tanto che un anno e mezzo prima, due ragazze subiscono violenza da loro, ma vengono condannati a 2 anni e 6 mesi, per poi essere rilasciati con la condizionale dopo 6 mesi, perché di buona famiglia e perché non c’erano leggi a tutela delle donne - lo stupro era un crimine contro la morale. E qui torniamo all’ambiente: se contavi, potevi ricevere determinati favori”.

"Dedicato a quattro donne". Dal massacro del Circeo al delitto di Ferrazzano

Perché ha deciso di scrivere il libro?

“Il male non si nasconde sotto il tappeto, sia per il lavoro che faccio - l’informazione è fondamentale per conoscere - sia per il messaggio di Donatella Colasanti. Ho conosciuto suo fratello: dopo un incontro con lui ho pensato che quel messaggio dovesse essere portato avanti. E poi c'è stata quest’estate dominata dei femminicidi e degli stupri. La cosa che più colpisce è che oggi un caso di stupro viene trattato come 50 anni fa: quando ho letto le pagine dell’epoca sul massacro del Circeo, ovunque era scritto che le ragazze se l’erano cercata. La differenza nel modo in cui noi giornalisti oggi trattiamo i casi di stupro io non la trovo. Le differenze sono solo a livello di legge”.

Quanto c’è di vero nei diari di Izzo? Facciamo un esempio: Izzo dice che il massacro fu organizzato per testare la lealtà di un sodale.

“Da sempre e comunque, tutti gli esperti sostengono che fu un delitto premeditato. È plausibile pensare che questa sia stata la ragione della premeditazione. Non è stata mai provata, ma queste pagine possono aggiungere qualcosa. Ci sono tuttavia altri fatti raccontati che non hanno riscontro, come il sequestro del figlio di Alemagna, che è rimasto senza colpevoli, stando alle cronache dell’epoca”.

E la presenza di una donna al massacro è verosimile?

“Non c’è una testimonianza di Donatella in tal senso. Può darsi che sia stato però perché la sua difesa intendeva mandare un messaggio agli uomini e difendere le donne, ma è un’ipotesi. Ritengo però possibile che altre persone abbiano partecipato allo stupro, tanto più che le donne hanno partecipato ad altri crimini. Ho chiesto in una corrispondenza a Izzo cosa pensasse delle donne. E lui ha risposto di non avere una visione della donna unilaterale: per lui la donna è anche una compagna. E scrive che la donna è uguale all’uomo, ne è convinto”.

Stando alla versione di Izzo, in moltissimi sarebbero stati coinvolti nella latitanza di Ghira. Com’è possibile che la reazione al massacro non fu univoca e che nessuno, nella loro rete di amicizie, si sia ribellato?

“Ti devi catapultare in quegli anni e in base a quanta letteratura hai letto, per esempio su genitori che coprono i figli che commettono crimini. Che le famiglie abbiano coperto i figli mi sembra la cosa più naturale del mondo. Tra l’altro Donatella, quando Ghira scappò, non aveva ancora parlato, perché il processo sarebbe iniziato molto dopo. E quindi Ghira potrebbe aver dato la sua versione ai genitori. E non dimentichiamo che in quegli anni l’alta borghesia predominava”.

"La sadica violenza del branco": la vera storia della "Scuola Cattolica"

Perché Donatella Colasanti non ha mai creduto alla morte di Ghira?

“Ho posto la stessa domanda a suo fratello. Perché forse non voleva arrendersi al fatto che lui non aveva fatto neppure un giorno di galera per le sue azioni. Il procuratore Giuseppe De Falco, che mi ha onorata di scrivere l’introduzione al libro e che ha condotto le operazioni del ritrovamento delle ossa di Ghira, mi ha fatto vedere le carte e al 99% si tratta di Ghira o di un suo fratello gemello. Donatella però si può capire, anche se non saremo mai in grado di comprendere quello che ha passato. Anche la sorella maggiore di Rosaria Lopez sostiene di aver mandato un perito di parte durante il prelevamento delle ossa e questo periodo abbia detto: ‘Non è Ghira’. Ma il Dna venne fatto due volte”.

Nonostante siano passati decenni, nei casi di violenza contro le donne, alcune persone continuano ad accusare vittime e sopravvissute?

“È un retroterra figlio di una cultura difficile da scalfire e che andrebbe scalfito in ogni senso, per ogni tipo di reato e contro l’indifferenza. Credo che molte colpe siano anche di noi giornalisti”.

Perché il duplice femminicidio di Ferrazzano è meno noto rispetto al massacro del Circeo?

“Cosa ha reso il Circeo il Massacro - con la M maiuscola? Donatella Colasanti. La sopravvissuta. Senza di lei non avremmo mai saputo i dettagli di quella storia. Abbiamo ascoltato lei, l’abbiamo vista in faccia - con tanto di foto di lei che esce dal portabagagli, e quell’immagine resta addosso - e il suo processo è stato il primo a cambiare il modo in cui la legge trattava la violenza sulla donna. Il delitto di Ferrazzano avviene con tante modalità simili. Ma comunque il delitto ebbe grande eco: nessuno si aspettava che accadesse qualcosa del genere e tutti si sono chiesti perché Angelo Izzo fosse libero. Ed era libero perché dopo il Circeo è stato condannato come una persona normale, non essendo state accolte le perizie di parte, e quindi era un detenuto che beneficiava, come tutti gli altri un permesso premio”.

IL VIOLENTO MASSACRO DEL CIRCEO

Gaia Vetrano il 31 Dicembre 2022 su nxwss.com

Corre l’anno 1975 e nel Circeo, a Roma, si consuma uno dei più efferati crimini del dopoguerra.

Donatella Colasanti vive nel quartiere popolare romano della Montagnola. Ha diciassette anni e nella vita studia. Come tutte le ragazze della sua età ha tanti sogni nel cassetto e il desiderio di diventare indipendente. Rosaria Lopez ha invece diciannove anni e fa la barista a tempo pieno. Sono due ragazze semplici, che sognano grandi gesti d’amore.

La distinzione tra pariolini e boro fa da sempre parte della storia di Roma. L’egemonia del potere appartiene a una piccola cerchia, che si muove credendo di far leva sull’impunità sociale. Parliamo dei giovani ricchi sempre in polo e pantalone, che girano a bordo del nuovo modello della Fiat, con vistosi orologi al polso, gli occhiali a specchio Ray-Ban, millantatori di ville da sogno e il sorriso sul volto di chi sa di avercela fatta.

Donatella e Rosaria sono amiche da molto quando una conoscenza che hanno in comune le invita alla Torre Fungo dell’EUR per presentargli due di loro, Angelo Izzo e Giovanni Guido. Questi fanno subito una bella impressione sulle giovani: sono sorridenti, affascinanti e ai loro occhi educati.

I due appartengono alla “Roma bene”, quella descritta da Carlo Lizzani. Membri dell’élite altolocata narrata da quest’ultimo, che all’apparenza si mostra rispettabile ma che in realtà nasconde tutto il marcio della società capitolina. Perché nell’estremismo convivono assieme tipi umani diversi. E la loro apparente tranquillità non impedisce, ma quasi incoraggia, agli atti di violenza più disumani.

Izzo, Guido e il terzo, Andrea Ghira non sono da meno. Insieme invitano le due a una festa, ma si tratta di un inganno. Quando Donatella e Rosaria accettano non sanno ancora di star passando alla storia come le vittime del massacro del Circeo.

Chi sono Izzo, Guido e Ghira, i fautori del massacro?

La legge conosce già Angelo Izzo: un anno prima aveva violentato due ragazzine e perciò era stato condannato a due anni e mezzo di reclusione, mai scontati a seguito di sospensione condizionale della pena. Dei tre è sicuramente il più sadico e studia medicina e chirurgia alla Sapienza, anche se frequenta saltuariamente.

Suo padre è un costruttore e la madre, laureata in lettere, si occupa della famiglia. Ha vent’anni e vive nel quartiere Trieste, al confine con i Parioli. Pratica sport e a tredici anni entrò a far parte della Giovane Italia, un’associazione studentesca del Movimento Sociale Italiano.

Al liceo conosce Giovanni Guido, con cui si era macchiato di atti di bullismo e angherie nei confronti dei suoi compagni al San Leone Magno. Un professore della Cattolica gli aveva infine diagnosticato una nevrosi maniacodepressiva per ipo – sviluppo dell’organo sessuale.

Giovanni, detto Gianni, è uno studente di architettura di diciannove anni, figlio del più noto Raffaele Guido, professionista di banca del quartiere Trieste. Insieme a Izzo aveva commesso una rapina a mano armata che gli era costata venti mesi nel carcere di Rebibbia. È indifferente alla politica e si lega particolarmente al ventiduenne Andrea Ghira.

Quest’ultimo è il figlio dell’amato imprenditore edile Aldo Ghira. Fin dagli anni del liceo classico Giulio Cesare si lega all’ambiente della destra estrema e diventa ammiratore del capo del Clan dei marsigliesi, un’organizzazione di stampo mafiosa nata a Roma due anni prima, Jacques Berenguer. Ha alle spalle una prima condanna per manifestazione sediziosa, minaccia a mano armata e lesioni aggravate. E poi due anni prima, nel 1973, era stato condannato a cinque anni per rapina aggravata e violazione di domicilio, di cui sconterà pochi mesi.

Nonostante l’aspetto e l’aria pulita, sono violenti, feroci e sadici. Si fa fatica a pensare nella società odierna che coloro che hanno già la ricchezza, la fama o l’amore della propria famiglia, possano commettere crimini viscidi e malati. Tutti e tre cercano un modo per festeggiare la prematura uscita di prigione di Ghira. Bramano alcool, droga e la compagnia di alcune ragazze di bell’aspetto.

Le torture di Donatella e Rosaria:

Izzo e Guido, incontrate Donatella e Rosaria, non perdono la loro occasione. Sono due ragazze di borgata, semplici, sorridenti e innocenti. Le invitano a una presunta festa che si sarebbe tenuta a casa di un loro amico a Lavinio, frazione di Anzio, e le dicono di portare un’amica. Le due accettano, convinte di poter passare una serata spensierata e felici di aver conosciuto quelli che potrebbero essere i loro principi azzurri. Così si danno appuntamento per il 29 settembre davanti alla Torre Fungo.

A presentarsi sono soltanto loro due, la terza all’ultimo decide di non unirsi alla comitiva. I due ragazzi sono puntuali: non fanno aspettare di un minuto di troppo Donatella e Rosaria. A guidare è Guido con la nuova Fiat 127 bianca presa in prestito dal padre, che in quei giorni era fuori Roma per lavoro. Donatella e Rosaria entrano in macchina e subito partono, alla volta del Lavinio.

Delle due, è Donatella a rendersi subito conto che qualcosa non va. I ragazzi prendono infatti una strada diversa. Sono le 18.20 quando arrivano a Villa Moresca, una dimora di proprietà della famiglia di Ghira, situata nel comune di San Felice Circeo. Villa a tre piani con vista mare, un giardino spazioso e molto isolata. Notata la confusione, Izzo e Guido gli dicono che dovevano prendere il loro amico Andrea e che poi si sarebbero diretti verso la festa.

Le due li seguono in casa, dove rimangono per un paio di ore a chiacchierare e ascoltare musica. Di Ghira ancora nessuna traccia.

A un certo punto la favola di Donatella e Rosaria si trasforma nel vero incubo. Guido e Izzo cominciano a fare avanti avances sessuali che pian piano diventano più pretenziose, fino a quando uno dei due esce fuori una pistola. Strappano loro i vestiti di dosso e le minacciano. Entrambi urlano di far parte del Clan dei Marsigliesi e che il loro capo Jacques – cioè Ghira – gli aveva ordinato di rapire due ragazze.

Nonostante i tentativi, è impossibile resistere alla furia e alla violenza dei due ragazzi, che le rinchiudono in bagno tra sevizie e bastonate. Rosaria perde la testa in preda al panico, mentre Donatella tenta di rassicurarla, ma non basta per muovere a compassione gli animi dei due. A questi si aggiunge Ghira e per un intero giorno e una notte molestano le due, massacrandole di schiaffi e insulti.

A turno Donatella e Rosaria sono tirate fuori dal bagno e vengono sottoposte ai peggiori soprusi e perversioni. Danno loro delle pezzenti, delle accattone. Proclamano il loro odio verso le donne, elogiando invece il Clan dei Marsigliesi. Qualcuno prende addirittura una siringa, drogandole.

Izzo addirittura finito il suo turno da aguzzino si riveste e torna a casa dai suoi per l’ora di cena, per poi ritornare dai suoi amici a Villa Moresca.

Rosaria Lopez finirà affogata per mano di Ghira nella vasca da bagno del piano di sopra, rimanendo inghiottita nell’incubo del Circeo. Tra le due era quella che opponeva di più resistenza, dovevano liberarsene. Donatella invece sfrutta le sue doti di attrice. I tre provano prima a strangolarla con una cintura, senza alcun risultato. In un momento di loro distrazione riesce a scappare e prendere in mano il telefono per chiamare la polizia, ma viene riacciuffata e colpita a sprangate con una mazza di ferro. A quel punto la ragazza casca a terra e finge di essere morta.

Ai tre rimane il compito di disfarsi dei loro corpi: le infilano nel portabagagli della Fiat 127 imballate nella plastica e ripartono lasciandosi la villa del Circeo alle spalle, diretti verso Roma. Arrivati nei pressi di casa di Guido gli viene però fame, e si fermano quindi per una pizza. Si recano quindi in viale Pola, nel quartiere Trieste, lasciando la vettura parcheggiata.

A quel punto, Donatella comincia a urlare, seppur sotto shock. Sbatte ripetutamente le mani sulle pareti dell’auto, gridando a più non posso. L’orologio segna le 22.50 del 1° ottobre quando una guardia giurata in pensione sente i lamenti della ragazza e avverte i carabinieri. Da lì a poco una volante si reca sul posto, liberandole.

Donatella viene portata subito in ospedale. Ha il volto tumefatto, gli occhi azzurri pieni di shock e mormora frasi sconnesse. Insieme a lei una storia macabra da raccontare, che entra di diritto tra le pagine più oscure della storia del nostro paese. Le diagnosticarono diverse ferite gravi e la frattura del naso, con prognosi di oltre trenta giorni, oltre ai gravissimi danni psicologici.

Dalla targa si risale subito a Guido e poi ai suoi due amici. Izzo e Guido vengono arrestati entro poche ore, mentre Ghira, riesce a scappare, lasciando una lettera ai compagni, in cui gli assicura che avrebbe ucciso lui stesso Donatella se avesse parlato. Per lui, ciò che è successo al Circeo rimane al Circeo.

Il processo e i mesi successivi al massacro del Circeo

Gesualdo Simonetti, maresciallo dei Carabinieri, con l’aiuto della sopravvissuta Donatella, ricostruisce le dinamiche del massacro del Circeo.

La Colasanti si costituisce come parte civile del processo insieme a molti movimenti femministi e la segue l’avvocata Tina Lagostena Bassi. Il 29 luglio 1976 arriva la sentenza in primo grado: Gianni Guido confessa subito di aver preso parte al massacro e fa i nomi dei due compagni. Sono condannati all’ergastolo senza alcuna attenuante Izzo e Guido e, in contumacia, Ghira.

Quest’ultimo è infatti latitante in Spagna, dove si arruola con il nome di Massimo Testa de Andres nel Tercio (legione straniera spagnola). Sarà espulso nel 94’ per abuso di stupefacenti. Nel 2005 sarà riesumato un cadavere a Melilla che si attribuirà proprio a Ghira, morto lì per overdose.

Durante i mesi passati in carcere Angelo Izzo collabora con la magistratura, vantandosi dei rapporti confidenziali che ha con gli altri carcerati di estrema destra. Offre le sue ricostruzioni sulle stragi di piazza Fontana, di Bologna e di piazza della Loggia, sugli omicidi di Mino Pecorelli, Fausto e Aio e Piersanti Mattarella, sulla morte di Giorgiana Masi e su molti altri episodi di terrorismo e di mafia. Alcune versioni ritrovano riscontro, altre no.

Riguardo all’omicidio della Masi riconosce le armi del delitto come di proprietà di Ghira mentre fa i nomi di Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini come colpevoli dell’omicidio Mattarella, membri dei Nuclei Armati Rivoluzionari, movimento neofascista.

Nel 77′ insieme a Guido prova a evadere dal carcere di Latina, prendendo in ostaggio una delle guardie carcerarie. Ci riprova undici anni dopo da Paliano. Ci riesce nel 93′, approfittando di un permesso premio. Scappa così dal carcere di Alessandria ed espatria in Francia, dove verrà nuovamente catturato.

Guido ottiene invece uno sconto della pena a trent’anni e, dopo il primo tentativo di fuga fallito, ci riprova nuovamente nell’81′, riuscendo a uscire da San Grimignano. Si rifugia a Buenos Aires, dove viene riconosciuto e arrestato. In attesa dell’estradizione, riesce ancora a scappare e raggiunge il Libano. Nel 1994 sarà di nuovo catturato a Panama.

Nel 2004 Izzo otterrà la semilibertà e l’anno dopo si macchierà di un secondo duplice omicidio. Toglierà la vita a Ferrazzano – in provincia di Campobasso – a Maria Carmela e Valentina Maiorano, rispettivamente moglie e figlia di Giovanni Maiorano, ex affiliato della Sacra corona unita, organizzazione criminale di stampo mafioso pugliese.

Sarà nuovamente condannato all’ergastolo. 

Essere pariolino a Roma negli anni 70 significa solo una cosa. È il nero che predomina questo racconto. La violenza cieca e bieca degli alti ranghi della società che si scontra contro i più deboli. Contro chi una voce non ha.

Il massacro del Circeo rimarrà nella storia una delle pagine più oscure della Capitale. Una storia di perversione, di sevizie, di stili di vita malati, di classi sociali a confronto e di tanto male, che riflette il macrocosmo violento dell’Italia degli anni di Piombo.

Una di quelle storie che si può raccontare solo di Sabato.

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Il tesoro, gli omicidi, il mistero: il mostro di Bargagli (forse) mai esistito. Un inafferrabile assassino o delitti commessi da più persone senza alcun legame? Il mostro di Bargagli mieté 27 morti in quarant’anni, un giallo destinato a lasciare dubbi. Massimo Balsamo il 13 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La Banda dei vitelli

 Il tesoro

 Il silenzio e il presunto mostro di Bargagli

 L'omicidio della baronessa e le indagini in fumo

 Un mistero irrisolto

Ventisette morti nell’arco di quarant’anni tra strangolamenti, esecuzioni e suicidi sospetti. Una piccola località della Val Bisagno trasformata in una cittadina degli orrori, l’ombra di un inafferrabile serial killer. Un unico episodio scatenante: la speranza di un tesoro costituito da banconote, gioielli e oro trasportato da truppe naziste e repubblichine. Il mostro di Bargagli rientra nell’elenco degli assassini seriali forse mai esistiti, ma un’ombra di mistero persiste. Le indagini della magistratura non hanno portato risultati concreti, la storia è stata archiviata e le persone coinvolte sono tutte passate a miglior vita: nessuno potrà scrivere la parola fine a questo mito, nessuno pagherà mai per quel sangue versato.

La Banda dei vitelli

Tutto inizia nell’inverno del 1941. Genova è in ginocchio per la penuria di cibo e il mercato nero rappresenta un’opportunità per tante persone. Tempi prosperi per la Banda dei vitelli, un gruppetto di contrabbandieri che macella gli animali per venderne clandestinamente la carne. Non si sa granché sui metodi adoperati, ma alcune leggende sono da brivido: c’è chi sostiene che parte della carne venduta alla povera gente provenga dalle carcasse degli animali morti.

Le azioni del sodalizio criminale terminano a causa della retata organizzata da due carabinieri, Candido Cammereri e Carmine Scotti. Quasi tutti i componenti della Banda finiscono a processo, ma qualcosa cambia l’8 settembre del 1943: Pietro Badoglio proclama l’armistizio. Una larga fetta dell’Arma non aderisce alla Guardia armata della Repubblica di Salò, tra questi Cammereri e Scotti. Il primo muore in uno scontro a fuoco, mentre il secondo continua a fare il suo lavoro.

L’1 febbraio del 1945 il processo d’appello sospende il giudizio nei confronti della Banda dei vitelli. Il ritorno in libertà coincide con la voglia di vendetta: dopo due settimane, alcuni membri si presentano a casa di Scotti nelle vesti di partigiani e lo accusano di essere una spia al servizio dei nazifascisti. Il brigadiere viene torturato brutalmente e finito con un colpo di pistola alla nuca.

Il tesoro

A questo punto bisogna introdurre un altro elemento della storia del mostro di Barbagli: il tesoro. La serie di delitti dell’immediato dopoguerra sarebbe infatti legato alla sparizione di banconote, gioielli e oro sulle colline del genovese. Un carico di preziosi rubato mentre viene trasportato da truppe naziste e repubblichine in fuga da Genova il 25 aprile 1945, durante la liberazione. La teoria sul serial killer è semplice: i futuri omicidi saranno una conseguenza di questo furto, sia per proteggere il segreto dell’ubicazione della refurtiva, sia per eliminare gli unici testimoni.

La Banda dei vitelli è stata avvertita del passaggio del convoglio nazifascista. Giunti a Pannesi di Lumarzo, i mezzi sono costretti allo stop perché la strada è troppo stretta: la colonna abbandona le camionette e si divide lungo il bosco della Tecosa. Alcuni uomini trovano la morte in un agguato. Tornando ai contrabbandieri genovesi, loro riescono a mettere le mani sulle casse di denaro e se la filano immediatamente. “Denaro fuori corso”, la replica a chi chiede delucidazioni.

Il denaro trafugato è parecchio, fa gola a tanti. Ma la storia diventa più opaca, vengono meno i riferimenti, si dà spazio alle ipotesi. Solo nel 1945 vengono registrate otto morti sospette. Il 24 aprile quattro partigiani vengono ammazzati in una villetta nella frazione di Sant’Alberto, due giorni più tardi altre quattro persone muoiono nella piazza del paesino a causa dell’esplosione di una mina anticarro.

Il silenzio e il presunto mostro di Bargagli

Più di quindici anni di silenzio dopo tutto il sangue versato. Nessuna morte sospetta, nessun omicidio brutale, nessuna notizia sul tesoro nazifascista. Ma qualcosa cambia nel 1961: il 9 novembre viene rinvenuto il corpo senza vita di Federico Musso, ucciso a colpi di pistola. Dopo otto anni, nel 1969, viene uccisa a sprangate l’ex partigiana Maria Assunta Balletto. Nello stesso modo, nel 1971, viene ucciso Cesare Moresco, il campanaro della chiesa di Bargagli. E ancora, qualche mese più tardi, viene aggredita sempre a sprangate Maria Ricci: la donna riesce a salvarsi, ma non può dare un contributo alle indagini a causa di un’amnesia.

Le prime voci sul presunto mostro di Bargagli iniziano a circolare sempre più insistentemente, le morti nella piccola località ligure non si fermano. Nel 1972 viene ucciso a sprangate l’ex partigiano Gerolamo Canobbio, professione giardiniere. Due anni più tardi la stessa sorte tocca alla sua amante, Giulia Viacava. Le autorità accendono i riflettori su Francesco Pistone, ex carabiniere e amante della Viacava, ma mancano prove e l’inchiesta viene accantonata dopo tre interrogatori. Nel 1976 una fatalità mai chiarita, il suicidio di Pietro Cevasco: l'uomo - 54 anni, amante della Viacava e testimone contro Pistone - viene trovato impiccato. Nel 1978 invece ecco un nuovo omicidio: Carlo Spallarossa tramortito a sprangate in testa. Nel 1980, questa volta a fucilate, viene eliminato Carmelo Arena.

L'omicidio della baronessa e le indagini in fumo

Il 30 luglio del 1983 è la data dell’omicidio più chiacchierato della storia del mostro di Bargagli, quello della baronessa Anita de Magistris. Vedova di un ufficiale nazista morto durante la Seconda guerra mondiale, la donna è entrata a fare parte della comunità dopo tanta diffidenza, diventando persino direttrice del coro della chiesa di Santa Maria. La sua è una vita banale e tranquilla, ma il passato forse nasconde qualcosa. Di rientro a casa, la donna viene raggiunta da un violentissimo colpo di spranga in mezzo alla fronte: morirà dopo otto giorni di agonia all’ospedale San Martino.

Roberto Succo, il mostro di Mestre mosso da una furia inspiegabile

Secondo quanto ricostruito, la baronessa quarant’anni prima aveva affidato alla colonna nazifascista una cassa con i suoi averi. Preziosi poi trafugati dalla Banda dei vitelli e finiti chissà dove. La sua esecuzione è legata a quei fatti? Aveva scoperto qualcosa sul suo assassino? Il sostituto procuratore Maria Rosaria D’Angelo apre una nuova inchiesta per omicidio e trova un legame con i delitti Scotti, Canobbio e Viacava. Il primo luglio 1984 viene arrestato il maresciallo Armando Grandi, che nel 1945 aveva scoperto la tomba di Scotti, ma nel mirino degli inquirenti ci sono numerose persone, compreso il già citato Francesco Pistone. A mettere la parola fine alla storia del mostro di Bargagli ci pensa l’indulto, che “salva” chi ha commesso crimini prima del 1953. Poco più tardi, il 20 marzo del 1985, Pistone si suicida. E a Bargagli non si registrano più assassinii.

Un mistero irrisolto

Il caso del mostro di Bargagli resta irrisolto e difficilmente la situazione cambierà. Come evidenziato dall’esperto Ruben De Luca, l’intervallo tra il primo e l’ultimo omicidio è talmente ampio che risulta difficile considerare un unico responsabile. Certamente alcuni omicidi sono stati commessi dalla stessa mano, ma è complicato incolpare un unico serial killer per tutte e 27 le uccisioni/morti considerate. Secondo il dottor Ferdinando Cardinale, il medico del paese che ha firmato tutti i certificati di morte, a Bargagli ci sono stati al massimo tre o quattro omicidi, le altre morti sarebbero state la semplice conseguenza di incidenti.

La figlia di Nadine, uccisa nel 1985: «Vogliamo la verità sui delitti del Mostro di Firenze». Antonella Mollica su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2023.

L'appello della figlia di Nadine, vittima degli Scopeti: non archiviate l’ultima inchiesta

«Siamo stati calpestati dalla giustizia italiana, e anche se sono passati quasi quarant’anni noi vogliamo la verità». Anne Lanciotti aveva cinque anni quando la madre, Nadine Mauriot, 36 anni, e il suo compagno Jean Michel Kraveichvili, 25, vennero massacrati nel bosco degli Scopeti. Furono le ultime vittime del Mostro di Firenze, era il settembre 1985. La coppia si era accampata con una tenda canadese nelle campagne di San Casciano che fu anche il paese dei «compagni di merende» Mario Vanni e Giancarlo Lotti e di Pietro Pacciani.

Oggi in tribunale, davanti al gip Anna Liguori, si discuterà se archiviare l’ultimo stralcio dell’inchiesta infinita sulla catena di otto duplici delitti che insanguinarono le colline intorno a Firenze dal 1968 al 1985. Anna Lanciotti e Salvatore Maugeri, amico di infanzia di Jean Michel, sono arrivati dalla Francia in Italia e oggi saranno in udienza al fianco dell’avvocato Vieri Adriani che da anni sta portando avanti la battaglia perché non cali definitivamente il sipario su questa vicenda.

«Chiediamo di approfondire tutte le piste — dicono gli avvocato Adriani e Gaetano Pacchi — visto che tre delitti, quello del 1974 a Borgo San Lorenzo e i due del 1981, sono senza colpevoli». Almeno due le cose da fare, secondo i legali: riesumare la salma di Antonio Lo Bianco, la vittima del 1968, le cui spoglie potrebbero conservare un’ogiva sfuggita all’autopsia, per poterla comparare con le altre sparate dalla Beretta calibro 22 mai ritrovata; recuperare i 17 fotogrammi della macchina fotografica Nikon dei due francesi che sono scomparsi dall’ufficio reperti e potrebbero essere utili a stabilire con certezza quando i francesi vennero uccisi».

Il Mostro di Firenze: 55 anni fa l'inizio dell'orrore. Il delitto del 1968 - considerato il primo di una lunga scia di sangue - ha in comune con tutti gli altri solamente una cosa: la pistola utilizzata, una calibro 22, e i proiettili provenienti dallo stesso lotto. Ed è in questo dettaglio che, forse, si nasconde la risoluzione del caso. Gianluca Zanella il 24 Agosto 2023 su Il Giornale.

Era la notte 21 agosto del 1968. Vicino al cimitero di Signa, nei pressi di Firenze, otto colpi di pistola rompono il silenzio delle colline avvolte dal buio e consegnano alla storia della cronaca nera italiana quello che – dopo 55 anni – viene considerato il primo omicidio del Mostro di Firenze.

Non tutti sanno che però l’attribuzione di questo delitto al cosiddetto Mostro sarebbe avvenuta molti anni più tardi, nel 1982. Un’attribuzione che si basa su un elemento più solido che mai: l’arma del delitto.

In una vicenda quanto mai torbida, costellata da indagini lunghe che si sono inerpicate su piste spesso prive di sbocchi, tra “compagni di merende”, sette sataniche, massoneria e filoni che si spingono in Umbria e addirittura in Sicilia e nel Cadore [il riferimento è all’omicidio del medico perugino Francesco Narducci, avvenuto nel 1985, allo strano suicidio di Elisabetta Ciabani, studentessa fiorentina morta a Baia Saracena nel 1982, e alla scomparsa, nel 1975, di Rossella Corazzin, ndr], un ruolo di primo piano l’hanno avuto personaggi che, nell’anonimato, hanno cercato di indirizzare le indagini.

Una pistola, sedici omicidi

È esattamente quanto avvenuto nel 1982: poco dopo l’assassinio di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini, una lettera anonima giunge ai carabinieri. In questa lettera si suggerisce di rispolverare gli atti di un delitto di quattordici anni prima. Un delitto risolto. Quello, appunto, di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci. Risolto perché in carcere c’è finito il marito della Locci, Stefano Mele, condannato a 14 anni di carcere e – negli anni Ottanta – rinchiuso in un convento a Verona, incapace di camminare e in uno stato psichico fortemente debilitato.

I carabinieri indagano. E scoprono che l’anonimo suggeritore è molto ben informato. L’arma di quel delitto è la stessa utilizzata dal Mostro di Firenze. La stessa pistola che nella notte del 21 agosto 1968 uccise Lo Bianco e Locci – una calibro 22, probabilmente una Beretta, mai ritrovata –, ha fatto fuoco il 14 settembre 1974, il 6 giugno 1981, il 22 ottobre 1981, il 19 giugno 1982, il 9 settembre 1983, il 29 luglio 1984, l’8 settembre 1985.

Quattordici vittime. Sette coppie sorprese in luoghi appartati, in cerca di una parentesi di intimità all’interno della propria automobile che si è trasformata nella loro tomba. Ragazzi e ragazze con una vita davanti, sogni, speranze, desideri troncati dai proiettili di una calibro 22 - proiettili modello Winchester "H", rivestiti in rame - con un piccolo difetto sul percussore, che ha lasciato un segno caratteristico su tutti i bossoli ritrovati sulle scene del crimine.

Peccato che – eccezione fatta per la pistola – tra il delitto del 1968 e i successivi non vi sia alcun punto di contatto. Nessuna traccia di quei “rituali” che caratterizzano in modo marcato le scene del crimine dal 1974 in poi. Poco importa. La pista è interessante e gli investigatori decidono di percorrerla fino in fondo. O quasi.

Una pista insanguinata

Nasce in questo momento quella che viene chiamata “la pista sarda”. Una pista che si chiuderà definitivamente nel 1989, salvo essere rispolverata nei primi anni Duemila in un libro che causerà non pochi problemi ai suoi due autori. Ci arriviamo.

Scavando nel passato, i carabinieri ricostruiscono le prime indagini seguite all’assassinio del 1968, avvenuto – orrore che si aggiunge all’orrore – alla presenza del piccolo Natalino Mele, sei anni, figlio di Stefano e Barbara Locci, addormentato sui sedili posteriori dell’automobile al momento dell’omicidio e rimasto illeso.

Il padre del bambino - sin da subito il sospettato numero uno - torchiato dagli inquirenti accusa due suoi conoscenti. Due fratelli, entrambi a loro volta amanti della moglie e inseriti in un contesto di piccola ma feroce criminalità locale: Salvatore e Francesco Vinci.

Sembrerebbe una storia maturata all’interno di un contesto molto chiuso com’era quello degli emigrati sardi in Toscana. Una storia di tradimenti, gelosie, vendette. Sebbene i due fratelli accusati siano poi stati scagionati dalla ritrattazione del conterraneo Stefano Mele, entrambi tornano nuovamente sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori che adesso non si stanno più occupando di una storia di corna, ma dei delitti seriali più sconvolgenti della storia d’Italia.

Si scava nel passato dei due e da quello di Salvatore, il maggiore, emerge un fatto inquietante. È il 1960, siamo a Villacidro, in Sardegna. La moglie di Salvatore, Barbarina Steri, nonché madre di suo figlio Antonio, di appena un anno, muore. Ufficialmente si tratta di un suicidio. La donna si sarebbe asfissiata con il gas all’interno della sua camera da letto. Gli ematomi e le ecchimosi presenti sul corpo non destano sospetto.

Poco dopo la disgrazia, Salvatore si trasferisce in Toscana, dove verrà raggiunto quattro anni dopo da suo figlio, nel frattempo cresciuto con alcune zie. La sua e quella del fratello Francesco è una storia fatta di violenze. Sul percorso della famiglia Vinci inciamperanno anche altre due donne dal destino crudele: Milva Malatesta e Milvia Mattei. La prima, amante di Francesco Vinci tra il 1982 e il 1983, verrà trovata carbonizzata insieme al figlio di tre anni all’interno di un’automobile il 20 agosto del 1993; la seconda, una prostituta coinquilina di Marinella Tudori, compagna di Fabio Vinci, figlio di Francesco, deceduto nel 2002, viene strangolata all’interno della sua abitazione da mani rimaste ignote.

Tanto Salvatore, quanto Francesco – e per un breve periodo anche il giovanissimo Antonio – finiranno nel gorgo della vicenda del Mostro di Firenze. I primi due ne usciranno perché, mentre sono reclusi in carcere con l’accusa di essere gli autori dei delitti, il mostro colpisce, scagionandoli di fatto e, come detto, la “pista sarda” si esaurisce nel 1989. A questo punto si apre il filone della setta satanica e a prendersi la scena, suo malgrado, arriva il mostro perfetto: Pietro Pacciani.

Resta insoluto, dunque, l’enigma della pistola calibro 22.

Un libro dimenticato e un'indagine scomoda

Già all’epoca delle indagini sul delitto del 1968, tuttavia, gli inquirenti ritenevano improbabile che Stefano Mele potesse aver fatto tutto da solo, men che meno che potesse essersi procurato una pistola. Veniva ritenuto probabile che qualcuno gliel’avesse fornita. Quel qualcuno, una volta commesso il delitto, invece di distruggere un’arma “sporca” l’aveva conservata evidentemente ben nascosta. Fin quando non era tornata a fare fuoco, stavolta in un contesto ben diverso.

Parte da qui, nei primi anni Duemila, l’indagine giornalistica di Mario Spezi, cronista de La Nazione, oggi deceduto, e Douglas Preston, autore americano di thriller di successo. I due iniziano a ragionare sul percorso di questa pistola e, inevitabilmente, tornano a immergersi in quella pista sarda accantonata dagli inquirenti.

Il risultato di questo lavoro di squadra si concretizza in un libro oggi introvabile, Dolci colline di sangue, edito negli Stati Uniti con il titolo The Monster of Florence. La vicenda collegata a questo libro è a sua volta una storia incredibile: Mario Spezi, infatti, viene arrestato su mandato della procura di Perugia, accusato di concorso esterno per l'omicidio di Francesco Narducci. Se in Italia la vicenda è passata pressoché sotto silenzio – fatta eccezione per alcuni giornalisti coraggiosi come Edoardo Montolli – in America e in Europa ha avuto un’ampia eco che ha consentito a Spezi di lasciare le patrie galere dopo tre settimane di reclusione, fino a uscire definitivamente dalla vicenda poco tempo dopo.

Secondo Douglas Preston, che di quella vicenda conserva un ricordo vivido, la “persecuzione” verso lui e Mario Spezi sarebbe scaturita dai risultati della loro inchiesta. Viene allora spontaneo chiedersi: cosa hanno scoperto?

La pistola rubata

Molto semplicemente, i due – partendo dalla pistola calibro 22 - sono tornati a concentrarsi sulla storia familiare dei Vinci, ipotizzando che se nel 1968 Stefano Mele aveva fatto il nome di Salvatore e Francesco, non era poi così assurdo ritenere che la pistola gliel’avessero fornita loro. Allargando lo spettro delle loro ricerche, si soffermano anche sul figlio di Salvatore, quell’Antonio Vinci che nel libro Dolci colline di sangue viene chiamato “Carlo”.

I due autori scoprono un particolare inquietante. Un evento che coinvolge un giovanissimo Antonio. Siamo nell’aprile del 1974. Salvatore Vinci si reca in un commissariato di polizia a Rifredi per denunciare suo figlio, il quattordicenne Antonio, che ormai da un anno è scappato di casa. Il ragazzo, secondo la denuncia di suo padre, sarebbe entrato in casa forzando la serratura e avrebbe rubato qualcosa. Quando i poliziotti chiedono a Salvatore che cosa gli sia stato sottratto, l’uomo dice di non saperlo. Meno di quattro mesi dopo, a settembre, la pistola calibro 22 che secondo i due autori era stata rubata in casa di Salvatore Vinci uccide Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini, le prime vittime del Mostro di Firenze.

Tante coincidenze, nessuna prova

Mario Spezi e Douglas Preston – che nel 2003 faranno il nome di Antonio Vinci come possibile autore dei delitti su M-rivista del mistero, testata diretta da Andrea Carlo Cappi – cercano di dare un senso anche a quel lungo spazio temporale che separa il delitto del 1974 da quello del 6 giugno 1981, che segnerà l’inizio di un’escalation terminata quattro anni dopo. I due segnalano che “Carlo”, alias Antonio, nel 1974 sia rientrato a Villacidro e lì sia rimasto fino al 1980, quando fa ritorno in Toscana e va a vivere a casa di suo zio, Francesco, che il 7 agosto del 1993 viene ritrovato evirato e incaprettato insieme a un altro sardo, tale Angelo Vargiu, nel bagagliaio di un’automobile data alle fiamme.

Secondo gli autori dell’inchiesta, il profilo di Antonio Vinci era quanto di più vicino a quello tratteggiato dai profiler dell’FBI che nel 1989 – su richiesta della polizia italiana – studiarono il caso: un serial killer solitario, maniacale, organizzato, di intelligenza media o superiore alla media, con alle spalle un grosso trauma. Ma se le coincidenze sono tante e suggestive, è lo stesso Douglas Preston che ci tiene a precisare “non c’è nessuna prova che Antonio Vinci sia il mostro di Firenze”.

“Non scorderò mai quando lo andammo a intervistare – ci racconta -, Mario [Spezi, ndr] alla fine gli chiese “è lei il Mostro di Firenze?”. La risposta fu agghiacciante”.

E se è corretto quanto contenuto nel libro “The Monster of Florence” [nella versione italiana questo episodio non viene inserito, ndr], la risposta sarebbe consistita in un "a me le donne piacciono vive".

Non ci risulta che il signor Antonio Vinci abbia mai querelato Mario Spezi e Douglas Preston per le loro teorie, ma nonostante questo avremmo voluto offrirgli la possibilità di replicare, sebbene a distanza di tanti anni. Non siamo stati in grado – ad oggi – di rintracciarlo. Secondo il sito internet “Mostro di Firenze – un caso ancora aperto”, una sorta di archivio in cui viene raccolta buona parte del materiale relativo alla vicenda, il Vinci risiede attualmente a Firenze e svolgerebbe la professione di camionista.

Sarà nostra cura – se possibile e se lui lo vorrà – dare spazio a ciò che avrà da dire. Gianluca Zanella

Estratto dell’articolo di Andrea Vivaldi per repubblica.it lunedì 21 agosto 2023.

Il rullino di una macchina fotografica contenente 17 fotografie, poi vestititi e quaderni. Degli oggetti personali di alcune vittime del Mostro di Firenze rispuntano alla luce a distanza di decenni dagli omicidi. Il rullino fotografico apparteneva a Nadine Mauriot e Jean Michel Kraveichvili, francesi, uccisi l’8 settembre 1985 in una tenda nella zona degli Scopeti, a San Casciano Val di Pesa. Fu l’ultimo delitto attribuito al Mostro di Firenze.

[…]

Dei quaderni e vestiti sono stati invece ritrovati alcuni giorni fa in un baule, dimenticato per anni, che un tempo apparteneva alla famiglia Rontini. La polizia scientifica, coordinata dalla Procura di Firenze, ha sequestrato rinvenuti all’inizio di questa settimana. Pia Rontini venne assassinata insieme a Claudio Stefanacci a Vicchio di Mugello in località Boschettaestura, il 29 luglio 1984.

I reperti adesso, compreso il baule, verranno esaminati dalla scientifica, coordinata dal magistrato Beatrice Giunti e dal sostituto procuratore Ornella Galeotti, che oggi portano avanti le indagini. Saranno utilizzate le tecniche e dispositivi più moderni, che non si possedevano negli anni Ottanta. Ma non sarà facile recuperare delle tracce. 

Dal primo delitto attribuito al Mostro di Firenze sono passati infatti 55 anni. Era la notte del 21 agosto 1968 e dentro una Alfa Romeo Giulietta bianca, accostata in una strada vicino al cimitero di Signa (appena fuori Firenze), vennero assassinati due amanti: Antonio Lo Bianco e Barbara Locci. […]

Estratto dell’articolo di lanazione.it lunedì 21 agosto 2023.

L’esordio del mostro di Firenze, la prima volta che la pistola del serial killer ha sparato prima di passare di mano, o un sofisticato depistaggio? A cinquantacinque anni di distanza, il delitto di Signa resta un enigma a cui è attorcigliata la più misteriosa delle storie noir. 

Eppure, per l’omicidio di Barbara Locci e il suo amante, Antonio Lo Bianco, avvenuto nella campagna di Castelletti, a Signa, nella notte del 21 agosto 1968, ci sono un condannato e un testimone. Ma questo non basta a diradare la nebbia. 

Perché Stefano Mele, il manovale arrestato dopo una controversa confessione difficilmente da solo avrebbe potuto compiere quel delitto. E la pistola, poi, chi gliela avrebbe procurata? Però, chi sparò in quella notte di 55 anni fa, sembrava sapere che a bordo della Giulietta del Lo Bianco, non c’erano solo i due amanti intenti ad amoreggiare sul sedile anteriore. 

Ma pure il figlio di lei, Natalino, sei anni: l’assassino si avvicinò alla coppia da dietro, stando attento a tenere il bambino fuori dalla linea di tiro. Sarà poi il piccolo a dare l’allarme, dopo aver raggiunto una casa distante un paio di chilometri. 

Poteva arrivare da solo, al buio e tra i ciottoli, al campanello dell’unico lumicino acceso? Punti interrogativi, tanti. Il buio, comunque, rimase nella testa di Natalino, che in quella notte perse la mamma ma di fatto anche il babbo, che finì in galera accollandosi in silenzio ogni colpa. 

Nell’agosto del 1968 sparò una calibro 22. Quattordici anni dopo, era il 1982, dopo altre quattro coppie ammazzate, ecco che una misteriosa pista investigativa, annacquata tra il ricordo di un maresciallo e un fantomatico anonimo, fece collegare i duplici omicidio del 1974 (Rabatta), 1981 (Mosciano e Calenzano) e quello appena avvenuto a Baccaiano, alla pistola di Signa, probabilmente una Beretta.

Nacque così la pista sarda, sette anni di indagini a vuoto tra gli amanti della Locci. Era la pista giusta o qualcuno voleva mettere fuori strada gli inquirenti? Chissà. Quando per il mostro si arrivò davvero a un processo, quello a Pacciani, si dirà che la pistola degli otto duplici omicidi era sempre la stessa, ma era passata di mano. Dai sardi ai compagni di merende. 

Oggi ci sono le sentenze che condannano i complici del Vampa, Giancarlo Lotti e Mario Vanni, ma c’è anche la necessità di scavare ancora. Ci sono delitti senza colpevole (Lotti e Vanni avrebbero accompagnato Pacciani a partire dal 1982) e ricostruzioni fallaci.

Le figlie di Nadine Mauriot, ultima vittima della calibro 22 (Scopeti, settembre 1985) vogliono vedere le diciassette fotografie che la madre e il fidanzato Jean Michel Kraveichvili avevano scattato nella loro vacanza terminata in una tenda intrisa di sangue. […]

IL MOSTRO DI FIRENZE.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie

Naomi Campagna il 10 Dicembre 2022 su nxwss.com

Negli anni ’80 una serie di brutali omicidi terrorizza Firenze e i comuni limitrofi.

Le campagne della Toscana diventano scenario perfetto per le morti sanguinose di giovani coppie, assassinate e mutilate con il favore della notte.

Quelli che inizialmente sembrano “delitti passionali”, vendette o episodi isolati, cominciano a suscitare forti sospetti. Tutti hanno in comune la morte di coppie di fidanzati o amanti, perlopiù appartate in auto ai margini di stradine di campagna.  

I massacri avvengono nelle ore notturne. Spari, accoltellamenti, i corpi delle donne violati e sfregiati. Le analogie presenti nei casi sono già evidenti, ma la prova definitiva della loro correlazione sono i proiettili ritrovati sulle scene dei crimini, provenienti da una Beretta calibro 22.

È ormai chiaro che vi sia uno schema in atto, ma nessuna certezza riguardo al suo mandante. Per la prima volta in Italia si parla dell’esistenza di un Serial Killer, chiamato “il maniaco delle coppiette”, ma che il mondo avrebbe poi ribattezzato come: Il Mostro di Firenze.

Il primo omicidio

E’ l’estate del ’68. Una coppia di amanti, Antonio Lo Bianco e Barbara Locci, uscita dal cinema, decide di appartarsi nell’auto di lui.

Antonio parcheggia la propria Alfa Romeo bianca nei pressi del cimitero di Signa, comune vicino Firenze. Poco dopo una figura si avvicina all’auto e spara 8 colpi di pistola. Barbara e Antonio muoiono l’uno accanto all’altro, uccisi da 4 proiettili ciascuno. Eppure, i due non sono da soli: sul sedile posteriore del veicolo, dorme il piccolo Natalino, figlio della donna.

Natale Mele ha solamente 6 anni, quando, al suo risveglio, si rende conto che la madre e lo “zio” sono morti. Il bambino cammina per circa 2 km, prima di arrivare alla casa più vicina e chiedere aiuto. 

“Aprimi la porta perché ho sonno, ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina.” dice Natalino, bussando alla porta di casa del suo soccorritore. Grazie alle indicazioni del piccolo, alle 2 del mattino del 21 Agosto del ’68, i carabinieri scoprono con orrore i corpi esanimi dei due amanti.

Il primo indagato è proprio il marito della donna, Stefano Mele, accusato di aver ucciso i due “per gelosia”. Mele incolpa gli altri due amanti della moglie, Salvatore e Francesco Vinci, di essere gli artefici del crimine. Alla fine, dopo 12 ore di interrogatorio, confessa di essere stato lui.

Mele sa quanti proiettili hanno colpito le vittime, è a conoscenza del fatto che manca una scarpa ad Antonio Lo bianco, ma allo stesso tempo non è in grado di riferire agli inquirenti da quale finestrino ha sparato i colpi e si dimostra incapace di impugnare una pistola.

Il piccolo Natalino afferma da subito di non aver visto nulla, perché stava dormendo, ma poi inaspettatamente dichiara che il padre sia l’assassino. Stefano Mele viene condannato a 14 anni di reclusione.

Durante il processo a Mele, Giuseppe Barranca, collega dell’imputato (nonché altro amante di Barbara Locci) depone per il caso, asserendo che la donna gli avesse confidato di essere seguita da un uomo in moto. Inoltre, in un’occasione, Barbara rifiuta di uscire con Giuseppe, poiché teme che qualcuno possa sparargli si trovano in macchina.

Trascorrono 15 anni prima che l’omicidio venga ricollegato al suo reale assassino, il Mostro di Firenze.

Lo schema del mostro

I più famigerati Serial Killer della storia hanno, a loro modo, un movente per uccidere, e nel farlo adottano un preciso modus operandi per ogni vittima, coerente ai propri desideri, che diventa la “firma” identificativa dell’assassino. 

La maggior parte dei Killer, inoltre, sceglie le proprie vittime per caratteristiche precise: Ed Gein uccideva e mangiava ragazze che somigliavano alla madre, Aileen Wournos prende di mira gli uomini per colmare il desiderio di potere e prevaricazione sul genere maschile. Ted Bundy massacra donne che somigliavano alla ragazza che lo aveva respinto da giovane.

Si pensa che il Mostro di Firenze agisca guidato da questo stesso movente: vendetta. Il Mostro non si limita a sparare alle coppiette appartate, come fa David Berkowitz “Il figlio di Sam”,  ma desidera profanare i loro corpi infierendo con armi da taglio e mutilazioni delle parti intime. 

In quasi tutti gli omicidi possiamo riconoscere la firma del Mostro, come nell’uccisione di Pasquale Gentilcore e Stefania Pettini. I due fidanzati vengono ritrovati morti in auto, appartati in una strada di campagna del paesino di Sagginale. La notte del 14 Settembre del 1974, Pasquale e Stefania vengono centrati da 8 proiettili, 5 uccidono Pasquale e 3 feriscono Stefania. La donna, ancora viva, viene trascinata fuori dall’auto, sdraiata a terra e martoriata da 80 coltellate. 

Quando è chiaro che Stefania sia morta, l’assassino la violenta con un tralcio di vite e infierisce con una decina di coltellate sul corpo del giovane Pasquale. Anche la Pettini, come Barbara Locci prima di lei, ha confidato ad un’amica di aver avuto un incontro “sgradevole con uno sconosciuto” e di essere stata pedinata durante una lezione di guida. Ciononostante, la polizia non è inizialmente in grado di collegare i due casi e devono consumarsi altri due omicidi prima che i giornali inizino a parlare del “maniaco delle coppiette”.

Gli assassinii di coppie che seguono, sono caratterizzati dalla rimozione chirurgica delle parti intime delle donne, come avviene nel caso di Carmela di Nuccio nell’81 e di Susanna Cambi, uccisa e mutilata nell’ottobre dello stesso anno. Dopo la morte di Susanna Cambi e del fidanzato Stefano Baldi, si riesce ad assemblare un primo identikit del carnefice che viene avvistato allontanarsi della scena del crimine da alcuni testimoni in zona. L’identikit viene pubblicato nel Giugno dell’82, poco dopo l’omicidio “chiave” di Paolo Mainardi e Antonella Migliorini, per cui è possibile collegare i tre casi a quello del ’68.

Comincia una caccia aperta all’uomo del ritratto. Il Mostro si macchia di 16 omicidi prima di essere catturato.

Le piste

Tante sono le ipotesi messe in gioco per cercare di dare una spiegazione agli eventi e mettere fine alla barbarie. Tra le più accreditate, figura l’ipotesi della correlazione con una setta satanica. Secondo questa pista, sarebbe coinvolto un medico e professore universitario di Perugia, Francesco Narducci, a capo di una società occulta chiamata “Rosa Rossa”. 

Queste informazioni vengono fornite nientemeno che dal Mostro del Circeo, Angelo Izzo, il quale conosce Narducci che lo ha informato, nei minimi particolari, della morte di Rossella Corazzin. Secondo il racconto di Izzo dei fatti avvenuti nel ’75, la ragazza è adescata, violentata e “sacrificata” per un rito satanico nella villa di Narducci, per cui però quest’ultimo non è mai stato incriminato. 

Il caso viene poi collegato a quello del Mostro di Firenze, teorizzando che Narducci potesse essere il mandante degli omicidi. L’ipotesi viene abbandonata per mancanza di prove, ma rimane incerta la natura della morte di Narducci che, ufficialmente muore suicida un mese dopo l’ultimo delitto del Mostro, ma in molti credono sia stato ucciso per paura che rivelasse la verità.

Altra ipotesi fu legata alla “pista sarda”. Si crede che gli autori appartengano ad un clan sardo che agisce per vendetta. Stefano Mele, il marito di Barbara Locci, è infatti di origini sarde. 

Si pensa che la sua condanna per l’omicidio della moglie, abbia in qualche modo generato una reazione a catena di morti per mano dei “compagni” sardi del clan, per vendicarlo. La teoria viene abbandonata a fine anni 80 poiché del tutto congetturata in mancanza di prove. 

L’ultima ipotesi ruota attorno alla figura di un ex partigiano, Pietro Pacciani.

Quando nel 1991 iniziano le indagini su di lui, Pacciani sta scontando una condanna in carcere per lo stupro delle due figlie, Rossana e Graziella. Già nell’85, una lettera anonima suggerisce di indagare su di lui. La casa di Pacciani venne perquisita, ma non viene trovato niente di compromettente al suo interno. Eppure, erano molti gli indizi che portavano a lui.

Ma chi è Pietro Pacciani?

Identikit di un mostro

Pietro Pacciani nasce nel 1925 da una famiglia di contadini. Si arruola come partigiano nel ’44 (forse più per la sua propensione bellica che patriottica) dove gli viene affibbiato il soprannome di “Vampa”, cioè fiamma, per la sua indole irascibile. Infatti, nel 1951 si macchia del suo primo reato “Il Delitto di Tassinaia”, in cui uccide l’amante di Miranda Bugli, fidanzata dell’epoca, con 19 pugnalate. 

Sconta 13 anni di prigione. L’anno successivo alla sua scarcerazione avvenuta nel ’64, sposa Angiolina Manni da ha due figlie, Rossana e Graziella. Appena le due riescono a lasciare la casa di Pacciani, lo denunciano per gli abusi subiti. L’uomo, se così possiamo dire, picchia quotidianamente la moglie e la costringe ad avere rapporti sessuali, rinchiude in casa le figlie, violenta anche loro, da loro da mangiare cibo per cani, le costringe a guardare riviste pornografiche e imitare le pose in nudo delle modelle.

Nel ’91 hanno inizio le indagini a suo carico. La convinzione degli inquirenti è che Pacciani abbia un movente per uccidere: la vendetta. Le morti delle giovani coppie sono infatti la vendetta perfetta dopo il delitto di Tassinaia, per cui viene condannato. Pacciani uccide 16 volte eppure, fino a quel momento, nessuno riesce ad incriminarlo. Oltretutto, le torture inflitte sulle vittime donne, vengono viste come chiara proiezione di ciò che avrebbe voluto fare alla sua ex-fidanzata. 

Altri indizi giocano a sfavore di Pacciani. Ad esempio, i luoghi dove il Mostro ha ucciso, sono anche luoghi a lui familiari: il paesino di Signa, in cui ha vissuto l’ex fidanzata e in cui il Mostro ha ucciso nel ’68. I comuni di Calenzano e Scandicci, dove la sua ex-ragazza si è trasferita in seguito e teatro dei due omicidi dell’81. Inoltre, Pacciani conserva ritagli di giornali in cui si parla del Mostro, foto di parti intime segnate e un foglio su cui è scritta la targa di un’auto appartenente ad una coppia uccisa nell’85.

Queste piste, insieme ad ulteriori ritrovamenti di bossoli ed oggetti rubati dalle borse delle donne uccise, decretano la cattura di Pietro Pacciani. Finalmente il Mostro di Firenze ha un volto.

Il processo: Il mostro e i suoi “compagni di merende”

Pacciani è arrestato il 17 Gennaio 1993. Il processo si conclude l’1 Novembre del 1994 con la sua condanna all’ergastolo per 14 omicidi (rispetto ai 16 di cui è imputato). Non è ritenuto responsabile del delitto del ’68. Tuttavia, il 13 Febbraio del 1996, viene assolto in secondo appello dalla Corte d’Assise di Firenze e quindi scarcerato.

Mesi dopo l’assoluzione, nel Dicembre del ’96, la Cassazione annulla la sentenza e prepara un nuovo processo che però non avrà mai inizio, dal momento che Pacciani muore il 22 Febbraio del ’98, alla vigilia della prima udienza.

Sappiamo che il Mostro non agisce da solo. Mario Vanni e Giancarlo Lotti, sono i nomi dei cosiddetti “compagni di merende”. Il primo è accusato della sua complicità dallo stesso Pacciani e, in seguito, Vanni denuncia Giancarlo Lotti.

Lotti e Vanni sono entrambi semi-analfabeti, dipendenti dall’alcol, dal gioco d’azzardo e alla prostituzione. È proprio Mario Vanni a coniare il soprannome che identificherà i due complici da quel momento. Alla domanda postagli in aula da un avvocato che gli chiede cosa facesse nella vita, Vanni risponde (ironicamente) “Io sono stato a fa’ delle merende co’ i’ Pacciani, no?”

Nel 2000, il “compagno” Vanni viene condannato al carcere a vita per duplice omicidio. Nel 2004 la pena viene sospesa per problemi di salute, poiché affetto da demenza senile. Viene ricoverato in una casa di riposo nei pressi di Firenze, dove muore nel 2009.

Il “compagno” Lotti invece collabora con la giustizia, fornendo i dettagli di alcuni omicidi a cui ha partecipato, come quello dell’84 in cui perdono la vita la 18enne Pia Gilda Rontini e il 21enne Claudio Stefanacci. Nonostante la sua collaborazione, non ottiene benefici di alcun tipo. Viene infatti condannato a 26 anni di reclusione. Due anni più tardi, nel Marzo del 2002, viene scarcerato per problemi di salute. Muore pochi giorni dopo per un tumore al fegato.

Fernando Pucci, amico dei tre compagni, è testimone chiave dei processi, deponendo contro Pacciani e Vanni. Malgrado anche Pucci fosse in un certo qual modo complice perché aveva assistito senza far nulla, non viene imputato in quanto affetto da Oligofrenia e ritenuto invalido.

Questo è, ad oggi, uno dei casi più intricati e oscuri della cronaca nera. Molte sono le persone coinvolte, centinaia le teorie sui presunti assassini, 16 in tutto sono le persone uccise dalla furia vendicativa, ma migliaia le ferite nei cuori di chi le ha perse. In quell’orrore, il Mostro non ha lasciato la firma solo sulle sue vittime, ma sull’Italia intera.

Scritto da Naomi Campagna

NAOMI CAMPAGNA. Età mentale compresa tra i 24 e i 60. Nella vita scrive, ma sa fare tante altre cose. Esce di casa senza leggere l'oroscopo.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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«Gli stupri per noi erano un hobby settimanale»: Izzo e il racconto della setta della Rosa Rossa. Alessandro Trocino Il Corriere della Sera il 13 maggio 2023.

I memoriali del massacratore del Circeo, raccontati in«Io sono l’uomo nero», di Ilaria Amenta. Le violenze, il compiacimento, l’alleanza di neofascisti con massoni e satanisti 

Leggere i memoriali di Angelo Izzo ha tolto il sonno a lungo all’autrice di «Io sono l’uomo nero», Ilaria Amenta, giornalista Rai. Ci sono brani che tolgono il fiato. Come questo: «Gli stupri per lungo tempo furono per alcuni di noi una specie di hobby cui ci dedicavamo con una frequenza diciamo settimanale». Scrive Izzo che di «sfasci» (come chiama le violenze sessuali) ne commettevano talmente tanti che «era difficile distinguere le orgette con le nostre schiave sessuali, magari consenzienti, dagli stupri veri e propri».

«Ero nel cuore dell’odio: quando uccidevo, mi eccitavo»

Un gruppo di ragazzi, di adolescenti, della buona borghesia di piazza Euclide, a Roma, che prova l’ebbrezza del potere, del dominio, del sopruso sopra una donna. Izzo racconta: «In quelle situazioni sfogavo molto più che la mia libidine compulsiva. Provavo qualcosa di ben più profondo e mostruoso che mi albergava dentro e che sentivo premeva per irrompere. Ero nel cuore dell’odio, un po’ le stesse sensazioni che ho provato uccidendo. Quando uccidevo mi eccitavo». Gli stupri che racconta qui precedono di un anno e mezzo il massacro del Circeo del 1975 e valgono al gruppo una prima condanna a due anni e sei mesi di carcere. Il tribunale scrive che i condannati hanno dimostrato «una insensibilità che lascia sgomenti». Dopo sei mesi, però, i tre tornano in libertà con la condizionale. C’è una frase, in sentenza, che farà molto discutere, dopo il massacro del Circeo: «Gli imputati, tutti di ottima famiglia, una volta usciti dal carcere imboccheranno la strada giusta». 

È una vicenda, quella di Izzo, che mette a dura prova la fiducia nel carcere non come strumento punitivo ma di reinserimento sociale. E nelle misure alternative come metodo per recuperare alla società chi ha commesso un reato. Ma qui siamo oltre, siamo in un territorio che evidentemente invade la sfera di una psiche malata e che non può essere usato per togliere valore agli strumenti che negli anni ’70, dalla legge Gozzini in poi, furono usati per evitare che il carcere diventasse criminogeno.

«Di ottima famiglia»

Quella sentenza, però, dice un’altra cosa. Dice che chi è «di ottima famiglia» è più facile da recuperare. Ottimismo classista che mette i brividi. Invece - scrive Amenta - «Per Izzo e i suoi compagni di ‘orgette sessuali’ la donna è un pezzo di manzo, un giocattolo, una “cosa” per sfogare gli istinti animali, lo avete letto, accontentata la bestia…, un passatempo, un hobby appunto». Molti anni dopo, nel 2004, Izzo fu liberato e l’anno dopo uccise ancora due donne, a Ferrazzano. Perché, scrive nel diario, «avevo pure collaborato con la giustizia, ma l’ho fatto per uscire, per poi tornare a commettere reati di fuori. Non ho mai voluto fare altro».

«Ho stuprato anche maschi, sono femminista»

Izzo si prende gioco di tutto, impone la sua morale distorta in una lettura paradossale della realtà. Gli anni ’70 sono gli anni del femminismo, del tentativo della donna di riacquistare il dominio sul proprio corpo e l’uguaglianza con gli uomini. Izzo stupra, sevizia, uccide donne, ma si proclama femminista: «A pensarci bene, anche il fatto che ho ucciso svariate donne potrebbe voler dire, paradossalmente, che io non faccio differenze di genere. E davvero non faccio differenze, perché mi è assolutamente indifferente uccidere un uomo o una donna, e perché, come facevano gli unni, quando mi è capitato, non ho mai esitato a stuprare anche qualche maschietto. Odio la società patriarcale e mi dispiace per le femministe, che così perdono un facile bersaglio per le loro polemiche, ma probabilmente sono molto più femminista di loro. Per me, uomini e donne hanno esattamente gli stessi diritti e gli stessi doveri».

Neofascisti, massoni e satanisti

Il libro di Amenta (qui l’introduzione, nella Rassegna del Corriere) è uno schiaffo, ma anche uno squarcio inedito della storia dei «drughi pariolini». Non un gruppo di ragazzi deviati che imitano solo Arancia meccanica, ma una vera setta, la Rosa Rossa, che unisce neofascisti e massoni, notabili e satanisti. 

Due mesi prima del delitto del Circeo, scompare Rossella Corazzin , allora appena diciassettenne, proprio come Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, le due donne massacrate al Circeo (Colasanti riuscì a sopravvivere). La ragazzina sparisce a Tai di Cadore, dove era in vacanza con i genitori. L’unica traccia che lascia sono alcune lettere nelle quali accenna di aver conosciuto un certo “Gianni”. Nel 2016, dopo quasi mezzo secolo, Izzo riferisce al Procuratore di Belluno che Rossella Corazzin fu sequestrata da una banda di stupratori, portata sul lago Trasimeno, violentata e uccisa. Il magistrato non gli crede ma nel 2022 la commissione Antimafia dice che il suo racconto è credibile. Nel memoriale pubblicato da Amenta, Izzo racconta i dettagli.

Il mostro di Firenze

Il rito di iniziazione, secondo la ricostruzione di Izzo, avvenne intorno a un tavolo della villa del medico perugino Francesco Narducci, rampollo di una nota famiglia dell’alta borghesia fortemente legata ad ambienti massonici, il cui nome compare negli atti delle indagini sul mostro di Firenze e scomparso nel nulla nel 1985. «Noi vestiti c on tuniche bianche con cucita su una rosa rossa, abbiamo a turno violentato la ragazza e quindi “iniziato” una decina di noi, trasformandoli in adepti, fra cui Andrea Ghira». Izzo descrive Narducci come «un camerata, un figaccione, biondino, belle moto, belle auto, sempre elegante con cui avevo stretto una bella amicizia. Partecipammo insieme anche a riunioni e convegni massonici e di gruppi di estrema destra».

L’iniziazione

Izzo, racconta Amenta, aveva sentito parlare per la prima volta di questo Ordine della Rosa Rossa e della Croce d’oro da Julius Evola e poi da un monsignore del Vaticano. Glielo descrissero come una setta molto potente para-massonica, la fratellanza Rosacroce, gli eredi dei Templari. Ed è così che i «drughi pariolini» vengono iniziati alla Rosa rossa, in una villa di Firenze: «In questa specie di villa medicea impura, ci furono presentati, come padroni di casa, un anziano fiorentino di antica nobiltà, che intrattenendoci ci raccontò che Dante Alighieri era un Rosacroce, un paio di anziani medici, un professore di chiara fama, un noto politic o e soprattutto fummo raggiunti da un giovane uomo, che ci fu detto essere un gran maestro dell’Ordine della Rosa Rossa. Aveva due occhi inquietanti, abbronzato, capelli neri ricci, alto e molto elegante. Ci fu detto che era un massone del 33°, il massimo livello della massoneria».

Il «Re del male»

La disponibilità all’omicidio è il primo compito assegnato: «Uccidere per evocare potenze dell’aldilà, uccidere per acquisire forza. Uccidere per procurarsi sangue e feticci che servivano per altre potenti pratiche esoteriche, oltre che per le evocazioni. Parlammo anche del sesso come mezzo per ottenere poteri alchemici e per attrarre nella setta uomini potenti e viziosi che una volta entrati nella setta ci avrebbero favorito in tutto e per tutto». Izzo entra quindi nella setta, con un rito descritto nei dettagli, che prevede un nuovo stupro. Ma poi racconta: «Io che sono un vero Re del male potrei mai obbedire a questo santone di provincia? E immaginai la scena dell’uccisione del maestro: la mia spada di fuoco che calava rapida e silenziosa alla base del suo collo e io che alzavo la sua testa sanguinante e bevevo il sangue che sgorgava copiosamente dalla vena giugulare esterna».

Mostro di Firenze: quei satanisti ancora in libertà. Secondo le dichiarazioni di Angelo Izzo, ritenute credibili dalla Commissione antimafia, i delitti del Mostro di Firenze sarebbero collegati alle attività del medico perugino Francesco Narducci e alla scomparsa di Rossella Corazzin, uccisa nel corso di un rito satanico. Gianluca Zanella il 4 Maggio 2023 su Il Giornale.

Un sospetto agghiacciante, un'ombra che dal passato allunga le sue tenebre sul presente: l'ipotesi che in circolazione, impuniti, insospettabili, vi sia una dozzina di individui legati da un vincolo di sangue, esponenti dell’estrema destra romana e perugina che, da quasi mezzo secolo, conservano un terrificante segreto e che, se individuati, potrebbero scoperchiare un vaso di Pandora dai contenuti degni di un film horror e, forse, fare luce su tante scomparse che negli anni Ottanta hanno coinvolto giovani donne del Centro Italia.

Non è l'inizio di un thriller. È una verità possibile. E che fa paura. Tutto nasce dalle dichiarazioni di un assassino: Angelo Izzo, che nel 2016, con dichiarazioni agghiaccianti, fa riaprire un caso dimenticato: quello della scomparsa di Rossella Corazzin. Secondo il "mostro del Circeo", la ragazza - 17 anni, scomparsa durante un’escursione sul Monte Zucco, a Tai di Cadore (BL), nell’estate del 1975 - venne rapita e trasportata in una villa sul lago Trasimeno. Lì sarebbe stata oggetto di un rito iniziatico di stampo massonico-satanico che avrebbe previsto prima un abuso sessuale di gruppo e, infine, la morte per strangolamento. All’epoca le dichiarazioni di Izzo vennero poi ritenute inattendibili e il caso fu archiviato. Si torna adesso a parlarne a seguito dei lavori svolti dalla Commissione antimafia.

Lavori al centro di una puntata di Atlantide, il programma condotto da Andrea Purgatori, dedicata ai delitti del Mostro di Firenze e ai collegamenti con l’oscura vicenda che vede protagonista il medico perugino Francesco Narducci. Ospiti in studio, l’ex magistrato Giuliano Mignini – che a lungo si è occupato del “filone perugino” riguardo i delitti del Mostro di Firenze – e l’onorevole Stefania Ascari, che hanno spiegato per quale motivo viene data credibilità alle parole di un ergastolano da molti ritenuto un millantatore seriale.

Secondo Izzo, il tutto sarebbe da ricondurre all’attività della setta esoterica della “Rosa Rossa”, più precisamente a un rito iniziatico. Introdotto, a suo dire, in questo ambiente da un personaggio piuttosto controverso quale il frate Felix Morlion, vicino ad ambienti dell’intelligence a stelle e strisce e fondatore dell’Università Pro Deo [oggi Luiss, ndr], Angelo Izzo partecipò al rito come membro già pienamente integrato. Un rito che vide come protagonisti e aspiranti affiliati altri quindici “drughi”, il termine con cui Izzo indica i neofascisti legati ad Avanguardia nazionale (e non, come riferito nel corso della trasmissione da Ascari, ad Ordine nuovo).

Nel corso della trasmissione, al netto dei possibili collegamenti di questo episodio con i delitti del Mostro di Firenze, al netto dei misteri che avvolgono la morte di Francesco Narducci, avvenuta nel 1985, è mancata una domanda fondamentale: prendendo per buone le parole di Izzo, si è mai cercato di identificare i partecipanti a questo rito esoterico-satanico?

L’abbiamo chiesto direttamente a Giuliano Mignini, che ci risponde di sì: “Qualcosa è stato fatto, ma al momento non posso dire molto altro”. Questo ci fa supporre – e auspichiamo sia così – che i lavori troppo bruscamente interrotti per la fine della passata Legislatura possano riprendere con ancora più vigore. Ma intanto qualche elemento siamo riusciti ad ottenerlo: già nella relazione finale della Commissione, pubblicata al termine del 2022, si fa il nome di Serafino Di Luia, neofascista e braccio destro di Stefano Delle Chiaie. Secondo Izzo, era uno dei partecipanti al rito [ma – lo specifichiamo – Di Luia non è mai stato indagato per questo, ndr]. Stesso discorso anche per Gianni Guido, complice di Izzo nel massacro del Circeo e tirato in ballo – senza riscontri – anche in questa circostanza.

In quella villa, secondo le informazioni che abbiamo raccolto, erano presenti personaggi provenienti a Roma e da Perugia. Tra questi, oltre ai due appena citati, coinvolti da Angelo Izzo, anche un nobile perugino oggi deceduto. Il suo nome non compare nel testo della relazione, ma i membri della Commissione vi sarebbero arrivati sempre grazie alle parole dell’ergastolano, che - a differenza del 2016 - viene ritenuto credibile per l'aver aggiunto al suo racconto, reso ai membri della Commissione presso il carcere di Velletri, dei particolari riscontrabili che, secondo i membri della Commissione, difficilmente avrebbe potuto apprendere de relato. Nello specifico, Izzo – che non avrebbe partecipato né al rapimento, né all’uccisione, ma solamente allo stupro di gruppo – ha descritto in modo attendibile il luogo in cui sarebbe avvenuta l’ordalia: la villa sul Trasimeno di proprietà di Francesco Narducci. Il magistrato Mignini ritiene che solo essendoci stato personalmente Izzo avrebbe potuto descrivere in quel modo gli ambienti della villa.

Un racconto plausibile? Forse sì, ma ulteriori approfondimenti sono d'obbligo. Di certo c'è solo una cosa: il corpo della povera Rossella Corazzin non è mai stato ritrovato e se davvero si arrivasse all'individuazione delle persone coinvolte nell'ipotetico rito satanico, la famiglia potrebbe forse avere un luogo su cui almeno deporre un fiore.

OLGIATA: LA MORTE DELLA CONTESSA

Gaia Vetrano il 14 Gennaio 2023 su nxwss.com

Nella storia del delitto dell’Olgiata la realtà si avvicina molto al cliché. Vi è mai capitato di dire che la colpa è del maggiordomo? Facciamo prima un passo indietro.

Se avete mai giocato a Cluedo, questo caso vi sembrerà particolarmente familiare.

È un afoso inizio luglio e a Roma, nella sontuosa villa Mattei-Filo della Torre, all’Olgiata, c’è fermento. Inservienti, giardinieri, cuochi e domestiche vanno e vengono per preparare la festa del decimo anniversario delle nozze dei proprietari, il costruttore Pietro Mattei e la contessa Alberica Filo della Torre. A bordo piscina, tra i salici, i cipressi, gli alberi da frutto e il giardino, si prospetta una grande celebrazione, dato anche l’impegno dei dipendenti della famiglia per l’evento. Una mattina come tante, in un microcosmo isolato dalla Capitale, abitata da individui che non ricercano il losco, né tantomeno il proibito. Lontani dal caos, lontani dai guai. Forse.

Tutto fila liscio secondo i piani. Eppure, dove occhi indiscreti non possono arrivare, si consuma una tragedia. Il calendario segna il 10 luglio 1991.

Quello che doveva essere il luogo perfetto per una festa di mezza estate diventa la scena di un crimine che richiederà venti anni per essere risolto.

La contessa segue già dalle sette del mattino i preparativi ma l’orologio segna le 9.15 quando la cameriera Violeta Apaga e la figlia Domitilla bussano alla porta della sua camera e lei non risponde. Le due si preoccupano, ma decidono di aspettare un’altra ora. Alle dieci la domestica si presenta nuovamente sull’uscio della stanza di Alberica. Anche questa volta rimane in silenzio. La porta è chiusa dall’interno, quindi Domitilla recupera la chiave di riserva ed entra.

La contessa è sdraiata sul pavimento. Indossa ancora la camicia da notte. La sua testa è avvolta da un lenzuolo e tutto attorno a lei c’è sangue. Il suo sangue.

Il killer si macchia anche di un furto: mancano alcuni gioielli. Più precisamente un collier e un anello da ottanta milioni di lire.

I presenti chiamano le forze dell’Ordine e sul luogo si precipita anche l’amico Michele Finocchi, funzionario del Sisde, il servizio segreto civile. La magistratura apre un’inchiesta e del caso se ne occupa il pubblico ministero Cesare Martellino.

In una Roma ancora scossa dalla morte di Simonetta Cesaroni, ventunenne di Cinecittà, il cui cadavere era stato trovato un anno prima in via Carlo Poma e di cui non era ancora stato scoperto il colpevole, viene aperto un nuovo caso, che alla storia passerà come il delitto dell’Olgiata. 

Chi è Alberica?

Alberica è di una bellezza sfacciata. Ha una grande passione per l’arredamento e una vita alle spalle piena di lussi. È figlia del contrammiraglio Ettore Filo della Torre e della duchessa Anna del Pezzo di Cajanello, donna nota alla cronaca perché impegnata nel sociale tramite raccolte fondi. Di diritto membro del ramo dei conti di Torre di Santa Susanna, dopo il debutto in società, Alberica viene contesa da un sacco di uomini. 

Tutti la adorano per la sua beltà: ha la pelle lattea, grandi occhi neri e la chioma corvina. Tra tutti i corteggiatori sceglie Don Alfonso de Liguoro principe di Presicce. I due convolano a nozze e alla cerimonia partecipa la Roma mondana. Ma la storia d’amore tra i due dura poco: si separano e Alfonso, qualche mese dopo, si ammala di leucemia e muore.

Alberica dopo il divorzio si chiude in sé stessa: rifiuta gli inviti alle feste e non mette più piede fuori casa. La famiglia organizza così un viaggio in suo onore: Montecarlo, Londra, New York. Terminata la vacanza Alberica non ne vuole comunque sapere più nulla. Non sa che la svolta è alle porte, e ha il nome di Pietro Mattei. I due si conoscono a una festa dove la contessa era stata obbligata ad andare. Tra l’ex amministratore delegato della Vianini e imprenditore edile e Alberica è subito colpo di fulmine. Il 10 luglio 1981 i due si sposano. Insieme avranno due figli: Manfredi e Domitilla.

Tutto va a gonfie vele nella vita di Alberica. La sua è una famiglia felice. Ma la sua favola altoborghese sta per essere spezzata. 

Il giorno che cambiò il microcosmo dell’Olgiata

La mattina del 10 luglio 1991 è senza dubbio speciale.

Nella casa sono presenti, oltre ai due figli, Manfredi e Domitilla, la babysitter inglese Melanie, una coppia di domestici filippini e tutti gli operai assunti per la festa. Ognuno ha le sue mansioni e, alle 8 del mattino, tutta la famiglia si ritrova come da routine per la colazione. Dieci anni sono importanti, e nel giardino c’è già un grande via vai. Agli operai si uniscono anche i figli, che si mettono a giocare assieme sotto gli occhi vigili di Melanie in piscina. Dove i bambini ridono, c’è serenità. Mattei ha invece del lavoro d’ufficio da svolgere, così lascia l’abitazione. Lo scacchiere è completato, o almeno così si pensa.

Nessuno si immaginava che quella sarebbe stata l’ultima mattina in cui avrebbero sentito la rassicurante voce della madre. 

Per chi vive all’Olgiata, il caos e il marcio non fanno parte della quotidianità. Per carità, tutti sono costretti a percorrere il Grande Raccordo Anulare per rientrare nella Capitale. Ma poi, a fine giornata, ognuno riprende la sua macchina e ritorna nella propria villa.

Per chi appartiene al microcosmo dell’Olgiata, la vita è cullata dal canto delle cicale. Le giornate sono passate all’ombra dei cipressi, a discutere con l’amico costruttore e imprenditore, magari ascoltando uno dei vinili di tua proprietà. Il clima è riservato e conviviale. Entrando all’Olgiata si abbandona la sporcizia della Capitale. Infatti, quella mattina del 10 luglio, nella villa Mattei-Filo della Torre, bisogna far attenzione a chi arriva dall’esterno.

Alberica rientra nella sua stanza: una spaziosa e aerosa camera da letto. La contessa si toglie la vestaglia, rimanendo in camicia da notte. Poi il silenzio. Qualcuno, approfittando del momento di ritrovo in cucina, si è intrufolato nella camera della donna.

La villa ha i vetri blindati, quindi da fuori nessuno può sentire i rumori che provengono dall’interno. E questo il nostro killer lo sa bene. Del resto, quando la contessa entra nella stanza e lo vede, questa non urla. 

Alberica gli chiede cosa stia facendo. Quello potrebbe rispondere, ma sceglie la via più drammatica. Preso dalla collera, colpisce in viso la signora, che sbatte contro il muro. Poi afferra uno dei suoi zoccoli, colpendole ripetutamente il capo. Il sangue finisce dappertutto: tende, tappeto, pavimento.

Alberica prova a resistere, ma tutto è inutile. L’assassino prende le lenzuola del letto e la strangola violentemente. Preme sulla carotide, levandole il respiro.

C’è chi pensa a una rapina andata male, interrotta proprio dall’arrivo della padrona di casa. Forse un tentativo di violenza. I carabinieri azzardano possa trattarsi di un delitto passionale e identificano in Pietro Mattei l’indiziato numero uno.

L’unica certezza per gli inquirenti è che solo una persona vicina alla famiglia poteva entrare in maniera indisturbata per commettere un simile omicidio. In pochi possono permettersi di conoscere dove Alberica nasconde i suoi gioielli. Qualcuno che poteva sapere come entrare nella bellissima e sontuosa villa senza lasciar traccia.

Quel giorno, sebbene l’assassino sia certamente una figura nota alla famiglia, è un intruso. Che non si preoccupa di non fare rumore o di indossare i guanti per non lasciare impronte.

La scena del crimine è perfettamente in ordine, se non fosse per il sangue. Nessun cassetto svuotato, o anta dell’armadio aperta. Niente che faccia intendere l’arrivo di un ladro che in fretta cerca il bottino. Inoltre, al polso della contesa rimane il Rolex, di altissimo valore.

Le indagini del delitto

Un delitto del genere, con le moderne apparecchiature della scientifica, sarebbe stato risolto in poco tempo.

Eppure, negli anni 90’, non ci sono certo gli stessi strumenti di oggi. Ma a creare problemi nelle indagini non c’è soltanto la scarsa capacità di raccogliere dati, ma il tempo eccessivo per far arrivare la scientifica, insieme a tutte le persone che sono accorse sulla scena del crimine prima dell’arrivo delle autorità competenti.

A partire proprio dalla piccola Domitilla, che prova a entrare nella camera per prendere il suo cerchietto. O due operai, che insistono con la domestica per vedere Alberica. Devono parlare con la contessa per verificare insieme che i lavori siano stati ultimati al meglio.

Erano insieme quando la camera viene aperta, e il corpo viene ritrovato.

Oltre ai gioielli, c’è un altro punto su cui i carabinieri devono far luce: la chiave della stanza. Questa manca infatti all’appello, così come il pesante oggetto contundente utilizzato per colpire la contessa in testa, prima di strangolarla con il lenzuolo.

Martellino convoca tutti: figli, parenti e dipendenti. Interroga ognuno di loro, consapevole del fatto che il ladro conosce bene la villa. Sa che le cinque porte sfuggono ai domestici, che i vetri sono blindati e coperti da inferriate, dove si trovano i gioielli nella camera della contessa.

Sette sono i principali sospettati, tutti presenti nella casa quella mattina.

Melanie, la babysitter, nell’istante in cui la contessa veniva uccisa, si trovava nel balcone a fumare mentre guardava i bambini. Poche ore prima era stata licenziata, perché il suo lavoro era ritenuto insoddisfacente. Quello sarebbe stato il suo ultimo giorno. Eppure, sul suo conto non esce nulla. Così viene rimpatriata, uscendo definitivamente di scena.

Il marito, trovandosi fuori casa, viene escluso. Gli inquirenti si concentrano in un primo momento su Roberto Jacono, figlio dell’insegnante privata – anche lei licenziata da poco – dei bambini di casa Mattei-Filo della Torre, un giovane con alcuni problemi psichici. Per l’opinione pubblico è perfetto. Eppure, il suo nome viene fuori dopo mesi di ricerche.

Roberto frequenta i bar della Roma centro, tra disoccupati e fumatori incalliti, o fan del calcio professionisti della nullafacenza. Negli anni precedenti aveva ricevuto una multa per atti osceni in luogo pubblico – aveva urinato sull’orlo della strada – ed era stato coinvolto in una rissa con un giocatore di biliardo in un locale. Per questo motivo la madre lo portava con sé a casa di Alberica, per tenerlo d’occhio.

Il ragazzo violento e problematico è il capro espiatorio perfetto.

I tabloid non cercano altro che questo: un nome da far proprio come titolo di copertina dell’omicidio della Roma lussuosa e sfarzosa. Interessa vendere e spettegolare sulla tragedia che distrugge la coppia perfetta.

In casa di Roberto sono trovati dei pantaloni con delle macchie di sangue incrostato: la prova madre, per la Procura. Il giovane folle che, preso dalla rabbia, si intrufola in casa in cerca di soldi e commette un omicidio.

Oltre a lui anche Manuel Winston Reyes, domestico filippino. Ex-maggiordomo della villa, ha rapporti quotidiani con la famiglia, tant’è che Alberica gli aveva prestato un milione di lire. Proprio per questo motivo avevano recentemente litigato molto animatamente, visto che questo denaro non gli era più tornato indietro.

Il test del DNA scagiona Roberto, che scende dalla giostra mediatica. Il sangue sui suoi pantaloni non è quello di Alberica. Sul suo cadavere non spuntano neanche tracce del DNA di Winston.  

I mesi passano. Marcellino ordina dei rilevamenti di impronte digitali sotto le unghie e le suole delle scarpe dei presenti quel giorno. Ma ciò non basta a trovare un colpevole. 

Tutti i nodi vengono sempre al pettine, compresi i fondi mancanti. Parliamo del SISDE. Si tratta della notizia perfetta. Quella necessaria a smuovere le acque di nuovo.

Uno dei momenti apicali della drammatica stagione che segnò la fine della cosiddetta “prima repubblica” si registra nel 1993. Vengono alla luce dei buchi nei libri contabili del servizio civile segreto: 14 miliardi di lire, sottratti al bilancio del SISDE e depositati a favore di cinque funzionari. Altri 35 miliardi di lire vengono poi individuati a San Marino.

Un’ingente parte era stata usata per pagare la costituzione di un’agenzia viaggi, usata per i viaggi dei membri del SISDE, la Scilla Travel, nata dalle ceneri della vecchia Miura Travel, di proprietà al 60% di Michele Finocchi, amico di Mattei.

Alberica possedeva proprio dei conti svizzeri a nome suo per conto del marito. Così nel 93’ si apre una nuova pista. Mattei è collegato agli affari del SISDE? Perché Finocchi arrivò subito sul luogo del delitto? Pietro avrebbe potuto uccidere la moglie per i soldi?

I due vennero interrogati nuovamente ma nulla da fare. Hanno alibi d’acciaio. Finocchi era in villa per prendere una giacca scordata da Pietro.

Sul delitto dell’Olgiata cala nuovamente l’ombra. Rimangono solo due famiglie, quella di Alberica e quella di Jacono, distrutte. La prima per il dolore della morte della donna, venduto ormai per quattro lire nei giornali. La seconda a causa del marchio che era stato affibbiato, per colpa delle accuse errate, al povero Roberto.

Italo Ormanni, nuovo procuratore, constata l’innocenza dei conti di Alberica. Questi non sono legati allo scandalo del SISDE.

Olgiata: i risvolti del 2008

Eppure, Mattei non si arrende. Passano anni.

Arriviamo al 2008. L’ormai stanco Pietro chiede altri test per il DNA, date le nuove scoperte scientifiche sul campo. Riesaminano così le lenzuola, che ora sono in grado di parlare e di raccontare la verità sul caso.

Il nuovo PM Francesca Loy affida al RIS il compito di analizzare anche l’orologio, il famoso Rolex. Vengono così ritrovate le tracce di Manuel Winston.

Non solo, ma viene constatato che avrebbero potuto incastrare l’assassino molto tempo prima se solo avessero ascoltato le registrazioni delle sue conversazioni telefoniche. In una di queste il filippino dichiara a un ricettatore di essere interessato a vendere i gioielli rubati alla contessa.

Quando lo arrestano, Winston è impassibile. Dopo tutti questi anni, non pensa neanche sia possibile che lo stiano arrestando per il delitto dell’Olgiata, quartiere per cui ha lavorato per anni.

Nonostante le accuse di omicidio, riesce negli anni successivi al crimine a reinventarsi, arrivando a lavorare addirittura per Montezemolo. Con sua moglie è felice. Addirittura, secondo quanto affermato dalla donna durante gli interrogatori, Winston non le disse mai nulla che potesse provare la sua colpevolezza.

Per anni conservò il segreto dell’omicidio di Alberica. Come se non si fosse mai pentito. Non vacillò mai. Quanto è labile il confine tra bene e male? Non lo sapremo mai, ma sappiamo quanto può essere grande l’abisso che li contiene. E Winston, dopo essersi macchiato le mani, vi sprofonda all’interno.

Questo non per l’atto in sé, ma per il tempo con cui è riuscito a conviverci in pace.

Il 9 ottobre del 2012 viene condannato definitivamente a 16 anni di carcere, ma nel 2021 grazie a un indulto e alla liberazione anticipata, viene liberato.

Il delitto dell’Olgiata ha finalmente un assassino.

Scritto da Gaia Vetrano.

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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L'omicidio della "Roma bene". Roma, il delitto dell’Olgiata: la storia di Alberica Filo della Torre. L’omicidio e la riapertura delle indagini. Cosa è successo? Redazione su Il Riformista il 18 Maggio 2023 

Alberica Filo della Torre, appartenente al ramo dei conti di Torre Santa Susanna della nobile famiglia napoletana Filo, è stata suo malgrado protagonista di uno dei casi di cronaca nera più dibattuti degli anni ’90. Dedita alla filantropia e alla beneficenza, nata a Roma nel 1949, Alberica era figlia della duchessa Anna del Pezzo di Caianello e del contrammiraglio Ettore della Torre di Santa Susanna.

La mattina del 10 luglio del 1991, il suo corpo viene ritrovato steso a terra inerme in camera da letto della sua residenza romana, nel quartiere dell’Olgiata, nord della città. La testa avvolta in un lenzuolo insanguinato. Colpita da un oggetto e poi strangolata. Di lì a poche ore si sarebbe dovuta celebrare la festa per il decimo anniversario di matrimonio con il costruttore Pietro Mattei.

I primi a trovare il corpo sono la domestica e il marito della contessa, in compagnia della figlia Domitilla. Il corpo della contessa riverso a pancia in giù, dalla stanza m,ancano alcuni gioielli. Sul posto accorrono le forze dell’ordine e Michele Finocchi, amico di famiglia e funzionario del Sisde.

Senza testimoni, le indagini si rivelano complicate. All’inizio i sospetti si concentrano su Mattei per poi abbandonare la pista e richiedere l’esame del Dna per altri due individui. Roberto Jacono, figlio dell’insegnante privata dei figli della donna, affetto al alcuni problemi comportamentali, e l’ex cameriere della casa, Manuel Winston Reyes. Le analisi scagionano entrambi. Da qui in poi per vent’anni vengono dibattute le piste più disparate.

Quando esplode lo scandalo dei fondi neri del Sisde viene coinvolto l’amico Michele Finocchi e i servizi segreti. Anche qui nulla di fatto. Poi arriva il turno di Franklin Yung, finanziere di Hong Kong e vicino di casa all’Olgiata. Niente.

Il colpevole (spoiler)

Il caso viene riaperto molti anni dopo, nel 2007, quando il marito della contessa Pietro Mattei chiede ulteriori analisi, facendo affidamento alle nuove tecniche investigative. Le prove del Dna questa volta inchiodano Manuel Winston Reyes, domestico filippino, licenziato dalla contessa. Un magistrato recupera le registrazioni delle telefonate in cui l’uomo tratta con un ricettatore la vendita dei gioielli rubati.

Il domestico intanto si era sposato, aveva avuto una figlia e l’aveva chiamata Alberica come la contessa. “Mi sono tolto un peso che mi portavo dietro da vent’anni, scusatemi”, le sue parole il giorno dell’arresto, il primo aprile del 2021. Reyes era andato alla villa per convincere la contessa a ri-assumerlo. E invece la situazione era degenerata. La rapina va in prescrizione, la condanna per omicidio con rito abbreviato. Il 9 ottobre la sentenza definitiva: 16 anni di carcere.

Pietro Mattei è morto nel gennaio 2020. Manuel Winston Reyes è stato scarcerato. Tra buone condotte, indulti e pene esigue ha scontato dieci anni di galera. “Voglio la mia vita di uomo libero e la mia giustizia. Sono molto emozionato, non so dire nulla, per ora. Arriverà il tempo”, ha detto. “So che stanno soffrendo, ma non posso ridar loro la felicità”

Il 30 gennaio 2012 è stata fondata su iniziativa di Pietro Mattei, Domitilla Mattei e Manfredi Mattei, la Fondazione Alberica Filo della Torre che si prefigge lo scopo di ricordare la lotta per la verità e la giustizia.

 Torino, ritrovato il cadavere di Marco Conforti nel bagagliaio di un Suv. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2023

Il 55enne, titolare di alcune scuole guida nel Torinese, forse vittima di un omicidio. L'allarme lanciato domenica sera dai residenti del quartiere Aurora

È già buio quando la prima volante della polizia arriva in via Rovigo a Torino. Sono le 22.30 e dalla centrale operativa hanno appena comunicato che l’iPhone di Marco Conforti, 55 anni, imprenditore di Castagneto Po, scomparso da due giorni, è stato localizzato in quella zona grazie all’applicazione del cellulare. La costosa Range Rover Velar grigia è infatti parcheggiata all’angolo con strada del Fortino, con il cofano che sporge vistosamente rispetto alla fila delle auto accanto. 

Di Conforti, però, non c’è traccia e dal bagagliaio proviene un odore nauseabondo. Lo scenario cambia improvvisamente. Arrivano altre pattuglie, altri poliziotti. E dopo diversi tentativi gli agenti riescono ad aprire il portellone. All’interno del bagagliaio c’è il corpo senza vita di un uomo. Indossa jeans e maglietta ed è in avanzato stato di decomposizione.

L’intero isolato viene transennato e gli investigatori della squadra Mobile, guidati dal dirigente Luigi Mitola, cominciano a interrogare i residenti della zona. Ci sono tracce sull’asfalto che potrebbero essere di sangue, ma il cadavere non presenta ferite evidenti. 

Nell’abitacolo ci sono il cellulare di Conforti, il suo portafogli e un pacchetto di sigarette infilato nella portiera. Che è stata forzata e infatti qualcuno racconta di aver sentito l’allarme suonare domenica mattina, ma dovrebbe trattarsi di un tentativo di furto che non ha nulla a che fare con la morte del 55enne. 

Nelle tasche del cadavere c’è la chiave del Suv e manca invece un documento d’identità. Ma sul fatto che si tratti dell’imprenditore non ci sono dubbi.

È probabile che si sia trattato di un omicidio, ma sulle indagini c’è ancora il massimo riserbo. 

Irrintracciabile da giorni

Marco Conforti, titolare di alcune scuole guida in provincia di Torino, era irrintracciabile da alcuni giorni. A denunciare la scomparsa lo scorso 26 maggio è stata l’ex moglie. Sono divorziati da tempo, ma abitano in un’elegante villa familiare divisa in due appartamenti, decisione presa per stare vicini ai due figli di 17 e 19 anni.

La donna ha notato che per due sere l’auto del suo ex marito non era stata parcheggiata in cortile e, non riuscendo a contattarlo, ha denunciato il suo allontanamento. Non era la prima volta che succedeva, ma dopo 24 ore Conforti tornava sempre.

Questa volta no e, per il momento, nessuno sa cosa sia successo. Un omicidio o una morte in circostanze «misteriose» con conseguente occultamento di cadavere.

Autopsia

In base ai primi accertamenti eseguiti dal medico legale non sono state trovate ferite evidenti sul corpo, ma sarà l'autopsia a chiarire la causa della morte, che per il momento è stata classificata come «sospetta».

Estratto dell’articolo di Irene Famà Lodovico Poletto per “la Stampa” il 30 maggio 2023.

Lo hanno trovato domenica, che era già notte. Pioveva. L'auto, una Range Rover grigio metallizzata era parcheggiata lì, in via Rovigo. Messa male. L'applicazione del cellulare era stata precisa. Quartiere Aurora, una delle zone più complicate di Torino: area di spaccio, di prostitute. C'era già la polizia, chiamata dalla ex moglie dell'imprenditore sparito da cinque giorni. […] Auto chiusa. I poliziotti si sono fatti dare le chiavi da Serena, l'ex moglie di Marco Conforti, 56 anni. Hanno aperto il bagagliaio e lui era lì. Rannicchiato. Morto da giorni.

[…] I rilievi della scientifica dicono che non c'erano segni di violenza sul corpo. Non ci sono tracce di botte. Di ferite. Di spari. Niente di niente. Com'è morto Marco Conforti? E perché lo hanno caricato nel bagagliaio della sua auto e abbandonato lungo una strada di mezza periferia? Che cosa c'era di così orribile per nascondere un cadavere in quel modo? 

Per capire qualcosa di più bisogna andare indietro. […] Marco Conforti […] era così, esagerato e vivace. E con tanti vizi. […] Gestiva una cinquantina di autoscuole consorziate in tutto il Piemonte. Un giro d'affari milionario. Poi però c'era il suo lato oscuro: la droga.

Ecco, la cena dopo quella gita al mare è il punto di partenza delle indagini della squadra mobile di Torino. Si ritrovano in cinque. A mezzanotte è tutto finito. Marco Conforti se ne va con un amico, un carrozziere. Destinazione uno strip club dalle parti della stazione Porta Nuova. Gli altri se ne vanno a casa. 

Vicky, l'ex fidanzata russa, ha un ricordo nitido: «Quella sera mi ha abbracciata. Mi ha detto "ci vediamo quando, e se, riesco ad uscire da questa merda". Ha detto proprio così». Che cosa Vicky? «La droga. Marco si calava di tutto, ogni tipo di sostanza. Ma, penso, più che altro cocaina». Eccolo qui il lato oscuro dell'imprenditore. La polizia ha imboccato questa pista per capire com'è morto. Ha chiesto esami tossicologici. Mercoledì ci sarà l'autopsia e qualche cosa di più di certo lo dirà. 

[…] Era davvero una serata da concludere al night, oppure Marco e l'amico cercavano uno spacciatore? Gli investigatori hanno acquisito i filmati delle telecamere di sorveglianza della zona. Chissà che quel suv non sia stato immortalato e non si riesca a intuire chi c'era a bordo. Per capirlo servono esami tecnici. Serve tempo. 

[…] Servirebbe […] Il racconto di Franco, il carrozziere, amico dell'imprenditore. L'ultimo, forse, ad averlo visto vivo. Lui, magari, potrebbe svelare dove Marco Conforti andava a comperare la coca. Qualcuno dice proprio dove hanno trovato l'auto, in zona Aurora. E dicono anche che da quelle parti frequentasse una donna, una delle tante amiche. Con lei si sono visti anche la notte tra martedì e mercoledì? È possibile. In questo caso lo scenario cambierebbe. Marco Conforti potrebbe essere stato abbandonato lì, in strada, morto, per evitarsi problemi. […]

Il corpo nel Suv è di Marco Conforti. La scoperta grazie a un'app. Rosa Scognamiglio il 29 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il cadavere del 56enne è stato ritrovato nel bagagliaio di un Suv parcheggiato alla periferia di Torino. La polizia indaga con l'ipotesi di omicidio. L'auto è stata localizzata tramite un'app del telefono

Tabella dei contenuti

 Il ritrovamento del cadavere tramite un'app

 Le indagini e l'autopsia

 Chi è Marco Sconforti

È stata confermata nel pomeriggio di lunedì 29 maggio l'identità del cadavere ritrovato nel bagagliaio di un Suv, in via Rovigo a Torino, nella tarda serata di domenica. Secondo quanto apprende l'Ansa da fonti investigative, si tratta di Marco Sconforti, imprenditore 56enne originario di Castagneto Po, nel Torinese. Sulle indagini, coordinate dal pm Antonella Barbera e condotte dagli agenti della Squadra Mobile, vige stretto riserbo. Al momento, l'ipotesi più attendibile sembrerebbe quella dell'omicidio.

Il ritrovamento del cadavere tramite un'app

Il cadavere del 56enne, in avanzato stato di decomposizione, è stato ritrovato ieri sera, in via Rovigo, precisamente all'angolo con via del Fortino, nel quartiere Aurora del capoluogo piemontese. A dare l'allarme sono stati i residenti che hanno notato alcune tracce si sangue all'esterno del Suv, una Range Rover di colore grigio scuro. Contestualmente l'ex moglie di Sconforti è riuscita a localizzare la vettura tramite un'app del telefonino. La donna aveva denunciato la scomparsa dell'imprenditore, col sospetto di un allontamento volontario, lo scorso 26 maggio. Una circostanza che, a fronte delle evidenze raccolte, avvalora l'ipotesi di una "morte sospetta" (è così che l'hanno definita gli investigatori).

Le indagini e l'autopsia

Dai primi accertamenti post mortem non risultano lesioni o ferite evidenti sul corpo del 56enne. Ad ogni modo, bisognerà attendere l'esito dell'autopsia per stabilire con certezza le cause del decesso. Con buona probabilità l'esame si farà mercoledì mattina. Certo è, invece, che le tracce ematiche ritrovate sia all'interno del bagagliaio che all'esterno del Suv, rafforzano l'ipotesi dell'omicidio. E poi, un altro dettaglio anomalo: domenica mattina l'auto aveva subito un tentativo di furto. A parte alcuni effetti personali, tra cui l'-phone, all'appello mancano i documenti dell'imprenditore.

Chi è Marco Sconforti

Marco Sconforti era originario di Castagneto Po, in provincia di Torino. Era il titolare di alcune scuole guida con sedi a Brandizzo, Settimo Torinese e Cavagnolo. I familiari hanno deciso di restare in silenzio così come i dipendenti delle attività gestite dal 56enne: "Non possiamo rilasciare dichiarazioni. - hanno detto all'Agi - La famiglia non vuole". La stessa riservatezza che hanno scelto anche gli inquirenti nel tentativo di fare luce su un giallo infittito di dubbi e misteri.

Marco Conforti trovato senza vita nel bagagliaio del suv, una morte avvolta dai misteri: “Ogni tanto spariva per andare a divertirsi”. Redazione su L'Unità il 30 Maggio 2023 

La morte di Marco Conforti è avvolta nel mistero. L’imprenditore 56enne di Castagneto Po, in provincia di Torino, è stato rinvenuto senza vita domenica sera nel bagagliaio del suo suv Range Rover in un parcheggio di via Rovigo, nel quartiere Aurora a Torino.

Di lui si erano perse le tracce da alcuni giorni e a dare l’allarme era stata venerdì scorso l’ex moglie Serena, riuscita poi a localizzare l’auto con l’aiuto della figlia, attivando la ricerca da remoto dell’iPphone del padre.

La procura di Torino ha aperto un fascicolo per omicidio, le indagini sono affidate alla squadra mobile. Gli inquirenti parlano, per ora, di “morte sospetta” perché per definirlo omicidio occorre attendere il risultato dell’autopsia in programma domani: secondo un primo esame il cadavere non presenterebbe particolari segni di violenza.

Eppure è evidente che il 56enne imprenditore, titolare di una scuola guida con varie sedi nel Chivassesse, non possa essersi infilato volontariamente nel bagagliaio della sua auto.

“Era tarchiato, non può essere stata una persona sola a spostarlo“, dice a Repubblica chi lo conosceva a Settimo Torinese, dove viveva. Le indagini, coordinate dal pm Antonella Barbera, partono da quanto dichiarato dall’ex moglie in fase di denuncia della scomparsa: la donna aveva riferito di aver perso le sue tracce da martedì 23 maggio dopo che Conforti aveva detto di avere in programma una cena con alcuni amici.

Un uomo solare e che amava i due figli, ma allo stesso tempo amante della bella vita tra auto di lusso, recentemente aveva preso in leasing una Ferrari, e con una barca a motore che metta in mare a Varigotti.

Lì avrebbe portato in giro le sue conquiste amorose, in particolare una ragazza di Torino che frequentava da un po’ di tempo. “Aveva spostato a Torino molte delle sue frequentazioni ultimamente“, dice ancora a Repubblica un conoscente, mentre il patrigno Demetrio Modafferi ammette che “gli piaceva divertirsi, in tutti i sensi, ogni tanto spariva per qualche giorno”.

Fra le ipotesi che si fanno in alcuni bar che frequentava nel centro di Settimo Torinese c’è anche quella di un “festino” finito male: “Era grosso, muscoloso. Per chiudere Marco in un bagagliaio ci volevano almeno due persone. E parecchio robuste, perché da solo non ce la facevi. Marco è sempre stato innamorato dei motori e delle corse. Da qualche tempo sembra frequentasse una ragazza di Torino e aveva spostato lì i suoi interessi. Qui ormai non lo vedevamo troppo spesso”, spiegano alcuni conoscenti in un bar di Settimo Torinese al Corriere della Sera.

Morte di Marco Conforti, l'autopsia: non è stato ucciso. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

Resta quindi avvolta nel mistero la morte del 55enne di Castagneto Po, come misteriosa rimane l’identità di chi lo ha nascosto nel baule del suo Suv 

Non è stato ucciso Marco Conforti, l’imprenditore di 55 anni, ritrovato senza vita nel bagagliaio di una Range Rover Velar in via Rovigo, a Torino. L’autopsia eseguita questa mattina, 31 maggio, dal medico legale Roberto Testi non ha evidenziato ferite o segni di violenza sul corpo. Per sapere se Conforti sia stato stroncato da un malore o abbia ingerito sostanze che si sono verificate letali, bisognerà invece aspettare l’esito degli esami tossicologici. 

Resta quindi avvolta nel mistero la morte del 55enne di Castagneto Po, come misteriosa rimane l’identità di chi lo ha nascosto nel baule del suo Suv. Sotto questo punto di vista l’accertamento autoptico non ha permesso di rilevare neppure lesioni o lividi dovuti al trascinamento e al caricamento. Un particolare anomalo che gli investigatori dovranno approfondire. 

Le ipotesi di una serata di eccessi o di un festino finito male sembrano le più probabili, ma gli inquirenti continuano a non escludere nessuna pista.

Estratto dell'articolo di Lodovico Poletto per “La Stampa” il 31 maggio 2023.

«Eravamo ancora molto uniti. Siamo stati marito e moglie, poi la nostra storia è finita. Ma siamo rimasti sempre vicini: sa, io lavoravo con lui. Ero la sua amica più amica, la sua confidente. Oltre che la madre dei suoi due figli. Che ha sempre adorato e protetto. E Marco, nonostante tutto, è sempre stato il mio compagno di vita, a 360 gradi». 

Quarantotto ore dopo il ritrovamento del cadavere di Marco Conforti, parla l'ex moglie, Serena. Che sapeva tutto di lui: della sua vita, delle sue frequentazioni, delle sue fragilità e dei suoi fantasmi. 

[…]

Lei sapeva delle sue fragilità?

«Per quanto riguarda l'uso di sostanze, sì. Ha avuto sempre quel problemino, anche se all'inizio lo gestiva abbastanza bene». 

Quindi era chiaro anche a lei che usava stupefacenti?

«Sì, ma non ne faceva un uso eccessivo. Nel senso che si faceva le sue serate. Era finalizzata a quello l'uso: al divertimento. Se non fosse stato così, se fosse stato un tossicodipendente non avrebbe mai potuto fare tutto quel che ha fatto. Anzi: non avrebbe nemmeno potuto lavorare». 

Infatti per quanto riguarda il lavoro lui era sempre in pista, dicono. È vero?

«Marco era un genio. Aveva un gran fiuto per gli affari e una grinta pazzesca. Dava il massimo in tutto».

Anche fortunato, raccontano.

«Sì, lui cadeva sempre in piedi. Stavolta no, stavolta è andato tutto male». 

Aveva nuove compagne?

«Dopo la separazione, ha avuto alcune storie. Poi si è fidanzato con una ragazza, una tal Paola. Lei è stata l'ultima fidanzata vera. Vicky, invece, non so chi sia. Lui me ne aveva parlato. Mi diceva che la adoperava per far ingelosire la sua ex. E quando lei è diventata troppo pretenziosa l'ha lasciata». 

Paola, quindi, era il suo grande amore?

«Già, il suo grande amore. Ma prima c'ero io, eh. Loro sono stati insieme per 5 anni. Hanno convissuto. Poi è finito tutto. Sa, Marco prima di tutto era innamorato della sua vita, della famiglia e del lavoro».

E i suoi amici chi erano?

«Tutta gente del lavoro. A parte qualcuno conosciuto nell'ultimo anno. I sui amici erano i suoi dipendenti». 

Tipo il carrozziere?

«Quel tipo io non l'ho mai conosciuto. Me ne aveva parlato, però. Di lui e pure di sua moglie. Gliel'ho detto, mi raccontava tutto». 

Diceva che all'inizio lui faceva un uso moderato di droghe. Adesso che cosa era capitato?

«Secondo me una sciocchezza si è trasformata in una tragedia». 

Che idea si è fatta di martedì notte?

«Potrebbe essere andato con qualcuna, e aver ingoiato un cocktail di qualcosa. Sa come vanno queste cose: fai una serata, prendi qualcosa, bevi, esageri. E stavolta ha esagerato molto male. Sa cos'è la cosa che colpisce?» 

Dica.

«Che chi era con lui non ha chiamato l'ambulanza. Forse potevano salvarlo. Ma questi sono elementi che sapremo soltanto dopo l'autopsia». 

I figli sapevano di queste sue fragilità?

«No, assolutamente no». 

[…]

Ma perché poi si è allarmata?

«Perché il telefono era spento ma riceveva i messaggi Whatsapp, che però non venivano visualizzati. Ho pensato: magari è da qualche parte che sta male. È per quello che mi sono agitata». 

Poi domenica che è accaduto?

«Che ci siamo resi conto che il cellulare era collegato al pc». 

Avete scoperto altro?

«Che l'ultimo collegamento del telefono era avvenuto mercoledì alle 12, in via Rovigo». 

E che avete fatto?

«Siamo andati dai carabinieri a denunciare. Poi sono andata pure io in via Rovigo. Erano le 10 di sera. Ero convinta che neanche avremmo trovato l'auto. Invece, purtroppo, era lì». 

Tutto per colpa della cocaina.

«Guardi: lui non era un tossico. Se lo fosse stato non avrebbe mai potuto essere un grande imprenditore come invece era. Non avrebbe mai potuto essere un ottimo padre e un grande amico. Non era tossico, mi creda. A volte abusava delle sostanze. Ma era una persona splendida».

Estratto dell'articolo di Carlotta Rocci per torino.repubblica.it il 31 maggio 2023.

Ci sono dei buchi da riempire nella ricostruzione delle ultime ore di vita di Marco Conforti, l'imprenditore di 55 anni trovato morto nel bagagliaio della sua Range Rover Velar grigia abbandonata in via Rovigo, angolo strada del Fortino. La denuncia di scomparsa presentata da Serena, l'ex moglie, è del 26 maggio ma di Conforti si perdono le tracce già nella notte tra martedì e mercoledì. 

Martedì mattina era a Varazze, con un amico, poi di nuovo a casa, dalla figlia Carola, a Castagneto Po. La sera, a cena in un ristorante di piazza Gran Madre, poi al Samara, lo storico night club di Torino. Da qui lo hanno visto uscire intorno a mezzanotte: "Ci siamo salutati e ognuno è andato per la sua strada", ha raccontato l'amico che era con lui […]

Gli investigatori della squadra mobile hanno acquisito i filmati delle telecamere di sorveglianza vicino al locale per capire se Marco possa aver incontrato qualcuno prima di arrivare all'auto, la stessa che è poi stata trovato nel quartiere Aurora con il cadavere a bordo. 

Lo stesso minuzioso lavoro dovrà essere fatto sulle telecamere che controllano le attività commerciali tra via Rovigo, strada del Fortino e lungo Dora: ce ne sono dodici. Il punto cruciale sono i tempi. Sono pochi, infatti, gli impianti in grado di salvare le riprese degli ultimi cinque giorni, la maggior parte sovrascrive le immagini ogni 24 o 48 ore ma il periodo su cui vogliono far luce gli investigatori è prima di tutto quello tra martedì sera e giovedì […]

Estratto dell’articolo di Irene Famà per “la Stampa” l'1 giugno 2023.

«Mi ha lasciato a casa ed è andato via come una scheggia». Dove? «Non ne ho idea. Ma lui era fatto così. Ti accompagnava e poi tornava a divertirsi. Con altri amici, con delle donne». Marco Conforti, l'imprenditore «re delle autoscuole» con un giro d'affari milionario, è stato trovato morto nel bagagliaio del suo suv Range Rover. 

E l'amico carrozziere, l'ultimo del gruppo ad averlo visto vivo, continua a interrogarsi su cos'è successo. Martedì 23 maggio erano andati a cena insieme. Il carrozziere, Marco e altra gente. In cinque. Una cena come tante, al ristorante di pesce Esca dietro la basilica della Gran Madre.

Intorno a mezzanotte è tutto finito: ognuno va per la sua strada. Marco e il carrozziere decidono di continuare la serata allo strip club Samara, dietro la stazione Porta Nuova. «Era lì che si divertiva. Ballava, chiacchierava con delle ragazze. Qualche drink, cose così. Non c'era davvero nulla di strano, il solito Marco di sempre». 

E poi? «Lui sarebbe rimasto ad oltranza. Ma verso le due di notte, gli ho detto che me ne sarei andato. Il giorno dopo lavoravo, dovevo alzarmi presto. Così mi ha dato un passaggio, non eravamo nemmeno lontani. Continuo a ripercorrere quella scena nella mia mente. Pensi che quando sono sceso dalla macchina, l'ho guardato, l'ho salutato e gli ho detto: «Vai a casa pure tu, mi raccomando. Non fare sciocchezze. Marco è ripartito, a tutta velocità». 

Domenica notte, la polizia l'ha ritrovato cadavere in via Rovigo, all'angolo con strada del Fortino, nel quartiere Aurora: zona di spaccio. Dove, così si dice, Marco Conforti qualche volta si incontrava con una delle tante amiche. «È rimasto lì, in quel bagagliaio, cinque giorni. Non posso pensarci. È successo qualcosa e qualcuno, invece di aiutarlo, di soccorrerlo, l'ha abbandonato. Sicuramente. 

[…] Che Marco Conforti sia tornato al night? Che abbia visto una donna? Che sia andato a cercare uno spacciatore? «Non lo so, davvero. Sto vivendo un incubo, senza risposte. Io posso solo dire che alle 2 della notte tra martedì e mercoledì mi ha riportato a casa. Fine».

[…] Che sia andato a cercare della cocaina? «Basta con questa storia della droga. Ne parli bene, glielo chiedo per favore. Era veramente una brava persona. Non dev'essere descritto come un tossicodipendente. Si faceva seguire da uno psicologo, era in terapia. Voleva smettere, ci provava, ma non ci riusciva». […]

La morte di Marco Conforti è un giallo. È entrato lui nel bagagliaio? Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 6 Giugno 2023

Gli inquirenti valutano ogni ipotesi, ma potrebbe essere arrivato da solo in via Rovigo a Torino 

A dieci giorni di distanza dal ritrovamento del cadavere di Marco Conforti, l’ipotesi che l’imprenditore sia entrato volontariamente nel bagagliaio della sua Range Rover Velar comincia a diventare qualcosa di più di una suggestione.

Autopsia

Per il momento, comunque, le indagini della squadra Mobile continuano in tutte le direzioni nel più stretto riserbo e gli investigatori non trascurano nessuna «pista». Ma l’autopsia eseguita una settimana fa ha già escluso una morte violenta. Nessuna ferita o segni evidenti di colluttazione o strangolamento. Ma sul corpo del 55enne di Castagneto Po il medico legale Roberto Testi non ha rilevato neppure lesioni da trascinamento. Un particolare anomalo, visto che sarebbe davvero difficile riuscire a infilare in un’auto un cadavere di oltre 70 chili di peso senza lasciare nemmeno una piccola traccia sulla pelle.

Un altro particolare che non «quadra» è relativo alla chiusura dell’auto. Quando la polizia è arrivata all’angolo fra via Rovigo e strada del Fortino, infatti, la portiera anteriore destra era aperta, ma forzata. Tutte le altre, bagagliaio compreso, erano chiuse, con le chiavi lasciate sul sedile posteriore.

Il tentativo di furto

Domenica mattina, poche ore prima che i familiari di Conforti individuassero l’auto grazie all’applicazione dell’iPhone, qualcuno avrebbe tentato di rubare la Range Rover. Sulle maniglie i segni di effrazione sono evidenti, ma l’antifurto ha cominciato a suonare, cosa che non sarebbe successa se la portiera anteriore fosse rimasta aperta.

Gli accertamenti eseguiti finora portano a non escludere che Conforti sia arrivato in via Rovigo da solo, all’alba del 24 maggio. Se fosse davvero entrato volontariamente nel baule, a quel punto potrebbe anche aver «lanciato» le chiavi sul sedile dopo aver chiuso l’auto dall’interno. I motivi, però, sarebbero tutti da accertare e restano di difficile comprensione. Forse voleva nascondersi oppure non era «lucido» dopo una lunga serata di eccessi.

Esami tossicologici

Sembra sempre più probabile che la morte dell’imprenditore di Castagneto sia avvenuta proprio nelle prime ore del 24 maggio. La sera prima era andato a cena con alcuni amici in un ristorante vicino alla Gran Madre. In quelle ore aveva anche effettuato due ricariche da 500 euro l’una sulla tessera PostePay intestata a una donna di nazionalità russa e poi sarebbe andato in uno strip club in centro.

Successivamente potrebbe aver acquistato e assunto sostanze stupefacenti, ma la conferma arriverà solo dagli esami tossicologici. L’unica certezza è che dalla mattina successiva nessuno ha più visto Conforti vivo. Anche se la denuncia di scomparsa è stata presentata solamente il 26 maggio, perché il «re delle autoscuole» già in passato aveva fatto perdere le sue tracce per qualche giorno. Prima di ricomparire come se nulla fosse.

Centinaia di filmati

Questa volta, però, le cose sono andate diversamente e l’epilogo è stato drammatico. Gli agenti della questura stanno continuando a visionare le immagini delle tante telecamere presenti nella zona. Centinaia di ore di filmati da incrociare con i tabulati telefonici, per stabilire con esattezza quando la Range Rover sia arrivata in via Rovigo e se ci fossero altre persone a bordo.

Un aiuto potrà arrivare dalle consulenze affidate per rilevare nell’abitacolo Impronte, tracce di Dna e catalogare tutti gli oggetti presenti. Fondamentale sarà anche la perizia tecnica sulla Range Rover per chiarire il mistero delle portiere chiuse dall’interno. Ma forse, alla fine, si potrebbe scoprire che non c’era nessun mistero. E nessun colpevole.

La sorella di Giulia Tramontano rompe il silenzio: "Lei non ha abbracciato l'altra donna". Chiara Tramontano, la sorella della 29enne incinta uccisa a Senago dal fidanzato Alessandro Impagnatiello, commenta la foto che ritrae la ragazza insieme all'amante del killer: "Non accetto si parli di solidarietà tra donne". Rosa Scognamiglio l'8 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 "Mia sorella non abbraccia l'amante"

 "Si sta cercando una solidarietà inesistente"

 Il messaggio per Giulia: "Mi manchi tutti i giorni"

"Non accetto si parli di solidarietà tra donne. Giulia viene avvolta da un abbraccio che non ricambia". Sono parole intrise di dolore e risentimento quelle di Chiara Tramontano, la sorella della 29enne al settimo mese di gravidanza uccisa dal fidanzato Alessandro Impagnatiello a Senago, nel Milanese, lo scorso 27 maggio. La giovane si è lasciata andare ad un lungo sfogo su Faceebook in cui ha commentato la foto che ritrae Giulia stretta in un abbraccio con l'amante del killer, una ragazza inglese, poco prima dell'omicidio.

"Mia sorella non abbraccia l'amante"

L'immagine a cui fa riferimento Chiara Tramontano è, in realtà, il frame video estrapolato dal nastro della telecamera di sorveglianza puntata all'esterno dell'Armani hotel di Milano. Le due donne - Giulia e l'amante di Impagnatiello - si salutano dopo un confronti civile e pacato. "Mia sorella si è avvicinata al suo interlocutore con le braccia cadenti lungo il corpo. - scrive Chiara in un post -. Viene avvolta da un abbraccio che non ricambia. Giulia non abbraccia la donna che si è intrufolata in casa sua ricoprendo il ruolo dell'amante. E ciascuno di noi avrebbe fatto la stessa cosa".

Giulia Tramontano e quell'abbraccio con l'altra donna prima dell'omicidio

"Si sta cercando una solidarietà inesistente"

Dal giorno dell'omicidio, la famiglia Tramontano ha scelto di non rilasciare dichiarazioni alla stampa. "Ho sempre rifiutato di rilasciare interviste o messaggi di ricordo di mia sorella. - precisa Chiara -Il dolore è un'esperienza così intima che è difficile condividerla con se stessi, figuriamoci con gli altri. Però c'è una cosa che non tollero: sentirvi dire che l'ultimo abbraccio di Giulia con l'amante del suo compagno sia un lume di solidarietà in questa storia buia. Lascio qui la mia opinione perché ho bisogno di gridarla affinché quel frame catturato dalle telecamere possa essere osservato con gli occhi della verità". Per la giovane "la verità è che si sta cercando una morale inesistente nella tragedia che ha sconvolto le nostre vite. La solidarietà è altro, ha diverse tempistiche ed è mossa dal bene".

Giulia Tramontano, orrore senza fine: il killer la avvelenava da mesi

Il messaggio per Giulia: "Mi manchi tutti i giorni"

Infine Chiara Tramontano conclude il post con una dedica per Giulia che, lo scorso luglio, avrebbe dato alla luce il piccolo Thiago. "Cara Giulia, mi manchi tutti i giorni. - scrive ancora - Mi manchi come la pace che non ho più. Come la rabbia che mi annega. Come le ingiustizie che mi inghiottiscono. E forse mi avresti detto, se fossi stata in vita, di lasciare stare, ma non avrebbe funzionato". Poi conclude: "Non ti hanno salvato l'amore e la solidarietà, ma le mie unghie difenderanno il tuo ricordo per sempre".

Giulia Tramontano e quell'abbraccio con l'altra donna prima dell'omicidio. Le telecamere di fronte all'Armani hotel a Milano riprendono l'ultimo incontro tra la 29enne incinta al settimo mese, che verrà uccisa poco dopo, e l'amante di Impagnatiello. E mostrano un'intesa inaspettata. Manuela Messina il 4 Settembre 2023 su Il Giornale.

Giulia Tramontano mette la testa sulle spalle dell'amante del padre di suo figlio. Forse piange: un dettaglio che possiamo dedurre dalla sua posizione, anche se non viene inquadrato dalle telecamere. La ragazza con cui Alessandro Impagnatiello la tradisce da mesi è di fronte a lei, in carne e ossa. Alta, i capelli lunghissimi e neri, bellissima. Ma anche se la vita le vorrebbe sfidanti, a contendersi lo stesso uomo, le due giovani ritrovano un'intesa. Non possono sapere che da lì a poche ore le loro esistenze saranno sconvolte per sempre: la 29enne incinta al settimo mese verrà uccisa brutalmente con un coltello da cucina. L'altra si salverà, forse grazie un oscuro presentimento.

L'orario sulla telecamera che inquadra la strada di fronte all'Armani hotel segna le 16.57 del 27 maggio. È sabato e le due ragazze si siedono ai tavoli del bar. Sanno già l'una dell'esistenza dell'altra, e parlano per oltre un'ora, confrontandosi su inganni e tradimenti. Chiedono a Impagnatiello di raggiungerle per un incontro a tre, ma lui si smarca. Alle 18.20 si salutano e Giulia si allontana in direzione della metro, iniziando a inondare Impagnatiello di messaggi furibondi. Sono le 18.26: "Ti amo.. wow. Sono curiosa di sapere che cosa ti inventerai ora". Seguono messaggi ancora più rabbiosi. "Sto tornando a casa. Fatti trovare".

Alle 19.06 la madre del killer aspetta con la sua auto, una Hyundai bianca, alla linea Comasina e la riporta a casa in via Novella a Senago. L'omicidio è collocato intorno alle 19.30: secondo l'autopsia la donna verrà uccisa con 37 coltellate. Il barista 30enne proverà a bruciarne il corpo, prima nella vasca da bagno, poi nel box. La avvolgerà infine nel cellophane e in buste di plastica nere per poi gettare i suoi poveri resti in un vialetto colmo di erbacce tra due box in via Monte Rosa a Senago, a 700 metri da casa.

Secondo gli investigatori, che hanno ricevuto da pochi giorni i risultati dei test tossicologici, ora agli atti dell'inchiesta della pm Alessia Menegazzo, Impagnatiello avrebbe iniziato ad avvelenare la ragazza con il topicida (poi ritrovato nel suo appartamento) già nelle settimane precedenti. Non è chiaro se l'obiettivo fosse procurarle un aborto, oppure ucciderla. Le ricerche web lo inchiodano: “Quanto veleno serve per uccidere una persona” digiterà il 7 gennaio. E a marzo Impagnatiello riceverà a casa un pacco con il cloroformio, un'altra sostanza tossica. Ma già a dicembre, cioè poco dopo avere scoperto di aspettare un bambino, la donna si era lamentata con la madre dell'acqua che sapeva “terribilmente” di ammoniaca.

Giulia Tramontano, le ultime foto prima di essere uccisa: l'abbraccio con l'altra donna di Impagnatiello e il rientro a casa. Pierpaolo Lio su Il Corriere delle Sera il 3 settembre 2023. 

Il 27 maggio, nel pomeriggio, Giulia incontra la ragazza con cui Impagnatiello ha una relazione parallela. Si abbracciano. Dopo le 19 il ritorno a Senago accompagnata dai «suoceri». Il compagno la colpirà con 37 coltellate 

È la foto che più colpisce. È l’immagine di un abbraccio tra due donne raggirate. C’è Giulia Tramontano, la 29enne incinta al settimo mese che quello stesso giorno, il 27 maggio, sarà uccisa a Senago dal suo compagno,  Alessandro Impagnatiello. E c’è «l’altra», la 23enne con cui il barman aveva una storia parallela. La foto cattura il momento di solidarietà tra le due donne al termine dell’incontro all’Armani Bamboo bar, in centro a Milano, che svelerà il castello di bugie di Impagnatiello. E che imprimerà un’accelerazione ai piani del killer.

Quel giorno Giulia è infuriata. È stata contattata dalla 23enne italoinglese, che frequenta da poco più di un anno il barman. Ha trovato il suo numero di cellulare e l’ha chiamata per un confronto verità tra tutti e tre. Impagnatiello le aveva giurato più volte che la relazione con Giulia era finita. Ma non è così. A quell’incontro pomeridiano, il barman però non si presenta. Lascia in fretta e furia il posto di lavoro, rifiutando di incontrarle insieme. Le due donne allora si confrontano: scoprono i tradimenti, le bugie e i raggiri di cui entrambe sono state vittime. E tra loro nasce una solidarietà che viene catturata alle 16.57 anche da una telecamera presente sul retro del locale, in via Giardini.

L’immagine è una delle fotografie contenute nel fascicolo d’indagine preparato dai carabinieri del nucleo investigativo e dalle pm Alessia Menegazzo e Letizia Mannella sull’omicidio di Giulia Tramontano. Al termine dell’incontro – sono le 18.20 – quella stessa telecamera intercetta Giulia mentre si allontana, per far ritorno a Senago. Poco dopo il suo rientro a casa, la 29enne sarà uccisa da quel compagno che già da tempo, spaventato per la gravidanza della compagna, inizia a cercare sul web: «ammoniaca feto»; e poi «veleno per topi»; e ancora «quanto veleno per topi necessario per uccidere una persona». Il killer reo confesso comprerà anche del cloroformio sotto falso nome, creandosi una falsa identità virtuale per farsi spedire la sostanza, che recupererà da un corriere. Un paio di settimane dopo sarà la 29enne a fare alcune ricerche sul web: «rimedi bruciore di stomaco» e, più avanti, si lamenta con i familiari di dormire male e di sentirsi come «drogata».

I frame presenti nel fascicolo – oltre all’immagine della bottiglietta di cloroformio sequestrata nella cantina di Impagnatiello –  documentano le ultime ore di Giulia. È sempre il 27 maggio, prima dell’incontro con «l’altra». Il timer in alto a destra segna le 16.20: la telecamera inquadra la via alle spalle della casa della coppia a Senago. E si vede Giulia che, accompagnata dai genitori di Impagnatiello, si dirige all’auto con cui i «suoceri» la accompagneranno al metrò che porterà all’incontro all’Armani hotel. 

Alle 19.06 c’è l’ultima immagine di Giulia viva: è sempre l’impianto di videosorveglianza dietro casa a riprenderla mentre fa rientro dopo essere scesa dall’auto dei genitori del barman che erano andati a prenderla.

Dalla visione dei filmati di una telecamera in via Liberazione, a Senago, spuntano infine due frame che mostrano la T-Roc bianca, l’auto del killer. Sono passate le 2.30 del 31 maggio: documentano il viaggio, andata e ritorno, di Impagnatiello per abbandonare i resti di Giulia e del bambino in un’intercapedine dietro una fila di garage in via Monte Rosa, a poco più di 500 metri da casa.

Estratto da tgcom24.mediaset.it sabato 2 settembre 2023.

Emergono nuovi agghiaccianti dettagli sull’omicidio di Giulia Tramontano, la 29enne incinta di sette mesi uccisa a Senago (Milano) il 27 maggio dal compagno Alessandro Impagnatiello. Prima di ucciderla con 37 coltellate, Impagnatiello ha cercato di avvelenare la donna e il feto che portava in grembo non solo con topicida, come rivelato dall'autopsia, ma anche con ammoniaca e cloroformio.

[…]  Dettagli, questi, rivelati da Repubblica ed emersi dalle chat di Giulia e dagli acquisti online di Impagnatiello. Il 16 febbraio, infatti, il barman dell’Armani Cafè ha acquistato via web una confezione di cloroformio stabilizzato con amilene. Prodotto che avrebbe fatto assumere a Giulia Tramontano almeno una volta, come testimonia un messaggio della ragazza inviato al compagno: "Ho dormito molto male e mi sento drogata" ha scritto a Impagnatiello una settimana prima dell'omicidio.

[…] In un altro messaggio inviato alla madre il 9 dicembre 2022, dopo aver scoperto di essere incinta, Giulia scriveva: "L’acqua che abbiamo preso puzza terribilmente di ammoniaca". La donna, poi, ascolterà il consiglio della madre: buttare via l'intera confezione. Ma non basterà a fermare il piano diabolico di Impagnatiello.

[…]  […] il tragico epilogo […] Causato, probabilmente, anche da quella gravidanza che il barman non desiderava perché avrebbe potuto intralciare i suoi progetti futuri. Un bambino, e la prospettiva di pagare gli alimenti sarebbero stati "d’intralcio alla sua ambizione lavorativa: voleva fare degli investimenti immobiliari e consapevole delle spese che poteva portare un bambino, non era d’accordo ad averlo" ha detto ai carabinieri Chiara Tramontano, sorella di Giulia. Da qui la decisione di eliminare madre e figlio.

Giulia Tramontano, veleno per topi in sangue e feto: somministrato per mesi. AGENZIA ADNKRONOS  il 30 Agosto 2023

Milano, 30 ago. (Adnkronos) - Nel sangue, nei capelli e nei tessuti di Giulia Tramontano, uccisa a coltellate dal compagno Giuseppe Impagnatiello, così come sul feto che portava in grembo, sono state trovate tracce di bromadiolone, l'anticoagulante più tossico tra quelli annoverati nella categoria del veleno per topi. E' quanto emerge nella relazione medico-legale sul corpo della 29enne incinta, al settimo mese, del piccolo Thiago. Secondo gli esperti di Medicina legale di Milano non si può determinare se questo elemento è frutto "di più somministrazioni a basse dosi" o di un'unica più elevata, ma sicuramente "nell'ultimo mese e mezzo", prima del delitto, c'è stato un incremento nella somministrazione da parte di Impagnatiello del veleno.

Topicida che non è stata la causa di morte di Giulia, uccisa con 37 coltellate e morta dissanguata come Thiago. La 29enne non ha avuto neppure il tempo di difendersi, assenti i tagli su mani e braccia tipici dell'autodifesa, mentre l'autopsia restituisce la mappa delle ferite al collo, al viso e al torace.

Dalla relazione dei carabinieri emerge che l'indagato a partire dal dicembre 2022 ha fatto ricerche web per capire "quanto veleno è necessario per uccidere una persona" e da alcune chat, una con un'amica, Giulia si sarebbe lamentata di sentirsi "una pezza" dopo aver bevuto una bevanda calda. Una suggestione o forse un'avvisaglia impossibile da immaginare per la 29enne in attesa del suo primo figlio. Le ricerche, iniziate mesi prima dell'omicidio, potrebbero essere un elemento non da poco nel processo: per l'accusa sono la dimostrazione della premeditazione, aggravante finora esclusa dal gip di Milano Laura Minerva.

Giulia, secondo quanto emerge dalla relazione, non è morta dopo la prima coltellata, ma la lama del coltello da cucina impugnata dal compagno ha affondato per ben 37 volte sul suo colpo prima che la giovane morisse dissanguata. E' morto di conseguenza anche il piccolo Thiago che la 29enne portava in grembo. Un elemento che rende il delitto ancora più atroce e che potrebbe tradursi, in aula, nell'aggravante della crudeltà contestata dalla procura fin dal primo istante.

Estratto dell'articolo di Rosario Di Raimondo e Massimo Pisa per “la Repubblica” lunedì 28 agosto 2023

«Non mi sento bene». In apparenza innocuo, il messaggio partito una sera dello scorso inverno dal cellulare di Giulia Tramontano alludeva a un malessere inedito. La gravidanza era stata scoperta da poco e i problemi con il compagno Alessandro Impagnatiello erano emersi da tempo. Quel disagio fisico era emerso dopo aver bevuto una bevanda calda. Se ne andò com’era venuto. Anche perché, qualche ora dopo, i risultati della stringa di ricerca digitata da Impagnatiello, che associava il veleno per topi alle bevande calde, rivelò che l’effetto tossico non era quello desiderato. Che la strada per uccidere la ragazza e il nascituro passava da altri sentieri.

Tre mesi sono trascorsi dal massacro di Giulia Tramontano […] le risposte cominciano ad arrivare alle domande residue, quelle rimaste dopo la confessione di Impagnatiello, ormai schiacciato dal lavoro degli investigatori e dalle goffe toppe messe al suo piano di morte: quando, cioè, ha iniziato a morire Giulia Tramontano? E da quanto tempo il compagno aveva maturato quel piano? 

Tracce di veleno per topo nei tessuti, dunque, compatibili con le due bustine trovate in casa. Altre tracce di ricerche su “Come uccidere una donna incinta col veleno” e “Come avvelenare un feto”. Che si incastrano con quelle digitate pochi minuti prima che il delitto si compiesse: “Rimuovere macchie di sangue”.

[…] Impagnatiello, reo confesso, è oggi nel carcere di San Vittore a Milano. Di recente si è parlato di lui per via di una notizia falsa secondo la quale sarebbe stato evirato dagli altri detenuti. Fake news. In questi mesi ha detto di aver fatto tutto da solo e le indagini finora gli danno ragione, come le telecamere che lo inquadrano l’ultima notte, tra le 2.30 e le 2.45, davanti a quella discarica. Sarà riascoltato a settembre, quando tutti gli elementi accertati gli verranno contestati. E le ultime domande troveranno risposta.

Estratto dell’articolo di Anna Giorgio per ilgiorno.it domenica 27 agosto 2023.

Sono le ricerche effettuate sui computer da parte di Alessandro Impagnatiello, l’uomo che ha ucciso Giulia Tramontano e il piccolo Thiago che portava in grembo a catalizzare l’attenzione della procura. Ricerche su "come uccidere una donna incinta con il veleno" e su "come avvelenare un feto". 

Perché Impagnatiello, il barman dell’Armani café, voleva uccidere la compagna, ma soprattutto il bambino che aspettava da lui, il vero ostacolo all’inizio di una nuova relazione.

[…] I superperiti hanno chiesto e ottenuto la proroga dei tempi dell’indagine per poter fare un ulteriore specifico accertamento medico proprio sul feto, sul piccolo Thiago, il bimbo che sarebbe nato a luglio. 

L’accertamento, come spiegano gli investigatori della procura, è specifico sulla ricerca di veleno che si sospetta sia stata somministrato da Impagnatiello alla madre del bambino e che potrebbe essere stato assorbito, quindi, dal feto. Le risposte, che non arriveranno prima di settembre, confluiranno nella relazione finale che servirà per definire il quadro delle aggravanti, in particolare per consolidare l’aggravante della premeditazione.

Sotto il cellophane usato per avvolgere il cadavere di Giulia è stato isolato un capello sul quale sarà fatto un esame supplementare per analizzare la compatibilità del Dna con quello di Giulia o di Alessandro ed escludere l’ipotesi che, al momento dell’occultamento del cadavere, ci fossero altre persone rispetto ad Impagniatiello. 

Gli investigatori hanno escluso che la madre di Alessandro fosse presente e abbia aiutato il figlio. Il match sul capello sarà tra gli accertamenti già fissati sul caso nei laboratori del Ris di Parma. Oltre al capello, gli accertamenti irripetibili riguarderanno il materiale usato per nascondere il cadavere e i reperti biologici rinvenuti nella casa in cui si è consumato il massacro, prima che Impagnatiello decidesse di tentare di bruciare il corpo della ex al fine di "cancellarne l’identità" come ha lui stesso riferito durante l’interrogatorio tenuto davanti al gip. […] 

Giulia Tramontano, scomparsa da Senago, aveva scoperto il tradimento del fidanzato. «Anche l'altra era stata incinta». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

La 29enne, incinta al settimo mese, è scomparsa da domenica. Anche l'amante del compagno era rimasta incinta ma aveva interrotto la gravidanza 

Non l’ombra di un’altra donna ma una certezza. Voci che si rincorrono, chiacchiere di paese — a Sant’Antimo nel Napoletano, suo paese d’origine — che man mano trovano riscontri nelle indagini. Giulia Tramontano, la 29enne incinta al settimo mese scomparsa tra sabato e domenica da Senago, alla periferia di Milano, non era la sola donna nella vita del compagno Alessandro Impagnatiello, 30enne barman nei locali più esclusivi di Milano, come l’Armani Café. 

Lui aveva un’altra relazione e lei lo aveva scoperto proprio sabato, poche ore prima della scomparsa. La ragazza lo aveva confidato alla sorella, alla madre e anche a un’amica: «Sono turbata, vado a dormire», il testo dell’ultimo messaggio in chat. Poi soltanto il silenzio con il telefonino senza segnale. 

I tre avrebbero avuto anche un burrascoso «incontro chiarificatore» con Giulia incinta di un bambino e l’altra donna, anche lei ignara della relazione parallela, che scopre non solo del «tradimento» ma anche della gravidanza. «Anche lei era stata incinta ma aveva interrotto la gravidanza», è la voce arrivata in Campania. 

Un dramma familiare che deflagra nel momento della scomparsa di Giulia: i genitori salgono in Lombardia, affrontano il compagno, volano parole e schiaffi. In quel momento la famiglia pensa che la 29enne si sia allontanata per lo choc di quella scoperta. Ma con il passare delle ore si convincono che non possa essere stata una fuga volontaria. E il tempo che passa non è un buon segno neanche per gli investigatori. 

I carabinieri di Senago, Rho e del Nucleo investigativo di Milano stanno lavorando senza sosta da domenica pomeriggio. Il pm Alessia Menegazzo ha aperto un fascicolo sulla scomparsa, senza titolo di reato né indagati, ma che si sta velocemente riempiendo di accertamenti, tabulati telefonici, decreti di sequestro di telecamere, pc e cellulari. 

Si cerca Giulia con gli elicotteri e i vigili del fuoco scandagliano il vorticoso corso del fiume Seveso e del canale Villoresi. Si cerca un corpo, ma anche le tracce di un possibile omicidio. Nessuna pista è esclusa, ma si lavora come se ci si trovasse davanti a un femminicidio. Nulla può essere escluso. Le immagini delle telecamere di Senago inquadrano la 29enne nella prima serata di sabato. Poi più nulla. Nessun segnale dai conti bancari o dal cellulare. Ore di angoscia e terrore. 

Nell’appartamento di via Novella dove convivevano i due fidanzati, ci sono anche i genitori del ragazzo e la madre con il nuovo compagno: «Bisogna solo ritrovare Giulia». Alessandro Impagnatiello ha già un figlio da una precedente relazione. Va in prima elementare, i rapporti con l’ex compagna sono buoni. «Uno splendido papà con il suo bambino», dicono i vicini. Dopo la «separazione» (non erano sposati) aveva continuato a vivere, in affitto, nell’appartamento al primo piano. Pochi sapevano che nella sua vita era arrivata Giulia, agente immobiliare che negli ultimi tempi lavorava in smart working: «La vedevo sul balcone. Ma non frequentava Senago», le poche parole dei vicini. Che ricordano invece Alessandro con lo «scooterino» con cui faceva avanti e indietro dal lavoro, anche di notte.

Negli ultimi tempi aveva un suv T-Roc bianco. I carabinieri hanno ascoltato a lungo il 30enne che domenica ha presentato la denuncia di scomparsa. Sembra che siano emerse delle incongruenze, forse legate al suo stato emotivo dopo il precipitare della sua relazione. Non è indagato. I buchi nel suo racconto però sono tanti e potrebbero avere conseguenze ben più pesanti dei pettegolezzi da paese.

Milano, scomparsa al settimo mese di gravidanza. Uscita a piedi, cellulare spento. Che fine ha fatto Giulia Tramontano? Redazione su Il Riformista il 30 Maggio 2023

Sparita da sabato. Giulia Tramontano, 29enne al settimo mese di gravidanza è scomparsa tra sabato notte e domenica mattina dopo aver avuto una discussione con il fidanzato. La prima ad allarmarsi è stata la mamma in Campania, abituata a ricevere la telefonata della figlia tutte le domeniche e nei giorni di festa.

Ma domenica mattina Giulia non la chiama, anzi ha il cellulare spento. Più probabilmente in modalità offline senza connessione dati e senza linea telefonica. Sabato sera avrebbe mandato un messaggio a un’amica dicendo di essere turbata dopo la discussione avuta con il compagno. Un messaggio in realtà smentito dai famigliari e sul quale i carabinieri stanno cercando di fare chiarezza.

La Procura di Milano al momento indaga per scomparsa di persona e ha aperto un fascicolo senza titolo di reato né indagati, sulla vicenda di Giulia, della quale si sono perse le tracce da più di 48 ore. L’inchiesta coordinata dal pm Alessia Menegazzo e dall’aggiunto Letizia Mannella e affidata al nucleo investigativo carabinieri e alla compagnia di Rho, sta vagliando comunque tutte le ipotesi e non sta escludendo alcuna pista.

La giovane, che lavora in una agenzia immobiliare, è originaria della provincia di Napoli ma risiede da cinque anni a Senago, nel Milanese. A denunciare la scomparsa è stato il suo fidanzato. Secondo le prime ricostruzioni la giovane era viva e stava bene fino alla prima serata di sabato, quando è stata immortalata da alcune telecamere.

Giulia Tramontano è uscita a piedi, almeno così sembra. È alta 1 metro e 68 e ha un vistoso tatuaggio sul braccio sinistro. Non è chiaro quali vestiti possa indossare perché nessuno l’ha vista allontanarsi. “Forse indossa una tuta, magari una felpa. Sicuramente abiti comodi perché ha il pancione”. I carabinieri hanno interrogato i familiari della ragazza e anche il compagno. Si lavora a pieno ritmo, perché le circostanze della scomparsa si prestano a molti scenari. “Non aveva mai manifestato segnali di insofferenza, né volontà di abbandonare Senago”, ripetono i familiari. Cosa sia successo rimane un mistero.

Intanto la sorella Chiara, su Facebook cerca di dare indicazioni su come individuare la sorella e posta una fotografia di Giulia sulla battigia del mare. “Abbiamo ricevuto diverse segnalazioni di una ragazza bionda forse incinta. Giulia aveva questo pancione un mese fa – scrive Chiara in riferimento alla fotografia – ora è anche più grande! Se la ragazza che vedete non ha il pancione evidente non è Giulia”.

Alessandro Impagnatiello confessa l'omicidio della fidanzata Giulia Tramontano. Trovato il corpo della ragazza. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 31 Maggio 2023

Il barman: «Sì, l'ho uccisa io». Il corpo della 29enne, al settimo mese di gravidanza, trovato in una intercapedine dietro un edificio che ospita alcuni box. La ragazza aveva scoperto di essere stata tradita dal compagno

«Sì, ho ucciso Giulia». Alessandro Impagnatiello, il 30enne barman dell’Armani Bamboo di via Manzoni a Milano, compagno della 29enne Giulia Tramontano, incinta al settimo mese, scomparsa da Senago tra sabato e domenica, ha confessato. Il corpo è stato ritrovato intorno all'una di giovedì notte in via Monte Rosa a Senago. Era nascosto in una intercapedine dietro un edificio che ospita alcuni box. L'uomo è ora sotto interrogatorio davanti ai magistrati. Impagnatiello è indagato anche per occultamento di cadavere e interruzione della gravidanza senza il consenso della donna. 

Decisive le molte tracce di sangue trovate nell'appartamento in cui viveva la coppia. I carabinieri coordinati dal pm Alessia Menegazzo e dall’aggiunto Letizia Mannella  avevano cercato la donna nella zona intorno al campo da baseball di Senago e lungo il canale Villoresi. 

Alle 21.18 di mercoledì, l’arrivo della sezione rilievi scientifici dei carabinieri nella casa della coppia, in via Novella 14/a Senago. Per la prima volta sono stati effettuati esami scientifici e medico legali nell’appartamento.

Poco prima delle 22, Alessandro Impagnatiello è rientrato a casa. Sceso dall'auto, è passato dal parcheggio sotterraneo per entrare nell'appartamento.

Il triste epilogo. Giulia Tramontano: trovato il corpo in un’area abbandonata. Il fidanzato confessa. Il feto forse si poteva salvare. La lite con il fidanzato poi l’omicidio. Tracce di sangue all’interno dell’auto del ragazzo e il corpo abbandonato da giorni in un’area verde di Senago. Forse il feto si sarebbe potuto salvare, da ricostruire la dinamica dell’omicidio. Redazione su Il Riformista l'1 Giugno 2023 

È stato trovato, in un’area verde abbandonata a Senago nel Milanese, il corpo senza vita di Giulia Tramontano. La 29enne, incinta al settimo mese, era scomparsa dalla sua abitazione tra sabato e domenica 28 maggio. Le ricerche erano iniziate dopo l’allarme dato dal suo compagno Alessandro Impagnatiello. 

Poche ore fa la tragica scoperta. Il cadavere è stato ritrovato all’interno di un’area abbandonata a Senago. Alessandro Impagnatiello, indagato per omicidio aggravato, occultamento di cadavere e interruzione di gravidanza senza consenso, è  in caserma dai Carabinieri per essere ascoltato dal pm Alessia Menegazzo, titolare delle indagini con l’aggiunto Letizia Mannella.

La scomparsa

La prima ad allarmarsi è stata la mamma in Campania, abituata a ricevere la telefonata della figlia tutte le domeniche e nei giorni di festa. Ma domenica mattina Giulia non la chiama, anzi ha il cellulare spento. Più probabilmente in modalità offline senza connessione dati e senza linea telefonica. Sabato sera avrebbe mandato un messaggio a un’amica dicendo di essere turbata dopo la discussione avuta con il compagno.

La giovane, che lavorava in un’agenzia immobiliare, è originaria della provincia di Napoli ma risiedeva da cinque anni a Senago, nel Milanese.  Secondo le prime ricostruzioni la giovane era viva e stava bene fino alla prima serata di sabato, quando è stata immortalata da alcune telecamere.

La lite con il fidanzato

Poche ore prima del ritrovamento del corpo do Giulia, era emerso dalle indagini un particolare rilevante. La ragazza aveva scoperto il tradimento del suo fidanzato Poche ore prima Giulia aveva scoperto il tradimento dell’uomo con un’altra donna, anche lei incinta e costretta a interrompere la gravidanza.

I rapporti tra la famiglia di Giulia, la 29enne incinta al settimo mese, scomparsa sabato 27 maggio da Senago, e quella del fidanzato erano già compromessi da tempo. Ma probabilmente è stata la scoperta di una relazione parallela la ragione del violento litigio verbale di sabato sera antecedente la scomparsa. 

Alessandro Impagnatiello lavora come barman all’Armani Bamboo di via Manzoni a Milano. Secondo le ricostruzioni dei carabinieri, la sera della scomparsa la ragazza avrebbe scoperto la relazione di Impagnatiello con una collega americana che lavora con lui, anche lei incinta.

Estratto dell’articolo di Pierpaolo Lio per corriere.it l'1 giugno 2023.

Lei è «l'altra». La giovanissima collega italoinglese - poco più che ventenne -  di Alessandro Impagnatiello. La ragazza che da quasi un anno aveva intrecciato, a sua insaputa, una storia «parallela» con il 30enne barman dell’Armani Bamboo di via Manzoni a Milano. […] 

È lei […] a scoprire la doppia vita dell'uomo che nella notte tra mercoledì e giovedì ha confessato l'omicidio di Giulia. È sempre lei a contattarla, per conoscerla, per parlare, per scoprire insieme che Alessandro aveva mentito a entrambe. Ed è ancora lei la prima a iniziare a sospettare del 30enne, e a temere per la salute di Giulia. 

La giovane italoinglese attira l'interesse di Alessandro fin dal primo istante in cui lui - è il giugno 2022 - conosce la sua nuova giovane collega di lavoro. Lei fa la cameriera, lui è il responsabile del bar. Inizia subito a corteggiarla, e un mese dopo i due cominciano a frequentarsi.

Si vedono, a volte passano la notte insieme. Con il passare delle settimane le cose sembrano farsi serie […]. A gennaio, poi, lei rimane incinta, ma «di comune accordo con lui» sceglie di interrompere la gravidanza. Dell'esistenza di Giulia, lei verrà a saperlo solo ad aprile, e come spesso accade è il telefonino di lui lo «spione». «Ho visto delle foto sul suo telefono che lo ritraevano in vacanza con Giulia a Ibiza, invece a me aveva detto che ci sarebbe andato da solo», racconterà ai carabinieri. 

Giulia è al sesto mese, difficile al mare nascondere il pancione. La ragazza se ne accorge. Chiede spiegazioni ad Alessandro che però nega di essere il padre del bambino. Le mostra un (falso) esame del Dna che lo scagionerebbe, le dice che la relazione è terminata ma di dover stare comunque accanto a Giulia perché la 29enne sarebbe emotivamente instabile, bipolare, e avrebbe minacciato il suicidio.

Per un po', il castello di bugie regge. Fino a una vacanza che separa la giovane da Alessandro, che per il viaggio le presta il suo tablet.  È grazie a questo dispositivo che lei scopre la verità: trova le tracce delle ricerche sul web fatte dal barman per falsificare il test di paternità. 

Al suo ritorno - siamo a fine maggio – […] la relazione è finita. Ma lei decide comunque di conoscere Giulia. La contatta. Si danno appuntamento davanti all'Armani Bamboo. Le due donne parlano per oltre un'ora, si confidano, concordano di essere state entrambe raggirate da Alessandro.

Chiedono anche a lui di partecipare (che però non si farà vedere). Anzi, è Giulia a insistere che al chiarimento partecipi anche il 30enne. È un punto su cui Giulia non intende far sconti: Alessandro deve affrontare tutte e due. Ma solo poche ore più tardi - è la sera di sabato 27 maggio e Giulia è tornata a casa - nei messaggini che le due donne si scambiano, la 29enne di Sant'Antimo cambia radicalmente idea.

È una giravolta troppo evidente per non insospettire. «A mio avviso mi stava scrivendo in maniera diversa da quanto aveva fatto in precedenza». Sembra quasi un'altra persona rispetto a quella appena conosciuta: «Mi scriveva che lei non era stata sincera con me e di lasciarla in pace e che voleva tornarsene a casa», a Sant'Antimo. 

Le comunicazioni tra le due donne s'interrompono alle 21.50 di sabato: non risponde più ai messaggini dell'«altra», al cellulare la segreteria telefonica. La giovane italoinglese inizia a «torchiare» Alessandro: gli chiede di Giulia, gli chiede di poterla vedere in videochiamata. 

Lui accampa scuse su scuse: è a letto; sta dormendo; sta riposando, davvero, ma a casa di un'amica.  Qualcosa non le torna, in lei si fa spazio la paura, i suoi sospetti si moltiplicano. E quando si trova Alessandro sotto casa, non lo fa entrare. […] «All'ennesima dimostrazione della sua falsità, gli dicevo di non credere a quello che mi stava dicendo». 

Lui se ne va. Il giorno dopo, Alessandro è «strano», le dice solo che Giulia quel giorno non rispondeva più nemmeno alle sue telefonate. «In quelle circostanze - aggiunge - ho notato fuoriuscire dallo zaino di lavoro di Alessandro che aveva in spalla dei guanti in lattice di colore azzurro». Infine, riesce a contattare la sorella di Giulia, nonostante le resistenze di lui: è allora che scopre che nessuno ne più niente della 29enne. «Ero e sono preoccupata per Giulia», metterà a verbale.

Estratto da lastampa.it l'1 giugno 2023. 

La giornalista Veronica Briganti, del programma televisivo "Chi l'ha Visto", è riuscita a contattare telefonicamente il fidanzato di Giulia Tramontano domenica 28 maggio [...]. 

Alessandro Impagnatiello aveva denunciato la sparizione di Giulia, incinta di sette mesi, dopo essere tornato da lavoro, ma secondo quanto emerso successivamente dalle indagini, l'uomo aveva già ucciso la 29enne […].

Durante la telefonata avvenuta domenica sera, la giornalista aveva chiesto ad Alessandro di fornire una ricostruzione degli eventi: "Alessandro, potresti aiutarci a capire?". Lui aveva risposto: "Non ho voglia di parlare". La giornalista aveva replicato: "Non vuoi trovare Giulia?". E lui aveva risposto: "Ho già le mie cose nella testa. Grazie mille. Chiudo".

 Estratto da ansa.it l'1 giugno 2023.

Alessandro Impagnatiello ha confessato e ha dato indicazioni ai Carabinieri su dove aveva nascosto il corpo senza vita di Giulia Tramontano, in un lembo di terra dietro ai box di una palazzina in via Monte Rosa a Senago, nel Milanese, non lontano dall'abitazione della coppia. Impagniatiello è in carcere a San Vittore, accusato di omicidio aggravato, occultamento di cadavere e interruzione di gravidanza senza consenso. 

Dall'interrogatorio sono emersi particolari agghiaccianti. La ragazza è stata infatti uccisa con 2-3 coltellate, dopo una lite in casa, e Impagniatiello ha poi tentato di bruciarne il corpo per due volte, senza però riuscirci. 

Una prima volta […] ha tentato di dare fuoco al corpo nella vasca da bagno di casa con dell'alcol e poi successivamente in un'altra zona all'esterno della casa di Senago, un box di famiglia pare, ha provato a bruciarlo con della benzina. 

La Procura ha contestato nel provvedimento di fermo anche l'aggravante della premeditazione. Dalle indagini è inoltre emerso che l'uomo, poco dopo l'omicidio avrebbe tentato di incontrare l'altra donna con cui aveva una relazione, assicurandole che Giulia se ne era "andata" e che lui era un "uomo libero", screditando anche la 29enne dicendo che quel figlio che aspetta non era suo, cosa non vera. 

La donna, però, per paura ha deciso di non incontrarlo. Si sarebbe presentato nella sua abitazione a Senago a Milano, verso le due di domenica scorsa, insistendo per poter entrare, ma lei non l'avrebbe fatto salire. 

In quel momento il corpo della 29enne sarebbe stato ancora nella sua casa, anche se, come è stato riferito dagli inquirenti, lui aveva già provato a bruciarlo con alcol nella vasca da bagno. Il corpo della donna, dunque, sarebbe rimasto in casa per alcune ore (l'omicidio è avvenuto tra le 19 e le 20.30).

Non solo: secondo la Pm Alessia Menegazzo l'uomo "ha cercato online come uccidere e come disfarsi del corpo della sua compagna. Si tratta dunque di un omicidio premeditato. Quando ha incontrato in casa Tramontano aveva già deciso come ucciderla". Dalle indagini è inoltre risultato che l'assassino "ha inviato messaggi all'amica della compagna dal telefono della Tramontano quando l'aveva già uccisa". 

L'altra donna che aveva una relazione con Impagnatiello ha raccontato […] che ricevette nella serata di sabato un messaggio dal telefono della 29enne con su scritto "ti ho mentito, lasciami in pace", dopo che le due si erano incontrate e si erano confrontate anche sui "maltrattamenti psicologici" dell'uomo. Quel messaggio, in realtà, sarebbe stato Impagnatiello a mandarlo, perché Giulia era già morta. L'altra giovane si era anche già "preoccupata", ha riferito, perché lei non aveva risposto subito ad un suo whatsapp.

[…] "Era un bravo ragazzo, mai e poi mai ci saremmo aspettati da questa faccia d'angelo" ciò che poi è accaduto. Così il padre di un amico di Alessandro Impagnatiello […]. "Era considerato uno dei più belli della compagnia - ha aggiunto - Lui e mio figlio si sono sentiti il 30 maggio", il giorno dopo che lui stesso aveva denunciato la scomparsa della donna. "Era sconfortato per la sparizione di Giulia, i suoi amici cercavano di consolarlo e aiutarlo. Mai e poi mai si pensava a questo epilogo. Quando abbiamo visto il telegiornale stamattina, non riuscivamo a crederci".

[…] Sono state le tracce biologiche, si presume di sangue, trovate ieri sulla sua auto a portare la Procura di Milano a indagare Impagnatiello. L'uomo avrebbe screditato a più riprese, parlando con l'amante con cui aveva una relazione parallela, la sua compagna, secondo quanto emerso dalle indagini. 

Sarebbe stata proprio l'amante, una collega americana di Impagnatiello, di professione barman, a chiedere al 30enne di incontrare Giulia quel sabato. Per una sorta di incontro chiarificatore. Entrambe le donne […], dallo scorso aprile avevano iniziato ad avere sospetti sul fatto che il 30enne avesse un'altra relazione. Con la collega-amante il 30enne avrebbe più volte parlato male della fidanzata, dicendo, pare, anche che avesse problemi mentali e non solo, per screditarla in ogni modo. […]

Estratto dell’articolo di Lorenza Rapini per lastampa.it l'1 giugno 2023. 

Portava avanti due vite, due esistenze parallele. Il fidanzato convivente modello che abita in una palazzina di periferia, aspetta un bimbo con la compagna, sta costruendo una famiglia da un lato, il ragazzo alla moda nei locali più in del centro di Milano, donne cocktail notti vita patinata dall'altro […].

Alessandro Impagnatiello era un funambolo. Ma non è facile camminare su una corda a lungo: prima o poi si cade. Giulia Tramontano, la fidanzata ufficiale, alla fine aveva scoperto che in quella doppia vita […], Alessandro aveva un’altra donna: una collega, di origini americane. Di più: aveva scoperto che anche lei era stata incinta: ma quel bimbo non era mai nato, era stato abortito forse proprio su richiesta di Alessandro. Che aveva cercato di nascondere tutto, aveva raccontato alla collega amante di quella fidanzata ufficiale rompiscatole, paranoica, addirittura con qualche problema mentale. Cose che si dicono, per coprire tutto. O frasi studiate ad hoc, pensando magari a una futura uscita di scena proprio della compagna ufficiale? 

Alessandro Impagnatiello non soltanto aveva tradito Giulia Tramontano, e lo aveva fatto per mesi, ma l’aveva anche screditata, aveva inventato una realtà parallela, in cui Giulia era un peso e la collega americana era al centro. Non era così, perché continuava a tornare a casa, dalla compagna ufficiale, e con lei appunto aspettava un bimbo.

Ma Giulia ha cominciato a sospettare. […] l’amante […] non poteva accettarla. Quella era una offesa, una mancanza di rispetto, una bugia terribile. 

Giulia, incinta di sette mesi, […] aveva avuto la forza di affrontare il suo compagno. Gli aveva chiesto il perché, lo aveva sbugiardato. E la verità ha spinto Alessandro Impagnatiello giù da quella corda tesa su cui cercava disperatamente di camminare. 

[…] Alessandro è un bel ragazzo, magro, fisico atletico, bruno dagli occhi scuri. In questo periodo lavora all’Armani Bamboo bar, settimo piano, vista mozzafiato sullo skyline della città, clientela di lusso, come il locale. Sa di piacere e si gioca tutte le sue carte. Ma evidentemente non regge. Capisce di essere all’angolo e non gli piace perdere. Giulia lo mette di fronte ai suoi errori e Alessandro non sa più che fare. Non può più far finta con l’amante che la compagna sia «disturbata», non può più sostenere di essere un uomo dalla vita lineare con Giulia. In un istante, crolla tutto. […] Sarà la verità processuale a stabilire cosa sia successo. Ma cosa scatti nella mente di chi abbandoni la strada di una vita normale per trasformarsi in un assassino è impossibile dirlo con precisione.

[…] Giulia non sospettava di essere in pericolo. Era solo arrabbiata. Alessandro pensava di potersela cavare: in un primo momento senza che tutta la sua doppia vita non emergesse, poi soltanto con una litigata, magari pensava persino di essere perdonato, visto che alla fine l’amante il figlio non lo aveva avuto e lui era sempre tornato a casa, a Senago. Niente più cocktail e ambiente soffuso. Per ora lo attende il carcere.

I verbali di Impagnatiello: «Ho ucciso Giulia a coltellate, volevo bruciarla». Il cadavere nascosto per un giorno nel bagagliaio. Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2023

La confessione di Alessandro Impagnatiello sulla morte della compagna, Giulia Tramontano, che era al settimo mese di gravidanza. Incastrato dall’amante, che aveva abortito. Gli sms fasulli e il cadavere nascosto un giorno intero nel baule dell’auto 

Il tradimento come regola di vita, la menzogna un’abitudine, e quando coloro che credono in lui lo mettono spalle al muro, incapace di affrontare le proprie responsabilità non ha scrupoli ad eliminare chi ha scoperto il suo misero gioco con la vita degli altri. Finisce in carcere reo confesso Alessandro Impagnatiello, barman milanese del lusso che a 30 anni non ha avuto scrupoli ad trucidare con fredda determinazione a coltellate la giovane donna che tra due mesi gli avrebbe dato un figlio. 

Un castello di falsità

Gli atti del pm Alessia Menegazzo e dell’aggiunto Letizia Mannella, che in appena 4 giorni hanno fatto luce su ciò che sembrava il giallo di una scomparsa, ricostruiscono con le indagini scrupolose dei carabinieri il fragile castello delle falsità costruito dall’uomo. Dopo una relazione dalla quale 8 anni fa nacque un bambino, nel 2020 Impagnatiello allaccia un rapporto con un’altra donna. È Giulia Tramontano, agente immobiliare milanese di origine campane. Tutto fila liscio fino all’estate scorsa quando si lega anche ad una 23enne italo inglese che lavora con lui nell’Armani hotel, pieno centro di Milano. «Mi sono ritrovato a dire bugie per tenere entrambe le relazioni», ammette ai pm. Finché le due ragazze non si trovano. 

«È scomparsa»

Lunedì scorso Impagnatiello denuncia ai carabinieri di Senago (Milano) la scomparsa della 29enne Giulia. Racconta una storia che fa subito acqua. Dice che le due donne avevano saputo l’una dell’altra e volevano fare chiarezza con un incontro a tre al bar dell’Armani, al quale lui però si sottrae. Giulia aveva saputo che l’altra aveva interrotto a febbraio una gravidanza avuta con Alessandro. Tornata a casa, era uscita di nuovo intorno a mezzanotte (anche lui lo farà poco dopo) era poi rientrata. La mattina l’aveva lasciata a letto mentre lui andava al lavoro. Da allora nessuna notizia di lei, tranne una serie di messaggi che sembrano tranquillizzare nelle prime ore parenti e amici. Telefono staccato, passaporto, carte di credito e denaro spariti. Tutto fa pensare ad un allontanamento volontario, ma i militari accertano subito che il cellulare non si è mai mosso da lì. 

Il lenzuolo arrotolato

Le telecamere di sorveglianza vedono l’uomo che esce di casa 19 minuti dopo la mezzanotte di domenica e rientra alle 3.14. Esce di nuovo alle 3.22 con un lenzuolo arrotolato che lascia nell’auto parcheggiata all’esterno. Lo fa ancora intorno alle 7 per andare al lavoro portando uno zaino e due sacchetti pieni di tessuti che mette in macchina. Movimenti troppo sospetti che attirano gli investigatori. Impagnatiello sente il fiato sul collo quando mercoledì viene convocato nella caserma di Senago dai pm con il suo avvocato. Il luminol rileva tracce di sangue in macchina, nel bagagliaio del suo Suv. Il 30enne viene iscritto nel registro degli indagati per omicidio mentre gli esami scientifici proseguono in casa partendo dalle scale condominiali che dal primo piano portano alla cantina e al garage. La scena comincia a chiarirsi: tracce di sangue sul pianerottolo, alcune lavate in modo approssimativo. Ma è sulle scale che portano che emergono segni di trascinamento. 

Il crollo

Sono le dieci di mercoledì sera. Impagnatiello esce dalla palazzina e gli viene detto di salire sull’auto per seguire i carabinieri in caserma. È un momento drammatico: la gente urla «assassino», flash e telecamere non gli lasciano tregua. Lungo i 400 metri di strada il barman capisce che ormai non ha più speranza. «L’ho uccisa io. Confesso tutto. Giulia è nascosta in via Monte Rosa». 

Il racconto

Il verbale si chiude alle 3.14 di giovedì. Dice che appena rientrata a casa intorno alle 19, Giulia ha subito affrontato la questione, ma «con toni rassegnati» contestando ciò che aveva saputo dall’altra. Qui il racconto è contraddittorio, il 30enne sembra voler far credere ad un iniziale tentativo di suicidio. Afferma, infatti, che mentre Giulia tagliava i pomodori per la cena «ha iniziato a procurarsi dei tagli sulle braccia» e «al collo» dicendo che «non voleva più vivere». Lui «per non farla soffrire» le ha inferto «tre o quattro colpi all’altezza del collo» dicendole, mentre era «stremata a terra», «che era finita e che doveva riposarsi». Forse si rende conto dell’assurdità di ciò che racconta quando aggiunge che Giulia «ha cercato di difendersi muovendosi e divincolandosi» senza urlare. «In pochi minuti» tutto è finito. 

Farla sparire

«Ero confuso e annebbiato» continua Impagnatiello dichiarando di aver trascinato il corpo in bagno: «Mi sono reso conto che l’avevo uccisa». Sapeva cosa fare. Poco prima che Giulia rientrasse, mentre le due donne smascheravano le sue bugie, aveva già deciso tutto. Aveva cercato sul web «ceramica bruciata vasca da bagno», forse per nascondere i segni di ciò che avrebbe fatto. E infatti dice che ha tentato di bruciare il corpo con l’alcol, senza riuscirci. Il racconto è agghiacciante: «Ho deciso di continuare nel box». Deve però aspettare le 23 per trascinare lungo le scale quel corpo offeso e far sparire le tracce senza essere visto. Intorno alle tre, come registrano le telecamere, esce e torna con una bottiglia di benzina dopo aver gettato nei cassonetti altri stracci. Nel box tenta ancora, inutilmente, di bruciare il cadavere, ma è lui stesso a spegnere le fiamme due ore dopo perché «non riuscivo (reggevo, ndr) a vederle». 

Al lavoro

Alle 7 di domenica va al lavoro come sempre mentre ciò che resta di Giulia è lì nel garage. Quando torna alle 16.30 prosegue la messinscena con una denuncia di scomparsa ai carabinieri. Gli stessi che lo riaccompagnano a casa per un sopralluogo ma che in quel momento non possono sospettare nulla. «Non temeva che aprissero il box?», chiedono i pm: «Forse speravo che lo facessero», risponde. Gli investigatori scopriranno che in quegli stessi momenti cerca con il cellulare notizie su «Giulia Tramontano» e se si parla di «scomparsa allontanamento volontario» e «valigie vecchie». A verbale spiega che ne voleva trovare di usate da mettere in cantina, senza che si notassero ad uno sguardo casuale, per coprire «uno spazio vuoto». Forse per nascondere meglio il corpo o usarle per trasportarlo una volta fatto a pezzi. 

Il corpo in auto

Lunedì mattina torna ancora al bar, ma deve rientrare a casa perché l’Armani lo ha sospeso in attesa che si chiarisca la situazione. Ne approfitta per finire il macabro lavoro rimasto in sospeso. Sposta il corpo in cantina, mette la macchina nel garage e la mattina dopo, alle 7, lo riporta indietro per caricarlo nel baule del suo Suv. «Ho comunque usato la macchina andandoci in giro con il cadavere nel bagagliaio», dice. Non sa come liberarsi del cadavere mentre il clamore sul caso di Giorgia Tramontano è altissimo, si susseguono gli appelli della sorella Chiara e il giardino davanti casa è pieno di giornalisti. 

Lui aspetta che cali la notte e alle 2.30 di mercoledì fa il passo finale. Carica i resti di Giulia e del bimbo che ha in grembo sulla sua Volkswagen T-Roc bianca ed esce di casa. Dopo meno di seicento metri, si ferma in via Monte Rosa e lascia il corpo in un’intercapedine dietro una fila di garage. I carabinieri del Nucleo investigativo di Milano, guidati dai colonnelli Antonio Coppola e Fabio Rufino, lo trovano su sua indicazione all’una di giovedì notte. Oggi l’interrogatorio a San Vittore, risponde di omicidio volontario premeditato, aggravato dalla crudeltà e dai motivi futili, occultamento di cadavere e procurato aborto. Quando gli chiedono se qualcuno l’ha aiutato, pare recriminare su sé stesso: «Sarebbe stato l’ennesimo errore dopo quelli che ho già fatto. Forse mia mamma ha dubitato, ma per 30 anni non le ho mai dato motivo (di pensare, ndr) che potessi fare una cosa simile». 

L'«amante» di Impagnatiello: «Temevo uccidesse anche a me, mi tempestava di chiamate. Gli chiedevo: dov'è Giulia?». Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2023

Le parole della 23enne italo-inglese con cui Impagnatiello aveva una relazione parallela: il barman le aveva detto che il bimbo che Giulia Tramontano portava in grembo non era suo. La ragazza, preoccupata, aveva contattato la sorella della vittima 

C’è un sospetto terribile negli investigatori. Dopo aver ucciso la compagna, Alessandro Impagnatiello forse voleva colpire anche la 23enne, italo inglese, la «terza vittima» di questa storia, insieme a Giulia e al piccolo che si sarebbe chiamato Thiago. Perché è da lei, con cui ha una relazione parallela, che il 30enne corre quando esce alle 00.19 di sabato, dopo aver ucciso la compagna e tentato di dar fuoco al cadavere. Lei che diventa una sorta di investigatore dopo la scomparsa di Giulia, contatta anche sua sorella Chiara, le racconta tutto. Lei che per prima dubita dell’innocenza di Alessandro. 

I primi sospetti

«Quella sera ho ricevuto vari messaggi e numerose chiamate alle quali non rispondevo, insisteva nel volermi vedere. Poi alle due, nel rincasare, ho notato sotto casa la sua presenza: ha continuato ad inviarmi sms su chat e chiamate con l’intento di volermi parlare per almeno 5 minuti», mette a verbale la ragazza. Ma lei ha paura, perché per prima ha chiesto con insistenza che fine avesse fatto Giulia senza avere risposte. Capisce che qualcosa è accaduto, ha un presentimento: «Data la sua insistenza, io comunque rincasavo e non volendoci parlare in presenza faccia a faccia, gli parlavo dalla finestra del ballatoio, e lui mi diceva di avermi aspettato da più di un’ora e che Giulia è una persona bipolare e che il figlio che lei aspetta non è il suo. All’ennesima dimostrazione della sua falsità gli dicevo di non credere a ciò che mi stava dicendo invitandolo ad andarsene». Lui si allontana solo alle 2.30 di notte. Per il pm Alessia Menegazzo e l’aggiunto Letizia Mannella, Impagnatiello deve andare in carcere perché «c’è il concreto pericolo che reiteri il reato» proprio nei confronti della 23enne: «Prova ne è il grave timore dell’amante che, conoscendolo e temendo di subire la medesima sorte di Giulia, non gli ha aperto la porta e ha parlato con lui soltanto dal balcone». 

L'inizio della relazione

L’inizio della relazione Il primo verbale della ragazza davanti ai carabinieri si apre all’1.40 della notte tra domenica e lunedì. Poche ore dopo che Alessandro ha presentato denuncia di scomparsa alla stazione di Senago. La 23enne è un fiume. Parla per quasi tre ore. «Conosco Alessandro da un anno, quando ho iniziato a lavorare all’Armani Hotel di Milano, mentre lui è un responsabile del bar — racconta agli investigatori —. Inizialmente mi ha corteggiato, poi da luglio abbiamo iniziato una frequentazione. È capitato che trascorresse anche la notte a casa mia, come io a casa sua a Senago». Quando lei andava a dormire lì, Impagnatiello faceva sparire le foto di Giulia. «Poi a gennaio rimanevo incinta, ma dato che non mi sentivo pronta per avere un figlio, di comune accordo con lui abbiamo ho deciso di abortire». 

Le bugie e l'incontro

Ad aprile la ragazza scopre la doppia vita del fidanzato: «Ho visto delle foto sul suo telefono. Mi è apparso subito chiaro che Giulia era incinta». Lui si giustifica: «Mi ha detto che non era il padre e che aveva anche un test del Dna, me lo mostrava su carta stampata». Lui la convince che la relazione con Giulia è finita, anzi che lei soffre di un disturbo bipolare e vuole farla finita. «Alessandro mi ha prestato il suo Ipad, ho visto varie ricerche on line finalizzate a reperire degli attesati negativi del test del Dna. Ho trovato un file con le sue generalità e quelle di Giulia con test negativo, che sarebbe quello che mi aveva mostrato in forma cartacea». Il muro di bugie crolla: «Ho avuto la certezza che continuasse a mentirmi». Sabato (il gorno della scomparsa) la 23enne trova il numero di Giulia e la contatta: «Ci siamo incontrare sotto l’hotel dove lavoro alle 17.30. Alessandro ha chiamato Giulia e lei gli ha detto di essere in mia compagnia invitandolo a raggiungerci». Ma lui non si presenta, anzi esce prima dal lavoro e torna a Senago. È in queste ore (prima del delitto) che, come documentano i carabinieri della Squadra omicidi, Impagnatiello cerca sul web come eliminare segni di «bruciature nella vasca da bagno». Non a caso proprio lì, dopo il delitto, proverà a dar fuoco al corpo. 

L'alleanza

Le due fidanzate tradite intanto sono ancora insieme: «Siamo rimaste a parlare fino alle 18.45, ci siamo confidate e abbiamo convenuto che Alessandro avesse mentito ad entrambe». La visita del barman Giulia torna a casa e succede qualcosa di strano. «Ci siamo sentite su WhatsApp e a mio avviso mi stava scrivendo in maniera diversa da quanto aveva fatto in precedenza». I messaggi che partono dal cellulare di Giulia tra le 20.30 e le 21.50 sono di tutt’altro tenore. In realtà a scriverli è Alessandro, lei è già morta. «Mi diceva che non era stata sincera con me e di lasciarla in pace. Poi non mi ha più risposto». A quel punto la 23enne teme che sia successo qualcosa di grave. La ragazza videochiama Alessandro, lui prima le dice che Giulia dorme, poi cambia versione: «Gli ho chiesto di farmela vedere col telefono ma lui mi diceva che Giulia non era in casa ma che stava dormendo da un’amica. Ha ripreso solo la camera da letto ed il soggiorno dove effettivamente non vi era la presenza di Giulia». La 23enne riprende il turno al lavoro. Poi alle due nel rincasare trova il 30enne sotto casa ma non lo fa entrare nell’appartamento.

I contatti con la sorella di Giulia

Il giorno dopo lo vede al lavoro: «Mi sembrava “strano” e continuava a giustificare la situazione arrampicandosi sugli “specchi”. Gli chiedevo dove fosse Giulia e mi diceva che non rispondeva nemmeno a lui». È in questa occasione che vede sbucare «dallo zaino del lavoro di Alessandro dei guanti in lattice». La 23enne teme il peggio e contatta la sorella di Giulia via Facebook. «Chiara mi ha detto che Giulia non è una ragazza bipolare e non mai sofferto di malattie mentali. E che anche lei e i familiari erano preoccupati». A quel punto racconta le sue scoperte e della doppia relazione di Alessandro, che Giulia era arrabbiata e che aveva detto di voler chiarire con lui la situazione. Ma non ne ha mai avuto il tempo. 

Il triste epilogo. Giulia Tramontano uccisa a coltellate dal fidanzato: trovato il corpo con segni di bruciature. Il feto forse si poteva salvare. La lite con il fidanzato poi l’omicidio. Tracce di sangue all’interno dell’auto del ragazzo e il corpo abbandonato da giorni in un’area verde di Senago. Forse il feto si sarebbe potuto salvare, da ricostruire la dinamica dell’omicidio. Redazione su Il Riformista l'1 Giugno 2023 

È stato trovato poco dopo l’una di notte, in un’area verde abbandonata a Senago nel Milanese, il corpo senza vita di Giulia Tramontano. La 29enne, incinta al settimo mese, era scomparsa dalla sua abitazione tra sabato e domenica 28 maggio. Le ricerche erano iniziate dopo l’allarme dato dal suo compagno Alessandro Impagnatiello. 

Nella notte tra il 31 maggio e l’1 giugno il drammatico epilogo: il cadavere è stato ritrovato all’interno di un’area abbandonata a Senago, a poche centinaia di metri dall’abitazione. Alessandro Impagnatiello, indagato per omicidio aggravato, occultamento di cadavere e interruzione di gravidanza senza consenso, ha confessato nel corso della notte dopo un lungo interrogatorio nella caserma dai Carabinieri. Ascoltato dal pm Alessia Menegazzo, titolare delle indagini con l’aggiunto Letizia Mannella, avrebbe ammesso di aver ucciso la giovane donna e tentato di bruciarne il cadavere. Al momento è stato sottoposto a fermo e trasferito nel carcere milanese di San Vittore. La convalida arriverà nelle prossime ore.

Uccisa a coltellate, sul corpo segni di bruciature

Secondo fonti investigative l’uomo avrebbe ucciso la fidanzata con almeno due coltellate al termine di una lite avvenuta in casa, poi ha cercato di bruciare il corpo senza però riuscirci. Successivamente avrebbe trasportato il cadavere nell’intercapedine di via Monterosa nel bagagliaio della sua macchina, una T-Roc bianca dove sono state rinvenute tracce di materiale organico. Il movente sarebbe legato alla doppia relazione con la collega barista.

Impagnatiello dopo aver ucciso la fidanzata avrebbe tentato di incontrare, sempre nella serata di sabato 27 maggio, l’altra donna con cui aveva una relazione. Secondo quanto emerge nelle indagini, l’uomo l’avrebbe contattata dicendole che la compagna se ne era “andata” e che lui era un “uomo libero“. Avrebbe addirittura screditato Giulia Tramontano, sostenendo che “quel figlio che aspetta non è mio“. Circostanza non vera. L’amante – così come emerso nelle indagini – spaventata, ha deciso di non incontrarlo.

La scomparsa

La prima ad allarmarsi è stata la mamma in Campania (la giovane era originaria di Sant’Antimo, comune a nord di Napoli), abituata a ricevere la telefonata della figlia tutte le domeniche e nei giorni di festa. Ma domenica mattina Giulia non la chiama, anzi ha il cellulare spento. Più probabilmente in modalità offline senza connessione dati e senza linea telefonica. Sabato sera avrebbe mandato un messaggio a un’amica dicendo di essere turbata dopo la discussione avuta con il compagno.

La giovane, che lavorava in un’agenzia immobiliare, è originaria della provincia di Napoli ma risiedeva da cinque anni a Senago, nel Milanese.  Secondo le prime ricostruzioni la giovane era viva e stava bene fino alla prima serata di sabato, quando è stata immortalata da alcune telecamere.

La lite con il fidanzato

Poche ore prima del ritrovamento del corpo do Giulia, era emerso dalle indagini un particolare rilevante. La ragazza aveva scoperto il tradimento del suo fidanzato Poche ore prima Giulia aveva scoperto il tradimento dell’uomo con un’altra donna, anche lei incinta e costretta a interrompere la gravidanza.

I rapporti tra la famiglia di Giulia, la 29enne incinta al settimo mese, scomparsa sabato 27 maggio da Senago, e quella del fidanzato erano già compromessi da tempo. Ma probabilmente è stata la scoperta di una relazione parallela la ragione del violento litigio verbale di sabato sera antecedente la scomparsa. 

Alessandro Impagnatiello lavora come barman all’Armani Bamboo di via Manzoni a Milano. Secondo le ricostruzioni dei carabinieri, la sera della scomparsa la ragazza avrebbe scoperto la relazione di Impagnatiello con una collega americana che lavora con lui, anche lei incinta.

Come si può arrivare a tanto? Omicidio Tramontano, Impagnatiello ha ucciso Thiago (non solo Giulia). Con un cesareo si sarebbe potuto salvare. Redazione su Il Riformista l'1 Giugno 2023

Per la legge l’omicidio può essere contestato solo dopo il parto e quindi nel caso del brutale femminicidio di Giulia Tramontano incinta di 7 mesi, al suo assassino potrà essere contestata solo l’interruzione di gravidanza oltre all’omicidio. 

Una vicenda dai contorni terribili, come evidenzia il profilo umano di Impagnatiello tratteggiato dal Generale Mannucci Benincasa: “Non abbiamo di fronte solo un assassino, ma un assassino che aveva di fronte la persona che dichiarava di amare e che portava in grembo il figlio che stava per nascere, un figlio che la legge ancora non riconosceva come tale, quindi l’omicidio e’ della donna, ma in realtà è un feto che, forse, con un taglio cesareo sarebbe potuto nascere. E non solo non ha esitato a uccidere, ma si e’ accanito sul corpo tentando di disfarsene dandogli fuoco”.

L’assassino ha cercato su internet come uccidere Giulia

Per l’omicidio di Giulia Tramontano, la 29 enne di Seregno il cui cadavere è stato trovato la scorsa notte verrà contestata la premeditazione. La tecnica con cui ha cercato di disfarsi del corpo è stata studiata e preparata, ha spiegato il Sostituto procuratore della Repubblica, Alessia Menegazzo.

Sono state le ricerche fatte in rete “a farci capire che aspettava la vittima a casa e che aveva già deciso come ucciderla e disfarsi del cadavere. E’ stata proprio l’indagine relativa alle stringhe di ricerca che ha consentito di datare il momento della morte, capire quando la ragazza è stata uccisa e a farci comprendere che le modalità con le quali l’indagato ha deciso di uccidere la compagna erano state pensate, studiate e organizzate ore prima.

Gli orari sono chiari: l’omicidio è avvenuto tra le 19 e le 20:30 e questo perché ci rendiamo conto che c’è stato un tentativo di sviamento. L’indagato manda messaggi dal cellulare della vittima quando la vittima è certamente morta”- conclude Menegazzo.

L’amante preoccupata per la salute di Giulia: i messaggi 

“Se hai problemi vieni a casa mia”. E’ una delle frasi che la 23enne inglese amante a propria insaputa di Alessandro Impagnatiello ha rivolto alla sua compagna Giulia. Da quanto si apprende in ambienti investigativi la ragazza inglese avrebbe anche scritto altri messaggi a Giulia Tramontano durante la serata dell’omicidio, proprio perché preoccupata. A rispondere dall’altra parte sarebbe però stato il 30enne: “Lasciami in pace, ti ho mentito”.

Interruzione di gravidanza non consensuale: cosa dice la legge

Tra i reati contestati ad Alessandro Impagnatiello c’è l’interruzione di gravidanza non consensuale per aver provocato la morte del bimbo che la vittima, incinta di 7 mesi, portava in grembo. La legge italiana prevede in questi casi l’applicazione dell’articolo 593 ter del codice penale.

“Chiunque cagiona l’interruzione della gravidanza senza il consenso della donna è punito con la reclusione da quattro a otto anni – si legge – Si considera come non prestato il consenso estorto con violenza o minaccia ovvero carpito con l’inganno. La stessa pena si applica a chiunque provochi l’interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna. Detta pena è diminuita fino alla metà se da tali lesioni deriva l’acceleramento del parto”.

“Se dai fatti previsti dal primo e dal secondo comma deriva la morte della donna – prosegue l’articolo del Codice – si applica la reclusione da otto a sedici anni; se ne deriva una lesione personale gravissima si applica la reclusione da sei a dodici anni; se la lesione personale è grave quest’ultima pena è diminuita. Le pene stabilite dai commi precedenti sono aumentate se la donna è minore degli anni diciotto”. L’omicidio, invece nell’ordinamento italiano può essere contestato solo dopo la nascita.

L'orrore oltre l'orrore dell'assassinio di Giulia Tramontano.  Daniela Missaglia su Panorama l'1 Giugno 2023

Va bene. Siamo assuefatti da notizie di cronaca orrorifiche. Forse non ci facciamo nemmeno più caso: le scorriamo con il polpastrello sullo smartphone e passiamo alla successiva. A volte ci soffermiamo solo sul titolo: guerra, governo, PNRR, disastri naturali, femminicidi. Soprattutto per questi ultimi, su cui tanto è stato scritto (e io per prima), la notizia non fa più scalpore: abbiamo persino perso la capacità di indignarci di fronte a un fenomeno talmente capillare che ha saturato l’opinione pubblica tracimando nel campo dell’ordinaria amministrazione. L’omicidio di Senago, però, riesce a scuotere il torpore del lettore distratto, per l’efferatezza e la dinamica. Ma soprattutto per le vittima, una ragazza giovane, 29 anni, bella, bellissima e, il suo bambino ormai prossimo alla nascita. Di fronte a quella foto in spiaggia di profilo, con la mano sinistra che accarezza il pancione di sette mesi in cui riposa placido il suo bambino, ormai completamente formato, anche l’ultimo dei cinici non può non aver avuto un sussulto. Come è possibile decidere di troncare la vita di una fidanzata che ti ha scoperto a tradirla con un’altra ragazza, mettendo incinta anche lei, ma, soprattutto, come è possibile uccidere anche il figlio che porta in grembo? Tuo figlio, per giunta. Non ci sono parole per definire lo sdegno verso questo bastardo, sì, chiamiamolo con il suo nome. Come è possibile non avere nemmeno il coraggio di implorare il perdono divino, non farla finita a propria volta, non costituirsi istantaneamente in caserma, pensare di farla franca? Il giovane compagno assassino è rientrato in casa dopo l’omicidio, ha tentato di costruirsi un alibi dai piedi d’argilla e si è pure preso gioco di tutti, compresi i genitori della vittima, legittimamente sgomenti, sporgendo denuncia di scomparsa il giorno dopo, dove ha raccontato che Giulia sarebbe uscita con il bancomat, il passaporto e 500 euro in contanti. Panzane, subito franate nelle incongruenze di questo bugiardo cronico che prima va in vacanza a Ibiza con Giulia in stato interessante, e poi nega all’amante la convivenza con lei, arrivando a produrle un falso test del DNA in cui inventa che il bambino di Giulia sarebbe stato concepito da un altro uomo. Menzogne su menzogne, a Giulia, all’amante collega di lavoro, illusa da un bellimbusto codardo che non è in grado nemmeno di ammettere la realtà dei fatti. Una personalità maledetta che vive nel metaverso di un’esistenza improntata all’inganno dove non c’è amore, non c’è sentimento, non c’è emozione per la futura duplice paternità, non c’è riconoscenza per le donne che hanno stravolto la loro vita per essersi fidate di lui. E quando le due vittime, Giulia e la collega del mostro, si sono incontrate per un chiarimento, il pavido non si è nemmeno presentato, continuando la sua recita, arrivando a impossessarsi del cellulare della compagna per scrivere all’amante di lasciarla in pace. Basta, non andiamo oltre, perché i dettagli emergono ora dopo ora e aumentano la rabbia. Nell'antica Roma veniva praticata una forma rituale di maledizione nota sotto il nome di defissione: consisteva nello scrivere su una lamina di piombo il nome della persona da maledire e la disgrazia che gli si voleva augurare. La lamina veniva poi arrotolata, chiusa con un chiodo e sotterrata. Personalmente, se avessi sottomano una lamina di piombo non basterebbe lo spazio per augurare ogni male a questa persona. O forse trascriverei la celebre citazione di William Shakespeare: “Tutte le infezioni che il sole succhia da paludi, acquitrini e stagni piombino su Prospero e lo trasformino, palmo dopo palmo, in una malattia vivente.”. Sostituendo il nome ‘Prospero’ con quello di questo stramaledetto assassino.

Estratto da ilgiorno.it il 2 giugno 2023.

Il gip di Milano Angela Minerva ha convalidato il fermo e disposto la custodia cautelare in carcere per Alessandro Impagnatiello, accusato di aver ucciso Giulia Tramontano, la sua fidanzata al settimo mese di gravidanza, accoltellata più volte sabato sera scorso nel loro appartamento di Senago, nel Milanese. 

[…] Il trentenne, reo confesso, ha inoltre tentato per due volte di bruciare il corpo della compagna che ha poi nascosto tra le sterpaglie vicino ai box di una palazzina non molto distante da casa. Risponde di omicidio volontario aggravato, occultamento di cadavere e interruzione di gravidanza senza consenso. Il gip ha tuttavia escluso l'aggravante della premeditazione. 

[…] Alessandro Impagnatiello "ha riferito di aver agito senza un reale motivo perché stressato dalla situazione che si era venuta a creare, menzionando tra l'altro, quale fonte di stress, non solo la gestione delle due ragazze ma anche il fatto che altri ne fossero venuti a conoscenza, per esempio sul luogo di lavoro". E' quanto il 30enne ha detto alla gip di Milano Angela Minerva nell'interrogatorio di convalida del fermo.

[…] Impagnatiello avrebbe inoltre corretto il tiro in merito alla dinamica dell'accoltellamento. Da quanto si è appreso l'uomo ha spiegato, rispondendo alle domande del giudice, che la ragazza, prima che lui la uccidesse, si era “involontariamente” ferita un braccio con il coltello da cucina che stava usando per tagliare dei pomodori. 

Quella sarebbe stata la “scintilla” che lo avrebbe portato a colpirla più volte all'altezza del collo. In precedenza Impagnatiello aveva detto […] che Giulia sabato sera, mentre era intenta a prepararsi la cena, gli avrebbe detto per […] lei la vita era diventata “pesante”. Dopo di che “ha iniziato a procurarsi dei tagli sulle braccia”.

“Lei si era inferta già qualche colpo all'altezza del collo e io, arrivato vicino a lei, per non farla soffrire le ho inferto anche io tre o quattro colpi”. Una versione, questa, stamane ritrattata. 

[…] Ci sono diversi punti ancora da chiarire, ma per i militari una cosa appare chiara: Impagnatiello "non solo non ha esitato a uccidere, come la ricostruzione e le indagini dimostrano, ma si è accanito su questo corpo, tentando di disfarsene, dandogli fuoco", aveva spiegato il comandante provinciale dei carabinieri, Iacopo Mannucci Benincasa.

È stato Impagnatiello stesso a raccontarlo: sabato sera l’uomo ha cercato di bruciare il cadavere nella vasca da bagno, ma dopo alcuni tentativi ha deciso di spostare il corpo nel box. "Ho tirato fuori Giulia dalla vasca da bagno con parte degli indumenti già bruciati e ho portato Giulia, trascinandola, nel box attraverso le scale", ha riferito. In un secondo momento, dopo il primo sopralluogo dei carabinieri della stazione di Senago successivo alla denuncia di scomparsa, Impagnatiello avrebbe trascinato il cadavere in cantina.

(ANSA il 2 giugno 2023) - "L'unica forma di pentimento che abbia un senso è togliermi la vita". Sono le parole che ha ripetuto Alessandro Impagnatiello al suo legale dopo aver confessato l'omicidio di Giulia Tramontano. Parole che oggi il legale, l'avvocato Sebastiano Sartori, ha riferito al termine dell'interrogatorio di convalida del fermo nel quale il barman ha confessato l'omicidio "aggiungendo particolari che riguardano l'ultima fase dell'accoltellamento". "Il barman ha negato la premeditazione e ha detto che ha fatto tutto da solo", ha conluso l'avvocato.

Estratto dell’articolo di Simona Buscaglia e Lorenzo Rotella per “La Stampa” il 2 giugno 2023.

«Un arrogantello pieno di sé, uno di quelli di cui non ci si può fidare». A chiedere in giro, qui a Senago, oppure a Paderno, dove Alessandro Impagnatiello si trovava con gli amici, il ritratto non è esattamente quello di una bella persona: «La prima volta che l'ho visto ho pensato che fosse un cretino», racconta Emanuele, cugino della donna con cui Alessandro otto anni fa aveva avuto un figlio. 

«Per fortuna la relazione non è andata avanti visto quanto successo. Giulia invece non l'avevo mai vista. La sera della confessione e del ritrovamento ho detto ai carabinieri di non farlo avvicinare perché lo avrei ucciso con le mie mani». Poi sintetizza con una di quelle parole che non si possono riferire: «Insomma, una vera m...». 

Quale baco lavorasse nella testa del giovane barman dall'aria innocente, che shakerava cocktail e menzogne con disinvoltura nella Milano da bere del nuovo millennio, e che per togliersi dall'imbarazzo di una doppia relazione ha ucciso senza esitazione la sua donna con suo figlio in grembo, nessuno lo sa con precisione: non le sue ex fidanzate, che lo hanno scoperto per caso da una foto sul suo cellulare, non i genitori di Giulia che stavano per accoglierlo come un genero e adesso non riescono a darsi pace.

Impagnatiello sapeva mimetizzarsi bene nelle stravaganze eccessive della Milano by night, di cui conosceva i riti esuberanti osservati dal bancone dell'Armani Bamboo bar, in pieno centro. Lo si vede in un filmato su YouTube mentre prepara uno dei suoi intrugli tutto preso nel ruolo: il sorriso dolce di un ragazzino che non potrebbe fare male a una mosca. E invece, nelle parole della Procura, Ale […] diventa un «uomo dalla spiccata capacità manipolatoria e ingannatrice». […] era «un po' sbruffone, anche da ragazzo», raccontano gli amici di Paderno Dugnano, dove Impagnatiello si andava a rifugiare quando smetteva i panni di sacerdote alcoolico dei bar del centro.

Nato a Sesto San Giovanni, quando ormai era già da un pezzo l'ex Stalingrado d'Italia, Alessandro era cresciuto con la famiglia a Senago, uno dei paesi che costellano la cintura della grande Milano: non più campagna, non ancora città. Una grande periferia non di rado anonima: «Si muoveva con uno scooterino tutto scassato. Poi da qualche tempo si era comprato un suv, una bella macchina».

Il sigillo […]  di un successo effimero che si esauriva dietro al bancone del bar del centro, frequentato da belle donne e "bella gente". Ale, soprattutto, era un bugiardo, quando raccontava a Giulia di volere un figlio, quando raccontava all'altra, la ex, che invece era tutto finito. «Prima in casa continuavo a guardare la nostra foto di Ibiza, so che non sono stato un fidanzato ideale negli ultimi mesi, dicci solo che stai bene», scrive su un WhatsApp diretto a Giulia ben sapendo di averla appena uccisa e che teneva avvolta in cellophane nel box dietro casa.

E poi, un pavido. Talmente vigliacco da non avere nemmeno il coraggio di raccontare l'omicidio, che nella sua confessione descrive quasi come accidentale: «L'ho aiutata spingendo il coltello nel collo». Ma Giulia non pensava affatto di uccidersi o flagellarsi: la sera in cui è stata uccisa, era furiosa, gli aveva scritto di non farsi più vedere e che quella non era più la loro casa. […]

Si era limitato a una flebile difesa quando i genitori di Giulia […] l'avevano preso a male parole appena arrivati a Milano. Per cercare di uscire dalla trappola psicologica in cui si era cacciato […], martedì, aveva chiamato la sua prima compagna, quella da cui aveva avuto un bambino: «Voglio stare con lui». E lei, che fino a quel momento aveva mantenuto buoni rapporti, pur sapendo che razza di bugiardo seriale fosse il suo ex, esplode: «Ma sei pazzo? Stanno cercando il corpo di Giulia e tu vuoi che ti porti nostro figlio?».  I pm lo descrivono come «un narcisista». Impossibile non notarlo. […]

Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella per corriere.it il 2 giugno 2023. 

C’è un sospetto terribile negli investigatori. Dopo aver ucciso la compagna, Alessandro Impagnatiello forse voleva colpire anche la 23enne, italo inglese, la «terza vittima» di questa storia, insieme a Giulia e al piccolo che si sarebbe chiamato Thiago. Perché è da lei, con cui ha una relazione parallela, che il 30enne corre quando esce alle 00.19 di sabato, dopo aver ucciso la compagna e tentato di dar fuoco al cadavere. Lei che diventa una sorta di investigatore dopo la scomparsa di Giulia, contatta anche sua sorella Chiara, le racconta tutto. Lei che per prima dubita dell’innocenza di Alessandro.

«Quella sera ho ricevuto vari messaggi e numerose chiamate alle quali non rispondevo, insisteva nel volermi vedere. Poi alle due, nel rincasare, ho notato sotto casa la sua presenza: ha continuato ad inviarmi sms su chat e chiamate con l’intento di volermi parlare per almeno 5 minuti», mette a verbale la ragazza. 

Ma lei ha paura, perché per prima ha chiesto con insistenza che fine avesse fatto Giulia senza avere risposte. Capisce che qualcosa è accaduto, ha un presentimento: «Data la sua insistenza, io comunque rincasavo e non volendoci parlare in presenza faccia a faccia, gli parlavo dalla finestra del ballatoio, e lui mi diceva di avermi aspettato da più di un’ora e che Giulia è una persona bipolare e che il figlio che lei aspetta non è il suo. All’ennesima dimostrazione della sua falsità gli dicevo di non credere a ciò che mi stava dicendo invitandolo ad andarsene».

Lui si allontana solo alle 2.30 di notte. Per il pm Alessia Menegazzo e l’aggiunto Letizia Mannella, Impagnatiello deve andare in carcere perché «c’è il concreto pericolo che reiteri il reato» proprio nei confronti della 23enne: «Prova ne è il grave timore dell’amante che, conoscendolo e temendo di subire la medesima sorte di Giulia, non gli ha aperto la porta e ha parlato con lui soltanto dal balcone». 

[…] Sabato (il giorno della scomparsa) la 23enne trova il numero di Giulia e la contatta: «Ci siamo incontrare sotto l’hotel dove lavoro alle 17.30. Alessandro ha chiamato Giulia e lei gli ha detto di essere in mia compagnia invitandolo a raggiungerci». Ma lui non si presenta, anzi esce prima dal lavoro e torna a Senago. È in queste ore (prima del delitto) che, come documentano i carabinieri della Squadra omicidi, Impagnatiello cerca sul web come eliminare segni di «bruciature nella vasca da bagno». Non a caso proprio lì, dopo il delitto, proverà a dar fuoco al corpo.

[…] Le due fidanzate tradite intanto sono ancora insieme: «Siamo rimaste a parlare fino alle 18.45, ci siamo confidate e abbiamo convenuto che Alessandro avesse mentito ad entrambe». La visita del barman Giulia torna a casa e succede qualcosa di strano. 

«Ci siamo sentite su WhatsApp e a mio avviso mi stava scrivendo in maniera diversa da quanto aveva fatto in precedenza». I messaggi che partono dal cellulare di Giulia tra le 20.30 e le 21.50 sono di tutt’altro tenore. In realtà a scriverli è Alessandro, lei è già morta. «Mi diceva che non era stata sincera con me e di lasciarla in pace. Poi non mi ha più risposto».

A quel punto la 23enne teme che sia successo qualcosa di grave. La ragazza videochiama Alessandro, lui prima le dice che Giulia dorme, poi cambia versione: «Gli ho chiesto di farmela vedere col telefono ma lui mi diceva che Giulia non era in casa ma che stava dormendo da un’amica. Ha ripreso solo la camera da letto ed il soggiorno dove effettivamente non vi era la presenza di Giulia». La 23enne riprende il turno al lavoro. Poi alle due nel rincasare trova il 30enne sotto casa ma non lo fa entrare nell’appartamento.

Il giorno dopo lo vede al lavoro: «Mi sembrava “strano” e continuava a giustificare la situazione arrampicandosi sugli “specchi”. Gli chiedevo dove fosse Giulia e mi diceva che non rispondeva nemmeno a lui». È in questa occasione che vede sbucare «dallo zaino del lavoro di Alessandro dei guanti in lattice». La 23enne teme il peggio e contatta la sorella di Giulia via Facebook. «Chiara mi ha detto che Giulia non è una ragazza bipolare e non mai sofferto di malattie mentali. E che anche lei e i familiari erano preoccupati». A quel punto racconta le sue scoperte e della doppia relazione di Alessandro, che Giulia era arrabbiata e che aveva detto di voler chiarire con lui la situazione. Ma non ne ha mai avuto il tempo.

L'incontro di Giulia Tramontano con «l'altra» al bar, poi gli sms: «Fatti trovare, sto tornando a casa». Cesare Giuzzi su Il Corriere delle Sera il 2 Giugno 2023

Sabato Giulia Tramontano e la collega 23enne del barman si sono incontrate in centro. Era stata «l'amante» a trovare il numero della vittima. Hanno parlato a lungo e chiesto a lui di raggiungerle, ma il killer non si è presentato: stava facendo ricerche su «come togliere tracce di bruciato dalla vasca»

«Sono in metro». Inizia cosi, con un messaggio che Giulia Tramontano invia sul cellulare del compagno alle 16.20 di sabato scorso, la scena cruciale del film dell’orrore di Senago. L’ultimo, drammatico, atto. Quando finalmente le due donne, Giulia e la collega 23enne di Alessandro Impagnatiello, si incontrano e svelano l’enorme castello di menzogne del barman «narciso e manipolatore». Ma è anche l’inizio della fine. Perché è proprio mentre è in corso l’incontro che Alessandro inizia frenetiche ricerche sul web per capire come "togliere macchie di bruciato dalla vasca da bagno". Segno per gli inquirenti «che aveva già in quel momento deciso di uccidere Giulia». E forse anche la collega. 

Tre secondi dopo quel messaggio ne partono altri. Una raffica: «Ti avviso!». «Non ti muovere da la’». «Non ti muovere che non faccio doppia strada! Non ti muovere». Giulia è partita da Senago e sta andando in via Manzoni a Milano, sotto l’Armani hotel dove c’è il bar Bamboo, per incontrare «l’altra». È la ragazza 23enne che Impagnatiello frequenta da poco più di un anno. Si sono date appuntamento al telefono, quando la «collega» (lavora anche lei all’Armani) ha scoperto il numero della compagna e ha deciso di chiamarla per un incontro-verità. Impagnatiello le aveva detto che la relazione con Giulia era ormai finita, lei aveva anche giurato che era «una pazza», che soffriva di un disturbo bipolare e che aveva più volte tentato di uccidersi.

 Quando la collega andava nella casa di Senago, ovviamente nei periodi in cui Giulia era via per lavoro o dalla famiglia, Alessandro faceva sparire le fotografie della fidanzata, perfino accappatoio e spazzolino da denti. Ma le bugie prima o poi sono state scoperte. Giulia e l’amante si incontrano alle 17.30. A quel punto Alessandro, allarmato, chiama Giulia che gli «intima» di raggiungerle. Lui invece sparisce. Con una scusa se ne va dal lavoro e torna a casa. Un’ora dopo partono altri messaggi dal cellulare di Giulia. Sono messaggi di rabbia e collera: «Wow sono curiosa di sapere cosa ti inventerai ora»; «E gran pezzo di m… che non sei altro, quella è casa mia e tu non devi farci entrare nessuno, hai capito? Quanto fai schifo alla razza umana»; «Hai fallito nella vita due figli con due madri diverse. Che tu possa affogare nella m… che ti crei da solo»; «Sto tornando a casa»; «Fatti trovare».

 L’ultimo messaggio è delle 18.39 e 12 secondi. A quel punto Giulia prende la metro, scende al capolinea Comasina e lì ci sono i genitori di Alessandro ad attenderla per darle un passaggio fino a Senago. Lei è una furia, racconta tutto, urla, piange. Dice che stavolta è finita, ma che non finirà qui. Cambio di inquadratura. Ora la telecamera è puntata sulla collega 23enne. Anche lei è arrabbiata. Il suo punto di vista non è diverso da quello di Giulia: «Con Giulia siamo rimaste a parlare fino alle 18.45 circa, ci siamo confidate e abbiamo convenuto che Alessandro avesse mentito ad entrambe. Giulia mi diceva che avrebbe fatto rientro a casa di Alessandro, dove lei mi ha detto di vivere stabilmente». A gennaio la ventitrenne era rimasta incinta, poi di comune accordo con Alessandro aveva deciso di abortire ai primi di febbraio. Giulia invece è al settimo mese di gravidanza, con Alessandro ha deciso che il piccolo si chiamerà Thiago.

 La rabbia si trasforma in odio verso Alessandro, entrambe per mesi, se non per anni, hanno vissuto in un mondo di bugie e menzogne. Nasce una solidarietà immediata tra le due donne tradite che hanno appena sbattuto la faccia contro la cruda realtà. Il confronto è stato spietato, perché oltre alla vita totalmente parallela di Alessandro le ragazze capiscono di essere state manipolate. Alessandro è stato in vacanza ad Ibiza insieme alla ventinovenne, è stata una vacanza felice e non un viaggio obbligato per cercare di aiutarla a superare i suoi problemi mentali, come aveva confidato all’amante. A quel punto la loro diventa un’alleanza e forse meditano insieme una vendetta morale contro Alessandro, o più semplicemente hanno bisogno l’una del conforto dell’altra per accettare qualcosa che sembrava impossibile. «Poi ci siamo sentite a mezzo chat di WhatsApp ed a mio avviso mi stava scrivendo in maniera diversa da quanto aveva fatto in precedenza poiché sino a prima di vederci, mentre ci siamo incontrate, era convinta di voler parlare tutti e tre insieme e di trovare una spiegazione -  mette a verbale la ventitrenne davanti ai carabinieri della squadra Omicidi durante la prima fase delle ricerche di Giulia -. Mentre nei messaggi inviatami dalle successive 20.30, sino alle 21.50, mi scriveva che lei non era stata sincera con me e di lasciarla in pace e che voleva tornarsene a casa, penso intendesse a Napoli. Dopodiché Giulia non mi ha più risposto a nessun messaggio in chat». 

La 23enne cerca anche di contattarla al telefono ma dall’altra parte risponde solo la segreteria. È ancora molto arrabbiata, forse ancora di più. Tanto che inizia con insistenza a chiamare Alessandro e a chiedergli che fine abbia fatto Giulia. Lui mente, dice che lei sta dormendo, poi che se ne è andata a casa di un’amica, ma che sicuramente sta dormendo anche lì. La ragazza però non ci sta, pretende che il barman le mostre in una video chiamata la casa, le stanze vuote. Lei non lo sa ma in quel momento nella vasca da bagno c’è il corpo di Giulia a cui Alessandro Impagnatiello ha cercato di dare fuoco.

La madre di Alessandro Impagnatiello: «Quella sera dissi a Giulia di dormire da me, mio figlio è un mostro». Cesare Giuzzi su Il Corriere delle Sera il 3 Giugno 2023

Sabrina Paulis, la madre di Impagnatiello, ha riaccompagnato a casa Giulia Tramontano dopo il suo incontro choc con l'amante del figlio. «Avevamo un ottimo rapporto, chiedo perdono alla sua famiglia per aver fatto un figlio così» 

Sono quasi le sette di lunedì sera. La mamma di Alessandro Impagnatiello sta riaccompagnando a casa Giulia Tramontano dopo l’incontro choc con la fidanzata parallela del figlio, la 23enne che lavora con lui all’Armani di via Manzoni. Lei le racconta tutto. Lo aveva già fatto poche ore prima di «scendere» a Milano da Senago, quando la ragazza l’aveva contattata sul cellulare dicendole di essere l’altra donna di Alessandro. Giulia è scossa, dice che stavolta è finita. Si confida con la «suocera», anche perché sua madre e i parenti vivono lontano da Milano. Sono meno di dieci chilometri di strada, una ventina di minuti dal capolinea della metropolitana M3 Comasina a via Novella. 

Quanto sia stato drammatico il viaggio di ritorno è facile intuirlo. Lo racconta Sabrina Paulis, 54 anni, la mamma di Alessandro, nel freddo lessico di un verbale davanti ai carabinieri poche ore dopo la denuncia di scomparsa di Giulia. Lei che ieri, disperata, alle telecamere de «La vita in diretta» ha detto: «Alessandro è un mostro. Chiedo perdono, da madre, ma non so cosa fare. Chiedo perdono per aver fatto un figlio così, perdono a tutta la famiglia». Quella sera, dice ai carabinieri la donna, «durante il tragitto di ritorno Giulia riferiva che avrebbe interrotto la relazione con Ale» perché «lui aveva scelto di frequentare l’altra e che comunque, dati anche gli ultimi alti e bassi avuti con lui, non era più intenzionata a stare con lui». In quel momento la «suocera» si offre di ospitarla a casa sua per la notte, per evitare che la ragazza rimanga con il figlio. «Una volta riaccompagnata a casa sia io che il mio compagno, chiedevamo a Giulia se volesse passare la notte a casa nostra per “staccarsi” da Alessandro. Ma lei diceva di non averne bisogno e che comunque il comportamento di Alessandro se lo aspettava». 

È come una sliding door che avrebbe forse potuto cambiare il destino a cui stava andando incontro Giulia. La mamma di Impagnatiello dice di conoscere Giulia da «almeno due anni»: «Fin da subito abbiamo instaurato un ottimo rapporto». Racconta gli ultimi mesi e la crisi: «Ho sempre visto la relazione tra mio figlio e Giulia come un rapporto normale. Solo da 2 o 3 settimane Giulia mi faceva capire che aveva qualche sospetto su un’eventuale relazione di Alessandro con un’altra donna». La signora cerca di minimizzare: «Non sapendo nulla cercavo di rassicurarla. Il comportamento di Giulia è sempre apparso normale fino a quando, nel primo pomeriggio di sabato, mentre ero a casa dell’altro mio figlio, lui riceveva una telefonata da Giulia che lo informava del fatto che Alessandro aveva una relazione sentimentale con un’altra».

La mamma e il compagno corrono subito a casa di Giulia. Lei è arrabbiata, lancia un pacchetto di sigarette e dice di essersene fumate «diverse»: «Dopodiché ci mostrava i messaggi inviati da una ragazza che le diceva di avere una relazione e le inviava alcuni video dove Alessandro doveva specificare la data e dirle che la amava». Poi le manda foto del loro appartamento «Giulia mi riferiva di essere arrabbiata ma non del tutto sorpresa». La ragazza chiede di incontrarsi all’Armani Hotel: «Le dicevo di essere intenzionata ad andare con lei ma non ha voluto la mia presenza. Nel frattempo la ragazza le riferiva di aver saputo da pochissimo tempo che Ale aveva un altro figlio». 

La «suocera» e il compagno sono gli ultimi a vedere Giulia viva quando la riaccompagnano a casa: «Dopo quel momento non ho più avuto contatti con lei. Nella speranza che Giulia mi telefonasse per sfogarsi, verificavo i suoi accessi su WhatsApp notando un ultimo accesso alle ore 21.45 senza però avere contatti». 

Alessandro Impagnatiello confessa: «Giulia un ostacolo, l'ho uccisa perché stressato». La gip: no crudeltà e premeditazione. Cesare Giuzzi su Il Corriere delle Sera il 3 Giugno 2023

Lo stress per la gestione delle due ragazze e perché altri al lavoro avevano saputo della sua doppia vita sentimentale. Prima del delitto cercò in Rete «ceramica bruciata bagno». Il killer: «Ora avrebbe senso solo il suicidio» 

«Ero stressato da quella situazione», non solo per «la gestione delle due ragazze» ma anche perché «ne erano venuti a conoscenza altri, anche sul mio luogo di lavoro». Alessandro Impagnatiello, l’assassino reo confesso della compagna Giulia Tramontano, incinta al settimo mese, sostiene di non sapere perché ha ucciso. Dice che si sta «interrogando da ore» senza trovare risposta. «Perché non esisteva un reale motivo» se non lo stress di trovarsi, per la prima volta con le spalle al muro.

​«Era un ostacolo»

Il suo castello di bugie crolla quando Giulia e la collega 23enne, che lavora con lui al lussuoso «Armani Bamboo» di via Manzoni, si incontrano e scoprono di essere state ingannate e tradite. Non a caso, nel provvedimento con cui il gip Angela Minerva convalida il fermo e dispone il carcere — non riconoscendo però le aggravanti della premeditazione e della crudeltà — il giudice parla di «una assoluta incapacità di sopportare frustrazioni» unita a una «capacità organizzativa e manipolativa». Per il giudice «Giulia fa capire al fidanzato che la relazione è finita» ma «la ragazza è un ostacolo» perché «porta in grembo suo figlio». Tanto che «dopo l’omicidio Impagniatiello va dall’amante e la rassicura sul fatto che adesso potranno vivere la loro relazione senza problemi perché Giulia non ce più».

​La nuova versione

Il barman 30enne viene interrogato in mattinata nel carcere di San Vittore. È in cella dall’alba di giovedì, quando ha confessato davanti ai carabinieri del Nucleo investigativo e ai magistrati Letizia Mannella e Alessia Menegazzo. Di fronte al gip conferma la prima ricostruzione ma la «corregge» quando parla delle fasi più cruente del delitto. Non è vero che dopo che lui ha «mangiato una piadina» Giulia ha preso il coltello con cui tagliava i pomodori per la cena e «ha iniziato a procurarsi tagli sulle braccia» dicendo «che non voleva più vivere» per poi colpirsi «all’altezza del collo». La compagna — spiega ora davanti al giudice — si sarebbe ferita solo «involontariamente» al braccio. E quella, racconta Impagnatiello, è la molla che fa scattare la sua furia. Una ricostruzione che, secondo gli investigatori, potrebbe non essere ancora quella definitiva: le ferite al braccio destro potrebbero essere in realtà lesioni da difesa. Su questo sarà l’autopsia (in programma martedì) a fare piena luce. Come sul giorno e l’orario in cui è stato abbandonato il corpo in via Monte Rosa, dietro l’intercapedine di alcuni box. Perché c’è il sospetto che tutto sia avvenuto prima di mercoledì notte, come invece racconta il 30enne.

​Il suicidio

Davanti al giudice il barman dice di pensare al suicidio: «L’unica forma di pentimento che abbia un senso è togliermi la vita». Lo aveva già biascicato giovedì notte ai pm quando, senza versare lacrime, aveva detto che il solo modo per salvare il figlio (avuto da una precedente relazione) dalla vergogna di avere un padre assassino sarebbe stato quello di «togliersi la vita». Agli atti dell’indagine ci sono le testimonianze di familiari e colleghi. C’è quella di una amica della vittima che spiega quel che Giulia gli aveva riferito dopo aver incontrato la 23enne, poche ore prima di essere uccisa: «In un audio, scioccata mi raccontava che la ragazza le aveva riferito tutto. Che sul luogo di lavoro è visto male e, addirittura, soprannominato “lurido”». Secondo quanto gli riferisce la ragazza Impagnatiello «è stato anche sospeso in passato per aver sottratto soldi» al bar.

Le aggravanti

Il gip Minerva riconosce le aggravanti del vincolo sentimentale e dei futili motivi: il 30enne rischia comunque una condanna all’ergastolo. Ma non quelle, contestate dai pm, della crudeltà e della premeditazione. Secondo il giudice, l’aggravante della crudeltà non c’è perché il delitto non sarebbe «caratterizzato da particolare pervicacia tenuto conto del tipo di arma utilizzata e del numero di colpi inferti». Per quanto riguarda la premeditazione tutto è legato alle ricerche che Impagnatiello effettua su Internet poco prima del delitto, alle 19 di sabato: «ceramica bruciata vasca da bagno». Giulia viene uccisa tra le 19.30 e le 20.30/21 di sabato e il corpo sarà effettivamente bruciato nella vasca. Ma per il giudice, come sostenuto dal difensore Sebastiano Sartori, le ricerche avvengono a ridosso del delitto: «La giurisprudenza identifica i tratti distintivi della premeditazione nell’apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito delittuoso e la sua attuazione tale da consentire una ponderata riflessione sulla decisione presa e sull’opportunità del recesso».

Potrebbe rifarlo

Nell’ordinanza il giudice si sofferma sul pericolo di reiterazione: esiste «lo specifico e qualificato pericolo di reiterazione nei confronti» della 23enne «con la quale l’indagato sperava, avendo “eliminato” il pericolo costituito da Giulia Tramontano, di proseguire la relazione e che invece, avendo scoperto la doppia relazione intrattenuta da Impagnatiello, lo aveva allontanato vanificando e quindi frustrando (nuovamente) le sue aspettative».

È la biologia, stupido. Crimini e misfatti, il tribunale dell’Internet e la mistica dell’amore romantico. Guia Soncini su L'Inkiesta il 3 Giugno 2023

I femminicidi non si affrontano insegnando l’affettività, ma dicendo alle femmine che essere in coppia non è il massimo traguardo della vita e che non devono ignorare i segnali pur di non essere la zitella al pranzo di Natale

Negli anni Ottanta Woody Allen ha tra i quarantaquattro e i cinquantaquattro anni, è alla vigilia del decennio in cui farà i suoi film migliori, e si fa le domande che ci si fanno all’età in cui gli unici dubbi che hanno senso sono quelli etici: e se t’innamori del marito di tua sorella? E se ascolti una conversazione che non dovresti? E se un delitto resta senza castigo?

Il ribaltamento dostoevskiano con cui chiude il decennio s’intitola “Crimini e Misfatti”. Martin Landau è un oculista tradizionalmente sposato, Anjelica Huston è la sua amante. Che a un certo punto minaccia di rovinarlo. Landau si rivolge al fratello, piccolo delinquente diversissimo da lui, rispettabile professionista borghese, e quello esegue: la ammazza.

Se non avete mai visto “Crimini e misfatti” ma vi sembra di conoscere la storia, è perché Woody Allen aveva previsto ben prima di Netflix l’instupidimento del pubblico. Sapeva che saremmo diventati una società di rincoglioniti per la quale devono girare un “Gattopardo” più brutto ma nuovo perché vogliamo i sapori freschi di giornata, e a settant’anni rifece lo stesso film ma con gli attori giovani e caruccetti. S’intitolava “Match Point”, noi adulti lo chiamiamo: il Crimini e misfatti degli analfabeti.

Su come finisce “Crimini e misfatti” poi ci torniamo, ma non serve essere uno studioso di letteratura russa per capire cosa significhi che il delitto resta senza castigo, e non serve essere me per capire che, oggi, Woody Allen verrebbe mandato all’ergastolo ostativo se girasse un film in cui l’uccisione della donna scomoda rimane impunita. Perché siamo diventati molto più stupidi, e non distinguiamo una storia da un esempio, un’opera d’arte da un modello comportamentale, una tredicenne da una persona che valga la pena stare a sentire.

Funziona così. Quando c’è un delitto come quello in cui Alessandro Impagnatiello uccide Giulia Tramontano, un delitto per fortuna abbastanza raro da fare notizia, i giornali se ne occupano e, com’è sensato, raccontano l’assassino. La vittima è una che ha avuto la sfortuna di rappresentare un problema (non solo, ma su questo poi ci torniamo, se vi volete indignare meglio vi tocca continuare a leggere); il criminale è la storia, nelle storie di crimini.

Le tredicenni questo non lo sanno, perché non sanno niente, non hanno letto niente, guardano Instagram e TikTok dove trentenni sceme quanto loro fatturano dicendo loro che è uno schifoooo, è il patriarcatoooo, le donne muoiono e a noi tocca leggere del barista assassinoooo. Le tredicenni scrinsciottano schifate un pezzo di ragionamento che non hanno capito, e i loro genitori – che spesso hanno ruoli intellettuali di cui non sono all’altezza – invece d’incomodarsi a spiegare alle tredicenni il mondo fremono per compiacerle e cambiano titoli, ritrattano articoli, e continuano a non fornire a queste povere ragazzine gli strumenti per cominciare a capire qualcosa.

La cosa più incredibile che abbia letto sul delitto Tramontano sono cinque righe di comunicato di Armani. Impagnatiello lavorava come barman in un locale Armani, il che ovviamente è rilevante quanto sapere di che segno zodiacale fosse. Eppure l’azienda ha sentito di dover prendere la distanze dal crimine. Vedi mai che, se non diciamo niente, ci sia qualcuno che smette d’essere nostro cliente perché la figlia tredicenne gli ha detto che non abbiamo ribadito che ammazzare a coltellate la tua fidanzata incinta è una brutta cosa.

Proviamo a dire un po’ di cose indicibili che, se non fossero tali, renderebbero il dibattito meno avvitato su sé stesso. Proviamo a dire la verità: non ho figlie tredicenni né fatturo indignandomi, non vedo perché non approfittare di questo doppio vantaggio.

I maschi non uccidono le femmine perché nelle scuole non c’è l’educazione all’affettività. I maschi uccidono le femmine per la stessa ragione per cui nei naufragi si dà la precedenza sulle scialuppe a donne e bambini e negli sport ci sono campionati separati: perché le femmine sono fisicamente più deboli, e nella peggiore natura degli esseri viventi c’è la sopraffazione. Non è cultura: è biologia. Non è una cosa che rieduchi, al massimo puoi mettere pugilato obbligatorio alle elementari per le femmine, e rendere i più forti spaventati dalle non più deboli, ma è comunque una soluzione posticcia a un divario irrisolvibile.

«Non c’è più grande minaccia all’esistenza delle donne che quella degli uomini». Lo diceva Louis CK in un monologo di anni prima di venire classificato come un orrido patriarca prevaricatore. Si chiedeva come ci venisse in mente di uscire con gli uomini, «è come uscire con una creatura metà leone e metà orso e sperare che sia gentile». Ogni volta che una donna accetta di uscire da sola con un uomo va incontro a un tale pericolo che viene da dirle «ma sei scema», osservava, eppure l’intera sopravvivenza della specie si fonda sul fatto che lei corra quel pericolo.

I maschi possono permettersi di considerare una gravidanza un problema da risolvere con la violenza perché la gravidanza non attecchisce nel loro corpo. Non sfuggono la responsabilità perché (aridaje) alle elementari hanno fatto i Sumeri invece di educazione sessuale: sfuggono la responsabilità perché possono permetterselo («because I could», la risposta di Bill Clinton al perché Monica Lewinsky, è la risposta a quasi ogni sbilanciamento etico). Le femmine possono abortire, o abbandonare il bambino (con conseguenti appelli di Ezio Greggio), o diventare la Franzoni, ma comunque a loro la natura non concede il lusso di considerarlo un problema esterno ed estraneo. Non siamo più etiche: siamo più sfigate.

L’inconscio esiste. Esiste e ti dice che quel tizio lì può ammazzarti, e infatti l’amante mica gli apre la porta, a Impagnatiello che ha già ammazzato la Tramontano e magari ammazzerebbe pure lei. Esiste e ti dice che non c’è da fidarsi, che ti stai infilando in una trappola, che finirai in cronaca nera. Esiste ma spesso non gli si dà retta perché, di tutti i condizionamenti culturali che ci inventiamo, ne esiste uno intorno al quale gira così tanta economia e identità che fingiamo non sia tale: la mistica dell’amore romantico.

Quando ho scritto su Instagram che il vero lavoro da fare non è dire ai maschi di non essere violenti, ma dire alle femmine che essere in coppia non è il massimo traguardo e che non devono ignorare i segnali pur di non essere la zitella al pranzo di Natale, mi hanno risposto che stavo dicendo alle ragazze di chiudersi in casa e non avere relazioni (siamo l’epoca più stupida della storia, e i miei lettori non fanno eccezione).

Poiché tredicenni e trentenni su Instagram si ripetono «victim blaming», intendendo, in una delle molte lingue che non parlano, che dire a Giulia Tramontano che non doveva andarsi a incistare con un criminale imbecille sia «colpevolizzare la vittima», allora facciamo finta che l’inconscio non esista.

Nonostante abbia frequentato scuole cattoliche, non credo tantissimo nella colpa, in generale; credo però che se una sola ragazza creperà perché nessuno le avrà raccomandato di salvarsi la vita, perché nessuno le avrà detto di badare a sé per paura d’essere accusato dal tribunale dell’internet d’essere un patriarca che invece di rieducare gli uomini colpevolizza le donne, credo – sono convinta – che quella ragazza lì il tribunale dell’internet ce l’avrà sulla coscienza.

Martin Landau, nel film, ha una vita lunga e felice e impunita. Ha tolto tutto ciò che poteva condurre a lui dall’appartamento di Anjelica Huston, girando attorno al cadavere. Ha aspettato per anni che un dio giusto ne svelasse le nefandezze, ma non è successo: il delitto è stato attribuito a un ladro, nessuno ha collegato la morta a lui. Il rabbino gli aveva detto che, in un caso ipotetico del genere, il senso di colpa sarebbe stato insostenibile. E invece.

Impagnatiello, se è andata come raccontano i giornali, ha cercato su Google come disfarsi del cadavere, ha lasciato tracce di sangue ovunque, è il più goffo e deficiente tra i criminali raccapriccianti che le cronache ci abbiano mai raccontato. Non credo nelle storie che fanno da esempio, ma mi piace illudermi che per il potenziale criminale medio la storia del delitto Tramontano sia un monito. Certo che ammazzerei la fidanzata che diventa un problema, ma ho letto che anche se metti la navigazione in incognito poi la polizia riesce a guardarti la cronologia, e senza Google mica so come si ammazza qualcuno facendola franca.

Lo so, non è un ideale paragonabile a «mettiamo delle ore di “diventare persone perbene” nei programmi scolastici e non ci saranno più assassini», ma ho un’età in cui si tende a cercare la soluzione più pratica. Se può funzionare, «non ammazzare la fidanzata, non avrai la vita lunga e felice di Martin Landau ma quella breve e imbecille di Alessandro Impagnatiello» mi va benissimo, come viatico.

(Adnkronos il 3 giugno 2023) -  Il calvario di Giulia Tramontano, la 29enne incinta al settimo mese uccisa una settimana fa a Senago dal compagno Alessandro Impagnatiello, raccontato dalle chat, dalle conversazioni che ora sono in mano agli investigatori e che il Tg1 ha mostrato per la prima volta. 

Messaggi su whatsapp che i due giovani si sono scambiati, tensioni e scontri ma anche il tentativo di Impagnatiello di deviare le indagini dei carabinieri che avevano già raccolto elementi che da lì a poco lo avrebbero incastrato. 

Dopo il delitto continuava a mandare messaggi sul cellulare della compagna come se fosse viva, le scriveva di tornare il prima possibile e poco prima della confessione dice 'sono quattro giorni che non ti fai viva, adesso smettila, torna, abbiamo bisogno di te'.

(ANSA il 3 giugno 2023) - "Ho i giornalisti che mi stanno molestando sotto casa, ti prego è invivibile così mia mamma piange, mio fratello e Luciano pure, ti prego. Siamo al 4 giorno oggi, finiscila con questa storia e batti un colpo, ti supplico".

E' il messaggio che il 31 maggio, poche ore prima di essere arrestato per omicidio aggravato, Alessandro Imagnatiello manda a Giulia Tramontano, la sua fidanzata in realtà uccisa quattro giorni prima, per precostituirsi un alibi e per far credere che la ragazza, incinta al settimo mese, si era allontanata da casa. Il testo è agli atti dell'indagine per cui ora l'uomo è in carcere.

(ANSA il 3 giugno 2023) - "Ma veramente prima ancora di far nascere un bambino tu vuoi già dividerci? Vuoi farlo nascere con due genitori già separati? Ma che madre sei!!! Ma te lo chiedi?". Il 25 maggio scorso Alessandro Impagnatiello scrive così a a Giulia Tramontano, la sua fidanzata incinta di sette mesi e da lui uccisa due giorni dopo. Quel giorno i due, come si evince dai WhatsApp agli atti dell'indagine, stanno discutendo. Le gli ripete di non essere "felice" e che loro storia era al capolinea. "Accetta la mia decisione e chiudiamo il discorso. Non voglio altre discussioni, frustrazioni, ansie e rabbia continua, lasciami stare".

(ANSA il 3 giugno 2023) - Con una lettera immaginaria scritta alla mamma Giulia da Thiago, Chiara Tramontano, la sorella della ventinovenne uccisa incinta di sette mesi dal fidanzato Alessandro Impagnatiello, è tornata in una storia su Instagram a parlare dell'omicidio e delle accuse nei confronti del barman, che includono la interruzione non consentita di gravidanza. "Io non ero una gravidanza mammina, ero una persona. Avevo braccia, gambe, testa e cuore". 

"Lui mi ha ammazzato. Ci ha ammazzati entrambi!". "Quello un mostro è, senza cuore. Ci ha ammazzati, mammina Giulia, senza pietà". Adesso staremo sempre insieme. Però mi dispiace - prosegue la lettera immaginaria di Thiago - , mamma Giulia. Non vedrò mai il mare che tanto ti piaceva, non conoscerò i nonni e nemmeno gli zii che mi aspettavano con amore. Non andrò a scuola, non mi innamorerò mai". "Non nascerò mai, mammina Giulia. Ma forse - aggiunge - in fondo è meglio così. Se fossi nato senza mamma e con un mostro per papà, che vita sarebbe stata la mia? Almeno adesso sto qui, in questo spazio infinito con te, mammina mia".

(ANSA il 3 giugno 2023) - Giulia Tramontano, quando lo scorso gennaio seppe del tradimento, disse alla sorella Chiara "che non avrebbe perdonato Alessandro ma sarebbe tornata a Senago" nella casa in cui viveva con il compagno e dove lui una settimana fa l'ha accoltellata, "in attesa di trovare un'altra soluzione abitativa oppure tornare a casa dai genitori". Lo ha messo a verbale il 29 maggio la stessa Chiara, aggiungendo che a febbraio Giulia "confidava ai nostri genitori la sua gravidanza nonché le problematiche sentimentali con Alessandro" e che loro padre le aveva assicurato "che, se ci fosse stato bisogno, le avrebbe dato tutto l'aiuto possibile".

Estratto dell'articolo di Nicola Palma per “il Giorno” il 3 giugno 2023.

Ogni volta che Chiara (nome di fantasia) andava a casa di Alessandro Impagnatiello a Senago, il barman trentenne si premurava di far sparire le fotografie che lo ritraevano insieme alla compagna Giulia Tramontano, che in quell’appartamento di via Novella 14/A ci abitava. Non basta: nascondeva pure altri oggetti personali che potessero far pensare all’altra donna che lui avesse ancora una convivenza stabile con l’agente immobiliare di 29 anni. 

A rivelarlo a Giulia è stata proprio Chiara, che, prima dell’incontro chiarificatore andato in scena alle 17.30 di sabato davanti all’Armani hotel, le ha inviato alcune istantanee del suo appartamento, proprio per dimostrare che lei ci era stata in diverse occasioni con Alessandro. Nel corso del faccia a faccia, durato circa un’ora, Giulia ha avuto la prova definitiva di una relazione parallela di cui aveva già iniziato a sospettare nelle settimane precedenti (confidandosi con la suocera) e ha deciso di chiudere definitivamente la storia con il compagno e padre del figlio che stava aspettando da lui. 

Sempre Chiara le ha raccontato che Impagnatiello era "visto male" sul luogo di lavoro, che alcuni colleghi lo avevano soprannominato "lurido" e che in passato era stato "sospeso per aver sottratto soldi". Di più: la ventinovenne ha appreso che il compagno aveva trascorso il weekend precedente (quello di sabato 19 e domenica 20) a casa dell’altra donna per festeggiarne il compleanno, e non con un amico in Emilia Romagna come aveva detto a lei. 

Quelle rivelazioni sconvolgenti hanno fatto crollare in un attimo il castello di menzogne che Impagnatiello aveva messo in piedi nei mesi precedenti (almeno da luglio del 2022) per riuscire a gestire le due storie in contemporanea. Un mentitore seriale, il ritratto che ne emerge dagli atti dell’inchiesta e dalle testimonianze delle persone ascoltate nelle ultime ore dai carabinieri della Omicidi del Nucleo investigativo. 

(…)

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 3 giugno 2023.  

Alessandro Impagnatiello ne ha fatta di strada da quando lo vedevano girare a bordo di un vecchio motorino malandato. Mescolava cocktail nei locali più famosi della città, andava in vacanza a Ibiza, si è comprato anche un suv. «Una faccia d'angelo, lo consideravano il più bello della compagnia», racconta il padre di un amico. Ma era tutto finto, alla fine il cumulo di menzogne è franato e a esserne travolta è stata la compagna Giulia Tramontano. 

Poche ore prima di morire Giulia incontra l'ex amante di Impagnatiello e lei la costringe ad aprire gli occhi su una verità di cui fino a quel momento intuiva solo i contorni. Faceva il barman all'Armani Bamboo, ma «sul posto di lavoro è visto male, è soprannominato "lurido" e in passato è stato anche sospeso per aver sottratto dei soldi al bar», le racconta la ragazza che con l'uomo ha avuto una relazione parallela di un anno e mezzo.

(…) LE INSTABILITÀ Anche lei, sabato sera, riceverà messaggi scritti da Impagnatiello e spediti con il telefono della compagna quando già l'ha già uccisa. Sarà lui, domenica alle sei del pomeriggio, a contattarla per chiederle se abbia notizie di Giulia, mentre la madre Sabrina Paulis era in caserma per denunciarne la scomparsa. Nell'ordinanza di convalida del fermo il gip, sottolineando l'«estrema gravità dei reati commessi», evidenzia «i tratti caratteriali dell'indagato». 

Alessandro Impagnatiello, oltre ad avere manifestato «capacità manipolativa» e «instabilità emotiva», «avendo "eliminato" il pericolo costituito da Giulia Tramontano sperava di proseguire la relazione» con l'altra. Ma l'amante, trovando le foto di Giulia incinta sul suo telefono, ha smascherato l'ex e lo ha allontanato, «vanificando e quindi frustrando (nuovamente) le sue aspettative».

Estratto da open.online il 3 giugno 2023.

La giudice delle indagini preliminari Angela Minerva non ha rilevato le aggravanti della crudeltà e della premeditazione nell’omicidio di Giulia Tramontano. Per il quale Alessandro Impagnatiello si è presentato come reo confesso. La decisione è arrivata nel provvedimento di convalida del fermo in cui il Gip ha disposto il carcere per l’indagato. 

[…] La Gip Minerva ha riconosciuto le aggravanti dei futili motivi e del vincolo sentimentale. Ma non quelle della crudeltà e della premeditazione. C’è un motivo per entrambe. L’aggravante della crudeltà non rileva perché il delitto «non sarebbe caratterizzato da particolare pervicacia, tenuto conto del tipo di arma utilizzata e del numero di colpi inferti». Per quanto riguarda la premeditazione, la procura ha considerato una prova le ricerche di Impagnatiello su Internet effettuate alle 19 di sabato, poco prima del delitto.

La chiave ricercata è: «Ceramica bruciata vasca da bagno». Giulia viene uccisa al rientro a casa, ovvero tra le 19,30 e le 21. E il corpo finisce a bruciare nella vasca. Ma l’avvocato di Impagnatiello Sebastiano Sartori ha fatto notare che le ricerche avvengono a ridosso dell’ora dell’omicidio: «La giurisprudenza identifica i tratti distintivi della premeditazione nell’apprezzabile intervallo temporale tra l’insorgenza del proposito delittuoso e la sua attuazione. Tale da consentire una ponderata riflessione sulla decisione presa e sull’opportunità del recesso». Il tempo passato la giudice non l’ha considerato sufficiente.

Estratto dell’articolo di Massimo Pisa per repubblica.it il 3 giugno 2023.

Fra i moltissimi elementi di prova raccolti dai carabinieri che lavorano al caso dell'omicidio di Giulia Tramontano, ci sono anche le immagini delle telecamere di sorveglianza nei pressi dell'abitazione di via Novella che nella notte del delitto e il mattino seguente hanno ripreso gli spostamenti di Impagnatiello. 

[…] Scrive la pm Alessia Menegazzo nel fermo: "Appare alle ore 3.22 e si può notare dalle riprese che l’uomo custodisce, sotto l’ascella sinistra, un involucro verosimilmente di lenzuolo bianco o plastica delle dimensioni di 50 cm circa. A piedi, quindi il giovane si dirige verso la sua autovettura parcheggiata, vi entra per pochi secondi, per poi riuscirne, chiudere con dispositivo elettronico e rincasare sempre custodendo l’involucro".

Sono le ore subito dopo l'omicidio, quando Impagnatiello cerca di disfarsi del cadavere e delle prove. Ha già fatto ricerche su Google […] e ha già provato a crearsi un alibi mandando messaggi finti dal suo cellulare e da quello della vittima. 

Scrive ancora la pm: "Alle ore 7.01 si nota Impagnatiello uscire dal complesso residenziale ma non dal passaggio pedonale quanto, piuttosto, dal cancello carraio, con uno zaino in pelle marrone in spalla. Si dirige verso la sua autovettura e dopo aver aperto il cofano automatico lascia lo zaino al suo interno.

Richiuso il bagagliaio, quindi, […] rientra […] per poi riuscire alle […] 7.08 tenendo con la mano sinistra due involucri, verosimilmente di plastica, rispettivamente di tonalità chiara trasparente il più piccolo e trasparente giallo chiaro il secondo più grande, all’interno del quale si può notare un agglomerato di materiale compatibile con un mucchio di vestiti". 

Alessandro Impagnatiello, assassino a colpi di giustificazioni morali. Cristina Brasi su Panorama il 03 Giugno 2023.

L'analisi della nostra profiler del barman capace di uccidere la fidanzata Giulia Tramontano ed il loro figlio che aveva in grembo

L’elemento che potrebbe aver fatto scaturire l’azione omicida di Alessandro Impagnatiello potrebbe essere ravvisabile nel vissuto di perdita di controllo nella gestione della situazione sentimentale. Nello specifico gli imprevisti potrebbero essere stati ritenuti dal soggetto inaccettabili, e evitati per mezzo di specifici comportamenti finalizzati a scongiurare l’inatteso. La percezione che il proprio destino fosse fuori controllo, a seguito dello svelamento della relazione parallela e dell’interscambio tra le due donne, potrebbero averlo condotto all’azione delittuosa. Potrebbe essere così intervenuta una scissione che avrebbe consentito a Impagnatiello, nel momento dell’omicidio, di tener conto della sola Tramontano, non prendendo, con grande probabilità, in considerazione l’esistenza del feto. Affinché ciò potesse aver luogo sarebbe intervenuto un preciso meccanismo di disimpegno morale, il confronto vantaggioso autoassolutorio. Sfruttando il principio del contrasto, i giudizi morali relativi ai propri agiti, sarebbero stati influenzati strutturando abilmente ciò con cui si confrontava. In questo modo sarebbe stato possibile far passere azioni riprovevoli per giuste. Sfruttare il principio di contrasto avrebbe consentito di far sembrare un male minore l’uccisione della compagna incinta, rispetto al problema rappresentato dall’impossibilità di poter continuare la relazione con l’amante. L’omicidio della donna che portava in grembo il proprio figlio non solo sarebbe stato quindi visto come un male minore rispetto alla fine della relazione con l’amante, ma tale impedimento lo avrebbe portato, in termini di disimpegno morale, a considerare l’atto delittuoso come moralmente giusto. L’utilizzo di giustificazioni morali e attenuanti sarebbero i meccanismi psicologici più efficaci per liberarsi dalle sanzioni morali interne. Quello che potrebbe essere moralmente condannabile diventerebbe fonte di autostima. Si può in tal modo continuare a restare in pace con la propria coscienza, pur contravvenendo ai suoi principi. Credere nella moralità di una causa non solo eliminerebbe l’autocensura, ma metterebbe l’autoapprovazione al servizio di azioni distruttive. La vittima sarebbe stata colpita al collo con poche coltellate, la mancanza di accanimento potrebbe indicare un agito controllato e una mancanza di coinvolgimento emotivo. Il distacco sarebbe emerso anche successivamente all’omicidio, quando Impagnatiello avrebbe girato con il cadavere della donna nel bagagliaio dell’automobile. Tali elementi potrebbero indicare come la vittima potesse essere percepita dall’assassino non con le caratteristiche proprie di una persona, ma come un elemento disturbante, da eliminare per poter vivere in libertà la relazione con l’amante. L’oggetto dell’azione, come precedentemente descritto, potrebbe essere stato unicamente la donna. Se così fosse in tale dinamica il feto non sarebbe stato coinvolto nel processo cognitivo, la sua presenza sarebbe stata ignorata, sia durante l’azione violenta che, successivamente, nel tentativo di occultamento del cadavere. Queste dinamiche escludenti potrebbero essere state rese possibili dall’egocentrismo patologico. La spinta egocentrica tipica dell’infanzia, ossia una visione unilaterale dell’ambiente esterno che induce il bambino a credere che tutti la pensino come lui e che siano in grado di comprendere i propri desideri e i propri pensieri, potrebbe essere rimasta per l’omicida la chiave di lettura del mondo anche nell’età adulta. L’egocentrico patologico non riterrebbe difatti possibili alternative di pensiero valide rispetto alle proprie e, questo atteggiamento, riguarderebbe ogni sfera della propria vita andando a influenzare ogni rapporto sociale e rendendo impossibili delle relazioni basate sulla reciprocità. Le presunte tendenze al dominio e al controllo potrebbero essere ricollegabili al non superamento dell’egocentrismo infantile, con l’effetto di sentirsi al centro del mondo e di considerare gli altri solo come meri satelliti utili al raggiungimento dei propri fini. L’egocentrico sarebbe inconsapevole di esserlo e questo aggraverebbe il suo potenziale distruttivo all’interno delle relazioni interpersonali; incapace di mettersi in discussione, di rivedere le proprie posizioni o le modalità comunicative con cui le esprime, in caso di incomprensione attribuirebbe all’altro ogni responsabilità, creando labirinti relazionali a vicolo cieco. L’incapacità di spostare il focus da sé stesso all’altro, lo indurrebbe a pensare che tutto gli sia dovuto e a convincersi di non avere alcun debito nei confronti di un mondo deputato a soddisfare i propri desideri. L’egocentrico patologico apparirebbe barricato su una posizione di incomprensibile pretesa. Anche se apparentemente parrebbe capace di rapportarsi superficialmente agli altri, nelle relazioni apparirebbe del tutto irresponsabile e non mostrerebbe rispetto per i sentimenti e le preoccupazioni altrui. Pur possedendo un’adeguata conoscenza delle regole morali, queste verrebbero considerate sullo stesso piano delle norme convenzionali per quanto concerne la permissività, la gravità e la contingenza della loro trasgressione. Lo scarso peso attribuito ai sentimenti altrui, al pari dello scarso senso morale, potrebbero essere attribuibili a una limitata importanza attribuita al rispetto degli scopi morali e al peso rilevante attribuito a scopi come la dominanza. La freddezza emotiva descritta in precedenza si rivelerebbe anche nella capacità di riadeguare la ricostruzione e la narrazione a seconda dell’esigenza specifica. Nel caso dovesse verificarsi un tentativo di suicidio come esplicitato, questo potrebbe avvenire non per senso di colpa, se fosse confermata l’assenza di capacità di identificazione con la vittima, ma potrebbe essere conseguente a uno stato di ordine depressivo.

I messaggi di Impagnatiello con Giulia Tramontano prima e dopo l’omicidio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 04 Giugno 2023.  

Giulia Tramontano aveva scoperto dei tradimenti e delle menzogne del fidanzato Alessandro Impagnatiello e aveva deciso di lasciarlo. “Veramente prima ancora di far nascere un bambino tu vuoi già dividerci? Vuoi farlo nascere con due genitori già separati? Ma che madre sei!“, scriveva il 30enne. Era il 25 maggio, due giorni prima dell’omicidio. “Accetta la mia decisione e chiudiamo il discorso“, le rispondeva la 29enne incinta al settimo mese, spiegando concitata ad Alessandro di non volerlo più vedere come il suo compagno, “così da non aspettarmi più nulla e trovare la mia pace”. Nel frattempo “condividiamo una casa finché sarà necessario“.

Ed a lui che le rinfacciava: “che madre sei?”, la 29enne sarcastica rispondeva: “L’importante è che tu sia un buon padre, io penso a me, tranquilla”. E lui: “Ma ti sembra normale parlare così con un bambino in pancia?”. E Giulia esasperata: “Non mi sembra normale far arrivare invece una persona a questo limite“. 

I messaggi di Impagnatiello a Giulia dopo l’omicidio

Impagnatiello dopo aver ucciso la compagna, allo scopo di depistare le indagini sulla sua scomparsa, ha continuato per giorni a scrivere messaggi. Si lamentava di avere i “giornalisti che mi stanno molestando sotto casa. Ti prego – supplicava la donna morta quattro giorni prima – è invivibile così”. E’ dalla mezzanotte di sabato, poche ore dopo averla uccisa, che Impagnatiello inizia a inviare messaggi al cellulare della vittima. La mattina successiva le scrive dal lavoro, raccomandandole di riposarsi. E di fronte al silenzio di lei, ormai morta: “Hey ma sei ancora a letto?”. E così per tutta la giornata di domenica, quando viene sporta la denuncia di scomparsa.

I messaggi proseguono anche nei giorni successivi, mentre tutti sono alla disperata ricerca della 29enne. “So che non son stato un fidanzato ideale negli ultimi mesi. Ti ho mancato di rispetto. A te che sei stata la prima ed unica ragazza ad avere accolto mio figlio“, scrive Impagnatiello, già padre di un bambino avuto da una precedente relazione. “Mi hai fatto esplodere il cuore. Non volevo spezzare il tuo io invece. Non volevo che non ti brillassero più gli occhi quando stavamo insieme. Hai il pieno delle ragioni, ma voglio chiederti solo un favore: dicci solo che stai bene”, le parole che rivolge alla donna che aveva ucciso soltanto 48ore prima.

La mattina del 31 maggio, dopo aver lasciato – sulla base della confessione fatta la notte successiva – il corpo di Giulia in un’intercapedine, Alessandro le scrive ancora, chiamandola affettuosamente “Tata“. E dopo essersi lamentato dei giornalisti sotto casa, “Siamo al quarto giorno oggi, finiscila con questa storia e batti un colpo, ti supplico“. E’ l’ultimo messaggio, poche ore dopo Impagnatiello, di fronte alle prove ormai evidenti raccolte contro di lui dagli inquirenti, confesserà l’omicidio, facendo ritrovare il corpo della 29enne incinta, con in grembo la bambina che non vedrà mai la luce.

La chat Whatsapp tra Impagnatiello e Giulia è agli atti dell’inchiesta per l’omicidio pluriaggravato, soppressione di cadavere e interruzione di gravidanza non consensuale. “Io non voglio più combattere e vivere una vita non soddisfatta al fianco della persona sbagliata. Non ho fiducia in te e non ne avrò mai. Ormai il vaso è rotto e io non voglio sistemarlo”, chiudeva il discorso Giulia. 

La sorella di Giulia: “Problemi con Alessandro già da febbraio 2021”

Giulia sapeva che il barman 30enne aveva una relazione con un’altra donna già dal mese di gennaio, come ha riferito la sorella di Giulia, Chiara, quando lo scorso lunedì è stata sentita dai Carabinieri della stazione di Senago, all’indomani della denuncia di scomparsa della 29enne. Le due sorelle, legatissime, vivevano lontane da cinque anni ma si sentivano quotidianamente e trascorrevano le vacanze insieme. Chiara, di due anni più piccola, però non approvava la relazione con Impagnatiello. “Fin dall’inizio non ho mai avuto una grande stima di Alessandro”, dice Chiara ai Carabinieri. Perplessità manifestate anche alla sorella, che dal canto suo non le nascondeva che fin dal “febbraio 2021, quando è iniziata la convivenza con Alessandro” nella casa di Senago “c’erano problematiche sentimentali con il compagno”, che “spesso assente per lavoro” lasciava Giulia a casa da sola.

La situazione si aggrava quando “nel mese di gennaio 2023 mia sorella mi riferiva che Alessandro le aveva confidato di avere un’altra relazione sentimentale con un’altra ragazza”. Giulia, che ha superato il primo trimestre di gravidanza, lascia Senago e trascorre due settimane con la famiglia nella casa di Sant’Antimo, in provincia di Napoli. Racconta ai genitori di essere incinta e confessa delle “problematiche sentimentali con Alessandro”, ricevendo da loro tutto il supporto necessario. La ragazza si congeda dalla famiglia dicendo che “non avrebbe perdonato Alessandro, ma sarebbe tornata a Senago temporaneamente in attesa di trovare un’altra soluzione abitativa oppure tornare a casa dei genitori”.

Passano i mesi e la 29enne resta a vivere con il compagno nel milanese. Ad aprile i due decidono di fare qualche giorno di vacanza a Ibiza. Chiara non approva e le due sorelle discutono. I rapporti si raffreddano, ma i primi di maggio, quando si ritrovano insieme a casa dei genitori, tra loro torna tutto come prima, con scambi di messaggi e telefonate quotidiani, fino a quando Giulia, domenica scorsa, smette di rispondere. Era già morta, uccisa la sera prima da Alessandro.

Il verbale di Chiara Tramontano

Giulia “stava pensando di abortire in quanto era incinta“. Una versione che coincide con quella fornita da Sabrina Paulis la madre di Impagnatiello che a verbale dichiara: “C’erano stati, in precedenza, altri sospetti: a metà maggio, infatti, durante una visita in casa per dare un’occhiata al corredino del nascituro mi faceva capire che aveva qualche sospetto su un’eventuale altra relazione sentimentale di Alessandro con un’altra donna. Non sapendo nulla di tutto questo cercavo di rassicurarla“.

E sui social la sorella della donna uccisa scrive: “Sono la sorella di Giulia e la zietta di Thiago, Sarò sempre con voi”: ha messo questo come status su Instagram Chiara Tramontano. Nelle storie Chiara ha anche postato una foto in cui è insieme ai genitori, alla sorella e al fratello con la scritta “quanta vita c’era prima. Volevamo solo viverla insieme“.

Poi, con una lettera immaginaria scritta alla mamma Giulia da Thiago, il bambino che la donna uccisa aspettava, Chiara Tramontano è tornata in una storia su Instagram a parlare dell’omicidio e delle accuse nei confronti del barman, che includono la interruzione non consentita di gravidanza. “Io non ero una gravidanza mammina, ero una persona. Avevo braccia, gambe, testa e cuore”. “Lui mi ha ammazzato. Ci ha ammazzati entrambi!”. “Quello un mostro è, senza cuore. Ci ha ammazzati, mammina Giulia, senza pietà”. “Adesso staremo sempre insieme”.

“Però mi dispiace – prosegue la lettera immaginaria di Thiago – , mamma Giulia. Non vedrò mai il mare che tanto ti piaceva, non conoscerò i nonni e nemmeno gli zii che mi aspettavano con amore. Non andrò a scuola, non mi innamorerò mai“. “Non nascerò mai, mammina Giulia. Ma forse – aggiunge – in fondo è meglio così. Se fossi nato senza mamma e con un mostro per papà, che vita sarebbe stata la mia? Almeno adesso sto qui, in questo spazio infinito con te, mammina mia“. 

La mamma dell’assassino disperata: “Mio figlio è un mostro”

“Non oso immaginare i familiari di Giulia. Non lo voglio immaginare… La mamma, Loredana, è una persona fantastica. Alessandro è un mostro, lo so. Io le chiedo perdono, da madre, ma non so cosa fare. Io le chiedo perdono per aver fatto un figlio così, io chiedo perdono a tutta la famiglia” dice ai microfoni de “La Vita in Diretta”, la madre di Alessandro Impagnatiello. “Ale non era così credetemi. Non lo so cos’è successo. Io non ci credo ancora, non ci credo. Ho sempre creduto ad Alessandro, perché lui era molto credibile. Io gli dicevo ‘Ale, tu mi devi dire qualcosa?’, eravamo io e lui da soli, ‘Mi devi dire qualcosa, Ale?’. Lui mi diceva ‘No, non ti devo dire niente… Mamma tu fidati di me’ ha detto, ‘dovete fidarvi di me, voi dovete fidarvi’. Come faccio a non credere? Anche perché Ale era cosi’, ecco perché mi fidavo. Come fai, uno che ti dice così e poi sai che è tuo figlio. È un mostro e lo ripeterò sempre, lui è un mostro… È sempre stato una persona educata, lui poi nascondeva ma noi non lo sapevamo, se lui aveva una doppia personalità noi non lo sapevamo”

La madre di Impagnatiello parla anche del momento in cui ha cominciato ad avere sospetti sul figlio, rivelando che è stato “quando la scientifica non lo rilasciava, che rilevavano delle cose nella macchina. Ho detto ‘c’è qualcosa di strano’. E dicevo all’altro mio figlio ‘qua c’è qualcosa di strano‘ però speravo sempre che non era così. Giulia non esce fuori. Come mai Giulia non esce fuori?‘ E continuavo a dire ‘speriamo che non sia come penso’. Allora l’altro mio figlio mi tranquillizzava e diceva ‘ma no, mamma, ma perché, Ale lo vedi è molto sincero, non lo vedi? Non ci credo’ diceva, ‘non ci credo che Ale… no’“. 

Alla domanda sul perché il figlio abbia ucciso Giulia e suo nipote, la donna risponde: “È impazzito, è impazzito. Non lo so, lui ha due personalità, per me ha due personalità. Non so che motivazione dare, è un’altra persona, non ci crediamo, non ci crediamo perché per me ha doppia personalità. Alessandro in un modo e Alessandro in un altro. E Alessandro che conosciamo noi è una persona bella, il mostro che era è quella persona che era dentro. E l’ha tirata fuori l’altra sera. Non l’ho più rivisto e forse non lo voglio più vedere. Come faccio a vederlo? Non lo so se andrò mai, gli porto la roba, quello sì, ma a oggi io non andro’ a trovarlo, oggi come oggi non andrò a trovarlo“.

“Nessun perdono è possibile”

“No, come fai a perdonare? Alessandro poi era, quello sì, ma è imperdonabile. Perché l’hai fatto? Non dovevi farlo, non dovevi farlo Alessandro. Hai rovinato la vita di tutti”. L’intervista si chiude con un appello. “Alessandro, ti prego, dì tutta la verità, ormai non puoi scappare da nulla. Hai rovinato tutti quanti, tutti, devi dire tutta la verità, perché lo meritiamo tutti. Giulia compresa, con Thiago, soprattutto Thiago. Tuo figlio, che non vedrai mai più, non ci sarà mai più, e non vedrai mai più Giulia perché quello che fai fatto, hai fatto schifo. Sei un mostro. Purtroppo sei un mostro. È la verità, è tua mamma che te lo sta dicendo. Sei un mostro“.

Redazione CdG 1947

Giulia e Thiago ugualmente vittime. Redazione su L'Identità il 7 Giugno 2023

di ELISABETTA ALDROVANDI

Tantissima attenzione mediatica e sdegno collettivo ha suscitato l’omicidio di Giulia Tramontano e di Thiago, il bimbo che portava in grembo. E, anche se per la legge la persona uccisa è una sola, per il senso comune, intriso di lacrime e rabbia per queste morti così ingiuste, le vittime sono due. La mamma, e il suo bambino, già formato nel suo ventre e che se fosse nato sarebbe certamente sopravvissuto. In questo senso la nostra legge andrebbe cambiata: attualmente, non viene considerato omicidio l’interruzione di una vita che nel momento in cui è spezzata non è autonoma, come quella di un feto. Ma non serve essere laureati in medicina per capire che un conto è interrompere una gravidanza ai primi mesi, un conto è farlo quando il bambino è così forte e completo di tutti i suoi organi che, se nascesse prematuro, avrebbe ottime possibilità di sopravvivere.

E su questo tema, la politica deve essere sensibilizzata e interpellata, affinché rifletta sull’opportunità di considerare casi come quello di Giulia e di Thiago non un omicidio singolo, ma duplice. Anche perché chi, presumibilmente, ha commesso questo crimine così efferato non solo sapeva dello stato di gravidanza della donna, ma era direttamente coinvolto nella procreazione, come padre del bambino. E la lucida efferatezza con cui avrebbe deliberatamente posto fine alla vita della compagna sapendo che così avrebbe impedito a suo figlio di venire al mondo, non può essere ristretta, in punto di sterile diritto, a una interruzione di gravidanza. È molto, molto di più. È impedire a una vita in procinto di nascere di farlo, a quella vita che esiste anche grazie al proprio seme.

E non sono particolari che possono passare in secondo piano, neppure nelle austere aule di un tribunale, dove i sentimenti e il dolore dei familiari delle vittime difficilmente avranno il giusto spazio. Perché bisogna stare attenti a non trasformare una persona che ha sbagliato in un mostro, in quanto anche questa persona ha diritto di riabilitarsi, e un giorno, qualsiasi sarà la sua condanna, di ritornare in società, come se scontare la pena processuale equivalesse a togliersi di dosso le macchie del sangue della compagna e del proprio figlio.

E se da avvocato condivido le esigenze del diritto e concordo con la funzione riabilitativa della pena prevista dal terzo comma dell’art. 27 della nostra Costituzione, e comprendo che non ci si può lasciare trasportare dai sentimenti e dall’inquinamento emotivo, tuttavia non posso fare a meno di pensare che personalità come quella di Alessandro Impagnatiello sono tra noi, si confondono tra gli amici, i colleghi, i vicini di casa, spesso mascherate da vite di successo, suscettibili di ammirazione e invidia, come era la sua. “Instabile emotivamente e manipolatore, con assoluta incapacità di sopportare le frustrazioni”: così ha scritto il GIP che ha convalidato l’arresto e disposto la custodia cautelare in carcere per il trentenne reo confesso. Elementi caratteriali gravi, ma quanto frequenti? In particolare, colpisce l’incapacità di Impagnatiello di sopportare le frustrazioni. Caratteristica tipica, a volte, delle nuove generazioni, imbottite di “sì”, soddisfatte nei loro desideri ancora prima di capire di averli, abituate al tutto e subito, nei cui confronti, spesso, la parola “no” è inesistente, perché i genitori, cresciuti in famiglie autoritarie, non vogliono reiterare modelli educativi ritenuti, in buona parte a ragione, sbagliati.

Tuttavia, l’educazione al rispetto non può prescindere dalla capacità di forgiare caratteri in crescita anche attraverso prove da superare, come l’accettazione di un rifiuto. Educare significa insegnare valori positivi e lasciare ai figli desideri insoddisfatti, sogni irrealizzati, perché capiscano che la vita non è fatta di oggetti da possedere e buttare quando non servono più. Ma di relazioni, sentimenti, persone da amare. E, soprattutto, rispettare.

Caro Porro, Giulia e Thiago uccisi: omicidio meno grave senza travaglio? Il caso di Giulia Tramontano ammazzata insieme al piccolo Thiago: oggi si è tenuto il funerale. La Posta su Nicolaporro.it l'11 Giugno 2023

Caro Nicola,

ti scrivo questa mail per manifestare la mia perplessità, anzi, posso dire di essere rimasta scioccata davanti alla notizia appresa ieri al telegiornale, in cui si parlava dei progressi nel caso della povera Giulia Tramontano, la ragazza uccisa a coltellate insieme al suo bambino in grembo. Ciò che mi ha scioccata è stato sentire che la situazione per il compagno assassino si potrebbe aggravare se venisse provato “che lei era entrata in travaglio“, perché in tal caso si tratterebbe di duplice omicidio.

Ma di che cosa stiamo parlando? Cioè qual è il potere soprannaturale del travaglio per far sì che solo grazie a una contrazione uterina si possa parlare di duplice omicidio e in caso contrario no? Una semplice contrazione può avere il potere di “trasformare” quell’essere nel grembo materno in un bambino vero altrimenti sarebbe rimasto un bambino finto o un ammasso informe?

Riflettevo oggi che esiste già nel nostro ordinamento una legge che punisce chi danneggia una gestante, ovvero la legge sul fumo. Nella legge Sirchia (legge 3/2003) all’articolo 51 si trova scritto che in caso di trasgressione del divieto di fumo “la misura della sanzione è raddoppiata qualora la violazione sia commessa in presenza di una donna in evidente stato di gravidanza o in presenza di lattanti o bambini fino a dodici anni”. Non c’è scritto “in stato di gravidanza e che abbia iniziato il travaglio”, ma c’è scritto “in evidente stato di gravidanza”, quindi non c’è neanche scritto al nono, ottavo, settimo mese di gravidanza. No. Basta che la gravidanza sia evidente. Il che significa che potrebbe essere anche al quarto o al terzo mese volendo, basta che sia evidente. E questo perché? Perché basta che ci sia una donna in gravidanza per capire che lì, dentro di lei, c’è anche un bambino. Non a caso l’articolo della legge pone l’aggravante della presenza di donna in gravidanza accanto alla presenza di lattanti o bambini entro una certa età, quindi per sottolineare che si sta danneggiando non tanto la donna in sé, quanto il bambino nel suo grembo attraverso di lei.

E da qui torno alla notizia che ho sentito e al potere magico del travaglio. Questo vorrebbe dire che chi partorisce tramite cesareo per un’emergenza o perché non le è partito il travaglio deve farsi il segno della croce perché rischia che le tirino fuori un’ameba invece di un bambino? Smettiamola con queste ipocrisie sociali e giuridiche! Quando ero Incinta della mia prima bambina mi ricordo che all’ecografia morfologica, che si fa attorno al quinto mese, io vidi ben distinto un bebè col pollice in bocca e l’altro braccio dietro alla testa.

Quella di fatto è stata la posizione che poi ha sempre tenuto anche dopo la nascita quando dormiva. Cos’era dunque l’immagine che vedevo nell’ecografia? Io ho due carissime amiche che per motivi diversi hanno dovuto subire dei cesarei d’urgenza a 24 settimane di gestazione l’una e a 25 settimane l’altra, ovvero circa 5 mesi e mezzo. Sono nate due bambine minuscole, grandi come una mano, che hanno vissuto i loro primi lunghi mesi in un’incubatrice in ospedale, mesi delicati, mesi di cura, mesi di forti emozioni…

Adesso sono due belle bambine, una di 3 e una di 6 anni, due bambine con due gambe funzionanti, braccia e mani funzionanti, occhi, orecchie, cuore, polmoni, tutto perfettamente funzionante. Parlano, ridono, giocano. Sono due bambine splendide. E allora io mi chiedo ancora, anzi, grido ancora: ma oggi, in Italia, nel 2023, dobbiamo provare che sia partito un travaglio per dire che è stato massacrato un bambino dentro la sua mamma? Silvia P.

Thiago ucciso insieme a Giulia, parla don Salvatore: "È stato duplice omicidio". Le parole di don Salvatore, il parroco di Sant'Antimo che ha battezzato Giulia: "La legge non lo riconosce ma diciamolo senza mezzi termini, questo è duplice omicidio". Federico Garau il 3 Giugno 2023 su Il Giornale.

È stato duplice omicidio. Ne è convinto don Salvatore Coviello, il parroco di Sant'Antimo, sacerdote della parrocchia Santa Lucia frequentata da Giulia Tramontano. Don Salvatore esprime quello che è il pensiero di molti. Uccidendo Giulia, la sua compagna, Alessandro Impagnatiello ha infatti tolto la vita anche a Thiago, un bambino che sarebbe nato entro pochi mesi.

Nessuna festa

Grande il dolore nella comunità di Sant'Antimo, piccolo comune della città metropolitana di Napoli. Avrebbe dovuto essere un periodo di festa: festa per la vittoria del Napoli, e festa patronale. Nessuno, però, ha più voglia di festeggiare. Non dopo una tragedia di tali proporzioni.

Il Club Napoli della cittadina ha già fatto sapere che non si terrà alcuna celebrazione. "Niente caroselli né sfilate per rispetto di questo angelo volato in cielo. Abbiamo già festeggiato, ora pensiamo solo al dolore dei familiari di Giulia, la notizia della sua morte ha squarciato il cuore della nostra comunità", fanno sapere i dirigenti, come riportato da Ansa.

La festa patronale potrebbe subire lo stesso destino. Nelle prossime ore si saprà, forse, qualcosa di più. A darne notizia è proprio don Salvatore Coviello, che non esclude la possibilità di una cancellazione dell'evento religioso.

"Era un fantasma". A Sant'Antimo quelle voci sul fidanzato di Giulia

"È stato duplice omicidio"

Provato dall'immane tragedia, don Salvatore ricorda Giulia. È stato lui a battezzarla, appena nata, e negli anni l'ha vista crescere. La giovane è stata a lungo vicina alla parrocchia, prima di intraprendere la sua strada, fino a trasferirsi a Milano.

"Possiamo dire di essere umani? Non lo so. La violenza non dovrebbe essere degli uomini", commenta il parroco. "E poi, in questo caso ancor di più. La legge non lo riconosce ma diciamolo senza mezzi termini, questo è un duplice omicidio. Quello di Giulia e di un bambino, Thiago, di una vita che esisteva e che è stata stroncata insieme con la madre".

Giulia tornerà a casa

Intanto è stata data conferma che la salma di Giulia farà ritorno a Sant'Antimo per le esequie. Al funerale parteciperà anche Magda Beretta, sindaco di Senago. Tutti si riuniranno per dare l'ultimo alla giovane 29enne, uccisa assieme al suo bambino. Bisognerà ancora attendere un po'. Prima, come disposto dall'autorità giudiziaria, dovrà essere svolta l'autopsia. Solo a quel punto il corpo di Giulia sarà consegnato alla famiglia. Stando alle ultime informazioni, l'esame dovrebbe essere eseguito martedì prossimo. A quel punto si sapranno, si spera, anche data e ora del funerale.

"Prepareremo le esequie ed anche una manifestazione con un momento di solidarietà e di preghiera", spiega don Salvatore, "ma attendiamo che ritorni la famiglia di Giulia, che si trova ora in Lombardia. In questo momento il sentimento comune è lo smarrimento. Domani nelle messe domenicali ci sarà occasione per riflettere su quanto accaduto. Ora si prega, si prega per Giulia e la sua famiglia".

Giulia Tramontano, parla Lucia Annibali: “Non è mai colpa delle donne ma stop alla spettacolarizzazione dei femminicidi”. “Non condivido un approccio che trasforma la cronaca nera in rosa. Io parlerei agli uomini, più che alle donne. La società ci costringe a stare attente sempre, anche mentre rientriamo la sera, e non dovrebbe essere così”. Francesca Sabella su Il Riformista il 3 Giugno 2023 

Di violenza, di brutalità, di politica e di carcere. Ma anche di educazione di una società che pare essersi abituata alla morte. Ne parliamo con Lucia Annibali, donna di legge e donna che ha conosciuto la violenza per mano di un ex fidanzato.

Dottoressa, il femminicidio di Giulia Tramontano ci ha fatto piombare tutti nel dolore. Doloroso è anche il sentire comune: lo sapevamo tutte. È l’hashtag che sui social accompagna la foto di Giulia. Lo sapevamo tutte. Un’affermazione che ci porta dritti alla tragica consapevolezza che avevamo ancor prima che il giallo venisse risolto. Vuol dire che stiamo in qualche modo “normalizzando” la morte di una donna per mano del compagno?

«Più che normalizzare quanto accaduto, forse è normale pensare che sia stato il compagno, visto che il più delle volte è così. Quando ci sono casi di questo tipo, cioè quando c’è una donna aggredita o uccisa, ci si aspetta che ci sia il coinvolgimento della persona che le stava accanto».

Ci siamo “abituati” a leggere di donne morte per mano di chi diceva di amarle?

«No. Voglio pensare e sperare di no. Ogni volta che leggo queste notizie, provo un senso profondo di dolore e tristezza, soprattutto in questa storia che racconta di una ragazza uccisa e che aspettava un bimbo. Non bisogna mai abituarsi a questo, anzi, dobbiamo impegnarci di più e fare meglio per questo tema che non racconta di episodi sporadici».

Gli organi d’informazione, come pure la politica, trattano i femminicidi come un’emergenza. I numeri ci dicono, invece, che è una ferita strutturale della nostra società. Basti pensare che, in Italia, solo nel 2022 le donne sono state vittime del 91% degli omicidi commessi da familiari o (ex) partner.

«Sì, è così. La violenza sulle donne è un fenomeno strutturale, non è assolutamente emergenziale. Affonda le sue radici in una disparità di trattamento, di potere economico e culturale. È dalla storia dei tempi che le donne subiscono violenza, un tempo si pensava che certe dinamiche, come il patriarcato, facessero parte della cultura. Noi dobbiamo sradicare proprio questa cultura che rende, non dico normale, ma accettabile il fatto che possano esserci disparità, abusi e soprusi verso le donne. Ma pensiamo anche alle dinamiche interne alle famiglie. Se pensiamo a una donna alla quale non è data contezza del patrimonio o alla quale viene sottratto il proprio reddito per essere gestito dal compagno, anche questa è violenza. Sono tutte forme di controllo e di potere che si esercitano sulle donne. La violenza si nutre proprio di questi stereotipi presenti nella società. È su questi che bisogna lavorare per promuovere una parità reale tra uomini e donne. Ed è un lavoro molto complesso. Non basta intervenire sulle singole norme, aumentare pene o reati ma intervenire sulle dinamiche sociali».

La Pm che ha seguito il caso di Giulia Tramontano in conferenza stampa ha detto, rivolgendosi alle ragazze: “Non andate mai all’ultimo appuntamento”. E il pensiero più diffuso è: insegnate alle ragazze a salvarsi. Le chiedo, quale futuro ha una società che deve preoccuparsi di insegnare alle donne a salvarsi e non agli uomini a vivere e convivere civilmente nel rispetto dell’altro?

«Esatto. Infatti io parlerei agli uomini, più che alle donne. È un consiglio giusto, ma non sempre succede perché è andata a un appuntamento, la mia aggressione non è avvenuta durante un ultimo incontro. Inoltre, diventa l’ultimo con il senno del poi. È vero che bisogna stare attente, quando la violenza si insinua in una storia, quella è una storia pericolosa. E in quel momento non bisogna rimanere sole, non si devono più avere contatti con quella persona. Ma bisogna far capire bene che una donna muore non perché si reca all’ultimo appuntamento o perché è sprovveduta e non si è protetta abbastanza. Muore perché ha incontrato un uomo violento. Punto. Questi consigli sono giusti, ma si tende a spostare l’attenzione sempre sulla donna. Su quello che lei avrebbe dovuto fare. Ma quelle che subiscono violenza fanno già tantissime cose per proteggersi e non dipende da loro se poi succede quello che succede. La società ci costringe a stare attente sempre, anche mentre rientriamo la sera, e non dovrebbe essere così. Insegnerei alle ragazze a costruire la propria libertà, indipendenza. Ma nel momento in cui si incontra un uomo violento, tutto viene sovvertito. Non esistono più delle regole. Starei attenta a chiedere ogni volta qualcosa in più alle donne».

La storia di Giulia, come tante altre, ha mostrato che ancora resiste la spettacolarizzazione del dolore a opera di tv e stampa. La ricerca spasmodica di dettagli, il parere dei vicini di casa, urlare al fidanzato ammanettato: “Hai ucciso tu Giulia?”. Che idea ha?

«Resiste assolutamente il bisogno di raccontare in un certo modo queste storie, di andare a cercare un particolare, una parola, in un momento inopportuno. Non condivido un approccio che trasforma la cronaca nera in cronaca rosa. Ricordo una trasmissione nella quale veniva invitata sempre una signora, che intervistata più volte per la morte della sua vicina di casa, appariva sempre più pettinata, truccata e in tiro. Così si trasforma tutto in uno spettacolo».

C’è poi la tendenza a fare i processi in televisione e non nelle aule di giustizia.

«Sì. Questo è un grande tema. Il voler fare le indagini, le ricostruzioni e quindi poi i processi in tv. Naturalmente non sono d’accordo. Tutto deve svolgersi nei luoghi e nelle modalità opportune. Credo ci sia un dovere di riservatezza anche sul piano giudiziario. Aspetterei anche a dire delle cose alla stampa, a dare in pasto dettagli di una vicenda ancora da chiarire. Diciamo da sempre che un indagato, un imputato, devono avere diritto a una difesa e a tutte le garanzie previste dalla Costituzione. Quindi questo deve valere per tutti, anche per chi ha commesso il crimine più atroce. Deve essere un approccio culturale, giuridico, costituzionalmente orientato e lo stesso vale con chi poi sconta la pena in carcere. È un esercizio difficile, ma è un esercizio di democrazia. È molto facile dimenticarsi di questi princìpi. Io non amo neanche questo proliferare di articoli sulla personalità di chi commette il reato, aggiungere particolari su particolari».

In un’intervista, lei ha spiegato di non condividere la visione “carcerocentrica” e di mal sopportare la dialettica del “marcire in galera”. Nonostante ciò che le è accaduto, è rimasta garantista, non ha ceduto alla tentazione di appiattirsi su posizioni giustizialiste.

«No, non ho mai ceduto a questa tentazione. Credo nel principio del garantismo e nell’idea di un carcere che rieduchi chi ci entra. Chi ha commesso un reato deve mettersi in discussione e migliorarsi. Serve a lui e alla vittima del reato. Penso che un’esperienza di dolore come quella che ho vissuto io, e l’ho vissuta anche da donna di legge, ti metta di fronte alla scelta di voler conservare o meno l’umanità. Sorge la domanda: io ho subìto questo, che cosa ne faccio? E allora diventano anche scelte di vita. Tutto il tema del carcere, deve essere un’occasione per interrogarci sulla propria umanità e su quella della società».

E veniamo alla politica. Contro la violenza sulle donne si è fatto poco?

«Contro la violenza sulle donne, credo si siano fatti tanti passi in avanti. Ripetiamo sempre che la nostra legislazione è una legislazione avanzata e abbastanza completa. Quello che manca è una corretta applicazione delle norme che ci sono. A volte dipende da una non piena capacità di leggere le storie di violenza come il racconto di un possibile reato. E questo perché intervengono gli stereotipi di cui si è parlato prima. Chiaramente, ciascuna parte politica affronta il tema in base alla propria sensibilità e quindi c’è chi ritiene che si debbano aumentare le pene, i reati. Io non credo che questa sia la strada. Manca la capacità di affrontare questo tema a 360 gradi. E cioè sia attraverso interventi normativi sia investendo risorse, perché senza risorse nessuna azione politica produce effetto. Poi, bisogna capire che bisogna intervenire profondamente sulla società, sulla sua organizzazione, sulla sua struttura economica. Quindi, occuparsi di violenza vuol dire occuparsi del mondo in cui viviamo. Manca una visione più ampia che vada oltre la lettura riduttiva della violenza, senza vedere che c’è molto altro».

Chi subisce violenza, infatti, vive un prima e un dopo. Spesso il “dopo” è altrettanto drammatico. Le donne non denunciano per paura di rimanere sole, senza casa, senza denaro per vivere. Mancano delle misure di sostegno per il “dopo”?

«Paradossalmente è spesso la donna a dover lasciare la propria casa ed è spesso la donna a doversi ricostruire una vita, reinventarsi anche una professione. Com’è successo a me. È per questo che bisogna guardare a tutti i pezzi della violenza. C’è un prima, ma poi c’è tutto un dopo, una ricostruzione che va supportata. Proprio per questo Italia Viva aveva proposto il reddito di libertà. Nasceva da questa intuizione e da pratiche che già esistevano. L’idea era di intervenire e aiutare le donne vittime di violenza anche sul piano della violenza economica, perché questo è un grande tema un po’ inesplorato».

Cosa si sente di dire alle donne che stanno leggendo questa intervista?

«Voglio dire alle ragazze di avere sempre cura di sé, di coltivare sempre i loro desideri, di proteggere la loro libertà e di realizzarsi. E poi di non sentirsi mai sbagliate quando incontrano un uomo violento, la colpa non è mai delle donne. Alle ragazze dico: non dimenticate mai il vostro valore».

Francesca Sabella 

Giornalista napoletana, classe 1992. Affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Lettera di Enzo Ghinazzi (in arte Pupo) a Dagospia il 3 giugno 2023.

Anche io, come Alessandro Impagnatiello, sono un po'  stressato dalla gestione di due rapporti sentimentali che durano da trentacinque anni, ma voglio tranquillizzare tutti e soprattutto le mie due donne, mia moglie Anna e la mia compagna Patricia, non ho intenzione di uccidere nessuno. 

Questa vicenda non è solo la tragedia che coinvolge due povere famiglie, ma è il dramma di una generazione di ragazzi che non sanno più sopportare niente. È il risultato del vuoto e dell' ipocrisia della società in cui viviamo. Un contesto folle ed assurdo in cui il vero e il falso si sono mischiati al punto da non poterli più distinguere.

C'è chi sbraita e urla che bisogna urgentemente trovare una soluzione, affinché fatti del genere non accadano più. Ma in che mondo vivono questi? È come dire che non ci devono essere più le guerre e che le persone devono smettere di odiarsi e di ammazzarsi fra di loro! Che cazzo vuole dire? 

Non è così che si educano e si formano le nuove generazioni! Lo sappiamo benissimo che la vita è una sfida, una lotta cruenta, una guerra quotidiana e che nessuno ti regala mai niente ed è questo che dovremmo comunicare ai ragazzi.  A questi "poveracci" sempre più smarriti e disperati che, di fronte al primo problema, al primo ostacolo, si arrendono e perdono la testa.

La violenza sulle donne non è una questione geografica. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 03 Giugno 2023.

È facile che nei talk show sfugga una frase infelice. È capitato a Italo Bocchino ospite di «Otto e mezzo». Si parlava dell’omicidio di Senago, della violenza sulle donne, di problemi culturali. Bocchino se ne esce con questa affermazione: «Qualche tempo fa c’era più rispetto per le donne in una società matriarcale come quella del Sud Italia che io conosco bene». 

Il napoletano Bocchino dovrebbe conoscere bene la celebre storia della Baronessa di Carini, prima vittima illustre del delitto d’onore. Dovrebbe conoscere bene la storia di Franca Viola, che nel 1965 fu rapita all’età di 17 anni da un mafioso locale e poi violentata, malmenata e lasciata a digiuno, ma che non accettò la «paciata», il fatto compiuto e le nozze riparatorie. 

Matriarcato o retorica del matriarcato? Dovrebbe sapere che solo nel 1981 sono stati aboliti il delitto d’onore e il matrimonio riparatore, due lasciti legali del Codice Rocco di epoca fascista. Forse il vero rispetto nei confronti delle donne è iniziato con la cancellazione di quelle assurde norme. 

Quanto a violenza, il delitto di Senago ci ricorda che ora non c’è differenza tra Nord e Sud; la differenza, se mai, è tra civiltà e barbarie. Da sempre, e in tutte le culture, la sopraffazione accompagna il mito delle virilità: che è l’ultimo rifugio di chi trasforma la propria miseria in brutalità.

Estratto dell’articolo di Gianluigi Nuzzi per “La Stampa” il 4 giugno 2023.

«Eh gran pezzo di merda che non sei altro. Quella è casa mia e tu non devi farci entrare nessuno, hai capito? Quanto fai schifo alla razza umana. Hai fallito nella vita, due figli con due madri diverse. Che tu possa affogare nella merda che ti crei da solo. Sto tornando a casa, fatti trovare». 

Alle 18.26 di sabato 27 maggio, Giulia Tramontano sbatte in faccia e imputa ad Alessandro Impagnatiello la dissoluzione della favola della coppia che si ama, costruisce casa e famiglia. Il mulino bianco della famiglia perfetta è crollato al suolo di schianto. Giulia verrà uccisa di lì a poco a colpi del coltello utilizzato per tagliare i pomodori per cena, ma ancora non lo sa. 

Giulia avverte il labirinto di menzogne, incapace di prevedere il peggio, accarezza il grembo a protezione del figlio, avuto da un uomo che in parallelo provava a flirtare e figliare con altre. La coscienza di Alessandro […] evapora di fronte alla realtà più agghiacciante del proprio fallimento: due figli concepiti a breve distanza uno dall'altro con due ragazze diverse.

C'è Giulia, quella ufficiale, che appunto prima d'essere sgozzata gli sbatteva in faccia via Whatsapp il disastro; c'è l'altra, che chiameremo A, guardinga, aveva già abortito consapevole che quella fecondazione era figlia non dell'amore ma della manipolazione. 

La storia di Senago uccide il sorriso di chiunque e rimane tutta qui. Un camaleonte sociale, un agire a filo tra malvagità e patologia, che sconvolge perché nel peggio che ogni giorno la vita ci insegna questo incubo evoca pochi precedenti.

[…] Alessandro Impagnatiello viola ogni codice secolare e positivo, ogni remora umana che ci è rimasta, per far sbiancare ogni nostra peggiore fantasia. Invero, è capace di incidere nel nostro cuore l'abominio, scrollandoci dall'odioso tepore di aver visto e vissuto il peggio. 

Basti ricordare che per tre giorni, incurante e indifferente, scorrazza tra cronisti parenti, amici e vicini, forando la loro bolla di paura e oltraggiando la decenza con il cadavere di Giulia e del figlio al settimo mese nel baule dell'auto, parcheggiata lì a spina di pesce tra l'utilitaria di mamma e quella del maresciallo di Senago.

[…] Alessandro […] poteva salvare Giulia, poteva salvare anche solo il piccolo ma l'assenza della anche minima umanità è spaventosa, distrugge ogni afflato di vita. E quindi sorprende che il gip di Milano non abbia ravvisato la crudeltà in questo agire. […] Se non c'è crudeltà in questo assassinio, in quale dovrebbe trovarsi? Il giudice avrà certo le sue ragioni, dettate dal codice, dalla giurisprudenza che indica il numero di coltellate inferte per infliggere questa aggravante ma qui si contestano appunto le leggi.

Il legislatore dovrebbe intervenire perché il concetto di crudeltà non rimanga solo un'opinabile valutazione senza tempo di mero diritto, ma esprima un'attualità di emergenza giudiziaria. Così come uccidere un bimbo in grembo di sette mesi in certi Paesi degli Stati Uniti è considerato a tutti gli effetti un omicidio a sé. E quindi, in questo caso saremmo di fronte a un duplice omicidio, quello di Giulia e quello del nascituro.  […] Se al settimo mese puoi anche nascere, chi ti toglie la vita è un assassino.

Adesso, ci sarà da capire se qualcuno ha aiutato Impagnatiello nella sua corsa omicida, magari senza ammazzare ma soccorrendo nel cancellare le tracce o nell'occultare il cadavere. Pare impossibile che nel bel mezzo della ricerca di Giulia lui si sia impunemente mosso spostando il corpo dopo aver più volte cercato di ridurlo in cenere. Davvero possiamo pensare che il cadavere sia sceso dalle scale, abbia raggiunto il garage e quindi il baule dell'auto senza che nessuno abbia incrociato l'assassino in questi suoi arditi spostamenti? O forse, qualcuno ha cercato fino all'ultimo di proteggere l'uomo dei cocktail nei bar di lusso, tra zafferano e zenzero, dall'essere scoperto, facendo deflagrare la fine orrenda della povera Giulia?

Estratto dell’articolo di C.Giu. per il “Corriere della Sera” il 4 giugno 2023.

Milano Quando aveva scoperto a gennaio i tradimenti di Ale, Giulia aveva deciso di abortire. Non voleva che quel barman con la doppia anima fosse il padre del suo bambino. Ma «era al 96esimo giorno di gravidanza», oltre i termini legali che le consentivano l’interruzione. E così Giulia Tramontano aveva scelto di continuare, sperando che con l’arrivo del piccolo Thiago accadesse il miracolo. 

Che Alessandro Impagnatiello cambiasse, che le sue lusinghe, le sue moine, i suoi «ti amo» fossero davvero sinceri. Era tornata da lui, anche contro il parere della sorella Chiara, 26 anni, la stessa che nei quattro giorni di scomparsa […] non ha mai smesso di cercarla disperatamente: «Da quella discussione i rapporti tra noi sorelle si erano leggermente raffreddati», racconta la giovane davanti ai carabinieri che indagano sulla sparizione della sorella.

«Io fin dall’inizio non ho mai avuto una grande stima di Alessandro, cosa questa fatta notare anche a Giulia — spiega —. I rapporti tra me e mia sorella rimanevano sempre quotidiani con messaggi o chiamate, ma il 5 aprile io e Giulia abbiamo avuto una discussione perché lei mi diceva che sarebbe andata qualche giorno a Ibiza, insieme ad Alessandro. E io non ero d’accordo».

È durante quel viaggio alle Baleari che due fidanzati scattano il selfie incorniciato e appeso nel loro appartamento di via Novella a Senago. La stessa foto di cui parla Impagnatiello nel messaggio-messinscena che manda al cellulare (spento) di Giulia, dopo averla uccisa: «Prima in casa continuavo a guardare la nostra foto di Ibiza che abbiamo fatto il quadro. So che non sono stato un fidanzato ideale negli ultimi mesi».

La sorella, che vive a Genova, rivela ai carabinieri che i problemi nella coppia andavano avanti da mesi: «Da quando Giulia ha iniziato la convivenza, nel febbraio 2021, mi ha sempre confidato che c’erano delle problematiche sentimentali con il compagno perché spesso era assente per lavoro e lei rimaneva a casa da sola». Giulia sospetta qualcosa. Ma non ne è certa. Il tracollo però inizia due anni dopo: «Giulia non mi rappresentava niente fino a quando, nel mese di gennaio, mi diceva che Alessandro le aveva confidato di avere un’altra relazione sentimentale e che, per via di questa situazione, stava pensando di abortire in quanto era incinta di Alessandro».

Chiara si offre di «aiutare nel suo intento» la sorella, ma i termini per l’interruzione sono superati. In realtà, ma questo lo scoprirà solo a ridosso dell’omicidio, anche l’amante 23enne è incinta. Nello stesso identico momento. Lei però riuscirà «di comune accordo con Ale» a interrompere la gravidanza nei termini. […]

Estratto dell’articolo di Anna Giorgi e Nicola Palma per “il Giorno” il 4 giugno 2023.

Potrebbe rispondere di duplice omicidio Alessandro Impagnatiello, il 30enne barman all’Armani Bamboo che ha ucciso la fidanzata Giulia Tramontano incinta di sette mesi. Perché in questa storia non ’esisteva’ solo Giulia, c’era anche Thiago, il maschietto che sarebbe nato al massimo tra qualche settimana e li avrebbe resi mamma e papà.

Di quel bambino, Alessandro non parla mai, se non in qualche chat per convincere la compagna a non lasciarlo; non ne fa cenno nell’interrogatorio che precederà il fermo e nemmeno in quello di convalida. Eppure ha ucciso anche lui, accoltellando Giulia alla gola e al petto. Ora gli investigatori attendono l’esito dell’autopsia per avere il quadro chiaro di quanti giorni esatti avesse il feto e, sulla base della relazione medico-legale che certifica il momento preciso della morte, capire intanto da quando avrebbe potuto essere ’partorito’ naturalmente e quindi diventare a tutti gli effetti ’persona’.

Stando comunque a una parte della più recente giurisprudenza, Thiago, al settimo mese, sarebbe già stato soggetto giuridico: qualora dai giudici venisse accolta e condivisa questa interpretazione, il reato andrebbe riqualificato in duplice omicidio mamma-figlio a carico del barman, anche se basterebbe il solo omicidio di Giulia con l’aggravante del procurato aborto per condannarlo all’ergastolo. 

Il lavoro degli inquirenti si concentra anche su alcuni elementi che aiuteranno a definire i contorni della tragedia che ha colpito Giulia Tramontano e la sua famiglia. Impagnatiello era sotto «osservazione» dal primo giorno in cui lei è scomparsa: che quadro ricostruiscono le intercettazioni ambientali? Detto altrimenti: il killer ha fatto tutto da solo? Qualcuno lo ha aiutato dopo il delitto?

L’obiettivo di magistrati e carabinieri è capire quale ruolo abbiano avuto tutte le persone a lui più vicine, per escludere che ci siano state complicità o inconsapevoli «coperture»: è vero che l’assassino avrebbe accuratamente lavato l’abitazione e la vasca da bagno dove ha portato inizialmente il corpo della compagna morta, ma è altrettanto vero che in quell’appartamento c’era un forte odore di benzina (percepito dai militari nel corso del primo sopralluogo) e che alcuni vicini hanno segnalato di aver visto uscire molta cenere dalla casa.  […[

«Iniziamo, dai»: così Impagnatiello confessa l'omicidio di Giulia. Poi si specchia e si sistema il cappellino. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2023.

Alessandro Impagnatiello ha confessato di aver ucciso Giulia Tramontano nella notte tra mercoledì e giovedì: per i magistrati il suo è il profilo di «un narcisista manipolatore». Ora, nel carcere di San Vittore, è nel reparto dei detenuti a rischio: potrebbe essere aggredito

Sono le 7.30 di mattina di giovedì scorso. I magistrati hanno appena firmato il fermo per omicidio aggravato, procurato aborto e occultamento di cadavere. I carabinieri stanno uscendo dalla caserma di Senago per scortare in carcere Alessandro Impagnatiello. 

Ha confessato, riempiendo sette pagine di verbale, d’aver ucciso Giulia Tramontano, la sua compagna, e di aver tentato di bruciare il corpo. Non dorme da 24 ore. 

Prima di salire in macchina si ferma davanti a una vetrata. Si specchia nel riflesso e sistema minuziosamente il cappellino da baseball beige di sbieco. Sulle ventitré. 

Per i magistrati quello del barman 30enne è il profilo di un «narcisista manipolatore». Un bugiardo seriale, che crea mondi e vite parallele. Abile a giocare sui sensi di colpa di partner e interlocutori. Come quando nelle chat scambiate con Giulia, mentre lei è furibonda dopo l’ennesimo litigio, lui le dice di avere la spalla bloccata e di dover andare dalla guardia medica. O ancora, quando lei scrive di volerlo davvero lasciare e lui replica «Ma che madre sei!!!». 

Ai carabinieri si presenta come «responsabile del bar dell’hotel Armani». Sul web un video lo mostra, impeccabile, con movimenti perfetti ed essenziali, mentre serve cocktail dietro al bancone. La voce è calma, pulita. Agli amici racconta di conoscere vip e calciatori. Ai magistrati dirà d’avere ucciso per lo stress che quella situazione gli aveva creato, anche sul lavoro. Perché, dopo aver saputo dei suoi tradimenti, lo chiamavano «lurido». 

Durante la confessione è impassibile. Prima di iniziare la verbalizzazione, il pm chiede se desideri parlare con il suo avvocato. «Sono pronto». Vuole un bicchiere d’acqua? «Incominciamo, dai». 

Parte spedito, parla senza pause, non piange. Prende tempo solo quando le domande degli inquirenti chiedono dettagli sugli orari e interrompono il suo monologo. È seduto, le braccia conserte. Quando arriva alle parti più crude distende la schiena, impettito. 

Alle dieci di sera di mercoledì Impagnatiello si era presentato in via Novella alla guida del suo T-roc bianco. Era rimasto bloccato in macchina per diversi minuti. Fuori un muro di flash e telecamere. Lui sembrava parlare con qualcuno al vivavoce. Non ha mai cercato di nascondersi. Anche se tutta Italia già sapeva che era indagato per la morte di Giulia e del suo piccolo. Addosso una tuta grigia. In testa il cappellino, portato sempre leggermente di sbieco, e sopra il cappuccio di un pesante giubbotto beige con il pelo. Era uscito di casa vestito così fin dalla mattina, nonostante gli oltre 26 gradi. «Ma che, è vestito come Matteo Messina Denaro?», sobbalza un cameramen. La situazione non permette risate. Però lo pensano in tanti. 

All’uscita dalla casa, ai flash s’era poi aggiunta una piccola folla di abitanti e ragazzi. Erano partiti calci contro la fiancata e urla: «Assassino!»; «Pezzo di m...». È stato in questo momento, mentre guidava per i 500 metri che lo separavano dalla caserma, che è avvenuto il crollo. Reality finito, fine dello spettacolo. Varcata la porta aveva ammesso d’aver ucciso Giulia. 

«Mio figlio è un mostro», ha detto nei giorni scorsi la mamma di Alessandro in lacrime. «Sì, signora. Suo figlio è un mostro», le ha replicato ieri Mara Venier durante la trasmissione «Domenica In». Poi le scuse. 

Al suo avvocato, Impagnatiello ha detto che il solo pentimento per quello che ha fatto è «il suicidio». È a San Vittore, al quinto raggio, nel reparto «protetti» per chi è a rischio suicidio. Ma anche perché potrebbe essere aggredito dagli altri detenuti.

«Giulia mi abbracciò. Dopo averla uccisa lui disse: ora dorme»: le parole dell'ex amante di Impagnatiello. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2023.

Nei verbali l'incontro tra Giulia Tramontano, incinta al settimo mese del piccolo Thiago, e la ragazza 23enne, collega di Alessandro, che da un anno aveva iniziato a frequentarlo 

Si stringono in un abbraccio. Spontaneo, imprevisto. Chi passa in via Manzoni, all’aperitivo del sabato pomeriggio potrebbe scambiarle per vecchie amiche, compagne di liceo che si sono perse e ritrovate. Non è così, ma nessuno lo sa ancora. 

L'incontro

Se questa storia fosse un film, la scena iniziale non potrebbe che essere questa. Purtroppo non lo è, e quello che succede dopo — per quanto abominevole e barbaro — è tremendamente reale. Perché mentre le due donne tradite si incontrano davanti all’Armani Bamboo bar, Alessandro Impagnatiello sta già pensando a come uccidere. Ucciderle entrambe, secondo gli investigatori. Da una parte c’è Giulia Tramontano, incinta al settimo mese del piccolo Thiago. 

Dall’altra la ragazza 23enne, collega di Alessandro, che da un anno ha iniziato a frequentarlo. In quel momento l’incontro con Giulia è una liberazione che perché rompe il velo di bugie, di inganni. Così appena si vedono, dopo essersi solo parlate al telefono, scoppiano in un emozionato abbraccio: «Il nostro incontro è stato veramente cordiale tant’è che appena ci siamo viste ci siamo abbracciate per solidarietà femminile», racconta la 23enne davanti ai carabinieri della squadra Omicidi del Nucleo investigativo di Milano.

La videochiamata

Il suo è il secondo interrogatorio nel giro di 48 ore. Ed è proprio dopo le sue parole che i pm Alessia Menegazzo e Letizia Mannella decidono di «stringere» sul findanzato. La ragazza racconta di avergli chiesto con insistenza, la sera del giorno della scomparsa, dove fosse Giulia. Lui è evasivo. Lo videochiama e pretende che le mostri la casa. La telefonata dura nove minuti: «Era agitato e sudato». 

«Ho chiesto subito dove fosse Giulia e lui, che era sul balcone, mi disse che stava dormendo — mette a verbale —. Ho chiesto di confermarmi questa cosa e lui mi disse che era da un’amica. A seguito delle mie insistenze, è entrato e mi ha fatto fare vedere il letto dove non c’era, poi anche il divano, su mia richiesta. Era palesemente agitato tanto da apparire sudato». Sono le 23.29, Impagnatiello ha appena portato il corpo di Giulia in garage e ripulito le scale. 

I sospetti

Mezz’ora dopo il 30enne esce di casa proprio per andare dalla ragazza. Lei ha paura, non lo fa entrare. Da quando ha iniziato a scoprire la sua doppia vita ha cominciato a dubitare di lui. «Avevo iniziato da un po’ a registrare le conversazioni», rivela. Nei primi tempi frequenta «da amante» la casa di Senago: vede le foto di Giulia, l’accappatoio. Poi quando lui le dice che la relazione è finita, «non c’erano le foto, non c’erano i trucchi e tutte quelle cose che mi facevano capire prima che c’era lei». Le aveva detto che Giulia s’era trasferita prima a Milano e poi a Napoli. 

I guanti azzurri

Alla fine però le due donne si incontrano: «Giulia mi ha detto che Alessandro non avrebbe mai visto il figlio e che a lei interessava solo il bimbo e la sua salute — racconta la 23enne —. Non sapeva ancora se si sarebbe recata a Napoli dai suoi genitori, ma sicuramente non voleva più vedere Alessandro. Sarebbe comunque tornata a Senago, dopo il nostro incontro, per lasciarlo. Io le ho anche proposto che se ne avesse avuto bisogno poteva venire da me a casa a dormire. Disse di non preoccuparmi, ringraziandomi». 

Il giorno dopo il delitto, la 23enne è al lavoro, e vede Impagnatiello uscire dall’Armani Qualcosa sbuca dalla tasca dello zaino. Lei scatta una foto che invierà poi ai carabinieri: «Ho notato una cosa strana: alle ore 16.52 è uscito da lavoro con lo zaino dal quale spuntavano dei guanti in lattice azzurri che ha preso da lavoro». Sono i guanti che Impagnatiello dirà di aver indossato mentre cercava di bruciare il cadavere di Giulia e del piccolo Thiago. 

(ANSA il 4 giugno 2023) - Al termine del loro incontro "le ho anche proposto che se ne avesse avuto bisogno poteva venire da me a casa a dormire. Lei disse di non preoccuparmi, ringraziandomi". Si solo lasciate così Giulia Tramontana, uccisa al settimo mese di gravidanza, dal suo fidanzato Alessandro Impagnatiello, e la ragazza con cui l'uomo aveva una relazione parallela. Sabato della scorsa settimana, poche ore prima dell'omicidio, le due donne, dopo aver scoperto di essere entrambe "vittime" delle bugie dell'uomo, si sono incontrate. Giulia ha declinato l'invito per tornare a casa e lasciare Impagnatiello, ma all'ora di cena lui l'ha accoltellata.

Estratto dell'articolo di Cesare Giuzzi per milano.corriere.it il 5 giugno 2023. 

Le 00.19 della notte tra sabato 28 maggio e domenica 29. La telecamera di sorveglianza di una casa di via Novella a Senago riprende Alessandro Impagnatiello mentre esce dal corsello dei garage e si allontana. 

Ha già ucciso la compagna Giulia Tramontano e sta uscendo, secondo la ricostruzione dei carabinieri del Nucleo investigativo di Milano, per andare a casa dell'amante 23enne che in quel momento è al lavoro. La telecamera riprende alle 3.14 di notte l'auto di Impagnatiello che rientra a casa.  

[...]

In quel momento, stando alla ricostruzione della procura, il corpo della compagna è chiuso proprio lì dentro. Il 30enne però non sale nell'appartamento al primo piano ma «riappare alle successive ore 03.22» e ha sotto braccio un involucro: «Verosimilmente un lenzuolo bianco o plastica delle dimensioni di 50 centimetri circa». Scrivono gli inquirenti: «Il giovane si dirige verso la sua autovettura parcheggiata, vi entra per pochi secondi per poi riuscirne, chiudere con dispositivo elettronico e rincasare sempre custodendo l'involucro».

[...] Le riprese saranno decisive per mettere in luce le incongruenze della sua denuncia di scomparsa, nella quale non parla di involucri lasciati in auto né di passaggi dal garage, e riscontrare la sua confessione, che però arriva solo giovedì notte. 

Quel giorno le telecamere riprendono ancora Impagnatiello uscire di casa alle ore 07.01, di domenica. Passa dall'ingresso carraio, ha uno zaino di pelle in spalla. Apre il cofano dell'auto e posa lo zaino. Poi ritorna al cancello carraio, e ne esce sette minuti dopo, alle 7.08, «tenendo con la mano sinistra due involucri, verosimilmente di plastica, all'interno dei quali si può notare un agglomerato di materiale compatibile con un mucchio di vestiti».

Omicidio Giulia Tramontano, Impagnatiello al giudice: «L'ho uccisa senza motivo, non provavo ira o voglia di vendetta». Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 6 giugno 2023.

Senago, il barman reo confesso dell'omicidio della compagna incinta: «Ho lavato il coltello e l’ho riposto». Le ricerche web su come eliminare bruciature nella vasca: «Volevo solo togliere una macchia». Ma ci sarebbero altri indizi 

Ha ucciso Giulia senza un motivo, senza una ragione. Ammesso che ce ne possa mai essere una per togliere la vita a un essere umano. E per farlo, per di più, alla donna che sta per dare alla luce il proprio un bambino. «Nel momento in cui ho deciso di uccidere la mia compagna non c’era né ira né rabbia né desiderio di vendetta», dice Alessandro Impagnatiello al giudice. Lo scarno verbale del suo interrogatorio è freddo, gelido. Come le sue parole mentre racconta come ha ucciso Giulia e il piccolo Thiago che sarebbe nato tra 2 mesi.

​A San Vittore

Carcere di San Vittore, le 10 di venerdì scorso. Fuori splende un sole estivo, nella stanza riservata agli interrogatori Impagnatiello siede davanti al gip Angela Minerva per l’interrogatorio di garanzia. A fianco c’è il suo legale Sebastiano Sartori (ieri l’avvocato ha rinunciato al mandato per «motivi connessi al rapporto fiduciario con l’assistito»). Impagnatiello è accusato di omicidio volontario aggravato, procurato aborto e occultamento di cadavere. Reati che possono valere l’ergastolo. I magistrati e i carabinieri hanno lavorato senza sosta per quattro giorni. Hanno escluso il depistaggio di un allontanamento volontario e stretto sempre più il cerchio sul barman dell’Armani. Fino alla notte tra mercoledì e giovedì quando gli indizi raccolti fanno crollare il castello di bugie, fino alla confessione. Impagnatiello ha fatto trovare il corpo di Giulia, ha dato particolari che solo il killer poteva conoscere. Ma le indagini continuano perché ci sono punti ancora da chiarire. Qualcuno può averlo aiutato a ripulire l’auto o la casa? Ipotesi al momento non riscontrata dalle indagini.

​Il movente dell’omicidio

Perché ha ucciso Giulia, chiede il gip nell’interrogatorio? La risposta di Impagnatiello è allo stesso tempo ovvia e raggelante: «L’ho deciso senza motivazioni. Ci sto pensando costantemente. La situazione era per me, mi passi il termine, stressante. Questa è l’unica cosa che posso dire, ma non c’era un reale motivo». Uno che uccide perché è «stressato» deve attribuire alla vita altrui un valore davvero bassissimo. Nel primo interrogatorio con i pm Alessia Menegazzo e Letizia Mannella, e i carabinieri del Nucleo investigativo, guidati da Antonio Coppola e Fabio Rufino, Impagnatiello aveva detto di aver iniziato a discutere con Giulia al suo ritorno dall’incontro con l’amante 23enne. Mentre lei stava tagliando i pomodori per la cena, così aveva detto il 30enne, aveva minacciato di compiere atti di autolesionismo facendosi dei tagli a un braccio e al collo con il coltello. Lui poi l’avrebbe colpita «per non farla soffrire». Una versione di comodo, alla quale non aveva creduto nessuno. Per questo davanti al gip «aggiusta» le sue parole. «Giulia non si è pugnalata, ho preso io il coltello e ho proseguito», confessa anche se, comunque, ripete che «Giulia si è tagliata inavvertitamente sul braccio destro mentre tagliava delle verdure».

​Oggi i rilievi

Quel coltello non è stato ancora individuato, ma si troverebbe ancora in casa. «Successivamente il coltello l’ho lavato e rimesso su un ceppo posto sopra il forno della cucina» dopo averlo «lavato con acqua e sapone», dice Impagnatiello al giudice. Quale ha usato per uccidere Giulia? «Il coltello che ho utilizzato è quello più piccolo con manico nero, lama in acciaio di circa 6 centimetri». Oggi ci saranno i rilievi scientifici dei carabinieri del Nucleo investigativo nell’appartamento di Senago. E l’attenzione si concentrerà sul coltello e anche sul luogo esatto — in cucina o in soggiorno — dove Giulia è stata colpita per la prima volta. Stava davvero tagliando i pomodori? È stata aggredita a freddo alle spalle? La dinamica dell’omicidio e lo spostamento del corpo martoriato era già stato raccontato durante la confessione ai magistrati nella caserma di Senago.

​L’abbandono del corpo

Ora davanti al giudice Minerva il 30enne aggiunge particolari: «Ho spostato il cadavere dalla sala alla vasca da bagno, poi scendendo le scale verso il box, poi alla cantina, e nuovamente al box. Ho trascinato il corpo lungo le scale. Cantina e box si trovano sullo stesso piano, non ci sono ostacoli che li separano», racconta. Ai pm aveva detto di aver abbandonato i resti di Giulia intorno alle tre di notte di mercoledì. Da un primo esame del medico legale sembra però che il cadavere sia rimasto in quel luogo almeno 48 ore. Quindi il trasporto potrebbe essere avvenuto già martedì notte. Perché — chiede il giudice — ha lasciato il corpo proprio lì? «Si tratta di una via vicina a casa nostra che percorrevamo abitualmente. Li c’è una sequenza di box esterni singoli, uno attaccato all’altro. Dopo una serie di box c’è un’ interruzione, in quello spazio vuoto ci sono delle erbe alte. In questo spazio, tra gli arbusti, ho lasciato il cadavere». Impagnatiello dice di avere scelto quel luogo per la vicinanza a via Novella. «I box non sono di pertinenza della nostra abitazione. Si trovano a circa 800 metri».

​L’ora del delitto e i nuovi indizi

Parlando al giudice il 30enne «sposta» in avanti il momento dell’omicidio: «L’ho uccisa intorno alle 21». Inizialmente aveva detto «prima delle 20.30». Il magistrato chiede conto delle ricerche effettuate su Internet: «Già verso le 19 ho fatto una ricerca sul web relativa a una vasca da bagno, ma l’ho fatta per cercare dei rimedi per rimuovere una macchia che si trovava sulla vasca». L’interrogatorio si chiude alle 10.26. Il gip non riconoscerà l’aggravante della crudeltà e della premeditazione a causa del tempo «limitato» tra le ricerche e il delitto. Ma dalle ultime indagini sarebbero emersi nuovi, importanti, indizi su questo punto.

Estratto dell’articolo di Monica Serra per “la Stampa” il 5 giugno 2023.

Prima della denuncia di scomparsa, degli appelli sui social, dei giornalisti sotto casa, delle ricerche vane, dei messaggi farlocchi dell'assassino al cellulare di Giulia Tramontano, c'è una persona che ha temuto per la vita della ragazza. E che ha avuto paura anche per la sua. Che ha fatto il possibile per capire che fine avesse fatto Giulia la stessa notte in cui Alessandro Impagnatiello l'ha ammazzata. Questa persona è C., ha 23 anni, è l'altra donna del barman. Non l'amante, l'altra fidanzata, in questa sua doppia vita che correva parallela. Almeno fino a sabato 27 maggio: il giorno della verità. Poi, della tragedia. 

«Il mio incontro con Giulia è stato veramente cordiale, appena ci siamo viste ci siamo abbracciate per solidarietà femminile. Eravamo entrambe vittime di un bugiardo». Sono trascorsi quattro giorni dalla scomparsa della ventinovenne al settimo mese di gravidanza. È la mattina di mercoledì 31 maggio e mancano quindici ore alla confessione di Impagnatiello.

[…] Giulia e C. parlano per un'ora. La maschera di Impagnatiello è caduta. Non è più il barman che piace alle donne. È il bugiardo, il «manipolatore», il «narciso» che prima di confessare sfida le telecamere, berretto e cappuccio del montone in testa nonostante il caldo di fine maggio. 

Prosegue la testimonianza di C.: «Quando Giulia è andata via, mi ha detto che Alessandro non avrebbe mai visto il figlio e che a lei interessava solo il bimbo e la sua salute. Non sapeva se sarebbe tornata a Napoli dai genitori ma sicuramente non voleva più vedere Alessandro. Sarebbe comunque tornata a Senago per parlare con lui e lasciarlo». C. le offre aiuto: «Le ho anche proposto di venire a dormire da me, a casa. Lei mi ha risposto di non preoccuparmi. Ci siamo salutate alle 18,45». Due ore più tardi, C.

cerca Giulia al telefono, le manda messaggi, ma le risposte non la convincono: «Erano strane, diverse dal tenore della nostra conversazione». 

C. si incaponisce. Vuole vedere Giulia. Alla fine tempesta di videochiamate Impagnatiello: «Alla terza ha risposto. Ho chiesto ad Alessandro dove fosse Giulia, mi ha detto che stava dormendo». Quando gli chiede di inquadrare il letto con la telecamera del cellulare, Impagnatiello dice che Giulia è da un'amica. C. non ci crede: «Era palesemente agitato tanto da apparire sudato» metterà a verbale. C. ha paura.

Non è un caso che ora, per le pm Alessia Menegazzo e Letizia Mannella, Impagnatiello debba restare in prigione anche perché, in libertà, c'è il rischio che si accanisca pure contro di lei. Il trentenne le chiede «in maniera pressante» un incontro quella notte. C. è al lavoro, non vuole rincasare da sola, chiede un passaggio a un collega: «Arrivata a casa ho notato Alessandro alla fermata del tram che mi aspettava. Poi ha iniziato a citofonare. Alla fine, è salito ma gli ho parlato attraverso le sbarre della finestra del ballatoio. Lui insisteva per entrare, ma io non ho voluto perché avevo paura». Al punto da chiedere ospitalità a un'amica nei giorni successivi. Da evitare di restare sola nel suo appartamento: «Avevo paura perché non sapevo che fine avesse fatto Giulia. E di cosa fosse capace Alessandro».

Estratto dell'articolo di C.Giu. per il “Corriere della Sera” il 5 giugno 2023.

Si stringono in un abbraccio. Spontaneo, imprevisto. Chi passa in via Manzoni, all’aperitivo del sabato pomeriggio, potrebbe scambiarle per vecchie amiche, compagne di liceo che si sono perse e ritrovate. 

Non è così, ma nessuno lo sa ancora. […] Se questa storia fosse un film, la scena iniziale non potrebbe che essere questa. Purtroppo non lo è, e quello che succede dopo — per quanto abominevole e barbaro — è tremendamente reale. 

Perché mentre le due donne tradite si incontrano davanti all’Armani Bamboo bar, Alessandro Impagnatiello sta già pensando a come uccidere.

Ucciderle entrambe, secondo gli investigatori. Da una parte c’è Giulia Tramontano, incinta al settimo mese del piccolo Thiago. Dall’altra la ragazza 23enne, collega di Alessandro, che da un anno ha iniziato a frequentarlo. In quel momento l’incontro con Giulia è una liberazione perché rompe il velo di bugie, di inganni. 

 […] Il giorno dopo il delitto, la 23enne è al lavoro, e vede Impagnatiello uscire dall’Armani. Qualcosa sbuca dalla tasca dello zaino. Lei scatta una foto che invierà poi ai carabinieri: «Ho notato una cosa strana: alle ore 16.52 è uscito dal lavoro con lo zaino dal quale spuntavano dei guanti in lattice azzurri che ha preso al lavoro». Sono i guanti che Impagnatiello dirà di aver indossato mentre cercava di bruciare il cadavere di Giulia e del piccolo Thiago.

Omicidio Tramontano: il legale di Impagnatiello rinuncia all’incarico. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 5 Giugno 2023

In attesa dell’autopsia sul corpo di Giulia Tramontano – in programma per venerdì 9 giugno – ha parlato il legale difensore del killer Alessandro Impagnatiello. L’avvocato, Sebastiano Sartori, ha annunciato di aver rinunciato all’incarico di difendere il 30enne. “Una questione tra me e il mio assistito” ha commentato, per poi aggiungere: “Ho rinunciato al mandato per motivi connessi al rapporto fiduciario e dunque coperti da segreto professionale, null’altro”.

Prima della comunicazione della decisione alla stampa, il legale stamattina si è recato in visita a San Vittore, dove ha comunicato a Impagnatiello la sua decisione di rinunciare al mandato. Proprio nei giorni scorsi Sartori aveva già lanciato un allarme riguardo la condizione psicologica del 30enne in carcere, sottolineando come avesse più volte manifestato ai pm in carico che pensasse come l’unica forma legittima di pentimento fosse il suicidio. Inoltre, l’avvocato, ha comunicato, sempre ieri, che l’arma del delitto, ovvero il coltello utilizzato per uccidere Giulia: “Impagnatiello non l’ha buttato. Ha detto specificatamente dove si trova”. L’ex legale di Alessandro Impagnatiello, ha riferito anche che il ragazzo ha confermato di aver fatto tutto da solo. Una delle cose che devono accertare gli investigatori è se sia stato aiutato a nascondere il corpo. “Lui lo esclude” ha commentato.

Intanto proseguono le indagini per poter ricostruire dettagliatamente la dinamica dell’omicidio. Gli esami dei medici legali sul corpo, venerdì prossimo, scioglieranno ogni dubbio sulle cause della morte di Giulia. L’autopsia potrà soprattutto confermare o smentire la versione raccontata da Impagnatiello, tuttavia già modificata dallo stesso tra il primo e il secondo interrogatorio. Per domani 6 giugno, invece, è prevista invece la perquisizione da parte della polizia Scientifica all’interno dell’abitazione in cui è avvenuto il delitto e del garage in cui è stato nascosto il corpo, in modo da permettere alle forze dell’ordine di effettuare dei rilievi scientifici.

Estratto da ilmessaggero.it il 6 giugno 2023.

Alessandro Impagnatiello «mi ha chiesto scopa e paletta per pulire il garage». Lo ha raccontato, intercettato questa mattina dal Tg1, il signor Francesco, l'addetto alle pulizie del condominio di Senago dove vivevano Giulia Tramontano e il compagno che l'ha uccisa lo scorso 27 maggio, prima di occultarne il cadavere, tentando due volte di bruciarlo.

E infatti il signor Francesco, sentito ieri dai carabinieri che indagano sull'omicidio, racconta di aver notato «cenere da due tre gradini sopra il pianerottolo (in cui la coppia viveva, ndr) fino al garage. Non era una scia, era del materiale sospeso, leggero, ma quando si scopava, si capiva che non era polvere». Un dettaglio che in quel momento non insospettisce l'addetto alle pulizie, ignaro della scomparsa di Giulia.

«Io martedì non sapevo ancora niente, quindi non ho pensato nulla», spiega Francesco, che solo quando Impagnatiello, nella notte tra mercoledì e giovedì della scorsa settimana confessa l'omicidio, dice di aver «collegato quello che avevo visto e sentito con quello che veniva detto in televisione». Dopo aver notato la cenere, il martedì mattina l'addetto alle pulizie incontra Impagnatiello nei garage.

«Ero nel locale pattumiera, stavo pulendo il bidone dell'immondizia e lui mi ha chiesto scopa e paletta per pulire il garage». Attrezzi che vengono consegnati a Impagnatiello, che poi «li ha rimessi a posto». In quel momento il barman 30enne reo confesso «non era agitato, era tranquillo», riferisce Francesco. […]

Veleno per topi a casa di Impagnatiello: aveva cercato su Internet come usarlo, avrebbe premeditato l'omicidio. Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 07 giugno 2023

Non è vero che ha «deciso di uccidere» Giulia sabato sera quando se l’è trovata davanti al rientro dall’incontro verità con l’amante e lei gli ha chiesto conto delle sue menzogne, come ha messo a verbale di fronte al gip. C’è il forte sospetto negli investigatori che Alessandro Impagnatiello abbia «premeditato» l’omicidio addirittura un paio di settimane prima, quando ha cercato su internet gli effetti che fa il veleno per topi sugli esseri umani. Ed in casa ieri è stata sequestrata proprio una confezione di veleno per topi. È la carta nelle mani dei magistrati per insistere sull’aggravante della premeditazione del delitto dopo che il gip l’ha esclusa nella convalida del fermo. È questo il nuovo, sconcertante elemento che emerge dalle ultime indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo coordinati dai pm Alessia Menegazzo e Letizia Mannella che stanno anche verificando se qualcuno ha ricevuto le confidenze del killer dopo l’omicidio. 

Il titolare di un bar a poche decine di metri dal luogo del ritrovamento del cadavere di Giulia Tramontano ha, infatti, riferito che martedì mattina Impagnatiello e la madre gli avevano chiesto se all’esterno del locale ci fossero delle telecamere. La donna era molto legata alla coppia. Tanto è vero che in lacrime dopo il delitto ha accusato in tv il figlio di essere «un mostro». Sabato scorso, prima della tragedia, lei e il suo compagno si erano anche offerti di accompagnare Giulia all’appuntamento-verità con l’amante a Milano, al quale avrebbe dovuto partecipare anche il figlio, che invece è «fuggito» a casa, ma la ragazza aveva accettato solo un passaggio fino alla metropolitana e, dopo il difficile incontro con la «rivale» diventata sua alleata, di tornare con loro dal capolinea fino a casa. 

Ieri è stato il lungo giorno delle indagini scientifiche nell’appartamento di via Novella a Senago. Presenti anche i magistrati, il legale della famiglia della vittima Giovanni Cacciapuoti e il nuovo difensore di Impagnatiello, Giulia Geradini. Nell’appartamento sono state trovate «numerose tracce di sangue». In particolare nella zona tra la cucina e il soggiorno, dove il barman ha raccontato nella sua confessione di aver colpito la compagna. Ma il sangue — quasi visibile ad occhio nudo — è stato scoperto addirittura nella parete opposta, ad almeno cinque metri di distanza. Sul pavimento, che il 30enne aveva pensato di aver ripulito accuratamente, il luminol ha evidenziato i segni del trascinamento del corpo. La casa è un trilocale: grande divano, stendipanni con ancora i vestiti lavati e sulla parete che porta alle camere da letto la foto dei due fidanzati che sorridono nel viaggio ad Ibiza. 

In cucina, tra i detersivi, è stata sequestrata una bottiglia di benzina quasi vuota e un grosso rotolo di pellicola da cucina, del tutto simile a quella avvolto al corpo di Giulia all’altezza del busto. Sequestrato anche il ceppo di coltelli nel quale il 30enne ha rimesso l’arma del delitto: una lama di 6 centimetri con il manico nero che ha lavato con acqua e sapone dopo l’accoltellamento. Nelle stesse ore i carabinieri e i vigili del fuoco hanno ritrovato in un tombino del parcheggio del capolinea Comasina la patente, il bancomat e la carta di credito della donna come il fidanzato aveva indicato nella sua confessione. Manca all’appello il cellulare della ragazza, che ha detto di aver gettato. Le ricerche continuano perché il contenuto del telefonino è importante per gli investigatori che stanno ricostruendo i particolari di cosa è successo anche nei giorni precedenti alla morte di Giulia. 

Le dichiarazioni di alcuni vicini di casa sembrano confermare che quella notte Impagnatiello ha trasportato da solo, intorno alle 23, il cadavere sulle scale che portano alla cantina e al box. Un testimone ha detto di aver avvertito una sequenza di rumori sordi, come di un qualcosa che stava colpendo i gradini. Sul momento non si è insospettito, ma ora gli investigatori ritengono che quei tonfi possano essere compatibili con un corpo che trascinato urta in discesa gli scalini. 

Impagnatiello aveva un complice? Gli orari, la cenere, la mamma: i punti oscuri dell'omicidio di Giulia Tramontano. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 06 giugno 2023

Quando arriva nell'appartamento di via Novella, la madre di Alessandro non nota la polvere sulle scale già osservata dai vicini di casa. C'è poi la figura del fratello del killer, che non è ancora stato interrogato 

Al momento è solo un sospetto. O forse neanche quello. Più che altro si tratta di un dubbio: Alessandro Impagnatiello può davvero aver fatto tutto da solo? Tecnicamente sì, perché un solo uomo potrebbe essere riuscito a trascinare il cadavere di Giulia Tramontano lungo le scale di casa e quindi al garage, poi alla cantina e viceversa, infine sull’auto. 

La 27enne era incinta al settimo mese, pesava più o meno 68 chili. Impagnatiello nella sua confessione dice di aver trascinato il corpo sui gradini, probabilmente tenendolo per le braccia. E i primi esami scientifici hanno confermato senza smentita questa ipotesi. 

Allo stesso modo c’erano tracce di bruciato all’interno del box e i segni del passaggio del cadavere sia nel garage sia nella cantina, sia lungo il percorso tra i due locali. Anche su questo, quindi, non ci sono dubbi.

 Martedì mattina l’addetto alle pulizie del palazzo vede l’auto di Impagnatiello nella corsia dei box, ma non dove c’è l’ingresso al suo garage. È ferma, in retro, con il baule rivolto alla porta tagliafuoco che dà accesso alle cantine, che sono sullo stesso piano dei garage. «Come si lascia l’auto quando si deve caricare qualcosa di pesante», dice ai carabinieri l’uomo. 

È possibile che in quel momento il barman stesse caricando sul suo Suv il cadavere della compagna. Anche se nella sua confessione davanti ai magistrati lui dice di averlo fatto solo il giorno dopo, mercoledì notte. Ma il medico legale nel suo primo esame retrodata l’orario dell’abbandono del corpo di «almeno 24 ore» rispetto a mercoledì.

In ogni caso l’addetto alle pulizie non parla della presenza di altre persone oltre al barman. Dice anche di aver notato macchie nere sul pavimento tra la cantina e i box, insieme a tracce di cenere. Tutto compatibile col trascinamento del corpo. 

Le telecamere di sorveglianza di un’abitazione di via Novella, le stesse che hanno ripreso il 30enne uscire dopo il delitto per andare a casa dell’amante, non avrebbero ripreso movimenti strani di amici o parenti di Impagnatiello a ridosso dell’uccisione di Giulia o nelle fasi in cui l’assassino si stava liberando del cadavere. Tuttavia gli obiettivi puntano soltanto sulla porta carraia, quella che dà accesso alla corsia dei box. È tecnicamente possibile che qualcuno possa aver raggiunto il trentenne senza passare di lì, ma semplicemente utilizzando l’accesso pedonale dove non ci sono telecamere. 

Dai tabulati e dagli altri accertamenti svolti fino ad ora dai carabinieri non sarebbero emersi elementi che facciano pensare a complici. Eppure le indagini stanno andando anche in questa direzione. Innanzitutto perché anche se è tecnicamente possibile che il killer abbia fatto tutto da solo, l’operazione fatta da un solo uomo è faticosa, lenta e laboriosa. Aumentando così il rischio di essere notato da qualche vicino di casa. 

Impagnatiello ha raccontato di avere ucciso Giulia tra le 20.30 e le 21 di sabato. Intorno alle 23.30 parla al telefono con l’amante, una video chiamata nella quale mostra l’appartamento apparentemente pulito. Intorno a mezzanotte e mezza esce di casa per andare dalla 23enne e rientra poi quando sono ormai passate le tre di notte. In sostanza avrebbe avuto a disposizione un tempo molto limitato: dalle 21 alle 23.20. 

In quel momento ha già spostato il corpo di Giulia nel garage. È possibile che abbia dato la precedenza alla pulizia delle scale e delle parti comuni, visibili da altri condomini. Non a caso durante i primi rilievi i carabinieri hanno notato come la pulizia dell’ingresso di casa sia stata eseguita con maggiore accuratezza rispetto a quella delle scale, nonostante nel frattempo fosse passata anche l’impresa di pulizie. Tuttavia il giorno dopo alcuni vicini di casa notano delle tracce di cenere sui gradini. 

È il pomeriggio di domenica e tra i parenti e gli amici di Giulia è già scattato l’allarme perché la ragazza non si trova. Intorno alle 17.30 la mamma di Impagnatiello arriva in via Novella per cercarla mentre il figlio è al lavoro. Ha un doppio mazzo di chiavi. Entra e non segnala niente di anomalo, tanto che dice al figlio di andare con lei dai carabinieri per presentare denuncia. Con lei c’è in quel momento anche il compagno. Nessuno dei due dice di aver notato quei segni di cenere lungo le scale condominiali (Impagnatiello abita al primo piano). 

È possibile che concentrati sulla scomparsa della ragazza non ci abbiano neppure fatto caso. Però gli investigatori vogliono capire se davvero non si siano accorti di nulla. Allo stesso modo si vuole chiarire se la madre abbia notato qualche altro strano elemento nei giorni successivi, quando è stata a lungo con il figlio e gli altri parenti all’interno dell’appartamento. 

Teorie suggestive che stanno prendendo piede tra vicini di casa e commentatori e che vedrebbero un suo coinvolgimento nel delitto, al momento sembrano fantascienza e pure speculazioni. Dalle indagini non è finora emerso nulla. 

Certo, è possibile che nei quattro giorni di assenza di Giulia da casa la madre abbia dato una mano al figlio per le faccende domestiche e per le pulizie di casa, ma questo non c’entra nulla con l’aver ripulito la scena del crimine. Inoltre la donna ha più volte chiesto al figlio se avesse fatto qualcosa alla compagna durante il periodo della scomparsa. 

Nella sua intervista alla Vita in Diretta nella quale ha definito il ragazzo «un mostro», rivolta al figlio ha detto più volte: «Racconta tutto quello che sai». Perché? Cosa sa Alessandro che non ha ancora confessato? Le parole sibilline della madre hanno alimentato naturali dubbi. Se avesse avuto un ruolo nel delitto perché lanciarsi in un appello simile al figlio?

C’è poi la figura del fratello di Alessandro. I due figli sono entrambi molto legati tra loro e alla madre. Lui in questi giorni non è mai stato sentito dagli investigatori. E a lui è stata affidata la macchina del 30enne che non è stata sequestrata ma restituita dopo che i carabinieri hanno effettuato esami scientifici nel bagagliaio e hanno prelevato alcune parti dove c’erano macchie di sangue. Il ragazzo abita a Desio e finora non ha mai rilasciato alcuna dichiarazione.

 Ci sono stati dei contatti tra lui e Alessandro dopo il delitto? Dai tabulati telefonici sembra di no. Però certamente i due fratelli si sono visti e parlati a lungo nelle concitate fasi della ricerca di Giulia. Come è naturale che sia. 

Quando la madre è stata sentita dei carabinieri, ha raccontato che il giorno della scomparsa, dopo che Giulia era stata contattata al telefono dalla ventitrenne che frequentava Impagnatiello, la ragazza aveva subito confidato tutto al fratello di Alessandro. La madre in quel momento si trovava a casa sua, e il fratello ha subito chiesto a Giulia se fosse il caso di riferirlo anche alla madre e la ragazza gli avrebbe risposto di farlo immediatamente senza nascondere alcun particolare. Cosa che il giovane ha subito fatto. In sostanza non avrebbe neanche lontanamente cercato di proteggere Alessandro o di minimizzare l’accaduto.

Possibile che abbia avuto un ruolo nell’aiutarlo dopo il delitto? Anche in questo caso si tratta di mere ipotesi investigative, nulla può essere scartato a priori. Gli esami scientifici che saranno eseguiti oggi nell’appartamento daranno risposte più precise.

Trovata l'arma del delitto: Impagnatiello ha ucciso con un coltello da cucina. Un testimone: «Lui e la madre si informarono sulle telecamere». Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 06 giugno 2023

Rilievi all’interno dell’appartamento della coppia: il 30enne aveva detto di aver lasciato il coltello sul ceppo in cucina insieme con gli altri, e così lo hanno trovato i carabinieri

Alessandro Impagnatiello e la madre lunedì 29 maggio, due giorni dopo l'omicidio di Giulia Tramontano, avrebbero chiesto informazioni sulla presenza di telecamere a un bar a pochi metri dal luogo in cui è stato ritrovato il cadavere della ragazza. Lo avrebbe confermato lo stesso gestore del locale sentito nelle indagini della Procura di Milano e dei carabinieri. È una delle novità che emergono a proposito dell'omicidio della 29enne.

Martedì, inoltre, i carabinieri e i vigili del fuoco hanno ritrovato la patente, la carta di credito e il bancomat di Giulia Tramontano in un tombino dietro il McDonald’s di viale Enrico Fermi, vicino alla fermata Comasina. Il compagno nella sua confessione aveva in effetti raccontato di averli gettati in un tombino vicino al parking del capolinea della metropolitana 3 Comasina, insieme con il cellulare della ragazza (ancora non ritrovato). Trovato anche un coltello taglierino di colore scuro, che al momento non pare legato al delitto.

In mattinata si sono svolti i rilievi della sezione investigazioni scientifiche dei carabinieri all’interno dell’appartamento di Alessandro Impagnatiello e Giulia Tramontano a Senago. Sul posto, insieme agli investigatori della squadra Omicidi del Nucleo investigativo di Milano, anche i magistrati Letizia Mannella e Alessia Menegazzo. 

Presenti anche gli avvocati Giovanni Cacciapuoti, che assiste la famiglia di Giulia, e la nuova legale d’ufficio del barman 30enne, Giulia Geradini, dopo che l'avvocato Sebastiano Sartori ha rinunciato al mandato.

Nell'appartamento è stato sequestrato il coltello usato per l'omicidio. È l'arma del delitto, indicata dal 30enne in un coltello da cucina, rimasto in casa. «Successivamente il coltello l’ho lavato e rimesso su un ceppo posto sopra il forno della cucina» dopo averlo «lavato con acqua e sapone», dice Impagnatiello al giudice. Quale ha usato per uccidere Giulia? «Il coltello che ho utilizzato è quello più piccolo con manico nero, lama in acciaio di circa 6 centimetri». In casa è stato trovato il ceppo con tutti i coltelli, quindi dovrebbe esserci anche l'arma del delitto.

Oltre all'abitazione, andranno effettuati rilievi scientifici anche nel garage e nella cantina in cui Impagnatiello ha raccontato di aver occultato il corpo di Giulia, prima di gettarlo in un'intercapedine dietro a dei box a qualche centinaio di metri di distanza da casa. 

Omicidio Tramontano, un mare di sangue sul pianerottolo. La casa pulita con “ordine maniacale” | I vicini hanno sentito il corpo che sbatteva sulle scale. Redazione su Il Riformista il 7 Giugno 2023

Così tanto sangue sul pianerottolo dell’abitazione di Impagnatiello che la Scientifica ha pensato a un “falso positivo” del luminol. Emergono ulteriori particolari dopo il sapralluogo degli inquirenti nella casa di Senago. Nel corso dei rilievi sono emerse tantissime tracce di sangue impossibili da percepire a occhio nudo, al punto da ipotizzare un errore tecnico. Ipotesi poi smentita da successive prove incrociate su altre aree del condominio.

La casa pulitissima a occhio nudo, ma il sangue era ovunque

Impagnatiello ha dunque pulito molto bene, tanto che gli addetti alle pulizie che hanno lavorato in quel punto nei giorni successivi, non si sono accorti di nulla e hanno – a loro insaputa – cancellato ulteriori tracce. Anche la casa è risultata “pulita” ad occhio nudo senza il luminol. L’unica macchia visibile era l’alone di bruciato nella vasca da bagno dove, secondo la ricostruzione, Impagnatiello avrebbe tentato per la prima volta di dar fuoco al corpo della compagna Giulia Tramontano.

I rumori di un corpo che sbatteva sulle scale

Anche se mancano da approfondire eventuali profili di favoreggiamento che, ad ogni modo, potrebbero essere difficilmente contestabili a familiari, essendo prevista in questi casi una causa di non punibilità. Diverso è se dovessero emergere profili di concorso nell’occultamento del corpo, altro reato contestato a Impagnatiello.

Un testimone, comunque, avrebbe sentito dei rumori come di un corpo che sbatteva sui gradini che vanno verso il box. Elemento questo che escluderebbe l’aiuto di un’altra persona a sollevare il cadavere. Ad ogni modo, al momento dai rilievi effettuati ieri nell’abitazione, compresi box e cantina, sono stati trovati riscontri alle versioni fornite nelle due confessioni.

Omicidio Tramontano, il “caso è chiuso” su Impagnatiello. Cosa è successo quella notte. La tesi degli inquirenti. Redazione su Il Riformista il 7 Giugno 2023

Quella notte Impagnatiello avrebbe agito da solo. Per la Procura di Milano non ci sono al momento riscontri o elementi che facciano pensare a un complice di Alessandro Impagnatiello che lo abbia aiutato a nascondere il corpo della fidanzata Giulia Tramontano

Nessuno lo avrebbe aiutato a ripulire la casa di Senago dopo l’omicidio. Un appartamento che ad occhio nudo non sarebbe mai potuto sembrare la scena di un crimine tanto efferato. L’abitazione del barman e della 29enne, uccisa al settimo mese di gravidanza, si è presentata “pulita” con in un ordine definito quasi “maniacale”.  Il caso dell’omicidio di Giulia Tramontano, comunque, stando a quanto riferito in Procura, “è chiuso”. Anche se mancano da approfondire eventuali profili di favoreggiamento. Diverso è se dovessero emergere profili di concorso nell’occultamento del corpo, altro reato contestato a Impagnatiello.

Cosa è successo quella notte secondo i pm

Quella sera in via Novella 14 a Senago, Giulia è rientrata a casa dopo aver incontrato nel pomeriggio l’altra ragazza italo-inglese di 23 anni con la Impagnatiello aveva una relazione. Pochi minuti prima del suo rientro Impagnatiello, solo a casa, cerca su internet – come eliminare le macchie di bruciato dalla ceramica della vasca – e – come eliminare le macchie di candeggina e di sangue – poi aspetta la compagna che entra in casa intorno alle 20.00.

Alcuni giorni prima e dopo l’omicidio, Impagnatiello, usa internet per altre ricerche connesse a quello che aveva intenzione di fare e a quello che poi avrebbe realizzato. Giulia era già stata uccisa da circa 48 ore eppure lui su Google digita: come inviare messaggi WhatsApp programmati. Un particolare sul quale si sono interrogati gli inquirenti perché l’assassino in fase di interrogatorio ha dichiarato di essersi disfatto del cellulare della Tramontano la sera stessa dell’omicidio. A quanto si è appreso da ambienti investigativi, l’uomo cercava un modo di programmare da remoto le risposte ai suoi finti messaggi di disperazione inviati a Giulia Tramontano dopo l’omicidio, nel tentativo di depistare le indagini.

Giulia rientra a casa e a questo punto, secondo la ricostruzione della Procura, scoppia una lite che culmina nell’omicidio. Tramontano avrebbe colpito più volte usando un grosso coltello da cucina. Impagniatiello ha collocato l’orario alle 21 durante l’interrogatorio di convalida del fermo mentre nella prima confessione aveva parlato di poco prima delle 20.30. Domani sono attesi i risultati dell’autopsia.

A quel punto trascina il corpo dal salotto al bagno e lo sistema nella vasca da bagno. Tenta di darle fuoco utilizzando dell’alcol ma non ci riesce. Decide quindi di spostare nuovamente il corpo della ragazza. Lo avvolge in una pellicola trasparente rinvenuta dagli investigatori all’interno dell’appartamento e compatibile con quella utilizzata per chiudere il cadavere. Impagnatiello avrebbe poi trascinato il cadavere di Giulia, incinta al settimo mese di gravidanza, giù per le scale. Un teste ha dichiarato di aver sentito dei rumori provenienti dalle scale ipoteticamente compatibili con lo sbattere di un corpo. Raggiunta la cantina decide di nasconderlo lì per un po’.

Non si conoscono ancora i dettagli sugli orari e la ricostruzione dovrà essere confermata da ulteriori indagini, ma a questo punto Impagnatiello avrebbe gettato in un tombino alcuni effetti personali della ragazza, recuperati nei sopralluoghi sulla rete fognaria. Sarebbe poi rientrato in casa e nel giro di poche ore avrebbe ripulito l’appartamento, le scale e il pianerottolo. A tarda notte il ragazzo sarebbe uscito in macchina per recarsi in viale Certosa nel tentativo di incontrare l’altra ragazza italo-inglese di 23 anni con cui intratteneva una relazione e che nel pomeriggio di sabato si era incontrata con Giulia.

È quanto si apprende a meno di 24 ore dal sopralluogo effettuato nell’abitazione di via Novella 14 dove si è consumato il delitto la sera di sabato 27 maggio, effettuato dai carabinieri della Sezione investigazioni scientifiche del Nucleo investigativo di Milano e dai pm Alessia Menegazzo e Letizia Mannella.

Omicidio Giulia Tramontano, il punto sulle indagini: coltello, impronte e telecamere. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Giugno 2023  

L' avvocato Sebastiano Sartori il legale di fiducia nominato da Impagnatiello , ha rinunciato ieri al mandato, ed è stato nominato un avvocato d’ufficio, dopo non poche difficoltà - a quanto si apprende - a reperirne uno disponibile ad assumerne la difesa.

Giulia Tramontano con un cappello da spiaggia, e lui Alessandro Impagnatiello che l’abbraccia sorridente, alle loro spalle il mare: è la fotografia, stampata in grandi dimensioni e appesa al muro dell’appartamento dove la coppia viveva. La coppia era stata in vacanza a Ibiza ad aprile, poco più di un mese prima dell’omicidio. Lo scatto è stato illuminato dai carabinieri. Una fotografia a cui lo stesso Impagnatiello faceva riferimento nei messaggi whatsapp inviati a Giulia nei giorni successivi all’omicidio, per sviare – secondo gli inquirenti – le indagini sulla scomparsa della 29enne.

“Prima in casa continuavo a guardare la nostra foto di Ibiza”, quella di cui “abbiamo fatto il quadro”, scriveva il barman all’utenza di Giulia la sera del 29 maggio, due giorni dopo averla uccisa. “So che non sono stato un fidanzato ideale negli ultimi mesi, ti ho mancato di rispetto”, proseguiva Impagnatiello, arrivando a pregare Giulia, già morta uccisa dalle sue mani: “Dicci solo che stai bene. Dicci solo che sei fuggita in qualche paese lontano per buttare giù tutto. Solo questo, ti prego“. Ed, il giorno successivo messaggiava: “L’ho messa come sfondo comunque“. 

I carabinieri della Sezione investigazioni scientifiche di Milano, hanno lavorato per l’intera giornata nell’abitazione di Senago, cercando di raccogliere dettagli e conferme a quanto accaduto nell’appartamento di via Novella a Senago dove la giovane donna, al settimo mese di gravidanza, è stata uccisa dal compagno sabato 27 maggio. Non solo quindi la caccia al coltello utilizzato per uccidere Giulia Tramontano – con il sequestro di un intero ceppo – ma anche la ricerca di impronte digitali e di scarpe, macchie di sangue – copiose a detta del luminol – e l’esito dell’autopsia sul corpo della povera ragazza uccisa da Alessandro Impagnatiello.

Nell’appartamento della coppia è stato sequestrato il coltello usato per l’omicidio. “L’arma è stata repertata. Sapremo tutto quanto all’esito”, ha riferito l’avvocato Giovanni Cacciapuoti, legale della famiglia di Giulia Tramontano, lasciando il sopralluogo degli inquirenti nella abitazione di via Novella a Senago.

Non è vero che ha “deciso di uccidere Giulia sabato sera“ quando se l’è trovata davanti al rientro dall’incontro verità con l’amante presso l’ Armani Bamboo Bar dove lavorava Impagnatiello, e lei gli ha chiesto conto delle sue menzogne, come ha messo a verbale di fronte al gip. C’è il forte sospetto negli investigatori che Alessandro Impagnatiello abbia “premeditato” l’omicidio addirittura un paio di settimane prima, come hanno rivelato gli accertamenti informatici effettuati sul suo computer, quando ha cercato su internet gli effetti che fa il veleno per topi sugli esseri umani. Ed in casa sua ieri è stata sequestrata proprio una confezione di veleno per topi. È una risultanza nelle mani dei magistrati per insistere sull’aggravante della premeditazione del delitto dopo che il Gip Angela Laura Minerva, che ancora non aveva questo elemento quando ha convalidato il fermo, l’aveva esclusa nella convalida del fermo. È questo il nuovo, sconcertante elemento che emerge dalle ultime indagini dei carabinieri del Nucleo investigativo. 

Quella di ieri è stata una giornata di sequestri e rilievi, terminati attorno alle 22. Dopo aver esaminato per oltre 7 ore l’abitazione, i carabinieri hanno effettuato in serata accertamenti nel garage e nella cantina al piano interrato, dove il barman omicida ha confessato di aver nascosto il corpo di Giulia, prima di gettarlo in un’intercapedine dietro a dei box a qualche centinaio di metri di distanza, in via Monte Rosa. Gli accertamenti hanno dato esito positivo: sono state repertate diverse tracce ematiche, il ceppo di coltelli indicato da Alessandro Impagnatiello e una pellicola trasparente, compatibile con quella utilizzata, tra l’altro, per avvolgere il cadavere.

Oggi inizieranno le analisi alla ricerca di impronte che possano dare conferme alla versione del reo confesso oppure raccontare un’altra storia di quanto accaduto nell’abitazione, poi lungo le scale fino alla cantina e poi al garage. E sarà anche il corpo di Giulia, la cui autopsia verrà effettuata venerdì, a raccontare agli specialisti di medicina legale se la giovane si è difesa, quante volte è stata colpita e quando è stata uccisa e abbandonata in via Monte Rosa, a circa 500 metri dalla casa in cui viveva. 

Intanto è stato scoperto che Impagnatiello e la madre Sabrina Paulis sarebbero andati in un bar, come confermato agli investigatori il gestore del locale ubicato a qualche decina di metri dal luogo dove è stato trovato il corpo senza vita della vittima per chiedere informazioni sulla presenza di telecamere all’esterno del locale. Domande poste il lunedì, 48 ore dopo la morte di Giulia Tramontano quando della ragazza non si avevano ancora notizie, ma il suo cadavere era nascosto nella cantina dell’abitazione di Senago.

L’elemento investigativo è uno dei tanti che deve essere valutato per verificare la presenza di complici in una fase successiva al delitto, cioè quando iAlessandro Impagnatiello ha occultato il corpo della fidanzata e poi ha cercato di ripulire l’intero appartamento di Senago. La richiesta al gestore del bar, che era all’oscuro dell’omicidio, può essere letta proprio come un tentativo di cercare di far sparire delle immagini che potessero immortalare Giulia e magari un suo allontanamento volontario, una volta scoperto il tradimento. Dalla procura spiegano che “non c’è nessun nuovo indagato” . 

La verità, agli occhi del reo confesso Alessandro, è ben diversa: sabato 27 maggio Giulia era già morta , quindi dopo il tentativo di bruciare il corpo e forse alcuni suoi oggetti come il passaporto (mai trovato), e l’omicida l’ha trascinata per le scale del palazzo nascondendola in cantina, per poi trasferire il suo corpo nel garage, prima di abbandonarla in via Monte Rosa. La patente, il bancomat e la carta di credito di Giulia Tramontano sono stati ritrovati in un tombino di viale Enrico Fermi nel parcheggio del capolinea della linea gialla Comasina a Milano. . Era stato  Alessandro Impagnatiello, nella sua confessione, a rivelare di averli gettati in un tombino nei pressi del capolinea della metropolitana 3 Comasina .

Secondo gli inquirenti, l’aggiunto Letizia Mannella e il pm Alessia Menegazzo, l’intento del barman – descritto come un narcisista e un manipolatore – “era prima di simulare una sparizione della giovane, quindi di fingere un suicidio, laddove il suo corpo fosse stato trovato“. Ma qualcosa continua a non tornare nella versione fornita dal barman 30enne sull’omicidio della sua compagna incinta Giulia Tramontano. L’uomo ha confessato di aver ucciso Giulia, di avere tentato di bruciarne due volte il corpo, che ha nascosto prima in garage e poi in auto e infine, nella notte tra martedì e mercoledì scorso, gettato in un’intercapedine in un’area dismessa. 

Eppure, quando il cadavere giaceva nella sua auto – stando alla sua ricostruzione – i Carabinieri che indagavano sulla scomparsa della 29enne non ne avevano trovato traccia nel bagagliaio della T-Roc, ben visibile dall’esterno, poiché sprovvisto di copertura.

Il copri bagaglio è stato ora sequestrato e proseguono le indagini,  anche per capire se effettivamente Impagnatiello – come lui dichiara – abbia agito da solo, dal momento dell’omicidio fino a quello in cui ha gettato il cadavere della compagna. 

L’avvocato Sebastiano Sartori il legale di fiducia nominato da Impagnatiello , ha rinunciato ieri al mandato dichiarando: “Ho rinunciato al mandato per motivi connessi al rapporto fiduciario e dunque coperti da segreto professionale, null’altro” aqgiungendo “È stata una questione tra me e il mio assistito”, dopo aver incontrato lunedi il barista nel carcere di San Vittore. Era già stato al suo fianco sabato per l’interrogatorio davanti al gip, e nella notte del 31 maggio quando il barista ha confessato il delitto e fatto trovare il corpo. Ieri l’ormai ex legale ha aggiunto: “È sempre più angosciato”.

E’ stato nominato un avvocato d’ufficio, Giulia Geradini, 36 anni, che per ora non rilascia commenti sul caso che ha preso in mano da poche ore, dopo che ci sono state non poche difficoltà a reperire un legale disponibile ad assumerne la difesa. Nel frattempo nella giornata appena conclusa gli inquirenti hanno riascoltato tutti i familiari della vittima e anche l’addetto alle pulizie che aveva trovato cenere nella casa di Senago, mentre si continua a cercare il telefono di Giulia, gettato – da quanto racconta Impagnatiello – in un tombino. 

“Anche Impagnatiello ha diritto a un avvocato. Anche chi sia accusato dei peggiori crimini, anche quando il fatto ci sconvolge la coscienza e ci turba l’animo nel più profondo come esseri umani non dobbiamo mai dimenticare che a differenza del criminale uno Stato agisce nel rispetto della legge ed è questo che rende legale l’accertamento di un fatto e la responsabilità di chi ha agito illegalmente e ci assicura la democrazia e lo stato di diritto”.

A dirlo Vincenzo Comi, consigliere dell’Ordine degli avvocati di Roma e già presidente della Camera penale di Roma. “L’avvocato – prosegue Comi – non è un complice, non abbraccia la causa, ma garantisce a tutti – e dico tutti – il diritto costituzionale alla difesa affinché il processo sia celebrato nel rispetto delle regole e del diritto. Così una sentenza sarà legale e giusta“.

L’impressione degli investigatori è che più si andrà avanti nelle indagini e più si scopriranno le bugie e verità di comodo frutto della personalità “narcisistica e manipolatrice “del 30enne Alessandro Impagnatiello attualmente è detenuto nel quinto braccio del carcere di San Vittore a Milano, monitorato costantemente in un reparto ad alta sorveglianza, . “L’unica forma di pentimento possibile sarebbe il suicidio”, aveva confidato all’ex avvocato alla presenza degli inquirenti. Redazione CdG 1947

L'agguato di Impagnatiello per uccidere Giulia Tramontano. Bugie e misteri sull'omicidio (nonostante la confessione). Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023

L'inchiesta sull'omicidio di Giulia Tramontano: è stato un agguato. Dal carrello al veleno, tutte le menzogne di Impagnatiello 

Bugie, menzogne continue, prima e dopo l’omicidio. Anche quando confessa, anche quando ammette di aver ucciso Giulia e il bambino che sarebbe nato tra due mesi. Anche quando è ormai spalle al muro e per lui si aprono le porte del carcere con la prospettiva molto realistica di rimanerci a vita, Alessandro Impagnatiello non rinuncia a mentire spudoratamente. Nella sua confessione aveva detto di aver colpito Giulia Tramontano dopo che lei si era ferita con il coltello volontariamente, poi davanti al gip aveva corretto il tiro spiegando che si era tagliata per errore e solo dopo lui l’aveva colpita al collo. Ora i rilievi dei carabinieri e le prime analisi sulle traiettorie delle macchie di sangue trovate sulle pareti, portano a pensare che il suo sia stato praticamente un agguato. Avrebbe aggredito la compagna alle spalle, a freddo, in sala. Con una coltellata alla gola che le ha impedito di urlare.

Gli esami con il luminol hanno trovato sangue in vari punti della casa. Ce n’erano su un carrellino portapacchi che potrebbe aver utilizzato per spostare il cadavere. Carrello che ha comprato dopo l’omicidio omettendo però di parlarne nei suoi interrogatori. Si tratta solo di ipotesi che dovranno trovare conferma dalle indagini, ma per i pm Letizia Mannella e Alessia Menegazzo il comportamento del barman è l’ennesima conferma che è «in grado di mentire ripetutamente e di cambiare più volte versione dei fatti», scrivono negli atti. Un lunga serie di fandonie iniziata con la denuncia di scomparsa presentata quando già aveva ucciso Giulia. Gli inquirenti non credono neanche alla spiegazione che ha dato per giustificare le due bustine di topicida trovate nel suo zaino di pelle dai carabinieri.

Impagnatiello ha detto che gli servivano per i topi che aveva visto vicino al posto di lavoro, ma la ricerca «veleno topi uomo» che ha fatto sul web nei giorni precedenti al delitto fa sospettare che il veleno dovesse servire per la compagna e il suo bambino. Gli inquirenti hanno dubitato di lui fin dall’inizio. Il barman, infatti, nella confessione aveva omesso di dire anche di essere andato martedì mattina, accompagnato dalla madre, in un bar e in un tabacchi, vicini al luogo in cui ha abbandonato il corpo di Giulia. Quel giorno si era informato sulla presenza di telecamere per controllare se avevano ripreso la compagna scomparsa. Il sospetto, invece, è che volesse verificare di non aver lasciato tracce dopo aver abbandonato il corpo di Giulia. Così come ha nascosto alcuni movimenti che ha fatto dopo il delitto, ad esempio quando è uscito (ripreso dalle telecamere) per gettare stracci e vestiti sporchi di sangue.

Gli inquirenti stanno ascoltando molti testimoni. Come il custode del palazzo di via Novella che martedì mattina aveva sentito dei rumori arrivare dal corridoio tra le cantine e il box e aveva visto il barman accanto all’auto con il baule aperto. Quando si era allontanato aveva notato che il corridoio era di nuovo sporco di cenere, come quella trovata e pulita poco prima sulle scale condominiali. Per gli investigatori si tratterebbe dei resti degli abiti di Giulia quando ha tentato di bruciare per la seconda volta il corpo, usando una lattina di benzina che è stata ritrovata in casa e che sarà analizzata. Grazie al codice a barre i carabinieri potrebbero risalire a data e luogo di acquisto. Impagnatiello aveva anche chiesto al custode una scopa e una paletta per pulire il garage. «Quando li ha riconsegnati erano così sporchi che li ho dovuti buttare», ha raccontato il portinaio.

Nell’inchiesta non ci sono altri indagati oltre al reo confesso e non ci sarebbero elementi su complicità nel delitto e nell’occultamento del cadavere. Durante l’autopsia, prevista per domani, saranno fatti esami per la ricerca dei principi attivi del topicida nel corpo per verificare se ci siano tracce di avvelenamento. In casa c’erano anche una serra per coltivare clandestinamente la marijuana (senza piante) e del fertilizzante. Terminate le indagini, la procura ha intenzione chiedere il giudizio immediato, rito che salta l’udienza preliminare accorciando i tempi del processo, tornando a contestare la premeditazione, in un primo momento bocciata dal gip.

Estratto dell’articolo di Selvaggia Lucarelli per “il Fatto Quotidiano” il 7 giugno 2023.

Una vittima incinta, giovane, bella e un carnefice insospettabile, che lavorava in uno dei bar più esclusivi di Milano. E poi l'omicidio che si consuma nei primi giorni di caldo estivo, terreno fertile per il voyeurismo da cronaca nera. 

Era chiaro che l'omicidio di Giulia Tramontano e del suo bambino che stava per nascere avesse tutti gli ingredienti per innescare la gara al dettaglio più morboso, all'interpretazione più psicoterapica, al giudizio più acrobatico. E infatti così è andata, con picchi di decadenza mediatica a cui raramente avevo assistito.

Non so nemmeno da dove cominciare. Forse dalla morbosità con cui si è frugato nel cellulare di Giulia, riportando parola per parola i suoi sfoghi feroci di donna ferita dai continui tradimenti di lui, profanando la sua intimità. Forse da quelli che pure nei titoli di giornale hanno continuato a riferirsi a lui, all'assassino, come ad “Ale”, un diminutivo confidenziale da buffetto sulla guancia, per un uomo che ha ammazzato la compagna incinta accoltellandola alla gola. 

Ma non posso non citare anche gli influencer famosi che quando c'è un funerale desiderano essere il morto: per esempio quello che pubblica i messaggi che Giulia gli aveva mandato e “Mi dispiace tantissimo non essere riuscito a leggere i suoi messaggi. Rip Giulia sarai per sempre col tuo bambino”.

O, peggio ancora, Pupo che, come lo scalatore quando si parla di Everest, in quanto testimonial delle relazioni poliamorose si è sentito chiamato in causa. E ha inviato una lettera a Dagospia il cui soccorso era “anche io sono stressato come Impagnatiello dalla gestione di due rapporti sentimentali che durano da trentacinque anni, ma voglio tranquillizzare tutti e soprattutto le mie due donne, mia moglie Anna e la mia compagna Patricia, non ho intenzione di uccidere nessuno”. 

[…]

Poi c'è la polemica tanto scema quanto ricorrente, ovvero la pm che ricorda alle donne l'importanza di non andare mai all'incontro della spiegazione e l'indignazione social di chi “Come al solito si colpevolizza la vittima!”. E certo, 

Imperdibile poi il video scoop mandato in onda da Quarto grado in cui l'assassino preparava “un cocktail Martini in chiave meneghina, mescolando gin extra dry con vermouth bianco infuso in pistilli di zafferano”. Davvero una serie di informazioni che aiutano gli inquirenti ad avere un quadro più completo su come shakerare un drink senza innaffiare il cliente.

A tal proposito, abbiamo anche il giornale che telefona all'Armani Bamboo Bar, il locale in cui lavorava Alessandro, per sapere se la clientela sia condizionata dalla tragedia e come vadano gli affari. Addirittura vengono riportati alcuni commenti dei clienti su TripAdvisor. In effetti è interessante documentare quante stelline abbiano l'omicidio di Giulia per la clientela del bar.

Poi c'è la madre di Alessandro detto “Ale”, sempre per quelli che lo trovano un simpatico pasticcione. Madre che trova sia una buona idea parlare con i giornalisti prima che col figlio in carcere o con la famiglia di Giulia e che, in lacrime, regala quel “mio figlio è un mostro!” alle telecamere dei salotti tv. 

E però la pubblica indignazione – questo sì che è bizzarro – viene riservata a Mara Venier, la quale guardando in camera conferma alla madre di Alessandro detto “Ale” “Sì signora, suo figlio è un mostro”. Che per carità, non sarà una lezione di delicatezza, ma ditemi voi se è normale ricevere in casa giornalisti e mentre le telecamere di tuo figlio devono ancora completare la confessione in carcere e il corpo gravido di tua “nuora” e di tuo nipote giacciono in obitorio, in attesa dell'autopsia. 

Ma siccome a livello familiare non ci facciamo mancare niente, c'è pure la brutta storia della raccolta fondi promossa dalla sorella della povera Giulia, inizialmente presentata come una richiesta di 5.000 euro da devolvere a iniziative e centri antiviolenza. 

Poi, quando è chiaro che sull'onda emotiva i donatori sono molti, diventa una raccolta di 15.000 euro per pagare funerali e avvocati alla famiglia di Giulia, famiglia che non fornisce alcuna spiegazione sulle sue condizioni economiche, tanto più che la sorella della vittima ha un account Instagram tempestato di sue vacanze in località non proprio da famiglia indigente, dalle Maldive a Zanzibar. 

E infine, il vero colpo di teatro, si include nel dibattito pure il bodyguard Riccardo che lancia un messaggio alle donne e, già che c'è, fa un po' di pubblicità alla sua agenzia di sicurezza: “Siamo disponibili a effettuare un servizio gratuito per accompagnarvi a un 'ultimo appuntamento'. Non vergognatevi: meglio tornare a casa con uno di noi che vi accompagna piuttosto che in una bara!”. E certo, presentarsi con un uomo a un incontro con un ex, magari ossessionato dalla gelosia, mi sembra un'ottima idea. 

[…] 

Alessandro Impagnatiello è forse un “narcisista manipolatore” come da diagnosi mediatica ormai stabilita, ma di narcisisti armati di spregiudicatezza e malinconico squallore, in questa triste storia, ce ne sono un bel po'.

Estratto dell’articolo di Anna Giorgi per ilgiorno.it il 7 giugno 2023.

L'assassino di Giulia, il barman Alessandro Impagnatiello, sarà giudicato con rito abbreviato, previo accordo del gip. La Procura ha sei mesi di tempo per chiedere il processo che salta la fase dell'udienza preliminare, essendo il killer reo confesso ed essendo chiari ad oggi tutti i reati: omicidio con l'aggravante del vincolo parentale, procurato aborto e occultamento del cadavere. 

Gli inquirenti stanno "confezionando" le aggravanti. Quando l’indagine verrà conclusa e saranno raccolto tutti gli elementi necessari a confermare il racconto lacunoso e, a tratti, non credibile del barman la Procura potrà contestare nuovamente nella richiesta di immediato l'aggravante della premeditazione, esclusa nell'ordinanza di custodia.

[…]

Estratto dell’articolo da corriere.it il 7 giugno 2023. 

[…] La casa a Senago, dove martedì i carabinieri hanno svolto un sopralluogo  per i rilievi scientifici, era perfettamente in ordine e ripulita: le tracce repertate, riferiscono fonti investigative, sono state individuate solo grazie al luminol. L'unica macchia visibile era l'alone di bruciato nella vasca da bagno dove, secondo la ricostruzione, l'uomo avrebbe tentato per la prima volta di dar fuoco al cadavere. 

Chi era sul posto sarebbe rimasto colpito dalla grande attenzione con cui tutto era stato pulito e dall'ordine definito «maniacale». Ciò ha portato a ritenere Impagnatiello una persona che avrebbe comportamenti «ossessivo compulsivi».

Da quanto si apprende, sul pianerottolo dell'abitazione di Impagnatiello c'era così tanto sangue che la Scientifica ha pensato a un «falso positivo» del luminol. Nel corso dei rilievi, in quel punto, sono emerse numerose tracce impossibili da percepire a occhio nudo.

Impagnatiello si è dunque premurato di pulire ogni possibile indizio, e infatti anche gli addetti alle pulizie che hanno lavorato sul pianerottolo nei giorni successivi alla sparizione di Giulia non si sono accorti di nulla e hanno, a loro insaputa, cancellato ulteriori tracce. Nel corso della perquisizione i carabinieri hanno trovato il ceppo in metallo con tutti i coltelli da cucina poggiato sulla mensola di un mobile in cui è incassato il forno. 

Dagonews il 7 giugno 2023.

A "Quarto Grado" Alessandro Impagnatiello viene descritto così: “Giudica la sua ragazza per le origini del Sud. Addirittura la incita a tifare Juve invece che Napoli, la sua squadra del cuore. Costringeva quasi Giulia a cantare l’inno della Juventus…” 

In un servizio a “La vita in diretta” si dice di Alessandro Impagnatiello: "Prepara drink con arte e raffinatezza, muovendo sinuosamente le mani. Quelle stesse mani con cui ha ucciso Giulia incinta al settimo mese"

Giulia Tramontano accoltellata in salotto alle spalle non è riuscita nemmeno a urlare. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Giugno 2023. 

Un vero e proprio agguato pianificato in casa. Alessandro Impagnatiello, il barman di 30 anni ha aspettato che Giulia Tramontano, 29 anni, incinta di sette mesi si spostasse dalla cucina al salotto per colpirla di sorpresa, probabilmente alle spalle, accoltellandola senza lasciarle nemmeno il tempo di urlare. È questa l’ipotesi sulla quale stanno lavorando gli inquirenti, che basandosi sui rilievi della sezione Investigazioni scientifiche dei Carabinieri, hanno portato alla luce delle nuove contraddizioni del racconto del barman che ha ucciso la sua compagna Giulia. 

Le contraddizioni dell’omicida

Alessandro Impagnatiello aveva dichiarato di aver visto Giulia in cucina mentre tagliava i pomodori sostenendo che “Si è ferita involontariamente a un braccio con il coltello”. Ma adesso le analisi con il luminol alla ricerca di tracce ematiche nell’appartamento di via Novella, a Senago, sono concentrate soprattutto nel salone. L’omicida avrebbe aspettato un momento di distrazione della sua vittima e avesse colpito quando lei era indifesa. Nelle dieci ore di rilievi effettuati dai Carabinieri della sezione Investigazioni scientifiche, tra l’ordine “maniacale” delle stanze, proprio sul pavimento e sui muri della sala sono state rinvenute ed isolate numerose tracce ematiche.

Non solo in casa, ma anche sul pianerottolo fuori l’appartamento, lungo le scale, nel box e in cantina. La casa in apparenza era però pulita, come se Impagnatiello avesse pulito per ore per ore. Così anche nelle parti comuni, al punto tale che gli addetti alle pulizie del condominio non si sono accorti di nulla e, a loro insaputa, hanno probabilmente cancellato altri segni. Durante i rilievi è stato sequestrato anche un oggetto sul quale sono state trovate tracce di sangue, forse usato per spostare il cadavere. 

Il sospetto delle ferite alla gola di Giulia

Il sospetto è che Giulia non abbia fatto in tempo nemmeno a urlare, probabilmente perché raggiunta dai primi fendenti al collo, che hanno lesionato le corde vocali. Anche le prime analisi avevano evidenziato le ferite più profonde nella parte alta del corpo. Mentre in passato era frequente per i vicini sentire le grida e le discussioni animate della coppia, sabato sera non si è sentito nulla. Sarà l’autopsia, prevista per domani, a chiarire anche questo drammatico particolare. E a verificare eventuali tracce di topicida. Nei prossimi giorni verrà ascoltata nuovamente dai Carabinieri anche la ragazza con cui il barman aveva una relazione e che lavorava con lui presso l’ Armani Bamboo Bar di via Manzoni a Milano. Ieri sono stati ascoltati dagli investigatori un’altra vicina di casa e un addetto alle pulizie a cui Impagnatiello aveva chiesto la scopa in prestito per pulire la cenere. Restano quindi da verificare ed approfondire eventuali profili di favoreggiamento. La situazione infatti potrebbe cambiare se dovesse emergere che qualcuno aiutò il barista a occultare il cadavere. 

Nello zaino il veleno per topi

Un piano di morte ideato giorni prima dalla sua realizzazione, secondo i magistrati, al punto tale che il procuratore aggiunto Letizia Mannella e il pm Alessia Menegazzo della Procura di Milano, scrivono negli atti che il comportamento del barman è l’ennesima conferma che è “in grado di mentire ripetutamente  e di cambiare più volte versione dei fatti“, intendono riconfermare la sussistenza dell’aggravante della crudeltà e della premeditazione, che è stato esclusa dal Gip al momento della convalida del fermo. La procura si prepara a chiedere il processo immediato per Alessandro Impagnatiello, accusato di omicidio aggravato da vincolo parentale e futili motivi, procurato aborto e occultamento di cadavere. E rischia una condanna all’ergastolo.

I pm ora prepareranno i quesiti per l’autopsia fissata per venerdì e che, assieme alle analisi entomologiche, servirà a fare chiarezza sulle coltellate inferte a Giulia, sull’orario preciso della morte e su quando il corpo è stato buttato dall’uomo vicino a dei box in via Monte Rosa. Sostiene di averlo fatto nella notte tra il 30 e il 31 maggio. Lo fece ritrovare la notte successiva, dopo averlo tenuto, ha raccontato, anche nel bagagliaio dell’auto per un giorno. 

Ancor prima del fermo nelle indagini dei Carabinieri del Nucleo investigativo di Milano e della Compagnia di Rho, guidati dai colonnelli Antonio Coppola e Fabio Rufino, erano emerse le ricerche di Impagnatiello sui motori di ricerca utilizzando le parole “ceramica bruciata vasca da bagno” cioè il luogo dove l’ omicida ha tentato di dare fuoco per la prima volta al cadavere. Ulteriori analisi fanno emergere anche le ricerche su “veleno topi umano”. Il barman ha sostenuto che “serviva al lavoro” rendendosi peraltro anche ridicolo nelle sue pretestuose labili giustificazioni. Per gli investigatori invece sono tutti forti indizi sulla sua premeditazione. Ddi topicida ne è stato trovato almeno in due bustine, nascostate nel suo zaino. Ritrovato anche il ceppo con tutti i coltelli da cucina, appoggiato sulla mensola di un mobile in cui è incassato il forno. Tutti i coltelli, una bottiglia con l’etichetta “benzina” e gli altri reperti che adesso verranno analizzati. 

Doveva sembrare spazzatura”

Nella ricostruzione dei movimenti di Impagnatiello, emerge sempre più forte il progetto di confondere il corpo tra i rifiuti vicino ai box, dove poi il cadavere è stato abbandonato. Avvolta nel cellophane nero, quello del barista è stato un tentativo macabro e irrealistico di non far ritrovare il cadavere, di lasciare che a sbarazzarsene fossero i mezzi della raccolta urbana. “Come se volesse farla sembrare spazzatura”. Uno dei tanti indizi della personalità “manipolatrice” del barman trentenne. che vedeva Giulia e il loro bimbo che portava in grembo come degli oggetti dei quali sbarazzarsi.

Gli inquirenti stanno ascoltando molti testimoni

Il custode del palazzo di via Novella a Senago, martedì mattina aveva sentito dei rumori arrivare dal corridoio tra le cantine e il box e aveva visto il barman accanto all’auto con il baule aperto. Quando si era allontanato aveva notato che il corridoio era di nuovo sporco di cenere, come quella trovata e pulita poco prima sulle scale condominiali. Secondo gli investigatori si tratterebbe dei resti degli abiti di Giulia quando ha tentato di bruciare per la seconda volta il corpo, usando una lattina di benzina che è stata ritrovata in casa e che adesso verrà sottoposto ad analisi scientifica. Grazie al codice a barre della latta i Carabinieri potrebbero risalire alla data ed al luogo di acquisto. Impagnatiello aveva anche chiesto al custode una scopa e una paletta per pulire il garage. “Quando li ha riconsegnati erano così sporchi che li ho dovuti buttare”, ha raccontato il portinaio. Redazione CdG 1947

Il video in cui Impagnatiello pulisce il sangue sulle scale. Caccia al telefonino di Giulia Tramontano. Cesare Giuzzi e Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 9 Giugno 2023.

L'autopsia servirà a capire se il killer del delitto di Senago abbia provato ad avvelenare la sua compagna, incinta di 7 mesi 

Quanto ha sofferto Giulia Tramontano, come è morta e cosa ha fatto per ucciderla Alessandro Impagnatiello. A queste domande dovrà rispondere un pool di medici legali con anche un tossicologo e un esperto di ginecologia e ostetricia forense.

Il veleno e le ferite

L’autopsia sul corpo della 29enne dovrà chiarire l’ipotesi che sia stata avvelenata con il topicida trovato nello zaino del compagno. Ma anche la dinamica del delitto. 

Se Giulia è stata colpita a freddo, in un agguato, come le ferite trovate al collo fanno ipotizzare agli inquirenti. E come e quando è morto il piccolo Thiago e se, in caso di avvelenamento, ci sono stati effetti sul feto. 

I carabinieri hanno acquisito le cartelle cliniche sulla gravidanza della donna. C’è il sospetto che la vittima sia stata accoltellata anche nella zona dell’addome, al pancione. Nel suo primo esame il medico legale non aveva evidenziato lesioni ma il corpo era in parte avvolto dal cellophane e da sacchetti della spesa. 

Chiarire la macabra dinamica del delitto è un aspetto fondamentale non solo per verificare la genuinità della confessione di Impagnatiello, ma anche per rivalutare le aggravanti del reato. Come quella della «crudeltà» che, al pari della premeditazione, è stata esclusa dal gip Angela Minerva.

Messaggi programmati

Le ricerche su Google effettuate giorni prima del delitto, come quella sugli effetti per l’uomo del veleno per topi, fanno pensare ai carabinieri e ai pm Letizia Mannella e Alessia Menegazzo che il 30enne volesse uccidere Giulia ben prima dell’incontro-verità con l’amante di sabato 27 maggio. 

Alle 4.44 della notte tra lunedì e martedì, due giorni dopo il delitto, Impagnatiello aveva cercato come effettuare un «invio programmato» di mail e messaggi Whatsapp. Il cellulare di Giulia non è ancora stato trovato, le ispezioni nei tombini del capolinea Comasina (dove l’avrebbe gettato) vane. Il sospetto è che Impagnatiello non si sia liberato subito del telefono, a differenza di quanto confessato. E che, anzi, volesse usarlo per inviare messaggi automatici per continuare a simulare la farsa di una fuga volontaria, come ha fatto dal primo istante.

Il piano lucido

In questi giorni frenetici di interrogatori, gli investigatori stanno ricostruendo anche la personalità di Impagnatiello. Un «narcisista manipolatore», come è stato definito dai magistrati, ma non uno sprovveduto. 

All’Armani Bamboo Bar lavorava come manager di sala e responsabile del bar. Amici e colleghi lo hanno descritto come un «affabulatore», «cordiale» e sempre molto «abile» nel gestire le situazioni. 

I magistrati stanno continuando a verificare la possibilità che il killer reo confesso possa essere stato aiutato, magari nelle fasi successive al delitto. Su questo punto i carabinieri del Nucleo investigativo hanno sentito il ferramenta di Senago che martedì ha venduto il carrello usato per spostare il corpo dalla cantina al garage. Il negoziante ha detto che l’acquisto è stato effettuato in contanti (170 euro) da un giovane con un cappellino. Una descrizione che corrisponde in pieno al 30enne, ma che lui non ha riconosciuto. Nel negozio non c’erano telecamere.

Il video delle pulizie

I magistrati hanno acquisito anche il video realizzato da un reporter di Telelombardia che martedì 30 maggio, tre giorni dopo il delitto, ha ripreso Impagnatiello mentre puliva le scale condominiali. 

Nel filmato si vede il barman che si muove dal ballatoio fino alla rampa di scale che porta ai box. Poi lo si nota mentre pulisce le macchie di sangue sul pavimento con una spugna gialla. Infine mentre scende nel garage con uno spazzolone e una bacinella blu. 

Intanto arriva la protesta della Camera penale di Milano contro la conferenza stampa di giovedì scorso in Procura e gli effetti del «processo mediatico».

I dubbi sulla mamma di Impagnatiello, Sabrina Paulis: le parole del barista e l'appello sibillino «devi dire la verità». Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023.

La casa della 54enne assediata dai giornalisti. Il titolare di un bar ha raccontato che è entrata con Alessandro e ha chiesto informazioni sulle telecamere presenti all'esterno

La sera del 27 maggio la passa davanti allo schermo del suo smartphone. È a casa, Sabrina Paulis, 54 anni, la mamma del killer di Senago Alessandro Impagnatiello, ma controlla con insistenza il telefonino. Aspetta una chiamata da parte di Giulia Tramontano, che però non arriverà mai. 

L'ha lasciata poco prima, furente, nell'appartamento di via Novella, e spera che la 29enne telefoni per sfogarsi ancora. Nell'attesa, verifica gli accessi della ragazza a Whatsapp (nota l'ultimo alle 21.45, ma Giulia è già morta), un po' come chi ha vissuto le prime fasi dell'epopea dei cellulari e dei costi a chiamata si accontentava dello «squillino» come segnale che tutto andava bene.

Una settimana dopo, la sua casa - quell'appartamento da giorni disabitato al quarto piano di un palazzo in centro a Senago, di fronte a quella panchina rossa diventata una sorta di monumento alla memoria di Giulia Tramontano e di Thiago ormai nascosto dai fiori e dai bigliettini - è assediata dai giornalisti. Sviscerato il personaggio dell'assassino, di Alessandro Imagnatiello, l'attenzione s'è ormai focalizzata su di lei.

Quel suo «mostro» indirizzato al figlio, quasi urlato in lacrime davanti alle telecamere, per qualche giorno aveva silenziato il chiacchiericcio. «L'avrà aiutato la madre», è stato fin dall'inizio il retropensiero di molti, in paese e nella piazza virtuale, ricacciato subito indietro dalle parole della donna alla «Vita in diretta», dalle sue scuse disperate («Chiedo perdono per aver fatto un figlio così») e da quell'appello lanciato al figlio: «Devi dire la verità, perché lo meritiamo tutti». 

Il ricordo del titolare di un bar ha però impresso una nuova svolta. Il sospetto generale è tornato a lambire la figura della donna. È lunedì 29 maggio. Sono i giorni delle ricerche di Giulia, allora ancora ufficialmente «scomparsa». E la testimonianza del commerciante riferisce dell'ingresso nel suo locale (che dista pochi metri da quei vecchi box dietro ai quali, nella notte tra il 31 maggio e il 1° giugno, è stato ritrovato il cadavere di Giulia) del killer insieme a Sabrina Paulis: cercano informazioni sulla ragazza, e chiedono informazioni anche sulle telecamere presenti all'esterno del bar. 

Per gli investigatori - che al momento non possono ancora escludere nessuno scenario - Alessandro avrebbe però fatto tutto da solo. E per quanto si è ricostruito finora, Sabrina Paulis non avrebbe avuto alcun ruolo. I segni di trascinamento del corpo illuminati sul pianerottolo dal Luminol affermano che a spostare il corpo è stata una persona sola. E lo stesso dicono quei colpi sordi sentiti provenire dalle scale da un vicino di Alessandro. Tracce di sangue sono state poi trovate anche su un carrellino portapacchi che il 30enne potrebbe aver usato per agevolare gli spostamenti del cadavere. E sempre lui, e solo lui, era stato visto armeggiare nei box, con il baule dell'auto aperto, dal custode del palazzo, che aveva notato anche una lunga traccia di cenere lungo il corridoio.

(ANSA il 9 giugno 2023) - Dai primi esiti dell'autopsia, eseguita e conclusa oggi dai medici legali nelle indagini dei carabinieri, coordinate dall'aggiunto Letizia Mannella e dal pm Alessia Menegazzo, e seguite direttamente anche dal procuratore di Milano Marcello Viola, è emerso che la giovane è stata colpita almeno con 37 fendenti. 

Con analisi ulteriori, infatti, ne potrebbero essere individuate anche altre, fino a quasi una quarantina in totale. Due quelle letali: una che ha reciso la carotide e l'altra sempre nella zona del collo e che ha colpito l'arteria succlavia. Non si può ancora dire con certezza (solo le relazioni successive potranno stabilirlo) se Giulia sia stata aggredita alle spalle, ma è una delle ipotesi prevalenti. Risulta certamente che non ci sono segni di lesioni da difesa da parte della 29enne.

Una coltellata l'ha raggiunta anche al volto, nella zona del sopracciglio, e un'altra ancora ha perforato un polmone. Almeno due sono state inferte alla schiena. La Procura ha già contestato nella richiesta di custodia cautelare, oltre che la premeditazione, anche l'aggravante della crudeltà (non riconosciuta dal gip). 

Le relazioni autoptiche che saranno depositate nelle prossime settimane dovranno chiarire anche quante e quali siano le coltellate che potrebbero essere state inferte dopo che Giulia era già morta. Ad ogni modo, questa dinamica di omicidio rafforza l'ipotesi della crudeltà. Difficile, con le analisi effettuate oggi, datare il delitto - che dovrebbe essere avvenuto, stando alle indagini svolte finora, tra le 19 e le 20.30 di sabato 27 maggio - perché le ustioni hanno alterato i tessuti e non ci sono macchie ipostatiche.

Tutte le altre risposte, tra cui gli esiti degli esami tossicologici, quelli sul feto e, ad esempio, se il corpo sia stato bruciato quando era già morta (è uno dei quesiti), potranno arrivare solo col deposito delle relazioni finali affidate ad un pool di medici legali e specialisti. 

Giulia Tramontano, autopsia: coltellata alla carotide, morta in pochi minuti. Da adnkronos il 10 Giugno 2023

Giulia Tramontano, la 29enne incinta di sette mesi uccisa dal fidanzato Alessandro Impagnatiello, potrebbe essere morta dissanguata "in pochi minuti". Una deduzione che arriva dai primi esiti dell'autopsia e dal profondo taglio al collo che le ha reciso carotide, giugulare e trachea.  Uno squarcio inferto sorprendendo la giovane alle spalle, come si deduce dalla macchia di sangue lasciata sul pavimento, poi il 30enne barman ha infierito sull'arteria sotto la clavicola e prima che Giulia si accasciasse ha continuato a colpire, per un totale di "almeno 37 volte". Colpi in rapidi successione, alla cieca, concentrati nella parte superiore del corpo.  

Poi è iniziata la seconda fase di un delitto che per la procura è premeditato. Impagnatiello ha tentato di bruciare il corpo prima con dell'alcol, poi con della benzina. Ustioni "molto estese" che impediscono, al momento, di datare con esattezza l'orario della morte. Un tentativo di depistaggio, un gesto oltraggioso e forse una maldestra manovra di rallentare il riconoscimento. Ci vorranno alcuni giorni per gli esiti tossicologici, così come sulle risposte che si attendono sul feto.  Gli esami hanno evidenziato nel dettaglio "due coltellate letali nella zona del collo", in particolare i fendenti hanno colpito "la carotide e la succlavia", la più grande arteria presente nella parte superiore del torace, al di sotto della clavicola. "La vittima non ha segni di difesa", ossia la giovane non ha provato a parare i colpi, il che lascia intendere che sia rimasta sorpresa dall'attacco sferrato dal suo assassino. Una possibile ricostruzione che spiegherebbe perché nessuna l'ha sentita urlare e perché non ha segni da difesa. Una ricostruzione che va ancora accertata, ma che dato il numero di coltellate avalla l'aggravante della crudeltà sostenuta dai pm di Milano Letizia Mannella e Alessia Menegazzo. Il tentativo di dare fuoco, per ben due volte, al corpo della 29enne complica la datazione dell'orario della morte per gli esperti di Medicina legale. "Le ustioni diffuse hanno alterato pesantemente i tessuti" rendendo difficile rilevare le macchie ipostatiche che consentono ai medici legali di stabilire, con precisione, l'orario del decesso. Dai primi accertamenti non è stato possibile accertare se le fiamme siano state appiccate dopo il decesso della giovane. Intanto, conclusa l'autopsia, è stato concesso il nulla osta alla sepoltura. Il corpo sarà quindi restituito alla famiglia. 

Estratto da open.online il 9 giugno 2023.

L’inchiesta nei confronti di Alessandro Impagnatiello per l’omicidio di Giulia Tramontano va verso la chiusura. L’ipotesi che il barman dell’Armani Bamboo abbia avuto dei complici è ormai residuale. Anche se rimangono alcuni dubbi sulla dinamica. Saranno gli esiti dell’autopsia, in programma per domani mattina, a sciogliere gli ultimi nodi.

Ma il video che lo ritrae mentre pulisce le ultime macchie di sangue potrebbe aver chiuso il cerchio. Intanto però Sebastiano Ardita, ex consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura e procuratore aggiunto a Catania, lancia un allarme. Ardita sostiene che l’assassino di Giulia Tramontano potrebbe «uscire dal carcere dopo una decina di anni, come è accaduto ad altri». E potrà chiedere subito un percorso di giustizia riparativa. E questo grazie alla riforma Cartabia.

[…] Il magistrato sostiene nel colloquio con Antonella Mascali che il pronostico sui dieci anni di prigione non è campato in aria. «La riforma prevede che sin dal primo atto l’indagato deve essere informato della facoltà di accedere a percorsi di giustizia riparativa. 

Dal momento che la giustizia riparativa è una cosa seria e presupporrebbe una elaborazione della propria condotta, oltreché la certezza della responsabilità penale, ritengo che sia improponibile che immediatamente dopo l’arresto si possano avviare questi percorsi, anche per rispetto delle vittime dei reati.

È offensivo, oltreché pericoloso, che un indagato per violenza sessuale o per omicidio possa chiedere di incontrare la vittima o i parenti prima ancora del processo», premette. 

Poi spiega: «Se sarà condannato e avrà attenuanti per la confessione o il beneficio per il percorso della giustizia riparativa, fra liberazione anticipata e misure alternative o libertà condizionale, potrebbe uscire dal carcere dopo una decina di anni. Come è già accaduto ad altri».  […]

Autopsia Giulia Tramontano: è morta in pochi minuti dopo una coltellata alla carotide. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Giugno 2023

La giovane donna incinta di sette mesi è stata colpita 37-40 volte, e poi Impagnatiello ha cercato di bruciare il corpo

Uno squarcio inferto sorprendendo la giovane alle spalle, come si deduce dalla macchia di sangue lasciata sul pavimento, poi il 30enne barman omicida ha infierito sull’arteria sotto la clavicola e prima che Giulia si accasciasse ha continuato a colpire, per un totale di “almeno 37 volte“. Colpi in rapidi successione, alla cieca, concentrati nella parte superiore del corpo. Questo il risultato dell’ autopsia condotta all’Istituto di medicina legale di Milano con gli accertamenti dei consulenti della Procura, coordinati dal professore Andrea Gentilomo, insieme a specialisti per la parte tossicologica ed entomologica.

Dopo è iniziata la seconda fase di un delitto che secondo la procura di Milano è premeditato. Impagnatiello ha tentato di bruciare il corpo prima con dell’alcol, poi con della benzina. Ustioni “molto estese” che impediscono, al momento, di datare con esattezza l’orario della morte. Un tentativo di depistaggio, un gesto oltraggioso e forse una maldestra manovra di rallentare il riconoscimento. Ci vorranno alcuni giorni per gli esiti tossicologici, così come sulle risposte che si attendono sul feto. 

Gli esami hanno evidenziato nel dettaglio “due coltellate letali ( cioè mortali n.d.r.) nella zona del collo”, in particolare i fendenti hanno colpito “la carotide e la succlavia“, la più grande arteria presente nella parte superiore del torace, al di sotto della clavicola. “La vittima non ha segni di difesa“, ossia la giovane non ha provato a parare i colpi, il che lascia intendere che sia rimasta sorpresa dall’attacco sferrato dal suo assassino.

Una possibile ricostruzione che spiegherebbe perché nessuna l’ha sentita urlare e perché non ha segni da difesa. Una ricostruzione che va ancora accertata, ma che dato il numero di coltellate avalla l’aggravante della crudeltà sostenuta dai magistrati di Milano, l’ aggiunto Letizia Mannella e la pm Alessia Menegazzo. 

Il tentativo di dare fuoco, per ben due volte, al corpo della 29enne complica la datazione dell’orario della morte per gli esperti di Medicina legale. “Le ustioni diffuse hanno alterato pesantemente i tessuti” rendendo difficile rilevare le macchie ipostatiche che consentono ai medici legali di stabilire, con precisione, l’orario del decesso. Dai primi accertamenti non è stato possibile accertare se le fiamme siano state appiccate dopo il decesso della giovane.

Intanto, conclusa l’autopsia, è stato concesso il nulla osta alla sepoltura, e quindi il corpo di Giulia Tramontano sarà restituito alla sua famiglia. “Per avere la disponibilità della salma serve qualche giorno, anche per poter organizzare il rito funebre a Giulia e al piccolo Thiago. La metà della prossima settimana speriamo di avere il corpo per poter provvedere ai funerali. La famiglia è tramortita per questo dolore, ma sa che servono questi tempi per gli accertamenti. Oggi era presente il papà con alcuni familiari” ha spiegato ancora l’avvocato Giovanni Cacciapuoti, legale della famiglia di Giulia Tramontano.

La famiglia di Giulia: da noi un messaggio di amore e non di odio

“Purtroppo non possiamo essere presenti a questa fiaccolata in memoria della nostra cara Giulia e Thiago. Vogliamo pero’ fare arrivare a tutti i presenti il nostro messaggio di ringraziamento per la vicinanza mostrataci. L’affetto ed il calore di tutti voi è per noi fonte di grande supporto. Il nostro amore per Giulia e Thiago, eterno, smisurato e insaziabile è la più ardente tra le fiamme di questa e tutte le fiaccolate in loro memoria. Nessun sentimento di odio potrà mai spegnere questo fuoco, in cui ci struggiamo e riscaldiamo al contempo. Per noi Giulia è e sarà per sempre: madre premurosa, amorevole sorella e figlia indimenticabile. Grazie a tutti voi da Loredana, Franco, Chiara e Mario”. Cosi’ Chiara Tramontano, sorella di Giulia, ha commentato con una storia su Instagram la fiaccolata organizzata ieri sera a Sant’Antimo organizzata in onore della vittima e del piccolo Thiago.

Il premier Giorgia Meloni: “Sono scioccata”

Quella di Giulia Tramontano “è una vicenda che mi ha lasciato senza fiato. Ho chiamato la madre di Giulia, da madre“. ha detto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, intervistata da Bruno Vespa nell’ambito dell’evento ‘Forum in masseria‘, a Manduria in provincia di Taranto. “Quando accadono queste cose la prima cosa che faccio è sempre pensare alla mamma”, ha aggiunto la Meloni. “Questo episodio mi ha scioccato per la storia del bambino che aveva in grembo”, ha proseguito. “Noi siamo intervenuti con un provvedimento nell’ambito del codice rosso, ma è una questione culturale“, ha sottolineato infine la premier. 

Davanti all’obitorio una sconosciuta ha deposto dei fiori rosa 

“Sono venuta qui, perché mi sembrava una cosa carina e rispettosa nei suoi confronti. Visto che era qua a Milano ho fatto un salto. Questa storia mi ha colpito, perché prima di tutto aspettava un bimbo e poi perché non si può ammazzare una persona così, è assurdo”. Così, una donna fuori dall’Istituto di Medicina Legale ha spiegato ai cronisti il motivo per cui ha portato un mazzo di oleandri rosa per Giulia. Redazione CdG 1947

I dubbi sulla mamma di Impagnatiello, Sabrina Paulis: le parole del barista e l'appello sibillino «devi dire la verità». Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023.

La casa della 54enne assediata dai giornalisti. Il titolare di un bar ha raccontato che è entrata con Alessandro e ha chiesto informazioni sulle telecamere presenti all'esterno

La sera del 27 maggio la passa davanti allo schermo del suo smartphone. È a casa, Sabrina Paulis, 54 anni, la mamma del killer di Senago Alessandro Impagnatiello, ma controlla con insistenza il telefonino. Aspetta una chiamata da parte di Giulia Tramontano, che però non arriverà mai. 

L'ha lasciata poco prima, furente, nell'appartamento di via Novella, e spera che la 29enne telefoni per sfogarsi ancora. Nell'attesa, verifica gli accessi della ragazza a Whatsapp (nota l'ultimo alle 21.45, ma Giulia è già morta), un po' come chi ha vissuto le prime fasi dell'epopea dei cellulari e dei costi a chiamata si accontentava dello «squillino» come segnale che tutto andava bene.

Una settimana dopo, la sua casa - quell'appartamento da giorni disabitato al quarto piano di un palazzo in centro a Senago, di fronte a quella panchina rossa diventata una sorta di monumento alla memoria di Giulia Tramontano e di Thiago ormai nascosto dai fiori e dai bigliettini - è assediata dai giornalisti. Sviscerato il personaggio dell'assassino, di Alessandro Imagnatiello, l'attenzione s'è ormai focalizzata su di lei.

Quel suo «mostro» indirizzato al figlio, quasi urlato in lacrime davanti alle telecamere, per qualche giorno aveva silenziato il chiacchiericcio. «L'avrà aiutato la madre», è stato fin dall'inizio il retropensiero di molti, in paese e nella piazza virtuale, ricacciato subito indietro dalle parole della donna alla «Vita in diretta», dalle sue scuse disperate («Chiedo perdono per aver fatto un figlio così») e da quell'appello lanciato al figlio: «Devi dire la verità, perché lo meritiamo tutti». 

Il ricordo del titolare di un bar ha però impresso una nuova svolta. Il sospetto generale è tornato a lambire la figura della donna. È lunedì 29 maggio. Sono i giorni delle ricerche di Giulia, allora ancora ufficialmente «scomparsa». E la testimonianza del commerciante riferisce dell'ingresso nel suo locale (che dista pochi metri da quei vecchi box dietro ai quali, nella notte tra il 31 maggio e il 1° giugno, è stato ritrovato il cadavere di Giulia) del killer insieme a Sabrina Paulis: cercano informazioni sulla ragazza, e chiedono informazioni anche sulle telecamere presenti all'esterno del bar. 

Per gli investigatori - che al momento non possono ancora escludere nessuno scenario - Alessandro avrebbe però fatto tutto da solo. E per quanto si è ricostruito finora, Sabrina Paulis non avrebbe avuto alcun ruolo. I segni di trascinamento del corpo illuminati sul pianerottolo dal Luminol affermano che a spostare il corpo è stata una persona sola. E lo stesso dicono quei colpi sordi sentiti provenire dalle scale da un vicino di Alessandro. Tracce di sangue sono state poi trovate anche su un carrellino portapacchi che il 30enne potrebbe aver usato per agevolare gli spostamenti del cadavere. E sempre lui, e solo lui, era stato visto armeggiare nei box, con il baule dell'auto aperto, dal custode del palazzo, che aveva notato anche una lunga traccia di cenere lungo il corridoio.

L’ultimo viaggio di Giulia e Thiago e il dovere di cronaca. Rita Cavallaro su L'Identità il 10 Giugno 2023 

Giulia Tramontano e il suo piccolo Thiago sono in viaggio verso Sant’Antimo, il paese d’origine della 29enne incinta di sette mesi, uccisa il 27 maggio scorso dal suo compagno Alessandro Impagnatiello, nella loro casa di Senago. Domani un’intera comunità renderà l’ultimo saluto a mamma e figlio, due vite spezzate senza un perché dall’uomo che avrebbe dovuto proteggerle e amarle e che, invece, si è accanito sul corpo della fidanzata con una ferocia inaudita, colpendola alle spalle e infierendo su di lei con 37 coltellate.

L’appello della famiglia

Le esequie “avranno luogo alle ore 15, nella Parrocchia di Santa Lucia”, si legge nel manifesto funebre, affisso nel comune del Napoletano. E la notizia del funerale ha spinto la sorella Chiara a pubblicare un appello su Facebook: “Grazie a tutti dell’affetto che ci avete dimostrato in questi giorni atroci. I vostri pensieri ci hanno inondato di amore e vicinanza. Ora però è il momento dell’ultimo saluto intimo e straziante a Giulia e Thiago e vorremmo viverlo insieme ai parenti e amici più stretti”. Un desiderio condivisibile, che dovrebbe essere esaudito per il rispetto che si deve a una famiglia sconvolta dal dolore e a due vittime innocenti. Destinato, però, a rimanere inascoltato. E non per la spettacolarizzazione delle tragedie, che pure in alcuni casi si è dimostrata tale.

Giulia sorella d’Italia

In questa vicenda non c’è quella curiosità pruriginosa riscontrata in alcuni dei delitti più atroci d’Italia, come quello di Sarah Scazzi. Non c’è chi tende a guardare dal buco della serratura per scrutare, analizzare, giudicare. C’è invece un’intera nazione rimasta attonita, senza parole, inerme davanti al male che indossa la maschera del ragazzo qualunque, dalla faccia pulita ma dalle mani sporche del sangue della sua “amata” e del suo bambino, che ha ucciso senza un movente ma, nella sua mente, non certo per futili motivi. E allora la banalità del male eleva Giulia, più di altre vittime, a un piano che non è più privato e che va oltre la sua famiglia. È la tragedia di ogni famiglia, perché Giulia Tramontano con il suo bimbo nel ventre è nipote, figlia, sorella di ogni italiano che, oggi, sa che quello che è accaduto a Senago può succedere in ogni casa. È per questo che domani, nonostante l’appello di Chiara Tramontano, i giornalisti non diserteranno il funerale a Sant’Antimo. Si chiama dovere di cronaca, il compito di dare la notizia sperando che, di notizie come queste, un giorno non dovremo più darne.

La Russa: «Se un genitore vede il figlio che manca di rispetto a una ragazza, gli tiri un ceffone». Giulia Ricci su Il Corriere della Sera il 06 giugno 2023

Il presidente del Senato a L’Aria che tira: «Voglio indire una manifestazione di soli uomini contro i femminicidi». L’Autonomia? «Sì, ma se controbilanciata da un esecutivo più forte»

«Se un genitore vede il figlio che manca di rispetto a una ragazza, penso che debba tirargli un ceffone, forte. Se lo ricorderà. Il rispetto deve partire dalle famiglie». Così il presidente del Senato Ignazio La Russa affronta il tema dei femminicidi, dopo il tragico assassinio di Giulia Tramontano da parte del fidanzato, durante L’Aria che tira su La7. E aggiunge: «Vorrei indire una manifestazione di soli uomini per dare un segnale e far capire che c’è bisogno di prendere coscienza di questo dramma, perché è una questione di uomini. Se fossi al governo — aggiunge — sarebbe uno dei temi che cercherei di affrontare con la maggior energia possibile». Ieri all’anniversario della fondazione dei Carabinieri «ho detto che come minimo occorre raddoppiare il numero di Carabinieri che si occupano di reati di genere da 600 a 1.200», ha chiosato il cofondatore di Fratelli d’Italia.

Pronta la risposta delle opposizioni: «Ben venga una manifestazione di uomini contro la violenza sulle donne — commenta la dem Laura Boldrini — nella consapevolezza che bisogna sradicare la mentalità patriarcale che è alla base di questi comportamenti violenti. M a no, La Russa, non si educano i ragazzi attraverso i ceffoni ma facendo capire che deve esserci rispetto alla base delle relazioni». D’accordo sulla discesa in piazza anche la radicale Emma Bonino: «Bene, io da una vita che dico che bisogna coinvolgere gli uomini, d’altra parte non siamo mica noi donne ad andare in giro con la sega elettrica per ammazzare qualcuno. Si convincessero i padri a parlare con i figli, a scendere assieme in piazza, questo sarebbe davvero un bel segnale». E Luana Zanella, capogruppo di Alleanza verdi e sinistra alla Camera, aggiunge: «Vuole la manifestazione? La faccia».

La Russa parla poi di Autonomia, guerra, opposizioni. E lancia frecciate agli alleati europei sul tema dei migranti: «C’è un interesse naturalmente egoistico degli altri paesi. Lo vediamo con la Francia che schiera i militari al confine: è più egoista di noi, si chiude in un bozzolo. Forse la Germania è meno egoista».

Sulla riforma tanto cara al vicepremier Matteo Salvini non si dice contrario, ma pone dei paletti e la collega a quella del presidenzialismo voluta dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «Sono eletto a Milano da sempre. Capisco le ragioni della gente del Nord che chiede maggiore autonomia, non sono per nulla contrario, ma deve essere controbilanciata da uno stato in grado di poter mantenere questa autonomia. Ecco perché il rafforzamento dell’Esecutivo va di pari passo».

Poi, le parole sul conflitto in Ucraina: «Tutte le guerre, che chi l’avvia immagina che durino una settimana, non durano mai una settimana. Io mi auguro che questa finisca presto e con la piena restituzione territoriale della parte dell’Ucraina che è stata aggredita e occupata. Vorrei che Putin capisse che non poteva aggredire un popolo innocente, che si ritirasse almeno fino a dove erano il giorno in cui ha iniziato l’aggressione. Se si vuole una mediazione, rimettiamoci in quella posizione, ma non puoi discuterne se nel frattempo i militari russi hanno occupato il Paese».

E infine la stoccata alle opposizioni: da sinistra c’è un «pregiudizio» nei confronti del centrodestra perché si «teme che “questi con noi possono essere dirompenti e ci fanno finire la festa”. Noi non siamo troppo teneri col sistema di potere che negli anni la sinistra è stata capace di occupare nella vita culturale. Il loro è un timore, ma poi nei fatti non c’è nulla»

Il ceffone di Ignazio. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 07 giugno 2023 

Quando penso a un maschio dolce e sensibile, Ignazio La Russa non è quasi mai il primo che mi viene in mente, e fino a ieri ero convinto che la cosa facesse piacere anche a lui. Però negli studi televisivi de «L’Aria che Tira» ha mosso i primi passi un La Russa nuovo. Dobbiamo prendere coscienza che la violenza sulle donne è un problema degli uomini, ha detto, e più che La Russa sembrava un’intercettazione telefonica di Elly Schlein e Laura Boldrini. In un crescendo femminista, ha vagheggiato una manifestazione antiviolenza di soli maschi e ricordato che il rispetto verso le donne deve cominciare in famiglia. Mentre gli spettatori più diffidenti si avvicinavano allo schermo per controllare che si trattasse del vero La Russa e non di una elaborazione al computer governata da un algoritmo progressista, il nostro eroe ha vibrato l’ultimo affondo: «Se un genitore vede il figlio mancare di rispetto a una ragazza, penso che debba tirargli un ceffone, forte». 

Si può dire che è crollato sul più bello? Intendiamoci, molti concorderanno con lui e risfoglieranno nostalgici l’album di famiglia, gremito di padri e nonni dalla mano facile (mio papà se la cavava discretamente anche con i piedi). Ma pensate se La Russa avesse affermato che picchiare un maschio per insegnargli a non picchiare le donne è un modo ben curioso di educare alla non violenza. Adesso ci troveremmo qui a dire che non esiste più alcuna differenza tra conservatori e liberali. Pericolo scampato.

Narcisismo maligno: le caratteristiche, i segnali da non sottovalutare. Danilo Di Diodoro su Il Corriere della Sera il 06 giugno 2023

I recenti fatti di cronaca hanno riportato all’attenzione gli elementi alla base delle relazioni tossiche che possono sfociare nella violenza anche estrema, quasi sempre contro le donne 

Attenzione alle relazioni che sviluppano legami di dipendenza e controllo. Bisogna restare vigili e provare sempre a diagnosticare lo stato della propria relazione affettiva, per evitare di restare intrappolati in situazioni potenzialmente pericolose, come dimostrano i tanti casi di relazioni tossiche che sfociano nella violenza anche estrema, quasi sempre contro le donne.

Chi è il narcisista patologico

«È necessario che le donne imparino, fin dai primi segnali, a “diagnosticare” lo stato della coppia. Soprattutto mai accettare relazioni tossiche per paura di restare sole» dice Vittorio Lingiardi, professore di psicologia dinamica alla Sapienza, Università di Roma, autore di “Arcipelago N. - Variazioni sul narcisismo” (Einaudi, 2021) e “L’ombelico del sogno - Un viaggio onirico (Einaudi, 2023), esperto delle varie forme che può assumere il narcisismo, una configurazione psicologica o psicopatologica che ha molto a che fare con le relazioni di coppia tossiche. «Il rapporto di coppia è uno dei luoghi di massima espressione del narcisismo patologico, un disturbo della personalità caratterizzato dall’incapacità di godere della felicità altrui, da rivalità invidiosa, mancanza di gratitudine e di empatia, ricerca continua di ammirazione, convinzione di meritare ogni privilegio» dice ancora Lingiardi. «In sintesi, scarso interesse per la vita e i sentimenti dell’altro, considerato come un oggetto da manipolare perché produca gratificazioni. Se poi alla personalità narcisistica si aggiunge la componente sadica, e spesso paranoide, il bisogno di manipolare l’altro diventa godimento nel vederlo assoggettato. E quando questo meccanismo di dominio salta — per esempio perché la partner, finalmente, decide di sottrarsi — il bisogno di affermazione di sé può arrivare alla violenza come forma massima di controllo e potere».

Il narcisista maligno

Se la relazione con un narcisista grandioso è di norma dolorosa, le difficoltà e i pericoli maggiori si corrono nella relazione con una persona affetta da quello che viene chiamato «narcisismo maligno». Chi ne soffre, oltre al disturbo di personalità narcisistico ha la tendenza ad avere un comportamento antisociale e pensieri di tipo paranoideo, associati a un certo piacere sadico nei confronti degli altri, che può tradursi anche in vere e proprie aggressioni. «In effetti il danno ricevuto dalla relazione con i narcisisti maligni è devastante» spiega Lingiardi. «Per queste persone gli altri sono solo uno strumento che serve a sostenere un’immagine di sé apparentemente potente, ma in verità molto fragile. Gli altri sono solo prede da soggiogare. Le testimonianze di molte donne mostrano il progressivo isolamento fisico ed emotivo in cui vengono costrette dal partner, isolamento finalizzato non solo alla riduzione o all’annullamento dei contatti con familiari e amici, ma anche all’abbandono di attività lavorative extradomestiche. L’obiettivo, in questi casi, è di eliminare ogni possibile esperienza alternativa alla relazione. In queste coppie, il comportamento degli uomini denuncia la loro stessa dipendenza: senza la loro donna da controllare e dominare, si sentirebbero soli in modo intollerabile. Purtroppo è frequente il passaggio dalla relazione perversa al comportamento criminale, tanto che per molti psicoanalisti il narcisismo maligno è una configurazione psicologica in grado di spiegare la malvagità nei suoi aspetti più calcolati, disumanizzanti, come sempre più spesso fatti di cronaca raccontano».

I fattori in gioco

In effetti si ha la sensazione che le conseguenze negative e drammatiche delle forme estreme di narcisismo siano in aumento , non solo a causa della risonanza mediatica che generano, ma anche per quanto emerge dagli studi sul campo di tipo psicologico. «A questo proposito, va detto che ogni disturbo della personalità è l’esito di un modello bio-psico-sociale, quindi la parte sociale è solo un terzo del problema» conclude Lingiardi. «Resta il ruolo giocato dal temperamento individuale ma anche dalla storia di ciascuno, dalle sue relazioni durante lo sviluppo personale. Ci vogliono veramente molti elementi perché si arrivi a superare lo spiacevole narcisismo della vita quotidiana e arrivare al narcisismo maligno che può intossicare le relazioni fino alla violenza».

Estratto dell’articolo di Flavia Amabile per “la Stampa” il 5 giugno 2023.

Si ama con la stessa superficialità con cui si acquista un oggetto su Amazon. Si osserva il cadavere della fidanzata (e pure del futuro figlio) appena uccisa con lo stesso fastidio di chi ha un problema al rubinetto e cerca su Google il tutorial per ripararlo. È una generazione sempre meno evoluta, sempre più vicina alle specie animali quella che si sta affacciando alla vita matura, secondo Vittorino Andreoli, 83 anni, psichiatra, lucido indagatore della mente umana. 

[…] «La morte ha perduto ogni dimensione del mistero, della sacralità, del punto interrogativo. È diventata banale […] è diventata un mezzo per sbarazzarsi di un ostacolo. […]».

Un meccanismo da videogiochi.

Esatto. I videogiochi spesso si fondano sulla quantità di eliminazioni di immagini umane. Però ci sono anche degli altri elementi da prendere in considerazione. Il tempo, per esempio. Come in un videogioco, la vita viene percepita come una serie di momenti distanziati l'uno dall'altro. Non si va oltre quello che interessa oggi o il fine settimana o, al massimo, le vacanze. Non c'è il futuro, c'è un empirismo esistenziale che è totalmente amorale. […] Non prova alcun senso di colpa, ha solo eliminato un problema. […]». 

Sta disegnando il ritratto di una generazione che vive senza futuro, senza sentimenti, senza credere a nulla, nemmeno all'amore.

«Si è persa completamente la percezione dell'amore. L'amore che noi definiamo come una relazione che aiuta a vivere è un'acquisizione nell'evoluzione delle specie, fa sentire il bisogno dell'altro ed è una prerogativa del genere umano. Tutto questo non c'è più, è scomparsa la cosa più straordinaria, la relazione d'amore in cui uno vuole fare tutto per l'altro, che prova piacere nel generare piacere nell'altro. Adesso, invece, è un'esperienza che non ha la dimensione del tempo ma quella del consumo. È un rito che si brucia in modo estremamente rapido, basta che si dica "mi sono fatto quella"».

È un rito che prevede che la donna sia di proprietà dell'uomo. Purtroppo, nemmeno nelle nuove generazioni si è riusciti a superare questa distorsione che non ha nulla a che vedere con l'amore.

«Non è avvenuto perché la donna è evoluta in questi 20-30 anni, ha fatto passi straordinari dal punto di vista affettivo, del ruolo sociale e del pensiero. L'uomo, invece, non è andato avanti. Avevo un'amica meravigliosa, Ida Magli. Mi diceva: "Vittorino, se il movimento femminista resta staccato dall'uomo non si riuscirà mai a raggiungere la parità anche dei sentimenti". Oggi abbiamo da una parte le donne che possono dire: adesso è finita. Dall'altra ci sono questi omuncoli che non sanno stare senza le donne e non sanno affrontare le difficoltà dei rapporti».

Da che cosa dipende questa incapacità?

«Viviamo in una società che, attraverso gli strumenti digitali, ha sviluppato le facoltà intellettive di capire, di informarsi, ma non ha fatto alcun passo avanti nella capacità di gestire gli affetti. […]». 

[…] «[…] gli manca completamente la relazione dell'amore. Lo considera un consumo». […] «O una bambola di gomma che ha un meccanismo che non funziona più e la vuole sostituire con un'altra. Stiamo regredendo allo stato istintuale, a quelle che sono le pulsioni come nelle specie animali. Stiamo lottando per costruire robot sempre più sofisticati in realtà stiamo diventando noi stessi dei robot perdendo poco alla volta le caratteristiche psichiche che ci differenziano dalle altre specie. […]».

Che cosa si può fare per impedirlo?

«Bisogna fare presto e cambiare completamente i principi dell'educazione. Bisogna insegnare ad affrontare le emozioni a spiegare che non siamo un "io" ma siamo un "noi", la parte di una relazione, perché abbiamo sempre bisogno dell'altro. […]».

I penalisti: sul caso Impagnatiello il solito massacro dei diritti. Caso Tramontanto, la nota della Camera penale di Milano. Il Dubbio l'8 giugno 2023

Abbiamo atteso alcuni giorni prima di esprimere il nostro pensiero sui contenuti della conferenza stampa della scorsa settimana, con cui la Procura della Repubblica di Milano ha comunicato il fermo di Alessandro Impagnatiello per l’omicidio di Giulia Tramontano e, più in generale, sulla rappresentazione che i media, con cadenza quotidiana, stanno facendo di quella tragica vicenda.

La necessità di riflettere senza essere condizionati dai tempi della cronaca giudiziaria e dalle semplificazioni che non di rado la caratterizzano, nonché il riserbo, finanche il pudore, di fronte alla sofferenza che la morte violenta di una persona reca con sé, ci hanno indotto a tale attesa.

Trascorsi alcuni giorni, però, dobbiamo evidenziare come le modalità e i contenuti della conferenza stampa - se non addirittura la stessa scelta di quel mezzo in luogo di un comunicato - siano per noi antitetici rispetto allo spirito del D. Lgs. 188/2021 e, più in generale, in contrasto con la necessità di evitare condizionamenti dei giudici chiamati a valutare la correttezza, sotto tutti i profili, della ricostruzione accusatoria. Né, crediamo, la gravità dei fatti, l’emozione che la morte violenta di una persona comporta, la volontà di rassicurare l’opinione pubblica sulla capacità di risposta del sistema giudiziario, giustificano lo scostamento da quei principi posti a tutela non solo del presunto innocente, ma anche degli altri soggetti coinvolti dall’indagine.

Da anni denunciamo le degenerazioni del processo mediatico, l’arretramento della cultura delle garanzie che consegue alla spettacolarizzazione delle indagini e i pericoli legati alla ricerca del consenso da parte di chi le conduce o dirige. La presenza in prima serata a trasmissioni televisive da parte di chi ha un ruolo diretto nelle indagini, quando le stesse sono ancora in corso, con apprezzamenti perentori su responsabilità e qualità personali dell’indagato è una rappresentazione plastica di quel fenomeno.

Ci siamo chiesti quale necessità vi fosse - nella prospettiva delle esigenze investigative o dell’interesse pubblico, che sole giustificano la diffusione di informazioni sui procedimenti penali - di soffermarsi su particolari e circostanze, anche di dettaglio, ancora oggetto di approfondimento. Ci siamo domandati come si giustificassero, dopo soli pochi giorni e in assenza di qualsiasi contraddittorio e vaglio giudiziale, affermazioni tanto perentorie su aspetti decisivi rispetto alla responsabilità dell’indagato (come, ad esempio, sul tema della premeditazione, poi esclusa dal GIP).

Riteniamo che il tema di una corretta informazione giudiziaria sia centrale e che tutti gli attori coinvolti – giornalisti, magistrati e avvocati – debbano e possano fare la loro parte; per questo crediamo sia necessaria la costruzione di un percorso condiviso, prima ancora che tecnico culturale, con chi detiene le informazioni e con chi è chiamato ad esercitare il diritto di cronaca.

Su questo ci impegneremo, ma saremo altrettanto determinati nel denunciare e contrastare ogni tentativo di riproporre processi mediatici in spregio alle regole, ora anche contenute in un testo normativo, poste a tutela del principio di non colpevolezza.

Camera penale di Milano

Da lastampa.it il 5 giugno 2023. 

"Vorrei mandare un abbraccio alla madre di Alessandro, l'assassino. Signora, lei ha fatto un'intervista in cui dice 'perdonatemi, perché mio figlio è un mostro'. Sì, signora. Suo figlio è un mostro".

Lo ha detto Mara Venier, nella prima parte di Domenica In, in merito all'omicidio di Giulia Tramontano, ricordando l'intervista a La Vita in diretta della madre del fidanzato Alessandro Impagnatiello. Le parole hanno provocato molte critiche su Twitter, perché diversi utenti le hanno giudicate inopportune, in quanto provocano altro inutile dolore alla madre dell'omicida. 

Nel prosieguo del programma su Rai1 la conduttrice ha quindi precisato il senso delle sue parole: "Non volevo essere critica nei confronti della famiglia di Alessandro. Ho visto l'intervista della mamma a 'La vita in diretta' ed è stato straziante vedere questa povera mamma soffrire in questo modo".

"Se ho sbagliato le chiedo scusa, ma io sono vicina anche alla sua famiglia - ha proseguito -. Sta affrontando un dolore enorme: mi ha straziato dal dolore. Siamo vicini anche a lei, se ho sbagliato chiedo scusa, voglio smorzare subito le polemiche che girano".

Delitto Giulia Tramontano, Sebastiano Ardita come Mara Venier: tanti like ma piovono critiche. Parlando del delitto di Senago, l’ex consigliere del Csm attacca i benefici e le misure alternative. Le sue parole sono state acclamate sui social, ma avvocati e alcuni giudici non condividono. Angela Stella su L'Unità il 6 Giugno 2023

Non c’è dubbio che l’uccisione di Giulia Tramontano da parte del suo fidanzato Alessandro Impagnatiello, padre anche del figlio che la donna portava in grembo, rappresenti un delitto tra i più orribili che si possano immaginare.

Tuttavia stupisce molto la presa di posizione che sulla vicenda ha assunto il magistrato, nonché ex consigliere del Csm, Sebastiano Ardita: “Giulia Tramontano aveva 29 anni e tra 2 mesi avrebbe dato alla luce il suo primo figlio; invece è stata uccisa dal suo compagno, lei ed il bimbo che portava in grembo. Colpita a coltellate e poi infierendo sul suo corpo e provando a bruciarlo. L’assassino è reo confesso e fin da subito – sulla base della riforma cd Cartabia – potrà chiedere di avviare percorsi di giustizia riparativa (attraverso iniziative varie, magari chiedendo di incontrare i parenti della vittima). Se sarà condannato ed avrà qualche attenuante o beneficio (le attenuanti per la confessione, o i benefici per i percorsi di giustizia riparativa), tra liberazione anticipata e misure alternative/liberazione condizionale, dopo una decina di anni di carcere tornerà libero per rifarsi una vita, come è già accaduto per altri. Lei invece rimarrà sottoterra, viva solo nel ricordo e nel dolore dei suoi cari…vittima di un crimine efferato in un sistema penale che non fa più paura”.

Considerazioni di questo tipo in genere vengono fatte da persone con pulsioni giustizialiste, che sono solite commentare le vicende di cronaca nera sui social media senza conoscere i fatti e le regole di uno Stato di Diritto. Oppure da esponenti politici come Matteo Salvini o il sottosegretario di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro delle Vedove, ai quali piace ripetere come un mantra di essere “garantisti nel processo, ma giustizialisti nell’esecuzione penale”, perché “certezza della pena” vuol dire che la persona condannata deve scontare in carcere fino all’ultimo giorno di reclusione, senza sconti o benefici. Considerazioni di questo tipo ce le saremmo aspettate da persone come Mara Venier che domenica, mandando un abbraccio anche ai genitori dell’indagato, ha tenuto subito a precisare dinanzi a milioni di telespettatori che “sì, signora Impagnatiello, suo figlio è un mostro”, alimentando forse ancora di più l’odio social che si è scatenato su questa vicenda, anche nei confronti dell’ormai ex difensore dell’indagato, l’avvocato Sebastiano Sartori, che ieri ha rinunciato al mandato, reo di aver esercitato la sua funzione difensiva, come Costituzione pretende.

Ma leggere un j’accuse così duro nei confronti dei benefici di legge e delle misure alternative da un magistrato del calibro di Ardita, che per di più in passato ha anche ricoperto il ruolo di direttore generale del dipartimento detenuti e trattamento del DAP, e che pertanto dovrebbe riuscire a capire quanto siano importanti i percorsi trattamentali all’interno del carcere grazie ai quali la persona reclusa ha la possibilità di “tornare libera per rifarsi una vita”, ci lascia davvero sgomenti e senza parole, non foss’altro perché, in quanto magistrato, il dott. Ardita ha una grande responsabilità quando comunica i suoi pensieri.

Tanto è vero che il suo commento, apparso su Facebook e apprezzato da migliaia di utenti, ha dato subito la stura a giudizi molto pesanti nei confronti di Impagnatiello: “bestia”, “certi elementi devono marcire in carcere”, “Dovrebbero dargli l’ergastolo senza processo, un bastardo del genere non può avere nessuna attenuante”. Sia chiaro, di fronte a crimini orrendi e brutali siamo abituati a leggere reazioni di questo tipo, ma è opportuno che a scatenare questi istinti tribali sia un magistrato? Le parole del consigliere Ardita hanno fatto trasecolare anche alcuni suoi colleghi i quali, da noi interpellati, hanno preso nettamente le distanze da questa presa di posizione giudicata errata e inopportuna. Tra l’altro, un magistrato ci ha scritto: “La paura del sistema penale, quale strumento di prevenzione generale è proprio una bufala. Il resto è espressione tipica del populismo penale imperante. Mi dispiace, ma ricordavo un Ardita più lucido e pacato…”.

Non sono mancati anche commenti pubblici da parte di alcuni avvocati, tra cui Nicola Canestrini: “Mi stupisco che un magistrato strumentalizzi così biecamente una vicenda di cronaca”. Noi abbiamo raccolto il parere di Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione Camere Penali: “Le parole di Ardita sono una perfetta rappresentazione di cosa sia il populismo penale, cioè agitazione gratuita, pretestuosa e strumentale del sentimento di indignazione, di dolore, di condanna sociale, per condizionare e travolgere ogni regola del giudizio e del processo penale”.

“Per il populista, quale lui è – prosegue il leader dei penalisti – le regole del giudizio, che impongono al giudice di adeguare la pena al fatto ed al soggetto che ha commesso l’illecito, sono fastidiosi ostacoli sulla strada di una giustizia concepita unicamente come vendetta. È un mondo ideale tremendo, rozzo nelle argomentazioni, pericoloso rispetto ai sentimenti che rischia di suscitare, irrispettoso della cruciale funzione sociale del giudice e del processo in contraddittorio tra le parti. Uno spettacolo desolante, tanto più se inscenato da un magistrato. Un mondo che intendiamo combattere senza tregua, in nome ed in difesa dei valori fondanti del vivere civile”, conclude il vertice dell’Ucpi. Angela Stella 6 Giugno 2023

«Chi indossa la toga non può esprimersi come i giuristi da bar». Omicidio di Giulia Tramontano. Intervista all’avvocato Nicola Canestrini dopo le parole del magistrato Sebastiano Ardita. Valentina Stella su Il Dubbio il 5 giugno 2023

Il post del magistrato Sebastiano Ardita sul caso di Giulia Tramontano ha suscitato molte polemiche. Ne parliamo con l’avvocato Nicola Canestrini, referente nazionale per l'Italia del Legal Experts Advisory Panel (LEAP) di Fair Trials International.

Che ne pensa di quel post?

Ne sono disgustato. Intanto, prima di parlare di un caso concreto presentando un indagato come colpevole è non solo opportuno, ma giuridicamente necessario, aspettare la sentenza definitiva, dato che è noto come persino la confessione non sia affatto prova legale della colpevolezza. Mi stupisce poi che un magistrato ripeta delle parole che normalmente siamo abituati a sentire al bar, e da persone che non conoscono l’abc dello stato di diritto ed il funzionamento della giurisdizione. Un operatore del diritto dovrebbe conoscere i rischi per lo stato di diritto che la delegittimazione del ruolo del Parlamento e della legge comporta: è davvero incredibile che si sfrutti una vicenda di cronaca per criticare in termini generali istituti previsti dalla legge. Purtroppo l’ex consigliere del Csm pretermette completamente la valutazione che i suoi colleghi magistrati faranno sul caso concreto, dato che non esiste automatismo in termini di pena, come ci ricorda la Corte costituzionale, né ovviamente in termini di benefici. Mi ha fatto davvero molta impressione leggere il dottor Ardita, che naturalmente ha tutto il diritto di criticare ciò che non approva, anche istituti deflattivi o che rafforzano il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, ma farlo sulla pelle di una vittima con quelle parole temo che abbia solo alimentato l’emotività, e cioè la pancia giustizialista delle persone che sventolano la bandierina della certezza della pena erroneamente intesa come certezza del carcere.

Quanto da lui scritto non mette in discussione la cultura della giurisdizione che molti magistrati sbandierano, tenendo fuori poi gli avvocati?

La cultura della giurisdizione accomuna tutti gli operatori del diritto – magistrati e avvocati -, se per questa locuzione si intende la cultura del processo e di coloro i quali concorrono a realizzare la giurisdizione. Purtroppo troppe volte il concetto è usato per supportare i tentativi di magistrati inquirenti che, quando il collega giudicante non accetta la loro prospettiva, dubitano della legittimità delle loro decisioni, come avvenuto con quella famosa intervista di Gratteri sul Corriere della Sera.

Ardita termina il suo post dicendo che “il sistema penale non fa più paura”.

Il sistema penale non ha una matrice culturale di valenza educativa. Esso scopre gli autori di reato e li punisce secondo la funzione costituzionale della pena, che è retributiva ma soprattutto rieducativa. Chi sogna un sistema penale solo repressivo e vittimo-centrico deve appellarsi al legislatore, anche costituzionale. Sino a qual momento si metta il cuore in pace.

Lei parlava di vittimo-centrismo. Un grosso problema culturale e processuale.

Anche se spesso le vittime hanno più pietas di quanto si potrebbe immaginare, in generale la vittima ha tutto il diritto di chiedere la vendetta. La giustizia è un’altra cosa: ecco perché non si può lasciare alla vittima la decisione su quale sarebbe la giusta pena perché ti risponderebbe “occhio per occhio, dente per dente”. Ma come hanno capito i romani (e persino i longobardi che prevedevano un possibile risarcimento al posto della vendetta), una visione di quel genere crea disordine sociale. La giustizia deve avere un punto di vista altro rispetto alla vittima. Quest’ultima certamente può o deve avere parola, ma non le si può lasciare la facoltà di decidere la pena, perché non sarebbe mai sufficiente. Per quanto concerne la funzione deterrente della pena inviterei a guardare agli Stati Uniti, dove neanche la pena di morte riesce ad assolvere quello scopo.

C’è anche un problema culturale, giuridico ma anche linguistico rispetto al fenomeno del femminicidio?

Ci hanno raccontato che introducendo il reato specifico il fenomeno sarebbe diminuito. Come se il problema della violenza sulle donne si dovesse risolvere con l’inasprimento delle pene e col diritto penale. Ovviamente non ha funzionato perché come diceva lei è un problema culturale, e questo un magistrato dovrebbe saperlo. Quando la politica non sa cosa fare inasprisce le pene, certificando così la propria incompetenza: alla fine non serve a niente. Lo usano i politici per ottenere facili consensi ma poi si rileva una foglia di fico, in quanto quello che davvero occorrerebbe fare è una seria prevenzione mediante una certosina azione culturale, che però non si fa perché richiede competenza, costa, non porta consensi, non porta a titoli sui giornali, non ha effetto “show”.

Estratto dell’articolo di Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” il 5 giugno 2023.

Sono le 7.30 di mattina di giovedì scorso. I magistrati hanno appena firmato il fermo per omicidio aggravato, procurato aborto e occultamento di cadavere. I carabinieri stanno uscendo dalla caserma di Senago per scortare in carcere Alessandro Impagnatiello. 

Ha confessato, riempiendo sette pagine di verbale, d’aver ucciso Giulia e di aver tentato di bruciare il corpo. Non dorme da 24 ore. Prima di salire in macchina si ferma davanti a una vetrata. Si specchia nel riflesso e sistema minuziosamente il cappellino da baseball beige di sbieco. Sulle ventitré. 

Per i magistrati quello del barman 30enne è il profilo di un «narcisista manipolatore». Un bugiardo seriale, che crea mondi e vite parallele. Abile a giocare sui sensi di colpa di partner e interlocutori. […]

Ai carabinieri si presenta come «responsabile del bar dell’hotel Armani». Sul web un video lo mostra, impeccabile, con movimenti perfetti ed essenziali, mentre serve cocktail dietro al bancone. La voce è calma, pulita. Agli amici racconta di conoscere vip e calciatori. Ai magistrati dirà d’avere ucciso per lo stress che quella situazione gli aveva creato, anche sul lavoro. Perché, dopo aver saputo dei suoi tradimenti, lo chiamavano «lurido».

Durante la confessione è impassibile. Prima di iniziare la verbalizzazione, il pm chiede se desideri parlare con il suo avvocato. «Sono pronto».

Vuole un bicchiere d’acqua? «Incominciamo, dai». Parte spedito, parla senza pause, non piange. Prende tempo solo quando le domande degli inquirenti chiedono dettagli sugli orari e interrompono il suo monologo. È seduto, le braccia conserte. Quando arriva alle parti più crude distende la schiena, impettito. Alle dieci di sera di mercoledì Impagnatiello si era presentato in via Novella alla guida del suo T-roc bianco. Era rimasto bloccato in macchina per diversi minuti. Fuori un muro di flash e telecamere. 

Lui sembrava parlare con qualcuno al vivavoce. Non ha mai cercato di nascondersi.

Anche se tutta Italia già sapeva che era indagato per la morte di Giulia e del suo piccolo. Addosso una tuta grigia.

In testa il cappellino […] e sopra il cappuccio di un pesante giubbotto beige con il pelo. Era uscito di casa vestito così fin dalla mattina, nonostante gli oltre 26 gradi. «Ma che, è vestito come Matteo Messina Denaro?», sobbalza un cameramen. La situazione non permette risate. Però lo pensano in tanti. All’uscita dalla casa, ai flash s’era poi aggiunta una piccola folla di abitanti e ragazzi. Erano partiti calci contro la fiancata e urla: «Assassino!»; «Pezzo di m...».  È stato in questo momento, mentre guidava per i 500 metri che lo separavano dalla caserma, che è avvenuto il crollo. Reality finito, fine dello spettacolo. […]

CASO TRAMONTANO. Quei verbali dati in pasto al pubblico per togliere i diritti al “mostro”. Ecco come il diritto di cronaca viene sostituito dalle regole del mercato, dalla volontà di assecondare pancia e istinti peggiori, cannibalizzando ancora una volta il corpo di Giulia. Simona Musco su Il Dubbio il 6 giugno 2023

Stavolta ci tocca dare ragione al Fatto Quotidiano: privacy e garantismo, nel caso Tramontano, sono andati a farsi benedire. Da giorni assistiamo infatti alla pubblicazione voyeuristica e dettagliata del delitto di Giulia e del bambino che portava in grembo, ad opera di un uomo che diceva di amarla. Una storia non nuova, purtroppo.

E da giorni leggiamo sui giornali, tutti ben sincronizzati, ogni particolare: le dichiarazioni della madre del presunto omicida, quelle «dell’altra» e gli sms scambiati nelle ore convulse che hanno preceduto e seguito il delitto; fino ad arrivare al modo con cui Alessandro Impagnatiello si aggiusta il cappellino specchiandosi dopo l’interrogatorio. Ogni dettaglio, ogni singola orribile immagine di una storia che ha scioccato tutti, senza alcuna distinzione, è finita in pasto all’opinione pubblica, senza aggiungere nulla all’orrore. Con un solo scopo: rendere ancora più odioso, più detestabile, un uomo che non ha alcun bisogno di aiuto per essere considerato malvagio.

Per fortuna non saremo noi a doverlo giudicare, non saranno i genitori, i familiari o gli amici di Giulia, né sarà Mara Venier o qualche altro opinionista a doverci dire come sono andate le cose. Saranno dei giudici, seguendo le regole dello Stato di diritto, che grazie al cielo non tengono conto del nostro disprezzo e della nostra mancanza di empatia. C’è da esserne grati e bisognerebbe essere terrorizzati dal tentativo di “mostrificare” un uomo che fino all’altro ieri era considerato perfettamente normale. Un’operazione di deumanizzazione che altro non è se non un tentativo di esorcizzare il rischio di poter diventare noi stessi dei mostri.

Un esorcismo di massa che passa attraverso la violazione delle regole del diritto, agevolato dalla pubblicazione di verbali assolutamente segreti e il tentativo di privare il mostro del diritto costituzionale di difendersi, il tutto in una fase ancora delicatissima delle indagini. Quel diluvio di dettagli ha favorito il processo parallelo celebrato ai tavolini dei bar, dove tra uno spritz e un caffè ognuno si sente autorizzato a disquisire di aggravanti e premeditazione.

“Ecco che i buonisti lo faranno uscire”; “non pagherà nulla”; “vedrete che sarà libero tra qualche anno”, si sente e si legge ovunque. Il tutto senza uno straccio di elemento che non sia quello sapientemente selezionato, imburrato e infornato, pronto da servire in pasto al lettore. Una violazione della deontologia, dunque, dove il diritto di cronaca viene sostituito dalle regole del mercato, dalla volontà di assecondare pancia e istinti peggiori, cannibalizzando ancora una volta il corpo di Giulia, che tutto questo spettacolo lo sta subendo senza poter più dire nulla.

Ci siamo abituati ai funerali in diretta, alle gente in manette davanti agli obiettivi, alle macchine fotografiche puntate con freddezza su un padre che piange sul corpo del figlio appena ritrovato. Ci siamo abituati a tutto. È il diritto di cronaca, risponderà chiunque si tenti di interpellare per problematizzare la questione. Che si trasforma in un problema che va ben oltre la deontologia: è proprio trasformando tutto in un film dell’orrore che smettiamo di interrogarci sulle ragioni che stanno dietro a delitti come questo. Ci anestetizziamo. E produciamo soltanto altre vittime.

L'assassino di Giulia. Alessandro Impagnatiello, il mostro e la gogna dei carabinieri per mostrarlo come un trofeo. Dieci lunghi minuti è rimasto Alessandro fermo nelle sua auto bloccata davanti al garage dalle forze dell’ordine, assediato dai giornalisti che gli urlavano ”vuoi dire qualcosa?”, bersagliato dai flash e dalle telecamere. Passerella indegna. Tiziana Maiolo su L'Unità il 4 Giugno 2023

No, la gogna non si fa. Non c’è bisogno di ricordare Enzo Tortora, perché il paragone sarebbe offensivo nei confronti di chi è diventato suo malgrado il simbolo dell’ingiustizia italiana. Ma quello che è stato inflitto l’altra sera a Alessandro Impagnatiello, assassino e reo confesso, ricorda troppo l’arresto di Massimo Bossetti, che si è sempre dichiarato innocente, e che fu braccato come un animaletto impaurito ed esibito come trofeo di caccia dalle forze dell’ordine.

I carabinieri l’hanno rifatto, e non va bene. Dieci lunghi minuti è rimasto Alessandro fermo nelle sua auto bloccata davanti al garage dalle forze dell’ordine, assediato dai giornalisti che gli urlavano ”vuoi dire qualcosa?”, bersagliato dai flash e dalle telecamere. Indegna passerella. Potevano far sgomberare e non l’hanno fatto. L’hanno lasciato lì, mezzo incappucciato con le mani sul volante, preda di ogni indecente curiosità.

Volete che vi diciamo bravi perché avete risolto il caso? Era vostro dovere. E il Caino che avevate tra le mani lo dovevate rispettare. Il pezzo più difficile da scrivere. Perché quel barman fighetto che lavora da Armani, che viene chiamato “lurido” dai colleghi e poi ammazza la compagna e il bambino, è quello che noi donne vorremmo strozzare con le nostre mani. Una vera pena di morte da applicare direttamente e subito. Poi però c’è il mondo con le sue regole, e la giustizia che deve applicarle. Parrebbe sfortunato (ma non lo è) Alessandro l’assassino, a ritrovarsi dentro un mondo ostile fatto tutto di donne.

Sembra la nemesi, pronta a colpire uno che le donne non le ama, che forse le teme, ma che non gli piacciono davvero. Il fatto che lui paia voler lasciare sempre una traccia di sé nel loro corpo è lì a dimostrarlo. Ne incontra una a vent’anni circa e lei è subito incinta. Sta con Giulia e lei porta avanti una gravidanza fino a oltre il settimo mese, prima che lui tolga la vita a tutti e due, a lei e al bambino. La tradisce con un’altra, ed ecco ancora una gravidanza, che lei decide di interrompere. Tre donne e le loro scelte. E lui pare solo uno che si esibisce ma non decide.

“Un mostro”, lo definisce la madre, che non riesce neanche a tenere in vita quel cordone ombelicale che tutto capisce e perdona. E poi gli cascano addosso tre magistrati, tutte donne, le due pm, procuratore aggiunto Letizia Mannella e Alessia Menegazzo, e poi la gip Angela Minerva. E tutte fanno giustizia, con immediate differenze di giudizio e la prefigurazione di uno scontro processuale, che si giocherà tutto sulla premeditazione del delitto. E’ possibile che tutte queste donne, prima di tutto la sorella e la mamma di Giulia, la ragazza assassinata con il suo bambino (ora più che mai “suo” e di nessun altro), e poi l’”altra” che ha saputo essere solidale con la rivale d’amore, e poi queste tre magistrate e anche la madre del “mostro”, siano le più titolate all’odio, almeno in un angolino dei propri sentimenti.

Pure non sono loro ad andare sopra le righe, a uscire dalle regole della società civile. Anche quando nella conferenza stampa la pm Alessia Menegazzo sottolinea con forza la (controversa) questione della premeditazione, e Letizia Mannella si rivolge alle donne invitandole a non accettare mai l’ultimo appuntamento, quello del “chiarimento”. E poi anche nell’ordinanza della gip Angela Minerva, la quale accetta la spiegazione di Alessandro e della sua condizione di stress per una situazione -la doppia vita sentimentale e la disistima dei colleghi che ne erano a conoscenza- e non ne fa oggetto di giudizio moralistico, ma si attiene freddamente alla norma e alla giurisprudenza. Tutto questo mostra il clima di rispetto.

Il rispetto delle regole e il rispetto della persona. Ancora una volta ci troviamo al cospetto di un Caino. Di un trentenne destinato a passare dai locali alla moda della Milano più scintillante a una possibile condanna all’ergastolo. In mezzo ci saranno i processi, naturalmente. Per ora c’è una piena ammissione dell’omicidio, che prelude in genere a una condanna. Che non significa soltanto la cella e il carcere, ma la vita, i prossimi venticinque-ventisei anni. Questo va rispettato. Tutte queste donne lo hanno fatto. Ma non possiamo apprezzare il trattamento da preda che gli hanno riservato i carabinieri con la gogna mediatica dell’altra sera. Questo non si fa. Tiziana Maiolo 4 Giugno 2023

La lettera di addio a Giulia e Thiago: «Saremo sempre tuoi zii e nonni». Storia di Fulvio Bufi Corriere della Sera l'11 giugno 2023.

Una famiglia. Papà Franco e mamma Loredana, e i loro figli, Chiara Marco. E un’altra figlia con il suo bambino. I primi quattro sono seduti sulla panca più vicina all’altare ricoperto di fiori. L’altra figlia è lì davanti a loro, chiusa nella bara circondata dalle ghirlande bianche. È Giulia l’altra figlia. E nel suo corpo c’è ancora Thiago, che sarebbe nato in estate e sarebbe stato un principe per i suoi nonni giovani e per gli zii giovanissimi, e avrebbe reso felicissima una famiglia già felice.

E invece adesso eccola qui la famiglia Tramontano, senza più Giulia e senza mai Thiago. Eccola nella chiesa della parrocchia di Santa Lucia, colma soltanto di parenti e di dolore, in questa Sant’Antimo così lontana da quella Senago dove Giulia era andata a vivere con Alessandro, e con lui avrebbe voluto creare una famiglia che somigliasse alla sua, una famiglia unita e ottimista. E invece quello le ha squarciato a coltellate il futuro, ha impedito a Giulia di vivere e a Thiago di nascere. È successo tutto in fretta: la scomparsa della ragazza, l’arresto di Alessandro Impagnatiello, il ritrovamento del corpo, le confessioni contraddittorie dell’assassino, gli inevitabili passaggi tecnici dell’inchiesta giudiziaria.

Ora nella chiesa di Santa Lucia è come se i genitori e i fratelli di Giulia potessero finalmente fermarsi. Dopo la speranza e poi lo sconforto, la corsa a Milano e poi l’attesa che il magistrato autorizzasse la restituzione delle spoglie. Adesso la famiglia è tutta qui, davanti al vescovo di Aversa Angelo Spinillo che è venuto a officiare il rito funebre e parla del «martirio di Giulia, che portava la vita dentro e ora si rivolge a noi con il suo silenzio». Parla anche di perdono, il vescovo, prima di salire sull’altare. E dice che «il perdono ha un punto d’appoggio insostituibile: bisogno chiederlo». Nemmeno lui, nemmeno la Chiesa possono regalare niente a Alessandro. Che a Sant’Antimo qualcuno si augura ad alta voce «che muoia presto», ma è un sentimento di rabbia neppure tanto diffuso, o almeno neppure tanto espresso.

E comunque non è questo il momento di parlare di lui. Non lo fa Chiara quando, verso la fine della funzione, va al microfono sull’altare e legge una lettera in cui si rivolge direttamente alla sorella e al nipotino che non nascerà. Il parroco Salvatore Coviello riferisce quanto le parole della ragazza siano state «forti ed emozionanti», in particolare nei passaggi dedicati all’entusiasmo con il quale in casa Tramontano si attendeva l’arrivo di Thiago, e alla gioia dei genitori e dei fratelli di Giulia di poter essere «bravi nonni e bravi zii». Nel suo dialogo con la sorella, Chiara le ha fatto una promessa, racconta ancora il parroco, e quasi si commuove: «Le ha detto che loro troveranno un altro modo per essere nonni e zii di Thiago».

Intanto all’uscita dalla chiesa trovano almeno cinquecento persone che hanno rispettato la volontà della famiglia affinché la funzione fosse strettamente privata, ma ora sono lì per salutare Giulia con un applauso che sembra interminabile e far sentire ai suoi genitori e ai fratelli tutto l’affetto dei loro concittadini. Hanno portato i palloncini bianchi e tanti indossano le magliette con stampata su la foto della ragazza scattata poco tempo fa a Ibiza, in cui si vede tutta la bellezza di Giulia e il suo pancione. Sui muri sono stati affissi i manifesti con altre foto e una scritta: «Il complimento più bello che un uomo possa fare a una Donna è il Rispetto. Giulia per sempre nei nostri cuori».

"Giulia era la più brillante della classe". A Sant'Antimo l'ultimo addio di parenti e amici. Una cerimonia privata per i funerali della 29enne uccisa incinta al 7 mese nella parrocchia Santa Lucia. Presenti anche il sindaco di Senago dove la giovane viveva, oltre al primo cittadino del suo paese d'origine. Ignazio Riccio il 12 Giugno 2023 su Il Giornale.

Le esequie di Giulia Tramontano, la 29enne assassinata con trentasette coltellate dal compagno Alessandro Impagnatiello lo scorso 27 maggio a Senago, nel Milanese, si svolgono in forma privata, con ingressi contingentati per i familiari e le istituzioni, nella chiesa Santa Lucia di via Roma a Sant’Antimo, la città d’origine della giovane donna che era incinta di sette mesi. Nel giorno dei funerali, come promesso, il sindaco Massimo Buonanno ha proclamato il lutto cittadino. La sorella di Giulia Tramontano, Chiara, aveva scritto ancora una volta sui social media il suo stato d’animo. “Grazie a tutti per l'affetto che ci avete dimostrato in questi giorni atroci. I vostri pensieri ci hanno inondato di amore e vicinanza. Ora, però, il momento dell’ultimo saluto intimo e straziante a Giulia e Thiago e vorremmo viverlo insieme ai parenti e agli amici più stretti”.

Una richiesta accorata quella della famiglia Tramontano che ha tenuto un profilo basso fin dal giorno della scomparsa della ragazza, vivendo il dolore indescrivibile con dignità e discrezione. Anche il sacerdote della parrocchia di Santa Lucia Salvatore Coviello era preoccupato dalla possibile affluenza di persone e di curiosi. “La chiesa – aveva detto– non riuscirebbe a contenere tutti coloro che in questi giorni hanno mostrato solidarietà alla famiglia Tramontano. Non so come faremo a gestire la cosa, ma è necessario rispettare la volontà della famiglia Tramontano”. Nei manifesti funebri che tappezzano Sant’Antimo c’è una foto di Giulia che sorride spensierata. “Sono stati strappati all'amore dei propri cari Giulia e Thiago Tramontano – c’è scritto –. Ne danno il triste annuncio i genitori e nonni Loredana e Franco, i fratelli e zii Chiara e Mario, la nonna Giulia, gli zii ed i parenti tutti". Dopo la fiaccolata di pochi giorni fa, la popolazione di Sant’Antimo ha dimostrato nuovamente la propria compostezza verso una giovane donna e il bambino che portava in grembo diventati simbolo di dolore e sofferenza. Poco prima della messa un familiare ha ricordato la ragazza. "Giulia era dolce - ha detto - chi l'ha uccisa con tutte quelle coltellate è un folle. Poteva lasciarle tutte e due e invece... Non la vedevo da un po' di tempo". In lacrime le due docenti delle medie. "Giulia era solare e piena di vita - hanno ricordato - non meritava di finire in questo modo. Era tra le più brillanti della classe". A confermarlo è una compagna di scuola. "È vero - ha affermato con un nodo alla gola - non riesco a crederci, sono venuta in chiesa per salutarla un'ultima volta".

Giulia verrà ricordata anche a Senago, dove si era realizzata professionalmente e dove aveva creato una rete di amicizie solide e sincere. Venerdì 16 giugno, infatti, nella cittadina del Milanese si svolgerà una marcia silenziosa in memoria della donna e di suo figlio Thiago nei luoghi dove si è verificato il femminicidio. Proprio nelle vicinanze dell’anfratto dove è stato ritrovato il corpo di Giulia è stato realizzato un murale dedicato alla vittima di violenza di genere e al bimbo mai nato.

Al termine della cerimonia funebre, sotto un cielo grigio e piovoso, il feretro di Giulia ha ricevuto un lungo applauso dalle persone assiepate all'esterno della chiesa. Le associazioni e le scuole del territorio hanno lanciato in cielo i palloncini bianchi, così come fu fatto al termine della fiaccolata. Il corteo si è poi avviato verso casa della famiglia Tramontano, dove è stato tributato l'ultimo saluto alla ragazza, prima di raggiungere il cimitero cittadino per la sepoltura.

Il quadro, le impronte e la bottiglia: "Il conte aprì al killer in accappatoio". Da oltre 25 anni l’omicidio del conte Alvise Nicolis Di Robilant è avvolto nel mistero. Il nobile fiorentino venne ucciso la sera del 16 gennaio 1997 con dieci colpi alla testa. Diverse le piste battute dagli inquirenti, il colpevole non venne mai trovato. Rosa Scognamiglio e Francesca Bernasconi il 30 Maggio 2023 su Il Giornale.

 Omicidio nella nobiltà

 Quegli oggetti legati da un mistero

 Il suono del pianoforte

 Le piste degli investigatori

A Firenze era una fredda sera di gennaio del 1997. Le note di un pianoforte volavano leggere tra le vie del centro, mentre un gruppo di nobili fiorentini stava iniziando a cenare al Circolo dell’Unione, uno dei club più esclusivi della città. Proprio nelle stesse ore, nel suo appartamento a Palazzo Rucellai, veniva ucciso il conte Alvise Nicolis di Robilant. "Un delitto che farà sentire la sua eco in tutto il jet set internazionale", anticipava l’Unità il giorno dopo la morte del conte. Diverse le piste battute dagli inquirenti, da quella dell’antiquariato clandestino, fino a quella dell’omosessualità e dell’amore passionale. Ma tutte si rivelarono un vicolo cieco. E, dopo decenni, il caso della morte del conte di Robilant rimane un mistero irrisolto.

"Gli investigatori dell'epoca presero in considerazione diverse possibilità. Di certo non giocò a favore delle indagini l'assenza di tracce evidenti dell'assassino sulla scena del crimine. Non solo: anche l'arma del delitto - un oggetto contundente - non è mai stata ritrovata", spiega a ilGiornale.it il giornalista di Panorama e scrittore Antonio Rossitto, autore del libro "Sangue blu. Delitti e misteri dell’alta società italiana".

Il conte Alvise Di Robilant

La sera del 16 gennaio 1997, il conte Alvise Nicolis Di Robilant era atteso al Circolo dell’Unione, dove si radunavano i nobili fiorentini. Alle 20.30 infatti era prevista una cena, durante la quale sarebbero stati presentati i nuovi soci. Il conte aveva assicurato la sua presenza. Ma la sua sedia rimase vuota. Parve strano a tutti che il conte fosse mancato a una serata così importante e che, cosa ancora più singolare, non avesse chiamato per disdire la sua prenotazione.

Alvise Di Robilant era nato a Bologna nel 1925. Secondo il racconto fatto ai tempi da Repubblica, il conte, conosciuto da tutti a Firenze e definito "un vero gentiluomo pieno di charme", apparteneva a una prestigiosa famiglia della nobiltà veneziana. Aveva lavorato nel campo dell’arte e per alcuni anni era stato amministratore della sede fiorentina della casa d’aste Sotheby’s. Poi, da quando Londra aveva chiuso la sede fiorentina, il conte aveva continuato a rimanere in quel mondo come esperto.

"Alvise di Robilant era un uomo riservato, amico di molti aristocratici fiorentini e imprenditori - aggiunge Rossitto - Tant'è che al suo funerale parteciparono alcune personalità di spicco del jet-set italiano. Ed è il motivo per cui la sua morte, oltre al fatto che fosse avvenuta in circostanze drammatiche, suscitò grande clamore mediatico".

Omicidio nella nobiltà

Il motivo della sua assenza alla cena al Circolo dell’Unione venne alla luce il giorno seguente. Erano circa le 16.30 del 17 gennaio 1997. Rosa Ingrisei, moglie del portiere di palazzo Rucellai, salì le scale fino all’appartamento del conte, dove si recava settimanalmente per fare le pulizie. Una volta arrivata, vide che la porta era stata lasciata aperta, ma non si stupì: succedeva spesso e lei ci aveva fatto l’abitudine. Più strano le sembrò il fatto che il conte avesse lasciato anche le luci accese, ma la donna continuò ad avanzare nel corridoio dell’appartamento.

Fino a quando, nel salotto, vide disteso ai piedi del divano e avvolto in un leggero copriletto il corpo senza vita di Alvise Di Robilant. Sotto la testa si estendeva una grossa macchia di sangue, di cui erano sporchi anche i muri, il divano, la televisione e una tenda. Il conte Di Robilant era stato ucciso.

Come riporta Valentina Rossi nel libro "I delitti di Firenze", l’autopsia rivelò che "le caratteristiche del corpo contundente - con cui venne colpito il conte - sono mal definibili, ma esso deve presentare almeno una porzione rotondeggiante, o a spigolo, della lunghezza di circa 5-6 cm, oltre a essere dotato verosimilmente di un angolo vivo". Dall’appartamento mancava solamente un’anatra di vetro, ma gli inquirenti ritennero che la suppellettile non potesse essere l’arma del delitto, che identificarono invece come un oggetto lungo, probabilmente di metallo. Gli inquirenti non riuscirono mai a risalire allo strumento utilizzato per uccidere il conte Di Robilant.

L’Unità rivelò anche che, secondo l’autopsia, "i primi colpi vennero vibrati sulla fronte e poi, quando il conte era accasciato per terra tramortito, sono state sferrate le ultime botte mortali sulla nuca". Quasi certamente, il conte non fece in tempo nemmeno a difendersi: "il cadavere presentava lievissime lesioni di difesa, soltanto qualche livido sulle spalle e sulle braccia. L’assassino deve aver alzato il corpo contundente senza che di Robilant se ne sia accorto".

Quegli oggetti legati da un mistero

Quando i carabinieri arrivarono nell’appartamento si trovarono di fronte una confusione quasi irreale. I cassetti infatti erano alla rinfusa, una lampada del soggiorno era rovesciata a terra, ma qualcosa non tornava: poco distante dal corpo del conte, una pila precaria di libri era rimasta in equilibrio sul tavolo, i cuscini del divano erano al loro posto e le carte di credito del conte erano state disposte ordinatamente in fila. Agli inquirenti sembrò che quel disordine fosse stato creato ad arte per depistare le indagini.

Più che il disordine, ad attirare l’attenzione dei carabinieri furono alcuni dettagli. Prima fra tutti un’impronta di cinque dita insanguinate lasciata su una tenda di una finestra aperta. L’assassino poteva essere fuggito da lì? Impossibile. La finestra infatti affacciava su uno strapiombo da cui era impossibile fuggire. L’impronta però avrebbe comunque potuto rappresentare un indizio importante: la sua ricostruzione sarebbe potuta servire per incastrare l’assassino. Ma, al tempo, le tecniche scientifiche non erano sviluppate come ora e ricavare un’impronta nitida dalle tracce lasciate su una superficie porosa come quella della tenda era molto improbabile.

Nell’appartamento vennero rinvenuti anche un assegno da un milione e 400mila lire e una bottiglia di spumante. La presenza dello spumante sarebbe passata inosservata, se il vino non fosse stato di una marca non consona allo stile di vita del conte.

In camera da letto poi altri due oggetti attirarono l’attenzione degli inquirenti. Il computer del conte infatti era stato danneggiato: lo schermo era stato rotto. Forse l’assassino voleva nascondere qualcosa contenuto nel computer. Inoltre il quadro di san Girolamo, a cui Alvise Di Robilant teneva tanto e che aveva appeso sopra il letto, era stato sfregiato con un lungo taglio. Possibile che l’assassino avesse voluto colpire il conte anche tramite gli oggetti a cui era più affezionato. Per gli inquirenti, questi oggetti rimasero avvolti da un mistero insoluto.

Il suono del pianoforte

Indagando sulle ultime ore di vita del conte, emerse un altro dettaglio interessante, che si sviluppava attorno alle note di un pianoforte. Per capire cosa fosse successo la sera del 16 gennaio 1997, gli investigatori interrogarono gli abitanti del numero 18 di via della Vigna Nuova. Spesso il conte Alvise Di Robilant suonava il suo pianoforte e gli altri inquilini di palazzo Rucellai sentivano le note musicali provenire dal suo appartamento.

Anche quella sera le note del piano non erano mancate. A rivelarlo, come spiega anche una puntata di Enigma, era stata la contessa Barbara Rucellai, che dichiarò di aver sentito, prima delle 20, qualcuno che suonava Bach al pianoforte. Lei era convinta che a premere i tasti bianchi e neri fosse stato Alvise Di Robilant, ma ricordò anche di aver pensato che in quelle note c’era qualcosa di insolito: il tocco non era quello di sempre e il conte sembrava suonare peggio del solito.

Potrebbe essere allora che a suonare il pianoforte quella sera non fosse stato Alvise Di Robilant, ma il suo assassino? Una domanda che passò anche nella mente degli inquirenti, che infatti cercarono di individuare le impronte sulla tastiera, per capire se corrispondessero a quelle del conte o se potessero collocare un’altra persona nell’appartamento a Palazzo Rucellai. I rilievi scientifici diedero però un risultato sorprendente: sui tasti non venne rilevata alcuna impronta, nemmeno quelle del conte. Ma sicuramente qualcuno aveva suonato. L’assassino quindi aveva avuto cura di ripulire l’appartamento dalle proprie impronte.

Le piste degli investigatori

Il movente dell’omicidio rimane un dubbio irrisolto, ma nel 1997 gli inquirenti seguirono diverse piste. Prima fra tutte, come precisò anche il programma Blu Notte di Carlo Lucarelli, quella di un furto finito male. Ma dall’appartamento non mancava nulla, a parte quell’anatra di vetro inizialmente sospettata di essere l’arma del delitto. Inoltre il disordine trovato nella casa del conte sembrò essere un presunto tentativo di depistaggio. Per questo l’ipotesi del furto finito male venne scartata in breve tempo.

A catturare l’attenzione degli inquirenti fu un altro dettaglio. Quando è stato ritrovato, il conte indossava solamente un accappatoio. Impossibile che fosse andato ad aprire a uno sconosciuto in quelle condizioni: "Gli investigatori - sostenne l’Unità - dalla ricostruzione della scena di questo misterioso omicidio, si sono convinti che il conte Alvise di Robilant fosse in confidenza con chi lo ha ucciso. Altrimenti, dicono, non lo avrebbe ricevuto indossando soltanto quella vestaglia corta di cotone". Il conte forse "si era appena fatto una doccia ed era in procinto di vestirsi per andare a cena quando è suonato il campanello della porta. Il conte ha così aperto l’uscio di casa ad una persona che sicuramente, secondo gli inquirenti, conosceva e che ha fatto entrare in casa con tranquillità".

"Mi sono tolto un peso". E il filippino uccise la contessa

Inoltre il fatto che la porta non fosse stata forzata, la mancanza di segni di lotta nell’appartamento e quel copriletto posizionato sul corpo come per un gesto di pietà fecero pensare agli inquirenti che Alvise di Robilant conoscesse il suo assassino. Per questo un’altra delle piste battute fu quella sentimentale: l’omicidio avrebbe potuto nascondere un movente passionale. Così vennero sentite le donne frequentate dal conte e, in particolare, la sua ultima compagna ufficiale, la principessa Livia Colonna che, però, per quella sera aveva un alibi. Anche dall’ipotesi passionale non emerse nulla.

La principessa, che sosteneva di essere anche una sensitiva, indirizzò però gli inquirenti su una pista che era già stata in parte ipotizzata: quella dell’antiquariato clandestino. Si pensò che il conte, esperto di arte, fosse implicato in qualche giro clandestino e che quella sera fosse in attesa di un suo compratore o di un suo contatto. Ma questa ricostruzione stonava con l’abbigliamento del conte.

"A parer mio, sono due le ipotesi probabili - spiega Rossitto - La prima è che l'omicidio sia maturato in un contesto sentimentale o affettivo. Il fatto che il conte avesse aperto la porta di casa all'assassino, per giunta in accappatoio, fa pensare a una persona con cui avesse una certa consuetudine. In tal senso, è ipotizzabile che tra i due ci sia stato un diverbio poi culminato tragicamente. Forse un delitto d'impeto”. Il giornalista non esclude un’altra pista: “quella relativa all'attività lavorativa del conte. Si occupava di arte e per alcuni anni era stato amministratore della sede fiorentina della casa d’aste Sotheby’s. Il fatto che l'assassino abbia sfregiato uno dei quadri a cui Alvise di Robilant teneva particolarmente potrebbe essere indicativo di un delitto a sfondo, per così dire, economico. Una questione d'affari che poi ha avuto un risvolto personale".

Si ipotizzò anche che Alvise di Robilant potesse avere delle frequentazioni omosessuali segrete. Per valutare questa quarta ipotesi, la procura ordinò un tampone orofaringeo, per rilevare eventuali tracce biologiche di una seconda persona. I risultati però diedero esito negativo: le tracce trovate appartenevano al conte. Parenti e amici del conte negarono la possibilità che Di Robilant avesse relazioni omosessuali e inoltre, se fossero stati clandestini, gli incontri non sarebbero certo avvenuti a palazzo Rucellai, col rischio di essere scoperti. Così anche quest’ultima pista si rivelò un vicolo cieco, e il mistero restò tale. "Forse - conclude Rossitto - se gli inquirenti dell'epoca avessero avuto a disposizione gli strumenti tecnici che ci sono oggi, questa storia avrebbe avuto un risvolto diverso".

Quell’ ultimo bacio al cianuro tra Maria Donata e Antonio. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 6 Giugno 2023

Lei aveva 15 anni e dalla Basilicata aveva seguito la famiglia a Torino. Lui era sposato. Si conobbero in fabbrica. Un amore impossibile. Durante il processo, alla domanda se lui avesse provato a suicidarsi, il caporeparto rispose: «Davvero non lo so, non me lo ricordo»

Maria Donata sognava, come i suoi, una vita migliore. Aveva seguito la famiglia a Torino nel 1970 da un paesino in provincia di Potenza. Era la maggiore di tre sorelle, figlia di un operaio e anche per lei, in attesa di una svolta, c’era un lavoro pagato poco e scomposto in turni di pulizie. L’avevano assunta in un’azienda di galvanica al fondo della sua strada, in via Durando. Un caporeparto della ditta si chiamava Antonio, originario di Ascoli. Di anni, ne aveva quasi il doppio; sposato, senza figli, non troppo felice della sua vita, quella ragazzina in reparto l’aveva notata da subito e avevano fatto amicizia. A casa, Maria Donata iniziò a dire che in fabbrica c’era un sacco di lavoro e servivano straordinari festivi.

Le scuse in casa

 Con la medesima scusante, Antonio lasciava a casa la moglie e i due si incontravano davanti ai cancelli. Dove andassero e cosa facessero, non si sa se non per le vaghe parole di lui, unico testimone della vicenda: qualche passeggiata mano nella mano. Alcune mezze giornate di evasione dal lavoro e da un’esistenza sempre uguale. «Parlavamo di noi, del nostro amore. Ci scambiavamo qualche bacio ogni tanto». Quelle ore sospese non avevano futuro; il segnale di stop, quando in entrambe le case iniziò a sollevarsi il sospetto di una relazione sottotraccia e uno zio di lei lo avvicinò, chiedendogli se fosse il caso che frequentasse una ragazzina. 

Lei era giovanissima

Quindicenne lei, sposato lui, non si poteva proseguire nei sotterfugi. La storia tragica di Maria Donata si giocò in questo tentativo di riparare una situazione ormai compromessa; lui invaghito di lei e lei di lui, lui adulto e conscio della sua responsabilità nei confronti di una adolescente, lei tormentata perché ancora incapace di gestire con razionalità un sentimento travolgente. Il primo dicembre del 1971, poco dopo pranzo, il titolare della ditta trovò Antonio semincosciente sul pianerottolo dello stabile. Aveva delle bruciature intorno alla bocca, si lamentava. L’ambulanza se lo portò via al Cto mentre, nel seminterrato, giaceva il corpo esanime della ragazza. Quando la trovarono, era morta da un po’. 

Il sospetto dei medici

I medici capirono subito che non si trattava di morte accidentale ma di avvelenamento da cianuro di potassio e avvertirono la polizia, che piantonò Antonio in ospedale. Ristabilitosi piuttosto alla svelta, l’uomo mise a verbale la sua versione dei fatti: «Ci volevamo bene ma la nostra storia non poteva continuare. Il nostro amore non aveva futuro, avevamo tutto il mondo contro ed era meglio morire, entrambi. Abbiamo deciso di farlo dandoci l’ultimo bacio». Il pubblico ministero di turno lo indagò per omicidio volontario premeditato e la stampa lanciò la storia del bacio della morte degli amanti clandestini. 

Il processo

Fino al processo, celebrato in un periodo in cui si affacciavano le lotte sulle libertà personali e le campagne per abolire leggi da Stato etico, che ancora puniva condotte private come l’infedeltà. Su tutto, la tragedia di una ragazza né bambina né grande, appena uscita dall’età di Lolita, troppo vecchia per le giostre e troppo giovane per una relazione del genere. Per la povera madre, Antonio era né più né meno che un «assassino» che le aveva «portato via ciò che avevo di più caro», senza neppure manifestare segni di rimorso.

L'idea dell'accusa

 L’onorevole ed eminente giurista Ugo Spagnoli, in rappresentanza della parte civile, chiese tuttavia la condanna sì per omicidio, ma del consenziente, attribuendogli una colpa anche morale: «Lei era suggestionata dall’amante — disse — e gli ha creduto; è morta convinta che lui l’avrebbe seguita nel tragico gesto, che lui l’amasse come lei l’amava». La pubblica accusa istruì il processo sullo scenario dell’omicidio volontario camuffato da un tentativo di suicidio di coppia, salvo virare verso un’ipotesi differente in aula, identica a quella di parte civile. 

Non esitò a definire l’imputato parzialmente incapace non tanto perché «labile e facilmente suggestionabile» ma perché «il suicida o il mancato suicida sono persone malate e lui lo è in questo senso, non nella intelligenza ma nella volontà». Anzitutto, si cercò di stabilire se il racconto dell’imputato fosse coerente: a suo dire, era stata lei a chiedergli di trovare il modo di morire insieme e lui si era procurato la pasticca letale. Se l’era stretta fra le labbra, lei lo aveva baciato ed era crollata all’istante. Lui, stordito dalla rottura della capsula, era riuscito a trascinarsi fino al piano superiore, prima di svenire. Una perizia sollevò dubbi sulla versione ma non fornì alcuna certezza, se non che la ragazza non aveva consumato rapporti, né prima di morire né mai. 

Delitto o suicidio?

«Delitto o suicidio?», si chiedevano i giornali, nelle paginate che ospitavano articoli sull’avvocata torinese che si autoaccusava di aborto. Alla domanda delle domande, e cioè se davvero lui avesse provato a suicidarsi con lei e l’istinto di sopravvivenza l’avesse salvato facendogli sputare la pasticca prima che lo ammazzasse, rispose: «Davvero non lo so, non me lo ricordo. Da mesi lei mi parlava di farla finita, io mi sentivo in colpa per lei, per mia moglie, pensavo allo scandalo che ne sarebbe nato. Il giorno prima ritirai tre pastiglie di cianuro dal laboratorio; il giorno dopo, ci ritrovammo nello scantinato. Ci abbracciammo disperatamente. Se avessi rifiutato di farlo, so che lei si sarebbe uccisa da sola e la colpa sarebbe comunque ricaduta su di me. Misi in bocca la pastiglia, lei iniziò a succhiarla, poi non ricordo più niente». 

Il procuratore Caccia

La corte di prima istanza credette in larga parte ad Antonio ma non lo assolse, trovando corretto l’inquadramento del reato in istigazione al suicidio. Pur ammettendo che davvero Maria Donata volesse lasciare questo mondo con lui – secondo l’uomo, gli avrebbe chiesto di unirsi prima di morire - stava all’adulto mettere la testa per entrambi e dissuaderla dal terribile proposito. In appello, il procuratore Bruno Caccia chiese di aumentare la pena giacché, in caso di vittima minorenne, il reato viene assorbito dall’omicidio volontario. Riuscì a farla aumentare da sei a sette anni di reclusione. A tutte le udienze, in fondo all’aula, una donna sola assisteva agli scontri dialettici tra le parti. Era la moglie di Antonio. Non disse mai una parola. Ai cronisti, prima del processo, una sola dichiarazione: «Eravamo felici».  

Svolta nel caso. Nettuno, ritrovato in Spagna il corpo di Sibora Gagani: murato in casa | Sospetti sull’ex Romero accusato di un altro femminicidio. Redazione su Il Riformista il 7 Giugno 2023 

Un cadavere chiuso in una cassa di legno nascosta tra due pareti. La triste scoperta della polizia spagnola in una casa di Torremolinos a Malaga potrebbe essere collegata con l’Italia. In quella casa nel 2014 viveva una coppia: Marco Gaio Romero, italiano di 45 anni e Sibora Gagani italo-albanese. 

Da Nettuno, Sibora si era trasferita in Spagna insieme all’ex compagno Romero ma poco dopo era scomparsa senza lasciare traccia. Gli inquirenti sospettano che il corpo ritrovato possa essere proprio quello della ragazza.

Il doppio femminicidio

Il caso è tornato alla luce nelle ultime settimane a causa dell’arresto dello stesso Romero accusato di aver ucciso la sua attuale compagna Paula, con 14 coltellate, in un altro appartamento sempre nei pressi di Malaga.

Appresa la notizia, la mamma di Gagani, che mai si era arresa alla scomparsa della figlia, aveva lanciato un appello alla polizia spagnola per esortare gli agenti a riprendere le ricerche per conoscere la verità. La salma è stata presa in carico dall’Istituto di Medicina Legale della zona per autopsia e identificazione. Già in manette, l’uomo avrebbe confessato informalmente ad alcuni agenti di aver ucciso nove anni fa la sua ex Sibora Gagani, murandone il corpo nell’abitazione in cui la coppia conviveva.

Sibora Gagani, potrebbe essere suo il corpo ritrovato in un muro. Era scomparsa nel 2014. L'ex era stato arrestato per femminicidio. La Repubblica il 7 Giugno 2023  

La giovane italo albanese era sparita in Spagna nel 2014. Della sua sparizione era fortemente sospettato Marco Romeo, già in carcere per l'uccisione della fidanzata Paula

Un cadavere ritrovato in un’intercapedine di legno. Potrebbe essere quello di Sibora Gagani, la ragazza italo albanese scomparsa nel 2014, il corpo ritrovato a Torremolinos, in Spagna, nella casa in cui la ragazza aveva vissuto con il suo ex compagno,  Marco Gaio Romeo 45enne originario di Nettuno. 

L’uomo lo scorso 17 maggio era stato arrestato quale presunto autore di un femminicidio, dopo che la sua compagna Paula, 28enne spagnola, era stata trovata morta con diverse ferite d'arma da taglio sul corpo. 

Estratto da today.it il 7 Giugno 2023

Potrebbe essere a una svolta il caso di Sibora Gagani, la 22enne italo-albanese scomparsa nel 2014 dalla città di Torremolinos, in Spagna, dove si era trasferita insieme al fidanzato. Il corpo della ragazza sarebbe infatti stato trovato nascosto in una cassa di legno, nascosta tra due pareti, nella casa in cui la giovane conviveva con il suo ex. 

Non c'è ancora la conferma del Dna, ma secondo i media spagnoli gli inquirenti hanno pochi dubbi sul fatto che i resti appartengano alla 22enne italiana di origine albanese. Il principale sospettato del delitto è l'ex fidanzato di Sibora, un 45enne di Nettuno che di recente è stato arrestato in Spagna per il presunto omicidio della sua attuale fidanzata, Paula, di 28 anni, uccisa a fine maggio con 14 coltellate mentre era in casa.

I media spagnoli riferiscono che l'uomo avrebbe confessato l'omicidio di Sibora a un agente di polizia, ma la confessione non è stata poi confermata alla magistratura inquirente. Sta di fatto che nella giornata di martedì 6 giugno la polizia spagnola ha eseguito un blitz nell'appartamento in cui vivevano i due, trovando un corpo nascosto in un'intercapedine. 

Nella sua confessione (poi ritrattata), il 45enne avrebbe ammesso di aver ucciso la giovane fidanzata, sciogliendo il corpo nell'acido per poi murare i resti. In tutti questi anni, quello stesso appartamento è stato affittato ad altre famiglie, senza che nessuno fosse a conoscenza del tragico segreto che nascondeva. […] 

"Se lo lascio, mi tocca sparire, altrimenti non mi lascia" aveva confidato la giovane alla madre. Alla fine del 2013 Sibora era poi tornata in Italia per qualche mese, ma lui l'aveva raggiunta convincendola a tornare in Andalusia. […]

Sibora Gagani, la madre: «Spero nella giustizia in Spagna. Se estradano il suo ex in Italia dopo poco andrà ai domiciliari». Fabrizio Caccia, inviato a Nettuno su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2023.

Betta Shahini ha fatto il test del Dna che sarà inviato alle autorità iberiche che indagano sull'ex compagno Marco Gaio Romeo: «Io so già che il cadavere murato è il suo, ma il mio cuore non vuole sapere»

Betta Shahini guarda fuori dalla finestra i giardinetti dove portava a giocare da piccola sua figlia Sibora: «Aveva la pelle bianchissima e due guance rosse, per questo l’avevo chiamata così. Sibora in albanese vuol dire 'come la neve'. Ma lei per me era il sole...».

La signora Betta è appena tornata dal commissariato di Anzio dove le hanno prelevato il Dna, ora sarà inviato in Spagna per vedere se combacia con quello del cadavere ritrovato murato a Torremolinos dentro la casa di Marco Gaio Romeo, l’ex fidanzato di Sibora, 45 anni, di Nettuno, arrestato un mese fa per l’omicidio della sua ultima convivente, Paula. «Io lo so già che quel corpo è di Sibora - sospira la signora Shahini - anche se il mio cuore n0n vuole sapere».

Nove anni passati senza avere notizie. Poi all’improvviso è arrivata questa.

«Adesso ho due sentimenti prevalenti dentro di me. Il primo riguarda lui».

Marco Gaio Romeo.

«Si trova in carcere a Malaga. Bene! E spero tanto che lo processino in Spagna, che si faccia giustizia lì, perché se lo estradano in Italia lo so già che poi finisce male, che dopo un po’ gli daranno gli arresti domiciliari, gli sconti di pena, i permessi e chissà che altro. Quell’uomo 9 anni fa mi disse, mentendo, che Sibora se n’era andata da Torremolinos, che forse era a Napoli, in Argentina, in Bulgaria. E invece io lo sentivo che non poteva essere così, perchè Sibora, anche davanti alla fine del mondo, una telefonata me l’avrebbe fatta! Pare l’abbiano riconosciuta dal tatuaggio sul braccio sinistro: la data in cui lui le diede l’anello di fidanzamento. Un mostro».

Sibora aveva solo 22 anni.

«Le confido una cosa. Sin da piccola avevo sognato di avere una sorella, invece niente. Così quando a 25 anni ho messo al mondo Sibora, mi sono accorta che piano piano era lei la mia sorellina. Ora penso una cosa...».

Prego.

«Mi si gela il sangue al pensiero che quel corpo sia il suo. Però provo anche una specie di sollievo, perchè finalmente so che tornerà a casa da me e il 14 settembre, il giorno del suo 32° compleanno, potrò portarle un fiore sulla tomba. Potrò andarla a trovare tutti i giorni».

C’è sollievo ma anche rabbia nella sua voce, signora.

«Sì, perchè ora vengono tutti a chiedermi scusa: Antonella, un’amica stretta di Sibora, sapeva da 13 anni che Romeo picchiava mia figlia, la copriva di insulti, ma non mi ha mai detto nulla. Se l’avessi saputo, non l’avrei mai fatta andare in Spagna con quell’assassino mascherato da bravo ragazzo. Anche la polizia italiana non mi volle credere nove anni fa...».

Che vuole dire?

«Mia figlia sparì nel luglio 2014, io andai in commissariato e gli agenti mi dissero: “Signora, sua figlia è maggiorenne, sapesse quanti ragazzi si cambiano il nome e il cognome per non farsi più ritrovare dalle famiglie...”. La beffa, oltre il danno. Ma andrò avanti per lei».

Davvero?

«Lo devo a Sibora, a tutte le volte che mi vedeva stanca, con i capelli in disordine e mi diceva: “Mamma tu sei bella, tu devi essere perfetta”. Metteva da parte i soldi per farmi mille regali, ma il regalo era lei».

Estratto da open.online l'8 giugno 2023.

Il corpo di Sibora Gagani, italo-albanese 22enne, è stato ritrovato in un appartamento di Torremolinos (Málaga). La ragazza conviveva lì con Marco Gaio Romeo. Con lui era partita da Nettuno in provincia di Roma nel 2014. Lui, dopo l’arresto per l’omicidio di un’altra donna, ha confessato di averla uccisa e ha indicato il posto in cui ritrovare il cadavere. Poi ha ritrattato. 

L’altra donna uccisa si chiama Paula ed è madre di tre figli. La polizia spagnola ha perquisito più volte l’appartamento. Ma è riuscita a trovare il corpo della ragazza soltanto usando un macchinario a raggi X. Il 45enne è stato arrestato il 17 maggio dopo il ritrovamento del corpo di Paula, uccisa a coltellate. Oggi la madre di Sibora Betta Shahini racconta in un’intervista rilasciata all’edizione romana di Repubblica gli anni di ricerche della figlia fino alla scoperta.

Lei racconta che Marco Gaio Romeo «ha sempre negato, io stessa gli avevo fatto la domanda anni fa e lui guardandomi negli occhi mi aveva negato. 

Ha sempre detto di non avere fatto male a mia figlia. Ricordo i suoi occhi 9 anni fa, aveva un viso imperturbabile. Una faccia che mi ricorda quella di un altro assassino, Alessandro Impagnatiello», dice la madre di Sibora. Ricorda che un mese prima di partire «mia figlia lo voleva lasciare, anzi lo aveva proprio allontanato, e mi ha detto che voleva che sparisse. Poi, invece, da donna innamorata ha deciso di seguirlo. Sperava di sposarlo, di formare con lui una famiglia. Mi ha abbracciata e da allora non l’ho più vista». Secondo Betta la figlia aveva confessato alle amiche che lui la picchiava. Ma loro «hanno parlato solo adesso, a 13 anni dall’inizio di quella storia maledetta». 

Il silenzio

Subito dopo la sua partenza non ha più sentito la figlia: «È calato il silenzio. Ho pensato subito che avesse ucciso mia figlia, ho fatto una denuncia alla polizia spagnola. Loro sono andati a casa sua e hanno trovato un pettine, un paio di mutandine e i vestiti di mia figlia. Ma non hanno fatto più niente. Sono arrabbiata con quei poliziotti». Perché secondo lei «si sono fermati fino a quando quel mostro non ha ucciso Paula. E invece potevano salvare altre donne. Forse anche mia figlia. La mia vita è un tormento da 9 anni, continuo a lavorare e a vivere a Nettuno. Sibora era la mia unica figlia, era la mia gioia e quella di tutti quelli che la conoscevano».

Serial killer

Secondo Betta Marco Gaio Romeo è un serial killer: «Le ragazze che sceglie sono tutte uguali: alte magre, capelli neri. Paula sembrava la sorella di mia figlia. Le sceglie per le loro caratteristiche fisiche. Tutte belle ragazze e dai tratti mori». Dice che quell’uomo «è un killer, lo fa con coscienza. Se lo avessi davanti potrei commettere il più orribile degli omicidi. E lo farei soffrire lentamente. Come lui sta facendo con me, mi ha trasmesso una rabbia terribile che ormai è dentro di me 

(...)

Estratto dell'articolo di Ivo Iannozzi per il Messaggero l'8 giugno 2023.

Parla con un filo di voce Elisabetta Shahini, la mamma di Sibora, la ragazza scomparsa nove anni fa in Spagna. Nel pomeriggio è stata al Commissariato di polizia di Anzio dove la Scientifica le ha prelevato un campione di saliva necessario per comparare il Dna con quello del corpo ritrovato dell'intercapedine di un'abitazione Torremolinos. «La speranza di ritrovarla l'ho sempre avuta, ma sono passati nove anni. Troppi. Difficile pensare che Sibora fosse ancora viva». 

(...)

Era partita da Nettuno per la Spagna con Marco Gaio Romeo, il fidanzato di allora.

Ha provato a contattarlo per capire che fine avesse fatto Sibora?

«Ho parlato con lui due volte, una al telefono e una di persona. In entrambe le occasioni mi ha detto che Sibora lo aveva lasciato ed era andata via». 

Ha creduto a quelle parole?

«No, non ci ho creduto. Ho anche provato a contattarlo di nuovo, ma ha bloccato le mie telefonate. E non l'ho mai più sentito».

Ha pensato che potesse averle fatto del male?

«Era partita con lui per la Spagna, lei aveva solo 21 anni, lui quindici anni di più. Avrebbe dovuto proteggerla...».

Estratto dell’articolo di Pierangelo Sapegno per “la Stampa” il 9 giugno 2023.

Uomini che uccidono le donne. Nelle sue immagini mute la cronaca inscrive di nuovo altre scene di femminicidio, a rimandarci sdegno e paura. Questa volta potrebbe essere un serial killer. Si chiama Marco Gaio Romeo, da Nettuno, Roma, 45 anni, sempre la stessa affabilità di modi, e lo stesso algido, insensibile distacco dalle atrocità che compie e dalle persone che gli stanno vicino. Al Comisariado di Torremolinas, Malaga, dove è stato arrestato il 17 maggio per l'omicidio della sua compagna, Paula, madre di 3 figli, l'ultimo dei quali era anche suo, lo descrivono come «un mostro freddo e senza cuore».

Romeo avrebbe ucciso pure Sibora Gagani, che aveva 22 anni quando era scomparsa nel 2014 e che gli agenti della polizia spagnola hanno ritrovato martedì sepolta tra le mura della sua abitazione, in una grossa scatola di truciolare piena di calce, con il corpo saponificato avvolto in una sacca da campeggio. 

Betti Shahini, la madre di Sibora, 9 anni fa gli aveva chiesto che fine avesse fatto sua figlia, e lui non aveva fatto una piega: «Erano andati via insieme dall'Italia. Lei voleva lasciarlo perché la picchiava. Poi ha prevalso l'amore e l'ha seguito in Spagna. Guardandomi negli occhi ha negato che fosse morta. Ha detto di non averle mai fatto del male. Ricordo il suo sguardo, aveva un viso imperturbabile». 

Romeo tutt'e due le volte ha ucciso quando le sue compagne volevano abbandonarlo. Aveva sul groppone altre denunce per violenze ed era stata anche richiesta l'adozione di misure cautelari di allontanamento. Per questo aveva deciso di andare via da Nettuno.

[…] subito dopo aver ucciso la sua donna, riversa a terra in una pozza di sangue, appoggiato sulla porta per non far entrare Antonio Romero, che dal piano di sopra aveva sentito delle urla provenire dal suo appartamento: «Va tutto bene fratello. Una banale discussione fra coniugi. Stai tranquillo». Ma Antonio non ci crede perché già una volta aveva picchiato Paula lasciandole lividi in faccia. Aveva cercato di convincerla a lasciarlo. «Ma lei ha detto di no. Era preoccupata per il bambino». Allora il signor Romero chiama la polizia e quando arriva Marco se n'è già andato. Paula è riversa sul pavimento, schiacciata nel suo sangue, colpita da 14 coltellate.

Lui lo trovano dopo qualche ora. «Era calmo e rilassato, a pochi metri da casa, a bere una birra come se niente fosse», raccontano al ristorante America, dove Marco aveva lavorato per un mese e mezzo, prima di essere licenziato per i suoi comportamenti. Stava scherzando con il barman. Lo portano al commissariato, tapparelle chiuse, domande a raffica. Non dice niente e nega tutto. […] Poi all'improvviso vede la foto di Sibora sulla bacheca: scomparsa, c'è scritto. E allora dice «ecco, lei la potete trovare a casa mia. Morta». Dice persino: «Forse ho esagerato». La cercano per 3 giorni inutilmente. Tornano da Romeo e lui nega la confessione. Gli inquirenti però insistono, e, grazie all'utilizzo di una tecnica innovativa con i raggi X, scoprono finalmente i resti della donna dietro al muro.

[…]

Estratto dell'articolo di Fabrizio Caccia per corriere.it il 9 giugno 2023.  

Betta Shahini guarda fuori dalla finestra i giardinetti dove portava a giocare da piccola sua figlia Sibora: «Aveva la pelle bianchissima e due guance rosse, per questo l’avevo chiamata così. Sibora in albanese vuol dire 'come la neve'. Ma lei per me era il sole...». 

La signora Betta è appena tornata dal commissariato di Anzio dove le hanno prelevato il Dna, ora sarà inviato in Spagna per vedere se combacia con quello del cadavere ritrovato murato a Torremolinos dentro la casa di Marco Gaio Romeo, l’ex fidanzato di Sibora, 45 anni, di Nettuno, arrestato un mese fa per l’omicidio della sua ultima convivente, Paula.

[…]

Marco Gaio Romeo.

«Si trova in carcere a Malaga. Bene! E spero tanto che lo processino in Spagna, che si faccia giustizia lì, perché se lo estradano in Italia lo so già che poi finisce male, che dopo un po’ gli daranno gli arresti domiciliari, gli sconti di pena, i permessi e chissà che altro. […] Pare l’abbiano riconosciuta dal tatuaggio sul braccio sinistro: la data in cui lui le diede l’anello di fidanzamento. Un mostro». 

[…] «Mi si gela il sangue al pensiero che quel corpo sia il suo. Però provo anche una specie di sollievo, perchè finalmente so che tornerà a casa da me e il 14 settembre, il giorno del suo 32° compleanno, potrò portarle un fiore sulla tomba. Potrò andarla a trovare tutti i giorni». 

C’è sollievo ma anche rabbia nella sua voce, signora.

«Sì, perchè ora vengono tutti a chiedermi scusa: Antonella, un’amica stretta di Sibora, sapeva da 13 anni che Romeo picchiava mia figlia, la copriva di insulti, ma non mi ha mai detto nulla. Se l’avessi saputo, non l’avrei mai fatta andare in Spagna con quell’assassino mascherato da bravo ragazzo. Anche la polizia italiana non mi volle credere nove anni fa...».

Che vuole dire?

«Mia figlia sparì nel luglio 2014, io andai in commissariato e gli agenti mi dissero: “Signora, sua figlia è maggiorenne, sapesse quanti ragazzi si cambiano il nome e il cognome per non farsi più ritrovare dalle famiglie...”. […] ».

Scena del crimine. Il marito, Nefertiti e la malavita: l’omicidio di Franca Demichela resta ancora un mistero. Il cadavere della “signora in rosso” fu trovato sotto il ponte della tangenziale a Moncalieri nel settembre del 1991: pioggia di sospetti e supposizioni sull'omicidio di Franca Demichela, ma nessuno ha mai pagato. Massimo Balsamo il 16 Giugno 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il ritrovamento

 L'identità della signora in rosso: Franca Demichela

 Le indagini

 L'arresto del marito

 Il rilascio di Giorgio Capra e la pista esoterica

 Un mistero senza colpevoli

 La riapertura delle indagini

Un giallo mai risolto nonostante sospetti, supposizioni e indagini. Una donna di buona famiglia, fascinosa e appariscente trovata senza vita in una zona scabrosa. Luci e ombre, ipotesi mai provate, solo buchi nell’acqua. Sono trascorsi più di trent’anni dall’omicidio di Franca Demichela, anche ribattezzato come il caso della “signora in rosso”, per lo stravagante abito di chiffon indossato l’ultima sera della sua vita. La serie “Mostri senza nome – Torino” – in onda su Crime+Investigation (Sky, canale 119) – ripercorre le tappe di uno dei più grossi misteri della cronaca nostrana.

Il ritrovamento

15 settembre 1991, frazione Barauda di Moncalieri, ponte della tangenziale di Torino. Zona di prostitute e di povertà, come testimoniato dalla baracca allestita da un senzatetto. Rientrato a “casa”, l’uomo nota un manichino sgargiante. Ma in realtà si tratta di un cadavere, di una donna con un vistoso abito di chiffon rosso. Presente anche una scarpa con il tacco, rossa anche quella, oltre a preziosi gioielli e un orologio d’oro. Niente borse o portafogli, quindi niente documenti. Sul posto arrivano i carabinieri e il primo obiettivo è fissato: risalire all’identità della vittima.

L’esame autoptico rivela una morte per asfissia da probabile strangolamento per dei segni vistosi che si vedono anche esternamente all’altezza del collo. Nessun segno di difesa e un’ulteriore certezza: il corpo è rimasto fermo nella posizione del ritrovamento per lungo tempo. Tv e giornali iniziano a interessarsi dell’omicidio, ma la vittima non ha ancora un nome: per questo si è di fronte al "mistero della signora in rosso". Ed è proprio quell’abito ad aiutare le autorità: la commessa di una boutique del centro di Torino ricorda benissimo la cliente, in particolare i suoi gioielli e i rotoli di denaro conservati nella borsetta.

L'identità della signora in rosso: Franca Demichela

Nel giro di poche ore i carabinieri riescono a dare un’identità al cadavere: si tratta di Franca Demichela, 48enne dell’alta borghesia torinese e figlia di un dirigente Fiat. Ufficialmente casalinga, secondo i media regina della notte. Una donna misteriosa, che ha vissuto due o tre vite. Incensurata e sposata con Giorgio Capra, un contabile dall’aspetto severo e austero, il classico signore torinese schivo e assolutamente riservato.

Un dettaglio che ha contribuito ad alimentare il fascino di questo caso di cronaca nera, come confermato a IlGiornale.it dalla criminologa Flaminia Bolzan: "Sicuramente l’elemento che ha reso molto affascinante questo caso è il fatto che sia stata ritrovata in un posto particolarmente insolito, abbigliata con questo vestito rosso di chiffon. In generale è stato il tenore di vita della signora: frequentava ambienti particolari, il mondo della notte, un mondo un po’ al limite. Tutto questo ha contribuito a creare da una parte l’alone di mistero, dall’altra la fascinazione per un personaggio che di per sé aveva delle caratteristiche peculiari”.

Le indagini

Franca Demichela e il marito facevano vite pressoché separate. Lei non è mai stata fedele all’obbligo coniugale, tanto da “vantare” un fidanzato ufficioso in Tunisia, uno spacciatore di 28 anni secondo i media. La distanza tra i due coniugi è testimoniata dal fatto che l’uomo non ha denunciato immediatamente la scomparsa della donna. Un elemento che stupisce gli investigatori, complici le prime testimonianze. In particolare spuntano pesanti discussioni sulla gestione del ricco patrimonio della signora in rosso.

I carabinieri controllano l’auto del marito e trovano dei preziosi appartenenti alla vittima e una cospicua somma di denaro contante all’interno di una pochette. E il collegamento immediato è all’assenza di una borsetta sulla scena del crimine. Ma Giorgio Capra ha un alibi: quella sera era a Val della Torre, a casa della madre. Ma non finisce qui.

L'arresto del marito

Interrogata dagli investigatori, la vicina di casa della coppia riferisce di un acceso litigio tra Franca Demichela e un uomo visto solo di spalle, presumibilmente il marito, avvenuto poche ore prima dell’omicidio. Una delle tante discussioni concitate. Ma gli inquirenti decidono di agire: il 21 settembre del 1994 Giorgio Capra viene arrestato con l’accusa di aver ucciso la moglie e di aver occultato il suo cadavere. Tra le prove, alcuni foglietti in cui Giorgio Capra aveva segnato i tempi di percorrenza tra la casa della madre a Torino. Un modo per pianificare le sue mosse, forse.

Il rilascio di Giorgio Capra e la pista esoterica

Interrogato più volte, Giorgio Capra non cede, anzi conferma sempre la stessa versione. Dopo diciotto giorni dietro le sbarre, il marito di Franca Demichela viene scarcerato ed esce di scena (almeno per il momento). Gli investigatori rivolgono l’attenzione su un’altra pista, quella esoterica. La vittima era infatti convinta di possedere poteri magici, di essere addirittura la reincarnazione di Nefertiti. In altri termini, di essere immortale. Franca Demichela aveva iniziato a frequentare i campi rom, fino a scendere a patti con persone tutt’altro che raccomandabili. Tra la compravendita di gioielli e la lettura della mano, la donna entra a fare parte di una famiglia nomade, svolgendo attività di riciclaggio. Una signora della borghesia in un ambiente borderline, pericoloso.

Un mistero senza colpevoli

Franca Demichela è stata uccisa per una questione di soldi? Questo è il dubbio degli inquirenti. E spunta una nuova testimonianza: poche ore prima della sua morte, la donna è stata vista in centro a Torino insieme a tre rom di nazionalità a bordo di una Golf nera. Nel 1994 un collaboratore di giustizia parla di un accordo tra un capo rom e la vittima per ricettare della refurtiva, ipotizzando un omicidio per un affare finito male. Tante supposizioni, molte voci ma nessuna prova: il delitto della signora in rosso resta un giallo.

La riapertura delle indagini

Dopo anni di silenzi e di stasi, nel 2021 ecco la riapertura delle indagini. La procuratrice aggiunta Enrica Gabetta e il pubblico ministero Francesco Pelosi mettono mano al “cold case” nella speranza che i reperti sequestrati trent’anni prima possano raccontare qualcosa di nuovo. Cinque persone iscritte nel registro degli indagati: il marito Giorgio Capra e quattro rom, i tre insieme alla Demichela la notte dell’omicidio (Nikola Stoianovic, Radenko Nicolic e Nenad Jovanovic) e una new entry ascoltata inizialmente come testimone.

Nonostante la grande fiducia della Procura, nessuna novità. Senza tracce biologiche e nuovi indizi l’inchiesta sembra destinata all’archiviazione. “La possibilità di scoprire la verità dopo trent’anni è da individuare nella possibilità di utilizzare le nuove tecniche scientifiche, magari per indagare su alcuni reperti - ci spiega Flaminia Bolzan - Sicuramente può essere individuata la presenza di profili genetici o tracce di altro tipo, cose impossibili da analizzare con le tecnologie di trent’anni fa”.

Il 18 aprile del 2023 muore Giorgio Capra: malato da tempo si spegne all’età di 80 anni: “Per capire se il marito possa aver portato con lui qualche verità dovremmo analizzare tutto quanto il fascicolo, tenendo presente che si tratta di una figura centrale insieme a quella dei nomadi”, il parere della criminologa. Ciò che è certo è che oggi il delitto della signora in rosso rappresenta ancora un mistero.

Stefano Masala ucciso 8 anni fa da due amici, il corpo mai trovato. Il padre: «Continuerò a cercarlo». Storia di Andrea Pinna su Corriere della Sera il 16 Giugno 2023. 

«Forse non lo troverò mai, ma continuerò a cercarlo ogni giorno, finché mi rimarrà da vivere». Marco Masala è il padre di Stefano, di cui non si sa nulla da otto anni: ucciso da due amici. Sapeva di un delitto e andava eliminato, è scritto in sentenze passate in giudicato, con condanne all’ergastolo e a 20 anni per due «amici». Quasi certamente Stefano Masala è stato bruciato e poi il corpo sotterrato. Il tribunale di Nuoro su richiesta della famiglia ne ha dichiarato nei giorni scorsi la morte presunta, ponendo fine — ma soltanto per via giudiziaria — a un «giallo» che ha sconvolto due paesi, Nule e Orune, tra le province di Sassari e Nuoro.

Una lite

È nato tutto da una lite. Un gruppo di amici di Nule partecipa a Orune alla festa per «Cortes Apertas», fra gli altri Paolo Enrico Pinna, 17 anni, e suo cugino Alberto Cubeddu, 21. Si suona e si balla, passa una ragazza e Pinna le rivolge pesanti apprezzamenti. È la ragazza di Gianluca Monni, che reagisce. Nasce una lite, Pinna tira fuori una pistola, ma viene disarmato. Gli orunesi picchiano il gruppo di Nule che deve fuggire. Un’onta che andava vendicata. Sei mesi dopo, 8 maggio 2015, Monni attende al mattino l’autobus che deve portarlo da Orune alla scuola che frequentava a Nuoro. Poco distante Eleonora, la sua fidanzatina. Sfreccia un’auto, un killer a volto coperto si affaccia dal finestrino e spara. L’auto è ripresa dalle telecamere del Comune, si risale al proprietario. È di Marco Masala, ma il figlio Stefano e l’auto — «la prendo per andare a una festa con amici» aveva detto in famiglia — non si trovano. Il 9 maggio qualcuno segnala una colonna di fumo nero a una ventina di chilometri da Nule. È l’utilitaria di Masala, data alle fiamme per cancellare tracce compromettenti. Da allora di Stefano non si è saputo più nulla.

Gli arresti e le condanne

Un anno dopo i carabinieri hanno arrestato Pinna e Cubeddu. I due cugini hanno sempre negato di aver ucciso Monni e di aver utilizzato l’auto di Masala per andare a Orune, ma nei vari gradi di giudizio e infine in Cassazione sono emerse prove non confutatili, anche per l’uccisione di Stefano «e la sottrazione/distruzione del suo cadavere». Il padre di Stefano non riesce a darsi pace. Un anno dopo il delitto è morta la moglie: «Continuare a cercarlo è la sola cosa che mi maniere vivo. Penso a lui tutte le notti — ha confidato a La Nuova Sardegna — e a mia moglie, annientata dal dolore. Le avevo promesso che avrei continuato a cercarlo e di riportarlo a casa». La condanna dei colpevoli non tempera la sua amarezza. «So bene che prima o poi avranno i benefici di legge e torneranno in libertà. Il vero “fine pena mai” non è per loro, ma per me e la mia famiglia. La prigione è la mia casa e il dolore che porto dentro: da otto anni esco soltanto per cercare Stefano».

(ANSA il 23 giugno 2023) Riconoscendo come "giornalismo d'inchiesta, nei giusti limiti" l'attività svolta dalla trasmissione televisiva "Chi l'ha visto", la sezione civile della Corte d'Appello di Potenza ha riformato totalmente la sentenza di primo grado che condannava la Rai al risarcimento del danno per diffamazione a favore dei genitori di Marirosa Andreotta - trovata morta a Policoro (Matera) il 23 marzo 1988 insieme al fidanzato, Luca Orioli - e di un altro ricorrente. Motivo del contendere giudiziario è stata la messa in onda di due servizi giornalistici del 2 aprile e del 29 maggio 2007, in cui la trasmissione ripercorreva "i momenti precedenti la scomparsa dei due fidanzatini, focalizzando l'attenzione su talune evidenze inedite". 

Luca e Marirosa furono trovati morti in circostanze che, negli anni successivi, hanno fatto pensare a cause diverse da quelle accertate in un primo momento. "Al giornalista d'inchiesta - ha scritto la Corte nel dispositivo della sentenza - deve ritenersi concesso aprire nuove piste d'indagine a prescindere dalle verità ufficiali disponibili al momento. Il giornalismo d'inchiesta - continua la sentenza - si caratterizza anche per lo specifico fine perseguito, ovvero, l'obiettivo di raggiungere verità ancora nascoste, sciogliere dubbi non ancora chiariti, evidenziando incongruenze nella ricostruzione di fatti controversi. Il che ben può giustificare la formulazione di ipotesi non ancora vagliate dagli inquirenti istituzionali né, allo stato, provabili con certezza".

La Corte, presieduta da Alberto Iannuzzi, ha aggiunto che "è ampiamente riconosciuto il carattere proattivo e investigativo della trasmissione 'Chi l'ha visto?', la quale si pone spesso in una prospettiva dialettica con gli inquirenti istituzionali, stimolandone talvolta l'attività investigativa. In secondo luogo, è il tenore generale della trasmissione a mostrare i caratteri dell'inchiesta". Ed infine la Corte ha evidenziato come "il cuore dei due servizi consistesse nell'indicazione di alcuni elementi indiziari specificamente ricercati dai giornalisti, che prescindevano dalle informazioni generalmente disponibili sul caso, attinte da fonti giudiziarie cristallizzate".

 Olimpia e Filomena sono due donne toste. Anzi, sono due mamme toste. Nessuno le ha mai viste piangere. Il loro è infatti un dolore che ha superato il territorio di confine delle lacrime. Una frontiera dell'anima inesplorabile per chi non ha vissuto la stessa tragedia di Olimpia e Filomena: perdere un figlio in situazioni drammatiche. E misteriose. Un sentiero disperato lungo il quale queste due madri coraggio si sono incontrate spesso. Diventando amiche. Filomena è l'ormai «famosa» mamma di Elisa Claps; Olimpia è invece la «sconosciuta» madre di Luca Orioli. La storia di Elisa Claps la conoscono tutti. Quella di Luca pochi «addetti ai lavori». Il 23 marzo 1988 Luca Orioli e la sua fidanzata Marirosa Andreotta furono trovati morti in circostanze mai chiarite. Tra depistaggi e amnesie (che ricordano sinistramente il caso Claps) mamma Olimpia - da oltre 20 anni, quasi 30 - combatte in nome di una verità negata. Nei motori di ricerca del web questo ennesimo mistero lucano è archiviato come il «giallo dei fidanzati di Policoro».

I cadaveri di Luca e Marirosa erano nella vasca da bagno di casa. «Morti folgorati in acqua». Anzi, no, «morti per inalazione di ossido di carbonio». E se invece fosse stato un omicidio? La mamma di Luca ne è sempre stata convinta.

Ora, dalla risepoltura della salma di Luca Orioli nel cimitero di Policoro ad opera della Procura della Repubblica di Matera, la signora Olimpia chiede formalmente l'intervento dei Ris a mezzo di una lettera inviata al comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, generale Leonardo Gallitelli, per chiarire gli ulteriori punti oscuri emersi in questi ultimissimi giorni, compreso il terrificante sospetto che la salma alla quale è riferita l'autopsia condotta dal professor Introna non sia quella di Luca Orioli.

Il Giornale è venuto in possesso del testo della lettera. Che pubblichiamo integralmente:

«Esimio Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri Gen. Leonardo Gallitelli, è con grande fiducia e speranza che rivolgo a Lei questo mio appello. Sono Olimpia Fuina, madre di Luca Orioli, morto nell'88 a Policoro, in situazione tuttora volutamente misteriosa. L'anno scorso sono state riesumate per la seconda volta le salme di Luca e Marirosa (cosiddetti Fidanzatini di Policoro).

Oltre ai numerosissimi depistaggi e insabbiamenti che costellano il caso, ci sono perizie truccate, riconosciute reati e fatti prescrivere. Al tutto si aggiunge l'inquietante mistero della sparizione degli organi interni (visceri, fegato, polmoni, cuore, lingua, trachea, osso ioide) e dei vestiti che Luca indossava al momento della morte, conservati nel cimitero di Policoro e misteriosamente ricomparsi, non si sa quando, presso l'Istituto di Medicina Legale dell'Università La Sapienza di Roma, peraltro mai incaricato di procedere a perizia su tali reperti. Gli stessi, nel tentativo ultimo di prelevarli da Roma e consegnarli direttamente ai familiari, come se non si trattasse di preziosi elementi di indagine per una definizione certa di morte, sono risultati persino privi di un elenco. Agli atti non esiste nessun verbale che certifichi né la presa in consegna di tali reperti, né i relativi esiti.

Dopo la permanenza di quasi un anno presso l'Istituto di Medicina Legale di Bari, e, con le indagini ancora in corso, la Procura di Matera decide di ritumulare frettolosamente le salme senza spiegare le ragioni di una tale scelta, noncurante della contro-perizia redatta da tre autorevoli Professori dell'Università di Siena che smontano radicalmente quella di Ufficio, argomentandola adeguatamente e documentandola con una ricca letteratura scientifico-medico-legale.
Un mio timore è che in quella bara possa non esserci il corpo di mio figlio, ragione per cui non posso accettare l'invito pressante e minaccioso di prenderlo in consegna.
Me lo fa pensare il fatto che dagli atti relativi all'ultima perizia di ufficio non risulta l'analisi del DNA con i confronti dei familiari che ne possano determinare l'assoluta certezza.

Me lo fa pensare, inoltre, il fatto che il corpo radiografato presenta agglomerati, non meglio definiti, che sarebbero propri di un corpo di anziano.

Luca aveva 20 anni.

Chiedo e mi auguro, alla presenza di un'Italia intera, che con me chiede e aspetta giustizia, che Lei voglia coinvolgere gli esperti dell'Arma dei RIS, per far piena luce sui troppi punti oscuri mai affrontati seriamente, spesso banalizzati, ignorati o, alcuni, addirittura, mai presi in considerazione.

Lei rappresenta la mia ultima fondata speranza.

Confido nel Suo noto impegno a difesa del diritto di tutti e di ciascuno.

Non è possibile accettare una perizia, dimostrata scientificamente falsa, inutile sotto il profilo tecnico, decisamente dannosa per la verità.

Indubbiamente è una verità che scomoda molte poltrone.

Non è possibile pensare che un PM, non volendo approfondire la parte scientifica, con la scusa di non averne la competenza, rifiuti totalmente il confronto e il riscontro oggettivo delle due perizie, così fortemente contrastanti, facendo serio riferimento alla letteratura scientifica di relativo supporto da cui invece far scaturire la dovuta competenza come io stessa, misera mortale, ho potuto maturare.

Occorre solo intelligenza e volontà a farlo. E' ciò a cui io ho dovuto fare ricorso per combattere un sistema avverso alla difesa del diritto giusto.

Non è possibile accettare a "scatola chiusa" una verità che avrebbe tutti i requisiti per essere considerata preconfezionata. Lo dice il fatto che la porta dichiarata grandemente aperta dalla madre della ragazza, venga poi considerata chiusa dall'ultima perizia. Lo dice inoltre il fatto che persino l'ipotesi fantasiosa della morte, avanzata dal Prof. Introna, è fallace anche sotto il profilo logico.

Secondo quest'ultima ricostruzione, i due ragazzi sarebbero entrati nel bagno, avrebbero chiuso la porta per fare l'amore (un gesto superfluo poichè in casa non c'era nessuno), la ragazza si sarebbe sentita male e sarebbe caduta, Luca avrebbe cercato di aiutarla, cadendo anche lui, e, stranamente, questa volta la porta è socchiusa. Chi l'avrebbe socchiusa? Luca mentre moriva? E poteva Luca morire di monossido di carbonio con la porta semiaperta? Avrebbe potuto prima di morire, socchiudere la porta e distendersi in maniera composta millimetrando l'esiguo spazio disponibile? E' possibile che una caduta bassissima, dolce, come quella che si sarebbe verificata, a loro dire, a brevissima distanza dal rubinetto e dalla mensola, entrambi ritenuti probabili oggetti contundenti, possa aver procurato una ferita lacero-contusa di 14 cm, all'epoca? E come mai non c'è traccia di sangue? E come mai una caduta così lacerante non avrebbe fatto cadere i flaconcini sistemati sulla mensola accanto al rubinetto? Può un PM ignorare cose così gravi e giustificare quanto accaduto quella notte, e durante il corso di 24 anni, continuando ad addurre le irresponsabilità (tante) alla superficialità, alla non professionalità, all'età giovane degli inquirenti avvicendatisi nel gioco al massacro della verità? Qualora ciò fosse possibile, credo, come cittadina che paga le tasse, di poter pretendere che tali professionalità non possano continuare ad occupare quei posti. La cosa grave è che lo Stato possa continuare anch'Esso ad ignorare una vicenda così scabrosa, che calpesta il diritto del cittadino, annienta la dignità della persona oltre che del dolore, e offende pesantemente la sua stessa Costituzione. Lo Stato ha il dovere di assicurare piena efficienza ai suoi cittadini.

Lo esigo. Lo pretendo.

Gli italiani hanno diritto e bisogno di sapere "perché".

.....Si difendono i poteri forti?....

Vorrei poterlo non pensare.

Ma Qualcuno mi aiuti a farlo.

E' l'Italia, quella che segue con attenzione e con forte coinvolgimento emotivo le vicende dei suoi connazionali, che vuole saperlo, con me. E' dovuto.

La verità che, così convenientemente si vorrebbe difendere esclusivamente nelle aule di tribunali, se tale, non può temere la piazza né i mass media, che grande mano invece stanno dando alla ricerca della verità.

La scienza non è un'opinione, ed io non posso accettare la chiusura del caso, ancora una volta, per approssimazioni gratuite e infondate non solo scientificamente ma anche oggettivamente secondo i fatti presenti agli atti. Solo chi teme il confronto e un probabile affronto alla propria professionalità, preferisce le aule di tribunale e rinuncia ad informare le folle che attendono da anni una tesi attendibile, sotto il profilo scientifico, e, condivisibile sotto il profilo logico.

A chiusura del caso serve infatti una "tesi" scientifica che è ancora possibile cercare sui miseri resti (se sono quelli) sbranati finora dal potere onnipotente indiscriminato e inoppugnato dell'Istituzione preposta ad accertarne invece la verità.

Confidando in un Suo intervento La saluto cordialmente».

È un giallo che dura da quasi un trentennio e che ora è diventato anche uno scontro fra periti. Fa ancora discutere il caso dei «fidanzatini di Policoro», Luca Orioli e Marirosa Andreotta, trovati morti nel marzo del 1998. Dopo due riesumazioni, dopo l'ultima autopsia che indica nel monossido di carbonio la morte dei due giovani, la madre di Luca Orioli, Olimpia Fuina, continua a non credere alle ragioni accidentali ed insiste nell'indicare agli inquirenti un'ipotesi di morte violenta.

Una vicenda giudiziaria nata con un peccato originale: quando i corpi furono trovati l'autopsia non fu fatta. Da quel momento è stato tutto un susseguirsi di indagini ed accertamenti che non hanno mai placato la sete di verità della signora Fuina. L'esito dell'autopsia del professor Francesco Introna, della Medicina legale di Bari, è contrastato dalle contro-perizie di altri consulenti secondo i quali il monossido riscontrato non è in quantità letali. La mamma di Luca Orioli ha messo in atto azioni clamorose. Prima si è incatenata al cimitero di Policoro per evitare la ri-tumulazione dei resti del figlio. E adesso arriva a chiedere di verificare che quel corpo appartenga realmente al suo Luca.

Non erano più ragazzini e probabilmente la loro relazione si era interrotta, ma sono diventati per tutti i ''fidanzatini di Policoro''. Luca Orioli e Marirosa Andreotta erano due ragazzi che si volevano bene, frequentavano la parrocchia e gli amici, andavano all'Università e guardavano alla vita con fiducia. Vennero trovati morti il 23 marzo 1988 in casa di Marirosa Andreotta, nudi: la ragazza giaceva nella vasca da bagno, il ragazzo era disteso per terra. A trovarli fu la madre della ragazza, la signora Giannotti, di ritorno a casa da un concerto a Matera. Il caso dei due ragazzi prende la piega che non avrebbe dovuto prendere. Si fa strada l'ipotesi del fatto accidentale. Nella stanza c'è una stufetta caldobagno. Si pensa ad un malfunzionamento dell'apparecchio da cui è partita una scarica elettrica. L'elettrocuzione - si pensò - ha dunque causato un arresto cardiocircolatorio. Il caso viene chiuso subito. Questa frettolosità indusse a non compiere l'autopsia. E' questo il punto che ha lasciato una serie di interrogativi. I mancati accertamenti post-mortem hanno infatti tolto dei punti fermi alla vicenda, facendo venir meno gli elementi di certezza sulle cause e alimentando i dubbi. Anche il governo nel 2000 lo ha confermato. Rispondendo ad un'interrogazione parlamentare del deputato Vincenzo Sica, l'allora Guardasigilli Piero Fassino dichiarava che ''la complessa vicenda ha risentito in modo determinante dell'insufficienza degli accertamenti espletati nel corso dell'esame esterno dei cadaveri''.

Così successivamente, quando l'esame della stufetta non ha dato particolari riscontri, si è fatta strada l'ipotesi di un avvelenamento da monossido di carbonio sprigionato da una caldaia. Si pensò anche ad uno scherzo finito in tragedia.

L'autopsia viene fatta a distanza di anni, con la prima riesumazione. Sui cadaveri dei due giovani ci sono dei segni che invece avrebbero dovuto far propendere per l'annegamento, anche segni di fratture. Inoltre Luca Orioli ha un testicolo lesionato. Ma anche in questo caso qualcosa non va: non funziona la tac per esami radiologici. I dubbi rimangono.

I primi sospettati escono dall'indagine e vengono prosciolti tutti coloro (medici, periti, magistrati) che sono stati indagati per negligenze o per errori nell'attività di indagine o di consulenza. E ci sono poi gli altri elementi del giallo.

Una lettera di Marirosa Andreotta alimenta altri scenari. Si parla di un segreto («una piccola parte di me che voglio cancellare per sempre») che tale resterà. Poi le foto: alcune fanno pensare ad una manomissione del luogo del ritrovamento che in effetti è stato alterato. Ma troppo tempo è trascorso.

Un'inchiesta nata male, già archiviata, poi riaperta e di nuovo destinata all'archiviazione. Così aveva deciso la Procura, che si stava orientando sull'ipotesi del soffocamento, ma su richiesta di Olimpia Fuina, che si è opposta, l'indagine non è stata chiusa ed anzi il giudice ha coattivamente stabilito di riesumare i corpi. Fatto avvenuto il 17 dicembre scorso. Poi l'autopsia. Ma la battaglia legale continua. «Non mi sento sola - afferma Olimpia Fuina - sento aumentare l'affetto delle persone. Io continuo questa battaglia perchè le contro-perizie hanno stabilito che la quantità di monossido riscontrata nell'autopsia è assolutamente non letale. Lo dicono i periti e la letteratura scientifica. Per questo mi sono opposta alla ri-tumulazione perchè voglio altri accertamenti. Ho chiesto al comandante dei carabinieri, Gallitelli, l'intervento dei Ris».

Per la madre di Luca i misteri intorno a questa vicenda non si dipanano, tutt'altro. A cominciare dall'inquietante denuncia della mancanza degli organi interni del ragazzo, tra cui l'osso ioide, forse scomparsi nella precedente riesumazione ma anche su questo non c'è certezza. E tutto questo non aiuta la ricerca della verità, anzi alimenta i sospetti. Olimpia Fuina nella lettera a Gallitelli avanza un'ipotesi ancora più inquietante. «Quel corpo - dice - potrebbe non essere quello di Luca perchè non è documentato negli atti l'esame del dna. Sembra essere quello di un anziano».

Per tenacia la signora Fuina somiglia molto ad un'altra mamma coraggio della Basilicata, Filomena Claps, che attende da 20 anni di conoscere tutta la verità sull'omicidio della figlia Elisa e non solo la condanna del responsabile, Danilo Restivo, condannato a Salerno a 30 anni. Ma, se nel caso Claps l'autopsia di Introna è stata «vangelo», nel caso-Policoro invece viene messa in dubbio. Sulle inquietanti ipotesi avanzate, il professor Introna, contattato, ha detto: «Non rispondo, perchè su questi fatti il confronto può avvenire solo nelle aule di giustizia, altrimenti si creano confusione e illazioni». «Abbiamo fatto l'autopsia sulla salma di Luca e restituito la salma di Luca. È tutto documentato. Ci sono i filmati dei carabinieri». Sono parole del prof. Franco Introna, direttore dell'Istituto di medicina legale dell'Università di Bari e perito della Procura di Matera nell'indagine sulla morte dei “fidanzatini di Policoro”. Due morti, quelle di Luca Orioli e di Marirosa Andreotta, al centro, dal 23 marzo 1988, di perizie contrapposte. Da qui l'ennesima inchiesta e le risultanze del docente barese. Risultanze oggetto di critiche cui Introna non aveva risposto. La “goccia” è stata la lettera di Olimpia Fuina, madre di Luca, inviata al comandante generale dell'Arma dei carabinieri: temo che nella bara tumulata nei giorni scorsi a Policoro possa non esserci il corpo di mio figlio, ha scritto la donna che da 23 anni insegue la verità sulla morte del suo Luca.

«Quando la salma è stata stumulata c'erano i carabinieri, i consulenti di parte - risponde ora alla Gazzetta il prof. Introna - nella bara c'era il corpo di un ragazzo che aveva già subito una riesumazione. Abbiamo fatto le indagini e conservato la salma. Attese le controdeduzioni, abbiamo risposto per cui il pm ci ha chiesto di riconsegnare i corpi. I carabinieri hanno filmato tutto».

In questa vicenda, però, le cose inverosimili sono state tante. Ad esempio, i vestiti, i visceri, l'osso ioide fratturato, non sono stati trovati alla seconda riesumazione. Un mistero.

«Nessun mistero. Il prof. Giancarlo Umani Ronchi ha scritto che l'osso ioide era sano prima della prima riesumazione e che lo ha rotto lui nel corso delle operazioni. I vestiti, poi, sono stati ritrovati».

La famiglia Orioli chiede di analizzarli per verificare tracce di dna. «Sono inservibili. Sono stati conservati malissimo. Troveremmo miriadi di dna. Ma non vi ho trovato lesioni da arma da taglio o da fuoco».

La sua perizia, che riconduce le due morti al monossido di carbonio (CO), è stata contestata dai nuovi periti di Olimpia Fuina. «Non so se chi ha fatto quelle critiche ha interesse a farlo. Se fossero persone preparate saprebbero che il monossido di carbonio si attacca al sangue nell’80 per cento e nel 20 per cento alle globine muscolari. Abbiamo cercato il monossido nei muscoli. E l'abbiamo trovato. Poi, nella putrefazione si forma tutto tranne il monossido. E la tecnica da noi usata è l'unica che libera il monossido distruggendo le mioglobine. Sono stupefatto dalla critiche».

Ma la porta del bagno era aperta. Come poteva concentrarsi il monossido? «La porta del bagno aperta è in una seconda testimonianza. In una prima è chiusa. I due ragazzi portano una stufetta elettrica nel bagno poiché i riscaldamenti sono chiusi. Si spogliano nudi. Perchè devono tenere la porta aperta? Poi aprono l’acqua calda. E quello scaldacqua non era a norma. Fanno scorrere l’acqua calda e si sviluppa vapore, ma anche verosimilmente monossido di carbonio».

Quella caldaia ha funzionato per altri 2-3 anni senza intossicare nessuno. «Io non faccio l’ingegnere. Può essere che tirando l’acqua calda al massimo sia andata in sovrafunzione».

E la concentrazione di CO differente in Luca e Marirosa? «Lei è morta annegata dopo aver battuto la testa. Lui ha cercato di tirarla fuori, ma non ce l’ha fatta ed è morto per avvelenamento».

Perché non fare i nuovi esami a Foggia come chiesto da Olimpia? «Non sono necessari. I dati sono chiari».

Prof. Introna, come finirà? «Non ne ho la più pallida idea. Ma non creiamo castelli in aria.

Tranquillizziamo la povera madre che ha tutta la nostra comprensione, ma diciamole la verità».

I dubbi di Olimpia Fuina-Orioli e la perizia dell'anatomopatologo, Francesco Introna. Su questi due elementi si è intrecciata la disputa più recente sulla morte dei Fidanzatini di Policoro, Luca Orioli (figlio di Olimpia) e Marirosa Andreotta, trovati morti a Policoro il 23 marzo del 1988 nel bagno della casa della ragazza. La mamma di Luca, con un nuovo pool di periti, ha avanzato sospetti sulla perizia di Introna, la donna, tra gli altri aspetti, ha messo in discussione che la salma analizzata fosse quella del figlio (ipotesi respinta da Introna che ha fatto riferimento all'esistenza dei filmati dei Carabinieri che hanno documentato tutto). Nella sua perizia, l'anatomopatologo ha ricostruito i fatti, fatte le puntualizzazioni del caso, evidenziato alcune riserve e cautele, spiegate le modalità con cui è stato ricercato il monossido di carbonio, il gas killer che avrebbe ucciso Luca e indotto in Marirosa un malessere tale da determinare la caduta della ragazza, durante la quale si sarebbe verificato l'urto nucale contro la manopola del rubinetto, e l'annegamento terminale avvenuto nella vasca. Luca, stando alla perizia, avrebbe tentato di soccorrere la fidanzata, ma era astenico, anche lui aveva inalato il gas killer. Ha provato a prendere Marirosa da una gamba ma è sopravvenuto il coma: si accascia a terra fino alla morte.

LA RICOSTRUZIONE

- La madre di Marirosa quando entrò in casa trovò il riscaldamento centralizzato in funzione. Circostanza che “meravigliò” la signora: Marirosa, in casa, avrebbe dovuto spegnerlo. Nel corridoio vide il riflesso della luce proveniente dal bagno, sentì distintamente il rumore del caldobagno in funzione e, aperta la porta, notò il corpo della figlia all'interno della vasca con la testa sommersa. Istintivamente azionò la manopola per il deflusso dell'acqua dalla vasca. (Rapporto 142/2 CC Policoro, deposizione acquisita alle ore 00,30 del 24.3.1988). In altri documenti processuali (missiva del 19.5.1995 inviata al P.M.) la porta del bagno parrebbe essere stata descritta come socchiusa.

- La temperatura ambientale in casa era elevata al momento dell'arrivo di Luca Orioli e Marirosa Andreotta perché l'impianto autonomo di riscaldamento, posto in “manuale”, era in funzione.

- L'impianto autonomo di riscaldamento presentava caldaia e bruciatore in un vano tecnico esterno alla casa (Perizia Strada).

- La temperatura nel bagno al momento del rinvenimento delle salme era elevata (stimata sui 30°C perizia Lattarulo Sansotta + perizia Giordano). Al momento del rinvenimento delle salme, nel bagno vi era un termosifone in attività (connesso con l'impianto centralizzato della casa cfr perizia Lattarulo Sansotta) ed un termoventilatore elettrico (caldobagno) in funzione con l'interruttore del termostato inserito sul “Manual” a 1000 Watt e regolazione della temperatura fissata sul valore massimo possibile (valore 6) (CFR verbale dei CC, perizia Strada).

- L'impianto elettrico era funzionante e non vi era stato alcun cortocircuito.

- Le indagini successive evidenziarono una perfetta funzionalità sia dell'impianto elettrico che del Caldobagno che non mostrò alcuna potenzialità di dispersione elettrica, neanche in seguito a test esasperati. (Cfr Perizia Valecce, ctp Pugliese)

- Anche gli accertamenti sull'impianto elettrico parrebbero aver la normalità dello stesso.

- La caldaia per il solo riscaldamento dell'acqua era posizionata nel bagno, al di sopra della vasca e presentava oggettivi segni di affumicatura (documentati iconograficamente) in corrispondenza della ispezione della fiammella pilota (cfr documentazione iconografica perizia Strada, consulenza UACV 2009).

- L'impianto per il riscaldamento dell'acqua non era a norma per l'assenza nel vano ove era locata la caldaia (bagno), di alcun sistema di ventilazione esterna (cfr Consulenza Strada-Mastrantonio)

- Nessuna perizia tecnica fu mai disposta sullo stato e sul funzionamento della caldaia a gas presente nel bagno per il riscaldamento dell'acqua nell'immediatezza degli avvenimenti ovvero prima che la stessa fosse spostata.

- La giacca di Luca Orioli era appesa ad una sedia in cucina

- Non è chiaro chi posizionò i jeans di Luca sul bacino per occultare i genitali, né ci è dato sapere dove fossero locati i Jeans prima di essere posti sui genitali dell'Orioli.

- Dalla documentazione iconografica parrebbe che almeno la scarpa destra ed uno o due calzini dell'Orioli fossero nel bagno.

- Non ci è dato sapere dove fossero i vestiti di Marirosa indossati all'arrivo a casa.

- Il pigiama celeste a tuta, uno slip bianco, un paia di collant, la maglietta intima di Marirosa, le ciabatte, l'orologio, il reggiseno ed un bracciale erano variamente disposti in sostanziale ordine, nell'interno del bagno.

- Al pari del bagno oltre alla scarpa destra e a un calzino era presente la camicia e la maglietta intima dell'Orioli.

Sulla base di questi dati circostanziali e alla “luce dei seguenti paletti di riferimento medico legale: “il fungo mucoso per la salme rinvenute può essere considerato un segno fortemente indicativo per un annegamento […] Nella intossicazione da monossido di carbonio il fungo schiumoso è di raro riscontro e ove presente è connesso con l'edema polmonare dovuto, in parte, anche all'azione tossica del CO sugli alveoli polmonari; nell'intossicazione mortale da CO, il lasso di tempo intercorrente fra l'esposizione al gas e la perdita di conoscenza dipende dalla concentrazione di CO nell'aria inalata […] Dalla perizia Fedele-Mastrantonio si evince che in presenza di una caldaia a gas contraddistinta da un malfunzionamento ipotizzato lieve, sarebbero stati sufficienti 50 minuti di esposizione continuativa per indurre una sintomatologia significativa nei due giovani in assenza di particolare attività fisica. La concentrazione ambientale di CO, direttamente proporzionale ai di tempi di funzionamento de all'entità del malfunzionamento della caldaia, il tempo di esposizione e l'attività fisica espletata, rappresentano le tre principali variabili dipendenti interconnesse ne determinismo degli eventi […]. Tutto ciò supponendo comunque che la porta del bagno era chiusa o socchiusa.

Da queste premesse, Introna ha scritto che: "Luca e Marirosa si recano insieme in casa Andreatta e decidono di fare la doccia insieme. La casa è già calda, ma Marirosa non spegne il riscaldamento verosimilmente per creare una condizione confortevole anche dopo il bagno. Luca inizia a spogliarsi in cucina e sposta il caldobagno nel bagno dove lo accende a mezza potenza in posizione manual. Verosimilmente viene aperto il rubinetto dell'acqua calda e chiusa la porta sì da favorire nell'interno del bagno un piacevole ambiente caldo-umido. Marirosa verosimilmente si spoglia in camera sua ed entra nel bagno con il pigiama a mò di tuta. Entrambi i ragazzi chiudono o socchiudono la porta e iniziano a spogliarsi mentre la vasca si sta riempendo. Marirosa entra nella vasca con acqua calda e mentre sta in piedi, apre il doccino ed inizia a docciarsi. La caldaia continua ad essere in attività. Luca non entra nella vasca e dopo essersi spogliato aiuta Marirosa. Non è dato sapere né quanto tempo i due ragazzi trascorrono nel bagno con la caldaia in attività, né cosa fanno nel frattempo certo è che abbondanti schizzi d'acqua finiscono sul pavimento del bagno. La vasca continua a riempirsi. Non ci è dato sapere quando la caldaia smette di funzionare per la chiusura del rubinetto dell'acqua calda. Del tutto attendibilmente ad un certo punto Marirosa inizia a sentirsi male, verosimilmente con la doccia ancora in funzione, perde conoscenza e cade nella vasca, verosimilmente offrendo le spalle al muro su cui è locata la caldaia. In fase di caduta impatta il capo contro la manopola del rubinetto procurandosi la ferita lacera a livello occipitale. Luca cerca di aiutarla, chiude il rubinetto dell'acqua, cerca di estrarla dalla vasca tirandola per la gamba destra, altra acqua cade sul pavimento ma Luca è astenico, fiacco a causa del CO inalato e si accascia al suolo ove, in coma continua ad inalare CO fino alla morte, mentre Marirosa muore annegata nella vasca da bagno. La porta, verosimilmente socchiusa consente quindi di disperdere la concentrazione ambientale di CO negli ambienti circostanti".

LA RICERCA DEL GAS KILLER. Le salme di Luca e Marirosa presentavano strutture muscolari ancora riconoscibili sebbene mummificate. (Deciso viraggio peggiorativo con evoluzione verso la prescheletrizzazione e mummificazione dei tessuti molli residui). Per questo motivo il sistema di indagine scelto da Introna è stato quello di cercare il CO legato alla mioglobina mediante metodi di microdiffusione e fissazione. La tecnica è diversa da quella scelta da Umani Ronchi e De Zorzi nel 1996 quando fu eseguita la prima autopsia. Anche gli esiti sono diversi. Si legge nella perizia: “Alla luce della negatività delle indagini condotte dal prof Umani Ronchi e dei campioni biologici disponibili si è effettuata un'indagine mediante ricerca elettiva del CO inglobato nei tessuti muscolari profondi mediante reazione chimica con cloruro di palladio in soluzione acida. L'indagine così condotta, su ileopsoas e sul muscolo femorale, ha costantemente evidenziato nella salma di Luca Orioli la presenza di di CO in misura media di 0,702 per cento grammi di tessuto muscolare testato”. Valori più modesti sono stati ritrovati nel corpo di Marirosa: 0.06 g%. Quanto basta per “supporre concretamente che anche Andreotta Marirosa inalò monossido di carbonio prima di morire”.

Toghe lucane: Il racconto di un boss a de Magistris e il giallo sulla morte dei «fidanzatini». Da “Il Corriere della Sera”: «Policoro, il pm incontrò l' indagato».

L'inchiesta Toghe lucane, quella che non si è riusciti a togliere al pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, è come una palla di gomma. Più si cerca di spingerla sott' acqua, più l'acqua la respinge verso l'alto con la stessa forza. L' ultima clamorosa rivelazione, che riporta in primo piano il caso di Luca Orioli e Marirosa Andreotta (i «fidanzatini di Policoro» uccisi il 23 marzo 1988), è il racconto di Salvatore Scarcia, tra i più noti capiclan della mafia del Metapontino. Scarcia è stato interrogato da De Magistris nel carcere di Melfi, in cui sta scontando una condanna per associazione mafiosa. Ma non è un «pentito», quindi ciò che ha detto - e che secondo il pm ha trovato già parecchi riscontri - non gli procurerà alcuno sconto di pena. Scarcia, in rapporti molto confidenziali con il patron di Marinagri, Vincenzo Vitale (indagato a Catanzaro come tutti gli altri protagonisti del racconto di Scarcia), ha detto tante cose inquietanti. Tra queste, ha parlato dettagliatamente, descrivendo persino tipo e colore delle auto, e fotografando tutto e tutti, di un «summit» tenuto nell'estate del 2000 nell'azienda di piscicoltura Ittica Valdagri, nella foce del fiume Agri, dove poi sarebbe sorto il villaggio vacanze Marinagri, assegnatario di un contributo di 26 milioni di euro di fondi europei. Racconta Scarcia: «Era una domenica mattina. Avevo saputo che ci sarebbe stata una riunione importante. E intorno alle 10 circa mi appostai nei pressi dell'Ittica Valdagri... Vidi arrivare una Fiat Croma bianca con quattro persone a bordo: l'autista, il pm di Potenza, Felicia Genovese, suo marito Michele Cannizzaro e il colonnello dei carabinieri Pietro Gentili. Poi, con una Mercedes scura, arrivarono il pm di Matera, Vincenzo Autera, e il dottor Giuseppe Galante (capo della procura di Potenza) e una terza persona che non ho riconosciuto. Da un'altra Mercedes, di colore chiaro, scesero l'imprenditore Gino Lavieri e Walter Mazziotta, banchiere (in realtà, bancario) di Policoro. Infine, arrivarono altre due auto, una Golf bianca e una Thema Ferrari amaranto, ciascuna con due persone a bordo. Tutti entrarono nell'ufficio di Vitale». A questo punto, Scarcia esce allo scoperto e bussa alla porta dell'ufficio. Va ad aprirgli Vitale. «Gli chiesi di farmi entrare - racconta - e lui diventò pallido. Gli dissi che già sapevo chi c'era dentro, lo forzai ed entrai. Così mi feci vedere da tutti. Intuii che stavano progettando qualcosa di grosso a livello economico. Autera è socio di Marinagri attraverso un prestanome ed era tra quelli che aveva partecipato ai festini a luci rosse che si facevano da quelle parti. Lui, Galante e Genovese cercarono di calmarmi e mi dissero che mi avrebbero aiutato economicamente, se io in zona non mettevo bombe e non facevo attentati. Poi con discorsi un po' strani mi dissero se potevo far qualcosa a Mario Altieri (ex sindaco di Scanzano Jonico), perché dove ci trovavamo doveva venire un "paradiso terrestre", così mi dissero, e invece per colpa di Mario Altieri il tutto era stato bloccato». Scarcia a questo punto non ci sta, arretra, teme di poter essere prima usato e poi incastrato. E così viene anche minacciato. «Guarda che ti facciamo arrestare quando vogliamo, mi dicono». Scarcia abbozza e se ne va. Ma lì, quella domenica mattina, aveva visto, seduti intorno allo stesso tavolo, Vincenzo Autera, il pm che senza aver nemmeno disposto l'autopsia dei cadaveri dei fidanzatini chiese l'archiviazione del caso, e Walter Mazziotta, che nel 1994 finisce indagato proprio per l'omicidio di Luca e Marirosa. Negli anni successivi, Autera, imputato di aver affermato il falso sulla morte dei fidanzatini, verrà prosciolto a Salerno. Mentre il vicepretore Ferdinando Izzo, delegato di Autera, e accusato come lui, verrà assolto a Matera: grazie alla bravura di Nicola Buccico, ex sindaco di Matera ed ex membro laico del Csm, che dopo essere stato il legale della famiglia di Luca Orioli diventa il difensore del vicepretore Izzo. L' inchiesta «Toghe lucane», condotta dal pm Luigi de Magistris, ipotizza un «comitato d'affari» composto da magistrati, politici e imprenditori Le accuse L'ipotesi è il condizionamento di investimenti e nomine pubbliche. Coinvolti anche cinque magistrati.

Estratto da tgcom24.mediaset.it il 13 luglio 2023.  

Per la morte di Emanuele Scieri, la corte d'assise ha condannato gli ex caporali della Folgore Alessandro Panella e Luigi Zabara con l'accusa di omicidio volontario in concorso. Scieri, allora parà di leva, fu trovato morto nella caserma Gamerra di Pisa il 16 agosto 1999. I due ex militari sono stati condannati anche al pagamento delle spese processuali e all'interdizione dai pubblici uffici, oltre che al risarcimento dei danni.

[…] Alessandro Panella è stato condannato a 26 anni, Luigi Zabara a 18 anni. Entrambi erano a processo perché, […] assieme a una terza persona, la sera del 16 agosto di 24 anni fa avrebbero obbligato Emanuele Scieri a salire sulla torre di asciugatura dei paracadute, dopo averlo picchiato e fatto spogliare. Il giovane sarebbe poi precipitato nel tentativo di fuggire.

[…]  "Mio fratello non ci sarà restituito ma adesso c'è una verità, quella che noi abbiamo sempre voluto, sia io che i miei genitori", ha detto Francesco Scieri, fratello di Emanuele. "Loro hanno lottato fino allo stremo per avere questa giornata così importante e finalmente una sentenza di condanna per i colpevoli […].  […] "Purtroppo per come sono andate le cose non avevo nessuna certezza di una sentenza di condanna e quindi sarebbe stata un'ulteriore sconfitta. Ma oggi è un tassello importante se ci saranno altri gradi di giudizio".

Francesco Scieri: «Tanta omertà dietro l’omicidio di Emanuele. La condanna dei caporali? Giusta, ma ci ha sorpreso». Storia di Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 14 luglio 2023.

Potrà mai perdonare i responsabili della morte di suo fratello, dottor Scieri?

«Il perdono può arrivare solo dopo un pentimento, un’ammissione di colpa, un atteggiamento di vicinanza, di empatia . I due ex caporali che sono state condannate in primo grado a 26 e 18 anni di carcere non mi hanno mai rivolto una parola. Hanno cercato soltanto di confondere il più possibile il giudizio della corte. Uno di loro ha addirittura tentato la fuga. Né io né mia madre, dopo 24 anni di sofferenze, possiamo perdonare». Francesco Scieri, 51 anni, siciliano, medico urologo all’ospedale di Vimercate, provincia di Monza, sta aspettando di andare in sala operatoria. Giovedì era a Pisa dove ha assistito alla sentenza della corte d’assise che, 24 anni dopo, fa giustizia (ma ci sarà un appello a Firenze e probabilmente un passaggio in Cassazione) sulla morte del fratello Emanuele che nell’agosto del 1999 aveva 26 anni, si era laureato in Giurisprudenza ed era al suo primo giorno di naja alla scuola di paracadutismo di Pisa. Fu trovato cadavere il 16 agosto sotto la torre dove venivano asciugati i paracadute. 

Quanto costa un apparecchio acustico di qualità nel 2023?

Si aspettava due condanne per omicidio volontario dopo tutti questi anni?

«E’ stata una sentenza giusta ma anche una sorpresa. La morte di Emanuele è stata coperta da una coltre di polvere, si è fatto di tutto per non fare emergere la verità e giustizia. Eravamo pronti ad affrontare un’altra batosta e invece…». Qual è stato il suo primo pensiero? «Telefonare a mia madre, che dopo un’operazione per un tumore al cervello, si sta riprendendo e non era presente in aula. Le ho detto “mamma, finalmente ce l’abbiamo fatta”».

E lei come ha risposto?

«Non riusciva a crederci. Ho dovuto ripeterglielo più volte. Poi si è commossa. Ricorda ancora che Emanuele poteva essere ancora vivo, nonostante tutto».

Perché?

«Perché quel 13 agosto del 1999 avrebbe potuto ottenere una licenza. L’avevano data a un primo gruppo di ragazzi appena arruolati per la leva obbligatoria, lui per un soffio era scivolata nel secondo gruppo che l’avrebbe ottenuta dopo Ferragosto. Il 31 agosto avrebbe compiuto gli anni, noi eravamo pronti ad organizzare un bel compleanno. Avevo parlato con lui un paio di ore prima che fosse ucciso».

Era preoccupato?

«No era tranquillo. Stava uscendo con alcuni commilitoni dalla caserma per mangiare una pizza. Era il suo primo giorno a Pisa. La naja l’aveva iniziata a Firenze il 20 luglio».

Perché aveva scelto la Brigata Folgore per il suo periodo di leva?

«Gli piaceva molto lo sport, era affascinato dal paracadutismo. Diceva che anche un avvocato (si era appena laureato in Giurisprudenza) si deve tenere in forma».

Quali sono stati i momenti più oscuri degli infiniti anni di indagini e processi?

«Le assoluzioni a Pisa del 2000 (erano altri imputati ndr), le archiviazioni e anche le assoluzioni del 2021 degli altri tre imputati che hanno scelto il rito abbreviato, ma l’11 ottobre ci sarà l’appello a Firenze».

C’è stata omertà?

«Sì, tanta. Dalla Brigata Folgore all’inizio abbiamo avuto una vicinanza formale. Ma poi nessuna apertura, nessuna collaborazione. Le cose sono cambiate dopo la commissione d’inchiesta parlamentare e l’impegno dell’allora ministra Pinotti che ha voluto conoscere anche mia mamma. Mio padre era già morto senza avere verità e giustizia».

Ha avuto solidarietà dai vertici militari?

«No, mai. Né io, né mia madre. Il generale Celentano, al comando della Folgore, è stato assolto. Però sapeva che cosa succedeva in caserma con il nonnismo».

Ha qualcosa da dire ai due ex caporali condannati per l’omicidio volontario di suo fratello?

«Mi sono sempre domandato chi siano veramente e perché hanno agito in quel modo. Prima o poi, quando l’iter giudiziario si sarà concluso definitivamente, glielo chiederò».

Emanuele Scieri fu ucciso, condannati per omicidio due ex caporali della Folgore: la sentenza dopo 24 anni. Redazione su L'Unità il 13 Luglio 2023 

Ventiquattro anni dopo spera di aver ottenuto giustizia. È il sentimento che prova Isabella Guarino, la mamma di Emanuele Scieri, il giovane siciliano di Siracusa trovato morto ai piedi di una torre della caserma Gamerra di Pisa il 16 agosto del 1999.

Lui, neo laureato in Giurisprudenza che aveva iniziato la pratica in uno studio legale, viene chiamato sotto le armi all’età di 26 anni e finito il Car (il centro addestramento reclute) a Firenze, viene trasferito alla caserma Gamerra: lì troverà la morte. Ad ucciderlo, come accertato 24 anni dopo, gli ex caporali della Folgore Alessandro Panella e Luigi Zabara.

La Corte d’Assise di Pisa li ha condannati rispettivamente a 26 e 18 anni di reclusione per omicidio volontario, oltre al pagamento delle spese processuali e all’interdizione dai pubblici uffici nonché al risarcimento dei danni. I pm Alessandro Crini e Sisto Restuccia avevano chiesto condanne a 24 e 21 anni.

Secondo quanto ricostruito dalla Procura i due imputati assieme al terzo commilitone Andrea Antico (processato nel novembre 2021 con rito abbreviato e assolto) la sera del 13 agosto 1999 fecero spogliare Scieri e, dopo averlo picchiato, avrebbero obbligato Emanuele a salire sulla torre di asciugatura dei paracaduti e poi avrebbero fatto pressione con gli scarponi sulle nocche delle sue dita. Per questo Scieri cadde mentre i caporali si diedero alla fuga, provocando la sua morte: il giovane militare di leva morì dopo qualche ora di agonia ed un soccorso immediato avrebbe potuto salvarlo. Il suo corpo verrà trovato soltanto tre giorni dopo.

Panella e Zabara si sono sempre dichiarati innocenti e, tramite i loro avocati, hanno annunciato ricorso contro la sentenza di condanna: la loro difesa, composta dai legali Andrea Cariello, Andrea Di Giuliomaria e Maria Teresa Schettini, ha sempre contestato la ricostruzione della Procura.

I pm hanno duramente accusato anche i vertici della caserma Gamerra, dove c’era un pesante clima di nonnismo, coperto dai militari di alto grado. Imputati per favoreggiamento erano infatti anche l’ex maggiore Salvatore Romondia e l’ex generale Enrico Celentano, entrambi assolti assieme ad Antico nel processo con rito abbreviato, sentenza già appellata dalla Procura di Pisa.

Oltre alla condanna inflitta ai due ex caporali per omicidio volontario aggravato da futili motivi, la Corte d’Assise di Pisa ha condannato anche il ministero della Difesa al risarcimento dei danni alle parti civili, fissato in 200mila euro di provvisionale per la madre di Emanuele e 150mila euro per il fratello Francesco Scieri. Il ministero della Difesa appariva nel processo anche come parte civile e dunque, oltre ai familiari della vittima, i due ex caporali dovranno risarcire lo stesso ministero con 80mila euro.

Proprio la madre di Emanuele si sfoga a Repubblica dopo l’attesa sentenza: “Dopo 23 anni non perdono chi non si è mai pentito di avere ucciso mio figlio. Mi illudevo di trovare pietà in chi ha ammazzato Emanuele. Non è stato così“. Isabella ricorda in particolare come da parte dei due ex caporali non c’è “mai stato il minimo rimorso nelle loro parole, mai un tentativo per avvicinarci e chiedere scusa. Uno di loro, Panella, ha anche tentato di fuggire all’estero. Non mi si può chiedere di perdonare. Abbiamo lottato per 23 anni senza sosta, nel frattempo mio marito è morto. E adesso arriva un primo spicchio di verità”.

Redazione - 13 Luglio 2023

Caso Scieri, per la procura militare non fu nonnismo. Il parà fu punito perché trovato al telefonino. L'Arno-Il Giornale il 5 dicembre 2019. Dopo vent’anni dalla morte, ancora senza colpevole, si torna a parlare di Emanuele Scieri, il militare di leva siracusano trovato senza vita il 16 agosto 1999, alla caserma Gamerra di Pisa, ai piedi di una torre per l’asciugamento dei paracaduti. Secondo la procura generale militare di Roma non si sarebbe trattato di un atto di nonnismo bensì di una “punizione” da parte dei caporali, che dopo averlo sorpreso al telefonino lo avrebbero “sanzionato”. La ricostruzione, come scrive La Nazione, è stata appresa dall’avvocato Andrea Di Giuliomaria, che difende Luigi Zabara, 40enne di Frosinone, raggiunto da un decreto di perquisizione che riporta il capo d’imputazione per cui la procura militare procede. Zabara, come ricordiamo, è indagato con Alessandro Panella, di Cerveteri, e Andrea Antico di Rimini, entrambi 40enni. Ma torniamo ai fatti, secondo la ricostruzione della procura militare. Scieri, con i suoi commilitoni, è appena arrivato a Pisa dal Car (Centro addestramento reclute) di Firenze. Dopo un giro in città è rientrato in caserma. I tre lo vedono al telefonino e decidono di punirlo, sottoponendolo ad una prova di forza fisica, chiamata “Esercizio 9“. In pratica ci si deve arrampicare su una scala con la sola forza delle braccia. Scieri si sottopone ma, per qualche ragione (mancata forza/allenamento o inesperienza) cade giù. I tre se ne vanno anziché soccorrerlo. Ed è proprio in questo dettaglio, il mancato soccorso, che c’è l’ipotesi di reato dell’omicidio, come sostenuto dalla procura di Pisa, che aveva ipotizzato anche la volontarietà. “Sul piano dell’ipotesi che Scieri sia stato trovato al cellulare – spiega l’avvocato Di Giuliomaria – non è mai emerso alcunché dagli atti che abbiamo potuto vedere. E ancora meno su questo Esercizio 9. Non trovo alcun elemento, quindi, a conforto delle due nuove circostanze indicate dalla procura militare. Tuttavia, per noi, che proceda la procura militare o quella ordinaria, è indifferente, come indifferente ai fatti resta la posizione del nostro assistito”.

Caso Scieri, per la procura militare non fu nonnismo. Il parà fu punito perché trovato al telefonino. L'Arno-Il Giornale il 5 dicembre 2019. Dopo vent’anni dalla morte, ancora senza colpevole, si torna a parlare di Emanuele Scieri, il militare di leva siracusano trovato senza vita il 16 agosto 1999, alla caserma Gamerra di Pisa, ai piedi di una torre per l’asciugamento dei paracaduti. Secondo la procura generale militare di Roma non si sarebbe trattato di un atto di nonnismo bensì di una “punizione” da parte dei caporali, che dopo averlo sorpreso al telefonino lo avrebbero “sanzionato”. La ricostruzione, come scrive La Nazione, è stata appresa dall’avvocato Andrea Di Giuliomaria, che difende Luigi Zabara, 40enne di Frosinone, raggiunto da un decreto di perquisizione che riporta il capo d’imputazione per cui la procura militare procede. Zabara, come ricordiamo, è indagato con Alessandro Panella, di Cerveteri, e Andrea Antico di Rimini, entrambi 40enni. Ma torniamo ai fatti, secondo la ricostruzione della procura militare. Scieri, con i suoi commilitoni, è appena arrivato a Pisa dal Car (Centro addestramento reclute) di Firenze. Dopo un giro in città è rientrato in caserma. I tre lo vedono al telefonino e decidono di punirlo, sottoponendolo ad una prova di forza fisica, chiamata “Esercizio 9“. In pratica ci si deve arrampicare su una scala con la sola forza delle braccia. Scieri si sottopone ma, per qualche ragione (mancata forza/allenamento o inesperienza) cade giù. I tre se ne vanno anziché soccorrerlo. Ed è proprio in questo dettaglio, il mancato soccorso, che c’è l’ipotesi di reato dell’omicidio, come sostenuto dalla procura di Pisa, che aveva ipotizzato anche la volontarietà. “Sul piano dell’ipotesi che Scieri sia stato trovato al cellulare – spiega l’avvocato Di Giuliomaria – non è mai emerso alcunché dagli atti che abbiamo potuto vedere. E ancora meno su questo Esercizio 9. Non trovo alcun elemento, quindi, a conforto delle due nuove circostanze indicate dalla procura militare. Tuttavia, per noi, che proceda la procura militare o quella ordinaria, è indifferente, come indifferente ai fatti resta la posizione del nostro assistito”.

Caso Scieri, chiuse indagini: 5 indagati per la morte del parà, 21 anni dopo. Sono ex commilitoni e l'ex generale della Folgore Enrico Celentano a cui vengono contestate false dichiarazioni al pm. Tutto è cominciato per una telefonata fatta dal parà siciliano nella sua prima notte in caserma a Pisa. La Repubblica il 15 giugno 2020. Fu nonnismo. Una punizione così violenta da uccidere Emanuele Scieri, 26 anni, parà della Folgore trovato morto il 13 agosto 1999 nella caserma Gamerra di Pisa. Gli indizi e le testimonianze raccolte dalla procura di Pisa portano in quella direzione. Così la polizia stamattina ha notificato cinque avvisi di conclusione delle indagini preliminari. Oltre ai nomi già emersi nell'inchiesta della procura pisana, cioè quelli di Andrea Antico, Luigi Zabara, Alessandro Panella accusati di omicidio volontario e dell'ex generale Enrico Celentano, accusato di false dichiarazioni al pm, ne compare anche uno nuovo. Si tratta di Salvatore Remondia, 73 anni, ex militare a cui viene contestato il favoreggiamento per una telefonata fatta a Panella, un'ora dopo il ritrovamento del cadavere di Scieri. Un colloquio, secondo gli inquirenti, che sarebbe servito a preconfezionare una tesi difensiva di fronte alle indagini avviate sulla morte del giovane siciliano. Scieri, secondo la ricostruzione, viene sorpreso a telefonare. Alcuni commilitoni se ne accorgono e decidono di punirlo: "prima gli viene ordinato di svestirsi parzialmente poi fu percosso" e quando il parà si riveste, per sfuggire alle violenze "tenta di salire sulla scala della torretta" arrampicandosi "dalla parte esterna". E lì viene inseguito da Panella "passato da dentro" che lo avrebbe "continuato a colpire: lo testimoniano le lesioni a mani e corpo di Scieri, che gli fanno perdere la presa e precipitare da 10 metri". Agli atti dell'inchiesta ci sono anche le spiegazioni delle lesioni riscontrate sulla salma di Scieri in base alla relazione consegnata recentemente alla procura dall'anatomopatologa Cristina Cattaneo, consulente incaricata dagli inquirenti di valutare le ferite riscontrate sulla salma riesumata l'anno scorso. "In particolare - ha detto il procuratore capo di Pisa  Alessandro Crini - una ferita al piede compatibile con un colpo ricevuto con un mezzo penetrante, un corpo contundente, che gli perfora l'arto e quelle alle mani che noi riteniamo compatibili con i pestoni subiti mentre Scieri tenta di arrampicarsi sulla torretta scalando a mani nude dall'esterno e secondo noi inferti da Panella". Inoltre, hanno aggiunto gli inquirenti, "lavorando a ritroso abbiamo rintracciato una telefonata partita dall'interno 209 che appartiene all'aiutante maggiore" Salvatore Romondia: si tratta dell'ex ufficiale della Folgore, quinto indagato al quale la procura contesta l'ipotesi di favoreggiamento. "La telefonata risulta dai tabulati - osserva Crini -, un'ora dopo il ritrovamento del cadavere il 16 agosto e compare tra decine di altre chiamate indirizzate a vari comandi. Quella, invece, della durata di 4 minuti, è destinata all'abitazione romana della famiglia Panella e assume, per noi, una rilevanza significativa". Al procuratore è stato chiesto quanto la catena di comando fosse a conoscenza dell'accaduto: "Abbiamo elementi che sul piano indiziario ci danno dimostrazione del fatto che il livello di conoscenza dell'episodio relativo alla morte di Scieri fu abbastanza immediato anche da parte della struttura di comando e comportò una serie di reazioni e di organizzazioni di cose che furono messe in atto" ha detto Crini. Sulla vicenda aveva già chiuso le indagini la procura militare che ha fissato l'udienza preliminare per il 17 luglio. Tre indagati in quel caso: gli ex caporali Andrea Antico, Luigi Zabara e Alessandro Panella che oggi hanno 41 anni e di cui la procura chiede il rinvio a giudizio. Gli stessi tre ex caporali sono accusati anche dalla procura ordinaria di Pisa di omicidio volontario: Alessandro Panella è stato arrestato nell'estate 2018 in esecuzione di una misura cautelare perché gli inquirenti temevano potesse scappare negli Usa dove da tempo viveva (aveva già acquistato un biglietto). Impulso alle nuove indagini è stato dato dalla commissione parlamentare di inchiesta che nel dicembre 2017 concluse i lavori trasmettendo gli atti alla procura. Gabriele Scieri era un giovane parà: era arrivato per la sua prima notte alla caserma Gamerra di Pisa quando venne sorpreso, stando alle carte delle due inchieste, da "caporali", cioè i militari "anziani" mentre telefonava al cellulare. Divenne così oggetto di una punizione violentissima messa in atto nella torretta di "asciugatura". Fu un episodio di nonnismo non il solo compiuto in quella caserma, ma di certo il più tragico.

Caso Scieri, chiuse le indagini: spunta un quinto indagato. “Fu nonnismo”. Le Iene News il 15 giugno 2020. Per la procura militare di Roma sono 5 gli indagati a vario titolo per la morte di Emanuele Scieri. Il parà fu ucciso nell’agosto del 1999 nella caserma Gamerra a Pisa. Sarebbe stato nonnismo, una punizione tanto crudele quanto in voga in quegli anni, a uccidere Emanuele Scieri. La procura militare di Roma ha concluso le indagini con questa ipotesi per la morte del giovane allievo paracadutista della Folgore avvenuta 20 anni fa. Il suo corpo senza vita è stato ritrovato nella caserma Gamerra a Pisa. La chiusura delle indagini è accompagnata da un colpo di scena: sono infatti 5 gli indagati a vario titolo per la morte del giovane parà. Tre ex caporali dell’allora 26enne sono indagati per violenza a inferiore mediante omicidio pluriaggravato in concorso. Si tratta di Andrea Antico, Alessandro Panella e Luigi Zabara che sarebbero i responsabili della morte di Scieri. A loro si aggiungono l'ex generale Enrico Celentano, accusato di false dichiarazioni al pm, e il nome di un ex militare a cui viene contestato il favoreggiamento per una telefonata fatta a Panella, un'ora dopo il ritrovamento del cadavere di Scieri. Secondo gli inquirenti, questa telefonata sarebbe servita a preconfezionare una tesi difensiva di fronte alle indagini avviate sulla morte del parà. Anche noi de Le Iene abbiamo provato a ricostruire le ultime ore di Emanuele. È il 13 agosto 1999, una settimana prima Scieri ha prestato giuramento. Quel giorno va con i suoi commilitoni alla mensa per il pranzo. Poi raggiunge il magazzino del casermaggio, dove riceve lenzuola e coperte per la branda. Più tardi attorno alle 18 cena e subito dopo esce in libera uscita con alcuni parà. Visitano i luoghi principali del centro storico di Pisa. Attorno alle 20 fa due chiamate: la prima alla mamma e la seconda al fratello. Nulla fa presagire che quelle sarebbero state le ultime telefonate con Emanuele. Due ore più tardi rientra in caserma. Si attarda a fumare una sigaretta lungo il viale che costeggia il muro perimetrale della caserma, vicino alla torre di asciugatura dei paracadute. Secondo il racconto del parà che è con lui, finita la sigaretta, Emanuele non rientra in camerata. Rimane nel cortile dove si trovava la torre di prosciugamento e il magazzino del casermaggio, un posto poco illuminato, per effettuare in tranquillità una telefonata. Di Emanuele per oltre 72 ore non si avranno più notizie. Nessuno però si allarma. Sono le 14 di lunedì 16 agosto, Emanuele viene ritrovato morto. A scorgere il suo corpo senza vita sono quattro compagni. Hanno sentito il cattivo odore del cadavere in stato di decomposizione e hanno visto un piede destro che spuntava sul piano di un tavolo: “Il corpo era riverso in mezzo a tavoli in disuso e altri oggetti di magazzinaggio, accatastati alla rinfusa ai piedi della scala”, secondo la relazione della commissione parlamentare sul caso. “Il corpo era gonfio, insanguinato, con una gamba su un tavolino e il marsupio sulla pancia”. Che cos’è successo a Emanuele in quelle ore? La procura sembra avere le risposte alle tante domande rimaste in sospeso per oltre 20 anni. Il parà stava facendo una telefonata, quando sarebbe stato avvicinato dai tre ex caporali di reparto. Prima gli avrebbero contestato di aver violato le disposizioni che vietavano l’utilizzo di cellulare e l'avrebbero costretto a “effettuare subito numerose flessioni sulle braccia” scrivono dalla Procura “abusando della loro autorità”. “Lo colpivano con pugni sulla schiena e gli comprimevano le dita delle mani con gli anfibi, per poi costringerlo ad arrampicarsi sulla scala di sicurezza della vicina torre di prosciugamento dei paracadute, dalla parte esterna, con le scarpe slacciate e con la sola forza delle braccia”, si legge nell'avviso di conclusione indagini. Mentre Scieri stava risalendo, “veniva seguito dal Caporale Panella che, appena raggiunto, per fargli perdere la presa lo percuoteva dall'interno della scala e, mentre il commilitone cercava di poggiare il piede su uno degli anelli di salita, gli sferrava violentemente un colpo al dorso del piede sinistro”. A questo punto Emanuele ha perso la presa cadendo da un’altezza non inferiore a 5 metri. La caduta gli ha causato fratture, traumi alla testa e ad altre parti del corpo. “Constatato che il commilitone, sebbene gravemente ferito, era ancora in vita”, ricostruisce la procura militare, Panella, Antico e Zabara invece di soccorrerlo “lo abbandonavano sul posto agonizzante determinandone la morte”. Secondo la procura “il tempestivo intervento del personale di Sanità militare, da loro precluso, avrebbe invece potuto evitare”. Ha contribuito a questo risultato il lavoro della commissione parlamentare di inchiesta che nel dicembre 2017 ha trasmesso gli atti alla procura. La prima udienza preliminare è fissata per il 17 luglio. 

Scieri fu ucciso”: chiuse le indagini su tre ex caporali, 20 anni dopo la morte del parà. Le iene News il 15 maggio 2020. Dopo oltre 20 anni dalla morte di Emanuele Scieri la procura militare di Roma avrebbe ricostruito che cosa sarebbe accaduto al parà, trovato morto appena 26enne nella caserma Gamerra della Folgore a Pisa. Tre ex caporali dell’allora 26enne sono indagati di violenza a inferiore mediante omicidio pluriaggravato. Anche noi de Le Iene ci siamo occupati di questa vicenda. “Emanuele Scieri fu ucciso e se soccorso per tempo si poteva salvare”. La procura militare di Roma ha concluso le indagini con questa ipotesi per la morte del giovane allievo paracadutista della Folgore avvenuta 20 anni fa. Il suo corpo senza vita è stato ritrovato nella caserma Gamerra della Folgore a Pisa. Tre ex caporali dell’allora 26enne sono indagati per violenza a inferiore mediante omicidio pluriaggravato in concorso. Secondo la procura militare di Roma Andrea Antico, Alessandro Panella e Luigi Zabara sarebbero i responsabili della morte di Scieri. Sono accusati di aver "cagionato con crudeltà la morte dell'inferiore in grado allievo-paracadutista". Anche noi de Le Iene abbiamo provato a ricostruire le ultime ore di Emanuele. È il 13 agosto 1999, una settimana prima il parà ha prestato giuramento. Quel giorno va con i suoi commilitoni alla mensa per il pranzo. Poi raggiunge il magazzino del casermaggio, dove riceve lenzuola e coperte per la branda. Più tardi attorno alle 18 cena e subito dopo esce in libera uscita con alcuni parà. Visitano i luoghi principali del centro storico di Pisa. Attorno alle 20 fa due chiamate: la prima alla mamma e la seconda al fratello. Nulla fa presagire che quelle sarebbero state le ultime telefonate con Emanuele. Due ore più tardi rientra in caserma. Si attarda a fumare una sigaretta lungo il viale che costeggia il muro perimetrale della caserma, vicino alla torre di asciugatura dei paracadute. Secondo il racconto del parà che è con lui, finita la sigaretta, Emanuele non rientra in camerata. Rimane nel cortile dove si trovava la torre di prosciugamento e il magazzino del casermaggio, un posto poco illuminato, per effettuare in tranquillità una telefonata. Di Emanuele per oltre 72 ore non si avranno più notizie. Nessuno però si allarma. Sono le 14 di lunedì 16 agosto, Emanuele viene ritrovato morto. A scorgere il suo corpo senza vita sono quattro compagni. Hanno sentito il cattivo odore del cadavere in avanzato stato di decomposizione e hanno visto un piede destro che spuntava sul piano di un tavolo. “Il corpo era riverso in mezzo a tavoli in disuso e altri oggetti di magazzinaggio, accatastati alla rinfusa ai piedi della scala”, si legge nella relazione parlamentare. “Il corpo era gonfio, insanguinato, con una gamba su un tavolino e il marsupio sulla pancia”. Che cos’è successo a Emanuele in quelle ore? La procura sembra avere le risposte alle tante domande rimaste in sospeso per oltre 20 anni. Il parà stava facendo una telefonata, quando sarebbe stato avvicinato dai tre ex caporali di reparto. Prima gli avrebbero contestato di aver violato le disposizioni che vietavano l’utilizzo di cellulare e l'avrebbero costretto a “effettuare subito numerose flessioni sulle braccia” scrivono dalla Procura “abusando della loro autorità”. “Lo colpivano con pugni sulla schiena e gli comprimevano le dita delle mani con gli anfibi, per poi costringerlo ad arrampicarsi sulla scala di sicurezza della vicina torre di prosciugamento dei paracadute, dalla parte esterna, con le scarpe slacciate e con la sola forza delle braccia”, si legge nell'avviso di conclusione indagini. Mentre Scieri stava risalendo, “veniva seguito dal Caporale Panella che, appena raggiunto, per fargli perdere la presa, lo percuoteva dall'interno della scala e, mentre il commilitone cercava di poggiare il piede su uno degli anelli di salita, gli sferrava violentemente un colpo al dorso del piede sinistro”. A questo punto Emanuele ha perso la presa cadendo da un’altezza non inferiore a 5 metri. La caduta gli ha causato fratture, traumi alla testa e ad altre parti del corpo. “Constatato che il commilitone, sebbene gravemente ferito, era ancora in vita”, ricostruisce la procura militare, Panella, Antico e Zabara invece di soccorrerlo “lo abbandonavano sul posto agonizzante determinandone la morte”. Secondo la procura, “il tempestivo intervento del personale di Sanità militare, da loro precluso, avrebbe invece potuto evitare”.

Estratto da repubblica.it venerdì 22 settembre 2023.

E' stato ammesso alla giustizia riparativa Davide Fontana, il bancario condannato in primo grado a 30 anni per l'assassinio, lo smembramento e l'occultamento del cadavere di Carol Maltesi uccisa a Rescaldina, nel Milanese, l'11 gennaio 2022. 

La corte d'Assise di Busto Arsizio ha accolto - prima volta in Italia - la richiesta dell'uomo che però non è alternativa all'iter penale né incide sul piano civilistico. Il percorso di giustizia riparativa permetterà a Fontana di lavorare e seguire un percorso di aiuto psicologico per comprendere quanto fatto e ‘riparare’ appunto davanti alle parti offese e alla società. 

Una decisione, quella dei giudici, che avrebbe però visto l’opposizione della procura e delle parti civili, ovvero i genitori e l’ex marito (padre del loro bambino), di Carol Maltesi. 

"Il mio assistito e tutti i famigliari di Carol Maltesi non vogliono in alcun modo incontrare Davide Fontana": l'avvocata di parte civile Manuela Scalia, che assiste Fabio Maltesi, padre di Carol Maltesi, lo ha assicurato dopo che la Corte d'Assise del Tribunale di Busto Arsizio presieduta da Giuseppe Fazio ha sciolto la riserva accogliendo la richiesta del bancario di ammissione al programma di giustizia ripartiva. 

L'udienza si era tenuta lo scorso 15 settembre: nessuna delle parti civili era presente in aula. La Corte ha sciolto la riserva lo scorso 20 settembre. "Ho avvisato il mio assistito, che vive ad Amsterdam, della decisione della Corte - prosegue Scalia - Si è detto sconvolto e schifato da una giustizia che ammette un assassino reo confesso, che ha ucciso, fatto a pezzi ed eviscerato una ragazza, di accedere ad un percorso simile". 

"Di certo si crea un precedente": l'avvocato Stefano Paloschi, difensore di Davide Fontana, parla in questi termine del percorso di giustizia riparativa per il suo assistito

(...)

Cos’è la giustizia riparativa applicata per la prima volta in Italia per Davide Fontana, il killer di Carol Maltesi. Redazione su L'Unità il 22 Settembre 2023

Per la prima volta in Italia potrebbe venire applica in Italia la giustizia riparativa per un caso di omicidio. Ad essere ammesso, con la richiesta accolta dalla corte d’Assise di Busto Arsizio, è il bancario e foodblogger Davide Fontana, il 44enne condannato a 30 anni di reclusione per l’omicidio di Carol Maltesi, giovane mamma 26enne ammazzata e poi fatta a pezzi a Rescaldina, nel Milanese, l’11 gennaio 2022, con i resti dispersi e ritrovati mesi dopo tra le montagne di Borno (Brescia).

La giustizia riparativa non è però una alternativa all’iter penale né incide sul piano civilistico, non è uno sconto di pena nei confronti del condannato: si tratta di un percorso che permetterà a Fontana di lavorare e seguire un percorso di aiuto psicologico per comprendere quanto fatto e “riparare” appunto davanti alle parti offese e soprattutto alla società.

La scelta della corte d’Assise ha scatenato polemiche. Sia la Procura che le parti civili, ovvero i genitori e l’ex marito di Carol Maltesi, si erano opposte. “Il mio assistito e tutti i famigliari di Carol Maltesi non vogliono in alcun modo incontrare Davide Fontana”, ha spiegato l’avvocato di parte civile Manuela Scalia, che assiste Fabio Maltesi, padre di Carol. Il parere della vittima (o dei suoi familiari) però non è vincolante, il giudice lo acquisisce ma poi deve valutare due condizioni di legge per dare il suo via libera alla richiesta: “che lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa possa essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede”, e “che non comporti un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti”.

Come spiega il Corriere della Sera, al momento non è certo che Fontana possa effettivamente vedersi applicata la misura: per ora è stata autorizzata dai giudici di Busto Arsizio solamente la sottoposizione della sua richiesta a uno dei centri previsti dalla legge e finanziati in Lombardia dalla Regione. Il giudice, di fronte alla richiesta della persona interessata, anche se non condannata in via definitiva o ancora in attesa di processo, può solo decidere se questa può essere inviata a uno dei Centri previsti dalla legge: saranno poi i mediatori specializzati di queste strutture a valutare se il programma di “recupero” è fattibile e quale contenuto si debba provare.

L’istituto della giustizia riparativa è stato introdotto nel 2021 dalla riforma della giustizia firmata dall’ex Guardasigilli Marta Cartabia ed è entrato in vigore lo scorso 30 giugno, anche se in realtà forme di giustizia “riparative” sono già sperimentate in Italia da diversi anni.

La legge non pone preclusioni sul tipo o sulla gravità di reato commesso ma in generale, soprattutto per i piccoli reati, l’istituto più comune è quello della mediazione attraverso l’incontro diretto tra autore del reato e vittima (o suoi familiari). Non sarà il caso di Davide Fontana e i familiari di Carol Maltesi, che hanno già fatto sapere di non essere intenzionati ad incontrare il bancario condannato a 30 anni di reclusione.

La giustizia riparativa non si limita, come già accennato, ad una mediazione con le sole parte offese (come possono esseri i familiari di Carol Maltesi) ma anche con la “società”. In questo concetto rientrano per esempio, spiega il Corriere della Sera, anche le persone che conoscevano la vittima, associazioni rappresentative degli interessi colpiti dal reato, anche rappresentanti di enti pubblici e autorità o “chiunque vi abbia interesse”, spiega la legge introdotta dall’ex ministro della Giustizia Cartabia.

La finalità è infatti quella di far sì che il reo riconosca l’impatto che il male commesso ha avuto non solo sulla vittima ma sulla collettività, impegnandosi in visibili forme di riparazione a favore di quest’ultima. Redazione - 22 Settembre 2023

Omicidio di Carol Maltesi: penna conficcata in testa, Fontana aggredito in carcere. Il bancario condannato a 30 anni di reclusione per l’omicidio della donna, sarebbe stato picchiato da un detenuto italiano nella casa circondariale di Busto Arsizio. Il Dubbio l'1 agosto 2023

Davide Fontana, da quanto apprende LaPresse, il bancario condannato a 30 anni per l'omicidio di Carol Maltesi e aggredito in carcere, avrebbe subito le violenze da un detenuto italiano che gli ha conficcato una penna testa, riportando un'escoriazione.

L'aggressione da parte del compagno di cella sarebbe avvenuta "senza apparenti motivazioni", riporta una fonte interna al carcere di Busto Arsizio, e in una data antecedente alla sentenza di condanna di primo grado. In quel momento il 44enne si trovava in una sezione a regime ordinario dove ha anche effettuato, per qualche mese, mansioni lavorative e nella quale era stato trasferito dopo un'iniziale collocazione nella sezione del carcere a regime chiuso che ospita detenuti nuovi giunti, ex articoli 32 dell'ordinamento penitenziario (i detenuti che richiedono particolari cautele anche per la tutela dei compagni da possibili aggressioni/sopraffazioni o viceversa) e gli internati 'con incolumità' che chiedono di non convivere con altri detenuti per motivi di tutela personale. Pochi giorni dopo l'aggressione è arrivata la sentenza di condanna e l'ex bancario è stato trasferito nella sezione transito. Da lì infine al carcere di Pavia.

L’omicidio, il corpo fatto a pezzi e la sentenza choc: chi era Carol Maltesi. Carol Maltesi fu uccisa nel gennaio del 2022: i suoi poveri resti furono ritrovati due mesi e mezzo dopo il delitto. L’assassino Davide Fontana è stato condannato a 30 anni. Rosa Scognamiglio il 18 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’omicidio

 L’orrore sul cadavere

 Settanta giorni di orrore

 I resti nella scarpata

 Il ritrovamento del cadavere

 La condanna

Carol Maltesi era di origini italo-olandesi ma era cresciuta a Sesto Calende, in provincia di Varese. Aveva 26 anni ed era madre di un bimbo piccolo. Prima del lockdown per la pandemia di Covid 19 lavorava come commessa in una lussuosa boutique nella zona di Milano Malpensa. Successivamente, per arrotondare lo stipendio, aveva deciso di aprire un profilo su OnlyFans, una piattaforma online che promuove anche contenuti hard, adottando il nome d’arte Charlotte Angie. In quel contesto aveva conosciuto il suo assassino Davide Fontana: bancario, food blogger e aspirante pornoattore, con cui per un breve periodo aveva avuto anche una relazione sentimentale. Poi i due si erano lasciati decidendo comunque di mantenere buoni rapporti. Al punto che avevano continuato a frequentarsi da amici e collaborare alla produzione di filmini amatoriali. Il delitto della Rescaldina, così è stato ribattezzato dalla stampa l’omicidio, avvenuto tra il 10 e l'11 gennaio 2022 è stato uno dei più cruenti degli ultimi anni. Nel motivare la sentenza di condanna a 30 anni per Fontana, i giudici della Corte d'Assise di Busto Arsizio hanno usato parole choc: "Lei era giovane e disinibita, lui innamorato perdutamente". E ancora: "A spingere l’imputato non fu la gelosia ma la consapevolezza di aver perso la donna amata, accompagnata dal senso di crescente frustrazione per essere stato da lei usato e messo da parte". Considerazioni che hanno generato sgomento nell’opinione pubblica e indignazione tra i familiari della vittima.

Omicidio Carol Maltesi, la sentenza choc: "Era innamorato. Lei disinibita"

L’omicidio

Il delitto avvenne in un appartamento di via Barbara Melzi a Rescaldina, nel Legnanese, tra il 10 e l’11 gennaio del 2022. Fontana, vicino di casa della 26enne, in quel periodo lavorava in smartworking. La mattina del delitto aveva concordato con Maltesi di registrare due video da pubblicare sul noto portale di porno amatoriale. Nel contesto della registrazione, legò la 26enne a un palo da pole dance e, dopo averle infilato un sacchetto sulla testa, cominciò a colpirla con un martello. Quando si rese conto che la giovane era esanime, le recise la gola con un coltello da cucina.

"Anche fosse stata suora...". Parla il giudice della sentenza choc su Carol

L’orrore sul cadavere

Il giorno successivo al delitto, il killer decise di disfarsi del cadavere. Così, spostandosi con la Fiat 500 della vittima, si diresse in un negozio specializzato in utensileria e materiale edile per acquistare un’accetta e un seghetto di metallo. Rientrato a casa attese circa 24 ore prima di depezzare il cadavere, il tempo necessario per ricevere il braciere (che poi restituì intonso) e un congelatore a pozzetto acquistati online. Dopodiché si accanì sul corpo della 26enne, smembrandolo in 18 parti. I resti furono poi infilati in cinque sacchi neri. "Ci avrò messo un’ora e mezza", rivelò agli inquirenti riguardo alle tempistiche delle macabre operazioni.

Il sacchetto, le coltellate, il freezer online: "Così ho ammazzato Carol"

Settanta giorni di orrore

Nelle settimane successive, il killer meditò come far sparire il corpo senza vita della giovane. L’idea iniziale era quella di disfarsene con un braciere, tentativo che azzardò durante una vacanza a Vararo, frazione del comune di Cittiglio, nel Varesotto, dove aveva affittato un appartamento. Ma poi decise di desistere, tornando a casa con i sacchi contenenti i resti di Maltesi, che abbandonò in freezer. Per non destare sospetti, si appropriò del cellulare della vittima rispondendo ai messaggi di amici e familiari con nonchalance. Non solo: bypassò anche le offerte di lavoro che arrivarono sugli account social della 26enne, giustificando l’assenza di contenuti sulla piattaforma OnlyFans con ipotetici viaggi di lavoro. “Sono da mio figlio, poi starò via per lavoro”, rispondeva ai messaggi fingendosi la ragazza.

Bancario e food blogger, così il killer si spacciava per Carol: "Presa a martellate"

I resti nella scarpata

Per più di due mesi e mezzo, Fontana continuò a vivere come se nulla fosse: lavorava, pubblicava foto sui social e interagiva con i follower. Finché il 20 marzo 2022 realizzò che fosse giunta l’ora di disfarsi del cadavere. Così, si diresse a bordo della Fiat 500 di Carol Maltesi tra le montagne di Bergamo e Brescia. Giunto in località Paline, una frazione del comune di Borno, si fermò in una piazzola di sosta: tirò fuori i sacchi neri dal bagagliaio e li gettò giù da un dirupo. Poi tornò a Rescaldina, non senza essersi fermato prima a fumare una sigaretta sul ciglio della strada.

"Un gioco erotico". La confessione choc del killer di Carol

Il ritrovamento del cadavere

A sole 24 ore dalla conclusione del piano criminale, un residente della zona notò una "mano con delle unghie viola glitterate" sporgere da uno di quei sacchi finiti nel dirupo decidendo di allertare i carabinieri. L’identità del cadavere fu confermata grazie ai tatuaggi. Di lì a poco, la notizia del macabro ritrovamento finì su tutti i quotidiani locali e nazionali. I nastri estrapolati dalle telecamere di sorveglianza cittadina immortalarono Davide Fontana alla guida della Fiat 500 di Maltesi. Tanto bastò agli inquirenti per finire sulle tracce dell’assassino, marcato a uomo in attesa di un passo falso. Decisivo fu poi l’intervento del giornalista di BresciaNews Andrea Tortelli che, dopo aver recuperato il numero di cellulare della 26enne, inviò un messaggio chiedendo di sentire "la voce viva" della giovane. Tanto bastò all’assassino per realizzare di non avere più alcuna via di scampo. Il 29 marzo Fontana tentò di depistare per l’ultima volta gli inquirenti denunciando la scomparsa dell’amica, ma poi crollò: “Sono stato io a ucciderla”, confessò. L’arresto fu immediato.

Fece a pezzi Carol Maltesi, lo stratagemma per avere lo sconto di pena

La condanna

Rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio aggravato, distruzione e occultamento di cadavere, lo scorso 12 giugno Davide Fontana è stato condannato in primo grado a trent’anni di reclusione. I giudici della Corte d’Assise di Busto Arsizio non hanno riconosciuto all’imputato le aggravanti della premeditazione, della crudeltà e dei motivi futili e abietti contestate dalla procura. Secondo i magistrati del collegio giudicante il movente del delitto non fu la gelosia ma "la consapevolezza di aver perso la donna amata". E nello specifico, a parere della Corte, l'omicidio "era un modo per venire fuori da questa condizione di incertezza e sofferenza non più sopportabile, innescata dalla decisione della stimolante donna amata di allontanarsi da lui". Della giovane Carol Maltesi resta solo il ricordo di chi le ha voluto bene e una foto in cui stringe a sé il suo figlioletto, insieme con lo sguardo rivolto all'orizzonte.

Estratto da repubblica.it Il 14 luglio 2023.

“Il processo è stato fatto a mia figlia Carol, non a chi l’ha uccisa”: la madre di Carol Maltesi, Giuseppina, è sconvolta da quello che i suoi avvocati le hanno riferito, ovvero le motivazioni, appena depositate, della condanna a 30 anni e non all’ergastolo per Davide Fontana, il vicino di casa ed ex fidanzato della 26enne che lui ha ucciso e fatto a pezzi a Rescaldina alla fine di gennaio del 2022, nascondendone il corpo in alcuni sacchi neri gettati nei boschi e ritrovati dopo tre mesi. 

La corte d’assise di Milano ha scritto nelle motivazioni che Fontana, nel commettere l’omicidio, "si è reso conto che la giovane e disinibita Carol Maltesi si era in qualche misura servita di lui per meglio perseguire i propri interessi personali e professionali e che lo aveva usato e ciò ha scatenato l'azione omicida". […]

"Sono veramente distrutta per questa decisione”, ha detto la donna, assistita dall’avvocato Franco Ettore Zannini, a Bresciaoggi. “Non ci sono parole, è una sentenza vergognosa, davvero scandalosa: Carol era una ragazza normale, una mamma bravissima con suo figlio ed era molto presente anche con me. Io soffro di una grave malattia e lei si prendeva sempre cura di me, mi portava in ospedale per le terapie. Ora, dopo tutto ciò che è successo, dopo il suo omicidio, dopo questo processo, le mie condizioni si sono molto aggravate. Si è parlato tanto di Carol, ma qui il mostro è chi l’ha uccisa”. 

Quando a giugno c’era stata la sentenza, che non aveva accolto la richiesta di ergastolo fatta dalla procura, il padre della 26enne aveva commentato amaramente: “Solo 30 anni per un mostro”. Parole che adesso ritornano anche nel dolore dell’ex moglie (i due sono separati da tempo, Fabio Maltesi abita in Olanda) e nella riflessione di Annamaria Rago, l’avvocata che ha rappresentato nel processo l’ex compagno e il figlio – un bambino ancora piccolo – di Carol Maltesi: “Se Carol avesse continuato a svolgere l’attività di commessa, come svolgeva prima della pandemia, a mio avviso, a parità di circostanze, al Fontana sarebbe stato comminato l’ergastolo”. 

Perché la ragazza aveva aperto un profilo su OnlyFans e con lo stesso Fontana aveva realizzato diversi video hard: ma a gennaio 2022 aveva deciso di cambiare vita, di trasferirsi in Veneto per crescere suo figlio stando più vicino all’ex compagno. E forse anche per questo aveva comunicato a Fontana la fine del loro rapporto. 

Ma per i giudici "non vi fu premeditazione e nemmeno le aggravanti dei motivi futili o abietti e della crudeltà". Il movente di Fontana – queste le motivazioni – non fu la gelosia (la ragazza aveva anche altri rapporti che l'uomo accettava e insieme realizzavano video hard postati su OnlyFans) ma è da ricercarsi nel fatto che l'uomo "si rese conto che ormai, dopo averlo in qualche misura usato, Maltesi si stava allontanando da lui, scaricandolo" e andando a vivere altrove. […]

Sentenza Carol Maltesi, il giudice: «Stereotipi di genere? Se lei fosse stata una suora avrei usato le stesse parole. E 30 anni non sono pochi». Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2023  

Giuseppe Fazio è presidente della Corte d’Assise di Busto Arsizio. «Esclusa anche la crudeltà? Lo scempio fatto sul cadavere è stato raccapricciante, ma desumere da lì l'aggravante sarebbe un errore» 

«Stereotipi di genere? Vittimizzazione secondaria? Sono allibito, è il contrario di quello che abbiamo scritto nelle motivazioni. Ora capisco come si poteva sentire un pediatra ai tempi di Erode...».

Giuseppe Fazio, presidente della Corte d’Assise di Busto Arsizio, con la giudice a latere e i sei popolari (di cui tre donne) riscrivereste tutto?

«Sì, perché sono convinto di non aver mancato di rispetto a nessuno, e non sarebbe stato diverso se la ragazza avesse fatto la suora anziché l’attrice. Se non si capisce ciò che abbiamo scritto, è senz’altro un problema mio: ma anche chi legittimamente critica le motivazioni dovrebbe prima leggerle nella loro concatenazione su concetti giuridici che hanno significato diverso rispetto alla Treccani».

I «motivi futili o abietti»?

«Questa aggravante esiste se è espressione di un moto interiore del tutto ingiustificato e mero pretesto per sfogare un impulso criminale: e la giurisprudenza richiede sia il dato oggettivo, cioè la sproporzione tra reato e motivo, sia la componente soggettiva, che non può essere riferita ad un comportamento medio. Ecco, qui l’opinione anche del perito e dei consulenti psichiatri, che hanno studiato il funzionamento mentale dell’imputato, è stata che probabilmente a spingerlo ad uccidere non fu la gelosia adombrata dal pm, ma la consapevolezza di aver perso la donna amata, accompagnata dalla frustrazione per essere stato messo da parte da lei».

Dalla «giovane disinibita che «si era servita di lui»?

«Dal punto di vista dell’imputato (così abbiamo scritto), valutando soggettivamente la sua condotta (l’abbiamo sottolineato), è stato il motivo/movente dell’omicidio: ma se è così, non è “abietto o futile” in senso tecnico-giuridico, oltre a non poter essere ritenuto più turpe di ogni altro movente di un delitto così cruento».

Tredici martellate in testa, ma è stata esclusa anche l’aggravante della «crudeltà».

«Che non è quella certa quota di crudeltà insita in ogni delitto cruento, ma per la giurisprudenza deve essere l’infliggere un male aggiuntivo e gratuito rispetto alla “normalità causale” del delitto: e qui per noi non c’era, non si può fare l’errore di desumere l’aggravante della crudeltà dal successivo raccapricciante scempio fatto sul cadavere».

Perché le attenuanti generiche, che hanno pareggiato le aggravanti della minorata difesa e del legame affettivo?

«Perché l’imputato, consentendo di acquisire molti atti d’indagini, ha fatto oggettivamente risparmiare tempi ed energie al processo».

Sempre più spesso 30 anni vengono percepiti «pochi».

«Non è che ogni processo per un grave delitto debba finire con un ergastolo. Qui abbiano fissato la pena base nel massimo dell’omicidio semplice, 24 anni; e aggiunto il massimo della pena per lo scempio del cadavere, 7 anni più 3 di continuazione. Fanno 34 anni, ma il tetto massimo di legge è 30. Però faccia fare a me ora una domanda: con quale spirito tra pochi giorni la mia Corte d’Assise affronterà un altro processo per un fatto altrettanto cruento? Il giudice non è qui apposta per valutare le circostanze? Se no, ci dicano che possono fare a meno del giudice. E, al suo posto, metterci un juke-box».

Estratto da ilmessaggero.it il 13 luglio 2023.

Davide Fontana, il bancario di Rescaldina (Varese) che nel gennaio del 2022 ha ucciso la 26enne Carol Maltesi durante le riprese di un video hard casalingo e ne ha fatto a pezzi il corpo, è stato condannato a 30 anni di carcere. Oggi, a distanza di un mese dal verdetto della Corte d'Assise di Busto Arsizio, emergono le motivazioni della sentenza choc. 

«Lei giovane e disinibita, lui innamorato perdutamente»: per i giudici che lo hanno condannato a 30 anni anziché all’ergastolo come chiedevano pm e parti civili, Davide Fontana uccise l’attrice Carol Maltesi perché la 26enne «si stava allontanando da lui, scaricandolo» per trasferirsi dal figlioletto di 6 anni a Verona.

Riconosciuto dai periti sano di mente, secondo il Tribunale di Busto Arsizio l’insospettabile 44enne non ha agito con crudeltà né con premeditazione quando l’11 gennaio 2022, durante le riprese di un film hard nella sua casa di Rescaldina vicino Legnano, massacrò Carol colpendola a martellate e sgozzandola per poi sezionarne il cadavere, nasconderlo per settimane in un freezer ordinato su Amazon, tentare invano di bruciarne i poveri resti con un barbecue e infine gettandoli da un burrone nel Bresciano, dove furono casualmente visti da un passante a fine marzo.

Il movente dell’omicidio della 26enne è ricostruito nelle motivazioni della sentenza con cui, il 12 giugno scorso, il Tribunale di Busto Arsizio condannò Fontana a 30 anni di carcere. «L’uomo si rese conto che ormai, dopo averla in qualche misura usata, Maltesi si stava allontanando da lui, scaricandolo –  si legge nelle motivazioni della sentenza – L’idea di perdere i contatti stabili con colei che egli, per sua stessa ammissione e secondo l’amica testimone, amava perdutamente, da cui sostanzialmente dipendeva poiché gli aveva permesso di vincere la sostanziale solitudine in cui si consumava in precedenza e di vivere in modo finalmente diverso e gratificante, si è rivelata insopportabile». […]

A parere della Corte d’assise presieduta dal giudice Giuseppe Fazio, Fontana «si è reso conto che la giovane e disinibita Carol si era in qualche misura servita di lui per meglio perseguire i propri interessi personali e professionali e che lo avesse usato, e ciò ha scatenato l’azione omicida. A spingere l’imputato non fu la gelosia ma la consapevolezza di aver perso la donna amata, accompagnata dal senso di crescente frustrazione per essere stato da lei usato e messo da parte».  […]

«È una vergogna, mia nipote l'ergastolo lo ha avuto a vita, così come sua madre e il mio nipotino». Sono le parole della zia di Carol Maltesi, Anna, al termine del processo di Davide Fontana, condannato a 30 anni per aver ucciso la giovane con cui aveva avuto una relazione, oggi in Tribunale a Busto Arsizio (Varese). «Lascio tutto nelle mani di Dio, è una vergogna - ha ribadito tra le lacrime - ci aspettavamo l'ergastolo, anche se a mia sorella non interessava, perché tanto niente le riporterà Carol». «Non ho parole, solo 30 anni per un mostro maledetto!!!», reagì un mese fa sui social Fabio Maltesi, papà di Carol […] 

Omicidio Carol Maltesi, Davide Fontana condannato a 30 anni: l'accusa aveva chiesto l'ergastolo. Andrea Camurani su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023

I giudici, dopo una lunga camera di consiglio, non hanno riconosciuto tre delle aggravanti contestate: premeditazione, crudeltà e motivi abietti e futili. Risarcimenti alla famiglia molto ridimensionati

Per la morte di Carol Maltesi, la ragazza di 26 anni uccisa e fatta a pezzi nel gennaio dello scorso anno a Rescaldina la corte d’Assise di Busto Arsizio ha pronunciato la sentenza di condanna dopo una camera di consiglio durata diverse ore: 30 anni la pena per l’ex bancario di 44 anni Davide Fontana, per il quale invece la Procura aveva chiesto l’ergastolo con isolamento diurno per due anni; i risarcimenti chiesti dalle parti civili sono stati inoltre pesantemente ridimensionati. 

Una sentenza che cristallizza dal punto di vista penale uno dei fatti di cronaca nera più gravi degli ultimi anni. Davide Fontana si era invaghito della ragazza che però aveva deciso di cambiare vita e spostarsi dal Comune alle porte di Milano, dove viveva, verso il Veneto, dove assieme all’ex compagno risiede il figlio, minore. La ragazza era originaria di Sesto Calende, nel Varesotto, e dopo essere approdata nel mondo dell’hard su Onlyfans durante la pandemia ha incontrato quello che è diventato il suo assassino, l’uomo con cui per un breve periodo aveva anche intessuto una relazione sentimentale. 

Fontana, reo confesso dell’omicidio, nell’ultima udienza aveva chiesto perdono proprio ai famigliari della donna, e al figlio della vittima: nel corso dell’istruttoria dibattimentale venne effettuata anche una perizia sulla sua personalità che ha dato esito negativo: era cioè capace di intendere e di volere al momento dell’omicidio, avvenuto con un martello e una lama; il corpo della ragazza è stato poi fatto a pezzi e custodito per due mesi in un freezer acquistato in rete, poi abbandonato nei boschi delle montagne della Valcamonica dove venne rinvenuto da un residente. 

Decisivo, per risalire all’identità della ragazza fu il riconoscimento di alcuni tatuaggi resi pubblici dai carabinieri da parte del lettori di un quotidiano on line della provincia di Brescia, BsNews: il direttore, Andrea Tortelli, si mise in contatto col numero della ragazza chattando però inconsapevolmente col suo assassino, per avvertire successivamente i militari, che risolsero il caso. 

I difensori di Fontana nell’arringa avevano chiesto alla Corte di non considerare le aggravanti contestate dall’accusa: premeditazione, crudeltà e motivi abietti e futili. E così è stato. Riconosciute le attenuanti generiche. Al termine della camera di consiglio durata ben 7 ore il dispositivo letto dal presidente Giuseppe Fazio ha contenuto anche le condizioni risarcitorie di gran lunga inferiori rispetto a quelle richieste dalle parti civili in fase di discussione: 40mila euro per il padre di Carol Maltesi, 60mila per la madre e 180mila euro per il figlio (per il bambino le parti civili avevano chiesto danni per due milioni di euro, 800 mila per l’ex partner, 500mila per ciascuno dei genitori della vittima). 

Fuori dalla questione risarcitoria, i parenti della vittima hanno ritenuto troppo bassa la pena a 30 anni commentando a caldo fuori dall’aula di giustizia. Il difensore di parte civile, l’avvocato Manuela Scalia si è detta «delusa» anche se «aspettiamo le motivazioni per dire altro».

Carol Maltesi uccisa e fatta a pezzi, il killer Davide Fontana in aula: «Sembro freddo ma sto soffrendo. Chiedo scusa». Andrea Camurani su Il Corriere della Sera il 5 Giugno 2023

Il bancario reo confesso occultò il cadavere della giovane. «Chiedo scusa a tutte le persone a cui ho provocato dolore. Ai parenti di Carol, in particolare a suo figlio». La procura: ergastolo con isolamento diurno di due anni. 

«Posso anche sembrare freddo e distaccato, ma sto soffrendo. Soffro ogni giorno. Chiedo scusa a tutte le persone alle quali ho provocato dolore. Ai parenti di Carol. In particolare a suo figlio». Davide Fontana, il bancario di 43 anni reo confesso dell’omicidio e dell’occultamento di cadavere di Carol Maltesi, uccisa nel gennaio 2022, fatta a pezzi e abbandonata a marzo dello stesso anno ha parlato lunedì alla fine della lunga arringa difensiva dei suoi avvocati. 

L’uomo era comparso di fronte alla corte d’assise di Busto Arsizio 7 giorni fa fa per ascoltare le richieste del pubblico ministero Carlo Alberto Lafiandra che ha invocato per lui l’ergastolo con isolamento diurno di due anni, contestando diverse aggravanti (minorata difesa, crudeltà e premeditazione). Alla precedente udienza parlarono anche le parti civili che hanno chiesto risarcimenti complessivi per 3 milioni e 800 mila euro. 

Lunedì invece in aula è stato il momento dei difensori Stefano Paloschi e Giulia Ruggeri che per quattro ore hanno argomentato diffusamente la strategia difensiva che ha dovuto parare il colpo di una perizia che esclude incapacità di intendere e di volere per l’imputato che si recò spontaneamente in caserma, e che di fronte ai militari confessò nero su bianco l’omicidio della 26enne di cui si era invaghito, conosciuta nel mondo dell’hard. «Abbiamo chiesto l’esclusione di tutte le aggravanti contestate dall’accusa, fatta eccezione che per quella della minorata difesa», ha specificato l’avvocato Stefano Paloschi, «e la nostra richiesta rivolta alla corte è stata quella dell’applicazione del minimo della pena, richiedendo le attenuanti generiche per la buona condotta processuale dimostrata dal nostro assistito, anche alla luce della pronta confessione presentata all’Arma». 

Fontana si trova oggi in carcere a Busto Arsizio e comparirà di nuovo, forse per l’ultima volta dinanzi all’Assise il prossimo 12 giugno per eventuali repliche (già annunciate dal pubblico ministero) che precederanno la camera di consiglio, cui seguirà il verdetto con la lettura del dispositivo. La vittima era originaria di Sesto Calende, in provincia di Varese, e il corpo venne rinvenuto da un escursionista sulle alture della Valcamonica il 20 marzo 2022 racchiuso in alcuni sacchi dell’immondizia: i resti vennero riconosciuti grazie all’intuito di Andrea Tortelli, giornalista di una testata locale della provincia di Brescia che riuscì a risalire alle generalità della giovane grazie ad alcuni lettori che riconobbero i tatuaggi.

Rescaldina: le corde, il martello, quella trappola per uccidere Carol. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 6 maggio 2023.  

La ragazza lavorava nel mondo del porno e aveva avuto una relazione con l’assassino, bancario-foodblogger. Lei aveva deciso di andarsene, Fontana le ha commissionato un ultimo video da girare insieme: «Ho iniziato a colpirla per finta. Non mi sono più fermato»

Aveva 26 anni, amava viaggiare, era una mamma follemente innamorata del suo bambino di sei anni, con il quale postava foto sui social. Carol Maltesi, italo-olandese conosciuta nel mondo dell’hard con il nome di Charlotte Angie, è stata uccisa l’11 gennaio 2022, ma della sua morte si è saputo mesi dopo. Una storia tragica diventata ora un libro, Sulla tua pelle. Il caso Carol Maltesi (Giunti). Lo ha scritto Andrea Tortelli, giornalista direttore del quotidiano online BsNews , che ha contribuito alla risoluzione dell’omicidio: è lui che ha incastrato l’assassino, Davide Fontana, 42 anni, vicino di casa, socio ed ex compagno di Carol, reo confesso del delitto.

Il primo incontro

Per ricostruire il crimine, bisogna riavvolgere di qualche mese il nastro del tempo fino a risalire al primo incontro “virtuale” tra Charlotte Angie e Fontana, bancario di professione e food blogger per passione, che si presenta a lei come cliente nell’ottobre 2020. Sposato, si propone comunque sui social come autore di servizi fotografici osé. È questo il pretesto con cui “aggancia” Carol in rete: in realtà, come emergerà in seguito, i due concordano una prestazione sessuale, dopo la quale si frequentano per un po’. Fontana si invaghisce della giovane, Carol diventa la sua ossessione. Quando, chiusa una precedente convivenza, lei va a vivere a Rescaldina, nel Milanese, lui la segue. Lascia la moglie, con cui resta in buoni rapporti, e prende in affitto un appartamento sullo stesso ballatoio di Carol.

La convivenza

Per un po’ convivono, ma la relazione dura poco. Restano amici e soci, lui fa tutto per lei. Compreso incassare il dieci per cento sugli appuntamenti di Carol. Le prepara la valigia, la accompagna alle serate. Nell’autunno 2021, Carol è a Praga per alcune riprese. Conosce un attore piuttosto noto nel mondo del porno, Salvatore Gaido, 29 anni, in arte Alexander. È amore a prima vista. Tanto che dopo poche settimane Gaido formalizza la relazione con un anello. Carol sembra felice, programma di trasferirsi più vicino al figlio, che vive a Verona col papà e i nonni.

Il piano

Il bancario comincia a temere che lei possa sfuggire al suo controllo, prova a farle cambiare idea sui suoi progetti o almeno a posticipare tutto. Arriviamo all’11 gennaio 2022, l’ultimo giorno di Carol. Il dramma si consuma nell’appartamento di lei, dove insieme a Fontana sta girando un video hard estremo, commissionato e pagato, secondo quanto emergerà al processo, dallo stesso bancario. Il copione prevede che Charlotte Angie venga assalita da uno sconosciuto (Fontana) che, dopo averla incappucciata e legata al palo della lap dance della sua camera da letto, si fa consegnare con la violenza il Pin del suo cellullare. Fontana lega Carol, le mette un sacco nero in testa, le tappa la bocca col nastro adesivo.

Il delitto

«Ho iniziato a colpirla piano con un martello su tutto il corpo» confesserà. «Poi quando sono arrivato verso la testa ho iniziato a colpirla forte, non so bene perché». A processo aggiungerà altri dettagli: «A un certo punto ho smesso, le ho alzato il cappuccio e mi sono reso conto di quello che ho fatto: ho realizzato di averla uccisa. Lei non respirava più, mi è sembrato di vedere un movimento della gamba, non volevo che soffrisse. Sono sceso, ho preso un coltello giapponese e le ho tagliato la gola». Stando ai medici, prima di essere sgozzata Carol era ancora viva. E, forse, avrebbe potuto anche essere salvata. Dopo la mattanza Fontana rimane a guardare Carol per mezz’ora, poi rientra a casa.

La perizia

Il giorno dopo va al Bricoman di Rescaldina, acquista un seghetto che paga cash. Il 13 gennaio inizia a smembrare il cadavere di Carol. Lavora per «un’ora e mezzo o due», poi torna alle sue faccende e finisce il “lavoro” il giorno seguente. Pulisce a fondo l’appartamento e lava gli stracci in lavatrice. Ripone i poveri resti di Carol in un freezer a pozzetto ordinato su Amazon. Nei giorni successivi, li insacca dentro quattro sacchi neri. Poi prenota su Airbnb un appartamento nella zona del Lago Maggiore. Con la Fiat 500 di Carol fa prima un sopralluogo, poi torna con il corpo a pezzi, che tenta di bruciare con alcol e benzina su un barbecue. Non ci riesce. Torna a Rescaldina, riponendo i sacchi nuovamente nel freezer.

Gli auguri al padre

Sul cellulare di Carol continuano ad arrivare messaggi, ai quali Fontana risponde a nome della giovane. Al padre di lei fa gli auguri di buon compleanno, alla madre e a Salvatore racconta di trovarsi a Dubai e di non poterli richiamare, a colleghi e gestori di locali dice di volersi prendere una pausa dal mondo del porno. L’assassino per un po’ aggiorna con foto e filmati i profili social di Carol, paga regolarmente affitto e bollette. Ma sa che la recita non può durare a lungo, così prepara nuovi sopralluoghi. Conosce bene le montagne di Borno (Brescia), dove da ragazzo trascorreva le vacanze con la famiglia. A marzo toglie i resti dal congelatore. Con un coltello prova a tagliare la pelle di Carol in corrispondenza dei tatuaggi «per non renderla riconoscibile».

Il ritrovamento dei resti

Il 20 carica i sacchi sempre sulla stessa Fiat 500 e raggiunge Borno. Si ferma nella piazzola di Paline e getta i resti nelle buste giù da un dirupo. Sulla strada del ritorno fa una sosta per fumare una sigaretta. Poche ore dopo, durante una passeggiata, un residente della zona nota i sacchi. Li apre pensando a un abbandono abusivo di rifiuti. Spunta una mano con le unghie smaltate. L’uomo chiama i carabinieri, che il 21 marzo diffondono il comunicato del ritrovamento con un identikit testuale della vittima e un elenco di undici «tatuaggi o parte di tatuaggi» presenti sul corpo. Tre giorni dopo, tramite i giornali, i militari chiedono l’aiuto di tatuatori, estetiste e conoscenti per identificare i resti.

Le coincidenze

In seguito alla segnalazione di un amico, il 26 marzo il direttore di BsNews. it , Andrea Tortelli, rileva numerose coincidenze fra gli elementi noti del corpo a pezzi rinvenuto a Borno e Charlotte Angie. Risale all’identità di Carol Maltesi, le scrive e chatta con l’assassino, informando i carabinieri della sua inchiesta. Due giorni dopo, pressato dai media e da familiari e conoscenti di Carol, anche Fontana si presenta ai carabinieri: alla stazione di Rescaldina “denuncia” la scomparsa di Carol. Dopo molte domande, i militari gli dicono di raggiungere il comando di Brescia, cui fanno capo le indagini. La sua versione sulla sparizione di Carol fa acqua da tutte le parti: lacunosa, contradditoria, infarcita di bugie. Il 30 marzo la sua foto e quella di Carol sono sulle prime pagine di tutti i giornali. Il 24 novembre presso il Tribunale di Busto Arsizio (Varese) inizierà il processo a suo carico: avrebbe ucciso Carol perché non poteva accettare che lei se ne andasse lontano, abbandonandolo.

La perizia

Fontana è accusato di omicidio volontario, distruzione e occultamento di cadavere con le aggravanti di crudeltà e premeditazione. In aula esordisce chiedendo «scusa a tutti»: «Sono sempre stato una brava persona, educata, gentile e contro ogni forma di violenza. Non avevo mai fatto del male a nessuno e non avrei mai voluto fare del male a Carol». Parole di contrizione che non bastano ad ammetterlo al rito abbreviato, col conseguente sconto di un terzo della pena in caso di condanna. Sarà una perizia psichiatrica a stabilire «se fosse capace di intendere e volere al momento del fatto» e se sia «affetto da malattia mentale». I risultati saranno illustrati il 9 maggio, tra pochi giorni.

Il tragico caso di Carol Maltesi: così ha sconvolto Brescia. Per gentile concessione dell'autore e dell'editore, presentiamo un estratto di "Sulla tua pelle. Il caso di Carol Maltesi", donna ritrovata mutilata dopo esser stata uccisa in provincia di Brescia il 20 marzo 2022. Cosa ha portato al suo brutale omicidio? Andrea Tortelli il 23 Marzo 2023 su Il Giornale.

Ehi ciao, sì ho trovato diverse case a Verona: adesso sono in pausa, mi sto godendo mio figlio.

Messaggio WhatsApp da Carol Maltesi, 31 gennaio 2022

Per gentile concessione dell'autore e dell'editore, presentiamo un estratto del libro di Andrea Tortelli, "Sulla tua pelle. Il caso di Carol Maltesi", donna ritrovata mutilata dopo esser stata uccisa in provincia di Brescia il 20 marzo 2022, edito da Giunti. Cosa ha portato al suo brutale omicidio? Cosa insegna la sua storia sui rapporti tra media e cronaca giudiziaria?

«Ciao, ma sai che fine ha fatto? Io non la sento da un po’.» Da gennaio 2022 nessuno ha più notizie di Carol. Sono passati più di due mesi. Per qualche tempo i suoi account social continuano ad essere aggiornati con foto e filmati. Poi, improvvisamente, spariscono anche quelli. «Se n’è andata» dice Fontana, sconsolato, a chi gli chiede di lei. “Ha cambiato vita”, pensano in molti nel settore dell’hard, senza stupirsi che una giovane debuttante possa mutare idea dopo l’esperienza in un mondo così impegnativo e tornare a fare altro. E lei, a chi la contatta, sembra confermare. «Ciao, sì tutto bene e tu? Io sto facendo tutt’altro in questo periodo» risponde a marzo a un noto regista del mondo dell’hard con cui aveva lavorato e che le chiede garbatamente conto della sua assenza prolungata dalle scene. Ai familiari e agli amici, invece, racconta di essere sempre in giro per lavoro, ma raramente si dimentica di fare gli auguri ai suoi affetti. Però non risponde mai alle telefonate. E quando qualcuno le chiede via WhatsApp di fare una chiamata, scrive di trovarsi a Dubai, impossibilitata a comunicare in altra maniera.

Gli ultimi a sentire la sua voce al telefono sono Angela, Salvatore e Luca, nella mattinata dell’11 gennaio. Ma i mondi di Carol – le amiche del prima e del poi, gli ex, la famiglia – non sono comunicanti, nessuno è a conoscenza del fatto che nemmeno gli altri l’hanno più sentita.

Sabato sera, è il 26 marzo, Fontana chiama Angela (così mi racconta lei). Non è una cosa strana: si conoscono bene e si sentono, dato che insieme hanno frequentato Carol anche fuori dal set. Le fa notare che Carol ha cancellato tutte le foto da Instagram. Le dice anche di aver messo tutti i loro video in vendita sul proprio account OnlyFans, e quando lei lo invita ad avvisarla risponde con una frase che suona come: “Non mi interessa niente, ormai se n’è andata”.

Nel pomeriggio di domenica 27 marzo 2022, poi, su un giornale online di provincia, BsNews.it, esce una notizia “strana”, rilanciata in poche ore da altri quotidiani locali e dall’ANSA. Qualcuno degli amici si preoccupa. Si preoccupa anche Davide, che a quanto pare non aveva avuto un fine settimana facile.

Lunedì mattina, passate da poco le otto, Fontana scrive ad Angela con toni allarmati. Le chiede dov’è, le dice di andarlo a prendere alla stazione ferroviaria di Saronno per una cosa importante. «Ti prego, vieni» conclude. Lei era già pronta per la palestra, ma intuisce che è successo qualcosa legato a Carol. Chiama Salvatore, che la invita a tenerlo aggiornato in tempo reale, e passa a prendere Davide. In quel breve viaggio c’è anche il fidanzato praghese di Carol, che rimane collegato in vivavoce con i due.

In auto, Fontana mostra un articolo di giornale in cui si parla di una donna scomparsa e uccisa brutalmente, citando un elenco di tatuaggi. Trema. «Ma sei sicuro? Hanno ammazzato Carol?» esclama Salvatore dall’altro capo del telefono rivolgendosi a Davide. «Poi» continua Salvatore nel suo racconto «mi ha mandato il link con l’articolo, ho visto i tatuaggi e ho capito che era finita.» A quel punto cade la linea. «Andiamo a casa mia, cerchiamo di capire» così Davide dice ad Angela con tono affannato. Ma Salvatore richiama subito. «Ho intimato loro di avvisare i carabinieri e poi di presentarsi subito in caserma» riferisce «e nel frattempo ho avvisato un mio conoscente nell’Arma.» Angela gli dà man forte ed esclama: «Andiamo subito dai carabinieri di Rescaldina». Fontana ha poca scelta.

Sono circa le dieci di mattina. «La nostra amica è scomparsa, secondo noi…» iniziano a raccontare i due al militare che per primo li riceve. Angela e Davide, quindi, rimangono a lungo in sala d’aspetto e si vedono passare di fronte un numero sempre crescente di persone in divisa. Poi, improvvisamente, un carabiniere si para di fronte a Davide, seduto in attesa, alza il cellulare e gli fotografa il viso, senza aggiungere altro.

Poi lo interrogano. Dopo sentono lei. E finiscono entrambi a Brescia. Quella giornata campale si conclude intorno alle quattro del mattino. In maniera totalmente inaspettata per entrambi.

"Le ha rubato l'identità, non la voce". Così si è tradito il killer di Carol Maltesi. Andrea Tortelli è il giornalista che ha dato un grosso aiuto nell'indagine sull'attrice hard fatta a pezzi e messa in un frigorifero a Rescaldina (Brescia). Così ha capito che Davide Fontana le aveva rubato l'identità. Angela Leucci il 7 Aprile 2023 su Il Giornale.

Un giornalismo attivo, militante e rispettoso. È quello cui ha fatto appello Andrea Tortelli, redattore di BsNews.it che ha avuto un’intuizione fondamentale nel femminicidio di Carol Maltesi: il giornalista è infatti riuscito a confrontare i tatuaggi dell’attrice, presenti su Internet, con l’elenco diffuso dai carabinieri nei giorni successivi al ritrovamento del corpo smembrato e mutilato di una donna in provincia di Brescia. E nel tentativo di cercare Maltesi, nota anche con il nome d’arte di Charlotte Angie, ha chattato con il suo assassino.

Maltesi è stata uccisa presumibilmente l’11 gennaio 2022: a quella data risalgono le sue ultime telefonate che la donna avrebbe scambiato con alcuni conoscenti. Il suo corpo, che era stato fatto a pezzi e messo in un frigorifero, è stato ritrovato solo il 20 marzo successivo in provincia di Brescia. Viveva a Rescaldina ed era un’attrice hard molto seguita su OnlyFans. Per il suo omicidio ha confessato Davide Fontana, con cui aveva avuto una relazione e che di tanto in tanto aveva un ruolo nei suoi film. Fontana ha affermato di aver ucciso Maltesi proprio durante una scena. La storia di Charlotte Angie e di Carol Maltesi è in un libro, Sulla tua pelle, scritto appunto da Andrea Tortelli ed edito da Giunti e di cui il Giornale.it ha già pubblicato un estratto. “Un femminicidio atroce, maturato nel contesto della ‘affollata solitudine ai tempi dei social’”, dice Tortelli in un'intervista con il nostro giornale.

Tortelli, com’è arrivato alla notizia, poi pubblicata solo parzialmente per rispetto e per non intralciare la giustizia?

Sabato 26 marzo 2022 lavoravo dal telefono in cucina. Ero con mio figlio che mi ronzava intorno, mia moglie era al lavoro. Mi arrivò un messaggio da un lettore: diceva di aver ascoltato il programma di Cruciani (La Zanzara, ndr), e in una puntata era stata ospite un’attrice, Charlotte Angie appunto, che aveva descritto tatuaggi simili a quelli contenuti nell’elenco stilato dai carabinieri a seguito al ritrovamento di un corpo in quei giorni. Non pensavo, all’inizio, fosse una reale segnalazione, e poi ero lì col bimbo: dovevo decidere in fretta se dedicarmi a un fine settimana di relax casalingo in famiglia o lavorare”.

E ha deciso di lavorare.

A un primo riscontro ho trovato subito delle coincidenze, che poi sono aumentate. Ho chiamato colleghi che avevano avuto contatti con Carol Maltesi, arrivando a un identikit con peso, altezza ed età che in effetti corrispondevano. E i tatuaggi identici erano 8 su 11: mi sono procurato il numero dell’attrice per un’ultima verifica. C’era una possibilità su 10 milioni che due donne avessero tatuaggi identici, ma magari era la sua migliore amica. Il cellulare era spento, così ho mandato un messaggio WhatsApp. Messaggio a cui Maltesi, che in realtà era Fontana, ha risposto”.

Whatsapp però è un'app con cui si può chattare con un computer da cui è stato effettuato il login precedentemente, anche se lo smartphone è spento. Quindi ha avuto il dubbio che stava chattando con l'assassino.

Avevo un ragionevole dubbio, ma non una certezza. Se Carol Maltesi non mi avesse risposto, avrei capito che qualcun altro stava usando il telefono, verosimilmente l’assassino. Così ho sollecitato la risposta a una chiamata o un messaggio vocale per avere una prova, ma non è mai arrivato. Ho anche provato a chiamare, sia al cellulare che su WhatsApp: il primo era spento e sull’app non rispondeva. Quindi ho preparato un mini-dossier e mi sono rivolto ai carabinieri, pubblicando solo un articolo generico in cui parlavo della donna come ‘diva del web’: non volevo appunto essere io a dare la notizia ai familiari o intralciare la giustizia”.

Cosa l’ha colpita di più della storia del femminicidio di Carol Maltesi?

È una vicenda che si presta a diversi piani di lettura. In primis è un femminicidio atroce, che però ha un movente identico a tutti i femminicidi: c’era un uomo che temeva di perdere il controllo su una donna e l’ha uccisa. La storia è inoltre maturata in un contesto moderno, quella che chiamo nel libro ‘affollata solitudine ai tempi dei social’: Carol Maltesi aveva 30mila follower, amici, colleghi, parenti, ma ci sono voluti due mesi e mezzo per ritrovarla”.

Scrive infatti nel libro che i suoi mondi non comunicavano tra loro.

È così. I colleghi non conoscevano la famiglia e viceversa. E poi c’era il Covid, che ha aumentato le distanze tra le persone. I social fanno il resto: sentiamo ogni giorno le persone su queste piattaforme e non ci stupiamo più di tanto se non li vediamo per due mesi”.

E poi?

Un altro elemento importante è la grande recita messa in atto dall’assassino nel rispondere su WhatsApp. Poteva accadere solo in quest’epoca digitale. Lui ha rubato virtualmente la sua identità”.

Da dove viene il titolo del suo libro “Sulla tua pelle”?

Non era la mia idea iniziale, perché volevo puntare sulla voce, che è il punto che per me ha fatto la differenza. Ma la pelle ha a che fare con i tatuaggi, quelli dell’elenco diffuso dai carabinieri, quelli che si sono rivelati essere una sorta di biografia di Carol Maltesi, perché raccontavano la sua vita e hanno permesso di ridarle un nome. La sua storia è passata attraverso i suoi tatuaggi”.

In quello stesso periodo, altri corpi senza nome furono trovati, per lo più restituiti dai fiumi del centro Italia. Cosa ha provato nel leggere storie potenzialmente simili a quella di Carol Maltesi?

Anche se non erano di mia competenza geografica ho cercato di approfondirli. Li chiamo nel libro ‘i delitti del borsone’. Accade spesso nei femminicidi: i corpi vengono messi in una borsa e gettati in un fiume, che poi però li restituisce. Credo però che quegli omicidi, mi passi il termine, avessero un copione criminale più banale rispetto a questo che è più articolato”.

Il tragico caso di Carol Maltesi: così ha sconvolto Brescia

Quando Carol Maltesi è stata uccisa, c’è stata una polemica relativa al fatto che tutti i giornali abbiano menzionato la sua attività di attrice hard per il web. Perché invece questo era un dettaglio importante, senza ombra di pregiudizio o giudizio?

È un passaggio chiave, anche se magari qualcuno magari se n’è approfittato mediaticamente. Per capire, basta fare un confronto: quando è stata uccisa Laura Ziliani si è parlato di lei come ex vigilessa. Perché quindi non dire, senza giudizi, che Carol Maltesi fosse un’attrice hard, un mestiere che non è contrario alla legge italiana? Sembrerebbe quasi un retropensiero maschilista non parlarne. In più Charlotte Angie è stata riconosciuta per i tatuaggi: è stato determinante che lei fosse un personaggio noto, con un grande database di foto online”.

C’è qualcosa di quei giorni che farebbe in modo diverso, da giornalista?

Diciamo che in quei giorni ho fatto molto i conti con la mia coscienza e ho tenuto un pensiero fisso: Carol Maltesi era una giovane mamma. A uno potrebbe anche balenare l’idea di approfondire l’indagine, di presentarsi sotto casa di qualcuno per intervistarlo, ma ho deciso di far prevalere la morale. Non ho dato infatti io la notizia ai famigliari, ma i carabinieri. Ho sempre trattato la famiglia con discrezione e nel libro cerco di far emergere un concetto: sono tutti vittime”.

Quello del giornalista è un mestiere talvolta percepito in maniera negativa. In base a questa sua esperienza, può essere importante per la società?

Penso di sì, mi sono scelto questo mestiere con grande fatica e lo faccio ogni giorno. Mi hanno chiamato decine di colleghi da tutta Italia: quelli del web ne hanno parlato come la dimostrazione che anche il giornalismo online dà le notizie, altri mi hanno ringraziato. Ma io non ho fatto niente di eroico, è un eroe chi conduce inchieste sulla mafia o è inviato di guerra. Però sono contento se questo mestiere ha riguadagnato un po’ di dignità agli occhi dell’opinione pubblica. Un lettore mi ha scritto: ‘Grazie, perché hai dimostrato che i giornalisti non sono tutti sciacalli’. Spero che questo messaggio sia passato: ma io, come dice mia moglie, ho fatto solo il mio dovere”.

Carol Maltesi uccisa un anno fa, il giornalista che ha risolto il caso: «Ho rinunciato allo scoop. Suo padre mi ha chiamato per dirmi grazie». Matteo Castagnoli su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2023

Andrea Tortelli di «Brescia news» ha smascherato Davide Fontana, l'assassino dell'attrice hard, chattando con lui via WhatsApp. «Temevo fosse un serial killer»

Il giornalista Andrea Tortelli, autore di «Sulla tua pelle: il caso di Carol Maltesi».

Dal tavolo della cucina Andrea Tortelli sta caricando le prime notizie di cronaca su BsNews.it, giornale online di Brescia. O almeno ci prova, tra le scorribande del figlio di 2 anni. È sabato ventisei marzo di un anno fa. Alle 7.55 arriva una notifica: è un amico-lettore che ha recuperato un’intervista alla Zanzara dell’attrice hard Carol Maltesi, nota sul web come Charlotte Angie. Dice di aver notato una somiglianza tra la pornostar 26enne e una serie di tatuaggi riconosciuti dai carabinieri sui resti di un corpo trovato a pezzi una settimana prima dentro alcuni sacchi dell’immondizia a Paline di Borno, in Valcamonica. Senza identità, fino a quel momento. Domenica 20 marzo i militari, che avevano diffuso le descrizioni per dare un nome alla vittima, erano stati avvertiti da un passante. Le indagini non avevano ancora sciolto il caso. Un messaggio sì. 

Alla sera, infatti, Tortelli chatta con l’assassino della «diva del web», il bancario e foodblogger Davide Fontana che utilizzava il numero della vittima. L’uomo, reo confesso, era vicino di casa di Carol, a Rescaldina nel Milanese, e aveva avuto una relazione con la giovane. Poi finita. Un anno dopo, il giornalista risolutore dell’omicidio ha riordinato quei giorni «folli» in un libro. S’intitola «Sulla tua pelle». 

Tortelli, cos’è successo quel sabato? 

«Aggiornavo le notizie quando mi ha scritto un lettore. Visto il messaggio, ho subito pensato “che scocciatura” perché non sarebbe stato un fine settimana tranquillo. Ma dovevo approfondire». 

E poi? 

«Degli undici tatuaggi descritti dai carabinieri, otto coincidevano con quelli della “diva del web”. Quante possibilità c’erano che esistessero due donne identiche nell’arco di pochi chilometri?».

Allora recupera il numero e le scrive. 

«Esatto, ma il cellullare era spento. Così ho lasciato dei messaggi. Tutto taceva. Fino a quando, nel tardo pomeriggio di sabato, è arrivata una risposta. Poi lo scambio di qualche messaggio con cui chiedevo conferma dell’identità del mio interlocutore attraverso una chiamata o una nota vocale. Ma di nuovo il silenzio». 

La conferma che cercava. 

«Era chiaro non fosse Carol Maltesi a rispondere. Ma qualcun altro: Davide Fontana, l’assassino, appunto». 

Tecnicamente com’è stato possibile? 

«Le strade sono due: o aveva bloccato le chiamate lasciando attivo internet, oppure aveva aperto WhatsApp Web da un computer». 

Cosa le passava in testa mentre chattava con l’assassino? 

«In realtà ero preso da diverse faccende. In più ero da solo a casa a preparare la cena a mio figlio. Alla fine ha prevalso l’adrenalina di voler portare a casa la notizia». 

Quindi era lì con il suo bambino di 2 anni quando ha scritto il messaggio a quello che poi si è rivelato essere l’omicida di Carol. 

«Sapevo che anche la presunta vittima aveva un bambino piccolo. E quindi se c’era un killer in libertà, c’era anche un minore da tutelare». 

Ha risolto il caso, ma ha rinunciato allo scoop… 

«Più che rinuncia, direi uno “scoop a metà”. Se avessi pubblicato tutto quello che avevo, sarei stato il primo a dare la notizia. A tutti, nessuno escluso, tra cui i familiari della ragazza. E in più non volevo intralciare il corso della giustizia. Così ho scritto un articolo volutamente vago e mi sono rivolto ai carabinieri». 

Spieghi meglio. 

«Ho chiamato in caserma per parlare con chi stava conducendo le indagini. Cercavo un’ultima conferma: un tatuaggio che dagli incroci risultava sulla scapola invece che sulla spalla. Abbiamo fissato un incontro per il pomeriggio e intanto ho pubblicato il pezzo». 

Che aria si respirava a Brescia in quei giorni? 

«C’era il timore fosse un serial killer. D’altronde, il recupero di un cadavere fatto a pezzi e surgelato lasciava pensare ad un’attività strutturata e ben organizzata. Il piano di un folle».

Per esempio? 

«Ordinare un braciere su Amazon per bruciare il cadavere. Prenotare una casa in affitto per grigliare i resti e poi lasciare una recensione positiva alla struttura. E ancora, usare la carta di credito di lei, la sua macchina, fare perfino gli auguri ai familiari spacciandosi per la vittima».

Lei ha partecipato ai funerali? 

«A Sesto Calende, lunedì 6 giugno. Mi ha colpito l’omelia del sacerdote perché non era giudicante. Erano parole sentite». 

E i genitori? 

«Il padre mi ha cercato subito dopo l’inchiesta. Poi quando ha saputo del libro».

 Cosa le ha detto? 

«Voleva ringraziarmi per aver aiutato a trovare l’assassino, per aver tenuto vivo il ricordo della figlia». 

Ché è il motivo per cui ha scritto «Sulla tua pelle». 

«Sì, volevo ridare dignità ad una persona e alle tante storie come questa. Ed è servito anche a me per fare ordine: mi ero già creato falsi ricordi sulle date e sui dettagli, influenzato dall’emotività. Ho dovuto ricostruire i fatti con mail e tabulati».

 Avendo seguito la storia di Carol da vicino, cosa l’è rimasto? 

«La consapevolezza. Non aveva preconcetti rispetto al suo lavoro, non lo faceva per soldi facili. Sapeva non avrebbe fatto per sempre quel mestiere. Aveva una scadenza. Per questo dico che non era una sprovveduta». 

Ha più sentito o visto Fontana? 

«No».

Professionalmente parlando, le era capitato qualcosa del genere? 

«Ho fatto pochissima cronaca nera e giudiziaria durante la mia attività giornalistica. Sarò entrato un paio di volte in una caserma». 

Ma ne è bastata una perché il suo nome arrivasse anche all’estero. Come si spiega questa attenzione? 

«Avevo la percezione che sarebbe potuta essere una storia con una rilevanza internazionale. E ne parlavo proprio con la corrispondente del Telegraph che mi ha contattato. Mi sono chiesto perché tanto interesse dagli inglesi mentre nulla dai francesi». 

Risposta? 

«Come diceva lei, esiste una differenza d’approccio a questi episodi. In molti giornali inglesi ci sono caporedattori donne. Per quanto mi riguarda, c’erano tutti gli elementi. Infine, è piaciuta questa storia del giornalista che chatta con l’assassino».

Cosa le ha insegnato questa tragedia? 

«Emerge tutta la solitudine nell’epoca dei social. Anche se abbiamo migliaia di followers, siamo soli. Non ci stupiamo più se per molto tempo non ci facciamo vivi. È il caso di Carol, mancata per due mesi e mezzo e nessuno a denunciarne la scomparsa. Ma una cosa vorrei dirla…». 

Prego.

«Non sono un eroe. Ho fatto solo il mio dovere, come mi ricorda mia moglie».

Resta un capitolo aperto. 

«La perizia psichiatrica su Fontana. A maggio arriverà la risposta e a quel punto si dovrebbe andare a sentenza».